La contessina

Stampa questo copione

la_con_r.rtf

LA CONTESSINA

Carlo Goldoni

Comedia per Musica da rappresentarsi nel Teatro Grimani di S. Samuele dalla Compagnia de'

Comici il Carnovale dell'Anno .

Personaggi

Il Conte BACCELLONE PARABOLANO La CONTESSINA sua figlia.
PANCRAZIO mercante ricco.
LINDORO suo figlio.
GAZZETTA barcarolo del Conte.
Vari Servi che non parlano.

La Scena è in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di Pancrazio.

Pancrazio e Lindoro

PANCR.                Vieni fra le mie braccia, amato figlio.

Ma no, degno non sei

Della mia tenerezza. All'amor mio

Non corrispondi, no. Sei giorni sono

Che in Venezia sei giunto, ed oggi solo

A me veder ti lasci? Ah figlio amato,

Quanto piansi per te! Sei un ingrato.
LIND.                    Padre, amor fu cagione

Della mancanza mia.
PANCR.                                                  Ma se Cupido

Ha ferito il tuo cor, perché non dirlo?

Sai pur quanto ch'io t'amo;

Sai pur ch'io solo bramo

Di vederti contento.
LIND.                    Pur troppo a mio rossor me lo rammento.

PANCR.                Chi è la bella che adori?

LIND.                                                          Ella è la figlia

Del conte Baccellone.
PANCR.                                                  Oimè! conosco

Del villano rifatto

La superbia, la boria ed il mal tratto.

T'ama la contessina?
LIND.                                                      Anzi m'adora;

Però non mi conosce.
PANCR.                                                  Oh bella!

LIND.                                                                      Io dico

Ch'ella non mi conosce per Lindoro,

Di Pancrazio figliuolo: ella mi crede

Cavalier milanese

Ch'abbia il titolo illustre di marchese.
PANCR.                Come facesti ciò?

LIND.                                                 Ci ritrovammo

Nel burchiello di Padoa, a caso, insieme.

La contessa mi piacque, e in lei veggendo

Predominar un certo fasto altero,

Mi finsi, per piacerle, un cavaliero.

Il padre suo, cui diedi


Titoli in quantità superlativi,

Invitommi al suo alloggio; amor mi fece

Il partito accettar; la contessina

Mi dié segni d'amor, mi vuol suo sposo,

E l'acconsente il padre suo; ma entrambi

Credonmi cavaliero, ed a momenti

N'attendono le prove a lor promesse.

Padre, ricorro a voi; deh voi, che amate

L'unico vostro figlio,

Porgetemi il soccorso ed il consiglio.

PANCR.                Ecco pronto il consiglio, ecco il soccorso:

Io son mercante, è ver, ma ricco sono; Potriano alle tue nozze Molte figlie aspirar di sangue illustre. A Baccellone chiederò la figlia Per te, non dubitar.

LIND.                                                 Ma se la niega?

Deh! non mi discoprite innanzi tempo. Deh! salvatemi almen.

PANCR.                T'accheta. Io sono

Di te più vecchio e più sagace; anch'io,

Figlio, ne' giorni miei

Giovine e amante fui, come tu sei.

De' giorni felici Ricordomi ancor: Brillavami il cor, Bollivami il sangue; Or tutto mi langue, Più quello non son.

Mi resta per altro Purgato il consiglio. Rimettiti, o figlio, Vedrai la ragion. (parte)

SCENA SECONDA

Lindoro solo.

E poi critica il mondo

Il tragico poeta

Che innamorar fa due persone in scena.

Ciò si può dar pur troppo, ed io son quello

Che ne fe' l'esperienza in un burchiello.

Vidi appena il vago volto Della bella mia diletta, Che m'ha colto - la saetta


Del bendato Dio d'amor. Restai preso in quel momento Dall'ignoto occulto laccio, E già sento, - se più taccio, Lacerarmi in seno il cor. (parte)

SCENA TERZA

Cortile del Conte.

La Contessina, Gazzetta e Servi.

CONTES.              Elà, servi ignoranti,

Precedetemi entrambi, ed inchinati

Fate spalliera alla padrona vostra.

Dammi braccio, Gazzetta.
GAZZ.                                                            Ai so comandi,

Lustrissima, son pronto.
CONTES.              Eh dimmi, dimmi;

Vedesti tu quel cavalier lombardo,

Come fissò nelle mie luci il guardo?
GAZZ.                   Se l'ho visto! el pareva

Gatto maimon, che fa la cazza al sorze.
CONTES.              E quel giovin mercante,

Quanto gli occhi fissò nel mio sembiante!
GAZZ.                   El stava là, come una barca in secco.

CONTES.              Ma vi vuol altro! Un mercantuccio amante

Non è per me; non è per il mio grado

Un cavalier di nobiltà mezzana:

Io nacqui dama, e morirò sovrana.
GAZZ.                   Certo, se fusse un re, alla mia patrona

Mi el scettro ghe darave e la corona.
CONTES.              Quanto rider mi fanno

Certe donne plebee, che voglion farla

Da signore di rango!

Si vede ch'io non son nata nel fango.
GAZZ.                   Eh, se vede in effetto

Che l'è nata tra l'oro e tra el zibetto.
CONTES.              Guarda, se non m'inganno: ah sì, gli è desso;

È il marchesin mio caro.

Oh questo sì ch'è degno

Dell'amor mio. Vanta fra' suoi maggiori,

Ricchi d'immense entrate,

Seicento e più persone titolate.
GAZZ.                   Schienza! Co l'è cussì, la compatisso.

So el mio dover al par di chi se sia.

Dago liogo alla sorte, e vago via. (parte)


SCENA QUARTA

Contessina, poi Lindoro

CONTES.

Ehi Lesbin, ehi Taccone, ite alla porta:

Il marchese che giunge, ricevete.

Sapete il dover vostro, o nol sapete?

Ah per una mia pari,

Che tutto il galateo ritiene in mente,

È cosa da morir con questa gente.

LIND.

Contessina, m'inchino.

CONTES.

Addio, marchese.

LIND.

Permettete?

CONTES.

Anzi sì.

LIND.

Che bella mano!

CONTES.

Da tanti e tanti sospirata invano.

LIND.

Ed a me si concede

Favor sì segnalato?

CONTES.

A voi, che siete un cavalier ben nato.

LIND.

(Oh se mi conoscesse!) E se non fossi

Adunque cavalier?

CONTES.

De' miei sospiri

Degno voi non sareste; io vi odierei.

LIND.

Vi scordereste dell'amor...?

CONTES.

Che amore?

Non ho sì vile il core.

Piuttosto morirei,

Che far un sì gran torto agli avi miei.

Ma parliam d'altro. Voi nobile siete,

Non è così?

LIND.

Senz'altro. Il dissi già.

(Vuol durar poco la mia nobiltà).

Dormiste ben nella passata notte?

CONTES.

Ah!

LIND.

Sospirate?

CONTES.

Sì.

LIND.

Ma perché mai?

CONTES.

Sospirando e tacendo io dissi assai.

LIND.

Oimè!

CONTES.

Caro, che avete?

LIND.

Nulla.

CONTES.

Ma pure a sospirar vi ascolto.

LIND.

Quando vi dissi oimè, vi dissi molto.

CONTES.

Ah v'intendo, v'intendo.

LIND.

Ah sì, capisco,

Cara, del vostro cor la bella face.

Voi siete il mio tesor.

CONTES.

Voi la mia pace.


LIND.

Ma dove, contessina,

Andavate sì tosto, e sì soletta?

CONTES.

Dirò: prima mi aspetta

La marchesa Fracassi, indi m'attende

La principessa dell'Orgasmo. Io devo

Poi visitar la cavaliera Altura,

Indi dalla duchessa mia cugina

Andavo a terminar questa mattina.

LIND.

Se mi date licenza,

Vi servirò da queste gran signore.

CONTES.

Oh caro marchesin, mi fate onore.

LIND.

Ecco la man.

CONTES.

Scusate, è netto il guanto?

LIND.

Lo misi appunto adesso.

CONTES.

Da vero? Io vi confesso,

Che se toccassi un guanto poco netto,

Mi sentirei tutto sconvolto il petto.

LIND.

Che cosa delicata!

SCENA QUINTA

Il Conte e detti.

CON.

Oh! contessina,

Che fate qui?

CONTES.

M'inchino al conte padre.

Diverse dame a visitar stamane

Impegnata son io.

CON.

Ma come a piedi?

CONTES.

La gondola non v'è; disse Gazzetta

Ch'ella è a conciar.

CON.

Ebben, restate in casa.

Inarcheria Venezia

Stupefatta le sue liquide ciglia,

A piedi rimirando una mia figlia.

Che ne dite, marchese?

LIND.

Anch'io l'approvo.

Non è dover.

CON.

Io so come si vive,

E so che il basso mormorante volgo

In noi nobili e grandi

Fissando gli occhi suoi,

Impegnati ci rende a far da eroi.

LIND.

E veramente il conte Baccellone,

La di cui nobiltade in alto sale,

Un eroe può chiamarsi originale.

CON.

Vuò parlarvi, marchese. Contessina,

Ritiratevi tosto.


CONTES.

Io v'obbedisco.

LIND.

(Bella, moro per voi).

CONTES.

(Per voi languisco).

M'inchino al conte padre,

Son serva al marchesin.

(Che volto peregrin,

Che bella grazia!

Ha due pupille ladre,

Ha un labbro che innamora.

Ah! di mirarlo ancora

Io non son sazia). (parte)

SCENA SESTA

Il Conte e Lindoro

CON.

Chi nasce grande, ha la virtude infusa.

Or fra l'altre virtudi

Che adornano l'illustre mente mia,

Evvi l'astrologia. Conosco appieno

Il vostro cor. Io dalle vostre ciglia

Conosco che adorate la mia figlia.

LIND.

Ah! signor...

CON.

Marchesin, non arrossite.

La contessa mia figlia aspirar puote

Ad un principe, a un duca, e forse a un re.

Ma voi piacete a me,

Onde a voi la destino.

LIND.

Conte, grazie vi rendo, e a voi m'inchino.

CON.

Baciatemi la mano.

LIND.

Ecco, la bacio col maggior rispetto.

CON.

Per mio genero e figlio ora vi accetto.

Oh quanti invidieranno

In voi la bella sorte

D'aver una mia figlia per consorte!

SCENA SETTIMA

Gazzetta e detti.

GAZZ.

Lustrissimo.

CON.

Che vuoi?

GAZZ.

Gh'è 'l sior Pancrazio

Che inchinar se vorria.

CON.

Che vuol costui?


Quanto mal volontieri

Tratto con questi vili uomini abbietti!

Non san la civiltà: digli che aspetti.

LIND.

(Oh, se sapesse ch'è mio padre!)

CON.

Adunque

Attenderò del vostro illustre grado

Le già promesse prove.

LIND.

Io discendo da Marte.

CON.

Ed io da Giove.

LIND.

Deh piacciavi a Pancrazio

Non differir l'udienza.

Dalla contessa andrei.

CON.

Vi do licenza.

Venga l'uomo plebeo!

GAZZ.

(Oh che muso badial da cicisbeo!) (parte)

LIND.

Finalmente un mercante

Non è poi tanto vil.

CON.

Tutti son vili

A paragon di noi. Le genti basse

Sono invidiose, prosontuose, o ladre.

LIND.

(Bella risposta ottenirà mio padre). (parte)

SCENA OTTAVA

Il Conte, poi Pancrazio

CON.

Costui che mai vorrà? Avrà bisogno

Della mia protezione;

Protegge tutti il conte Baccellone.

PANCR.

M'inchino al signor conte.

CON.

Addio, mercante.

PANCR.

(Bel complimento!)

CON.

Dite, che volete?

Baciatemi la veste, ed esponete.

PANCR.

(Maledetta superbia!) Grazie, grazie,

Di un onor così grande io non son degno.

CON.

Io son chi sono, e pur d'ognun mi degno.

PANCR.

Effetto di bontà; dunque in buon grado

Accetterà un'offerta, o per dir meglio

Un'istanza ch'io porto...

CON.

Eh no, dovete

Una supplica dir.

PANCR.

Come comanda.

CON.

Offerte a me? Sarebbe un'insolenza.

PANCR.

(Adesso adesso io perdo la pazienza).

CON.

Su via parlate, via, che non ho tempo

Da perdere con voi.

PANCR.

Tosto mi sbrigo.


Voi avete una figlia.
CON.                                                     Che asinaccio!

Io ho una contessina illustre figlia,

Illustrissima figlia.
PANCR.                                             Ed anco altezza

Dirò, se comandate.
CON.                     Questo titolo invan voi non gettate.

PANCR.                Ed io pure ho un figliuolo.

CON.                                                              Un bottegaro,

Ignorante, plebeo, senza creanza.
PANCR.                (Mi vien voglia di dargli un piè in la panza).

CON.                     Via, che volete dir?

PANCR.                                               Dopo cotante

Sue gentili espressioni,

Inutil veggo andar più avanti.
CON.                                                                   Ed io

Voglio che terminiate.
PANCR.                Lo dirò adunque...

CON.                                                  Via.

PANCR.                                                    Dunque ascoltate.

La vostra contessina illustre figlia,

La illustrissima figlia io vi domando

Per far un imeneo

Fra essa e il mio figliol, vile e plebeo.
CON.                     Ah prosontuoso, ah temerario! A forza

Trattengo di lordar le scarpe mie

Nella schienaccia tua. Quest'è un affronto

Che soffrir non si può. Servi, canaglia,

Ove siete? venite. Io da un balcone

Vorrei farti cacciar.
PANCR.                                               Piano, di grazia,

Non tanta furia, signor conte mio:

Si sa ben chi voi siete, e chi son io.
CON.                     Tu sei un mercenario, io cavaliero.

PANCR.                Cavaliero di quei da dieci al soldo,

Fatto ricco facendo il manigoldo.
CON.                     Vecchio, ti compatisco, rimbambisci:

Non sai ciò che ti dici.
PANCR.                                                    Io so che alfine

Vi perderei del mio dando un figliuolo,

Sì ricco e sì ben fatto,

Ad una figlia d'un villan rifatto.
CON.                     Rider mi fai, povero babuino.

Non sai che la contessa,

Degna prole del mio nobile tralcio,

Fu richiesta in consorte

Da principi e da duchi?

Va, che il padre tu sei de' mamaluchi.

Mia figlia, ah ah!


Pretender, oh oh!

Tuo figlio, uh uh!

Va via, torlulù.

Villano, - baggiano,

Da rider mi fa.

Rammenta chi sono,

Rammenta chi sei.

Punirti dovrei,

Ma al sangue perdono

La tua inciviltà. (parte)

SCENA NONA

Pancrazio, poi la Contessin

PANCR.

Oh villan maledetto! Io voglio certo

Vendicarmi di te.

CONTES.

Elà, buon vecchio.

PANCR.

Che volete da me, cattiva giovine?

CONTES.

Siete voi quell'audace

Che mi chiese per moglie a vostro figlio?

PANCR.

Illustrissima sì.

CONTES.

Brutto asinone,

Una mia pari al figlio d'un mercante!

PANCR.

Merta ella veramente un uom regnante.

CONTES.

Lo merito sicuro.

PANCR.

E ben, la sorte

Farà giustizia al merto senza pari.

Sposerà il re di coppe, o di denari.

CONTES.

Petulante, a me scherni?

PANCR.

Oh, si figuri!

Anzi venero e adoro

Della sua nobiltà l'alto tesoro.

CONTES.

Voglio soddisfazion.

PANCR.

Che mai pretende?

CONTES.

Vuò che pubblicamente

Dite che vostro figlio

Delle mie nozze non sarebbe degno.

PANCR.

Illustrissima sì, farlo m'impegno.

CONTES.

A una dama qual io sono,

Tal ingiuria non si fa.

PANCR.

Illustrissima, perdono;

Ho fallato in verità.

CONTES.

Compatisco.

PANCR.

Non è poco.

CONTES.

Vi fo grazia.

PANCR.

Che bontà!


CONTES.

Io son dama, e tanto basta.

PANCR.

Dama voi?

CONTES.

V'è chi il contrasta?

PANCR.

V'è chi il dubita, o nol sa.

CONTES.

Chi il mio grado non conosce,

Guardi attento il volto mio:

Questo fasto, questo brio,

Qual io son pubblicherà.

PANCR.

Oimè mi, mi vien la tosse.

Oh che brio, che nobiltà! (partono)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada remota.

Pancrazio e Lindoro

PANCR.                Figlio, l'abbiamo fatta bella.

LIND.                                                                 Il dissi,

Che negata l'avria.
PANCR.                                             Negarla è il meno,

Ma i strapazzi, le ingiurie? Ah giuro al cielo,

Sofferirle non vuò.
LIND.                                                 Che s'ha da fare?

Che pensate di far?
PANCR.                                               Lascia per ora

D'amoreggiar colei; poscia col tempo

Penseremo la via di vendicarci.
LIND.                    Ah caro padre, eccomi a' vostri piedi.

PANCR.                T'intendo, gran tormento

Ti darebbe il lasciarla un sol momento.

Non è così?
LIND.                                       Pur troppo è ver; ma quello

Che mi tormenta più, si è la promessa

Fattagli che verranno

Da Milano le prove in quantità

Della mia simulata nobiltà.
PANCR.                Oh grande amor di padre! Oh bel ripiego

Mi suggerisce a tuo favor la mente!

Vanne, attendimi in casa; anch'io fra poco

Vi giungerò.
LIND.                                       Ditemi, a qual partito

D'appigliarvi pensate?
PANCR.                                                    Io nulla ancora

Ti voglio dir. Va via, curioso. Oh quanto,

Oh quanto riderai!

Senti... Non lo vuò dir. Va; lo saprai.
LIND.                    Di voi mi fido; attenderò impaziente,

Padre, del vostro amor sicure prove.

Al tuo favor mi raccomando, o Giove. (parte)

SCENA SECONDA


Pancrazio

La voglio far; benché in età avanzata,

Ho lo spirito pronto; e saprò bene

La finzion sostener. Sì, di Lindoro,

Che marchese si finse, anch'io il marchese

Padre mi fingerò. Cangerò vesti,

Cangerò la favella, e nell'aspetto

Trasformarmi saprò. Ah se mi riesce

Di ottenere l'intento,

Se deludo il superbo, io son contento.

Ma se scoperto poi... Eh farò in modo

Che scoprir non potrà... Però può darsi...

La voce... la pronuncia... e che sarà?

Non ho timor... facciasi... eppur io sento

Un certo non so che,

Che se non è timor, qualcosa egli è.

La faccio, o non la faccio?

Che mi consiglia il cor?

Sarei un asinaccio

Mostrando aver timor.

Sì, sì... così farò... Ma adagio, adagio un po';

Se poi... se mai... se il fato...

Non so; son imbrogliato,

Risolvere non so. Mi sento aver coraggio;

Desio di vendicarmi;

Ma poi sì poco saggio

Non son di cimentarmi;

Son io fra il sì ed il no. (parte)

SCENA TERZA

Cortile del Conte.

Contessina e Gazzetta

CONTES.              Presto, parla; che vuoi?

GAZZ.                                                         La lassa almanco

Che chiappa un po de fiao!
CONTES.                                                         Spicciati; offendo

L'alta mia nobiltà, se lungamente

Mi trattengo a parlar con bassa gente.
GAZZ.                   Se non la vuol parlar con zente bassa,

Sotto le scarpe metterò i ponteli,


O la vaga a parlar coi campanieli.

CONTES.

(Che temerario!)

GAZZ.

Se la se contenta,

Gh'ho un non so che da darghe.

CONTES.

E che?

GAZZ.

Ho paura

Che in collera la vaga.

Vorla, patrona mia, che ghe la daga?

CONTES.

(Mi fa rider costui). Ma ch'è mai questo

Che dar mi vuoi?

GAZZ.

Un sior tutto farina

Da portarghe el m'ha dà sta letterina.

CONTES.

Una lettera a me? Non la ricuso,

Se un principe l'ha scritta;

Ma se qualche plebeo l'avrà vergata,

Ad esso tu la renderai stracciata.

GAZZ.

Se scritta l'averà qualche plebeo,

La manderemo in Roma al Culiseo.

CONTES.

È il duca d'Albanuova. Oh, non ricuso

Dell'illustre soggetto il degno foglio;

L'accetto e mi contento.

SCENA QUARTA

Lindoro e detti.

LIND.

(Oh femmina bugiarda! Oh ciel, che sento?)

CONTES.

Veramente è compito. In miglior forma

Scrivere non si può. Conosce bene

Egli il merito mio.

Così finisce: «Illustre dama, addio».

LIND.

(Ho scoperto il suo cor).

GAZZ.

Sala l'usanza

Che corre per el mondo?

CONTES.

Io non la so.

GAZZ.

Se la permette, ghe la insegnerò.

A un omo che s'incomoda

A far el battifuogo o sia el mezzan,

Per usanza ghe va la bonaman.

CONTES.              Sì, Sì, ricompensarti

A suo tempo saprò; per or ti basti L'onor del mio benigno aggradimento. Via, baciami la mano; io mi contento.

GAZZ.                   Non ricuso el favor.

Donca la man ghe baso, ma de cuor.

CONTES.              Vanne, e se vedi il duca,

Digli che le sue grazie a me son care; Che poi risponderò; che la mia fede


Ad altri ho già impegnata,

Ma che per cicisbeo non lo ricuso,

Poiché già tal di mia famiglia è l'uso.

Codesto consiglio

La madre mi dà:

Lo sposo di qua,

L'amico di là. Ma poi, se pretende,

L'amico sen va,

Ma nulla s'offende

La bella onestà. Il viver del mondo

Sì facil non è.

Conoscer il fondo

Del core si de'. Talor dalla gente

Sparlando si va;

E pur innocente

La tale sarà. (parte)

SCENA QUINTA

Gazzetta e Lindoro

GAZZ.                   La parla ben, la parla ben da seno.

LIND.                    L'ira più non raffreno.

Tu, mezzano briccone, Tu le lettere porti alla contessa?

GAZZ.                   Cossa voleu saver, sior canapiolo,

Sior scartozzo de pevere muschià? Via, cavève de qua, se no ve zuro, Che ve batto la panza a mo tamburo.

LIND.                    Ah temerario, a me? (mette mano)

GAZZ.                                                  Se catteremo.

Vôi su la schena scavezzarte un remo. (parte)

SCENA SESTA

Lindoro solo.

Sempre non fuggirai. Ma l'ira mia Non è contro costui. L'empia, l'infida, Mi sta sul cor. Come del cicisbeo Si provvede così pria del marito? Soffra chi vuol; soffrirlo non vogl'io.


No, non la voglio più. Col padre unito (Di cui mi piacque l'invenzion bizzarra) Vendicarmi vogl'io de' torti miei. Oh sesso femminil, quant'empio sei!

Stolto chi crede

Di donna al core:

Non serba fede,

Non sente amore.

Ditelo, amanti,

Non è così?

Finge d'amare,

Ma cangia poi

Gli affetti suoi,

Come si cangia

La notte e il dì. (parte)

SCENA SETTIMA

Il Conte, poi Gazzetta

CON.

Camerieri, staffieri, cuochi, sguatteri,

Tutto in ordin sia posto;

S'attende in questo giorno da Milano

Il celebre marchese Cavromano.

Or sì ch'io son contento

Di dar la contessina al marchesino,

Ora che vien dal proprio suo paese

A dimandarla il genitor marchese.

GAZZ.

Lustrissimo patron, allegramente.

CON.

Che c'è di nuovo?

GAZZ.

Forestieri.

CON.

È forse

Del marchese Lindoro il genitore?

GAZZ.

Credo de sì.

CON.

È in gondola?

GAZZ.

In burchiello

Cargo da poppe a prova

Con tanti intrighi e tanti,

Che una barca la par de comedianti.

CON.

È lui senz'altro. Vanne tu, Gazzetta,

Apri tosto la riva.

Fa che introdotto sia.

GAZZ.

Ghe mancava de più st'altra caìa. (parte)


SCENA OTTAVA

Il Conte e Servi; poi Pancrazio, finto marchese, con seguito.

CON.                     Olà, servi, venite;

Ite incontro al marchese, Fategli riverenza, ed a lui dite Che, essendo titolato,

   lo faccio introdur senz'anticamera.
Ora in questo paese

Si vedrà chi son io,

E qual si tratti un cavalier par mio.
PANCR.                Al conte Baccellon Parabolano

Or s'inchina il marchese Cavromano.
CON.                     Oh degno sol cui d'umiliarsi or degni

   conte Baccellon Parabolano;

A voi m'inchino, e datemi la mano.
PANCR.                Mano degna di stringere uno scettro.

CON.                     Dite, marchese mio, come si parla

In Milano di noi?
PANCR.                                           Non passa giorno

Che per quella città

Non si esalti la vostra nobiltà.

Ciascun parla di voi; tutto il paese

Conoscervi sospira,

Ed ogni dama ad obbedirvi aspira.
CON.                     Converrà poi ch'io dia piacere al mondo,

Ch'io mi faccia veder.
PANCR.                                                    Son io venuto

Già sapete perché. Grazie vi rendo

Dell'onor che voi fate al figlio mio.

Se sapeste quant'io

Ho faticato a superar gl'impegni

Che tenevo in Milano! oh se sapeste,

Conte, ve lo so dir che stupireste!

Ognun voleva apparentarsi meco.

Il marchese Busecca,

Il duca Cervellato,

Il principe Strachino,

Il cavalier Tortione,

Sino il governator di Mezzo-miglio,

Per genero volean tutti mio figlio.
CON.                     E voi sceglieste me? Si vede bene,

Nel vostro rubicondo almo sembiante,

Che della nobiltà voi siete amante.
PANCR.                Amo li pari miei. So che voi siete

Di più titoli adorno.

Io per un anno intero

Un titolo mostrar posso ogni giorno.
CON.                     Poffar bacco baccon, quest'è ben molto!


PANCR.                Vi dico il ver, non son mendace o stolto.

Olà, prendi, Salame, Aprimi quel baullo, e qua mi reca Li privilegi miei.

CON.                     Non s'incomodi, no; lo credo a lei.

PANCR.                Non sono un impostor. Mirate qua:

L'arbore è questo di mia nobiltà. Ecco l'autor del ceppo mio: Dindione, Re de' galli e galline, Da cui per linea retta anch'io discendo; Sovra il regno degli ovi anch'io pretendo.

CON.                     E con ragion.

PANCR.                                      Ecco il mio marchesato

Fra cavoli e verzotti situato. Questa qui è una contea Ereditata da una dama ebrea. E questo è un prencipato Il di cui feudatario fu appiccato. Mirate quattro titoli in un foglio: Conte, duca, marchese e cavaliero. Ecco li quattro stemmi: Un cane, un mulo, un gatto ed un braghiero.

CON.                     Anche un braghiero?

PANCR.                                                  Sì, vi pare strano?

Mirate qui quest'altro marchesato Ch'ha per arma le corna d'un castrato. E poi volete in corto Veder ciò ch'io possiedo? Ecco raccolto In questa breve carta il poco e il molto: Trecento mila campi Che rendon cadaun anno Trenta e più mila scudi sol di paglia, Settecento villaggi all'Ombelico, Quattro provincie intere In luogo che si chiama il Precipizio, ventisei contadi all'Orifizio.

CON.                     Non voglio sentir altro. Son contento,

Vado a chiamar la contessina: io voglio Recare ancora a voi L'onor di rimirar i lumi suoi.

PANCR.                S'è bella come voi, sarà bellissima,

E se serena in volto Come voi siete, sarà serenissima.

CON.                     Bella, bella non è, ma può passare.

È vezzosa, è galante, e sa ben fare.

Ha un certo brio. Che so ben io... La vederete, Vi piacerà.


Ma quando poi Non piaccia a voi, Al figlio vostro Piacer dovrà. (parte)

SCENA NONA Pancrazio, poi la Contessina

PANCR.                Se l'ha bevuta il conte; oh bene, oh bene.

Pancrazio, a noi: la contessina or viene.

CONTES.              Riverente m'inchino

All'illustre marchese Cavromano.

PANCR.                Oh, oh! bacio la mano

Alla mia contessina, A quella che in briev'ora La sorte avrà di divenir mia nuora.

CONTES.              Sì, mia sorte sarà. Ma vostro figlio,

Sendo meco accoppiato, Potrà anch'egli chiamarsi fortunato.

PANCR.                Da questo matrimonio,

In cui felicità non manca alcuna, Vedrem ripartorita la fortuna.

CONTES.              Nobilissimo mio suocero amato,

Ditemi in cortesia, Come ben vi trattò sì lungo viaggio?

PANCR.                Io venni a mio bell'agio.

Stavo in una carrozza In cui v'era il mio letto, La poltrona, la tavola, il scrittorio, La credenza, il cammin, la tavoletta, E, con rispetto, ancora la seggetta.

CONTES.              Era un bel carrozzone!

PANCR.                                                    Era tirato,

Sappia, signora mia, Da sessanta cavalli d'Ungheria.

CONTES.              Come fece a passar per tante strade

Anguste e disastrose?

PANCR.                Ho fatto delle cose prodigiose.

A forza d'acquavite ho rotto i monti, Ho fatto far dei ponti; E gli alberi tagliati, io non v'inganno, Potrian scaldar cento famiglie un anno.

CONTES.              Gran cose in verità!

PANCR.                                               Tutto s'ottiene

A forza di denaro. Io non son uomo avaro: Per farmi voler ben dalle persone


Ogn'anno getterò più d'un milione.

CONTES.

(Egli è ricco sfondato). Ecco, mirate

Il marchesin che arriva.

PANCR.

Egli d'Europa

È il cavalier più ricco, e non lo passa,

Nei tesori serbati alle sue mani,

Altro che il gran signor degli Ottomani.

CONTES.

(Oh miei felici amori,

Mentre a parte sarò de' suoi tesori!)

SCENA DECIMA

Lindoro e detti

LIND.

Marchese padre.

PANCR.

Marchesino figlio.

LIND.

Che siate ben venuto.

PANCR.

Più bello sei da che non ti ho veduto.

CONTES.

Non degnate mirarmi?

LIND.

Eh mia signora,

Se lo sposo vi reca affanno o tedio,

Il duca cicisbeo porga il rimedio.

PANCR.

Oh questa è bella!

CONTES.

Come? Vi sdegnate

Perché di cicisbeo m'ho proveduto?

LIND.

Di cicisbeo non so, né d'altra cosa:

So ch'io voglio esser sol, signora sposa.

PANCR.

(Fingi, pazienta un poco,

Fin che finisca il gioco).

CONTES.

E che parlate,

Signori, fra di voi?

PANCR.

Consolo il figlio negli affanni suoi.

Ah, marchesino, osserva

Nella tua contessina

A te quale bellezza il ciel destina:

Che volto, che maestà, che ciglio altero!

È degna d'un impero.

Dal suo fastoso aspetto

L'alta sua nobiltà si scorge e vede.

(Dico per minchionarla, e non s'avvede).

CONTES.

Marchese, mi onora

Con troppa bontà.

PANCR.

Perdoni, signora,

Già il vero si sa.

LIND.

Scopersi a buon'ora

La sua infedeltà.

CONTES.

Guardate, non parla,


Sdegnato è con me.

PANCR.

Ingrato, sdegnarla,

Mio figlio, perché?

CONTES.

Mio caro tu sei.

LIND.

Non vuò cicisbei.

a tre

Un uomo geloso

Riposo - non ha.

PANCR.

Codesto è un intrico.

LIND.

Lo spiego, lo dico,

Che solo esser voglio.

PANCR.

Codesto è un imbroglio.

CONTES.

Un'alma ben nata

Sospetto non dà.

LIND.

Signora garbata,

Nol so in verità. (partono)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

La Contessina e Lindoro

CONTES.

Eh via, siate più umano;

Troppa selvatichezza

A poco a poco a imbestialire avvezza.

LIND.

S'io non vi amassi, non sarei geloso.

CONTES.

Gelosia non è degna

Né di voi, né di me. Mi fate torto

Del mio amor dubitando:

So distinguere il tempo, il come e il quando.

Ma che vorreste mai

Di me giungesse a giudicar la gente

S'io non avessi un cavalier servente?

LIND.

Dirà che un uso tale

Abborrire è virtù...

CONTES.

Pensate male.

Dirà che, nol facendo,

Voi siete un incivile, io un'ignorante.

LIND.

Dica ognun ciò che vuole, a voi sol basti

Piacere a me.

CONTES.

In quanto a questo, poi,

Chiaro vi parlerò. V'amo, vi adoro,

Ma quando il mio decoro

Oscurar voglia il vostro strano umore,

Alla mia nobiltà ceda l'amore.

LIND.

Bell'amor daddovero!

CONTES.

Inver gran fede

Mostrate aver di me!

LIND.

Dunque Lindoro,

Se non soffre il servente, è abbandonato?

CONTES.

Dunque è il mio cor macchiato,

Se onesta servitude altrui concede?

LIND.

Che sviscerato amor!

CONTES.

Che bella fede!

LIND.

Ma possibile, o cara...

CONTES.

Andate via,

Non vi voglio ascoltar.

LIND.

Crudele!...

CONTES.

Ingrato!...

LIND.

Se vedeste il mio cor quanto v'adora!

CONTES.

Siete meco indiscreto, e v'amo ancora.


LIND.

Possibile che poi...

CONTES.

Sarà poi vero...

LIND.

Ch'io v'abbia da lasciar?

CONTES.

Ch'io v'abbandoni?...

LIND.

Smanio sol nel pensarlo.

CONTES.

Ahimè, ch'io moro.

LIND.

Vieni, bell'idol mio.

CONTES.

Vien, mio tesoro:

Dubiterai di me?

LIND.

No.

CONTES.

Ti contenti

Ch'io segua onestamente

Il mio tratto civil?

LIND.

Sì, mi contento.

CONTES.

Lungi, lungi il penar.

LIND.

Bando al tormento.

Dammi la mano, o cara.

CONTES.

Prendi la man, ben mio.

a due

Che bel contento, oh dio!

Che fortunato amor!

LIND.

Non esser meco avara.

CONTES.

Lo sai che tua son io.

a due

Destin perverso e rio

Non ci tormenti il cor. (partono)

SCENA SECONDA

Sala del Conte.

Il Conte e Gazzetta

CON.

Da' ordine, Gazzetta,

Ai miei guardaportoni,

Che non lascino entrar gente ordinaria.

Oggi che le sublimi

Nozze si devon far della mia figlia,

Tutto il paese inarcherà le ciglia.

Venga la nobiltà; ma non s'ammetta

Al grande onor della veduta nostra

Chi almeno dieci titoli non mostra.

GAZZ.

Lustrissimo, ho paura

Che poca zente vegnirà.

CON.

Perché?

GAZZ.

Perché ghe ne xe tanti

Che fa da gran signori,

Ma quando po le prove

Della so nobiltà se ghe domanda,


I mua descorso, e i va da un'altra banda.

Mi ghe n'ho servio tanti

Che pareva marchesi e prenciponi,

E i ho scoverti alfin birbi e drettoni. (parte)

SCENA TERZA Il Conte, poi la Contessina e Lindoro

CON.                     Costui non dice male; anch'io son nato

In bassissimo stato, e pur veggendo Che ognun mi riverisce e mi fa onore, Parmi talor ch'io sia nato un signore. Venite, o nobil germe Delle viscere mie.

CONTES.                                           Gran genitore,

A voi s'umilia lo rispetto mio.

LIND.                    Suocero illustre, a voi m'inchino anch'io.

CON.                     Porgetevi la destra, indi attendete

Da nobiltà infinita Le congratulazioni.

LIND.                                                   (Ah ch'io pavento

Da tal finzion qualche sinistro evento!)

SCENA ULTIMA Pancrazio ne' suoi abiti; poi Gazzetta e detti.

PANCR.

Padroni, vi son schiavo.

CON.

Olà, che vuoi?

Che fai qui? Come entrasti? Olà, Gazzetta.

GAZZ.

Lustrissimo.

CON.

Intendesti

Gli ordini miei? Pancrazio come entrò?

GAZZ.

Come ch'el sia vegnuo mi no lo so.

CON.

Su, cacciatelo via.

PANCR.

Come! Non puote

Il padre esser presente

Ai sponsali del figlio?

Non si tratta così. Mi meraviglio.

LIND.

(Ora sì viene il buono!)

CON.

Il poveruomo

Ha perduto il cervello.

PANCR.

Pazzo non son.

CON.

Dov'è tuo figlio?

PANCR.

È quello.


CON.

Lindoro?

PANCR.

Sì.

CON.

Va via. Come facesti,

Misero, ad impazzir? Codesto è figlio

Del nobile marchese Cavromano

Che venne in casa mia sin da Milano.

Fa che venga, Gazzetta, e sia presente

Al sublime imeneo.

Tu sarai testimonio. (a Pancrazio)

CONTES.

Un vil plebeo?

Conte padre, non voglio.

Cacciatelo di qua.

LIND.

(Cresce l'imbroglio).

GAZZ.

Ho cercà e recercà per tutti i busi:

No se trova el marchese.

E solo s'ha trovà sul taolin

L'abito ch'el portava e el perucchin.

CON.

Che imbroglio è questo mai?

PANCR.

Tutto saprete.

Son io quel gran marchese

Che, con enormi spese,

Venendo da Milan per valli e monti,

Spianò campagne e fabbricò dei ponti.

CONTES.

Stelle!

CON.

Come! Lindoro...

LIND.

A' vostri piedi,

Signor, eccovi un reo.

PANCR.

Levati su di là, vile, plebeo.

Non conosci, non vedi

Che non sei degno di baciargli i piedi?

Troppo la nobiltà del conte offende

Un uomo mercenario,

Che d'aver la sua figlia e spera e prega.

Vanne, figlio plebeo, vanne a bottega.

CON.

Son confuso.

CONTES.

Son morta.

PANCR.

(Oh che baggian!)

GAZZ.

(El ghe l'ha fatta ben da cortesan).

PANCR.

Su, via, Lindoro, andiamo.

LIND.

Oh Dei! Contessa,

Fu amor colpa del fallo.

CONTES.

Oh che m'avete,

Crudele, assassinata!

CON.

Di me che si dirà? Figlia sgraziata!

Tutto il mondo è informato

Di questo matrimonio.

Si sa ch'è stato in casa

Lo sposo con la sposa;

Quest'è una brutta cosa.

Figlia, per l'onor tuo questo è il partito:


Lindoro, qual si sia, sia tuo marito.
CONTES.              Amor fa de' gran colpi. Io non dissento

D'abbassarmi per lui.
PANCR.                                                  Piano di grazia,

V'ho da essere anch'io.
CON.                                                         Sei fortunato.

Sarai con il mio sangue apparentato.
PANCR.                Eh prendete, signor, miglior consiglio.

Non è per un mio figlio

L'illustrissima vostra contessina.

Mandereste in rovina

La vostra nobiltà.
CON.                                                  Fatto è l'imbroglio.

Vuò che sposi Lindoro.
PANCR.                                                    Ed io non voglio.

Tua figlia, ah ah! Pretende, uh uh! Mio figlio, oh oh! Oh questo poi no.

CON.                     (Ah perfido! m'insulta, ed ha ragione).

LIND.                    Deh padre, per pietà, deh permettete

Ch'io sposi la contessa. Io senza lei

Di dolor morirei.
PANCR.                                           Ma la contessa,

Il di cui cor fastoso

Di accrescer nobiltà non è mai sazio,

Il figlio sdegnerà d'un vil Pancrazio.
CONTES.              Amor codesta volta

Supera nel mio seno ogni riguardo.
PANCR.                Quando dunque è così, via, mi contento.

Porgetegli la man.
CON.                                                  No, no, fermate.

Ho trovato un rimedio

Che opportuno sarà.

Perché di nobiltà

Privo non sia lo sposo di mia figlia,

A cui tutto perdono,

Quattro titoli miei gli cedo e dono.
PANCR.                Oh quante belle rane!

I titoli, signor, non danno pane.
LIND.                    Deh, contessina mia, deh perdonate

Un inganno amoroso.
CONTES.              Non lo rammento più, siete mio sposo.

CORO

Sia eterno il giubilo De' nostri petti,


Mai non si spengano Gli accesi affetti, Discenda Venere, Trionfi amor. De' vani titoli, D'onor sognato Non senta stimoli Fuor dell'usato, Non si rammarichi Il nostro cor.

Fine.