La conversazione

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LA CONVERSAZIONE

Carlo Goldoni

Dramma Giocoso per Musica di Polisseno Fegejo Pastor Arcade, da rappresentarsi nel Teatro Grimani di S. Samuele il Carnevale dell'Anno .

PERSONAGGI

DONNA BERENICE

La Sig. Maria Monari.DON FILIBERTO

Il Sig. Giuseppe Morelli.
MADAMA LINDORA vedova, zia di Donna Berenice.

La Sig. Giovanna Baglioni.GIACINTO viaggiatore affettato.

Il Sig. Michiel Angelo Potenza. DON FABIO nobile e povero.

Il Sig. Francesco Carattoli, Virtuoso di S. A. S. il Sig. Duca di Modena. SANDRINO uomo ricco di bassi natali.

Il Sig. Francesco Baglioni. LUCREZIA giovane spiritosa.

La Sig. Catterina Ristorini.
MARIANNA tedesca, serva di Madama Lindora.

La Sig. Vicenza Baglioni.

La Musica è composizione del Sig. Maestro Giuseppe Scolari. La Scena si rappresenta in casa di Madama.

MUTAZIONI DI SCENE

ATTO PRIMO

Camera d'udienza.

Per il Ballo, colline praticabili per vendemmiare.

ATTO SECONDO Camera d'udienza. Per il Ballo, piazza.

ATTO TERZO

Camera d'udienza.

Sala.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di conversazione, con sedie.

Madama Lindora, Donna Berenice, Don Filiberto, Don Fabio, Sandrino, Giacinto e Lucrezia, tutti a sedere bevendo la cioccolata.

TUTTI

Che bevanda delicata! Che diletto che mi dà! Viva pur la cioccolata, Che dà gusto e sanità.

a due                              Par miglior la cioccolata

Allorquando vien donata; E lo sanno - quei che vanno A scroccar di qua e di là.

TUTTI

Viva pur la cioccolata,

E colui che l'ha inventata. E chi fece la canzone Prega tutti in ginocchione A mandarne in quantità, Che il poeta goderà.

FAB.                      E chi è questo poeta

Che ha fatto la canzone?
MAD.                                                           È un galantuomo,

Che si affatica ogni ora,

E colla cioccolata si ristora.
SAN.                      Sì, cospetto di bacco!

Doman mattina gliene mando un sacco.
FAB.                      Bravo, signor Sandrino,

Mandategliene un sacco ed un cassone:

Io gli regalerò la protezione.
GIAC.                    Madama, con licenza.

Vado al Reale Albergo

A veder s'è venuto un forastiere. (s'alza)
MAD.                    Certo; monsieur Giacinto

Degli amici ha per tutto.
GIAC.                                                          Sì, signora,

Ho degli amici fin nell'Indie ancora.

Fatto ho il giro del mondo;


Tutte le quattro parti ho praticato,

E voi vedrete il mio giornal stampato.

In quattordici lingue

Parlo, scrivo e traduco.

So i riti, so i costumi

Dei popoli remoti,

E gl'incogniti ancora a me son noti.

Coi vili sono asiatico; (fa il grave)

Coi grandi sono italico; (fa l'umile)

Nel spender sono inglese;

Son colle dame un paladin francese. (fa riverenze e parte)
MAD.                    Bella caricatura!

Girato ha tutto il mondo:

Ha quattordici lingue.

Un uom sì peregrino

Mappamondo può dirsi, e Calepino.
LUC.                      Brava, brava davvero!

Che sian dotti, o ignoranti, o belli, o brutti

Trova Madama il soprannome a tutti.
FAB.                      Di me cosa direte? (a Madama)

MAD.                    Oh, il signore don Fabio

Non ha verun difetto.

Ho per lui della stima e del rispetto.
FAB.                      Brava la vedovella!

Non stimo l'esser bella,

Stimo la cognizione

Di distinguere il merto e le persone.

Nelle vostre occorrenze

Ricorrete da me, ch'io sarò pronto.

Quando vo per la città, Chi mi chiama per di qua, Chi mi chiama per di là. Chi s'inchina al protettor, Chi mi prega di un favor. Dico all'uno: si farà. Dico all'altro: si vedrà.

È una cosa che fa ridere Il sentir la povertà: Illustrissimo signore, Cavalier benefattore, Per la vostra nobiltà Fate a noi la carità. (parte)

Della mia protezion fatene conto.


SCENA SECONDA

Madama Lindora, Donna Berenice, Don Filiberto, Lucrezia e Sandrino

MAD.                    Veramente, signori,

Far la critica a tutti io non costumo;


Ma il signore don Fabio

Dir si potrebbe il Cavalier del Fumo.

SAN.                      Dite ben, dite bene;

Lo stato del meschin non ci è nascosto: Egli il fumo coltiva, ed io l'arrosto.

MAD.                    Nominando l'arrosto,

Mi ha fatto sovvenir che ho da pregarvi

Che vogliate degnarvi

Quest'oggi in casa mia,

Che mangiamo la zuppa in compagnia.

SAN.                      Sì, verrò volentieri,

Ma tutti anch'io v'invito

Per un'altra mattina ad un convito.

Frattanto permettete

Ch'io mandi questa mane

Per i miei servitori

Son generoso,

Non fo parole,

Dono i zecchini

A chi ne vuole.

I miei danari

Li fo saltar. Se un bel visetto

Mi fa d'occhietto,

Cento dobloni

Gli vuò donar. (parte)

Quattro casse di vini e di liquori.


SCENA TERZA

Madama Lindora, Donna Berenice, Don Filiberto, Lucrezia

MAD.                    Par che il signor Sandrino,

Salvo sempre il decoro,

Si potrebbe chiamar l'Asino d'oro.
LUC.                      Madama, a quel ch'io sento

Voi non la risparmiate a chi che sia:

Ditemi il mio difetto in faccia mia.
MAD.                    Oh, cara Lucrezina,

Voi siete una cosina assai compita,

Siete bella e polita,

Avete dello spirito non poco.

Degli scherzi conosco il tempo e il loco.
LUC.                      Basta, ve l'avvertisco:

A sentirmi a burlare io ci patisco.

Della vostra amistà voglio fidarmi.

Serva, signori miei; vado a scaldarmi. (parte)


SCENA QUARTA Madama Lindora, Donna Berenice, Don Filiberto

MAD.                    Ha ragione Lucrezia,

Se riscaldarsi un pocolin procura.

Povera Lucrezina, è una freddura.
FIL.                        Madama, con licenza.

MAD.                                                      Dove andate?

FIL.                        Deggio partir.

MAD.                                          Restate.

FIL.                       Ritornerò da poi.

MAD.                    Lo lasciate partir? Che dite voi? (a donna Berenice)

BER.                      Trattenerlo poss'io?

MAD.                                                      Sì, che il potete.

Egli tutto farà quel che volete. (a donna Berenice)

Non è vero, signore? (a don Filiberto)
FIL.                        Degno non son che donna Berenice

Di un comando mi onori.
MAD.                    Rispondete: gradisco i suoi favori. (a donna Berenice)

BER.                      Cara signora zia, mi fate ridere.

MAD.                    Da rider vi è venuto?

Eh barona ca ca, ti ho conosciuto.

Orsù, parliamo schietto: (a tutti due)

Siete da maritar, vi compatisco.

Tornate presto; giocheremo un poco. (a don Filiberto)

Andiam Lucrezia a ritrovare al foco. (a donna Berenice)
BER.                      Serva, don Filiberto. (parte)

FIL.                                                         A voi m'inchino.

MAD.                    (S'ei volesse sposar questa ragazza,

SCENA QUINTA

Don Filiberto solo.

Oh, quanto agli occhi miei

Berenice è vezzosa!

Tengo la fiamma ascosa,

Faccio l'indifferente,

Ma l'amore si scopre facilmente.

Madama è di buon core,

Ama la sua nipote,

Ha di me buon concetto,

E sol da lei la mia fortuna aspetto.

Chi timido tace, Se stesso condanni; Può solo l'audace Fortuna sperar.

Non giovan sospiri,

Oh, farebbero pur la bella razza). (da sé, e parte)


Son vani i martiri; Coraggio, mio core, Palesa l'amore, Se brami, se speri Contento provar. (parte)


SCENA SESTA

Camera.

Madama Lindora e Lucrezia

MAD.                    Senz'altro, Lucrezina,

Vuò che vi maritiate.
LUC.                      Voi, perché non lo fate?

MAD.                                                           Dieci mesi

Stata son maritata.
LUC.                                                   Se credessi

Che altrettanto vivesse il sposo mio,

Vorrei stasera maritarmi anch'io.
MAD.                    Credete il matrimonio

Una dura catena?
LUC.                      Qualunque soggezion mi reca pena.

MAD.                    Quando aveva marito,

Io mi ho ben divertita.

La catena per me non parve amara,

Ma convien saper far, sorella cara.
LUC.                      So quel che dir volete,

So anch'io quel che si fa;

Ma fia sempre miglior la libertà.
MAD.                    In questo v'ingannate.

Le donne maritate

Con un po' di giudizio

Fanno miglior figura.
LUC.                      Questa proposizion nego a drittura.

Dico che una fanciulla,

Comoda in casa sua passabilmente,

Può la pace goder più facilmente.
MAD.                    Ecco il signor Giacinto.

Sappia la differenza,

SCENA SETTIMA

Giacinto e dette.

GIAC.                   Madame, de tout mon cour

Trois humble servitour.

E col suo Calepin dia la sentenza.


MAD.                    Monsieur, vostre servante.

GIAC.                    Vous êtes ma maîtresse trois oblissante.

LUC.                      Ehi, sentite.

GIAC.                                       Bas ist?

LUC.                      Cosa dite, signor?

GIAC.                                                 Nix frestè taic?

LUC.                      Iò pizzle freste taic.

GIAC.                    Ionfraul, mainssozz. (vuole accostarsi)

LUC.                      Ehi, state da lontano,

O saprò strapazzarvi in italiano.
GIAC.                    Questo, signora mia,

Splin si chiama in inglese,

Che in Italia vuol dir malinconia.
MAD.                    Via, signor Mappamondo,

Voi che tanto sapete,

Una nostra contesa decidete.

Io tengo che sia meglio

Vivere col marito in società.
LUC.                      Io sostengo miglior la libertà.

GIAC.                    Varie son le opinion, vari i capricci:

A chi piace la torta, a chi i pasticci.

Sunt bona mixta malis,

Sunt mala mixta bonis,

Come dice il Furlan: ciaris patronis.

In Francia, in Inghilterra,

Stan ben le maritate;

In Spagna ritirate

Stanno la notte e il dì;

E in Italia dirò... così, così.

Ma s'io avessi una sposa,

Meco godrebbe un vivere giocondo,

E la farei star ben per tutto il mondo.

San fasson, allegramente Saprei vivere e brillar. A suo tempo dolcemente Da marito saprei far; E ma famme avec muè Dans le mond, jamè, jamè!

Coll'amico e col servente Vada pur liberamente Dove vuol, di qua e di là. Io brillando alla tedesca Colla fraila e la fantesca Vuò ballare visassà. (parte)

SCENA OTTAVA
Madama Lindora e Lucrezia
MAD.                    Che dite? Non è bello?


Che original cervello
Fa dei linguaggi un guazzabuglio strano,
Ed unisce il latin con il furlano.
LUC.                      È una testa sventata,

Non sa quel ch'ei si dica.

Nella nostra questione

Non disse una ragione.

Ma io però me l'ho cacciata in testa:

So che ho ragion, e la ragione è questa.

Una donna maritata

Qualche cosa goderà,

Ma non ha la libertà.

Il marito - inviperito

Qualche giorno griderà;

E la suocera dirà:

Vanarella, - sfacciatella,

Fuor di casa non si va.

E coi figli che sarà? Mamma, la pappa;

Mamma, la cacca.

Bambolo bello,

Viene il papà.

Non vuò cullare,

Non vuò gridare,

Voglio godere

La libertà. (parte)

SCENA NONA

Madama Lindora, poi Donna Berenice

MAD.                    Per dir quel che conviene,

Ella l'intende bene. Non ho avuti figliuoli, Ho avuto un buon marito, Ma una suocera ebb'io così cattiva Che parea mi volesse mangiar viva.

BER.                      Cara signora zia,

Con quel signor Giacinto

In compagnia non voglio stare al certo.

MAD.                    Presto presto verrà don Filiberto.

BER.                      Voi credete, signora...

Non è ver, v'ingannate.

MAD.                    Vi volete scusare e v'imbrogliate.

Non crediate, nipote, Di conversar coi sciocchi. Vi conosco negli occhi. Povera giovinotta! Non lo state a negar; voi siete cotta.

BER.                      Voi mi mortificate.


MAD.                                                 Poverina!

Fate l'innocentina.

Ma quando vi dicessi:

Se volete lo sposo, eccolo qui;

Quel modesto bocchin diria di sì.
BER.                      Per dirvi quel ch'io penso...

MAD.                                                                State zitta;

Viene il signor Sandrino.

Godiamolo un pochino;

Per cavar la risata,

Fate con esso lui l'innamorata.
BER.                      Ma io non saprò far.

SCENA DECIMA Sandrino e dette.

SAN.                                                     Servo, signore.

Eccomi pronto e lesto.
MAD.                    Siete tornato presto.

Si vede apertamente

Che il signore Sandrino

Non può stare lontan da quel visino.
SAN.                      Di chi?

MAD.                                 Di mia nipote.

SAN.                                                          Oh, cosa dite?

Io di quella signora

Son servitore e amico,

Ma so che a lei non glien'importa un fico.
BER.                      (Affé, l'ha indovinata). (da sé)

MAD.                    Povera Berenice!

Se sapeste di voi quel che mi ha detto!

Per voi si sente abbrustolare il petto.
SAN.                      Per me? Se fosse vero...

MAD.                    Credete ai labbri miei.

SAN.                      Vorrei sentirlo a confermar da lei.

MAD.                    Berenice, parlate;

Ditegli che l'amate.

Siete da maritar; che male c'è?

Via, non abbiate soggezion di me.
BER.                      È superfluo ch'io il dica.

Di già il signor Sandrino

Avrà il core impegnato.
SAN.                                                            Oh no, signora:

Son, per fortuna mia, libero ancora.

Però s'ella si degna...
MAD.                    Il suo cor vi presenta. (a Berenice)

Berenice è contenta. (a Sandrino)
SAN.                      Davver?

MAD.                                   Dice di sì.

Non è ver, Berenice? Ella è così.


BER.                      (Fingere non son buona

Per ischerzo nemmeno). (da sé)

SAN.                                                            Eppure ancora

Non ha detto di sì. (a Madama)

MAD.                                                 Poveri sciocchi!

Voi non capite il favellar degli occhi.

Beltà modestina Si spiega così. Con quella occhiatina Vuol dire di sì. Non sanno gli sciocchi Che diconsi gli occhi Finestre del cor. Pupilla d'amor, Che il seno ferì, Con quella occhiatina Vuol dire di sì. (parte)

SCENA UNDICESIMA Donna Berenice e Sandrino

BER.                      (Spiacemi che Madama

M'abbia lasciata sola). (da sé)

SAN.                      Via, dite una parola.

Or che nessun ci sente,

Voi potete parlar liberamente.

BER.                      Vi prego in cortesia...

Mi dovreste capir.

SAN.                                                   Ch'io vada via?

BER.                      Mi farete piacer.

SAN.                                                La riverisco.

Questa razza d'amor non la capisco. (parte)

SCENA DODICESIMA

Donna Berenice sola.

Egli s'inganna al certo;

Quel che il core mi punge, è Filiberto.

Mia zia mi dà coraggio;

L'amor mi cresce in petto.

Parlerò, svelerò l'interno affetto.

Buon per me che si fida

Di codesta mia zia la genitrice!

Sì, sì, col mezzo suo sarò felice.

Che bel piacere è amar


Senza tormenti al cor! L'idolo suo mirar, Seco parlare ancor! Fammi arrossire in viso Un vezzo ed un sorriso. Non gli risponde il labbro, Ma gli risponde il cor. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Don Fabio, poi Marianna

FAB.                     O di casa.

MAR.                                   Che fol?

FAB.                                                   Vi è la padrona?

MAR.                    Iò mailibreher.

FAB.                                              Fatele l'imbasciata.

MAR.                    Fol andar?

FAB.                                       Se si può.

MAR.                                                      Iò, star patrone.

FAB.                     Anderò. Vi saluto. (in atto di partire)

MAR.                    Niente per mi donar?

Pofera tedeschina.

FAB.                     Sì, sì, ci rivedremo domattina.

MAR.                                Ma dir patrona

Fa mi saver, Che lei del Fume Star Cavalier. Iò, gut morghen Mailibreher. (parte)

FAB.                      Dica pur quel che vuol l'impertinente.

Se la vedo morir, non le do niente.

SCENA QUATTORDICESIMA Don Fabio, Madama Lindora, servita da Giacinto, Lucrezia, servita da Sandrino

MAD.                    Oh, signore don Fabio,

Che grazie sono queste?

Ella vuol stare a favorir da noi?
FAB.                      Voglio pranzar con voi.

Così fanno gli amici;

Senz'essere invitati

Vengon liberamente.

Le cerimonie non le stimo niente.
SAN.                      Certo le cerimonie

Si ponno risparmiare


Quando in casa non si ha con che mangiare.
FAB.                      Cosa c'entrate voi?

Per un po' di denari,

Mettere si vorria con un mio pari.
GIAC.                    Doucement, mes amis;

Non si contrasti più.

Questo dell'amicizia è il randevous.
LUC.                      Su via; prima del pranzo,

Divertiamoci un poco.
MAD.                    Giochiamo a qualche gioco.

Don Filiberto non si vede ancora:

Possiam giocare e divertirci un'ora.
SAN.                      Ecco cento zecchini:

Li taglio al faraone.
MAD.                    No, non è gioco da conversazione.

Siamo in cinque; possiamo

Fare un ombre e un picchetto.
SAN.                                                                      Io non ne so;

Ma son qui, giocherò.
FAB.                      Farò quel che vi pare.

(Se perderò, come farò a pagare?) (da sé)
MAD.                    Ecco qui la partita.

Don Fabio e Lucrezina

Giocheranno a picchetto.

Lor signori con me

Faranno all'ombre una partita in tre.
SAN.                      Son pronto.

FAB.                                         Eccomi qui.

LUC.                      Disponete di me.

GIAC.                    Giochiamo, uì.

MAD.                    Presto, che si prepari

Per l'ombre e per picchetto. (ai Servitori, quali portano i due tavolini col

bisognevole per i due giochi, e le sedie)
FAB.                      (Destino maledetto!

Non ho un soldo in saccoccia). (da sé)
MAD.                                                                    Miei signori,

Del prezzo delle puglie disponete.
SAN.                      Di un zecchino alla puglia.

GIAC.                    È troppo.

MAD.                                   Così è.

GIAC.                    A me piace giocar pour amitiè.

MAD.                    Basta un soldo alla puglia.

GIAC.                                                            Io mi contento.

MAD.                    La spadiglia obbligata in fino al cento.

LUC.                      Noi di quanto giochiamo? (a don Fabio)

FAB.                                                               Comandate.

LUC.                      Un paolo alla partita,

Ma con tutti i malanni.
FAB.                      Io sto al comando.

(Fortuna, al tuo favor mi raccomando).

(Facendosi il ritornello dagli strumenti, frattanto si danno le carte)

MAD.                              Mi è venuta la spadiglia,


SAN.

GIAC.

MAD.

LUC.

FAB.

MAD.

GIAC.

MAD.

LUC.

FAB.

LUC.

FAB.

MAD.

GIAC.

SAN.

MAD.

LUC.

FAB.

LUC.

FAB.

MAD.

GIAC.

SAN.

LUC.

FAB.

LUC.

FAB.

LUC.

FAB.

LUC.

FAB.

MAD.

FAB.

LUC.

MAD.

SAN.

GIAC.


Qualche cosa avrò da far. È permesso? Voglio entrar.

} adue       Entripure,nonmioppongo.

Se non trovo, la ripongo.

Delle spade ho da trovar. Sessantotto è il punto mio;

Ho una settima maggior.

Un picchetto dar vogl'io. (Ah, destino traditor!) (da sé) Gioco trionfo.

} adue       Ioglienedo.

Ho tre cavalli. Che dir non so. Diciassette della settima

E col punto ventiquattro;

Tre cavalli, ventisette. (Questa volta tocca a me). (da sé) Gioco coppe.

Mia di re. Se non dice...

Tagli pure.

Quattro bazze le ho sicure,

E in tenacca io resterò. E ventotto, e ventinove,

E sessanta, e sessantuno. Faccio cinque.

Io non lo so. Sì, signora, io lo farò. L'ho portato, l'ho portato.

} adue       Vivalei,chehabengiocato!

Che bel gioco è l'ombre in tre.
} atre    Piùbelgioco,no,nonviè;

Re dei giochi dir si può. Non fa cinque.

Lo farò. A denar non ha risposto. Non è vero.

Una mentita? (si alza) Ho da perder la partita? (si alza) Questa è poca civiltà. (La ragione non la sa). (da sé) Cosa è stato? (s'alza)

Niente, niente. Quel signore impertinente

Ebbe ardire

Di smentire,

Di negar la verità. Questa è troppa inciviltà. Padron mio, così si fa? Ritrattare si dovrà.


FAB.                               Son galantuomo:

Non ha ragione.

LUC.                               Vuò mi sia data

Soddisfazione.

Fuori la spada.

Fuori la spada.

SAN.

GIAC.      } adue  Sopralastrada.

Fuori di qua.
FAB.                               Son cavaliere,

So il mio dovere:

Non lo permette

La nobiltà.
Chi nasce bene,
LMUACD..       } adue    Trattarconviene

Con civiltà.
GIAC.                             Fuori la spada.

FAB.                               Non mi ci metto.

SAN.                               Io vi disfido.

FAB.                               Io non accetto.

GSAIANC..       } adue        PePrelralpaavuirlatà,.

FAB.                               Non l'acconsente

La nobiltà.

LMUACD..       } adue        TrCaottnarccivoinltvài.ene

MAR.                              Star in tafola, signori;

No star tempo de far gritori.
Trinche vain tempo star. (parte)
TUTTI                               Non più fracasso,

Finisca il chiasso; Vadasi in pace Tutti a mangiar. Dell'amicizia Stringasi il laccio; Con un abbraccio Pace s'ha a far. E della pace Godiamo i frutti; Vadasi tutti Lieti a mangiar. (partono)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera d'udienza.

Don Filiberto e Marianna

FIL.                        Ehi, tedesca.

MAR.                                        Signore.

FIL.                        Datemi la mia spada e il mio cappello.

MAR.                     Fol cappello, fol spata per andar?

FIL.                        Sì, per andar.

MAR.                                           A tafola

No foler più mangiar?
FIL.                        Non cercate di più; voglio andar via.

MAR.                     Subite mi servir fossignoria. (va per la spada e per il cappello)

FIL.                        No, tollerar non posso,

Sia davvero o da scherzo,

Sentir che dall'amor di Berenice

Si lusinghi Sandrino,

E che veggasi a lei seder vicino.
MAR.                     Ecco spata e cappello.

FIL.                                                            Vi ringrazio.

MAR.                     Per pofera tedesca

Star niente cortesia?
FIL.                        Tenete. (le dà la mancia)

SCENA SECONDA Don Filiberto, poi Donna Berenice

FIL.                        E pur non so partire.

Di gelosia il martire

Sento nell'alma mia...

Ho risolto così; voglio andar via.
BER.                      Dove don Filiberto?

FIL.                                                         Perdonate.

Ho un affar di premura.
BER.                                                          Ah no, restate.

Lo so che di mia zia

Lo scherzo vi dispiace.

Ma io colpa non ho, datevi pace.
FIL.                        Sandrino in mia presenza

Fa con voi lo sguaiato.

MAR.                                 Ringraziar fossignoria. (parte)


BER.                                                          Ei non può dire

Che da me lusingata

Sia la di lui pazzia.
FIL.                                                       Non dovevate

Sedere a lui vicino. Ah, lo sapete:

Per eccesso d'amor geloso io sono.
BER.                      Via, non lo farò più; chiedo perdono.

FIL.                        (Resistere non so). (da sé)

BER.                                                   Mi perdonate?

FIL.                        Vi perdono, mio ben.

BER.                                                        Dunque restate.

FIL.                        Via, resterò, per compiacervi, ancora.

Troppo questo mio cuor v'ama e v'adora.

Lo so che il sospetto Fa torto al mio bene, Ma soffro nel petto Gli affanni e le pene Di un timido amor. Conosco l'error, Confesso l'inganno; Me stesso condanno, Ma palpito ancor. (parte)

SCENA TERZA Donna Berenice, poi Madama

BER.                      Ritornar mi vergogno. I convitati

Sanno che scorrucciati

Siam Filiberto ed io;

Onde al ritorno mio dalla brigata,

Dubito di sentire una risata.
MAD.                    Cosa fate qui sola?

BER.                                                     A prender aria

Sono un poco venuta.
MAD.                    Brava! così mi piace.

Dite: è fatta la pace?
BER.                      Con chi?

MAD.                                   Con Filiberto.

BER.                                                          Non so niente.

MAD.                    Dite davvero? Povera innocente!

Fingere non occorre:

Tutto so, tutto vedo e tutto intendo;

E il vostro cuor di consolar pretendo.
BER.                      Adorabile zia, non so che dire:

Amor non può mentire.

È vero; arde il mio cuor d'onesto affetto,

E sol da voi consolazione aspetto.

A quel foco che m'accende,


Voi porgeste amabil esca, Non vi spiaccia, non v'incresca, Le mie brame consolar. Non sapea che fosse amore, Libertà godeva in petto; Or mi accese il primo affetto, E mi sforza a sospirar. (parte)

SCENA QUARTA Madama, poi Giacinto

MAD.                    Poveri innamorati!

Li compatisco affé.

Farò per lor quel che vorrei per me.
GIAC.                    Ah Madama, ah Madama!

MAD.                    Che c'è, signor Giacinto?

GIAC.                    Oh, che vin di Borgogna!

In Borgogna medesima

Meglio non ne ho trovato,

Meglio non ne ho bevuto in vita mia.

Ei m'ha messo in vigore e in allegria.
MAD.                    Ho piacer che sia buono.

GIAC.                                                          È perfettissimo. (traballando un poco)

MAD.                    Forti, forti, signore.

GIAC.                                                   Io? Son fortissimo.

Ah Madama, Madama,

Quivi che cosa fate?

Perché ci abbandonate?
MAD.                                                         Son venuta

Per un picciolo affare.
GIAC.                                                        Eh, vi ho capito.

Sia detto in confidenza, (traballando)

Alterata col vin la luminaria,

Siete fuori venuta a prender aria.
MAD.                    Bravo, così va detto.

Io sono un po' alterata;

Voi siete sincerissimo.
GIAC.                    Io? cospetto di Bacco! io son sanissimo.

Sono stato capace a' giorni miei,

Io solo contro sei,

Fare a chi beve più. Ciascun di loro

Cadde dal vino oppresso,

Ed io forte restai qual sono adesso. (traballando)
MAD.                    È una gran maraviglia!

GIAC.                                                        In Inghilterra

Ho bevuto in un giorno

Due fiaschi d'acquavite; e in Alemagna

Quattordici bottiglie di sciampagna.

In Parigi ad un pranzo

Questo stomaco mio si trangugiò


Un barile di vino di Bordò.

E a Vienna tracannai

Tanto vin di Tokai,

Che poteva bastar per un congresso;

E pur sano restai qual sono adesso. (traballando)
MAD.                    Saldi, signor, non mi cascate addosso.

GIAC.                    So quel che io faccio e traballar non posso.

Viva Bacco, il dio del vino, Che consola il nostro cor. Oh, che caldo malandrino! Io mi sento un fiero ardor. Presto, presto, mi abbisogna Del buon vino di Borgogna, Che mi renda il mio vigor. Ah, Madama, ho tanta sete. Ma son forte, lo vedete: Quattro salti posso far, E mi sembra di volar. (parte)

SCENA QUINTA Madama e Lucrezia

MAD.                    S'ei beve un altro poco,

Lo mettono a dormire.

Ch'egli beva di più voglio impedire. (in atto d'andarsene)
LUC.                      Amica. (con qualche agitazione)

MAD.                                 Cos'è stato?

LUC.                      Don Fabio si è attaccato

Con Sandrino a parole.

Cedere alcun non vuole;

Onde correte voi

Il progresso a impedir dei sdegni suoi.
MAD.                    Vado immediatamente. (in atto di partire)

SCENA SESTA Don Fabio e dette.

FAB.                      Madama, un insolente

M'inquieta e mi molesta.

MAD.                    Ma che insolenza è questa?

In casa mia tal cosa? Anch'io son puntigliosa. Questa è una mala azione, E vuò da tutti due soddisfazione.

FAB.                      Vi domando perdon.

MAD.                                                    Non vi è perdono.


FAB.                      Scusatemi.

MAD.                                      No certo.

FAB.                      Farò quel che volete;

Farò quel che vi piace.
MAD.                    Via, dunque, con Sandrin fate la pace;

E tutti unitamente

Passerem la giornata allegramente.

Farò venire Puricinella Colla Simona Torototò. In gondoletta poscia anderemo, Ci prenderemo tanto piacer. Che bel sentire! Sia... premi... stali, Toppa in ti pali. Per i canali Che bell'andar! Via, che si goda, Via, che si sguazza, Che si sbabazza. Si ha da goder. (parte)

SCENA SETTIMA Lucrezia e Don Fabio

FAB.                      Sì, me la pagherai. (verso la scena)

LUC.                                                   Gridate ancora?

FAB.                      E chi son io, farò vederti or ora.

LUC.                      Via, siate buoni amici;

Ogni tristo pensier vada in oblio.

FAB.                      Non si tratta così con un par mio.

LUC.                      Finalmente Sandrino

Che cosa mai v'ha detto?

FAB.                      Mi ha perduto il rispetto.

LUC.                                                            E in qual maniera?

FAB.                      Con lingua menzognera,

Contro quell'umiltà ch'usar costumo, Disse ch'io sono il Cavalier del Fumo.

LUC.                      In bocca di Sandrino

Codesta un'insolenza non si chiama, Perché ha detto lo stesso anche Madama.

FAB.                      Madama ha detto questo?

LUC.                      L'ha detto in verità.

FAB.                      Non si tratta così la nobiltà.

Si sanno i miei natali, Son le mie parentele al mondo note. Ho un principe nipote, Ho un cognato marchese, Mia madre fu contessa, E la signora nonna baronessa.


LUC.                      M'inchino riverente alla gran donna,

Di sì gran cavalier nonna e bisnonna. (parte)

SCENA OTTAVA Don Fabio, poi Sandrino, poi due Servitori.

FAB.                      Non so se mi corbelli

O se dica davvero. Ma che importa?

Facciano il lor dovere, e mi contento

Che lo facciano ancor per complimento.
SAN.                      (Eccolo; non vorrei

Precipitar con questo animalaccio). (da sé)
FAB.                      (Eccolo qui quel brutto villanaccio). (da sé)

SAN.                      (Ho promesso a Madama;

Voglio dissimulare). (da sé)
FAB.                                                     (In casa d'altri

Non vuò fare altre scene). (da sé)
SAN.                      (Non mi posso sfogar). (da sé)

FAB.                                                          (Tacer conviene). (da sé)

SAN.                      Schiavo suo. (passeggiando)

FAB.                                         Vi saluto. (passeggiando)

SAN.                      Che civiltà!

FAB.                                         Che dite?

SAN.                      Io non parlo con lei.

FAB.                      Badate ai fatti vostri, io bado ai miei.

SAN.                      Voglio seder. (siede)

FAB.                                            Voglio sedere anch'io. (siede)

SAN.                      Con licenza, signor. (gli volta le spalle)

FAB.                                                     Padrone mio. (gli volta le spalle)

SAN.                      (Andarsene potria; se vien Madama,

Vorrei star seco senza soggezione:

Non vorrei che vi fosse quel buffone). (da sé)
FAB.                      (Se vien qui Berenice,

Costui mi reca impaccio.

Quando mai se ne va l'ignorantaccio?) (da sé)
SAN.                      Ehi! lacchè. (viene un Lacchè ben vestito)

FAB.                                       Vuò sentire. (si volta un poco)

SAN.                                                          Alla locanda

Portati immantinente. Il mio burò

Apri con questa chiave.

Portami quel cestino

D'orologi, d'astucci e tabacchiere. (Parte il Lacchè)

(Andarsene dovria per non vedere). (da sé; parla di don Fabio)
FAB.                      Ehi staffiere. (viene un Staffiere miserabile)

SAN.                                         Sentiamo.

FAB.                      Va tosto al mio palazzo.

Portami quei ritratti,

Coll'arbore dipinto

Della mia nobiltà. (Parte lo Staffiere)

(Quel villanaccio si vergognerà). (da sé)


SAN.

Lacchè. Di questa casa (Il Lacchè ritorna)

Si allarghino le porte

Perché possa passare

L'albero di don Fabio e le radici,

E i suoi ritratti con le sue cornici. (Il Lacchè parte)

FAB.

Staffier, suona la tromba;

Fa che le genti corrano di trotto

A vedere Sandrino a far casotto.

SAN.

Al casotto potrei

Tirar delle persone

Se, quale siete voi, fossi un buffone. (si alza)

FAB.

Buffone ad un par mio?

Son cavaliere.

SAN.

Un galantuom son io.

FAB.

Siete rozzo.

SAN.

Siete pazzo.

FAB.

Villanaccio.

SAN.

Ignorantaccio.

FAB.

Non mi degno.

SAN.

Se mi sdegno...

FAB.

Cospettaccio!

SAN.

Sanguinaccio!

FAB.

Malagrazia.

SAN.

Brutta faccia.

a due

Colla spada

Sulla strada

Ti prometto

Che ti aspetto,

Ed il cor ti vuò cavar. (partono)

SCENA NONA

Camera con tavola preparata con caffè, rosolini e varie bottiglie di vino.

Madama, Giacinto, Lucrezia, Don Fabio e Sandrino

MAD.                    Ecco, ecco, signori,

Il caffè, le bottiglie ed i licori.

Favorite sedere, e ognun si servi

Di quel che più gli piace. (siedono tutti)

LUC.                     Prenderò il rosolino.

GIAC.                   Ed io piuttosto un bicchierin di vino.

MAD.                    Che si serva ciascuno a suo talento.

GIAC.                   Un bicchier di Canarie

Ecco a voi, mia signora, (a Lucrezia) Ed un bicchiere a madamina ancora. A buer, a buer, allegraman. Che si beva e si canti alla santè Della bonn'amitiè.


Visage adorable, Je mour pour vous. Ah, je vous aime De tout mon cour: Vous étes la flamme De mon amour.

FAB.                      Voi che foste a Venezia,

Dove soglion cantare

Con sì bella grazina,

Diteci qualche nuova canzoncina.
MAD.                    Subito, volentieri.

GIAC.                    Che si tornino a empir prima i bicchieri. (torna a riempire i bicchieri)

MAD.                              Sia benedetto

Chi me vol ben. Pien de diletto Giubila el sen. Me sento in gringola Quando che el vien: Caro quel coccolo, Caro el mio ben.

SAN.                      Voi, Lucrezia, che siete

Nata in quel bel paese, Diteci una canzone bolognese.

LUC.                      Subito. E perché no?

Non mi faccio pregar. La canterò.

Tutt al dì dezà e de là, Vag in zir per la città, Per trovarm un bel marì. Al vui bel, e sì al vui bon, Vui che l'abbia d' bagaron, E ch'al sippia tutt per mi. Certi ominazz Birichinazz An i vui, ch'an fan per mi.

FAB.                      Io cantare non so,

Ma pure vi darò Qualche divertimento. Sono, se nol sapete, Un maestro di ballo, Di scherma e cavalletto. Venite al mio cospetto, Uomini senza pari; Venite, ignorantissimi scolari.

Ecco il famoso monsieur Coccò; Questo è quel grande monsieur Rebaltò; Gambe di ferro è questo ch'è qui. Presto ballate;


SAN.

LUC. MAD.

SAN.

MAD. LUC. GIAC. SAN.

LUC. MAD. a quattro

FAB.

MAD. LUC. GIAC. SAN.

FAB.

GIAC.

SAN.

MAD.

LUC.

FAB.

SAN.


a tre

a due

} }

a tre

}

a due

}


Franco tirate;

Presto saltate;

Che ve ne par?

Bravi scolari, vi vuò regalar.

Io, io, signore mie,

Se libertà mi date,

Voglio trattarvi come meritate.

Lacchè.

Cosa farà? Qualche cosa di bello in verità. (Viene il Lacchè colla cesta di galanterie)

Madama, a voi l'astuccio.

A voi la tabacchiera.

A voi di Londra vera

Questa ripetizion. Viva Sandrino,

Ricco sfondato,

Che ha presentato

Questo suo don. In Inghilterra

Meglio non v'ha. Tutta la terra

Meglio non ha. Oh, che gran cose

Maravigliose!

Cosa più bella,

No, non si dà. (Con un Servitore che porta i quadri) Ecco l'effigie del signor padre.

Questa è l'illustre signora madre.

Del signor nonno questo è il ritratto.

Uno per uno li vuò donar. Viva il gran padre,

Viva la madre,

E il signor nonno

Viva di cor. Belle figure!

Caricature

Non ho vedute

Certo maggior. Non vi è pennello,

No, che l'eguagli. Son da ventagli. Sono da cembali. Sono da mettere

Sotto al camin. Questo strapazzo

A me si fa? Voi siete un pazzo,

Questo si sa.


FAB.                               Taci, villano.

SAN.                               Taci, baggiano.

FAB.                               Col signor nonno

Ti accopperò. (gli vuol dare il quadro sulla testa)
TUTTI                             O che insolenza!

Che impertinenza!

Sempre si sbuffa,

Sempre baruffa.

Corpo del diavolo,

Che inciviltà! (partono)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera d'udienza.

Donna Berenice, Don Filiberto e Madama

MAD.                    Così è, figliuoli miei: la genitrice

Di donna Berenice

Acconsente alle nozze, e voi potete

Dispor come volete. (a Filiberto)
FIL.                        Per me di Berenice

Quando il cor sia contento,

Sono pronto a sposarla in sul momento.
BER.                      Rimessa è in voi la volontade mia. (a Madama)

Tutto quello farò che vuol mia zia.
MAD.                    Su dunque; in mia presenza

Porgetevi la mano

Senz'altri testimoni,

Come in scena si fanno i matrimoni.
FIL.                        Ecco la destra.

BER.                                              E colla destra il core.

MAD.                    Bravi, bravi davver! viva l'amore!

Le nozze questa sera

Farem compitamente

Nella festa da ballo allegramente.
BER.                      Sarà il piacer più caro,

Sarà il piacer compito,

Ora che Filiberto è mio marito.
MAD.                    E voi siete contento?

FIL.                                                         In verità,

Alla vostra bontà sono obbligato,

SCENA SECONDA Madama, poi Lucrezia

MAD.                    Lucrezia, cosa dite?

Berenice alla fine è maritata.
LUC.                      Povera sfortunata!

MAD.                    Perché?

LUC.                                  Perché era meglio

Che passasse l'età

Senza un simile impiccio, in libertà.

E chiamare mi posso fortunato. (parte con Donna Berenice)


MAD. LUC.

MAD.


Ma voi...

Lasciamo andare Queste corbellerie. Don Fabio con Sandrino Si son pacificati, Sono amici tornati, E credo che ciascuno si travesta Per venir mascherato sulla festa. Ne godo, in verità. Frattanto che ritornano E Giacinto e don Fabio con Sandrino, Vado a far preparar per il festino. (parte)


SCENA TERZA

Lucrezia sola.

Se vengon mascherati,

Vuò mascherarmi anch'io;

Vuò che alla turca il vestimento sia,

E imitare la lingua di Turchia.

Salamelecch,

Stara sultana;

Con ottomana

Nozze mi far. Sona tambura,

Sona trombetta,

Che fazzoletta

Turco buttar.

Salamelecch

Sempre mi far. (parte)

SCENA QUARTA

Madama, poi Don Fabio e Sandrino, vestiti da Calabresi, col calascione.

MAD.                    Parmi, se non m'inganno,

Che quei due che qui vengono,

Sian don Fabio e Sandrino mascherati.

Voglio veder se è vero,

Vuò veder se s'inganna il mio pensiero. (si ritira)

(Don Fabio e Sandrino cantano la carcioffola):

«La notte quanno dormo penzo tanto, E quanno penzo a buie, mm'addormento. Po me resveglio co no core schianto, Vado ppe tte parlare, e non te siento.

Carcioffolà.


Nenna, se te vedisse allo balcone,

Te faria na sonata alleramente;

Faccio no core com'a no pormone,

Quanno siento parlà de tte la gente.

Carcioffolà. Bello canto se potisse

La mia bella innamorà,

Co lo tuppe tappettà.

Nannianella e nanianà.

Chichirichi, carcioffolà. (partono)

SCENA QUINTA

Madama, poi Giacinto

MAD.                    Veramente è bizzarro

Il canto calabrese.
Possono divertir tutto il paese.
GIAC.                    Madama, eccomi qua;

Per dir la verità,
Ho dormito un pochino,
Ed or son lesto come un paladino.
MAD.                    Ho piacer; questa sera

Voi vi farete onore,
E potrete ballar con maggior brio.
GIAC.                    Ah madam, pour la danz non vi è un par mio.

MAD.                    Saprete molti balli.

GIAC.                                                   Anzi moltissimi.

Son ballerin perfetto.
Io ballo il minuetto alla francese,
E maestro son io nel ballo inglese.
MAD.                    Il ballare mi piace estremamente.

GIAC.                    Ballerete assai ben.

MAD.                                                    Passabilmente.

GIAC.                    Favorite, Madama,

Prima che vi esponete,
Di lasciarmi veder quel che sapete.
MAD.                    Ben volentier, signore.

Balliamo; eccomi qui.
GIAC.                                                        Fatevi onore.

(Si suona il Minuetto, e fanno la riverenza)
No, non va bene.
La riverenza,
Con sua licenza,
Si fa così.
(tornano a fare la riverenza)
Farvi maestra
Prendo l'impegno,
Quand'io v'insegno
Tre o quattro dì.
MAD.                                         Alle sue grazie


Sarò obbligata.
Perfezionata
Sarò così.
GIAC.                                        Ecco, Madama,

Pas de burrè.
MAD.                                         Codesto passo

Non è per me.
GIAC.                                        Mirate i passi

Col bilanzè.
MAD.                                         Questi fioretti

Non fan per me.
GIAC.                                        Vi si può fare

La piroletta;
Si suol usare
La caprioletta.
a due                                           Ah, che piacere,

Che bel vedere, Farsi valere

Col minuè. (fanno qualche passo)
GIAC.                               Madamina presto impara:

Voglio farla mia scolara.
MAD.                                Mi farete un gran favor.

GIAC.                               Ma scolara vorrei farvi

E nel ballo e nell'amor.
MAD.                                Io son pronta a secondarvi

Con i passi e con il cor.
GIAC.                               Io mi metto in posizione,

E vi dico ch'io v'adoro.
MAD.                                Ripetendo la lezione,

Vi dirò che per voi moro.
a due                                 Che balletto fortunato,

Se maestro il dio bendato, Fa ballare il nostro cor? Che si danzi allegramente. Giubilare il cor si sente Con il ballo e con l'amor. (partono)

SCENA ULTIMA

Salone illuminato per la festa di ballo.

TUTTI

Si fanno vari Minuetti ed altri balli a piacere; dopo di che si termina col seguente

CORO

E qui la nostra Conversazione Per questa sera terminerà; E chi avrà avuto soddisfazione, Contento a casa se ne anderà.


FIL.

BER.

MAD.

GIAC.

FAB.

SAN.

LUC.


Io son contento con Berenice. Con Filiberto sarò felice.

} adue   Noicisposiamofrasuoniecanti.

} atre   Cirallegriamocontuttiquanti.

TUTTI Preghiamo a tutti, con lieto cor, Perfetta pace, perfetto amor.

Fine del Dramma.