La dama prudente

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Carlo Goldoni

La dama prudente


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La dama prudente

AUTORE: Goldoni, Carlo

TRADUTTORE:

CURATORE: Ortolani, Giuseppe

NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: "Tutte le opere" di Carlo Goldoni; a cura di Giuseppe Ortolani; volume 3, seconda edizione; collezione: I classici Mondadori; A. Mondadori editore; Milano, 1955

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 giugno 2003

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

Alberto Barberi, barberi.a@e-text.it

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LA DAMA PRUDENTE

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnovale dell’anno

1751.

A SUA ECCELLENZA

LA NOBILE DONNA MARINA

SAGREDO PISANI

Che dirà il Mondo di me, Nobilissima Dama. una Commedia mia veggendomi al venerabile Nome Vostro arditamente raccomandare? Ammireranno i più docili la benignità e la clemenza, onde accogliermi sotto il Patrocinio Vostro non isdegnate; e imputeranno a temerità mia gl’indiscreti un simile avanzamento. Vadano pure a declamare ad altissima voce per le botteghe contro di me non solo, ma entro quelli ancora che delle opere mie si compiacciono, maltrattando la Commedia in genere, le mie biasimando in specie. Non verrà ad essi fatto di screditarmi con tutto lo sforzo dell’arte loro oratoria. Il Nome grande dell’E. V. basterà ad avvilirli; poiché quantunque imperfette sieno le mie, Commedie, quando sofferte sono ed ascoltate da una Dama di tanto sapere e di sì ottimo gusto fornita, può ciaschedun altro imputare a se medesimo la noia che ne risente.

Iddio ha collocato l’E. V. in un posto luminoso, onde risplender possano le di Lei virtù. La Famiglia Sagredo, dov’Ella è nata, quella de’ Pisani, dov’è collocata, sono delle più antiche, delle più illustri e delle più doviziose della repubblica. Rimasta Ella vedova in età verde ancora, diè prove assai manifeste della più rara prudenza, vegliando all’educazione dell’unico suo figliuolo, in cui della Repubblica Serenissima riposano le più giulive speranze. Molto promette in vero il nobilissimo pargoletto, ripieno di quello spirito che ammirasi nell’alta sua Genitrice, e che col tempo lo renderà di tutte le di Lei virtù imitatore e partecipe. Infiniti sono i pregi che adornano l’E. V., né vaglio io a descriverli, né d’uopo è farlo in una Città che li conosce, li venera, e fa di essi sua gloria; ma siami lecito almeno far parola così di volo d’una virtù, che in voi fra le altre risplende, siccome il sole tra l’infinito numero delle stelle. Questa è la preziosa umiltà di cuore, regolata dalla prudenza, la quale, senza togliere il suo diritto alla Nobiltà, odia il soverchio fasto, e si fa padrona de’ cuori.

La superbia è la passione più ingannevole di tutte l’altre, privando ella medesima di quel bene, che col mezzo lusinga gli uomini di conseguire. Fa torto a se medesimo chi mendica dall’alterigia il rispetto; ed è un tesoro maggiore di tutti gli altri, possedere l’amore delle persone, e lodare la Provvidenza che abbia sì bene i doni suoi collocati.

Chi più dell’E. V. ragione avrebbe d’insuperbire per la nascita, per la ricchezza e per la virtù medesima? Ma quest’ultimo fregio, quello è che, a fronte degli altri due, mantiene nell’animo vostro una esemplare moderazione, onde sì bene sostener sapete il decoro del grado vostro sublime, ed usare insieme atti d’umanità, di benignità e gentilezza cogli inferiori medesimi. Questi accrescer non possono la grandezza vostra, ma si consolano che in voi risplenda, e degna vi conoscono di possederla.

Io, più degli altri misero di talento e di fortuna, appena ebbe l’onore di presentarmi a V. E., conobbi la giustizia che tutto il Mondo vi rende, e per quell’abito che fatto mi sono di scandagliare gli animi delle persone, ho trovato nell’E. V. virtù vera, virtù singolare, che anima, che consola, e che a me medesimo diè coraggio di offerirvi coll’umilissima servitù mia questa fortunata opera della mia penna. La Dama Prudente è un argomento che a Voi perfettamente conviene. Vero è che le contingenze di Donna Eularia sono stravagantissime, e dalla situazione vostra remote; ma la Prudenza è sempre la virtù medesima, in qualunque circostanza ritrovisi; e nel dedicare all’E. V. questa Commedia ho avuto in animo di scegliere un argomento, che vaglia più di qualunque altro a piacervi. Se tale avventura posso, promettermi, felice me, e felicissimo me oltremodo, se mi concedete l’onore di poter essere, quale con profondissimo ossequio mi sottoscrivo, Di Vostra Eccellenza

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni

L’AUTORE A CHI LEGGE

Se noi leggiamo le Opere degli antichi, vedremo nelle Tragedie gli eroi dipinti: i Re, i Principi, i capitani, o biasimati, o esaltati; e nelle Commedie loro i schiavi, i servi, la bassa plebe, o al più qualche mercantuzzo, o qualche povero cittadino introdotti. Quel rango di personaggi, che in ogni tempo tenuto ha il luogo fra l’ordine della sovranità e quello del volgo, vale a dire quelle persone che nobili noi chiamiamo, o per nascita, o per dignità, o per fortuna, non avevano parte sopra le scene antiche, ed Aristofane, che contro il filosofo Socrate e contro il tragico poeta Euripide nelle sue Commedie satirizzava, facevalo con allegorie e con misteri. Don Lopez de Vega, don Pietro Calderone, spagnuoli, hanno persone nobili nelle Commedie introdotte, ma queste unicamente all’intreccio servir facevano, nulla delle loro virtù e dei loro vizi trattando, limitato ai servi il ridicolo, ed al loro Grazioso principalmente, che corrisponde all’Arlecchino degli Italiani.

Moliere è stato il primo, che tratto abbia il ridicolo dai Marchesi, dai cortigiani, dalle persone di qualità, e il suo novello ardire, spalleggiato dalla protezione di un Re, che lo eccitava non solo, ma fra i soggetti della sua Corte gli additava i più comici e i più originali, produsse de’ buoni effetti, e furono le sue Commedie ottime e fortunate lezioni. Correva nel passato secolo in Parigi un fanatismo di letteratura ridicola, fra le donne nobili principalmente; e gli uomini le secondavano, adulandole per compiacenza, onde le conversazioni loro erano accademie d’errori, i quali si estendevano sino agli articoli di Religione. Le Donne sapienti e Le Preziose ridicole furono le due Commedie che un tale abuso corressero. Vidersi così al vivo dipinte le donne di tal carattere, e tanto il ridicolo del costume loro compresero, che in poco tempo abbandonarono la vanità de’ studiati ragionamenti, conobbero il loro inganno, e cambiarono in più adatti trattenimenti le tesi, le poesie ed i sofismi. Con un sì bell’esempio dinanzi agli occhi, ogni comico scrittore si fece lecito di far lo stesso; in fatti, sendo la Commedia un’immagine della vita comune, il fine suo dev’essere di far vedere sul Teatro i difetti de’ particolari, per guarire i difetti del pubblico, e di correggere le persone col timore di esser poste in ridicolo. Di un sì gran benefizio devono tutti gli ordini essere a parte, e siccome nel fare altrui una correzione, dee l’uomo saggio servirsi delle ragioni e dei termini al grado ed alla condizione delle persone più convenevoli, difficilmente avverrà che si corregga il nobile di quel vizio, che vede essere in un plebeo deriso, o perché i modi della derisione non sieno alla delicatezza sua convenienti, o perché in sé creda esser lecito ciò che nell’inferior si condanna.

Necessario è, al parer mio, che uno scrittor di Commedie tragga da tutti gli ordini delle opere sue gli argomenti, e niuno può di ciò lagnarsi, quando la critica sia generale, e non arrivi la temerità dell’Autore a dipingere una persona in modo che possa essere riconosciuta.

Molto meno di me, spero, si lagneranno le genti, poiché non solo cerco di porre i vizi generalmente in ridicolo; ma studio mio particolare si è di esaltar le virtù e queste nelle persone nobili spezialmente, siccome quelle che, per la nascita e per la educazione, le fanno maggiormente risplendere.

Nella presente Commedia mia piacemi di porre in veduta la prudenza di una consorte nobile, angustiata da un marito geloso. La gelosia è una passione comune a tutti gli ordini delle persone, siccome è comune a tutti l’amore. Ma quest’amore violentato, sospettoso, inquieto, varia gli effetti suoi, secondo la varietà delle persone che amano. L’uomo di basso rango, se ha gelosia della moglie, non trovasi da soggezione stimolato a celare la sua debolezza. Comanda con libertà alla sua sposa, le vieta francamente di conversare, e se in occasione ritrovisi di aver sospetto, non cerca dissimularlo, e non ha difficoltà di sfogare la sua passione anche con uno schiaffo alla moglie. Non così pensano i mariti di condizione. Devono alle convenienze, alla civiltà, al costume sagrificare moltissimo; ed un povero geloso, che si vergogni d’esserlo, parmi un carattere assai ridicolo sulle scene, ed è in uno stato che merita di essere consigliato e soccorso. Ma siccome a pochi, e forse a nessuno, confida egli la sua passione, e niuno ardisce favellargli della sua debolezza, qual altro miglior mezzo potrebbe egli avere per ispecchiarsi e correggersi, oltre quello d’una Commedia? Voglia Dio che ciò segua in alcuno dei spettatori, che bisogno ne avesse; ma voglia Dio altresì, che nella Dama Prudente si specchino tante mogli, che non potendo soffrir in pace le gelosie del marito, mantengono una perpetua guerra domestica, e per vendetta de’ suoi sospetti, gliene recano de’ più violenti.

A questo fine non ho io intitolata questa Commedia: Il Marito geloso, ma La Dama prudente, acciò più del ridicolo di un Marito, spiccasse la virtù d’una Moglie, e servisse ella di specchio, di consiglio e di norma a chi nel di lei caso per sua fatalità si trovasse.

Personaggi

Donna EULARIA dama prudente;

Don ROBERTO suo marito;

Il marchese ERNESTO;

Il conte ASTOLFO;

Donna RODEGONDA moglie del giudice criminale;

Donna EMILIA dama abitante in Castello;

COLOMBINA cameriera di donna Eularia;

ANSELMO maggiordomo di don Roberto;

Un PAGGIO di donna Eularia;

Uno STAFFIERE di donna Eularia;

Un CAMERIERE di donna Rodegonda;

Un SERVITORE del Marchese.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di donna Eularia.

Colombina che sta facendo una scuffia, ed il paggio.

COL. Paggio, fatemi un piacere, datemi quelle spille.

PAGG. Volentieri, ora ve le do. (le va a prendere da un tavolino)

COL. Non vi è cosa che mi dia maggior fastidio, quanto il far le scuffie. Poche volte riescono bene. La mia padrona è facile da contentare; non è tanto delicata, ma se va in conversazione, subito principiano a dire: Oh, donna Eularia, quella scuffia non è alla moda. Oh, quelle sale sono troppo grandi! La parte diritta vien più avanti della sinistra. Il nastro non è messo bene; chi ve l’ha fatta? La cameriera? Oh, che ignorante! Non la terrei, se mi pagasse. Ed io non istarei con quelle sofistiche, se mi facessero d’oro.

PAGG. Eccovi le spille.

COL. Caro paggino, venite qui. Sedete appresso di me. Tenetemi compagnia.

PAGG. Sì, sì, starò qui con voi, giacché la padrona mi ha mandato via dall’anticamera, e mi ha ordinato non andare, se non mi chiama.

COL. Ha visite la padrona?

PAGG. Oibò: vi è il padrone in camera con esso lei.

COL. Sì sì, vi è il padrone, e vi hanno mandato via? Ho capito.

PAGG. Io so perché mi hanno mandato via.

COL. Oh, vi avranno mandato via, perché quando marito e moglie parlano insieme, il paggio non ha da sentire.

PAGG. Non parlavano. (ridendo)

COL. Che cosa facevano?

PAGG. Il padrone gridava.

COL. Con chi gridava?

PAGG. Colla padrona.

COL. E ella che cosa diceva?

PAGG. Ella parlava piano, e non potevo intendere. Solo sentivo che gli diceva: Dite piano, non vi fate sentire dalla servitù.

COL. Ma il padrone perché gridava?

PAGG. Diceva: Sia maladetto quando mi sono ammogliato.

COL. (Che diavolo di uomo! Impazzisce per la gelosia, ed ha una moglie prudente, che è lo specchio dell’onestà e della modestia). (da sé)

PAGG. Oh! ho sentito da lei queste parole: Non anderò in nessun luogo, starò in casa; e il padrone ha risposto: Alla conversazione bisogna andare.

COL. (Sì, sì, è vero. Vuol ch’ella vada alla conversazione, permette che riceva visite, che si lasci servire, e poi more, e spasima, e la tormenta per gelosia). (da sé)

PAGG. Oh, questa è bella. Sentite cosa le ha detto: Voi, dice, vi fate bella per piacere alla conversazione.

COL. Ed ella che cosa ha risposto?

PAGG. Non ho potuto sentire. Non mi ricordo un’altra cosa... e sì era bella... Oh sì, ora mi sovviene. Dice: Non voglio che andiate tanto scoperta. La padrona si è messa a ridere; e il padrone si è cavata con rabbia la parrucca di testa, e l’ha gettata sul fuoco.

COL. Oh bello! Oh caro!

PAGG. Io ho veduto questa bella cosa dalla portiera, e mi son messo a ridere forte forte. La padrona mi ha sentito, e mi ha cacciato via.

COL. In verità, si sentono delle belle cose.

PAGG. Io ho paura che il padrone diventi pazzo.

COL. Se non avesse per moglie una dama prudente, a quest’ora sarebbe legato.

PAGG. Ma che diavolo ha?

COL. Non lo so.

PAGG. Ho sentito a dir ch’è geloso.

COL. Chi ve l’ha detto?

PAGG. Che cosa vuol dir geloso?

COL. Non lo sapete?

PAGG. Io no.

COL. Tanto meglio.

PAGG. Cara Colombina, ditemi. Cosa vuol dire?

COL. (È meglio deluderlo, per non tenerlo in malizia). (da sé) Geloso vuol dir gelato, che ha freddo.

PAGG. E cos’è quella cosa che il padrone vuole che la padrona tenga coperta?

COL. La testa, acciocché non si raffreddi. (Questi ragazzi vogliono saper tutto). (da sé) Ecco la padrona.

PAGG. Non gli dite nulla di quello che vi ho detto.

COL. No no, non dubitate.

PAGG. Ascolterò e vi racconterò tutto.

SCENA SECONDA

Donna Eularia e detti.

EUL. Che cosa fate qui voi? (al Paggio)

PAGG. Mi ha mandato via dall’anticamera.

EUL. Questo non è il vostro luogo. In camera delle donne non si viene.

COL. Mi ha portato le spille; è venuto ora.

EUL. Le spille andatele a prender voi. Animo, via di qua.

PAGG. Posso andare in anticamera?

EUL. Andate in sala.

PAGG. (In quella sala ci si muore di freddo). (da sé)

EUL. A chi dico io? (al Paggio)

PAGG. Signora, io son geloso.

EUL. Come geloso?

PAGG. Sono geloso, come il padrone.

EUL. Come? Che vuol dire questo geloso?

PAGG. Signora, domandatelo a Colombina.

EUL. Colombina, che cosa dice costui? È geloso?

COL. Eh, non gli badate, signora. Geloso intende per gelato, che ha freddo.

PAGG. Me l’ha detto Colombina.

EUL. Tu l’hai detto? (a Colombina)

COL. Eh, che quel ragazzo non sa che cosa si dica. (Mai più parlo con ragazzi). (da sé)

EUL. Animo, via di qua. (al Paggio)

PAGG. E ho d’andare in sala?

EUL. Sì, in sala, dove comando.

PAGG. (Questa volta butterei via la parrucca, se l’avessi, come ha fatto il padrone). (parte)

EUL. Che cos’è quest’imbroglio di geloso, di freddo, di mio marito? Che cosa dice colui?

COL. Non lo sapete, signora? I ragazzi parlano a caso.

EUL. Ha forse detto qualche cosa di mio marito?

COL. Oh niente, signora, niente.

EUL. Questa mattina mio consorte è di cattivo umore. L’ha col fattore, l’ha col sarto, l’ha col parrucchiere. Basta dire che ha gettato una parrucca sul fuoco.

COL. Sì sì, il paggio me l’ha detto. (ridendo)

EUL. (Ecco, il paggio ha parlato). (da sé) Orsù, Colombina, bada bene che i fatti miei non si sappiano fuori di casa, perché me ne renderai conto.

COL. Se tutti fossero fedeli come me, potreste viver quieta.

EUL. Hai terminata quella scuffia?

COL. Sì signora, l’ho terminata. Anderà bene.

EUL. Sì sì, anderà bene. Va a stirare la biancheria.

COL. Cara signora, mi parete turbata.

EUL. Lasciami stare.

COL. Viene il padrone.

EUL. Va a fare quello che ti ho detto.

COL. Vado subito. (parte)

SCENA TERZA Donna Eularia, poi don Roberto.

EUL. Con mio marito non so quasi più come vivere. Io l’amo, lo venero e lo stimo, ma mi tormenta  a segno che mi mette alla disperazione.

ROB. Vi occorre nulla da me? Vado via.

EUL. Andate e tornate presto.

ROB. Vado dal gioielliere, per assicurarmi se sia terminato il vostro gioiello.

EUL. Se non uscite che per questa sola cagione, potete restare in casa.

ROB. Con questa occasione farò chiamare il sarto, e lo minaccerò ben bene, se non vi porta il vestito nuovo.

EUL. Che importa a me di averlo così resto?

ROB. Anderete alla conversazione, e ho piacere che abbiate un vestito nuovo.

EUL. Io sto volentieri in casa; alla conversazione posso far a meno di andarvi.

ROB. Siete stata invitata, dovete andare.

EUL. Posso mandare a dire che mi duole il capo.

ROB. Oh! non facciamo scene, andate.

EUL. Che importa a voi ch’io vada o non vada?

ROB. Se non andate, si dirà che io non vi ho voluto lasciare andare per gelosia.

EUL. Dunque si sa che siete geloso.

ROB. Io geloso? Mi maraviglio di voi. Mi volete far dare al diavolo un’altra volta? Non sono mai stato geloso, non lo sono e non lo sarò. (alterato)

EUL. Via, via, scusatemi, non lo dirò più.

ROB. Non voglio né che lo diciate, né che lo pensiate.

EUL. Non mi date delle occasioni...

ROB. Che occasioni vi do io? Che occasioni?

SCENA QUARTA

Il PAGGIO e detti.

PAGG. Un’ambasciata.

ROB. Non sono geloso; e chi dice che io son geloso, giuro al cielo, me la pagherà.

PAGG. Signore, io non lo dirò più.

ROB. Che cosa non dirai?

EUL. Taci. (al Paggio)

ROB. Voglio sapere che cosa è quello che non dirai. (al Paggio)

PAGG. Non dirò più che siate geloso.

EUL. Non gli badate... (a Roberto)

ROB. Come? Tu dici che io son geloso?

PAGG. L’ha detto Colombina.

ROB. Colombina? Dov’è Colombina? (furioso)

EUL. Ma quietatevi un poco. Sentite che cosa intende di dire il paggio con questa parola.

ROB. Che cosa intendi di dire?

PAGG. Dico, signore, che ho un’ambasciata da fare alla padrona.

EUL. Spiegati prima circa la parola geloso.

ROB. Un’ambasciata alla padrona? Da parte di chi?

PAGG. Da parte del marchese Ernesto.

ROB. (Il marchese Ernesto!) (da sé)

EUL. Oh, m’infastidisce con queste sue ambasciate.

ROB. Ebbene, che cosa vuole? (al Paggio)

PAGG. Or ora sarà a farle una visita.

EUL. Chi ha egli mandato? (al Paggio)

PAGG. Il suo servitore.

EUL. Ditegli che mi scusi; per oggi non posso ricevere le sue grazie.

ROB. Perché non lo volete ricevere?

EUL. Che volete ch’io faccia delle sue visite? Io sto volentieri nella mia libertà.

ROB. Via, via, frascherie. Ditegli ch’è padrone. (al Paggio)

PAGG. Mi gridano perché dico geloso? Non ho mai saputo che aver freddo sia vergogna. (parte, e poi torna)

EUL. Ma voi, signore, mi volete far fare tutte le cose a forza.

ROB. Non voglio che commettiate atti d’inciviltà.

EUL. Ricever visite non è obbligazione.

ROB. Il marchese Ernesto è un cavaliere mio amico: ci siamo trattati prima ch’io prendessi moglie; ho piacere che mi continui la sua amicizia e che faccia stima di voi; se avete ad essere... che so io... servita di braccio, piuttosto da lui, che da un altro.

EUL. Ma io non mi curo d’essere servita da nessuno.

ROB. Oh, che volete si dica nelle conversazioni? Che non vi fate servire, perché avete il marito geloso? Questo nome io non lo voglio; non mi voglio render ridicolo.

EUL. Non potete venir voi con me?

ROB. Oh via! Diamo nelle solite debolezze. Voi mi volete rimproverare di cose che io non mi sogno. Orsù, ci siamo intesi; io vado via, se viene il Marchese, ricevetelo con buona grazia.

EUL. Trattenetevi un poco. Aspettate ch’ei venga. Se vi trova in atto di uscir di casa, può essere che faccia a me un piccolo complimento, e abbia piacere di venir con voi.

ROB. Non posso trattenermi. L’ora vien tarda. Donna Eularia, a rivederci. State allegra e divertitevi bene.

PAGG. È qui il signor Marchese per riverirla. (a Eularia)

EUL. A voi, che dite? (a Roberto)

ROB. Passi, è padrone. (Paggio parte)

EUL. Lo ricevo, perché voi volete così.

ROB. È cavaliere, ed è mio amico.

EUL. Ha un temperamento troppo igneo. Prende tutte le cose in puntiglio. Io non lo tratto volentieri.

ROB. Sì sì, ho capito. Vi piace più la flemma del conte Astolfo.

EUL. Io non cerco nessuno. A me piace la mia libertà.

ROB. Ecco il Marchese: gli do il buon giorno, e subito me ne vado.

SCENA QUINTA

Il marchese Ernesto e detti.

MAR. Signora, a voi m’inchino.

EUL. Serva divota.

MAR. Amico. (a Roberto)

ROB. Ecco, mi trovate in un punto che io esco di casa. Vi ringrazio della finezza che fate a mia moglie, onorandola delle vostre visite.

MAR. Signora, come state voi di salute?

EUL. Benissimo, a’ vostri comandi.

MAR. Troppo gentile. Come avete riposato la scorsa notte?

EUL. Perfettamente.

MAR. Me ne rallegro.

EUL. Favorite, accomodatevi.

MAR. Amico, e voi non sedete? (a Roberto)

ROB. No, Marchese, perché parto in questo momento.

MAR. Accomodatevi, come v’aggrada. (siede vicino assai ad Eularia)

ROB. (Parmi insegni il Galateo, che non convenga al cavaliere sedere tanto vicino alla dama). (da sé)

MAR. Ieri sera, signora mia, sono stato sfortunato: ho perso al faraone.

EUL. Me ne dispiace infinitamente. Via, caro don Roberto, non istate in piedi: sedete ancor voi.

ROB. Perché volete ch’io sieda? Non lo sapete che ho a uscir di casa? Mi fareste venir la rabbia. (alterato)

MAR. Caro amico, se la moglie vi brama vicino, è segno che vi vuol bene.

ROB. Non posso soffrir queste donne, che vorrebbero sempre il marito vicino. A me piace la libertà.

MAR. Questo è il vero vivere. Ognuno pensi  a se stesso.

ROB. Amico, a rivederci. (andando dalla parte di donna Eularia, in atto di partire)

MAR. Vi sono schiavo.

ROB. Donna Eularia, tocchiamoci la mano.

EUL. Sì, volentieri.

ROB. (Stando così vicina a quella sedia, vi rovinate il vestito). (piano toccandole la mano) Oh, a rivederci. (forte)

EUL. A pranzo venite presto: con permissione. (si scosta dal Marchese)

ROB. Veramente è un gran mobile! Gran debolezza donnesca rispetto agli abiti! Caro Marchese, compatitela.

MAR. Io chiedo scusa se inavvertentemente...

ROB. Oh, a rivederci.

MAR. Addio, don Roberto.

ROB. Vado via... Se venisse il fattore... eh, non importa. Sentite... basta, tornerò, tornerò. (dubbioso fra l’andare e il restare, poi parte, indi torna)

MAR. Signora donna Eularia, ieri sera speravo vedervi alla conversazione.

EUL. Ieri sera sono restata in casa.

MAR. Avrete avuta qualche compagnia grata, che vi avrà trattenuta.

EUL. Sono rimasta sola, solissima.

MAR. Sarà come dite; ma non si è veduto nemmeno il conte Astolfo, e tutti hanno giudicato ch’egli fosse con voi.

EUL. Non è vero assolutamente. Vi dico ch’io sono restata sola. (torna Roberto)

ROB. Signora donna Eularia, avete vedute le chiavi del mio scrittoio?

EUL. No certamente.

ROB. Non le trovo in nessun luogo.

EUL. Avete ben guardato?

ROB. Sì, ho guardato, e non le trovo.

EUL. Aspettate, guarderò io. Con licenza, signor Marchese, perdoni. (s’alza)

ROB. Oh, chi vi ha insegnato le convenienze? Si lascia un cavaliere per cercar una chiave? Restate, restate, la cercherò io. Marchese, compatite. (parte)

EUL. (Quest’uomo ha dei sospetti). (da sé)

MAR. Onde, signora, qualche cosa si è detto sul proposito vostro e del conte Astolfo.

EUL. Non credo che la mia condotta possa dar motivo di mormorazioni.

MAR. È verissimo, ma siccome io sono stato il primo che ha avuto l’onor di servirvi, da che vi siete fatta la sposa, pare ch’io mi sia demeritata la vostra grazia, e le dame mi pungono su questo punto.

EUL. Io ho ricevuto le vostre grazie per l’amicizia che passa fra voi e mio marito, e per la stessa

ragione non ho potuto ricusar le finezze del conte Astolfo. Di ciò non mi potete aggravare.

MAR. Capperi, signora donna Eularia, non vi lasciate servire che per commissione di vostro marito?

EUL. Sì signore, così è. Non mi vergogno a dirlo, e non mi pento di farlo. (ritorna Roberto)

ROB. Ma queste maladette chiavi io non le trovo.

EUL. Quanto volete scommettere, che se io le cerco, le troverò?

ROB. Se non le trovo sono imbrogliatissimo.

EUL. Caro Marchese, datemi licenza. Le voglio cercar io. (s’alza)

MAR. Accomodatevi pure.

EUL. (Anderò via, e sarà finita). (da sé)

ROB. Marchese mio, mi dispiace infinitamente. Cercatele e tornate presto.

EUL. (Oh, non ci torno più). (da sé)

SCENA SESTA

Il PAGGIO e detti.

PAGG. Signora, il conte Astolfo vorrebbe riverirla.

EUL. Ora con queste chiavi perdute, non so come riceverlo.

ROB. (Ho piacere che venga il Conte. È meglio ch’ella resti con due, che con uno). (da sé)

EUL. Potete dirgli l’accidente di questa chiave, e che mi scusi. (a Roberto)

MAR. Anch’io vi leverò l’incomodo.

ROB. Oh, fermate. Ecco la chiave, l’ho ritrovata. Era nel taschino dell’orologio, dove non la metto mai. Accomodatevi, accomodatevi: digli che passi, ch’è padrone. (al Paggio che parte subito,poi ritorna)

MAR. Signora donna Eularia, vi solleverò del disturbo.

EUL. Siete padrone di accomodarvi come vi aggrada.

ROB. Favorite restare. Favorite bevere una cioccolata. Ecco il Conte.

SCENA SETTIMA

Il conte Astolfo e detti.

CON. Faccio riverenza alla signora donna Eularia. Amico, vi sono schiavo. (lo salutano)

ROB. Caro Conte, è molto tempo che non vi lasciate vedere. Lo dicevamo appunto stamane con donna Eularia. Il conte Astolfo non si degna più, non favorisce più.

CON. Sono molto tenuto alla generosa memoria, che si degna avere di me una dama di tanto merito.

ROB. Chi è di là? Un’altra sedia. (il Paggio la mette vicino a donna Eularia) Qui, qui, accomodatevi. (al Conte, e destramente scosta la sedia da donna Eularia)

CON. Riceverò le vostre grazie. (siedono)

MAR. (Questo servire in due non mi piace). (da sé)

ROB. Amici, vi sono schiavo, vado per i fatti miei. Donna Eularia, a rivederci. (Ora ch’è in compagnia di due, la lascio più volentieri). (da sé e parte)

MAR. Conte, che vuol dire che ieri sera non vi siete lasciato vedere alla conversazione?

CON. Avevo un affar di premura e sono restato in casa.

MAR. Oh, ieri sera dominava lo spirito casalingo. Anche donna Eularia è restata in casa.

EUL. Sì, ci sono stata volentierissimo, e in avvenire mi volete veder poco alla conversazione.

MAR. Conte, sentite? Donna Eularia si lascerà veder poco alla conversazione.

CON. Se ci date il permesso, verremo a tenervi compagnia in casa.

EUL. In casa mia sapete ch’io non faccio conversazione.

CON. Una veglia di due o di tre persone non si chiama conversazione.

MAR. Di due o tre! Sì, è meglio di due, che di tre. Donna Eularia, che ama la solitudine, starà meglio con uno che con due. Il signor Conte sarà la sua compagnia.

EUL. Il signor conte non vorrà perder il suo tempo in una camera piena di malinconia.

CON. Dove ci siete voi, signora, il tempo è sempre bene impiegato.

MAR. Non è per tutti la grazia di donna Eularia.

EUL. È vero, non è per tutti, anzi non è per nessuno.

MAR. Il Conte non può dir così.

EUL. Il Conte può dire tutto quello che potete dir voi.

MAR. Conte, difendete voi le vostre ragioni. Sentite? Donna Eularia vi mette al par di me nel possesso della sua grazia. Tocca a voi sostenere il privilegio che avete di possederla al disopra di tutti gli altri.

CON. Anzi toccherebbe a voi a difendere la ragione dell’anzianità, poiché l’avete servita prima d’ogni altro.

MAR. Questi privilegi del tempo non vagliono sul cuor di una dama, che può dispor di se stessa.

EUL. Signori miei, ve la discorrete fra di voi, come se io non avessi ad aver parte in questo vostro ragionamento.

MAR. Questo è quello che dico io. Voi siete quella che può decidere, e che ha deciso.

EUL. Ho deciso? E come?

MAR. A favore del Conte.

CON. Marchese, voi mi fate insuperbire.

EUL. Marchese, voi mi formalizzate.

MAR. Quando si tocca sul vivo, la parte si risente.

EUL. Orsù, tronchiamo questo ragionamento.

CON. Sì, discorriamo di cose allegre.

MAR. Per discorrere di cose allegre, conviene aver l’animo contento, come avete voi, che possederete il cuore di donna Eularia.

EUL. Il mio cuore l’ho disposto una volta. Egli è di don Roberto, e vi giuro che non gliene usurpo una menoma parte.

MAR. Oh, altro è il cuor di moglie, e altro è quello di donna.

CON. Credete voi che le donne abbiano due cuori?

MAR. Sì, tre, quattro.

CON. Dunque donna Eularia ne può avere uno anche per voi.

EUL. Eh signori, che maniera di parlare è questa? Con chi credete voi di discorrere? Le dame si servono, ma si rispettano; dirò meglio, si favoriscono, e non si oltraggiano. Una dama che ha il suo marito, non può ammettere niente di più, oltre una discreta, onesta e nobile servitù. Il mondo presente accorda che possa essere una moglie onesta servita più da un che dall’altro, ma non presume che il servente aspiri all’acquisto del cuore. Io farei volentieri di meno di questa critica accostumanza, e mi augurerei aver un marito geloso, il quale me la vietasse. Ma don Roberto è cavaliere che sa vivere e sa conversare. Soffre volentieri che due amici suoi favoriscano la di lui moglie, ma non gli cade in pensiero che si abbiano a piccare di preferenza, in una cosa che non deve oltrepassare i limiti della cavalleria. Se a me riesce scoprire qualche cosa di più, saprò regolarmi, signori miei, saprò regolarmi, e per evitare l’avanzamento delle vostre ridicole pretensioni, troverò la maniera di congedarvi, senza disturbare la pace di mio marito. Mi può mancare il talento e lo spirito per comparir disinvolta in una conversazione, ma non la necessaria prudenza per tutelare il decoro della mia famiglia, e far pentire chi che sia d’aver temerariamente giudicato di me.

CON. Signora, io non so d’avermi meritato un sì pungente rimprovero.

EUL. Lo applichi a se stesso chi più lo merita.

MAR. Via, via, lo merito io, ma non abbiate pena di ciò. Perché non abbiano a molestarvi le nostre gare, sarò pronto a cedere e a ritirarmi.

SCENA OTTAVA

Don Roberto e detti.

ROB. Eccomi di ritorno.

EUL. Avete fatto benissimo. Questi cavalieri vogliono partire...

MAR. Sì, io parto, ma non il Conte.

ROB. (Il Conte resta? Per qual motivo?) (da sé)

EUL. Avrete avuto il gioiello: con licenza di questi signori me lo lascerete vedere.

ROB. Non sono arrivato sino alla bottega del gioielliere, poiché ho incontrato un bracciere di donna Rodegonda, che veniva alla volta di questa casa.

EUL. Che vuole donna Rodegonda?

ROB. Ci aspetta da lei a bevere la cioccolata.

EUL. Non abbiamo a vederci seco lei questa sera?

ROB. È giunta in casa sua una dama forestiera, che ha piacere di farci conoscere. Andiamo.

EUL. Quando volete così, andiamo. Signori, mi permetteranno che io vada con mio marito a ritrovar questa dama. M’immagino la conoscerete. Ella è moglie del giudice criminale.

CON. Accomodatevi come v’aggrada.

MAR. La compagnia del marito non può essere migliore.

ROB. Pensate s’io voglio andar con mia moglie. Non fo di queste pazzie. Anderò innanzi a complimentare la forestiera.

EUL. Io anderò da me nella mia carrozza.

ROB. Non andate sola. Ecco, questi due cavalieri vi favoriranno

MAR. In quanto a me, dispensatemi. La servirà il Conte.

CON. Incontrerò con piacere l’onor di servirla.

ROB. (Sola col Conte? Signor no). (da sé) Eh via, Marchese, venite ancor voi da donna Rodegonda. Vedrete una dama, mi dicono, assai gentile.

MAR. Bene, verrò con voi. Vi farò compagnia a piedi.

ROB. No, no, lasciatevi servire nella carrozza. In tre ci si sta benissimo.

MAR. Nella vostra carrozza ci sono stato ancora. In tre si sta incomodi.

CON. Ebbene, signor Marchese, servite voi la dama, io anderò a piedi con don Roberto.

MAR. Volentieri, vi prendo in parola.

ROB. Eh via, Contino, andate anche voi, che ci starete bene. Voi siete piccolo; dalla parte dei cavalli state benissimo.

EUL. Signori, i vostri complimenti mi fanno perdere il tempo.

ROB. Animo andate; lasciatevi servire. (alli due)

MAR. (Conte, io vengo perché don Roberto m’incarica). (piano al Conte)

CON. (Questa giustificazione è fuori di tempo). (da sé) Favorite. (offre la mano a donna Eularia)

ROB. (osserva attentamente)

EUL. Non v’incomodate. (al Conte, guardando don Roberto)

ROB. Non ricusate le finezze di questi cavalieri. Animo, animo, alla gran moda. Uno di qua, l’altro di là.

MAR. Son qui ancor io, signora. (prendono il Marchese ed il Conte donna Eularia in mezzo,servendola di braccio in due)

ROB. (Guarda con attenzione, nascostamente)

EUL. (Mio marito freme e vuol così a suo dispetto). (da sé, e parte servita dalli due)

ROB. (L’osserva nel partire, poi chiama) Chi è di là?

SCENA NONA

Don Roberto ed il paggio.

PAGG. Signore.

ROB. Va a servire la padrona. Ehi, senti: monta sulla carrozza; osserva bene, e riportami tutte le parole che dicono.

PAGG. Tutte?

ROB. Sì, tutte.

PAGG. E se dicessero quella brutta parola?

ROB. Quale parola brutta?

PAGG. Geloso.

ROB. Come geloso? Chi è geloso? Che cosa dici? (alterato)

PAGG. No, no, non la dico più.

ROB. Ma che vuoi tu dire?... Presto, presto, la carrozza parte. Monta dinanzi, e fa quello che ho detto.

PAGG. Vado subito. (parte)

ROB. Oh mondo guasto! Oh mode insolentissime! Ecco a qui per uniformarmi al costume per non farmi ridicolo, ho da soffrire, ho da fremere, ho da crepare di gelosia, e ho da studiare di non comparire geloso. (parte)

SCENA DECIMA

Camera di donna Rodegonda.

Donna Rodegonda, donna Emilia, poi un cameriere.

RODEG. Spero, donna Emilia, che vi tratterrete qualche tempo in questa città.

EMIL. Io ci starei volentieri ma dipendo da mio marito.

RODEG. Egli non ci abbandonerà così presto.

EMIL. Sapete che una lite l’ha qui condotto, e da questa dipendono le sue risoluzioni.

RODEG. Casa mia tanto più si crederà onorata, quanto più vi compiacerete restarvi.

EMIL. Gradisco le vostre grazie, col rossore di non meritarle.

RODEG. Favorite d’accomodarvi.

EMlL. Lo faccio per obbedirvi.

RODEG. Orsù, amica, datemi licenza ch’io vi tratti secondo la mia maniera di vivere, che vale a dire schietta e libera, senza affettazioni. Casa mia è casa vostra. Trattiamoci con amicizia, con cordialità, essendo io inimicissima dei complimenti.

EMIL. Questa è una cosa che mi comoda infinitamente. Chi è avvezzo a vivere in un piccolo paese, come fo io, pena a doversi adattare ai cerimoniali delle gran città.

RODEG. Come passate il tempo nel vostro paese? Vi sono delle buone conversazioni?

EMIL. Si conversa, ma con una gran soggezione. Se uno va in casa d’una donna più di due volte, tutto il paese lo sa, si mormora a rotta di collo, e se qualche donna di spirito tratta e riceve, le altre non si curano di praticarla, credendo che la conversazione rechi dello scandalo e del disonore.

RODEG. Oh, che buone femmine saranno quelle del vostro castello!

EMIL. Buone? Se sapeste che razza di bontà regna in quelle care donnine! Salvata l’apparenza, tutto il resto è niente. In pubblico tutte esemplari: in privato, chi può s’ingegna.

RODEG. Oh, è meglio vivere nelle città grandi! Qui almeno si conversa, si tratta pubblicamente, e non vi è bisogno, per evitare lo scandalo, di far maggiore il pericolo. Gli uomini da voi saranno gelosi.

EMIL. Come bestie.

RODEG. E da noi niente.

EMIL. Oh, che bel vivere nelle gran città!

CAM. Illustrissima, è qui il signor don Roberto. (a donna Rodegonda)

RODEG. È padrone. (il Cameriere parte) Questo è un cavaliere di garbo, che ha sposata pochi mesi sono una bella dama. (a donna Emilia)

SCENA UNDICESIMA

Don Roberto e dette, poi il cameriere.

ROB. M’inchino a queste dame.

RODEG. Serva, don Roberto.

ROB. Mia moglie non è arrivata?

RODEG. Non l’abbiamo ancora veduta.

ROB. (Tarda molto a venire). (da sé)

RODEG. Don Roberto, questa dama mia amica onorerà la mia casa per qualche tempo, ed ho piacere di farla conoscere a donna Eularia.

ROB. Effetto della vostra bontà. (E non viene ancora!) (da sé) Si farà gloria mia moglie di servir questa dama. (Ma diavolo, cosa fa che non viene?) (da sé)

EMIL. Donna Rodegonda mi vuol onorare col procurarmi l’avvantaggio di rassegnare alla vostra dama la mia servitù.

ROB. Anzi la padronanza... (Bisogna dire ch’ella abbia fatto fare un gran giro alla carrozza). (da sé)

RODEG. Che avete, don Roberto?

ROB. Mia moglie dovrebbe essere arrivata.

RODEG. Perché non siete venuto in compagnia con donna Eularia?

ROB. Io colla moglie non vado mai.

RODEG. Non siete geloso?

ROB. Non patisco di questo male.

EMIL. Se foste nel mio paese, lo patireste anche voi, signore.

ROB. Che! sono gelosi gli uomini al vostro paese?

EMIL. E come! Sono insoffribili.

ROB. Qui la gelosia non si usa. Conviene uniformarsi al paese.

RODEG. È sola donna Eularia? (a Roberto)

ROB. No, è in carrozza col marchese Ernesto e col conte Astolfo.

EMIL. Con due cavalieri in carrozza?

ROB. Sì signora: vi formalizzate di ciò? Si usa.

EMIL. Oh sì, che da noi un marito lascerebbe andar la moglie in compagnia con altri!

ROB. Non la lascerebbe andare?

EMIL. Guardi il cielo!

ROB. E per questo suo modo di vivere non sarebbe criticato?

EMIL. Anzi lo criticherebbero s’ei facesse diversamente.

ROB. Signora mia, in grazia, come si chiama il vostro paese?

EMIL. Castelbuono.

ROB. (Oh Castelbuono! Oh castello ottimo! Oh castello adorabile! Ma questa mia moglie mi fa far dei lunari). (da sé)

EMIL. Verrà questa mattina donna Eularia?

ROB. Se il demonio non se la porta, verrà.

EMIL. Perché dite così?

ROB. Le ho raccomandato che venga presto, che non vi faccia aspettare, e non viene mai. Ehi, signora, al vostro paese un marito che comanda alla moglie, è puntualmente ubbidito?

EMIL. E in che maniera!

ROB. Qui non si usa così. Come si chiama il vostro paese?

EMIL. Castelbuono.

ROB. Se vengono ad abitarvi quattro delle nostre donne diventa prestissimo Castelcattivo.

CAM. Illustrissima, è qui la signora donna Eularia con due cavalieri. (a donna Rodegonda)

RODEG. Che passino. (al Cameriere)

ROB. Con due cavalieri. A Castelbuono non si usa così? (a donna Emilia)

EMIL. No certamente.

ROB. E qui si usa.

RODEG. Vi dispiace che vostra moglie sia servita? (a don Roberto)

ROB. Oh pensate! Li ho pregati io quei due cavalieri, che favorissero mia moglie.

EMIL. Voi li avete pregati?

ROB. Io, sì signora.

EMIL. Oh, questa sì a Castelbuono farebbe ridere.

ROB. Ogni paese ha i suoi ridicoli particolari.

SCENA DODICESIMA

Donna Eularia, servita dal Marchese e dal Conte, e detti. Tutti si salutano.

EUL. Serva, donna Rodegonda; m’inchino a quella dama che non ho l’onor di conoscere.

EMIL. Vostra serva divota.

RODEG. Questa è una dama mia amica, che mi ha favorito un’intera villeggiatura nel suo paese, ed ora è venuta ad onorar la mia casa.

EUL. Spero che col vostro mezzo si degnerà di onorare anche la mia.

RODEG. Favoriscano di sedere. (donna Emilia siede) Là, donna Eularia. Signor Conte, signor Marchese, non abbandonino il loro posto. (li due siedono un di qua, un di là di donna Eularia,bene uniti) Don Roberto, volete favorire in mezzo di noi due?

ROB. Io, se vi contentate, sto bene qui. (siede dalla parte di donna Rodegonda, ma non tanto vicino) MAR. Vostro marito ha paura a star vicino alle donne. (piano ad Eularia)

EUL. Mio marito è un uomo che non bada alle frascherie. (piano al Marchese)

RODEG. Don Roberto, perché state così lontano da noi?

ROB. Il rispetto che io ho per le dame, non mi permette che io le incomodi stando loro troppo vicino.

RODEG. Questa è una delicatezza affatto nuova. Favorite, venite qui. Soffrite l’incomodo del mio guardinfante.

ROB. Per questo poi, vi supplico dispensarmi. Non so come facciano il Marchese ed il Conte a soffrire sopra le loro ginocchia il guardinfante di mia moglie, e mi meraviglio che donna Eularia abbia sì poca convenienza di dar loro un sì grande incomodo.

EUL. Dice bene mio marito. Allontaniamoci un poco.

MAR. Oibò, stiamo benissimo. (la trattiene)

ROB. In verità, è una cosa curiosa. Non si distinguono le gambe del cavaliere da quelle della dama. (ride con affettazione)

CON. No, don Roberto, vi corre la dovuta distanza. (si scosta)

ROB. Oh, lo dico per ischerzo. (come sopra)

MAR. Amico, non m’imputate di malcreato. (a don Roberto, e si scosta)

ROB. L’ho detto per una facezia.

EUL. (Certamente questa cosa non vuol finir bene). (da sé)

RODEG. Amica, nel tempo che si trattiene qui donna Emilia, vi prego non abbandonarci. (a donna Eularia)

EUL. Sarò con voi a servirla.

EMIL. Io non merito tante grazie.

RODEG. Donna Emilia, ho ritrovato una dama che vi farà compagnia; tocca a voi a ritrovarvi un cavaliere.

MAR. Ecco lì don Roberto. Egli non ha alcun impegno. Sarà il cavalier servente di questa dama.

ROB. A Castelbuono non s’usano cavalieri serventi; vero, donna Emilia?

EMIL. È verissimo, non si usano.

CON. Ella avrà piacere di uniformarsi all’uso della città.

ROB. Anzi non vorrà corrompere il bel costume del suo paese.

CON. Bel costume chiamate il vivere solitario?

ROB. Io non ho mai creduto cosa buona la soggezione.

MAR. Ed io non credo vi sia piacer maggiore oltre la società.

CON. Povere donne! avrebbero da viver ritirate, neglette, instupidite?

ROB. Signora donna Emilia, come vivono le donne al vostro paese?

EMIL. Siamo poche, ma quelle poche che siamo, facciamo la vita delle ritirate. Là non si usano i cavalieri serventi...

ROB. Sentite? Non si usano i cavalieri serventi a Castelbuono. (al Conte ed al Marchese)

EMIL. Si fanno anche da noi delle conversazioni, ma i mariti vanno colle loro mogli, e guai se si vedesse comparire una donna servita da uno che non fosse o il marito, o il fratello, o il congiunto.

RODEG. Ma signori miei, avete sempre a parlare voi altri, e noi tacere? Donna Eularia, dite qualche cosa.

EUL. Io dico che mi piacerebbe moltissimo l’abitazione di Castelbuono.

EMIL. Se volete meglio concepirne l’idea, siete padrona in casa mia.

ROB. (Oh! il cielo volesse. Donna Eularia non avrebbe nemmeno il parente). (da sé)

MAR. Donna Eularia, che dite? Una dama di tanto spirito andarsi a perdere in un castello? Credo che donna Emilia medesima non l’approverebbe e cambierebbe anch’essa la bella felicità del ritiro colle nostre amabili conversazioni.

EUL. Io penso forse diversamente.

ROB. (Già, non mancano seduttori). (da sé)

CON. Sentite, se voi andaste ad abitare in un castello in meno di due mesi vi tirate dietro mezza questa città.

ROB. (Non ci mancherebbe altro). (da sé)

MAR. Donna Emilia, non ci private della nostra damina.

CON. Non ci state a rapire la nostra donna Eularia.

ROB. (Pare che sia cosa loro. Io non c’entro per niente). (da sé)

EMIL. Sono persuasa che ella non vorrà fare un sì tristo cambio.

EUL. Quanto lo farei volentieri!

MAR. Che malinconia è questa? (a donna Eularia)

CON. Che novità? che novità?

ROB. (Or ora non posso più). (da sé)

CON. Don Roberto, dite qualche cosa anche voi. Sentite che pensieri malinconici entrano nel capo alla vostra sposa.

ROB. (Freme)

MAR. Se voi vorrete partire, vi legheremo qui, vi legheremo qui. (fa il segno di legarla, e la prende per la mano)

ROB. (Non posso più). (s’alza)

RODEG. Che c’è, don Roberto?

ROB. Con vostra permissione, devo andare per un affar di premura.

RODEG. Trattenetevi un momento.

ROB. Convien ch’io vada. Non posso trattenermi.

EUL. M’immagino che vorrete andare a vedere che fa vostra zia: con licenza di queste dame, verrò ancor io.

ROB. No no, restate. Anderò io solo.

CON. Via, quando lo dice il marito, si ubbidisce. Restate con noi.

MAR. Vi legheremo qui, vi legheremo qui. (la prendono civilmente per le mani, volendola trattenere)

ROB. Signori, con vostra buona licenza.

EUL. Sentite...

ROB. Tornerò. (parte smaniando)

RODEG. (Quell’uomo ha qualche cosa per il capo). (da sé)

EUL. (Povero don Roberto, egli è all’inferno per me, e senza mia colpa). (da sé)

SCENA TREDICESIMA

CAMERIERE colla cioccolata, e detti.

MAR. Signora donna Emilia, a Castelbuono si usa la cioccolata?

EMIL. L’usano quelle persone che la conoscono.

MAR. Ma tutti non la conosceranno.

EMIL. Anzi pochissimi.

MAR. Oh che bella cosa è un castello! Che deliziosissima cosa per una dama di spirito, come la nostra carissima donna Eularia.

EMIL. Tutto sta nell’avvezzarsi.

EUL. Io mi avvezzerei facilmente.

RODEG. Certamente donna Eularia è una dama che ama piuttosto la solitudine.

CON. Anzi le piace la compagnia, quando è di suo genio.

MAR. Voi non la conoscete questa furbetta.

CON. Il Marchese la conosce perfettamente.

MAR. E il Conte non corbella.

EUL. Orsù, finiamola. Vi siete accordati tutti e due a parlar molto male. Che confidenza avete meco, che possiate parlare con tanta libertà? Per essere alla presenza di una dama forestiera, che non mi conosce, pretendete dare ad intendere che avete qualche predominio sopra il mio spirito e sopra il mio cuore? Donna Emilia, assicuratevi che questi due cavalieri sono amici più di mio marito che miei; che li tratto con tutta l’indifferenza; e che oggi è la prima volta che li sento parlar pazzamente, e sarà l’ultima ancora. Sì, sarà l’ultima, ve lo prometto.

CON. Sono mortificato. Io non so d’avervi fatta sì grande offesa.

MAR. Cara donna Eularia, vi domando perdono. Compatite uno scherzo, una bizzarria. Deh, donna Rodegonda, impetratemi voi il perdono da questa dama.

RODEG. Via, donna Eularia, non vi alterate per così poco.

EUL. Io non mi altero.

RODEG. Non siate in collera con quei poveri cavalieri.

EUL. Io non ho collera con nessuno.

RODEG. Rimetteteli nella vostra grazia.

EUL. Non posso rimetterli in un posto, dove non sono mai stati.

MAR. (Causa il Conte! Maledetto Conte!) (da sé)

CON. (Se non ci fosse il Marchese, l’aggiusterei facilmente). (da sé)

EMIL. (Oh, se a Castelbuono nascesse una di queste scene, se ne parlerebbe per un anno continuo). (da sé)

SCENA QUATTORDICESIMA

Don Roberto e detti.

ROB. (Eccoli ancora qui. La finirò io). (da sé)

RODEG. Don Roberto, ben ritornato.

ROB. Servo di lor signori.

EUL. Che ha vostra zia?

ROB. Dirò... male assai... sta per morire... Sarebbe bene che, prima ch’ella morisse, le deste anche voi la consolazione di vedervi.

EUL. Sì, dite bene; andiamola a veder subito. Donna Rodegonda, compatite. Donna Emilia, vi son serva.

RODEG. Verremo questa sera da voi.

EUL. Mi farete un onor singolare.

EMIL. Ed io sarò partecipe delle vostre grazie.

MAR. Signora, sono a servirvi.

EUL. Perdonatemi. Non mi par che convenga andare a visitare una moribonda in compagnia di gente non conosciuta.

MAR. (Ancora è sdegnata). (da sé) Perdonatemi, avete ragione.

CON. Sì signora, dite bene. In questa occasione non si va che con suo marito.

ROB. (In questa occasione). (da sé)

EUL. Don Roberto, andiamo. (gli dà la mano)

ROB. Signora donna Emilia, ecco un matrimonio all’usanza di Castelbuono. Colà sempre così, e qui in questa sola occasione. Là dicono che va bene, e qui ridono. (parte con donna Eularia)

MAR. Signora donna Rodegonda, vi leverò l’incomodo. Signora donna Emilia, all’onore di riverirvi.

RODEG. Non ci scarseggiate i vostri favori.

MAR. Questa sera avrò l’onor di riverirvi alla conversazione da donna Eularia.

RODEG. Con quella dama non conviene che vi arrischiate a parlar troppo.

MAR. Tutte le mie parole la fanno alterare. Qui il signor Conte ha la fortuna di essere meglio ascoltato. (parte)

RODEG. È vero, signor Conte?

CON. Il Marchese lo va dicendo, ma io non ho fondamento di crederlo.

RODEG. Già lo vedo, siete due rivali.

CON. La rivalità non mi dà gran pena: bastami di non essere soverchiato.

RODEG. Chi ama, non può soffrire compagni.

CON. So che amo una dama, e l’amor mio non arriva al segno della gelosia. (parte)

EMIL. (Oh che belle cose! Oh che bellissime cose!) (da sé)

RODEG. Donna Emilia, questa sera andremo alla conversazione di questa dama.

EMIL. Ci verrò con piacere. (Imparerò qualche altra cosa di bello). (da sé)

RODEG. Servitevi qui nel vostro appartamento, ch’io intanto vo a dar qualche ordine alla famiglia.

(parte) EMIL. Prendete il vostro comodo. Oh che belle cose! Oh che bellissime cose! Una donna ha due

che la servono. Il marito lo soffre, anzi ha piacere che sia servita. I serventi hanno gelosia fra

di loro: la donna li tratta e li rimprovera. Essi soffrono e non sperano niente. Non sperano

niente? La prudenza di donna Eularia non accorderà loro cos’alcuna, ma niuno mi farà credere

che i due serventi non sperino qualche cosa. (parte)

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera di donna Eularia.

Donna Eularia e don Roberto.

EUL. Che damina garbata è quella donna Emilia! In verità, mi è piaciuta assaissimo.

ROB. Certamente si vede che ella è di ottimi costumi. Convien dire che al suo paese le donne si allevino con delle buone massime.

EUL. Le buone massime s’insegnano da per tutto.

ROB. Si insegnano, ma non si osservano.

EUL. Don Roberto, voi siete malcontento. Avete qualche cosa che vi disturba.

ROB. Sempre non si può essere d’un umore.

EUL. È qualche tempo che vi vedo costante in una spezie di melanconia.

ROB. Quanto tempo sarà?

EUL. Se ho a dire il vero, mi pare da che mi avete sposato.

ROB. Eh, signora, v’ingannerete. Parerà a voi così, perché forse, dopo che siete mia moglie, mi guarderete con un altr’occhio.

EUL. In quanto a me, sono la stessa che io era prima di prendervi.

ROB. Dunque m’avrò cambiato io.

EUL. Potrebbe darsi.

ROB. Mi avete dato voi occasion di cambiarmi?

EUL. Certamente io non lo so.

ROB. Eppure, se questa mia mutazione fa più senso agli occhi vostri che ai miei, sarà perché ne troverete in voi la cagione.

EUL. Io non so d’avervi dato alcun dispiacere. Se vado alle conversazioni, se ricevo visite, siete causa voi...

ROB. Ecco qui; subito si mettono in discorso le visite, le conversazioni, come se io fossi geloso.

EUL. Non dico che siate geloso, perché non avete occasione di esserlo.

ROB. Non ho occasione di esserlo?

EUL. No certamente. In primo luogo, io non ho né bellezza, né grazia, per tirarmi dietro gli ammiratori.

ROB. Per bacco! Anche una scimia con tante diavolerie d’intorno ha da fare innamorare per forza.

EUL. Non mi pare di essere soverchiamente adornata.

ROB. Io non dico di voi. So che voi, quel che fate, lo fate per piacere a vostro marito. Dico di quelle che lo fanno per piacere agli altri.

EUL. Io non faccio...

ROB. Non parlo di voi. Vi torno a dire, le mie parole non sono dirette a voi; ma se ve le appropriate, saprete di meritarle.

EUL. Caro don Roberto, se vi pare che io non sappia ben regolarmi...

ROB. Orsù; mutiamo discorso. Mia zia sta meglio. Spero quanto prima risanerà.

EUL. Sì, sì, sta quasi bene del tutto.

ROB. Come lo sapete?

EUL. Ieri ho mandato a vedere di lei, e mi hanno fatto dire che non aveva più febbre.

ROB. Eppure questa mattina stava per morire.

EUL. Stava per morire? Poverina! (ridendo alquanto)

ROB. Come! Non lo credete?

EUL. Sì, sì, lo credo. (con bocca ridente)

ROB. Voi mi adulate. Voi credete che, col pretesto della zia, vi abbia voluto levare dalla conversazione; voi volete che io sia geloso. Maledetta la gelosia, maledetto chi lo dice, chi lo crede, chi lo è, chi non lo è.

EUL. Dunque maledite tutte le persone del mondo.

ROB. Io solo, io solo.

EUL. Ma perché?

ROB. Perché sono un pazzo.

EUL. Caro don Roberto, che cosa avete?

ROB. Niente. Penso agli affari miei. Ho cento cose che m’inquietano. L’economia della casa, la cura della famiglia, le liti, le corrispondenze, la moglie e cento altri imbarazzi.

EUL. Anche la moglie v’imbarazza?

ROB. Credete che a voi non pensi?

EUL. Spererei che il pensare a me non vi desse pena. Sapete pure quanto vi amo.

ROB. No... non mi dà pena.

EUL. Via, caro consorte, state allegro; consolatemi colla vostra solita giovialità. Stiamo in pace fra di noi; godiamoci quel poco di bene che la fortuna ci dona. Io non ho altro piacere che esser con voi. Tutto il resto del mondo è niente per me; e se voi mi private delle vostre amorose parole, sono la più infelice donna di questa terra.

ROB. (Sospira)

EUL. Ma perché sospirate?

ROB. Orsù, anderemo a star un mese in campagna. Là ci divertiremo fra di noi e staremo in quiete.

EUL. Sì, staremo benissimo. Faremo la nostra piccola conversazione. Verrà il medico, verrà il cancelliere.

ROB. Non voglio medici, non voglio cancellieri; in campagna non voglio nessuno.

EUL. Bene, staremo da noi.

ROB. Pare che non possiate vivere senza la conversazione.

EUL. Quelle sono persone da noi dipendenti.

ROB. Non avete detto che volete stare con me?

EUL. Certo, l’ho detto e lo ridico.

ROB. Bene, staremo da noi due. Un mese da noi due. Almeno un mese; almeno un mese.

EUL. Un mese? Sempre, sempre, quanto volete.

SCENA SECONDA

Il PAGGIO e detti.

PAGG. Signora, un servitore del marchese Ernesto...

ROB. (Ecco il mio tormento). (da sé)

EUL. Che vuole?

PAGG. Ha da presentarle un regalo.

ROB. (Un regalo!) (da sé) Un regalo?

EUL. Digli che lo ringrazio, che io non ricevo regali.

ROB. Aspetta. Veramente non anderebbe ricevuto; ma che dirà il Marchese, col quale siamo amici di tanti anni? Che dirà, se vien ricusato il di lui regalo? Dirà una delle due: o che voi non sapete le convenienze, o che io sono diventato geloso.

EUL. L’amicizia che egli ha con voi, non l’ha con me. Se lo rifiuto io, il torto non lo riceve da voi. Di me lasciate che egli giudichi come vuole.

ROB. No, donna Eularia, non voglio che né io, né voi facciamo una cattiva figura. Vediamo che regalo è. Fa che passi il servitore. (il Paggio parte)

EUL. (Se sapesse tutto, non accetterebbe i regali). (da sé)

ROB. (Io assolutamente non mi voglio render ridicolo). (da sé)

SCENA TERZA

Un SERVITORE, il PAGGIO e detti.

SERV.  Faccio  riverenza  a  V.S.  illustrissima.  Il  mio  padrone  si  fa  servitore  umilissimo all’illustrissima signora donna Eularia, e dice che scusi, se si prende l’ardire di mandarle queste poche pere del suo giardino.

ROB. (Via, via. È un regalo che costa poco). (da sé)

EUL. Dite al vostro padrone, che don Roberto ed io lo ringraziamo infinitamente, e lo preghiamo a ricevere in contracambio quattro tartufi di Roma. Ehi! Leva le pere da quel bacile, e ponivi sopra quelle dieci libbre di tartufi che sono nella dispensa. (al Paggio) Don Roberto, siete contento?

ROB. Sì, fate voi.

EUL. Quel giovane, tenete. (dà la mancia al Servitore)

SERV. Grazie a V.S. illustrissima. (parte)

ROB. (Gli manda i tartufi! Non vorrei che vi fosse qualche mistero). (da sé)

EUL. Così non abbiamo obbligazione veruna, e vedendo il Marchese che gli si manda nel momento istesso un regalo, che costa più del suo, capirà che non vogliamo regali.

ROB. Sì, sì, va bene. Non potrà dire che la dama non abbia gradite le sue finezze, se con un regalo maggiore lo assicura del suo gradimento.

EUL. Voi ora interpretate sinistramente un’azione che avete prima approvata.

ROB. Oh, vuol ella che io disapprovi ciò che determina la sua prudenza? (con ironia)

EUL. Con voi non so come vivere.

ROB. La compatisco. Sono un uomo alquanto fastidioso. Lo conosco.

EUL. In verità, sempre mi tormentate.

ROB. Scusi. Non parlerò.

SCENA QUARTA

Il PAGGIO con le pere in una guantiera, e detti.

PAGG. Ecco le pere. Dove comanda si mettano?

EUL. Non mi pare di darvi occasione di mortificarmi.

ROB. Oh, veramente le gran mortificazioni che io vi do!

PAGG. Dove comandano...

ROB. Va via di qui, impertinente.

PAGG. (Mette la guantiera sul tavolino con paura) (Era meglio che mi mangiassi anco queste). (da sé, parte)

ROB. Bellissime queste pere!

EUL. Dopo ch’io son vostra moglie, non ho avuto un’ora di bene.

ROB. Sono di spalliera.

EUL. Pare che siate pentito d’avermi presa.

ROB. Oh che belle pere! Oh che belle pere! (coi denti stretti)

EUL. Sempre motteggi, sempre rimproveri, sempre sospetti.

ROB. Oh che belle pere! Oh che belle pere! (getta delle pere dalla finestra)

EUL. Ecco qui. Ora siete arrabbiato, e non si sa perché.

ROB. E non si sa perché. (getta via delle pere)

EUL. Io mi sento morire. (piange)

ROB. Che c’è? Che c’è stato? (con una pera in mano)

EUL. Per carità, lasciatemi stare. (piangendo)

ROB. Oh! (arrabbiato tronca un pezzo di pera coi denti)

EUL. Morirò, creperò, sarete contento. (piangendo)

ROB. Maledette pere, maledetto chi le ha mandate. (getta via la pera che ha in mano)

EUL. Zitto, che vien Colombina.

ROB. Voi mi volete far disperare.

EUL. Abbiate prudenza. Non ci facciamo scorgere dalla servitù, se non volete che tutta la città ci ponga in ridicolo.

SCENA QUINTA

Colombina e detti.

COL. Signora padrona, ho fatto un goliè di mia invenzione. Vorrei, se si contenta, che se lo provasse.

EUL. Ora non ho volontà di provarlo.

COL. Almeno lo guardi.

ROB. (Ecco qui i grandi affari delle donne. Cuffie, manichetti, goliè! E tutto perché? Per parer belle). (da sé)

EUL. Non mi dispiace, è galante.

ROB. (Già le donne s’innamoran di tutto). (da sé)

COL. Ne ho veduto uno quasi simile al collo ad una dama forestiera, che tutti la guardavano per meraviglia.

ROB. Tutti la guardavano?

COL. Ma questo è assai più bello.

EUL. Che dite, don Roberto, vi piace?

ROB. Io dico che è una porcheria.

COL. Perché dice questo, signor padrone?

ROB. Sì, è una porcheria. Non vedi che è stretto stretto? I goliè sono fatti per coprire il petto, per tener caldo. Che cosa ha da coprire un goliè largo un dito? Mia moglie morirebbe dal freddo; non è per lei, non è per lei.

COL. Avete paura che non copra?

ROB. Animo, via di qua.

EUL. Per dire il vero, il goliè è bellissimo.

ROB. Vi piace?

COL. Se ella se lo mette al collo, parrà più bella il doppio.

ROB. Maledetta! (prende il goliè e lo straccia)

COL. (Ih! Che uomo indiavolato!) (da sé)

EUL. Via, a don Roberto non piace; egli è di buon gusto, e quel goliè non è ben fatto.

COL. Sicuro! Non è ben fatto! Ora lo dice per paura di lui. Ho durato tanta fatica!

ROB. Vien qui. Tieni. Ecco uno scudo.

COL. Uno scudo?

ROB. Sì, per la fatica che hai durato.

COL. Via, via, quand’è così, sto zitta. Guardate se avessi indosso qualche altra cosa da rompere, siete padrone. (parte)

SCENA SESTA

Don Roberto, donna Eularia, poi il paggio.

EUL. Ho piacere che abbiate consolata quella povera cameriera. In verità, don Roberto, alcune volte siete adorabile...

ROB. E alcune altre insostenibile.

EUL. Qualche volta siete stravagante.

ROB. Compatitemi; lo conosco ancor io.

PAGG. Signora.

EUL. Che vuoi?

PAGG. Un viglietto...

ROB. Un viglietto? Di chi?

PAGG. Del marchese Ernesto.

ROB. Un viglietto del marchese Ernesto? Lascia vedere. A madama, madama... Viene a lei, si serva. (a donna Eularia, con caricatura)

EUL. Apritelo voi.

ROB. Io non voglio entrare ne’ fatti suoi.

EUL. Apritelo voi, o lo rimando chiuso com’è.

ROB. Via, via, non si riscaldi, l’aprirò io. Mi dà licenza? (con ironia)

EUL. Via, non mi tormentate.

ROB. Sentiamo che cosa scrive il signor Marchese. Via di qua. (al Paggio)

PAGG. (Ascolterò sotto la portiera). (parte, poi ritorna)

ROB. Madama, io non so per qual cagione voi mi trattate sì male. Sentite? Bisogna trattarlo meglio. Passando vicino alla vostra casa, voi mi avete gettato dalla finestra le pere che vi ho mandato, una delle quali mi ha colpito in un occhio. Oh diavolo! Ch’ho io mai fatto?

EUL. Vedete quel che producono le vostre smanie?

ROB. Questa cosa mi dispiace infinitamente. Che cosa dirà di voi, che cosa dirà di me? Sentiamo che cosa dice: Voi non avete occasione di dolervi di me; siccome siete una onestissima dama, io ho sempre trattato con voi con tutta la maggiore delicatezza. Sì, il Marchese è un cavaliere onorato. Voi siete una dama prudente. (Io sono una bestia). (da sé) Però l’affronto che mi avete fatto non è indifferente, e don Roberto me ne dovrà render conto. Ecco qui un impegno, per causa di queste maledette pere. Chi è di là?

PAGG. Signore.

ROB. Porta via queste pere.

PAGG. Dove?

ROB. Portale via.

PAGG. Ma dove?

ROB. Dove vuoi.

PAGG. (Se non crepo questa volta, non crepo più). (da sé, porta via le pere)

EUL. Oh Dio! Mi dispiace che siate entrato in un impegno per una cosa di niente.

ROB. Se m’incontro col Marchese bisogna battersi.

EUL. Caro marito, no, se mi volete bene.

ROB. Se mi sfida, non posso ritirarmi.

EUL. E la vostra riputazione? E il vostro buon nome? Non lo calcolate niente? O si dirà che l’affronto gliel’ho fatto io, o che gliel’avete fatto voi. Se io, eccomi in credito di una fraschetta; se voi, eccovi caratterizzato per un geloso.

ROB. Io non sono geloso.

EUL. Non basta non esserlo. Bisogna non parerlo.

ROB. Sì, dite bene. Troverò il Marchese e gli parlerò.

EUL. Ma che cosa gli direte?

ROB. Gli dirò... Orsù, dirò che io non so niente, lo manderò da voi.

EUL. Ma perché lo manderete da me?

ROB. Per due ragioni. Prima, perché mandandolo io da voi, non potrà dire che l’affronto venga da me, né potrà sospettare che io sia geloso. Secondariamente perché a voi sarà più facile trovar una scusa.

EUL. Che scusa volete ch’io trovi?

ROB. Qualunque sia la scusa che trovi una dama, un cavaliere deve appagarsi.

EUL. Troviamo un altro pretesto, senza che io abbia a ricevere l’incomodo di questa visita.

ROB. Questa è una cosa della quale non si può fare a meno.

EUL. Ma siateci anche voi.

ROB. Perché ci ho da esser io? Sì, sì, v’intendo. Avete questa fissazione nel capo, che io sia geloso. Corpo di bacco! Voi mi farete dare al diavolo, se penserete così di me. Manderò il Marchese, ricevetelo, e non mi fate arrabbiare. (Per altro non li lascierò lungo tempo soli). (da sé, parte)

EUL. Venga pure il marchese Ernesto. Procurerò giustificare la cosa per salvar il decoro, ma troverò qualche mezzo termine, per far sì ch’ei non torni mai più da me. Conosco la debolezza di mio marito. Questa m’inquieta assaissimo; ma poiché il cielo me lo ha destinato per compagno, deggio compatirlo, soffrirlo e cercare di contentarlo. È geloso, e questo è un segno che mi ama; procura di non parerlo, segno che teme le censure del mondo. Tocca a me a conservarmi l’amor suo, e a difenderlo dalle derisioni. Come ciò potrò fare? L’impegno è assai difficile. Chi troverò, che in un caso simile mi sappia consigliare? La prudenza è quella che mi può reggere unicamente; e se mi riuscirà di porre in calma l’animo agitato di mio marito, assicurandomi dell’amor suo senza ch’egli abbia a dubitare del mio, allora potrò lusingarmi di essere una donna felice, una moglie contenta, e forse, forse, senza vanità e senza fasto, potrò passare per una dama prudente. (parte)

SCENA SETTIMA

Altra camera.

Colombina ed il paggio colle pere.

COL. Tutte voi le volete? Tutte voi?

PAGG. Via, eccone un paio anche per voi. (le dà due pere) Oh! Avete le mani gelose.

COL. Sì, gelose. (ridendo)

PAGG. Veramente questa dee essere una brutta parola. Tutti mi gridano, quando la dico.

COL. Se vi gridano, non la dite più.

PAGG. Se non volete che io la dica più, spiegatemi che cosa vuol dire.

COL. Oh sì, ora ve la spiego. (con ironia)

PAGG. Ed io la dirò, e aggiungerò che Colombina me l’ha insegnata.

COL. Siete un ragazzaccio, che non ha giudizio.

PAGG. Che cosa vuol dir geloso? Voglio saperlo.

COL. (Mi fa ridere). (da sé) Vuol dire uno che ha sospetto che sua moglie gli faccia le fusa torte. Avete capito?

PAGG. Che cosa vuol dire le fusa torte?

COL. Già me l’aspettava. Vuol dir, per metafora, dei complimenti.

PAGG. Ora ho capito.

COL. Queste cose non sono da voi. Siete ancora troppo giovinetto.

PAGG. Non mi paiono cose tanto difficili; le ho imparate subito.

SCENA OTTAVA

Donna Eularia e detti.

EUL. Qui si chiacchiera, e non si bada all’anticamera. Vi è gente che passeggia, e nessuno va a vedere chi è.

PAGG. Vado subito. (parte, poi ritorna)

EUL. Cara Colombina, io di voi sono contentissima. Questa sola cosa ho da rimproverarvi: colla servitù non si scherza.

COL. Il paggio è tanto ragazzo...

EUL. È ragazzo, è vero; ma sta volentieri in compagnia più colle donne che cogli uomini.

PAGG. Signora.

EUL. Che cosa c’è?

PAGG. Il signor marchese Ernesto vorrebbe farle le fusa torte.

EUL. Come?

COL. Zitto.

EUL. Che hai detto?

PAGG. Il signor Marchese è qui, per fare le fusa torte.

EUL. Povera me! Che cosa sento?

COL. (Oh diavolo maledetto!) (da sé)

EUL. Chi ti ha insegnato a dire queste parole?

PAGG. Colombina.

EUL. Colombina! (guardandola)

COL. Fusa torte, secondo lui, vuol dir complimenti. Non è vero?

PAGG. Sì, signora, complimenti, ma lo dico per metafora, come mi ha insegnato Colombina.

EUL. Orsù, di’ al Marchese che passi. (il Paggio parte) Colombina carissima, il paggio intende che le fusa torte voglia dir complimenti, e voi a che motivo mettete in campo simili ragionamenti?

COL. Signora, io faccio... perché il paggio parla e non sa che cosa si dica.

EUL. Badate a voi, e non fate ch’io vi abbia a cacciare da questa casa.

COL. Signora, per amor del cielo...

EUL. Basta, ora non ho tempo per arrestarmi su questa cosa; ma voglio venir in chiaro, e se vi sarà qualche mistero, non me la passerò con indifferenza.

COL. Credetemi...

EUL. Andate via.

COL. (Ecco quel che si avanza a trattare coi ragazzi. È meglio trattar con uomini fatti). (da sé, parte)

SCENA NONA

Donna Eularia sola.

EUL. Io ho paura che per quanto mio marito studi nascondere la sua gelosia, i domestici l’abbiano già conosciuta; e siccome si pensa comunemente il peggio, così non è difficile che credano fondata la gelosia di don Roberto, e correggibile la mia condotta. La riforma è necessaria in tutto: nella casa, nella famiglia e nel cuore abbagliato di mio marito.

SCENA DECIMA

Il MARCHESE e la suddetta; poi il PAGGIO.

MAR. Signora, a voi m’inchino.

EUL. Signore, compatite di grazia l’accidente accaduto...

MAR. Basta così, non ne parliamo più. L’onore che mi fate col credermi degno delle vostre giustificazioni, compensa qualunque mio dispiacere; né io devo permettere che una dama mi chieda scusa.

EUL. Son persuasa della vostra bontà; ma permettetemi che vi dica almeno come la cosa è andata.

MAR. Sarà stato un accidente.

EUL. Sì, è stato il paggio. Ha ritrovato alcuna di quelle pere molto mature; le ha credute marcie e le ha gettate dalla finestra. È stato quell’impertinente del paggio.

PAGG. Signore, non è vero, non sono stato io. È stato il padrone.

EUL. Via di qua, disgraziato.

PAGG. È stato il padrone che le ha gettate, non sono stato io.

MAR. Don Roberto?

EUL. Non gli badate. Via di qua.

PAGG. E ha detto, sian maledette le pere e chi...

EUL. Impertinente. (gli dà uno schiaffo) Chi è di là?

SCENA UNDICESIMA

Un SERVITOREe detti.

EUL. Cacciate via costui. In anticamera non lo voglio più.

PAGG. Non sa far altro che dare degli schiaffi e fare le fusa torte. (parte col Servitore)

EUL. (Mai più ragazzi in casa. Domani lo mando via). (da sé)

MAR. (Parmi che vi sieno dei torbidi). (da sé)

EUL. Quel ragazzaccio mi fa venire la rabbia.

MAR. Non vi alterate per questo. Io credo a tutto quello che dite voi.

EUL. Sappiate, per dirvi la cosa com’è, che una pera era veramente fracida, e mio marito l’ha gittata dalla finestra.

MAR. (E sarà quella probabilmente che mi ha colpito). (da sé) Signora, mi rincresce vedervi stare in disagio per causa mia.

EUL. Per me sto benissimo. Ho seduto sinora, e non m’incomoda lo stare in piedi. (Così più presto se n’anderà). (da sé)

MAR. Che dite, signora donna Eularia, di quella dama che viene dall’abitazion di un castello? Le parrà di essere in un mondo nuovo.

EUL. Una donna di spirito si adatta a tutto.

MAR. Pare a voi che ella sia spiritosa?

EUL. Quattro, e quattr’otto, e quattro dodici. (mostrando di fare un conteggio da sé)

MAR. Signora, fate voi dei conti?

EUL. Perdonatemi, sono distratta per una certa fornitura che sto facendo. (Dovrebbe andarsene). (da sé)

MAR. In materia de’ conti, e di buon gusto nelle forniture, non la cedo a nessuno. Favorite comunicarmi la vostra idea.

EUL. La cosa è fatta, e ho di là il sarto che aspetta, per provarmi un mantó.

MAR. Fatelo passare; non vi prendete soggezione di me.

EUL. Oh scusatemi, so il mio dovere.

MAR. Eh, mi maraviglio. Complimenti inutili. Ora chiamerò io il sarto, e lo farò passare.

EUL. No, no, trattenetevi. Io non costumo spogliarmi e vestirmi in faccia dei cavalieri.

MAR. Questa è una cosa che si fa quasi comunemente, e forse non passa giorno, ch’io non abbia l’onore di allacciar qualche busto.

EUL. Buon pro vi faccia. In casa mia non ne allaccerete sicuramente.

MAR. Voi siete una dama assai delicata; ma per amor del cielo, non fate più aspettare quel povero sarto.

EUL. Non potrei aver la finezza di provarmi il mantó senza soggezione?

MAR. Vi pare ch’io sia in grado di darvi soggezione?

EUL. Io me la prendo di tutti.

MAR. Di tutti ve la potete prendere, fuor che di me.

EUL. Qualche volta me la prendo anche di mio marito.

SCENA DODICESIMA

Il SERVITORE, poi il CONTEe detti.

SERV. Illustrissima, è qui il signor conte Astolfo, che vorrebbe riverirla.

EUL. (Oimè! Ecco un altro impiccio). (da sé)

MAR. Donna Eularia, se ricevete il Conte, non vi provate il mantò.

EUL. (Se non lo ricevo, sapendo egli che v’è il marchese Ernesto, farà dei sinistri pensieri). (da sé)

MAR. (Non vorrei che lo ricevesse). (da sé) Signora spicciate il vostro sarto, fate sapere al Conte che siete occupata, ed io partirò, per lasciarvi in tutta la vostra libertà.

EUL. Perdonatemi, signor Marchese, da voi non prendo regola per ricevere e licenziare le visite. Tirate avanti tre sedie. Dite al Conte ch’è padrone. (Servitore parte)

MAR. Ma il sarto...

EUL. Sedete.

MAR. Ora che viene il Conte, avete volontà di sedere.

EUL. Quando prego voi di sedere, non potete dire che il complimento fatto sia per il Conte.

MAR. Basta; le vostre grazie in ogni tempo, in ogni guisa mi sono care. (Il Conte è il mio tormento). (da sé)

CON. Servo divoto di donna Eularia, amico, vi sono schiavo. (il Marchese lo saluta)

EUL. Accomodatevi. (il Conte siede)

MAR. (Ecco qui; il Conte trova la sedia preparata, ed io sono stato mezz’ora in piedi). (da sé)

CON. In che si diverte la signora donna Eularia?

MAR. Ha il sarto che l’aspetta. Vuol provarsi un mantó. Onde io dubito che a noi converrà partire.

CON. Parto in questo momento, se me lo comanda.

EUL. Non sono tanto incivile per congedarvi sì presto.

MAR. No, no, non vi manda via, non ha più la premura del sarto. L’aveva quando ero io solo. EUL. Signor Marchese, voi parlate troppo pungente.

MAR. Non mi pare d’offendervi. Non è forse vero, che poco fa vi premeva provare il mantó?

EUL. È verissimo.

MAR. Ed ora ch’è venuto il Conte, al mantò non si pensa più.

EUL. Ci penso, ma so le mie convenienze.

MAR. Il signor Conte merita maggior rispetto.

CON. Marchese, sinora ho lasciato rispondere alla dama, la quale vi ha risposto a dovere; ma ora che il vostro discorso si va caricando sopra di me, vi dirò ch’io non merito le finezze di questa dama, ma voi non siete in grado di farmi ostacolo per ottenerle.

MAR. Sì, avete fortificato il vostro possesso, non temete rivali.

EUL. E siam da capo. Marchese, voi mi farete fare delle risoluzioni, che forse vi spiaceranno.

MAR. Già, tutta la vostra collera è contro di me.

EUL. La mia collera la rivolgo contro chi me ne ha dato il motivo.

MAR. Conte, Conte, la discorreremo. (in aria minaccevole)

CON. Marchese, Marchese, non mi fate paura.

EUL. Elà, rammentatevi dove siete.

MAR. Vi domando perdono.

EUL. Siete troppo sulfureo, signor Marchese.

MAR. Non ho la flemma del signor Conte.

CON. Ma signora donna Eularia, egli mi va insultando.

EUL. In faccia d’una dama non si tratta così. (al Marchese)

MAR. Orsù, vi leverò l’occasione di rimproverarmi. Signor Conte, ci rivedremo. (s’alza)

CON. Sì, ci rivedremo. (s’alza)

EUL. Deh, per amor del cielo, fermatevi. Vi volete battere; già me ne accorgo. Che volete che il mondo dica, se si sa il motivo delle vostre contese? Così poco stimate l’onor mio, che non vi cale di esporlo per una sì lieve cagione? Di che potete di me dolervi? Quali offese ho io fatte ad alcuno di voi? Dunque, senza mia colpa, volete che io risenta una sì grave pena? Per le vostre collere, per le vostre pazzie, una povera dama sarà miseramente sagrificata? Dirà, chiunque avrà notizia del vostro duello, due rivali gelosi si sono battuti per donna Eularia. Chi potrà giustificare, che donna Eularia non fosse impegnata né coll’un, né coll’altro? Pensate meglio al vostro dovere, alle mie convenienze, al carattere che sostenete. Siate più cauti, siate più cavalieri.

CON. Per me dono tutto al merito di donna Eularia.

MAR. Farò dei sagrifizi; benché dall’idolo male accettati!

EUL. Via, mi consolo veder calmate le vostre collere. Siete amici, e siatelo per l’avvenire. Se per me nascono i vostri sdegni, liberatevi entrambi dalla cagione che li fomenta. So con chi parlo, né vi è bisogno che più chiaramente mi faccia intendere. Signori, il sarto mi aspetta, con vostra permissione. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Il MARCHESEed il CONTE.

MAR. Conte mio, parlando senza caldo e senza passione, io non so per qual motivo vi siate posto in capo di venire a disturbar la mia pace.

CON. Io a disturbare la vostra pace? Per qual cagione?

MAR. Sapete che fino dal primo giorno in cui don Roberto sposò donna Eularia, io ebbi l’onor di servirla, e voi siete venuto a levarmi la mano.

CON. Sono amico di don Roberto, come voi. Servo donna Eularia, come voi, e non pretendo né di esser solo, né di scacciar nessuno.

MAR. A poco a poco, andate scacciando me.

CON. Voi v’ingannate.

MAR. Dopo che voi servite donna Eularia, ella non mi fa la metà delle finezze che mi faceva prima.

CON. Perché credete ch’ella non ve le faccia?

MAR. Per causa vostra.

CON. Mentite.

MAR. A me una mentita?

CON. Sentite, giuro da cavaliere, che da donna Eularia altre finezze non ho esatte e non ho pretese, oltre l’onore di darle braccio, di servirla al giuoco, di accompagnarla in carrozza; e niente più, son certo, non avrete ottenuto voi.

MAR. Siete certo?

CON. Sono certissimo.

MAR. Dove fondate la vostra sicurezza?

CON. Sul carattere della dama.

MAR. Io non pretendo oltraggiare la dama, parlo nei limiti dell’onestà; ma ho ricevute da lei di quelle distinzioni che voi non avete, e non meritate di avere.

CON. Di quelle distinzioni che io non merito d’avere? Con chi credete parlare?

MAR. So con chi parlo e so come parlo.

CON. Voi parlate da temerario.

MAR. Giuro al cielo. (pone mano)

CON. In casa di una dama? (pone mano)

MAR. Venite fuori.

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Eularia e detti, poi don Roberto ed il servitore.

EUL. Oh Dio! Ch’è questo? Cavalieri, vi raccomando il mio onore, per carità.

CON. Il Marchese mi ha cimentato.

MAR. La collera mi trasporta.

EUL. Oimè, ecco mio marito.

ROB. Come! Colla spada alla mano?

EUL. Don Roberto, non avete voi due fioretti?

ROB. Colla spada alla mano?

EUL. Badate a me. Questi due cavalieri sono venuti in discorso di scherma. Hanno trovato a questionare sopra un certo colpo segreto di cui non mi ricordo il nome, non essendo cosa che a me appartenga. Mi hanno chiesto i fioretti; ma io non so dove sieno, ed essi, intolleranti che sono, ne facevano colle loro spade la prova. Deh, caro marito, date loro i fioretti, ed evitiamo il pericolo che uno scherzo possa produrre la disgrazia di qualcheduno dei vostri amici.

ROB. No, non fate... colle spade non si scherza... Abbiamo veduti dei brutti casi. Aspettate. Chi è di là? Portami que’ due fioretti che sono in sala. (al Servo; il Servo parte)

MAR. (Non mi sono più ritrovato in un simile impegno). (da sé)

CON. (Donna Eularia è una dama di molto spirito). (da sé)

ROB. Ditemi, amici, qual è la botta per cui siete in contesa?

MAR. Domandatela al Conte, egli ve la dirà.

CON. L’ha suscitata il Marchese; egli è in debito di descriverla meglio di me. (viene il Servitore coi fioretti)

ROB. Ecco i fioretti. Con questi soddisfatevi quanto volete. (il Servitore parte)

EUL. Imparate a meglio trattar colle dame. Non si spaventano colle spade. Non si fanno contese simili in faccia di loro. Vergognatevi di voi stessi, ed ammirate come una donna ha saputo riparare al pericolo che vi soprastava. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Il conte, il marchese e don Roberto; poi il servitore.

ROB. Ebbene, qual è la botta contesa?

CON. Ve la dirò io: pretende il Marchese avere una botta segreta, colla quale impegnando l’inimico a stendere il colpo senza potersi immediatamente rimettere, lo fa infilzar da se stesso nella spada dell’avversario.

ROB. E questa sorta di colpi volevate voi provar colla spada? Tenete i fioretti, provatevi, ed io sarò spettatore e giudice, se volete, de’ vostri colpi.

MAR. (Son nell’impegno, bisogna starci). (da sé)

CON. (Giova seguitar la finzione). (da sé)

SERV. È qui la signora donna Rodegonda con un’altra dama. (a Roberto)

ROB. La riceverà donna Eularia. Vediamo questa botta segreta.

MAR. Andiamo a incontrar le dame. Conte, ci batteremo poi, e vedrete se averò io de’ colpi segreti e non preveduti. (parte)

CON. Don Roberto, compatite. Il carattere del Marchese vi è noto. Vado a riverire le dame. (parte)

ROB. Vadano, vadano a riverire le dame. Io non so che pensare. Subito che li ho veduti colla spada alla mano, li ho presi per due rivali. Paggio, dove sei? Saranno tutti impegnati al ricevimento di queste dame, e converrà che ci vada ancor io a mio dispetto. Anderò, ma non mi acquieterò sul proposito della scherma. Vo’ sapere se la botta segreta è stata proposta dall’ingegno de’ cavalieri, o dallo spirito della virtuosa signora. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Camera da conversazione, con tavola da giuoco e lumi.

Donna Eularia, donna Rodegonda e donna Emilia.

RODEG. Così è, donna Eularia, domani perdiamo donna Emilia.

EUL. Perché, donna Emilia, partir sì presto?

EMIL. Mio marito è stato obbligato ad accomodarsi co’ suoi avversari. Ha rimesso tutte le sue ragioni nel conte Ercole: questa sera stenderanno il compromesso, e domani ritorneremo al nostro castello.

EUL. Perché non trattenersi un poco a goder questa nostra città?

EMIL. Mio marito non si trattiene fuori del suo paese per divertimento; se non esce per affari, non si stacca un giorno da casa sua.

EUL. Lodo infinitamente il buon costume di un cavaliere che sa regolare se stesso e la sua famiglia.

RODEG. Ma non vi potrebbe lasciare qualche giorno con me? M’impegnerei d’accompagnarvi io stessa a Castelbuono.

EMIL. Oh, non mi lascerebbe un giorno lontana da sé.

EUL. Anche in questo fa bene. La moglie non è mai accompagnata meglio, che quando sta col marito.

SCENA DICIASSETTESIMA

Il MARCHESEe detti.

MAR. M’inchino a queste dame.

RODEG. Signor Marchese, che avete che mi parete turbato?

MAR. Niente, signora, niente.

EMIL. Preparatemi i vostri comandi. Domani parto.

MAR. Vi auguro felice viaggio.

EMIL. (Mi pare che anche il signor Marchese abbia dell’aria di Castelbuono). (da sé)

SCENA DICIOTTESIMA

Il CONTE e detti.

CON. Servitore umilissimo di lor signore. (sostenuto; le dame lo salutano)

RODEG. Signor Conte, anche voi mi parete malinconico.

CON. Non ho ragione di essere molto allegro.

RODEG. Che vuol dire? Vi è accaduta qualche disgrazia?

CON. Oh no, signora. (guarda bruscamente il Marchese)

EMIL. Signor Conte, se posso servirvi, domani io parto.

CON. Servitore umilissimo.

EMIL. (Oh, vi sono dei contadini da noi, che rispondono con più civiltà). (da sé)

CON. (Qui bisogna dissimulare o partire). (da sé)

MAR. Se non parte il Conte, non partirò nemmen io. (da sé)

SCENA DICIANNOVESIMA

Don Roberto e detti.

ROB. Gentilissime dame, a voi m’inchino. (le dame lo salutano)

RODEG. Don Roberto, noi vogliamo giuocare.

ROB. Servitevi, siete padrone. A che giuoco volete voi divertirvi?

RODEG. A un giuoco facile. Giuocheremo a primiera.

EUL. Primiera è un giuoco d’invito. Perdonatemi, non mi par giuoco da conversazione.

RODEG. A me piace giuocare a que’ giuochi che non impegnano l’attenzione. Voglio nello stesso tempo giuocare e discorrere.

EMIL. È vero, dite bene, è un giuoco facile; ma si può perdere molto denaro.

ROB. Venite qui, farò io la partita in un modo che non vi sarà pericolo che vi sieno dei precipizi. Signora donna Emilia, favorisca. (fa seder donna Emilia) Qui donna Rodegonda. (la fa sedere) E qui mia moglie.

RODEG. Come! Una partita di tre donne?

ROB. Nei giuochi d’invito, quando vi sono degli uomini, non possono fare a meno di non riscaldarsi. Tre dame giuocheranno con moderazione. Per divertirsi e non per rovinarsi.

RODEG. E quei due cavalieri staranno oziosi.

ROB. Se vogliono divertirsi, sono padroni. Vi sono degli altri tavolini. Se vogliono giuocare in tre, li servirò io, fino che venga qualcheduno.

RODEG. Oh sì, don Roberto, che volete fare una conversazione di buon gusto! Due tavolini, uno di uomini e uno di donne. Se viene qualcheduno a vederci, creperà dal ridere.

ROB. Signora donna Emilia, a Castelbuono si usano questi tavolini? Giuocano mai separati gli uomini dalle donne?

EMIL. Ordinariamente giuocano gli uomini fra di loro, e le donne non giuocano quasi mai.

ROB. E qui giuocano sempre. Giuocano giorno e notte, e una partita senza uomini, è una partita che fa ridere.

RODEG. Ma che dite, donna Eularia, vi pare che così stiamo bene?

EUL. Per me sto benissimo. Mi dispiace che voi non siate contenta.

RODEG. Oh, non sono contenta assolutamente. Dividiamoci; siamo sei. Due dame e un cavaliere; due cavalieri e una dama. Signor Conte, signor Marchese, non vogliono favorire?

MAR. Farò tutto quello che comandano lor signore.

CON. Di me dispongano come loro aggrada.

RODEG. Ha da giuocare anche don Roberto.

ROB. Farò tutto per obbedire.

RODEG. Oh bravo! Voi a tavolino colla moglie non ci dovete stare...

ROB. Non ci devo stare?

RODEG. Oh, questa sarebbe bella, che il marito giuocasse colla moglie!

ROB. Signora donna Emilia, a Castelbuono giuocano mai i mariti colle loro mogli?

EMIL. Mio marito giuoca spesso con me.

ROB. (Oh benedetto castello!) (da sé)

RODEG. Orsù, finiamola. Giuocheremo donna Emilia, don Roberto ed io; e quei due cavalieri giuocheranno con donna Eularia.

ROB. (Maledetta costei! Poteva dispor peggio?) (da sé)

EUL. Cara amica, servitevi voi, ecco il posto di mio marito. (si alza) Non ho volontà di giuocare. Spero che quei cavalieri mi dispenseranno, e si divertiranno senza di me.

ROB. Se vogliono, possono giuocare a picchetto.

RODEG. Eh via, donna Eularia, non guastate voi la conversazione. Se non giuocate, quei due cavalieri or ora se ne vanno, e noi restiamo qui soli.

EUL. Spero che non partiranno; ma se rimanesse un tavolino solo per giuocare, non basta.

RODEG. Oh, a me non basta, se non ho da chiacchierare con degli altri tavolini, mi par d’esser morta.

ROB. (Sì, usano così. Una conversazione pare un mercato). (da sé) Via, Conte, Marchese, invitate questa dama. Non fate che resti oziosa.

MAR. Tocca a lei, signor Conte.

CON. Se tocca a me, io la supplicherò che si degni di lasciarsi servire.

EUL. Caro marito, pregate voi questi cavalieri che mi dispensino.

ROB. Come c’entro io, se volete giuocare o non volete giuocare? Sono io un uomo che non vi lascia vivere a modo vostro? Che vi impedisca giuocare? Sono io un qualche pazzo? Oh bene, giacché vi siete rivolta a me, vi dico espressamente che accettiate l’invito di que’ due cavalieri, e non facciate ridere la conversazione.

EUL. Meno parole servivano per farmi fare tutto quel che volete. In verità mi duole il capo, non ho volontà di giuocare; ma per contentar mio marito, eccomi a ricever le grazie di lor signori. (si accosta al tavolino)

MAR. Signora, se non avete piacer di giuocare...

ROB. Eh, che giuocherà, giuocherà.

EUL. Giuocherò, giuocherò. Eccomi qui. Favorite. (siede)

CON. (La compatisco, se non ha volontà di giuocare). (siede)

MAR. (Se non ci fossi io, giuocherebbe più volentieri). (siede e comincia a mescolar le carte, e giuocano)

ROB. (Oh la bella partita!) (da sé)

RODEG. Orsù, giacché finalmente si sono accomodati, accomodiamoci anche noi. Don Roberto, favorite di seder qui. (la sedia resta colla schiena a donna Eularia) ROB. Subito vi servo. (vorrebbe osservare donna Eularia) Signora donna Emilia, voi siete in un cattivo posto.

EMIL. Perché?

ROB. L’aria che viene da quella porta, vi offenderà. Favorite, restate servita qui.

RODEG. La porta è serrata.

ROB. I servitori che l’aprono, faranno venire dell’aria. Qui starete meglio senz’altro.

EMIL. Farò come comandate. (Farmi scomodare! Anche questo è un complimento all’usanza di Castelbuono). (da sé)

ROB. (Ora vedrò meglio il fatto mio). (resta in faccia a donna Eularia)

RODEG. Ecco le carte, finiamola. (dà le carte in mano a don Roberto)

ROB. Vi servo subito. (mescola, e di quando in quando dà delle occhiate al tavolino della moglie)

MAR. (Eh, benissimo. Col signor Conte si fanno tutti i partiti vantaggiosi nel giuoco). (giuocando,piano a donna Eularia)

EUL. (Il partito che ho fatto a lui, lo faccio a tutti; io non giuoco per vincere).

MAR. (Per favorire un cavaliere che dà nel genio, non si bada a pregiudicare il terzo).

ROB. (Mi pare che tarocchino a quel tavolino). (da sé)

CON. (Mi maraviglio di voi).

MAR. (Ed io di voi).

ROB. Che c’è? Chi vince? Chi perde? (forte all’altro tavolino)

EUL. Sinora non v’è svario.

ROB. Sento taroccare.

EUL. Quando si giuoca, non si può fare a meno.

RODEG. Badate qui. Invito ad uno scudo. ROB. Tengo.

MAR. (Eh via, signora, non gli mostrate le carte). (a donna Eularia)

EUL. (Io non gliele ho mostrate).

MAR. (Se ho veduto io, come avete fatto).

EUL. (No, da dama d’onore).

MAR. (Eh!)

CON. (Quando una dama lo dice, siete obbligato a crederlo, e quando impegna l’onor suo, siete un mal cavaliere, se replicate).

ROB. (Taroccano davvero). (da sé, ascoltando)

EUL. (Per amor del cielo, acquietatevi).

ROB. Che c’è? Che c’è? (forte all’altro tavolino)

EUL. Niente, niente. Si giuoca.

SCENA VENTESIMA

Il SERVITORE di don Roberto e detti; poi il CAMERIERE di donna Rodegonda.

SERV. Illustrissima, il suo cameriere vorrebbe farle un’ambasciata. (a donna Rodegonda)

RODEG. Se lo permettono, che passi.

ROB. Padrona.

MAR. (Usciremo di questa casa). (al Conte)

CON. (Sì, e ve ne pentirete).

ROB. (Quanto pagherei sentire che cosa dicono). (da sé)

CAM. Illustrissima, il signor don Alfonso, marito della signora donna Emilia, manda a riverirla,  e siccome domattina si deve levar per tempo per terminare alcuni suoi affari prima di partire, la supplica ad andare a casa un poco per tempo. (a donna Rodegonda)

EMIL. Sentite? Ecco i complimenti che si usano a Castelbuono.

RODEG. Ditegli che verso le quattro saremo a casa.

ROB. Ehi, fermatevi. Cara donna Rodegonda, volete fino alle ore quattro far aspettare quel povero cavaliere? Signora donna Emilia, se a Castelbuono il vostro consorte vi avesse mandato questa ambasciata, che cosa avreste fatto?

EMIL. Sarei andata a casa immediatamente.

ROB. Signora donna Rodegonda, per l’onore della nostra città, non vorrei che dessimo questo scandalo. Vi consiglio di compiacere al vostro ospite e risparmiare a questa dama il rimprovero di suo marito.

RODEG. Che dite, donna Emilia?

EMIL. Io mi rimetto a quello che fate voi.

RODEG. Almeno terminiamo questo giuoco.

ROB. Sì, terminiamolo.

RODEG. Andate, dite a don Alfonso che or ora saremo a casa, e preparate la cena. (al Cameriere)

CAM. (Oh che prodigio! Questa sera si cenerà prima della mezzanotte). (da sé, parte)

MAR. (Signora, compatitemi, la mia collera non si può più trattenere). (a donna Eularia)

CON. (Il Marchese è arrivato a un eccesso d’impertinenza). (a donna Eularia)

EUL. (Così poco stimate le suppliche di una dama?)

ROB. Ecco, ho fatto primiera.

RODEG. Se io la fo, è meglio della vostra.

EMIL. Io posso vincere con un flusso.

RODEG. Facciamo a monte? (a don Roberto)

ROB. Sì, a monte, a monte. Ecco terminato. (si alzano) Come va? Chi vince? Chi perde? (all’altro tavolino)

EUL. Non vi è gran differenza. (si alzano)

MAR. M’inchino a queste dame. Amico, perdonate l’incomodo. (in atto di partire)

ROB. Non volete servire una di queste dame?

MAR. Le supplico a dispensarmi. Un affar di premura mi obbliga andar altrove. Conte, ci siamo intesi. Vi aspetto. (parte)

ROB. Anche voi partite? (al Conte)

CON. Domando scusa se non fo il mio dovere. Il Marchese mi aspetta. Abbiamo un affare di conseguenza, che ci obbliga andare insieme. (saluta e parte)

EUL. (Oh Dio! Si batteranno. Misera me! L’onor mio è in pericolo). (da sé)

ROB. Donna Eularia, que’ due cavalieri sono assai torbidi. Partono assai confusi; non vorrei che vi fossero delle novità.

EUL. Vi dirò, tutti due l’hanno meco, perché non ho voluto continuare a giuocare. Si sono uniti, e pretendono di fare una spezie di vendetta andando a terminar la sera in un’altra conversazione.

RODEG. Signora donna Emilia, sentite?

EMIL. Al mio paese questi due cavalieri non si riceverebbero più.

ROB. Ah, signora donna Eularia, sentite?

EUL. Se voi non li ricevete, non dubitate che io lo faccia.

EMIL. Signor don Roberto, con vostra permissione ce ne anderemo.

ROB. Voi partite domani per Castelbuono?

EMIL. Sì, signore, domani.

ROB. Oh quanto verrei volentieri con voi.

EMIL. Mi fareste il maggior piacere del mondo. Ma, don Roberto, voi stareste male colà. ROB. Perché?

EMIL. Perché a Castelbuono un marito che non sia geloso, non è stimato. (parte) ROB. Mi ingegnerei di farmi stimare.

RODEG. Un castello non è per voi. A voi piace che vostra moglie sia servita, e là non avrebbe un cane che la servisse. (parte)

ROB. (Oh benedetto castello! Servita? O bene o male, mia moglie la servo io). (da sé, e parte)

EUL. Oh Dio! Che cosa sarà? Che esito avrà il duello? Di me cosa mai si dirà? Se lo sa mio marito, misera me! Cielo, aiutami; cielo, a te raccomando l’onor mio, quello della mia famiglia, quello di mio consorte. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera di donna Eularia.

Donna Eularia sola.

EUL. Che notte inquieta, che notte infelice è stata mai questa per me! Ogni ora mi pareva un secolo; ho desiderato l’alba di questo giorno con una grande impazienza. Lodato sia il cielo che mio marito, malgrado i suoi sospetti, non è arrivato a saper cosa alcuna né della prima, né della seconda rissa dei due imprudentissimi cavalieri. Vo’ far di tutto che non lo sappia. Dicesi con ragione essere la notte la madre de’ pensieri: quella passata me ne ha somministrati parecchi, e fra quelli procurerò di preferire i migliori. Mio marito ancor dorme; dorma pure, riposi quieto, che io frattanto veglierò opportunamente al riparo della nostra riputazione. Ecco Anselmo che viene. Un servitore antico di casa mia, che mi ha veduta nascere e che si addossa con zelo tutte le mie premure, non mancherà di assistermi e di secondarmi.

SCENA SECONDA

Anselmo e la suddetta.

ANS. Signora, eccomi ad obbedirvi.

EUL. Mi spiace, pover’uomo, avervi fatto alzare sì di buon’ora; ma una estrema necessità mi ha costretto a farlo.

ANS. Siete la mia padrona, e per voi son pronto ad espor la vita, se occorre.

EUL. Avete svegliato il paggio e Colombina?

ANS. Li ho svegliati tutti due, e or ora saranno qui a ricevere i vostri comandi.

EUL. Sentite quante cose voglio da voi. Di voi unicamente mi fido, e son certa che tutto farete con premura, con zelo e con segretezza.

ANS. Conosco l’esser mio dalla vostra casa. Voi mi avete condotto al servizio del vostro degno consorte in qualità di maestro di casa, e, torno a dire, darei la vita per voi.

EUL. Trovate immediatamente un calesse; fermatelo per questa mattina, e dategli la caparra. Voi condurrete Colombina, unitamente a Fabrizio nostro staffiere, all’osteria dove sarà fermato il calesse, e tutti due se ne anderanno al loro paese.

ANS. Li avete licenziati? Non ho sentito che né l’uno, né l’altro, lo sappiano.

EUL. Or ora lo sapranno. Fate quello che dico e non pensate ad altro.

ANS. Sarete puntualmente ubbidita. (in atto di partire)

EUL. Fermatevi, non ho finito. Trovate un cavallo con un uomo di scorta da voi conosciuto, di cui possiate fidarvi, e consegnategli il paggio, acciò sia condotto in villa. Io gli darò una lettera per suo padre, che me lo ha raccomandato.

ANS. Signora, vi ha fatto qualche impertinenza?

EUL. Non cercate altro. Li mando via per le mie ragioni.

ANS. Il padrone lo sa?

EUL. Per ora non sa nulla. A suo tempo glielo farò sapere.

ANS. Perdonatemi, se a troppo m’avanzo. Non vorrei che se la prendesse con voi, licenziando la servitù senza sua intelligenza.

EUL. Questo è pensier mio. Condurrò la cosa in un modo che don Roberto non potrà lamentarsi.

ANS. Basta, voi siete una dama savia e prudente.

EUL. Un’altra cosa di maggior premura devo raccomandarvi.

ANS. Comandatemi, farò tutto.

EUL. Voi conoscete il marchese Ernesto ed il conte Astolfo.

ANS. Certamente, vengono qui alla conversazione.

EUL. Sappiate che ieri sera si sono fra di loro sdegnati per cagione del giuoco. Sono partiti in aria di collera, e dubito si sieno sfidati. Mi preme infinitamente sapere quel che sia seguito. Ma siccome mio marito di ciò non sa nulla, desidero che non lo venga a sapere: onde fate con cautela le vostre diligenze. Non mostrate con persona di questo mondo, che io di ciò sia consapevole, procurate che non si traspiri, che sia nata la rissa in questa casa. Portatevi da vostro pari, e datemi delle relazioni sicure.

ANS. Userò tutta la possibile diligenza, tutta la più esatta cautela...

EUL. Non perdete tempo. Tre cose vi ho raccomandato e tutte tre hanno bisogno di sollecitudine.

ANS. Tutto sarà prontamente fatto. (parte)

EUL. Anselmo è un uomo dabbene. Ecco Colombina.

SCENA TERZA

Colombina e la suddetta.

COL. Signora, perdoni se l’ho fatta aspettare. Era ancora sul primo sonno.

EUL. Colombina carissima, in poche parole vi dirò che cosa voglio. Pigliate subito le vostre robe e preparatevi a partire. Fra un’ora al più monterete in calesse e anderete al vostro paese.

COL. Come, signora! Mi cacciate così? Ho io fatto in casa vostra qualche mala azione?

EUL. No, anzi farò un benservito a voi e a vostro fratello, che vi renderà ragione per tutto dove anderete.

COL. Licenziate anche mio fratello?

EUL. Sì, anche lui. Non vi lascierei andar sola.

COL. Ma perché mai licenziarmi, signora padrona, così su due piedi? Vi serviva con tanto genio. Era tanto contenta, e voi mi avete detto che eravate contenta di me. In verità, non posso contenermi di non piangere.

EUL. Via, sei una buona figliuola; il cielo ti provvederà. Tieni questi quattro zecchini, godili per memoria di me. Il calesse sarà pagato.

COL. Il cielo ve ne renda il merito. Ma perché mai mi mandate via?

EUL. Ti dirò, cara Colombina: un impegno, in cui son corsa inavvedutamente, mi obbliga a dover prendere un’altra cameriera. Abbi pazienza, non ti mancherà da servire.

COL. Quand’è così, potrei trovar da servire in questa città.

EUL. No; ti voglio rimandar da tua madre.

COL. Almeno datemi due o tre giorni di tempo.

EUL. Vi è l’occasione del calesse con pochi denari. Io non ti voglio pagare una vettura apposta.

COL. Avete ragione. Partirò. Cara signora padrona, vi domando perdono, se vi avessi mal servito, se avessi detto qualche parola...

EUL. Io non mi lamento di te, ma ti avverto per tuo bene di gastigar la lingua, di pensar bene prima che tu parli e di non trescare colla gioventù.

COL. Vi domando perdono...

EUL. Via, via, basta così.

COL. Datemi licenza che io vi baci la mano. (piangendo)

EUL. Tieni.

COL. Pazienza.

EUL. Mandami tuo fratello.

COL. Signora sì. Pazienza. (piangendo)

EUL. Il cielo ti benedica e ti dia fortuna.

COL. (Ella mi manda via per le parole che ho dette al paggio). (da sé, parte)

SCENA QUARTA Donna Eularia, poi il servitore e il paggio.

EUL. Costei m’intenerisce; ma è necessario che se ne vada, e vadano tutti quelli che qualche cosa possono aver traspirato del caso occorso: principalmente quell’impertinente del paggio, il quale dice delle parole che mi fanno tremare. Costui non si vede. Non sarà ancora levato. Chi è di là? Vi è nessuno?

SERV. Illustrissima.

EUL. È levato il paggio?

SERV. Io non l’ho veduto.

EUL. Hai veduta tua sorella?

SERV. Illustrissima sì.

EUL. Ti ha detto che devi partire?

SERV. Me l’ha detto.

EUL. Ebbene, che cosa dici?

SERV. Farò tutto quello che ella comanda.

EUL. Hai da aver nulla di salario?

SERV. Illustrissima no, anzi sono pagato per tutto il mese.

EUL. Non importa. Tieni questo zecchino e va, che il cielo ti benedica.

SERV. Grazie alla bontà di V.S. illustrissima. Per dirle il vero, vado volentieri a veder il mio paese.

EUL. Ho piacere. Anselmo vi farà il benservito.

SERV. Anderò a riverire il padrone.

EUL. Non importa; glielo dirò io.

SERV. (Se non importa, ho piacere. A parlar con lui ho avuto sempre soggezione). (da sé)

EUL. Ecco il paggio; andate, preparate la vostra roba.

SERV. Illustrissima, perdoni...

EUL. Via, via. Il cielo vi dia del bene.

SERV. Bacio la mano a V.S. illustrissima. (parte)

EUL. Volesse il cielo che se ne andassero, prima che si levasse don Roberto dal letto.

PAGG. (Viene mortificato, senza parlare)

EUL. Venite qui.

PAGG. (Si accosta con paura)

EUL. Avete paura?

PAGG. Mi dà degli schiaffi!

EUL. Ditemi, volete andare da vostro padre?

PAGG. Signora sì.

EUL. Anderete volentieri al vostro paese?

PAGG. Signora sì.

EUL. Non v’importa lasciar questa casa?

PAGG. Signora no.

EUL. Non v’importa andar via da me?

PAGG. Signora no.

EUL. Siete in collera, perché vi ho dato uno schiaffo?

PAGG. (Piange e non risponde)

EUL. Via, tenete questo zecchino.

PAGG. (Lo prende senza parlare)

EUL. Portatelo a vostra madre.

PAGG. Signora sì.

EUL. Or ora anderete via.

PAGG. Signora sì.

EUL. Anderete a cavallo.

PAGG. Oh, a cavallo, a cavallo. Evviva, anderò a cavallo.

EUL. Avrete paura?

PAGG. Signora no, signora no. So andar a cavallo.

SCENA QUINTA

Anselmo e detti.

ANS. Signora, ho fatto tutto.

EUL. Così presto?

ANS. Ho fatto tutto.

EUL. Paggio, andate nella vostra camera e aspettate Anselmo.

PAGG. Ehi, signor Anselmo, anderò a cavallo.

ANS. Sì? Ho piacere.

PAGG. Anderò a cavallo, anderò a cavallo. (saltando e godendo parte)

ANS. Ho saputo ogni cosa. I due cavalieri si sono battuti. In questo mentre è passata la guardia, sono stati entrambi arrestati, sono stati condotti dal giudice criminale, il quale li tiene custoditi fino che gli vengano gli ordini del governatore.

EUL. Dunque saranno in casa di donna Rodegonda?

ANS. Certamente, s’ella è la moglie del giudice.

EUL. Si sa che abbiano i cavalieri parlato?

ANS. Io non so nulla di più; ma se il giudice aspetta gli ordini del governatore, non li avrà esaminati.

EUL. (Oh, se potessi loro parlare prima che fossero esaminati! Chi sa? Donna Rodegonda è mia amica, e qualche volta le mogli dei ministri possono fare dei gran piaceri). (da sé)

ANS. Tutta questa istoriella me l’ha raccontata il cameriere di donna Rodegonda.

EUL. Sa perché si battessero i cavalieri?

ANS. Non lo sa certamente.

EUL. (Mi preme che non lo sappia mio marito). (da sé) Andiamo a sollecitare la partenza di questa gente, prima che mio marito si svegli.

ANS. Io li conduco via subito.

EUL. (Se la macchina che ho lavorata nella mia mente, va tutta bene, spero di fare una cosa perfetta. Quel che mi preme si è di aggiustar tutto, senza che si sappia né il difetto di mio marito, né i disordini che sono seguiti. (da sé, parte)

ANS. Io sono in gran curiosità di sapere dove anderà a finire questo lavoro. (parte)

SCENA SESTA

Altra camera di don Roberto.

Don Roberto in veste da camera.

ROB. Donna Eularia si è levata prima del tempo: mi ha lasciato solo nel letto. Parte senza dirmi nulla. Dove sarà ella andata? Ah, il sonno mi ha tradito! Chi è di là? Nessuno risponde. Colombina, Colombina. Non vi è la cameriera? Ehi, paggio, paggio. Nemmeno il paggio? Andrò a vedere dove sono costoro. Andrò io a ritrovare...

SCENA SETTIMA

Donna Eularia ed il suddetto.

EUL. Dove, don Roberto?

ROB. A cercare di voi.

EUL. Eccomi.

ROB. Perché levarvi sì presto?

EUL. Non mi pare sia tanto di buon mattino. Saran due ore ch’è levato il sole.

ROB. Ho dormito soverchiamente. Quanto tempo è che vi siete alzata?

EUL. Non è molto.

ROB. Perché prima di levarvi non mi avete svegliato?

EUL. Vi ho lasciato dormire, perché mi pare abbiate fatto una notte inquieta.

ROB. Se ciò sapete, non avete dormito nemmeno voi.

EUL. Certamente. Non ho potuto dormire.

ROB. Che cosa vi disturba, che non potete dormire? (alterato)

EUL. Non posso trovar riposo, quando sento voi agitato.

ROB. Non so quietarmi, pensando alla maniera insolita con cui partiti sono il Conte ed il Marchese dalla nostra conversazione. Qualche cosa vi è. Qualche cosa è seguita.

EUL. Non è seguito niente. Tanto il Conte che il Marchese hanno mandato a farci i loro complimenti a vedere se abbiamo riposato, e a chiedere scusa del poco garbo con cui si sono licenziati, aggiungendo che verranno tutti due insieme a prendere la cioccolata da noi.

ROB. Sì? Verranno insieme? Ho piacere. Dubitava di qualche inconveniente. (Ancora mi resta impressa nella mente quella botta segreta, che provar volevano con le spade). (da sé)

EUL. Caro marito, facciamo di meno di queste conversazioni. Oh, che bel vivere senza impicci! Senza impegni, senza soggezione!

ROB. Voi dite bene; ma nelle gran città non si può vivere ritirati.

EUL. Chi ci obbliga di abitare in città?

ROB. Certo, che se avessi una comoda abitazione in un paese di minor soggezione, vi anderei a star volentieri.

EUL. Delle case comode se ne trovano da per tutto.

ROB. Ma voi presto vi annoiereste.

EUL. Io ci starei col maggior piacere del mondo.

ROB. Per dirla, voi altre signore nelle città grandi vi prendete poi anche degli incomodi soverchi. Ecco qui, appena giorno, siete abbigliata, incipriata e pronta a ricever visite.

EUL. Vi dirò, mi sono vestita per tempo, perché questa mattina parte donna Emilia, ed è dovere ch’io vada ad augurarle il buon viaggio.

ROB. M’immagino che da donna Rodegonda sarà pieno di cavalieri.

EUL. A buon’ora non vi sarà nessuno.

ROB. E voi con chi anderete?

EUL. Spero che voi verrete con me.

ROB. Io? Perché?

EUL. Vi corre debito egualmente che a me, di venir a riverir quella dama.

ROB. Sì, andiamo.

EUL. Caro marito, vi vorrei pregar d’un piacere.

ROB. Dite; farò tutto per voi.

EUL. Vorrei che andassimo voi ed io ad accompagnar donna Emilia al di lei paese.

ROB. A Castelbuono?

EUL. Sì, a Castelbuono.

ROB. Volentieri, con tutto il cuore. Ma come potete voi disporre dell’animo di donna Emilia?

EUL. Lasciate il pensiere a me. Ella mi ha fatte delle cortesissime esibizioni. Son certa che lo riceverà per finezza.

ROB. (Oh, volesse il cielo che donna Eularia s’innamorasse di Castelbuono!) (da sé)

EUL. Non perdiamo tempo. Risolviamo, prima che vengano interrompimenti.

ROB. Sì, sì, prima che vengano il Marchese ed il Conte.

EUL. Facciamo così: anderò io, se vi contentate, prima di voi a riverir donna Emilia e farle sapere la nostra risoluzione, che certamente sarà da lei molto gradita. Voi intanto date i vostri ordini ad Anselmo, il quale è un uomo di garbo, fidato e pratico della famiglia, e poi venite immediatamente alla casa di donna Rodegonda. Avvertite far presto; poiché, se parte donna Emilia, perdiamo la più bella occasione di questo mondo.

ROB. Non la vorrei perdere per un milione. Anselmo è pratico della casa. Pochi ordini gli bastano per regolarla. Ehi, quanto ci staremo a Castelbuono?

EUL. Otto, dieci giorni, quanto vi parerà conveniente.

ROB. Basta, basta, sul fatto ci regoleremo. Chi è di là?

SCENA OTTAVA

Anselmo e suddetti.

ANS. Comandi.

ROB. Che mi vengano a vestire, e a voi devo parlare.

EUL. Fatevi vestire da Anselmo.

ROB. Dove sono costoro? Dov’è il paggio? Dov’è Fabrizio?

EUL. Il paggio verrà con me in carrozza. Fabrizio l’ho mandato coll’ambasciata da donna Rodegonda.

ANS. Illustrissimo, anch’io servo; perché non vuole che abbia l’onor di vestirla?

ROB. Via, andiamo, che vi ho da dare degli ordini. Ve li darò vestendomi. Non vedo l’ora di veder Castelbuono! Questo paese non credeva che al mondo vi fosse, e se vi vado, avrò sempre paura che si distrugga. (parte)

EUL. Ebbene, com’è andata? (ad Anselmo)

ANS. Colombina e Fabrizio sono in calesse. Il paggio è all’osteria, che aspetta di montar a cavallo.

EUL. Avvertite di non lasciar mai solo don Roberto, accompagnatelo sempre, e procurate che non sappia nulla né del fatto dei cavalieri, né della servitù licenziata. Mi fido di voi. ANS. Non dubitate, signora, sarete contenta. (parte)

EUL. Sempre più mi lusingo che il mio disegno abbia a riuscire perfettamente. Tutte quelle opere che tendono al bene, sono protette, sono secondate dal cielo. (parte)

SCENA NONA

Camera in casa di donna Rodegonda.

Donna Rodegonda e donna Emilia.

RODEG. A che ora credete voi di partire?

EMIL. Non lo so. Dipendo da mio marito. Egli è a far qualche visita, e mi ha detto che mi lasci trovar preparata per montare nel carrozzino.

RODEG. Quanto volentieri verrei ad accompagnarvi fino al vostro castello.

EMIL. Mi fareste il maggior piacere del mondo. Mio marito non è uomo di complimento; ma gode infinitamente quando ha ospiti in casa sua. Via, donna Rodegonda, fatemi questa finezza.

RODEG. Non è possibile ch’io possa risolvere da un momento all’altro. Bisogna ch’io dipenda da mio marito ed egli, ch’è sempre pieno d’imbarazzi, di cause, di criminali, ora non è in grado di compiacermi.

EMIL. Appunto: ho sentito a dire qui in casa, che que’ due cavalieri che ieri son stati da voi, sieno stati questa notte arrestati.

RODEG. È verissimo. La guardia li ha trovati che si battevano.

EMIL. Ma perché si battevano? Si sa la causa?

RODEG. Ancora non si sa niente; essi non hanno parlato.

EMIL. Sarei curiosa di sapere la cosa com’è, prima di partire.

RODEG. Io saprò tutto. Basta che possa parlare con mio marito, saprò ogni cosa.

EMIL. Vostro marito è uno di quelli che confidano colla moglie?

RODEG. Per dir la verità, mio marito mi vuol bene, mi racconta tutto, e se gli chiedo una grazia, me la fa assolutamente. Pochi rei sono stati condannati, di quelli che ho raccomandati io.

EMIL. Anche mio marito è stato una volta governatore e non v’è mai stato rimedio che mi abbia voluto raccontar la sostanza d’alcun processo.

RODEG. Oh, io li leggo tutti i processi. Se sapeste i piaceri che ho fatti!

SCENA DECIMA

Il CAMERIEREe dette.

CAM. Illustrissima, è qui la signora donna Eularia, per dar il buon viaggio alla signora donna Emilia.

EMIL. Mi fa troppo onore.

CAM. Ma prima questa dama desidera dir due parole da sola a sola con vossignoria illustrissima.

RODEG. Se mi date licenza, anderò a sentire che cosa vuole. (a donna Emilia)

EMIL. No, no, ricevetela qui. Io frattanto anderò a mettere insieme alcune mie coserelle, per esser pronta a partire. (parte)

RODEG. Accomodatevi come v’aggrada. Ditele ch’è padrona. (il Cameriere parte)

SCENA UNDICESIMA

Donna Eularia e donna Rodegonda.

EUL. Amica, compatite se vengo a portarvi incomodo.

RODEG. Sempre care mi sono le vostre grazie.

EUL. Ditemi, donna Emilia parte oggi senz’altro?

RODEG. Partirà da qui a poch’ore.

EUL. Cara donna Rodegonda, io ho bisogno di voi.

RODEG. Comandatemi. Sapete che sopra di me avete tutto l’arbitrio.

EUL. Sapete che io di salute sto poco bene. I medici mi hanno consigliato di mutar aria, e tutti mi assicurano che l’aria del colle, essendo pura e sottile, mi gioverà infinitamente, e mi promettono da questa sola mutazion d’aria la mia salute perfetta. Più volte ho sollecitato a ciò mio marito; ma egli non ha trovato paese di sua soddisfazione. Ora si è innamorato di Castelbuono. Questa sarebbe l’occasione per me felice di respirare un’aria salubre, se donna Emilia non mi sdegnasse nella sua compagnia. Non intendo aggravarla di spesa, trattandosi di dover fare una specie di purga. Donna Emilia potrà provvedermi un alloggio, e mi basta la sua assistenza. Onde, amica mia dilettissima, a voi mi raccomando; impetratemi questa grazia, se vi preme la mia salute.

RODEG. Non volete altro? Sarete servita. Conosco donna Emilia; ella avrà ambizione di condurre con lei una sì amabile compagnia.

EUL. Ma s’ella non mi accorda di procurarmi un alloggio con libertà, non accetterò le sue grazie.

RODEG. Farà tutto quel che volete, di ciò assicurar vi posso. Andiamo a darle questa nuova felice. La vedrete balzar dal contento.

EUL. Aspettate un momento. Ditemi, donna Rodegonda, è vero che il Marchese ed il Conte sono stati arrestati?

RODEG. È verissimo. Sono stati sequestrati in due stanze terrene di questa casa.

EUL. Si sa il perché?

RODEG. La guardia li ha trovati che si battevano.

EUL. Si battevano? Per qual cagione? RODEG. Ancora non si sa cosa alcuna.

EUL. Donna Rodegonda, probabilmente fra poco io partirò, e prima di partire avrei una pressante necessità di parlare coi cavalieri arrestati.

RODEG. Donna Eularia, voi mi chiedete una cosa che non è tanto facile.

EUL. Lo so, a tutti sarebbe difficile, fuor che a voi, a cui non sa negar cos’alcuna il consorte.

RODEG. Egli ora non ci è: è andato appunto dal governatore per discorrere sopra l’arresto di questi due cavalieri.

EUL. Tanto meglio. Potete introdurmi col mezzo de’ custodi che non averanno coraggio di contradirvi. Finalmente non chiedo la loro liberazione: ma solamente di poter loro parlare. Donna Rodegonda, fatemi questa grazia.

RODEG. Qual premura vi sprona a voler con essi parlare?

EUL. Una premura onesta, ma sì necessaria e forte, che senza un tale colloquio non partirei certamente. Cara amica assistetemi, e dispensatemi dallo svelarvi un arcano, che a voi non giova sapere.

RODEG. Orsù, per farvi vedere che vi son vera amica, voglio compiacervi. Vi farò introdurre in una camera, e là farò passare i due cavalieri; ma avvertite, per amor del cielo, che non si sappia.

EUL. Fidatevi d’una dama d’onore. Preme a me la segretezza, niente meno che a voi; anzi vi supplico a far sì che don Roberto non lo venga a sapere.

RODEG. Andiamo prima che torni mio marito, e frattanto che siete a discorrere coi cavalieri arrestati, parlerò a donna Emilia per voi. (parte)

EUL. Il cielo mi va assistendo. Tutto va a seconda dei miei disegni. (parte)

SCENA DODICESIMA

Stanza terrena.

Il CONTE solo.

CON. Come! Un cavaliere par mio arrestato per una sì lieve cagione? Per aver risposto ad un ardito che mi ha provocato? Spero, se si saprà la cosa com’è, mi sarà fatta giustizia. Che dirà donna Eularia? Povera dama, che mai dirà? Se pubblica si rende la cagion delle nostre risse, si offenderà altamente la delicatezza dell’onor suo. Sento aprire. Come? Una donna? Oh cieli! Donna Eularia.

SCENA TREDICESIMA

Donna Eularia ed il suddetto.

CON. Madama, voi qui? Siete voi venuta per me?

EUL. Non son venuta per voi.

CON. Dunque qual cagione qui vi conduce?

EUL. La saprete fra poco.

CON. Ditemi, per pietà, qualche cosa che mi consoli.

EUL. Parlerò, quando mi sarà lecito di parlare.

CON. Ma quando?...

EUL. Ecco il Marchese.

CON. Il mio nemico?

EUL. Ricordatevi che una dama è con voi.

CON. Non temete, che io vi rispetto.

SCENA QUATTORDICESIMA

Il MARCHESE ed i suddetti.

MAR. Come! Anche in arresto donna Eularia fa le sue visite al Conte?

EUL. Non potete dire che io faccia visita al Conte, se a questa visita ho voluto presente anche voi.

MAR. Voi dunque m’avete fatto trasportar qui?

EUL. Sì. Io.

MAR. Per darmi dei rimproveri? Per farmi soffrire qualche cosa di più?

EUL. Cavalieri, chi di voi conosce l’onore?

MAR. Il chiederlo a me è un’offesa. L’onore in me prevale alla vita.

CON. Appresi a conoscerlo fin dalla culla.

EUL. Chi conosce l’onore, saprà l’inestimabile di lui prezzo, e saprà che il sangue di chi l’offende, non basta per risarcire l’offesa. Uditemi dunque; rispettate una dama che parla, e non interrompete il mio serio ragionamento. Voi siete due amici di mio marito, e per ragione dell’amicizia contratta seco, avete avuto la libertà di trattare con me; onde l’occasion di trattarmi voi la riconoscete unicamente da don Roberto, il quale essendo un cavaliere onorato, non ha mai dubitato della fede de’ suoi amici. Ditemi: come avete voi corrisposto all’amor suo, alla sua buona fede? Avete immediatamente cercato rapirgli il cuore della sua sposa, cavalieri indiscreti: sì, lo avete cercato. Io lo so, che ho dovuto arrossire nell’avvedermi della vostra rivalità! Sì, la vostra indegna passione vi ha trasportati all’eccesso di metter mano alla spada nelle proprie mie camere. Ringraziatemi d’avervi io difeso alla presenza di mio marito; ma ecco il ringraziamento che voi mi fate. Mi si fanno de’ nuovi insulti. Si cercano nuove risse; si parte con iscandalo dalla conversazione; si fa un duello, e si mette a repentaglio l’onore di un cavaliere, che vi ha introdotti per amicizia; di una dama, che vi ha sofferti per convenienza. Orsù, siete arrestati; ma essendo leggiera in faccia al mondo la vostra colpa, sarà leggiera la vostra pena. La pena grande cadrà sopra di me, se sarà noto che per mia cagione vi siate sdegnati, vi siate battuti. La gelosia suppone amore, e niuno vorrà credere che voi siate due fanatici appassionati senza cagione. A questo gran male siete ancora in tempo di riparare. La cagione delle vostre risse ancora non è palese. L’onor mio, l’onor vostro, due cose richiede. La prima, che supponghiate un’ideale cagione dei vostri sdegni, la seconda, che torniate amici com’eravate. La prima è facile, la seconda è difficile; ma io vi saprò agevolare anco questa. Non siete rivali per me? Non siete nemici per mia cagione? Eccovi levato l’oggetto de’ vostri sdegni. Io parto, io vado a Castelbuono con mio marito. Ma deh, prima ch’io parta, cavalieri onorati, cavalieri saggi e discreti, a una dama che si sagrifica per vostra cagione, fate questa sola grazia, che col pianto agli occhi vi chiede. Tornate amici, scordatevi di ogni rissa, e se mi volete veder contenta, vi supplico, vi scongiuro, abbracciatevi alla mia presenza.

CON. Ah Marchese, resistere più non posso. Eccomi fra le vostre braccia.

MAR. Sì, in grazia di donna Eularia, come amico vi abbraccio.

SCENA QUINDICESIMA

Donna Rodegonda ed i suddetti, poi cameriere.

RODEG. Donna Eularia, avete voi terminato?

EUL. Sì, ho quasi finito.

RODEG. Presto, andiamo, che mio marito ritorna.

EUL. Che notizie abbiamo circa gli ordini del governatore?

RODEG. So aver egli detto, che trattandosi di un semplice incontro, se i cavalieri sono pacificati, si rimettano in libertà.

EUL. Ecco: questi due cavalieri abbracciati si sono in questo momento.

CON. In grazia di donna Eularia, godremo più presto la libertà.

MAR. Donna Eularia avrà il merito di averci pacificati.

RODEG. Andiamo, che donna Emilia sospira il piacer di vedervi, ed è contentissima d’avervi seco.

EUL. Cavalieri, fra poco uscirete d’arresto, ed io fra poco uscirò da questa città.

RODEG. Ehi, signori arrestati, con questa compagnia credo vi contentereste di stare in arresto anche un poco. (parte con donna Eularia)

MAR. Donna Eularia è una dama che non ha pari.

CAM. Signori, favoriscano venir con me dal signor giudice. (parte)

MAR. Andiamo, e consoliamoci che donna Eularia ci fa andare uniti, senza livore. (parte)

CON. Apprenderò con più serietà quanto sia pericoloso l’impegnar il cuore per una dama. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Camera di donna Rodegonda.

Donna Emilia e don Roberto.

EMIL. Credetemi, don Roberto, che io sono di ciò consolatissima. La compagnia di donna Eularia mi sarà sempre cara. Voi mi fate un esquisito regalo.

ROB. Tutto effetto della vostra bontà. Ma dov’è mia moglie? Non si lascia vedere?

EMIL. Ella, come vi ho detto, era in camera di donna Rodegonda. Può essere che sia a fare una finezza anche a mio marito.

ROB. Quanti anni ha il vostro signor marito?

EMIL. Mi dispiace che egli sia avanzato in età; non avrà grazia per fare il cavalier servente di donna Eularia.

ROB. Eh, non importa, non importa. A Castelbuono già non si usa. Ma ancora non si vede...

EMIL. Verrà: di che avete paura?

ROB. Mi dispiace che fa una mal’opera con voi. (Quando siamo a Castelbuono, non la voglio lasciare un momento. Colà non sarò criticato). (da sé)

EMIL. Eccola con donna Rodegonda.

SCENA DICIASSETTESIMA

Donna Eularia e donna Rodegonda, e detti.

ROB. Ma via, favoriscano ancor noi.

EMIL. Presto, donna Eularia; a momenti dobbiamo partire.

EUL. Mi ha rappresentato donna Rodegonda con quanta bontà vi degnate di favorirci. (a donna Emilia)

EMIL. I favori li ricevo io.

EUL. Don Roberto, avete voi riverito ancora il signor don Alfonso?

ROB. No; due volte ho procurato di farlo, e sempre l’ho trovato impedito.

EUL. Se volete vederlo, ora è solo.

ROB. Sì, vado subito. (Gran prodigio! Tre donne senza un servente? Oh, se andasse sempre così! Si potrebbe vivere anco in città). (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Donna Eularia, donna Rodegonda e donna Emilia.

EUL. Dunque mi assicurate, signora donna Emilia, che a Castelbuono ci sarà una comoda abitazione?

EMIL. Quante volete; ma spero non farete torto alla mia casa.

EUL. Per qualche giorno potrei godere le vostre grazie.

EMIL. Che! Ci volete stare per sempre?

EUL. Chi sa?

EMIL. Non fate questa pazzia.

SCENA DICIANNOVESIMA

Il CONTE, il MARCHESEe le dette.

EMIL. Oh evviva, eccoli liberati.

RODEG. Mi rallegro con lor signori.

MAR. Grazie alla vostra bontà.

EMIL. Ma che è seguito? Perché vi siete alterati? Perché vi siete battuti?

CON. Nell’uscire di casa di donna Eularia, proposi io al Marchese di andare ad una mia particolare conversazione, ed ei voleva obbligarmi d’andare alla sua. Piccati sopra di ciò, siamo passati a dir delle ingiurie alle nostre belle, deridendoci scambievolmente. Sapete che una parola eccita l’altra. Ci siamo sfidati; ci siamo bravamente battuti.

EMIL. E ora, siete pacificati?

MAR. Sì, siamo amicissimi.

RODEG. E sapete chi li ha fatti pacificare?

EMIL. Chi?

RODEG. Domandatelo a donna Eularia.

EUL. Certo io lo so. Il signor governatore ha detto che escano, se sono pacificati, ed essi non hanno tardato a farlo per la premura della libertà.

RODEG. (Ho inteso. Non vuol che si sappia averci ella avuta parte. Fa bene. Un’altra lo direbbe a tutto il paese). (da sé)

SCENA VENTESIMA

Don Roberto e detti.

ROB. Oh, eccomi qui... (Mi voleva maravigliare che non ci fossero i ganimedi). (da sé)

EMIL. Che ha detto mio marito? Quando partiremo noi? (a don Roberto)

ROB. Egli fa attaccare i cavalli, e aspetta il nostro comodo.

EUL. Marito mio carissimo, voi direte che io sono volubile, ma non so che fare. Sappiate che sono quasi pentita di andare a Castelbuono.

EMIL. Oh, questa vi vorrebbe!

ROB. Come! Pentita? Sono forse stati questi signori, che vi hanno svogliata?

MAR. Noi non abbiamo parlato.

EUL. La ragione per cui sono quasi pentita, non è già per piacer di restare, o per dispiacer d’andare. Penso che la mutazione dell’aria mi potrà far bene, ma tornando in città, starò peggio che mai: onde per pochi giorni non ci voglio andare. O andiamo per istarvi un anno o non ci vengo punto.

ROB. Sì, un anno, due, tre. Anco sempre, se volete.

EUL. Anco sempre?

ROB. Sì, per contentarvi lo farò volentieri.

EUL. Quand’è così, andiamo immediatamente.

ROB. E della casa nostra che ne faremo?

EUL. Dopo qualche tempo verrete voi ad appigionarla e levare i mobili, se vi piacerà il soggiorno di Castelbuono.

ROB. Mi piacerà senz’altro. Amici, addio. State allegri, state sani. Godetevi le vostre amabilissime conversazioni. Quanto mi spiace lasciarvi! Quanto mi spiace che donna Eularia perda la compagnia di due cavalieri savi e prudenti, come voi siete!

MAR. Amico, fate bene a contentare una moglie che merita. (Ella è troppo severa, e suo marito è troppo condiscendente). (da sé, parte)

CON. Auguro a tutti un felice viaggio. Don Roberto, amate vostra moglie, che ben lo merita. (S’io fossi il di lei marito, non la lascierei praticare liberamente, come fa don Roberto. Si vede bene ch’ei non è niente geloso). (da sé, parte)

ROB. (Manco male che se ne sono andati). (da sé) Donna Eularia, do alcuni altri ordini al maestro di casa che in sala mi aspetta, e monto in carrozzino senza nemmeno tornare a casa... Ma ditemi, che cosa faremo di Colombina?

EUL. Colombina e suo fratello mi hanno chiesto licenza perché la loro madre è moribonda. Li ho regalati, e partiranno a momenti.

ROB. Buono. E il paggio lo condurremo con noi?

EUL. Il paggio? Non sapete quel bricconcello del paggio? Perché ieri gli ho dato uno schiaffo, è fuggito da una sua zia e non vuol più venire.

ROB. Questa sua fuga non può essere più a tempo. A Castelbuono si usano i paggi? (a donna Emilia)

EMIL. Non si usano.

ROB. Gli altri servitori li condurremo con noi.

EUL. Sì. (Gli altri non sanno nulla degli accidenti occorsi). (da sé)

ROB. Andiamo dunque a questo benedetto castello. (Lode al cielo, avrò terminata quell’enorme fatica d’esser geloso e di non parere di esserlo. Se mia moglie si elegge per abitazione un castello, è segno ch’ella non è invaghita del mal costume di una città). (da sé, parte)

EMIL. Andiamo, donna Eularia; andiamo, che a Castelbuono vi sembrerà più cara e più piacevole la conversazion del marito. (parte)

RODEG. Andate pure, e badate bene di non annoiarvi. Chi è avvezzo al gran mondo, difficilmente si accomoda al vivere ritirato. (parte)

EUL. Io mi aspetto godere una vita felice, un ritiro beato, un soggiorno pieno di contentezze. Ecco superato il mio impegno, ecco a fine condotta la macchina che ho disegnata. Mio marito è stato geloso alla follia, e niuno lo ha conosciuto. Due cavalieri sono stati per mia cagione rivali, e niuno lo ha penetrato. La servitù mormorava, ed io mi sono dalle loro mormorazioni sottratta. Conobbi essere una gran città per me e mio marito pericolosa, ed eletta mi sono l’abitazion di un castello. In questa maniera don Roberto non avrà occasione d’esser geloso. Egli viverà quieto, ed io passerò i giorni tranquillamente. Anderò a Castelbuono. Molti crederanno che Castelbuono sia un paese ideale; ma io dico che Castelbuono è quello in cui si elegge di vivere una Dama prudente.

Fine della Commedia