La decadenza della menzogna

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di Oscar Wilde

Personaggi:

CYRIL

VIVIAN

Scene:

La biblioteca di una casa di campagna nel Nottinghamshire.

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Nota introduttiva:

Nel gennaio 1889 sulla rivista londinese «The Nineteenth Century» compare un dialogo di Mr. Oscar Wilde dal titolo «The Decay of Lying – An observation», i cui personaggi rappresentano due giovani esteti, Cyril e Vivian, i nomi dei due figli di Wilde, in amabile conversazione all’interno di una biblioteca di una dimora nella campagna del Nottinghamshire.

In De Profundis, la ben nota lettera scritta da Wilde in carcere nel 1897, viene narrata la probabile nascita del dialogo: <SPAN lang=EN-GB>«Out of my dinner with Robbie came the first and the best of all my dialogues. Idea, title, treatment, mode, everything was struck out at a 3 franc 50 c. table d’hôte.» </SPAN><SPAN lang=EN-GB></SPAN>(Dal mio pranzo con Robbie nacque il primo e il migliore di tutti i miei dialoghi. L’idea, il titolo, il trattamento, l’esecuzione, tutto fu compreso nei 3 franchi e 50 centesimi della table d’hôte)

Il dialogo non può essere ovviamente il frutto di un pranzo, la sua ideazione non è così estemporanea come l’autore vuol far credere, dato che le idee da esso espresse si sono maturate dopo una lunga serie di conversazioni, di letture inerenti l’arte, in particolare la pittura, che si inaugurano molti anni prima, a partire dagli studi oxfordiani di Wilde nel periodo che va dal 1874 al 1878, anno in cui lo scrittore irlandese ottiene il diploma di Bachelor of Arts.

I principi esposti in «The Decay of Lying – An observation» sono in estrema sintesi la denuncia da parte di Wilde di una effettiva capitolazione dell’arte, di un asservimento di questa verso la realtà e di una squalifica dell’artista, non più artefice, ma esecutore materiale, meccanico e asettico del reale in pittura, in letteratura.

Il contributo che, grazie a quest’opera, Wilde dà all’annosa questione dell’art pour l’art è uno dei più apprezzati dalla nostra critica contemporanea, data la sua valenza estetica che riesce in anticipo a fondere le antiche testimonianze dei sostenitori del tema dell’indipendenza dell’arte con le nuove frontiere avanguardistiche, praticamente da Victor Cousin al surrealismo.

Il dialogo «The Decay of Lying – An observation» viene ripreso e pubblicato in volume nel 1891, insieme ad altre tre opere saggistica, nella raccolta «Intentions».

ATTO UNICO

CYRIL - (entra dalla porta a vetri che dà sulla terrazza) Mio caro Vivian, non stare tutto il giorno ingabbiato in biblioteca. È un pomeriggio splendido. L’aria è squisita. Sui boschi si stende una foschia come lanugine purpurea su di una prugna. Andiamo a sdraiarci sull’erba, fumiamo una sigaretta e godiamoci la Natura.

VIVAN - Godere la Natura! Sono lieto di dire che ho perduto del tutto quella facoltà. La gente ci dice che l’Arte ci fa amare la Natura più di quanto l’amassimo prima; che rivela a noi i suoi segreti; e che dopo un accurato studio di Corot e Constable vi vediamo cose che erano sfuggite alla nostra osservazione. La mia esperienza personale è che più studiamo l’Arte, meno ci importa della Natura. Quel che l’arte realmente ci rivela è l’assenza del disegno della Natura, le sue curiose asprezze, la sua straordinaria monotonia, la sua condizione assolutamente incompiuta. La Natura, è ovvio, ha buone intenzioni, ma, come disse una volta Aristotele, non sa realizzarle. Quando guardo un paesaggio non posso fare a meno di vedere tutti i suoi difetti. Comunque è per noi una fortuna che la Natura sia così imperfetta, perché altrimenti non avremmo affatto arte. L’Arte è la nostra vivace protesta, il nostro fiero tentativo di insegnare alla Natura a stare al suo giusto posto. Riguardo l’infinita varietà della Natura, questo è un puro mito. Questa varietà non si deve trovare nella Natura stessa. Risiede nell’immaginazione, o fantasia, o cecità coltivata dell’uomo che la guarda.

CYRIL - Beh, non c’è bisogno che tu guardi il paesaggio. Puoi sdraiarti disteso sull’erba a fumare, a conversare.

VIVAN - Ma la Natura è così scomoda. L’erba è dura, piena di zolle, umida e zeppa di orribili insetti neri. Perbacco, perfino il più modesto artigiano di Morris sarebbe in grado di fabbricarti una sedia più comoda di quanto possa tutta la Natura insieme. La Natura impallidisce davanti alla mobilia della ‘strada che da Oxford ha preso il nome’, come il poeta che tu ami tanto la definì una volta laidamente. Io non protesto. Se la Natura fosse stata confortevole, l’umanità non avrebbe mai inventato l’architettura, e io preferisco all’aria aperta le case. In una casa ci sentiamo tutti delle proporzioni appropriate. Ogni cosa è a noi subordinata, forgiata per il nostro uso e il nostro piacere. Lo stesso Egotismo che è così necessario per un giusto senso della dignità umana, è interamente il frutto della vita domestica. All’aperto si diventa astratti e impersonali. Si è assolutamente abbandonati dall’individualità. E poi la Natura è talmente indifferente, incapace di apprezzare. Quando passeggio qui fuori nel parco, penso sempre d’essere per lei non più del bestiame che bruca sul declivio, o della bardana che germoglia nel fossato. Niente è più evidente del fatto che la Natura odia la Mente. Pensare è la cosa più malsana del mondo, e la gente muore per questo proprio come muore per qualsiasi altra malattia. Per buona sorte, in Inghilterra almeno, il pensiero non è contagioso. Come popolo il nostro splendido fisico è dovuto interamente alla nostra stupidità nazionale. Spero soltanto che saremo in grado di mantenere questo grande storico baluardo della nostra felicità per molti anni a venire; ma temo che stiamo iniziando a essere educati troppo; per lo meno chiunque sia inetto a imparare si dà all’insegnamento, ecco a cosa è giunto realmente il nostro entusiasmo per l’educazione. Frattanto, faresti meglio a tornare alla tua noiosa, scomoda Natura, e a lasciarmi a correggere le bozze.

CYRIL - Scrivere un articolo! Non è molto coerente dopo quello che hai appena detto.

VIVAN - E chi vuole essere coerente? Lo stolto e il dottrinario, la gente tediosa che trascina i propri principî fino alla conclusione amara dell’agire, alla reductio ad absurdum della pratica. Non io. Come Emerson, io sulla porta della mia biblioteca scrivo la parola ‘Capriccio’. Inoltre il mio articolo è in realtà un avvertimento assai salutare e valido. Se sarà seguito, potrebbe significare una nuova Renaissance dell’Arte.

CYRIL - Qual è l’argomento?

VIVAN - Intendo intitolarlo « La Decadenza della Menzogna: una protesta ».

CYRIL - Menzogna! Pensavo che i nostri politici avessero mantenuto quell’usanza.

VIVAN - Ti assicuro che non l’hanno mantenuta. Loro non si ergono mai oltre il livello della falsa dichiarazione, ed effettivamente si accordano a dimostrare, a discutere, ad argomentare. Che differenza dal temperamento del vero bugiardo, con le sue frasi franche, impavide, la sua superba irresponsabilità, il suo sano, naturale disprezzo per ogni tipo di prova! Dopotutto, che cosa è una bella menzogna? Semplicemente ciò che è di per sé evidente. Se un uomo è sufficientemente privo di immaginazione per produrre una evidenza a supporto di una menzogna, tanto vale che dica la verità subito. No, i politici non c’entrano. Qualcosa potrebbe essere detto sul conto degli avvocati. Il manto del sofista è caduto su di essi. I loro falsi ardori e la loro irreale retorica sono deliziosi. Possono fare apparire migliore la causa peggiore, come se fossero appena usciti dalle scuole Leontine, e sono noti per strappare da giurie riluttanti verdetti di assoluzione per i loro clienti, persino quando questi clienti, come spesso accade, erano chiaramente e innegabilmente innocenti. Ma sono allevati dal prosaico e non si vergognano di appellarsi al precedente. A dispetto dei loro tentativi, la verità viene fuori. Anche i giornali hanno degenerato. Ora possono essere degni di fiducia. Lo si avverte scorrendo le loro colonne. È sempre l’illeggibile che accade. Temo che non vi sia molto da dire a favore sia del legale che del giornalista. Per di più, io mi appello in difesa della Menzogna nell’arte. Posso leggerti quello che ho scritto? Potrebbe esserti molto giovevole.

CYRIL - Sicuro, se mi dai una sigaretta. Grazie. A proposito, per quale rivista intendi inviarlo?

VIVAN - Alla Rivista Retrospettiva. Credo d’averti detto che gli eletti l’hanno riportata in vita.

CYRIL - Che vuoi dire con gli «eletti»?

VIVAN - Oh, gli Edonisti Stanchi, naturalmente. È un’associazione a cui appartengo. Abbiamo pensato di portare rose appassite all’occhiello quando ci riuniamo, e di avere una sorta di culto per Domiziano. Ho paura che tu non sia eleggibile. Ti piacciono troppo i piaceri semplici.

CYRIL - Sarei respinto per i miei spiriti animali, credo?

VIVAN - Probabilmente. E poi, sei un po’ troppo vecchio. Noi non ammettiamo alcuno che non sia dell’età comune.

CYRIL - Mi immagino che vi annoierete un mondo fra di voi.

VIVAN - Eccome. È uno degli obbiettivi dell’associazione. Ora, se tu mi prometti di non interrompermi troppo spesso, ti leggerò il mio articolo.

CYRIL - Sarò attentissimo.

VIVAN - (legge con voce molto chiara) « La Decadenza della Menzogna: una protesta. Una delle cause principali che possono essere attribuite al carattere curiosamente privo di originalità della maggior parte della letteratura contemporanea è senza dubbio la decadenza della Menzogna come un’arte, una scienza e un piacere sociale. Gli storici antichi ci hanno donato deliziose invenzioni in forma di fatto; il moderno romanziere ci regala fatti noiosi in guisa di finzione. Il libro bianco è presto divenuto il suo ideale sia per il metodo che per lo stile. Egli ha il suo noioso document humain, il suo miserabile piccolo coin de la création, nel quale scruta con il suo microscopio. Lo si trova alla Libreria Nazionale, o al British Museum, mentre sta leggendo senza vergogna il suo soggetto. Non ha nemmeno il coraggio delle idee degli altri, ma insiste a seguire direttamente la vita per ogni cosa, e ultimamente, tra le enciclopedie e l’esperienza personale, giunge sulla terra, avendo raccolto i suoi tipi dai nuclei familiari o dalla lavandaia, e avendo acquistato una quantità di informazioni utili dalle quali mai, finanche nei suoi momenti più meditativi, egli può liberarsi nettamente.

« La perdita che in generale nella letteratura risulta da questo falso ideale del nostro tempo può difficilmente essere sopravvalutata. La gente ha un modo spensierato di parlare di un «bugiardo nato», proprio come parla di un «poeta nato». Ma in entrambi i casi sbagliano. La menzogna e la poesia sono arti, arti, come vide Platone, non senza legami fra loro, e richiedono lo studio più accurato, la devozione più disinteressata. Di fatti possiedono la loro tecnica, proprio come le arti più materiali della pittura e della scultura, i loro segreti sottili di forma e colore, i loro misteri artigianali, i loro deliberati metodi artistici. Come si riconosce il poeta dalla sua musica raffinata, così si può riconoscere il bugiardo dalla sua ricca e ritmica istanza, e in nessuno dei due casi potrà bastare la casuale ispirazione del momento. Qui, come altrove, la pratica deve precedere la perfezione. Ma in questi giorni mentre la moda del poetare è diventata troppo comune e, se possibile, andrebbe scoraggiata, la moda del mentire è quasi caduta in dispregio. Molti giovani cominciano la vita con un talento naturale per l’esagerazione che, se allevato in ambiti congeniali e comprensivi, o tramite l’imitazione dei migliori modelli, potrebbe rendersi grande e meraviglioso. Ma, secondo la regola, non giungono a niente. Il giovane o cade nella noncurante abitudine della precisione... »

CYRIL - Amico mio!

VIVAN - Per favore non interrompermi nel mezzo di una frase. « Il giovane o cade nella noncurante abitudine della precisione, o si mette a frequentare le persone attempate e bene informate. Tutte e due le cose sono ugualmente fatali per la sua immaginazione, come lo sarebbero certamente per l’immaginazione di chiunque, e in breve tempo egli sviluppa una facoltà morbosa e insana di dire la verità, comincia a verificare tutte le sue affermazioni fatte in sua presenza, non ha esitazioni a contraddire quelli che sono più giovani di lui, e spesso finisce per scrivere romanzi così simili alla vita che nessuno possibilmente riesce a credere alla loro probabilità. L’esempio che stiamo portando non è così isolato. È semplicemente un esempio preso fra molti, e se non può essere fatto qualcosa per controllare, o almeno per modificare, il nostro mostruoso culto dei fatti, l’Arte si isterilirà e la bellezza lascerà questa terra.

« Anche Mr. Robert Louis Stevenson, quel maestro delizioso di prosa delicata e fantastica, è contaminato da questo vizio moderno, per il quale non conosciamo affatto nessun altro nome. Esiste un genere di cose come depredare una storia della sua realtà tentando di renderla troppo vera, e La freccia nera è così non artistico da non fregiarsi di alcun anacronismo, mentre la trasformazione del Dr. Jekyll suona pericolosamente come un esperimento descritto sul Lancet. Riguardo Mr. Rider Haggard, che ha veramente, o aveva un tempo, le attitudini di un bugiardo davvero straordinario, adesso ha così paura di venir sospettato di genio che quando ci racconta qualcosa di meraviglioso, si sente legato a inventare un ricordo personale e a piazzarlo in una nota a piè di pagina come una sorta di vile avvaloramento. Neppure gli altri nostri romanzieri sono molto meglio. Mr. Henry James fa delle narrazioni come se fosse un doloroso dovere, e scialacqua il suo limpido stile letterario su motivi bassi e «punti di vista» impercettibili, le sue frasi felici, la sua satira agile e caustica. Mr. Hall Caine, è vero, punta al grandioso, ma quando scrive ad alta voce. È così chiassoso che non si capisce quello che dice. Mr. James Payn è un adepto dell’arte di occultare ciò che non vale la pena di trovare. Egli va a caccia dell’ovvio con l’entusiasmo di un investigatore miope. Quando si voltano le pagine, la trepidazione dell’autore diventa insopportabile. I cavalli del phaeton di Mr. William Black non si elevano verso il sole. Terrorizzano solo il cielo della sera facendo scaturire violenti effetti cromolitografici. I contadini, vedendoli arrivare, si rifugiano nel dialetto. Mrs. Oliphant chiacchiera piacevolmente di curati, partite di tennis, di cose domestiche e altri argomenti barbosi. Mr. Marion Crawford ha immolato se stesso sull’altare del colore locale. È come la dama nella commedia francese che continua a parlare del beau ciel d’Italie. Inoltre, è caduta nella cattiva abitudine di spacciare moralità banali. Ci dice sempre che esser buoni è esser buoni, e che esser cattivi è esser malvagi. Talvolta è quasi edificante. Robert Elsmere è naturalmente un capolavoro, un capolavoro del genre ennuyeux, l’unica forma di letteratura per la quale gli inglesi sembrano provare piacere appieno. Un nostro giovane amico meditativo una volta ci disse che gli ricordava quel tipo di conversazione da tè nella casa di una seria famiglia non conformista, e possiamo proprio credergli. Indubbiamente è soltanto in Inghilterra che un tal libro può essere prodotto. L’Inghilterra è la patria delle idee perdute. Circa la grande e quotidianamente crescente scuola di romanzieri per i quali il sole sorge perennemente nell’East End, la sola cosa che si può dire di loro è che trovano la vita nuda e la lasciano cruda.

« In Francia, sebbene nulla di così deliberatamente tedioso come Robert Elsmere sia stato realizzato, le cose non vanno granché meglio. Monsieur Guy de Maupassant, con la sua intensa e mordace ironia e il suo stile duro e vivido, sveste la vita dei pochi poveri stracci che ancora la ricoprono, e ci mostra oscena piaga e ferita suppurata. Lui scrive luride piccole tragedie in cui ognuno è ridicolo; amare commedie di cui non si può ridere per via delle lacrime. Monsieur Zola, fedele al nobile principio che formula in uno dei suoi pronunciamenti sulla letteratura, «L’Homme de génie n’a jamais d’esprit», s’è deciso a mostrare che, se non ha genio, può almeno essere noioso. E come vi riesce bene! Egli non è privo di possenza. Certamente delle volte, come in Germinal, c’è qualcosa di quasi epico nella sua opera. Ma la sua opera è completamente sbagliata dall’inizio alla fine, e sbagliata non sul piano della morale, ma su quello dell’arte. Presa da qualsiasi posizione etica è esattamente ciò che dovrebbe essere. L’autore è perfettamente veridico e descrive i fatti esattamente come avvengono. Cosa può desiderare di più qualsiasi moralista? Non abbiamo affatto alcuna simpatia per l’indignazione morale del nostro tempo contro Monsieur Zola. È semplicemente l’indignazione di Tartufo che viene svelato. Ma dal punto di vista dell’arte, che cosa può essere detto a favore dell’autore di L’Assommoir, Nana e Pot-Bouille? Niente. Mr. Ruskin una volta descrisse i personaggi dei romanzi di George Eliot come la spazzatura di un omnibus di Pentonville, ma i personaggi di Monsieur Zola sono assai peggio. Questi hanno i loro tetri vizi e le loro virtù sono ancora più tetre. La documentazione della loro vita è assolutamente priva di interesse. A chi importa di cosa accade loro? Nella letteratura noi ricerchiamo distinzione, fascino, bellezza e forza fantastica. Non vogliamo essere straziati e disgustati dal resoconto delle azioni delle classi inferiori. Monsieur Daudet è migliore. Egli ha genio, un tocco lieve e uno stile divertente. Ma da ultimo ha commesso un suicidio letterario. Nessuno riesce a interessarsi minimamente di Delobelle con il suo «Il faut lutter pour l’art», o per Valmajour con il suo eterno ritornello dell’usignolo, o per il poeta in Jack con i suoi «mots cruel», adesso che abbiamo appreso da Vingt Ans de ma Vie littéraire che questi personaggi furono presi direttamente dalla vita. A noi sembra che abbiano perso improvvisamente tutta la loro vitalità, tutte le poche qualità che avevano mai posseduto. Le sole persone reali sono quelle che non sono mai esistite, e se un romanziere è abbastanza vile da ricorrere alla vita per i suoi personaggi, almeno dovrebbe fingere che siano creazioni e non vantarsi di loro come copie. La giustificazione di un personaggio in un romanzo non è che altre persone siano ciò che sono, ma che l’autore è quello che è. altrimenti il romanzo non è un’opera d’arte. Riguardo Monsieur Paul Bourget, il maestro del roman psychologique, egli commette l’errore di immaginare che gli uomini e le donne della vita moderna siano in grado d’essere analizzati all’infinito per una serie innumerevole di capitoli. In realtà ciò che è interessante sulla gente della buona società, e Monsieur Bourget si sposta raramente dal Faubourg St. Germain, salvo che per andare a Londra, è la maschera che ognuno di loro porta, non la realtà che sta dietro la maschera. È una confessione umiliante, ma noi tutti siamo fatti della stessa stoffa. In Falstaff c’è qualcosa di Amleto, in Amleto non c’è poco di Falstaff. Il grosso cavaliere ha i suoi umori melanconici e il giovane principe i suoi momenti di umorismo volgare. Dove mai ci differenziamo a vicenda è puramente accidentale: nel vestito, nelle maniere, nel tono della voce, nelle opinioni di religione, nell’aspetto personale, nelle manie abitudinarie e simili cose. Più si analizzano le persone, più tutte le ragioni per l’analisi scompaiono. Prima o poi si giunge a quella terribile cosa universale chiamata natura umana. Veramente, come sa fin troppo bene chiunque abbia mai operato tra i poveri, la fratellanza dell’uomo non è mero sogno di poeta, è una realtà molto deprimente e umiliante; e se uno scrittore insiste nell’analisi delle classi superiori, tanto vale che scriva di fiammiferaie e di venditori ambulanti. » Comunque, mio caro Cyril, non ti tratterrò oltre su questo punto. Io debbo proprio ammettere che i romanzi moderni hanno molti elementi positivi. Ciò su cui insisto è che, qualitativamente, nell’insieme sono del tutto illeggibili.

CYRIL - Questa è certamente una qualifica molto grave, ma devo dire che ti ritengo piuttosto ingiusto in alcune delle tue stroncature. Mi piace The Deemster, e The Daughter of Heth, e The Disciple, e Mr. Isaacs, e quanto a Robert Elsmere, io gli sono molto devoto. Non che possa guardarlo come un’opera seria. Come testimonianza dei problemi che concernono il buon cristiano è ridicolo e antiquato. È semplicemente Literature and Dogma di Arnold con l’omissione della letteratura. È tanto in ritardo sui tempi quanto Evidences di Paley, o il metodo d’esegesi biblica di Colenso. Né niente potrebbe essere meno impressionante dello sfortunato eroe che annuncia con gravità un’alba che è spuntata tanto tempo prima, e che manca così completamente il vero significato da proporre di mandare avanti gli affari della vecchia ditta sotto il nuovo nome. D’altro canto, il libro in questione contiene parecchie argute caricature e un mucchio di citazioni deliziose, e la filosofia di Green addolcisce assai piacevolmente la pillola talora amara della finzione dell’autrice. Non posso pure fare a meno di esprimere la mia sorpresa dal momento che tu non hai detto niente dei due romanzieri che leggi sempre, Balzac e George Meredith. Di certo sono entrambi realisti, non è vero?

<SPAN lang=EN-GB>VIVAN - Ah! Meredith! </SPAN>Chi lo può definire? Il suo stile è il caos illuminato dai lampi e dalle saette. Come scrittore egli ha dominato tutto fuorché il linguaggio: come romanziere può fare ogni cosa, eccetto raccontare una storia: come artista è tutto meno che articolato. Qualcuno in Shakespeare, Touchstone credo, parla di un uomo che si rompe sempre più gli stinchi sul proprio talento, e a me sembra che questo possa servire come base per una critica del metodo di Meredith. Ma qualunque cosa esso sia, non è un realista. O piuttosto direi che è un figlio del realismo che ha rotto i rapporti con suo padre. Ha reso se stesso un romantico per scelta deliberata. Si è rifiutato di inginocchiarsi davanti a Baal, e dopo tutto, anche se il fine spirito dell’uomo non si è rivoltato contro le asserzioni rumorose del realismo, il suo stile sarebbe del tutto sufficiente da solo per mantenere la vita a rispettosa distanza. Per mezzo suo egli ha piantato intorno al suo giardino una siepe zeppa di spine e rossa di meravigliose rose. Riguardo a Balzac, egli fu una ragguardevole combinazione del temperamento artistico con lo spirito scientifico. Quest’ultimo lo ha lasciato per testamento ai suoi discepoli. Il primo era interamente suo. La differenza tra un libro come L’Assommoir e le Illusions Perdues di Balzac è la differenza tra realismo senza immaginazione e la realtà immaginifica. « Tutti i personaggi di Balzac » disse Baudelaire, « sono dotati dello stesso ardore di vita che animò lui stesso. Tutte le sue finzioni sono così profondamente colorate come sogni. Ogni mente è un fucile carico fino alla bocca di volontà. Pure gli sguatteri hanno genio. » Un corso fermo di Balzac riduce i nostri amici viventi a ombre e i nostri conoscenti a ombre di ombre. I suoi personaggi hanno un tipo di esistenza fervente dal calore infuocato. Essi ci dominano e provocano lo scetticismo. Una delle più grandi tragedie della mia vita è la morte di Lucien de Rubempré. È un dolore del quale non sono mai riuscito a sbarazzarmi completamente. Mi assale nei miei momenti di piacere. Io lo rammento quando rido. Ma Balzac non è più realista di quanto lo sia stato Holbein. Egli ha creato la vita, non l’ha copiata. Ammetto, tuttavia, che ha dato un valore troppo alto alla modernità della forma, e che, di conseguenza, non esiste un suo libro che, come un capolavoro artistico, possa essere equiparato a Salambò o a Edmond, o a The Cloister and the Hearth, o al Vicomte de Bragelonne.

CYRIL - Quindi tu obbietti alla modernità della forma?

VIVAN - Sì. È un prezzo enorme da pagare per un risultato assai modesto. La pura modernità della forma involgarisce sempre un poco. Non può fare a meno di essere così. Il pubblico immagina che, poiché si interessa dei propri ambienti immediati, l’Arte dovrebbe esserne interessata ugualmente, e prenderli come un suo soggetto da trattare. Ma il solo fatto che il pubblico sia interessato a queste cose le rende inadatte come soggetti per l’Arte. Le uniche cose belle, come qualcuno disse una volta, sono le cose che non ci riguardano. Finché una cosa ci è utile o necessaria, o ci tocca in qualche modo, sia nel dolore che nel piacere, o fa appello fortemente alle nostre simpatie, o è una parte vitale dell’ambiente in cui viviamo, si colloca fuori dalla sfera dell’arte. Noi dovremo essere più o meno indifferenti di fronte al soggetto materiale dell’arte. Noi non dovremo, comunque, avere preferenze, pregiudizi, sentimenti partigiani di alcun tipo. È esattamente perché Ecuba non è niente per noi che i suoi dolori sono un motivo talmente ammirevole per una tragedia. Io non conosco niente in tutta la storia della letteratura di più trsite della carriera artistica di Charles Reade. Egli scrisse un bel libro, The Cloister and the Hearth, un libro molto al di sopra di Romola, come Romola è al di sopra di Daniel Deronda, e sperperò il resto della sua vita nel folle tentativo di essere moderno, di attirare la pubblica attenzione sullo stato delle nostre case di detenzione, e sulla gestione dei nostri frenocomi privati. Charles Dickens fu deprimente abbastanza, francamente, quando provò a smuovere la nostra simpatia per le vittime dell’amministrazione della legge sui poveri; ma Charles Reade, un artista, un letterato, un uomo con un senso vero della bellezza, che si imbestialisce e ruggisce sugli abusi della vita contemporanea come un comune autore di pamphlet o un giornalista sensazionale, è veramente uno spettacolo da far lacrimare gli angeli. Credimi, mio caro Cyril, la modernità della forma e la modernità del soggetto sono del tutto ed assolutamente errate. Abbiamo preso erroneamente la linea comune dell’epoca per la veste delle Muse, e speso i nostri giorni nelle sordide vie e negli orribili sobborghi delle nostre vili città, quando dovremo essere fuori sul colle con Apollo. Certamente noi siamo una razza degradata e abbiamo venduto il nostro diritto di primogenitura per una porzione di fatti.

CYRIL - C’è qualcosa in ciò che dici, e non v’è dubbio che qualunque divertimento potremmo trovare nella lettura di un romanzo puramente moderno, raramente proviamo alcun piacere nel rileggerlo. E questa è forse la migliore prova bruta di ciò che è la letteratura e di ciò che non lo è. Se non si gode a leggere un libro sempre di più, non vale la pena di leggerlo affatto. Ma cosa ne dici del ritorno alla Vita e alla Natura? Questa è la panacea che ci viene sempre raccomandata.

VIVAN - Ti leggerò ciò che dico sull’argomento. Il passo è più avanti nell’articolo, ma è tanto meglio che te lo legga ora:

« Il grido popolare del nostro tempo è «Torniamo alla Vita e alla Natura; loro ricreeranno l’Arte per noi, e porteranno il sangue rosso a scorrere nelle loro vene; calzeranno con dolcezza i suoi piedi e rafforzeranno la sua mano.» Ma, ahimé! Ci siamo sbagliati nei nostri amabili e ben intenzionati sforzi. La Natura è sempre indietro rispetto all’epoca. E quanto alla Vita, essa è il solvente che distrugge l’Arte, il nemico che le saccheggia la casa. »

CYRIL - Che cosa intendi dicendo che la Natura è sempre indietro rispetto all’epoca?

VIVAN - Beh, forse è un po’ criptico. Ciò che intendo è questo. Se noi prendiamo la Natura come semplice istinto naturale opposto alla cultura autocosciente, l’opera prodotta sotto questa influenza è sempre fuori moda, antiquata e datata. Un tocco di Natura può rendere affine il mondo, ma due tocchi di Natura distruggerebbero qualsiasi opera d’Arte. Se, d’altro canto, guardiamo alla Natura come alla collezione dei fenomeni esterni all’uomo, la gente scopre soltanto in essa ciò che le apporta. La Natura da sola non suggerisce niente. Wordsworth andò ai laghi, ma non fu mai un poeta lacustre. Rinvenne nelle pietre i sermoni che là aveva già nascosto. Andò a moraleggiare per il distretto, ma la sua opera valida prodotta quando tornò, non alla Natura ma alla poesia. La poesia gli donò Laodamia, e i bei sonetti, e la grande Ode, così com’è. La Natura gli donò Martha Ray e Peter Bell, e l’allocuzione alla vanga di Mr. Wilkinson.

CYRIL - Ritengo che la questione potrebbe essere confutata. Io sono piuttosto incline a credere nell’‘impulso che promana da un bosco primaverile’, sebbene sia ovvio che il valore artistico di tale impulso dipenda interamente dal tipo di temperamento che lo riceve, così che il ritorno alla Natura verrebbe a significare semplicemente il procedere verso una grande personalità. Dovresti essere d’accordo con questo, immagino. Tuttavia, prosegui con il tuo articolo.

VIVAN - (legge) « L’Arte comincia con la decorazione astratta, con un’opera puramente immaginativa e piacevole, trattante ciò che è irreale e inesistente. Questo è il primo stadio. Poi la Vita diviene affascinata da questa nuova meraviglia, e chiede di essere ammessa nel cerchio incantato. L’Arte coglie la Vita come parte del suo materiale grezzo, la ricrea e la rimodella in forme nuove, è del tutto indifferente al fatto, inventa, immagina, sogna, e mantiene fra se stessa e la realtà la barriera impenetrabile del bello stile, del trattamento decorativo o ideale. Il terzo stadio è là dove la vita ha il sopravvento e scaccia via l’arte nel deserto. Questa è la vera decadenza, ed è di questo che oggi soffriamo.

« Prendiamo il caso del teatro inglese. All’inizio nelle mani dei monaci l’Arte Drammatica fu astratta, decorativa e mitologica. Poi ingaggiò la Vita al proprio servizio, e usando alcune forme esteriori della vita, creò una razza del tutto nuova di esseri, le cui sofferenze furono più terribili di qualsiasi sofferenza provata mai dall’uomo, le cui gioie furono più forti delle gioie dell’amante, che aveva la collera dei Titani e la calma degli dei, che aveva peccati mostruosi e meravigliosi, virtù mostruose e meravigliose. Donò a essi un linguaggio diverso da quello usato abitualmente, un linguaggio pieno di musica risonante e di dolce ritmo, reso sontuoso dalla cadenza solenne, o reso delicato dalla rima fantastica, ingemmato di parole meravigliose e arricchito dalla dizione elevata. Vestì i suoi figli con strani costumi e diede loro maschere, e al suo ordine il mondo antico si alzò dalla sua tomba marmorea. Un nuovo Cesare procedette maestoso per la strada di una rinata Roma, e con purpurea vela e con remi guidati dai flauti un’altra Cleopatra risalì il fiume verso Antiochia. Vecchi miti e leggende e sogni presero forma e sostanza. La Storia fu interamente riscritta, e vi fu a malapena uno dei drammaturghi che non riconobbe che l’oggetto dell’Arte non è la semplice verità ma la bellezza complessa. In questo avevano perfettamente ragione. L’Arte stessa è realmente una forma di esagerazione; e la selezione, che è proprio lo spirito dell’arte, non è niente di più che una maniera intensificata di superenfasi.

« Ma la Vita ben presto distrusse la perfezione della forma. Perfino in Shakespeare noi possiamo scorgere l’inizio della fine. Esso si mostra attraverso il graduale disperdersi del blank-verse nei suoi ultimi drammi, con la predominanza data alla prosa e con la troppa importanza assegnata alla caratterizzazione. I passi in Shakespeare, e ve ne sono molti, dove il linguaggio è ordinario, volgare, esagerato, fantastico, persino osceno, sono interamente dovuti alla Vita che invoca un’eco della sua stessa voce e rifiuta l’intervento del bello stile, solo attraverso il quale si dovrebbe sopportare che la vita trovi espressione. Shakespeare non è in alcun modo un artista senza pecche. Egli ama troppo andare direttamente verso la vita e derivare la naturale espressione della vita. Dimentica che quando l’Arte consegna il suo mezzo immaginativo consegna tutto. Goethe dice, in qualche parte: «<SPAN lang=DE>In der Beschränkung zeigt sich erst der Meister»</SPAN><SPAN lang=DE>, </SPAN><SPAN lang=DE></SPAN>«È nello stare entro i limiti che il maestro si rivela», e la limitazione, la condizione propria di ogni arte è lo stile. Comunque, non c’è bisogno di indugiare oltre sul realismo di Shakespeare. The Tempest è la più perfetta delle palinodie. Tutto ciò che volevamo sottolineare era che l’opera magnifica degli artisti elisabettiani e giacobiani conteneva in sé i semi della propria dissoluzione, e che, se riceveva un po’ della sua forza dall’usare la vita come materiale grezzo, derivava tutta la sua fiacchezza dall’usare la vita come un metodo artistico. Come risultato inevitabile di questa resa di forma immaginativa, noi abbiamo il moderno melodramma inglese. I personaggi in queste rappresentazioni parlano sulla scena esattamente come parlerebbe fuori di essa; non hanno né aspirazioni né aspirate; sono presi direttamente dalla vita e riproducono la sua volgarità fino al più piccolo dettaglio; presentano l’andatura, i modi, il costume e l’accento della gente reale; passerebbero inosservati in uno scompartimento ferroviario di terza classe. E in più, come sono tediose queste rappresentazioni! Non riescono neppure a produrre quell’impressione di realtà a cui mirano, e che è la loro sola ragione di esistere. Come metodo, il realismo è un fallimento completo.

« Ciò che è vero rispetto al teatro e al romanzo non è meno vero rispetto a quelle arti che noi chiamiamo arti decorative. Tutta la storia di queste arti in Europa è la raccolta della lotta tra l’Orientalismo, con il suo franco rifiuto dell’imitazione, il suo amore della convenzione artistica, il suo sdegno per l’attuale rappresentazione di qualsiasi oggetto della Natura e il nostro spirito imitativo. Ovunque il primo è stato supremo, come in Bisanzio, Sicilia e Spagna, per diretto contatto o nel resto dell’Europa per l’influenza delle Crociate, abbiamo opere belle e immaginifiche nelle quali le cose visibili della vita sono trasfigurate in convenzioni artistiche, e le cose che la Vita non ha sono inventate e foggiate per il suo piacere. Ma ovunque siamo tornati alla Vita e alla Natura, la nostra opera è diventata sempre volgare, ordinaria e priva di interesse. I moderni arazzi, con i suoi effetti aerei, le sue prospettive elaborate, le loro ampie distese di cielo deserto, il suo realismo fedele e laborioso, non hanno affatto alcuna bellezza. Il vetro dipinto della Germania è assolutamente detestabile. Stiamo iniziando a tessere tappeti accettabili in Inghilterra, ma solo perché siamo tornati al metodo e allo spirito dell’Oriente. I nostri tappeti di venti anni fa, con le loro solenni e deprimenti verità, la loro inane venerazione della Natura, le loro sordide riproduzioni di oggetti visibili, sono divenuti, perfino per i filistei, una fonte di ilarità. Un colto maomettano una volta ci fece notare: «Voi cristiani siete così preoccupati a mistificare il quarto comandamento che non avete mai pensato di fare un’applicazione artistica del secondo.» Aveva perfettamente ragione e la verità esauriente della faccenda è questa: «La scuola appropriata per imparare l’Arte non è la Vita ma l’Arte. »

E ora lascia che ti legga un passaggio che a me sembra sistemare la questione nel modo più completo.

« Non è stato sempre così. Non abbiamo bisogno di dire niente dei poeti, poiché loro, con l’infelice eccezione del Signor Wordsworth, sono stati veramente fedeli alla loro alta missione e sono riconosciuti universalmente del tutto inattendibili. Ma nell’opera di Erodoto, che, a dispetto dei tentativi epidermici e ingenerosi dei moderni saputelli di verificare la sua storia, può giustamente essere definito il «Padre della Menzogna»; nei discorsi pubblicati di Cicerone e nelle biografie di Svetonio; nel miglior Tacito; nella Storia naturale di Plinio; nel Periplo di Annone; in tutti i cronisti antichi; nelle Vite dei Santi; in Froissart e in sir Thomas Malory; nei viaggi di Marco Polo; in Carlo Magno, e Aldovrando, e Corrado Licostene, col suo magnifico Prodigiorum et Ostentorum Chronicon; nell’autobiografia di Benvenuto Cellini e nelle memorie di Casanova; nella Storia della Peste di Defoe; nella Vita di Johnson di Boswell; nei dispacci di Napoleone e nelle opere del nostro Carlyle, la cui Rivoluzione Francese è uno dei romanzi storici più affascinanti mai scritti, i fatti o sono mantenuti nella loro appropriata posizione subordinata, o sono generalmente esclusi il generale motivo della monotonia. Adesso tutto è mutato. I fatti non solo stanno trovando una posizione stabile nella storia, ma stanno usurpando il dominio della Fantasia e hanno invaso il regno del Romanzo. Il loro agghiacciante tocco è su ogni cosa. Stanno involgarendo l’umanità. Il crudo commercialismo dell’America, il suo spirito materialista, la sua indifferenza per il lato poetico delle cose, e la sua assenza di immaginazione e di ideali alti e irraggiungibili, sono dovuti interamente a quel paese che ha adottato come suo eroe nazionale un uomo che, secondo la sua stessa confessione, fu incapace di dire una menzogna, e non è troppo affermare che la storia di George Washington e del ciliegio ha nuociuto di più, e in un minor lasso di tempo, di qualunque altro racconto morale in tutta la letteratura. »

CYRIL - Mio caro amico!

VIVAN - Ti assicuro che le cose stanno così, e la parte più divertente di tutta la faccenda è che la storia del ciliegio è un mero mito. Comunque, non devi pensare che io sia troppo depresso sul futuro artistico dell’America e del nostro paese. Ascolta questo:

« Che qualche cambiamento avverrà prima che questo secolo sia giunto alla fine non dobbiamo aver dubbio. Stufa della noiosa ed edificante conversazione di quelli che non possiedono né lo spirito per esagerare né genio per il romanzo, stanca della persona intelligente le cui reminiscenze si basano sempre sulla memoria, le cui affermazioni sono invariabilmente limitate dalla probabilità, e che è costantemente esposta a essere corroborata dal Filisteo più puro che per caso è presente, la Società prima o poi deve tornare alla sua guida perduta, al colto e affascinante mentitore. Chi fu colui che per primo, senza essere andato fuori a caccia grossa, raccontò, verso il tramonto, ai cavernicoli stupefatti come egli aveva trascinato il Megaterio dalla purpurea oscurità del suo antro di diaspro, o ammazzato il Mammuth a duello e riportato le sue zanne dorate, non possiamo dirlo e nessuno dei nostri moderni antropologi, per tutta la loro vantata scienza, ha avuto il coraggio di dircelo. Qualunque fosse il suo nome o la sua razza, egli fu certamente il vero fondatore delle relazioni sociali. Poiché il fine di colui che mente è semplicemente incantare, deliziare, offrire il piacere. Egli è la base stessa della società civilizzata, e senza di lui un pranzo, anche nei palazzi dei grandi, è così noioso come una conferenza alla Royal Society, o un dibattito alla Società degli Autori, o una delle commedie farsesche di Mr. Burnand.

« Egli sarà ben accolto non solo dalla società. L’Arte evadendo dalla prigione del realismo, correrà a salutarlo, e bacerà le sue false e belle labbra, sapendo che egli soltanto è in possesso del grande segreto di tutta la sua manifestazione, il segreto che la Verità è interamente e assolutamente una questione di stile; mentre la Vita, la povera, probabile, tanto poco interessante vita umana, stanca di ripetere se stessa a beneficio del Signor Herbert Spencer, degli storici scientifici e dei compilatori di statistiche in genere, lo seguirà docilmente, e tenterà di riprodurre, nel suo modo semplice e rozzo, qualcuna delle meraviglie di cui egli parla.

« Senza dubbio ci saranno sempre critici che, come un certo scrittore nella «Saturday Review», censureranno gravemente il dicitore di storie fabiesche per la sua difettosa conoscenza della storia naturale, che misureranno l’opera fantastica col metro della sua mancanza di qualsiasi facoltà immaginativa, e alzeranno le loro mani macchiate di inchiostro con orrore se qualche onesto gentiluomo, che non è mai andato più lontano dei tassi del suo giardino, stende un libro di viaggi affascinante come Sir John Mandeville, o, come il grande Raleigh, scrive una storia intera del mondo, senza conoscere assolutamente nulla del passato. Per scusarsi tenteranno di rifugiarsi sotto lo scudo di colui che creò il mago Prospero e gli donò come servi Calibano e Ariele, che udì i Titani soffiare nei loro corni intorno al banco di coralli dell’Isola Incantata e le fate cantare tra di loro in un bosco vicino ad Atene, che condusse i re fantasmi in fievole processione attraverso le brumose lande della Scozia, e nascose Ecate in una grotta con le bizzarre sorelle. Invocheranno Shakespeare, fanno sempre così, e citeranno quel trito passaggio dimenticando che questo disgraziato aforisma sull’Arte che regge lo specchio alla Natura è deliberatamente pronunciato allo scopo di convincere gli spettatori della sua assoluta follia in ogni argomento d’arte. »

CYRIL - Ahem! Un’altra sigaretta, per favore.

VIVAN - Mio caro amico, qualunque cosa tu dica, è meramente un’espressione drammatica, e niente rappresenta le reali vedute di Shakespeare sull’arte più di quanto le battute di Iago rappresentino le sue reali vedute sulla morale. Ma fammi andare alla fine del passo:

« L’Arte trova la propria perfezione all’interno e non all’esterno di se stessa. Essa non deve essere giudicata attraverso un criterio esterno di somiglianza. Essa è un velo, più che uno specchio. Ha fiori che nessuna foresta conosce, uccelli che nessun bosco possiede. Fa e disfa molti mondi e può gettare la luna giù dal cielo con un filo scarlatto. Sue sono le «forme più reali dell’uomo vivente», e suoi i grandi archetipi di cui le cose che hanno resistenza non sono altro che copie non rifinite. La Natura non ha, nei suoi occhi, né leggi, né uniformità. Può fare miracoli a suo piacimento e quando invoca i mostri dal profondo questi vengono. Può far fiorire il mandorlo in inverno e mandare la neve sul grano maturo. Alla sua parola il gelo mette il suo dito d’argento sulla bocca infuocata di giugno e i leoni alati strisciano fuori dalle cavità dei colli lidii. Le driadi fanno capolino dal boschetto quand’essa vi passa e i bruni fauni le sorridono stranamente quando si avvicinano a loro. Ha dèi dal viso di falco che la venerano e i centauri galoppano al suo fianco. »

CYRIL - Mi piace questo. Mi sembra di vederlo. È la fine?

VIVAN - No. C’è ancora un passaggio, ma è puramente pratico. Suggerisce semplicemente dei metodi con cui noi potremmo far rivivere quest’arte perduta della Menzogna.

CYRIL - Beh, prima che tu me lo legga, mi piacerebbe porti una domanda. Che cosa vuoi dire affermando che la vita, «la povera, probabile, tanto poco interessante vita umana», tenterà di riprodurre le meraviglie dell’arte? Io posso capire abbastanza la tua obiezione all’arte che viene trattata come uno specchio. Tu pensi che ridurrebbe il genio alla posizione di uno specchio rotto. Ma non intendi affermare che credi seriamente che la Vita imita l’Arte, che la Vita in definitiva è lo specchio e l’Arte la realtà?

VIVAN - Certamente. Sebbene possa sembrare un paradosso, e i paradossi sono sempre cose pericolose, non è meno vero che la Vita imiti l’arte assai più di quanto l’Arte imiti la vita. Noi tutti abbiamo visto ai nostri giorni in Inghilterra come un certo tipo curioso e affascinante di bellezza, inventato e enfatizzato da due pittori immaginativi, abbia così influenzato la Vita che ogniqualvolta si vada a un’anteprima di una mostra o a un salon artistico si veda qui gli occhi mistici del sogno di Rossetti, la lunga gola eburnea, la strana mascella squadrata, gli sciolti capelli ombrosi che amò così ardentemente, là la dolce verginità della Scala d’oro, la bocca simile a fiore e la stanca avvenenza della Laus Amoris, il volto pallido per la passione di Andromeda, le mani fini e la bellezza agile della Vivian nel Sogno di Merlino. Ed è sempre così. Un grande artista inventa un tipo e la Vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in una forma popolare, come un editore intraprendente. Né Holbein, né Van Dick trovarono in Inghilterra ciò che ci hanno dato. Essi portarono con sé i loro tipi, e la Vita con la sua viva facoltà imitativa si preparò a fornire il maestro dei modelli. I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della loro sposa la statua di Ermes o di Apollo, perché lei potesse generare figli altrettanto belli come le opere d’arte che contemplava nell’estasi o nel dolore. Loro sapevano che la Vita guadagna dall’arte non solo la spiritualità, la profondità di pensiero e di sentimento, lo sconvolgimento o la pace dell’anima, ma che essa può plasmare se stessa sulle linee e colori dell’arte e può riprodurre la dignità di un Fidia come la grazia di un Prassitele. Di qui venne la loro obiezione al realismo. Essi lo avversarono puramente per motivi sociali. Sentivano che esso inevitabilmente rende la gente brutta e avevano perfettamente ragione. Noi cerchiamo di migliorare le condizioni della razza con l’aria buona, con la luce del sole abbondante, con l’acqua pura e con orrendi nudi edifici per migliorare l’alloggio delle classi inferiori. Ma queste cose producono soltanto la salute, non la bellezza. Per questa è richiesta l’Arte, e i veri discepoli del grande artista non sono gli imitatori del suo studio, ma quelli che diventano come le sue opere d’arte, siano esse plastiche come nei giorni greci, o pittoriche come ai tempi moderni; in una parola, la Vita è la migliore, l’unica alunna dell’Arte. Com’è per le arti visibili, così è per la letteratura. La forma più ovvia e volgare in cui questo si dimostra è nel caso dei ragazzi sciocchi che, dopo la lettura delle avventure di Jack Sheppard o di Dick Turpin, scassinano i banchi delle malcapitate fruttivendole, irrompono nelle pasticcerie la notte, e impauriscono gli anziani che stanno tornando a casa dalla città sbucandogli addosso nei vicoli suburbani, con maschere nere e rivoltelle scariche. Questo interessante fenomeno, che si manifesta sempre dopo la pubblicazione di una nuova edizione di ciascuno dei due libri cui ho alluso, è solitamente attribuito all’influenza della letteratura sull’immaginazione. Ma questo è un errore. L’immaginazione è essenzialmente creativa e cerca di continuo una nuova forma. Il ragazzo scassinatore è semplicemente il risultato inevitabile dell’istinto imitativo della vita. Egli è il Fatto, occupato come il Fatto è di solito, con il tentativo di riprodurre la Finzione, e ciò che vediamo in lui è ripetuto su scala allargata durante tutta la vita. Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché un burattino una volta fu malinconico. Il Nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al rogo senza entusiasmo e muore per ciò in cui crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij. Robespierre venne fuori dalle pagine di Rousseau come sicuramente il Palazzo del Popolo sorse dai detriti di un romanzo. La letteratura anticipa sempre la vita. Non la copia, ma la foggia per il suo proposito. Il diciannovesimo secolo, come lo conosciamo, è in gran parte un’invenzione di Balzac. I nostri Lucien de Rubempré, i nostri Rastignac, e i De Marsay fecero la loro prima apparizione sul palcoscenico della Comédie Humaine. Noi stiamo soltanto eseguendo con note a piè di pagina e aggiunte superflue, il capriccio o la fantasia o la visione creativa di un grande romanziere. Una volta chiesi a una signora, che conosceva intimamente Tackeray, se egli avesse mai avuto qualche modello per Becky Sharp. Lei mi riferì che Becky era un’invenzione, ma che l’idea del personaggio era stata in parte suggerita da una governante che viveva nelle vicinanze di Kensington Square, ed era compagna di un’anziana signora egoista e ricca. Chiesi che fine avesse fatto la governante, e lei rispose che, assai stranamente, qualche anno dopo l’apparizione di Vanity Fair, era fuggita con il nipote della signora con cui viveva, e per un breve tempo fece un grande scalpore in società, proprio nello stile di Mrs. Rawdon Crawley e interamente secondo i metodi di Mrs. Rawdon Crawley. Per ultimo andò in rovina, scomparve sul Continente, e la si vedeva di rado a Monte Carlo e in altre località da gioco d’azzardo. Il nobile gentiluomo da cui lo stesso grande sentimento trasse il Colonnello Newcome morì pochi mesi dopo che The Newcomes aveva raggiunto la quarta edizione con la parola Adsum sulle sue labbra. Dopo poco che Mr. Stevenson pubblicò la sua curiosa storia psicologica di trasformazione, un mio amico, di nome Mr. Hyde, si trovava nella parte nord di Londra, e avendo premura di andare alla stazione prese quella che riteneva essere una scorciatoia, perse la strada e si trovò in un labirinto di viuzze losche e pericolose. Sentendosi molto nervoso iniziò a camminare a passo molto spedito, quando all’improvviso fuori da un archivolto sbucò un bambino andando a finire proprio addosso alle sue gambe. Il bambino cadde per terra, Mr. Hyde vi incespicò e lo calpestò. Ovviamente, essendosi spaventato e facendosi anche un po’ male, il bambino incominciò a urlare e in pochi secondi tutta la strada si riempì di gentaglia che si riversava dalle case come formiche. Lo circondarono e gli chiesero il suo nome. Lui era lì lì per dirlo se non che improvvisamente si ricordò dell’episodio che dà l’incipit alla storia di Mr. Stevenson. Era talmente terrorizzato per aver realizzato nella propria persona quella scena terribile e ben scritta, e per aver fatto in modo accidentale, seppure realmente, ciò che il Mr. Hyde della finzione aveva fatto con l’intento voluto, che scappò via il più veloce possibile. Comunque fu inseguito da presso, e finalmente trovò rifugio in un ambulatorio medico, la porta del quale per caso era aperta, dove spiegò a un giovane assistente, che era lì per caso, esattamente cosa gli era accaduto. La folla fu indotta ad andarsene dopo che lui aveva sborsato un po’ di soldi, e non appena la strada fu libera se ne andò. Una volta uscito, il nome sulla targhetta d’ottone alla porta colpì la sua vista. Era «Jekyll». Almeno avrebbe dovuto essere. Qui l’imitazione, fin dove arrivò, fu naturalmente accidentale. Nel caso seguente l’imitazione fu consapevole. Nell’anno 1879, proprio dopo che avevo lasciato Oxford, incontrai a un ricevimento in casa di uno dei ministri degli Esteri una donna di bellezza curiosissima ed esotica. Diventammo grandi amici e stavamo costantemente insieme. E tuttavia ciò che mi interessava in lei non era la sua bellezza, ma il suo carattere, la sua completa vaghezza di carattere. Non sembrava possedere alcuna personalità, ma semplicemente la possibilità di molte tipologie. Talvolta lei si sarebbe data del tutto all’arte, trasformando il suo salotto in uno studio, passando due o tre giorni la settimana nelle gallerie o nei musei. Poi avrebbe frequentato le corse dei cavalli, portando i vestiti più equestri, non parlando altro che di scommesse. Abbandonò la religione per il mesmerismo, il mesmerismo per la politica e la politica per le eccitazioni melodrammatiche della filantropia. Infatti, lei era una specie di Proteo e il fallimento in tutte le sue trasformazioni era uguale a quello del magnifico dio marino che fu catturato da Odisseo. Un giorno ebbe inizio un romanzo a puntate in una rivista francese. Allora io leggevo diversi romanzi, e ricordo bene lo choc che provai dalla sorpresa quando pervenni alla descrizione dell’eroina. Era così simile alla mia amica che le portai la rivista, e lei vi si riconobbe subito e sembrò affascinata dalla somiglianza. Dovrei dirti, a proposito, che la storia fu tradotta da qualche scrittore russo deceduto, così che l’autore non aveva preso il suo modello dalla mia amica. Beh, per farla breve, dopo pochi mesi io ero a Venezia, e trovando la rivista nella sala lettura dell’hotel la presi casualmente per vedere che ne era stato dell’eroina. Era una storia assai pietosa, giacché la ragazza era fuggita con un uomo assolutamente inferiore a lei, non solo per il ceto sociale, ma per il carattere e l’intelletto. Scrissi alla mia amica quella sera alcune mie opinioni su Giovanni Bellini, e sui meravigliosi gelati del Florian, e sul valore artistico delle gondole, ma aggiunsi un post scriptum con l’impressione che nella storia il suo doppio si era comportata in un modo molto stupido. Non so perché feci tale aggiunta, ma ricordo di aver avuto una sorta di terrore che lei potesse fare altrettanto. Prima della mia lettera, lei era scappata con un uomo che la abbandonò dopo sei mesi. La vidi nel 1884 a Parigi, dove viveva con sua madre, e le chiesi se la storia non avesse avuto niente a che fare con i suoi atti. Lei mi disse che aveva sentito un impulso assolutamente irresistibile a seguire l’eroina passo dopo passo nel suo strano e fatale incedere, e che era un sentimento di vero terrore quello con cui attendeva gli ultimi pochi capitoli del romanzo. Quando questi uscirono, le parve d’essere costretta a replicarli nella vita, e così fece. Era un esempio molto chiaro di questo istinto imitativo del quale parlavo, e un esempio estremamente tragico.

Comunque, non desidero soffermarmi oltre su esempi individuali. L’esperienza personale è un circolo assai vizioso e limitato. Tutto ciò che io desidero puntualizzare è il principio generale che la Vita imita l’Arte molto di più di di quanto l’Arte imiti la Vita, e sono certo che se tu pensi seriamente a questo troverai che è vero. La Vita regge lo specchio all’Arte o riproduce qualche strano tipo immaginato da un pittore o da uno scultore, o realizza di fatto ciò che era stato sognato nella finzione. Parlando scientificamente, la base della vita, l’energia della vita, come la chiamerebbe Aristotele, è semplicemente il desiderio di espressione e l’Arte presenta sempre varie forme attraverso le quali l’espressione può essere ottenuta. La Vita se ne impadronisce e le usa, perfino se vanno a suo danno. Dei giovani si sono suicidati perché lo fece Rolla, sono morti di propria mano perché di propria mano era morto Werther. Pensa a ciò che dobbiamo all’imitazione di Cristo, a ciò che dobbiamo all’imitazione di Cesare.

CYRIL - La teoria è certamente molto curiosa, ma per essere completa devi mostrare che la Natura, non meno della Vita, è un’imitazione dell’Arte. Sei pronto a dimostrarlo?

VIVAN - Mio caro amico, io sono pronto a dimostrare qualsiasi cosa.

CYRIL - Allora, la Natura segue il paesaggista e da lui coglie i suoi effetti.

VIVAN - Certamente. Dove, se non dagli impressionisti, noi abbiamo quelle meravigliose nebbie brune che scendono sulle nostre strade, oscurando i lampioni e trasformando le case in ombre mostruose? A chi, se non a loro e ai loro maestri, noi siamo debitori delle amabili argentee brume che giacciono sul nostro fiume, e mutano in vaghe forme di grazia evanescente il ponte curvo e l’oscillante chiatta? Il cambiamento straordinario che si è avuto nel clima di Londra durante gli ultimi dieci anni è interamente dovuto a una particolare scuola d’arte. Tu sorridi. Considera l’argomento da un punto di vista scientifico o metafisico e vedrai che ho ragione. Perché, che cos’è la Natura? La Natura non è una grande madre che ci ha partoriti. È la nostra creazione. È nel nostro cervello che prende vita. Le cose esistono perché noi le vediamo e ciò che vediamo, e come lo vediamo, di pende dalle Arti che ci hanno influenzati. Guardare una cosa è molto diverso dal vederla. Non si vede niente finché non se ne è vista la bellezza. Allora, e solo allora, la cosa comincia a esistere. Oggidì la gente vede le nebbie, non perché ci siano le nebbie, ma perché i poeti e i pittori hanno insegnato la misteriosa bellezza di tali effetti. Probabilmente ci sono state nebbie per secoli a Londra. Oso dire che ci furono. Ma nessuno le vide e così non ne sappiamo niente. Non sono esistite finché l’Arte non le ha inventate. Adesso, bisogna ammetterlo, con le nebbie si sta esagerando. Sono diventate il mero manierismo di una cricca, e il realismo eccessivo del loro metodo fa venire la bronchite alla gente stupida. Dove una persona colta coglie un effetto, la persona incolta si prende un raffreddore. E allora, siamo umani e invitiamo l’Arte a volgere il suo sguardo altrove. Lei lo ha già fatto, veramente. Quella bianca vibrante luce solare che si vede ora in Francia, con le sue strane macchie color malva e le sue irrequiete ombre violette, è l’ultima fantasia dell’Arte, e, nel complesso, la Natura la riproduce assai mirabilmente. Là dove essa era usa darci dei Corot e dei Daubigny, adesso ci dà degli squisiti Monet e degli incantevole Pissarro. Certamente vi sono momenti, rari, è vero, ma ancora da notare di volta in volta, in cui la Natura diventa assolutamente moderna. Naturalmente non si può sempre fare affidamento su di lei. Il fatto è che lei si trova in una posizione infausta. L’Arte crea un effetto unico e incomparabile e, avendo compiuto questo, passa ad altro. La Natura, d’altro canto, dimenticando che l’imitazione può divenire la forma più sincera di insulto, continua a ripetere questo effetto sino a che noi tutti non ne diventiamo completamente stufi. Nessuno che sia veramente colto, per esempio, parla oggi della bellezza di un tramonto. I tramonti sono proprio fuori moda. Appartengono al tempo in cui Turner era l’ultima nota in arte. Ammirarli è un segno distinto di provincialismo del temperamento. D’altronde questi vanno avanti. Ieri sera Mrs. Arundel insisteva perché andassi alla finestra e guardassi il glorioso cielo, come l’ha definito lei. Ovviamente ho dovuto guardarlo. Lei è una di quelle filistee assolutamente graziose alla quale niente si può negare. E che cos’era? Era semplicemente un Turner molto di seconda mano, un Turner di un brutto periodo, con tutte le peggiori pecche di un pittore esagerate e enfatizzate oltremodo. Naturalmente, sono prontissimo ad ammettere che la Vita molto spesso commette lo stesso errore. Produce i suoi falsi René e i suoi falsi Vautrin, così come ce li dà la Natura, un giorno un Cuyp dubbio, e un altro giorno un Rousseau più che discutibile. Ancora, la Natura irrita di più quando fa questo genere di cose. Sembra così stupida, così ovvia, così inutile. Un falso Vautrin può essere delizioso. Un dubbio Cuyp è insopportabile. Comunque, non voglio essere troppo duro con la Natura. Mi auguro che la Manica, specie a Hastings, non somigli così spesso a un Henry Moore, grigio perla con luci gialle, ma allora, quando l’Arte è più varia, la Natura, senza dubbio, sarà anche più varia. Che essa imiti l’Arte non credo che neppure il suo peggior nemico verrebbe a negarlo ora. È l’unica cosa che la mantiene a contatto con l’uomo civilizzato. Ma ho dimostrato la mia teoria con tua soddisfazione?

CYRIL - L’hai dimostrata con mia insoddisfazione, il che è meglio. Ma pure ammettendo questo strano istinto imitativo nella Vita e nella Natura, sicuramente tu dovresti riconoscere che l’Arte esprime il temperamento della sua epoca, lo spirito del suo tempo, le condizioni morali e sociali che la circondano e sotto la cui influenza essa è prodotta.

VIVAN - Certamente no! L’Arte non esprime altro che se stessa. Questo è il principio della mia nuova estetica; ed è questo, più di quel vitale collegamento tra forma e sostanza, su cui insiste il signor Pater, che rende basilare il tipo di tute le arti. Naturalmente, nazioni e individui, con quella salutare vanità naturale che è il segreto dell’esistenza, sono sempre sotto l’impressione che è di loro che le Muse stanno parlando, sempre cercando di reperire nella calma dignità dell’arte immaginativa qualche specchio delle loro torbide passioni, perennemente dimentichi che il cantore della vita non è Apollo ma Marsia. Lontana dalla realtà, e con i suoi occhi distolti dalle ombre della caverna, l’Arte rivela la sua perfezione interna, e la folla stupita che guarda lo schiudersi della meravigliosa rosa dai molti petali si immagina che è la propria storia ad esserle narrata, il proprio spirito che sta trovando l’espressione in una nuova forma. Ma non è così. L’arte più alta rifiuta il peso dello spirito umano, e ottiene di più da un nuovo mezzo o da un materiale fresco che non da qualunque entusiasmo per l’arte, o da qualunque passione elevata, o da qualunque grande risveglio della coscienza umana. Essa si sviluppa puramente secondo le proprie linee. Essa non è simbolica di alcuna epoca. Sono le epoche a essere i suoi simboli.

Persino quelli che sostengono che l’Arte è rappresentativa del tempo, del luogo e della gente non possono fare a meno di ammettere che più un’arte è imitativa, meno essa rappresenta a noi lo spirito della sua epoca. I malvagi volti degli imperatori di Roma ci guardano dal porfido osceno e dal chiazzato diaspro in cui gli artisti realisti del tempo amavano operare, e noi ci immaginiamo di poter rinvenire in quelle labbra crudeli e in quelle mascelle pesanti e sensuali il segreto della rovina dell’Impero. Ma non fu così. I vizi di Tiberio non poterono distruggere quella civiltà suprema, più di quanto le virtù degli Antonini poterono salvarla. Essa cadde per altre ragioni meno interessanti. Le sibille e i profeti della Sistina possono certamente servire a interpretare per qualcuno quella nuova procreazione dello spirito emancipato che noi chiamiamo Rinascimento; ma cosa ci dicono i villani ubriachi e i contadini strilloni dell’arte olandese riguardo la grande anima dell’Olanda? Più l’Arte è astratta e ideale, più ci rivela il temperamento della sua epoca. Se desideriamo capire una nazione attraverso la sua arte, guardiamo la sua architettura e la sua musica.

CYRIL - In questo caso sono proprio d’accordo con te. Lo spirito di un’epoca può essere espresso meglio nelle arti astratte e ideali, perché lo spirito in sé è astratto e ideale. D’altro canto, per l’aspetto visibile di un’epoca, per la sua espressione, come si suol dire, dobbiamo naturalmente rivolgerci alle arti imitative.

VIVAN - Non la penso così. Dopo tutto, quello che le arti imitative ci danno realmente sono soltanto i vari stili di artisti particolari, o di certe scuole di artisti. Di sicuro tu non immagini che la gente del Medio Evo avesse la minima somiglianza con le figure sulle vetrate medievali, o sulle pietre e legni intagliati medievali, o sui metalli lavorati medievali, o sugli arazzi, o sui manoscritti miniati. Probabilmente erano persone dall’aspetto comunissimo, con niente di grottesco, o di notevole, o di fantastico nella loro sembianza. Il Medio Evo, come lo conosciamo noi nell’arte, è semplicemente una definita forma di stile, non c’è proprio alcuna ragione perché un artista con questo stile non potrebbe essere prodotto nel diciannovesimo secolo. Nessun grande artista vede mai le cose come sono nella realtà. Se così facesse, cesserebbe di essere un artista. Prendi un esempio dai nostri giorni. So che tu sei un amante di cose giapponesi. Adesso, tu immagini veramente che il popolo giapponese, così come ci viene presentato in arte, sia esistente? Se lo immagini, non hai mai compreso assolutamente l’arte giapponese. Il popolo giapponese è la creazione deliberata e autoconsapevole di certi singoli artisti. Se tu poni un quadro di Hokusai, o Hokkei, o un altro di un grande pittore autoctono, vicino a un vero signore o una vera dama giapponese, vedrai che non c’è la benché minima somiglianza tra loro. L’attuale popolo giapponese non è diverso generalmente rispetto al popolo inglese; cioè, esso è estremamente comune e non ha niente di curioso e di straordinario. Infatti l’intero Giappone è una mera invenzione. Non esiste un tale paese, non esiste un tal popolo. Uno dei nostri pittori più incantevoli è andato recentemente nella Terra dei Crisantemi con la folle speranza di vedere i giapponesi. Tutto quello che ha visto, tutto che ha avuto la fortuna di dipingere, sono state poche lanterne e alcuni ventagli. Egli è stato del tutto incapace di scoprire gli abitanti, come la sua deliziosa mostra alla galleria dei signori Dowdeswell ci ha mostrato benissimo. Non sapeva che il popolo giapponese fosse, com’ho detto, semplicemente una maniera stilistica, una fantasia artistica squisita. E così, se tu desideri vedere un effetto giapponese, non devi comportarti come un turista e andare a Tokio. Al contrario, te ne starai a casa e ti immergerai nell’opera di certi artisti giapponesi, e allora, quando avrai assorbito lo spirito del loro stile, e colto la maniera immaginifica della visione, andrai qualche pomeriggio a sedere nel Parco o a fare una passeggiatina a Piccadilly, e se non puoi vedere là un effetto assolutamente giapponese, non lo vedrai da nessun’altra parte. Oppure, per tornare ancora al passato, prendi come un altro esempio gli antichi greci. Credi che l’arte greca ci dica mai com’era il popolo greco? Ritieni che le donne ateniesi fossero come le figure maestose, dignitose del fregio del Partenone, o come quelle meravigliose dèe che sedevano nei timpani triangolari dello stesso edificio? Se giudichi dall’arte, erano certamente così. Ma leggi un’autorità come Aristofane, per esempio. Troverai che le dame ateniesi si allacciavano strette in vita, portavano scarpe col tacco alto, si tingevano i capelli di giallo, si dipingevano e si davano il rossetto, e erano esattamente come qualsiasi stupida creatura alla moda o perduta della nostra epoca. Il fatto è che noi guardiamo indietro alle epoche interamente attraverso il mezzo dell’arte, e l’arte, per gran fortuna, non ci ha mai detto una volta la verità.

CYRIL - Ma i ritratti moderni dei pittori inglesi? Sicuramente sono come le persone che pretendono di rappresentare?

VIVAN - Piuttosto. Sono così simili che tra cento anni nessuno crederà loro. Gli unici ritratti nei quali uno crede sono ritratti dove c’è pochissimo del modello e moltissimo dell’artista. I disegni di Holbein degli uomini e le donne del suo tempo ci impressionano con un senso della loro assoluta realtà. Ma questo è semplicemente perché Holbein costrinse la vita ad accettare le sue condizioni, a trattenere se stesso entro le proprie limitazioni, a riprodurre il suo tipo e ad apparire come egli desiderò apparisse. È lo stile che ci fa credere in una cosa - nient’altro che lo stile. La maggior parte dei nostri moderni ritrattisti è condannata all’oblio assoluto. Essi non dipingono mai ciò che vedono. Dipingono quello che vede il pubblico, e il pubblico non vede mai niente.

CYRIL - Beh, dopo questo credo che mi piacerebbe sentire la fine dell’articolo.

VIVAN - Con piacere. Se questo sarà un bene non posso dirlo. Il nostro è certamente il secolo più noioso e prosaico possibile. Perché, perfino il Sonno ci ha ingannati e ha chiuso i cancelli d’avorio e aperto quelli di corno. I sogni delle grandi classi medie di questo paese, come sono annotati nei due grossi volumi sull’argomento di Mr. Meyers e negli Atti della Società Psichica, sono le cose più deprimenti che io abbia letto. Non c’è nemmeno un bell’incubo tra loro. Sono comuni, sordidi e tediosi. Per quanto riguarda la chiesa, non so concepire niente di meglio per la cultura di un paese della presenza in esso di una corporazione di uomini il cui dovere sia di credere nel sovrannaturale, di eseguire quotidianamente dei miracoli, e di mantenere viva quella facoltà mitopoietica che è così essenziale per l’immaginazione. Ma nella chiesa inglese un uomo ha successo, non per la sua capacità di credere, ma per la sua capacità di non credere. La nostra è la sola chiesa dove lo scettico è in piedi davanti all’altare e dove San Tommaso è considerato l’apostolo ideale. Molti degni eccelesiastici, che passano la loro vita in ammirevoli opere di premurosa carità, vivono e muoiono inosservati e sconosciuti; ma è sufficiente che qualche superficiale ignorante studentello col minimo dei voti da una delle due Università si alzi nel suo pulpito ed esprima i suoi dubbi sull’arca di Noè, o sull’asino di Balaam, o su Giona e la balena, perché mezza Londra si raduni per ascoltarlo, e sieda a bocca aperta in rapita ammirazione per il suo superbo intelletto. Lo sviluppo del senso comune nella chiesa inglese è una cosa davvero degna di rammarico. È veramente una concessione degradante a una bassa forma di realismo. Ed è pure sciocca. Nasce da una totale ignoranza della psicologia. L’uomo può credere l’impossibile, ma non può mai credere l’improbabile. Comunque debbo leggere la fine del mio articolo:

« Ciò che dobbiamo fare, ciò che è in ogni caso nostro dovere fare, è far rivivere questa antica arte della Menzogna. Molto, naturalmente, può essere fatto, per educare il pubblico, da parte della cerchia dei dilettanti nella cerchia domestica, ai cenacoli letterari e ai tè pomeridiani. Ma questo è puramente il lato leggero e grazioso del mentire, quale fu probabilmente udito ai pranzi cretesi. Vi sono molte altre forme. Mentire per guadagnare qualche vantaggio immediato personale, per esempio, mentire con un intento morale, com’è chiamato di solito - sebbene ultimamente sia stato guardato un po’ dall’alto in basso, era estremamente popolare presso il mondo antico. Atena ride quando Odisseo le dice «le sue parole di astuta invenzione», come esprime il signor William Morris, e la gloria della mendacia illumina la pallida fronte dell’inossidabile eroe della tragedia di Euripide, e pone tra le nobili donne del passato la giovane sposa di una delle più squisite odi di Orazio. Più tardi, ciò che prima era stato un puro istinto naturale fu elevato a scienza consapevole. Regole elaborate furono imposte per la guida dell’umanità e un’importante scuola di letteratura crebbe intorno al soggetto. Veramente, quando si ricorda l’eccellente trattato filosofico di Sanchez sull’intera questione, non si può fare a meno di rimpiangere che nessuno abbia mai pensato a pubblicare un’edizione economica e condensata delle opere di quel grande casuista. Un breve testo elementare, Quando mentire e come, se fosse pubblicato in una forma attraente e non troppo cara, senza dubbio procurerebbe un grande successo commerciale e si dimostrerebbe di reale utilità pratica per molta gente meritevole e profonda. Mentire per lo sviluppo della gioventù, che è la base dell’educazione domestica, ancora continua a permanere fra noi, e i suoi vantaggi sono così ammirevolmente esposti nei primi libri della Repubblica di Platone che non è per nulla necessario soffermarcisi qui. È una maniera di mentire per la quale tutte le buone madri hanno peculiari capacità, ma è capace di sviluppi ulteriori, ed è stata purtroppo trascurata dal Ministero della Pubblica Istruzione. Mentire per un salario mensile è, naturalmente, ben noto a Fleet Street, e la professione di un fondista politico non è senza i suoi vantaggi. Ma ha fama di essere talvolta un’occupazione tediosa e certamente non conduce molto oltre una sorta di ostentata oscurità. L’unica forma di mentire che sia assolutamente al di là d’ogni biasimo è la menzogna per la menzogna, e il più alto sviluppo di questa è, come abbiamo già avuto modo di indicare, la Menzogna nell’Arte. Proprio come coloro che non amano Platone più della Verità non possono passare oltre la soglia dell’Accademia, così coloro che non amano la Bellezza più della Verità non conoscono mai il tempio più intimo dell’Arte. Il solido, stolido intelletto britannico giace nelle sabbie del deserto come la Sfinge nel meraviglioso racconto di Flaubert, e la fantasia, La Chimère, le danza intorno e la chiama con la sua falsa, flautata voce. Può darsi che adesso non l’ascolti, ma sicuramente un giorno, quando saremo tutti annoiati a morte dal carattere ordinario della narrativa moderna, le presterà attenzione e cercherà di prendere in prestito le sue ali.

« E quando albeggia quel giorno, o rosseggia il crepuscolo, come saremo tutti gioiosi! I fatti saranno osservati e screditati, la Verità sarà trovata in lacrime sulle sue catene, e il Romanzo, con il suo temperamento dedito alla meraviglia, tornerà sulla terra. L’aspetto stesso del mondo cambierà davanti ai nostri occhi sbigottiti. Dal mare emergeranno Behemoth e Leviathan e navigheranno intorno alle galee dalle alte poppe, come fanno nelle deliziose mappe di quei tempi in cui i libri di geografia erano veramente leggibili. I dragoni vagheranno nelle vaste distese e la fenice si librerà nell’aria dal suo nido di fuoco. Sul basilisco poseremo le nostre mani e vedremo la gemma sul capo del rospo. L’Ippogrifo starà nelle sue stalle ruminando la sua avena dorata, e sulle nostre teste fluttuerà l’Uccello Azzurro cantando cose belle e impossibili, cose belle che non accadono mai, cose che non esistono e che dovrebbero esistere. Ma prima che questo succeda noi dobbiamo coltivare la perduta arte della Menzogna. »

CYRIL - Allora dobbiamo coltivarla immediatamente. Ma per evitare di commettere errori voglio che tu mi dica brevemente le dottrine della nuova estetica.

VIVAN - Brevemente, allora, eccole. L’Arte non esprime mai niente altro che se stessa. Ha una vita indipendente, proprio come ce l’ha il Pensiero, e si sviluppa puramente seguendo le sue proprie linee. Non è in modo necessario realistica in un’epoca di realismo, né spirituale in un’epoca di fede. Così lontano dall’essere la creazione del suo tempo, essa è di solito in diretta opposizione ad esso, e l’unica storia che ce la preserva è la storia del suo progresso. Talvolta ritorna sulle sue orme e fa rivivere qualche forma antica, come è successo nel movimento preraffaellita dei nostri giorni. In altri momenti anticipa la sua epoca e produce in un secolo opere che occorre un altro secolo per capire, apprezzare e per godere. In nessun caso riproduce la sua epoca. Passare dall’arte di un periodo al periodo stesso è il grande errore che tutti gli storici commettono.

La seconda dottrina è questa. Tutta l’arte cattiva viene da un ritorno alla Vita e alla Natura, dall’elevare quelle a ideali. La Vita e la Natura delle volte potrebbero essere usate come parte del materiale grezzo dell’Arte, ma prima che siano di alcuna vera utilità per l’Arte debbono essere tradotte in convenzioni artistiche. Il momento in cui l’Arte cede il suo mezzo immaginativo cede tutto. Come metodo il Realismo è un fallimento completo, e le due cose che ogni artista dovrebbe evitare sono la modernità della forma e la modernità del materiale per il soggetto. Per noi, che viviamo nel diciannovesimo secolo, ogni secolo è un soggetto adatto per l’arte eccetto il nostro. Le uniche cose belle sono le cose che non ci riguardano. È, per avere il piacere di citare me stesso, esattamente perché Ecuba non è niente per noi che i suoi dolori sono un motivo così adatto per una tragedia. Inoltre, è soltanto il moderno che non diventa mai antiquato. Il signor Zola si mette a sedere e ci dà un ritratto del Secondo Impero. A chi importa del Secondo Impero oggi? È datato. La Vita va più veloce del Realismo, ma il Romanticismo è sempre davanti alla Vita.

La terza dottrina è che la Vita imita l’Arte assai più di quanto l’Arte imiti la Vita. Questo deriva non solamente dall’istinto imitativo della Vita, ma dal fatto che lo scopo autoconsapevole della Vita è trovare un’espressione, e che l’Arte le offre certe forme belle attraverso le quali essa può realizzare quell’energia. È una teoria che non era mai stata avanzata fino a oggi, ma è estremamente fertile e getta una luce del tutto nuova sulla storia dell’Arte.

Segue, come corollario da questa, che la Natura esterna imita anch’essa l’Arte. Gli unici effetti che lei può mostrarci sono effetti che noi abbiamo già visto tramite la poesia, o nella pittura. Questo è il segreto del fascino della Natura, oltre che la spiegazione della debolezza della Natura. La rivelazione finale è che la Menzogna, il raccontare belle cose non vere, è lo scopo adatto dell’Arte. Ma di questo penso di aver già parlato abbastanza. E adesso andiamo fuori sulla terrazza, dove «langue il pavone bianco come latte a mo’ di fantasma», mentre la stella della sera «bagna d’argento il crepuscolo». Al tramonto la natura diventa di un effetto meravigliosamente suggestivo, e non è senza bellezza, sebbene forse il suo principale compito è quello di illustrare le citazioni del poeta. Vieni! Abbiamo discusso abbastanza.

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SIPARIO</SPAN>

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