La domenica ci si riposa

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LA DOMENICA CI SI RIPOSA

Commedia in due tempi

di VALENTINO BOMPIANI

PERSONAGGI

ALFEO

GIUDITTA, sua moglie

TERESA, loro figlia

L'INGEGNERE

GIACOMO, suo figlio

LA BALLERINA (Marcella)

LA DIVA: MISS UNIVERSO

LA SPIA

L'ESECUTORE DI GIUSTIZIA

IL MEDICO

ROSA

Commedia formattata da

PRIMO QUADRO

Sullo sfondo di una grande città, la stanza di soggior­no di una piccola famiglia di condizioni agiate. Tre porte e due finestre. Una porta dà sull'ingresso, una, che è aperta, lascia scorgere la camera da letto dei co­niugi, la terza immette nella camera di Teresa.

Quest'ultima camera guarda su di un piccolo giardi­no interno e noi vediamo una fetta della facciata, ar­retrata, col balconcino. Le persiane sono chiuse. Sia­mo al piano rialzato. L'altra finestra, che è di fronte, guarda su di una piazzetta, dove c'è un negozio di ge­neri alimentari. La camera di Alfeo è al buio.

Per andare in cucina si passa dall'ingresso. Giuditta che viene dalla cucina col vassoio della colazione, en­tra, dunque, dalla porta d'ingresso.

Giuditta ha quarantadue anni; ma lei non ci pensa. Il conto lo tiene Alfeo. Fino alla morte del figlio, av­venuta cinque anni prima, Giuditta era una donna diversa, allegra, spiritosa quanto avvenente. Da allora si trascura, quasi per punirsi. Tutto il tempo che, do­po la nascita del figlio, ha dedicato alla propria per­sona, le sta addosso, ora come qualcosa - un giocat­tolo, un dolce, una carezza - che non abbia potuto dare al figlio: un ritardo incolmabile, un bene non re­cuperabile. Anche la sua bontà un poco brusca e schi­va fa capo e prende luce da quel vuoto.

Giuditta                        -Alfeo. Alfeo, sono le undici. Devo apri­re la finestra?

Voce di Alfeo               - (che si sveglia di soprassalto) Che cosa c'è?

Giuditta                        - (sulla soglia) Sono le undici. Vuoi che apra la finestra?

Voce di Alfeo               - No.

Giuditta                        - Mi hai detto tu di svegliarti alle undici.

Voce di Alfeo               - Quando te l'ho detto non avevo sonno.

Giuditta                        - Il caffè lo metto qui: e il giornale.^

Voce di Alfeo               - (sbadigliando) Soltanto il caffè.

Giuditta                        - Come?

Voce di Alfeo               - Ho detto: soltanto il caffè. Il gior­nale non lo voglio.

Giuditta                        - Non lo vuoi?

Voce di Alfeo               - No. Puoi portarlo via.

Giuditta                        - Io lo metto qui. Se non lo vuoi lo lasci stare, (apre la finestra).

Voce di Alfeo               - Non lo voglio neppur lì.

Giuditta                        - Come?

Voce di Alfeo               - Sporca.

Giuditta                        - Il giornale sporca? Ma è di oggi.

Voce di Alfeo               - Appunto. Dammene uno dell'anno scorso, se proprio ci tieni.

Giuditta                        - Un giornale dell'anno scorso? E a che ti serve?

Voce di Alfeo               - Non mi serve.

Giuditta                        - E allora perché lo vuoi?

Voce di Alfeo               - Per farti piacere.

Giuditta                        - Oh, senti!

Alfeo                             - (sulla soglia) E' domenica o non è domeni­ca, oggi?

Giuditta                        - Domenica, sicuro. San Celestino. E io sono già andata a Messa.

Alfeo                             - Brava, (sbadiglia e si ritira).

Giuditta                        - E' inutile che tu mi dica: «Brava!» Non ci vado per farti piacere.

Alfeo                             - (riappare. Ha ancora la bocca aperta per lo sbadiglio) Io dico: «Brava » perché apprezzo l'or­dine e la puntualità. (Esce).

Giuditta                        - (ha aperto il giornale, lo sfoglia) Ma tu a Messa non ci vai.

Alfeo                             - (ritorna) Non ci vado, ma ci penso.

Giuditta                        - (scrollando il capo) Io esco a far la spesa.

Alfeo                             - Brava, (si ritira).

Giuditta                        - Smettila di dire « Brava ». (si avvia).

Alfeo                             - (rientra allacciandosi la vestaglia. Si passa la mano sui risvolti per togliere ogni piega) Tu... l'hai letto il giornale?

Giuditta                        - (senza fermarsi) Sì.

Alfeo                             - Niente di nuovo?

Giuditta                        - (si volta) È lì.

Alfeo                             - Ti ho detto che non voglio leggerlo.

Giuditta                        - Beh! (si avvia).

Alfeo                             - Ma potresti anche rispondere.

Giuditta                        - (si ferma) Le solite cose. Io vado.

Alfeo                             - Che modi!

Giuditta                        - Che cosa?

Alfeo                             - I principi. Io parlo dei principi.

Giuditta                        - (torna sui suoi passi, si pianta davanti ai Alfeo e lo considera).

Alfeo                             - Dove vuoi che vadano a finire i rapporti tra due coniugi quando manca la confidenza? Si risponde a monosillabi: E' lì. E' là. Sì. No. Ah! Beh!

Giuditta                        - (a bocca aperta) Eh?

Alfeo                             - (le mani all'aria) Aah!

Giuditta                        - (tranquilla) Mi pare che ci si capisca benissimo anche così, (torna ad avviarsi).

Alfeo                             - (alle sue spalle) Di' alla portinaia che non ci sono per nessuno. (Giuditta esce. Alfeo va alla fine­stra, respira a pieni polmoni, poi si avvicina a uno spec­chio e si guarda la lingua: non è soddisfatto. Prende una polverina in un po' d'acqua, beve con disgusto. Nel­la tasca della vestaglia prende un pettinino e si ravvia i capelli. Osserva quanti ne sono rimasti tra i denti del pettine. Li conta. Brontola. Il telefono squilla. Ri­sponde) Pronto? Sì. Sei tu, mamma? Buon giorno! Come stai? Bene, sì. Niente di nuovo? Per nessun mo­tivo speciale. Domandavo, così... notizie in generale. Beh, tanto meglio, quando non ci sono novità... Tere­sa? Non lo so, deve essere uscita da un pezzo. Certo che me ne occupo, ma non la vedo mai. Non lo so ancora... Staremo in casa, credo. Verso sera verremo a trovarti. Ciao. Ciao. (Riappende, chiama a voce alta). Teresa. (Apre l'uscio della stanza di Teresa, guarda, ri­chiude. Toma al tavolo e si versa un altro caffè. In­tanto, fingendo con se stesso indifferenza, sbircia di lontano il giornale che è posato sul tavolo. Lo rivolta, pur lasciandolo dov'è e usando appena la punta di due dita). Sulla parte bianca del fondo appaiono i titoli. Titoli:

CIRCOLAZIONE E PREZZI.

L'IMMINENTE SCOPPIO DELLA NUOVA

BOMBA.

L'OCCUPAZIONE DELLE TERRE.

LA CRISI INDUSTRIALE.

GRAVE MINACCIA DI SCIOPERO.

MILLE PRIGIONIERI FUCILATI.

DEPOSITO DI ARMI IN UNA CANTINA.

MEZZO MILIONE DI DEPORTATI.

UNA BALLERINA SI GETTA DA UN TRE­NO IN CORSA.

Alfeo                             - (avrà commentato ogni titolo con mugolii di irritazione, di protesta, d'orrore, e a questo punto get­ta il giornale con ira) Pazzi! Pazzi! Anche la do­menica, il giorno del Signore... (si ricorda di non es­sere andato a Messa e si fa, in fretta il segno della croce) Dovrebbero proibirli i giornali. Fanno soltanto confusione. (Voce roca di un giornalaio dalla strada).

Voce                             - Quattro cadaveri in un armadio... (Alfeo cor­re a chiudere la finestra. Chiude anche le imposte. Spranga e accende la luce elettrica. Una radio dalla casa del vicino).

Radio                            - «... è stata respinta la domanda di grazia della spia atomica. L'esecuzione è fissata per domat­tina ».

Alfeo                             - Giusto! Giusto.

Radio                            - « La tensione internazionale è cresciuta nelle ultime ventiquattr'ore... »

                                      - (Alfeo si accosta alla parete divisoria, batte coi pu­gni: la sua voce copre la voce della radio).

Alfeo                             - Ehi! Ehi! Abbassate la radio. Qui ci sia­mo noi. Oggi è domenica. La domenica ci si riposa. Capito? (La radio viene abbassata, non si ode più.). Che indiscrezone! Che i vicini, adesso, entrino anche in casa... (Camminando per le stanze, agitato, racco­glie il giornale che posa sul tavolo. L'occhio gli cade sul ritratto della Diva, una splendida donna, la cui immagine appare subito sulla parete, sotto il titolo: LA DIVA DEL CINEMA LUCY TERRY SBARCATA IERI IN EUROPA Alfeo affonda gli occhi nel ritratto, legge le po­che righe, poi abbandona il giornale sulla gamba, gli occhi sognanti. Incantato, quasi traballante, va allo specchio e si profuma. Una voce dolcissima, la voce della Diva.

Voce della Diva            - Caro, sono le undici. Devo aprire la finestra?

Alfeo                             - (piantato in mezzo alla stanza) Io mi do­mando perché ragazze simili devono averle soltanto gli altri. Quelle donne che si baciano sulla gola, sul rossetto... Vederla muovere per la casa... (Imita) Chi­narsi... sfilare una calza... uscire dal bagno... (Solle­va il piede per uscire dalla vasca. Sta per perdere l'equilibrio. Finalmente tocca terra con la punta del dito, un po' curvo in avanti) Per una donna simile che esce dal bagno io rinunzierei... io sarei capace... io potrei... insomma... (Si lascia cadere su di una se­dia).

L'uscio è spalancato come da un colpo di ven­to e resta aperto nel vuoto per qualche istante. Ora appare sulla soglia la Spia, che entra lentamente.

La Spia                          - Lei approva la mia condanna?

Alfeo                             - (parla sempre a se stesso) Sono cose che non mi riguardano.

La Spia                          - Anche ieri ne discuteva con gli amici al caffè. E se io sono qui, adesso, questo significa che la sua coscienza mi ha chiamato, non può liberarsi di me...

Alfeo                             - Se l'hanno condannato vuol dire che l'ha 'meritato.

La Spia                          - Non sono soltanto i giudici a giudicarmi. Anche lei firma la mia sentenza di morte.

Alfeo                             - (sempre per conto suo) Io ne ho fin sopra i capelli. Io non voglio pensare a niente. Io adesso devo radermi e non voglio occuparmi che del mio pelo. (Va in camera da letto e ne torna col necessa­rio per radersi e un asciugamano).

La Spia                          - (lo ha seguito come un ombra. Ora, rien­trata, si ritrae nel fondo).

Alfeo                             - (si piazza davanti allo specchio, si insapona le gote) Questo sapone è una porcheria. Fanno tan­ta pubblicità... Dovrebbero proibirla la pubblicità. E' un inganno, una turlupinatura. Ci dovrebbe essere una commissione speciale che giudica se quello che è scritto negli annunci corrisponde al vero...

La Spia                          - (dal fondo della stanza) E in politica? C'è una commissione che giudica se quello che si scri­ve è vero?

Alfeo                             - (sempre a se stesso) Il tradimento è tra­dimento. Con tutti i milioni di morti che ci sono sta­ti, uno di più non sarà la fine del mondo...

La Spia                          - (avanzando di un passo) Si guardi be­ne in quello specchio. (Alfeo accosta il viso allo spec­chio) Vedrà il mio stesso volto: gli occhi, il naso, la bocca...

Alfeo                             - Ahi! Mi sono tagliato. (Rovesciando la boccetta vuota sul palmo della mano). Ecco qui: non c'è mai acqua di colonia.

La Spia                          - Forse facendo una frizione sul collo con l'acqua di colonia, sentirei meno il cappio...

Alfeo                             - Che razza di pensieri uno deve avere! (Scacciando il pensiero con la mano come una mosca). Via! Via! La Giustizia è la giustizia!

Entra l'Esecutore di Giustizia. Alfeo è immobile.

Il Boia                           - Permette, signore? Io sono l'Esecutore di Giustizia. Volgarmente chiamato il Boia. Toccherà a me giustiziare la Spia atomica. Domattina alle sei - ora locale- io eseguirò la condanna che lei ha pro­nunciato - anche lei, signore. Lei mi consegnerà un corpo e io farò il mio dovere: fermerò il sangue, sbiancherò gli occhi, farò ciondolare il capo, le brac­cia... (Avanza di un passo). Ma bisogna intendersi, caro signore. A me spetta di occuparmi soltanto del corpo. Le ultime parole del condannato, i suoi pen­sieri, i suoi ricordi esorbitano dalle mie funzioni. Pre­go, signore. Sia puntuale domattina, alle sei ora locale per ricevere i pensieri e i ricordi dell'uomo che lei ha condannato.

La Spia                          - Sono sempre stato delicato di stomaco... Facevo collezione di farfalle...

Alfeo                             - (si agita) Io ho fatto la guerra. Io so quel­lo che abbiamo sofferto. Io lavoro... Io ho diritto... Ho diritto...

Il Boia                           - Rifletta, signore. Si metta al mio posto. Tecnicamente il lavoro è facile. Si fa così, stia bene attento. (Eseguisce). Si prende il cappio con la mano sinistra e lo si allarga in questo modo. Con mossa ra­pida e furtiva lo si fa passare intorno al collo del giustiziato. Noi, in gergo lo chiamiamo col numero, ma lei potrà chiamarlo anche per nome, se lo prefe­risce. Io però la sconsiglio. I nomi sono più imbaraz­zanti. I vezzeggiativi, per esempio, stentano a passare dentro il cappio. (Mostra la corda) Come vede il pro­gresso tecnico ci ha permesso di sostituire la corda grossa e ruvida, che produceva noiose escoriazioni, con questo sottile filo di nailon, il quale, penetrando insensibilmente nelle carni...

La Spia                          - (ha il laccio intorno al collo e rievoca) Mia madre diceva sempre: « Quando sarai grande, figlio mio ».

Il Boia                           - (si distacca, comanda) Al segnale, ab­bassare la leva. Pronti?

Alfeo                             - (agitandosi) Via! Via!

Il Boia                           - Al tempo! Il signore non è pronto a ri­cevere i pensieri del 346. L'esecuzione non si può fare. Non si può fare... non si può fare. (Arretra e scom­pare).

La Spia                          - (arretrando a stia volta) Ieri mia madre, per arrivare prima di me dall'altra parte si è getta­ta da un treno in corsa.

Sotto un pensiero improvviso, Alfeo si accosta al tavolo, prende tra le mani il giornale. Sta per aprir­lo e leggere, ma si ferma. Un titolo appare sulla pa­rete:

«UNA BALLERINA SI GETTA SOTTO UN TRENO ».

Alfeo                             - Marcella...

Marcella entra di corsa sbattendo l'uscio. Alfeo guarda fisso davanti a sé).

Marcella                        - Adesso ti ricordi di me. Il giorno che mi piantasti per sposare l'altra...

Alfeo                             - (tra sé, immobile) Fu per il suo bene.

Marcella                        - Ipocrita! Lo hai detto anche in confes­sione, ma mentivi.

Alfeo                             - (affonda il viso nell'asciugamano) Fu per il suo bene! Fu per il suo bene!

Marcella gli gira davanti mortificata, dolce, remis­siva.

Marcella                        - Vuoi lasciarmi, è così?

Alfeo                             - Non poteva durare all'infinito.

Marcella                        - Come vuoi tu, Alfeo.

Alfeo                             - Io non le avevo fatto delle promesse.

Marcella                        - Io le ho credute ugualmente.

Alfeo                             - E lei doveva rendersi conto...

Marcella                        - Come vuoi tu.

Alfeo                             - Io al matrimonio non ci pensavo. Mia madre, che era vecchia... Si sa come si fanno queste cose nei paesi combinano tutto loro, da quando si è bambini, che si gioca assieme.., E dopo la morte di mio padre...

Marcella                        - Se tu hai deciso così... Tu sei un uo­mo onesto... Farò come vuoi tu.

Alfeo                             - Lei diceva sempre: « Come vuoi tu... Co­me vuoi tu... ». Invece di persuadersi che era per il suo bene. Aveva la sua carriera. È una ragazza libe­ra di andare qua o là... Può cogliere le occasioni... scegliere... .

Marcella                        - Io avevo scelto te.

Alfeo                             - Un uomo libero, disposto a sposarla...

Marcella                        - Credi che qualcuno sposerebbe una ra­gazza come me?

Alfeo                             - Una brava ragazza, e poi così giovane...

Marcella                        - Tu non mi avresti sposata.

Alfeo                             - (al se stesso di allora, con affetto) La ma­nia delle donne di discutere su tutto. Quando un uo­mo            - io ero un giovane di avvenire un giovane si fa le ossa sulle donne, è risaputo. Un giovane deve scegliere là, là! In guardia. (Tira di scherma. A Marcella). Che fai adesso?

Marcella                        - (trascina una valigia) Lo vedi che fac­cio? Vado alla stazione.

Alfeo                             - Non ho detto che tu debba andar via sta­sera stessa.

Marcella                        - A che serve.

Alfeo                             - Che cosa?

Marcella                        - Stare assieme un'altra sera. Se tu hai deciso...

Alfeo                             - (scattando) Insomma, di' qualcosa, ribel­lati. Quell'aria di vittima, codesta remissività...

Marcella                        - Non ti arrabbiare, caro.

Alfeo                             - E' anche una forma di egoismo da par­te tua. Un pover'uomo si affanna a spiegarti, sta lì a perdere tempo, con pazienza, con bontà sicuro, con bontà! E sentirsi rispondere: «Come vuoi tu... Come vuoi tu..., senza mostrare la minima compren­sione come se io fossi un assassino e tu un agnel­lino che si lascia sgozzare porgendo la gola... Devo pur dirtelo: non è gentile da parte tua.

Marcella                        - (tranquilla, quasi serena) Vedi, Alfeo, adesso io vado alla stazione, monto sul primo treno che parte e poi mi butto giù.

Alfeo                             - (con uno scatto d'ira violento) I soliti ri­catti!

Marcella                        - Te lo dico per spiegarti perché non ti rispondo...

Alfeo                             - Se tu credi che io ci caschi! Che io ci caschi! Che io ci caschi!

Si butta a sedere, le mani sulle ginocchia, le gambe divaricate, fiero della sua forza, della sua accor­tezza. La ragazza si è avviata lentamente portando la valigia. Esce. La Spia riappare.

La Spia                          - Il gioco preferito con mia madre era quello di nasconderci in cantina. Me l'aveva insegna­to lei, di notte... (Scompare).

Alfeo                             - E' colpa mia? (si alza, mentre si pulisce il viso con l'asciugamano) « Mi butto sotto il treno... »       - « Mi butto sotto il treno... ». E poi, dieci anni do­po, stava meglio di prima. Anzi aveva fatto carriera...

La Ballerina rientra. Indossa una pelliccetta e un cappellino capriccioso: è truccata vistosamente.

Alfeo                             - (le va incontro festoso) Toh! Chi si vede! Marcella! Sei tu? Per bacco, che lusso! Sono anni, eh? che non ci vediamo. Quanti? Sette? Otto?... Dieci, dieci anni. Vedo che ti è andata bene. Avevo ragione io. La libertà è una gran cosa, (la prende sottobrac­cio). Ti ricordi quella sera? Dicevi che volevi buttar­ti sotto un treno, eh? (ride). La vita è così, non bi­sogna darci peso - poi tutto si aggiusta... Possiamo vederci qualche volta. Questo è il numero del mio telefono in ufficio. Chiamami qualche volta... (fa l'at­to di porgere a mano tesa un biglietto da visita).

Rumore di un treno in corsa, sempre più vicino. Sul fondo riappare la scritta: . « UNA BALLERINA SI GETTA SOTTO UN TRENO ». Marcella corre via. Alfeo torna al tavolo, afferra di colpo il giornale, lo apre, cerca la notizia, legge, si copre gli occhi con una mano.

Alfeo                             - (ad alta voce) Giuditta! Giuditta! Giuditta entra, tranquilla.

Giuditta                        - Perché gridi?

Alfeo                             - Io grido?

Giuditta                        - Ti avranno udito dalla strada. C'è un telegramma. (Glielo dà).

Alfeo                             - (posa il telegramma sul tavolo).

Giuditta                        - Che fai? Aprilo, no?

Alfeo                             - Dopo... Più tardi.

Giuditta                        - Scherzi? Un telegramma... (lo prende lei).

Alfeo                             - Aspetta.

Giuditta                        - ( si ferma, interdetta) Io non ti ca­pisco.

Alfeo                             - (si giustifica) Sai che i telegrammi mi mettono sempre in orgasmo... da quel giorno che...

Giuditta                        - Non fare il bambino, (si accinge ad aprire il telegramma).

Alfeo                             - (glielo strappa di mano) Che fretta hai? Se è una cattiva notizia, più tardi arriva, meglio è. Se è una notizia qualsiasi, come è probabile del re­sto... Non aspettiamo niente da nessuno... Non abbia­mo parenti che...

Giuditta                        - (preoccupata) Io non ti capisco.

Alfeo                             - Perché devo parlarti.

Giuditta                        - Devi parlarmi? E di che?

Alfeo                             - Di tante cose... Non voglio essere distrat­to, perdere il filo...

Giuditta                        - Non deve essere un discorso molto importante se temi di dimenticarlo da un momento all'altro.

Alfeo                             - È importante, sicuro. Mettiti a sedere un momento, lì...

Giuditta                        - (si siede) Beh?

Alfeo                             - Giuditta... quando ci siamo sposati... (con irritazione mal celata) Ma perché ti pettini a quel modo? Ti trascuri... Una giovane donna... Giri per la casa in pantofole... senza un velo di cipria...

Giuditta                        - (tranquilla, osservandolo) Era questo il discorso importante?

Alfeo                             - E non sono importanti i nostri rapporti? Un uomo sceglie una donna fra tante, fra tutte quelle che ci sono al mondo, lo capisci, no? La sceglie la preferisce a tutte., ha pur diritto che questa donna...

Giuditta                        - (si passa una mano sul viso con un gè-sto misero).

Alfeo                             - (pentito) Dico per dire.. . oggi è anche domenica, cioè, dico, è la nostra giornata, a casa, noi due, come due sposini... (festoso) Eh?

Giuditta                        - Io sono andata a fare la spesa.

Alfeo                             - D'accordo, d'accordo! Se non ci fossi tu che pensi a tutto... Non ne parliamo più, va bene? Vie­ni qui. (la prende sulle ginocchia) Hai chiuso la por­ta di casa? Hai detto al portiere che non ci siamo per nessuno?

Giuditta                        - Sì.

Alfeo                             - Ecco. Ecco, (accennando al telegramma) Anche in quel modo ci si intromette in casa altrui. Perché lui telegrafa, perché lui paga, si prende l'ar­bitrio di entrare qui, non richiesto. Niente! Stia lì, aspetti. Gli sta bene, (ride) Eh? Eh? adesso preparia­mo il nostro pranzetto... una bella tovaglia, i fiori... dove sono i fiori? Beh, non importa, (galante) I tuoi occhi sono i miei fiori, (ride soddisfatto) Che ne dici?

Giuditta                        - (fa l'atto di alzarsi. Non è entrata nel gio­co e lo dimostra).

Alfeo                             - Aspetta. Non ti ho ancora detto le cose che volevo dirti. Non fare quel viso come se guar­dassi un pazzo...

Giuditta                        - Non dico niente.

Alfeo                             - Mi difendo. Mi difendo, hai capito?

Giuditta                        - Ti difendi ? E da che?

Alfeo                             - (serio) Non lo so. Dopo che tu sei uscita, ho dato una scorsa al giornale, sono bastati i titoli... Non volevo leggerlo e avevo ragione, ma poi ti prende lo sgomento che sia accaduto qualcosa nel mondo, una cosa ingiusta, e che bisogna guardarsi le spalle ogni momento. Domattina impiccheranno quella spia lo hai letto?

Giuditta                        - L'ho letto. E con questo?

Alfeo                             - È giusto impiccarlo?

Giuditta                        - Se l'hanno condannato, vuol dire che è giusto.

Alfeo                             - Tu ne sei persuasa? Per te è giusto?

Giuditta                        - Si capisce.

Alfeo                             - E se sbagliassero?

Giuditta                        - Te ne vuoi preoccupare tu?

Alfeo                             - Io parlo di me, sicuro. Se sbagliassero, la colpa sarebbe anche mia.

Giuditta                        - Che c'entri tu?

Alfeo                             - Non lo so, ma ho paura. Cerco di capirlo. Ho paura di entrarci anch'io in qualche modo... Anch'io faccio parte della società, di coloro che hanno fir­mato la condanna... Hai visto quegli altri che sono fuggiti? Vuol dire che si possono vedere le cose in modi diversi...

Giuditta                        - (un poco dell'ossessione che è nell'aria col­pisce anche Giuditta) Adesso non cominciare. Non ti ci mettere anche tu.

Alfeo                             - Che cosa?

Giuditta                        - Se ne hanno già abbastanza di pensieri. A sentirti parlare, sembra che stia per accadere chis­sà che da un momento all'altro.

Alfeo                             - È così. Quella donna, quella ballerina che si è buttata sotto il treno       - lo hai letto?

Giuditta                        - Sì.

Alfeo                             - Io l'ho conosciuta. La lasciai per sposa­re te.

Giuditta                        - (dopo un silenzio) Avevo pensato che fosse lei. Ma sono passati vent'anni.

Alfeo                             - Vedi come vanno lontane le azioni che si compiono? Se io non l'avessi lasciata, se l'avessi spo­sata, diciamo...

Giuditta                        - Con questa storia avresti dovuto spo­sare tutte le donne che si ammazzano.

Alfeo                             - E se piantassi te, oggi? Adesso? Mi alzo e dico: « Sai, (si alza) il matrimonio... La vita... E qui e là » ... Quattro parole, quattro argomenti... Sem­bra che tutto si aggiusti con qualche lacrimuccia...

Giuditta                        - Potevi dirlo prima, se questa è la tua idea.

Alfeo                             - Non scherzare. Mettiti nei panni di una disgraziata che tira avanti per anni..

Giuditta                        - (gli volta le spalle per andarsene) Io ci sono già in quei panni.

Alfeo                             - Giuditta!

Giuditta                        - (si volta. Scherza) Se tu l'avessi spo­sata, si sarebbe ammazzata prima, te lo dico io. (si avvia).

Alfeo                             - (più agitato) Parlo per me, va bene? Ha la mia stessa età e domani lo impiccano. Se io avessi passato quello che ha passato lui... Domattina, nel momento di morire, sarà solo... Se io fossi al suo po­sto, fossi anche colpevole, mi ribellerei all'idea che gli altri intanto vanno al cinema, se ne stanno a dormire... Le mie ultime parole, le ultime che potrò dire, io! Poi è finita per sempre!

Giuditta                        - Smettila.

Alfeo                             - Pensa ai magistrati di questo o quel pae­se. Accade una rivoluzione e loro devono fare un secondo giuramento. Poi viene la controrivoluzione e fanno un terzo giuramento. Alla fine, sono stracci. Chi ha ragione?

Giuditta                        - Ma di chi parli?

Alfeo                             - Di me parlo. Che sono qui, pacifico, e giu­dico e condanno altri che hanno avuto una vita tanto diversa dalla mia. Io mi muovo, decido di piantare questa, di sposare quell'altra. Zac! il sasso nell'ac­qua, i cerchi si allargano... E dopo vent'anni...

Giuditta                        - Vado a mettere su l'acqua per la pa­sta, (si avvia).

Alfeo                             - Non andartene. Si parla. Siamo marito e moglie. Parliamo.

Giuditta                        - Tu parli a vanvera di cose che non ci riguardano.

Alfeo                             - Parlo di te, sei contenta? (le si accosta, le ravvia i capelli. Con gentilezza) Hai un bel viso, degli occhi buoni, puliti... Vieni qui. (la conduce per mano davanti allo specchio, accosta il viso al viso di lei).

Giuditta con un pettinino che ha tra i capelli, si ravvia, poi lentamente si incipria. Nella tasca del grem­biule cerca e prende la matita per le labbra, ma pri­ma di adoperarla volge il viso verso Alfeo per un bacio.

Alfeo                             - (seguendo un suo pensiero) Metti il rosso sulle labbra. Voglio baciarti sul rossetto.

Giuditta                        - (getta il rossetto ed esce senza voltarsi).

Scivolando tra la tenda entra la diva in costume da bagno con la fascia a tracolla di Miss Universo. Lam­pi di fotografi. Miss Universo al microfono (la voce non è sua ma della radio).

Voce                             - « Sono figlia di un pastore protestante. Sin da bambina sognavo di vincere questo concorso per aiutare la mia famiglia e la causa della democrazia... (Esce. Musica) Miss Universo rientra subito, come se tornasse da fuori: si dirige verso Alfeo. Alfeo, seduto di faccia al pubblico, guarda trasognato. Tutta la scena si svolgerà alle sue spalle, lui restando immo­bile.

La Diva                         - Ciao, tesoro. Hai dormito bene? Sono andata a fare la spesa, (indossa una vistosa pelliccia) E sono entrata in Chiesa. Non avrei mai immaginato che a quest'ora ci fosse tanta gente in Chiesa. Senti? (gli fa odorare la pelliccia) Odore di incenso. Io vado matta per l'incenso. Fa passare il raffreddore, lo sa­pevi? (lo bacia con trasporto) Tesoro! Sempre quei tuoi pensieri? Oh, io ti capisco, sai. Pensa: ho letto sul giornale di quei poverini morti fra i ghiacciai, quelli che si arrampicavano su quella montagna - come si chiama? non importa, tu hai capito. Questa mattina, quando sono uscita dal portone, con quel freddo che fa, io mi sono sentita una di loro... (ora infila una vestaglia di velo) Caro, adesso ti porto la colazione, poi ti stiro i pantaloni e ti preparo il bagno...

Alfeo                             - (si accomoda nella poltrona con un grosso respiro e intanto annaspa con la mano).

La Diva è andata dietro la tenda e ne torna con il carrello carico e scintillante di porcellane finissime, di barattoli, di leccornie. Ci sono anche i fiori. Si fer­ma accanto ad Alfeo e comincia a servirlo. Gli im­burra le tartine, lo imbocca. Ma, come si è detto, tut­to ciò avviene alle spalle di Alfeo, alla sua ombra. Alfeo muoverà soltanto la bocca per trangugiare.

La Diva                         - Hai appetito, tesoro? Dovresti prendere due uova al mattino. Tu sei un uomo forte e giovane e devi nutrirti. E una mela grattugiata, che regola l'intestino...' Non è vero, caro, che ingrassi. Sei più autorevole. Alle donne piacciono gli uomini autore­voli. Hai lo sguardo virile. Quando io mi sveglio al mattino penso al tuo sguardo virile. Mio marito, in­vece, ha lo sguardo di un cane. Per questo ho deciso di divorziare. Faccio bene? (gli si accuccia ai piedi) Ma non occorre che tu mi sposi. Io sto qui e ti aspetto. Poi usciamo. Cercheremo le strade deserte per baciarci. Oppure scriverò a macchina. Imparerò la stenografia. Ti serve la stenografia? E lo spagnolo? ti serve lo spa­gnolo? (si alza, gli gira alle spalle, gli mette le braccia attorno al collo). Al mattino tu mi aspetterai a letto, io entrerò in punta di piedi e mi infilerò sotto le co­perte accanto a te. Che profumo ti piace? Questo ti va? Oh, no, non voglio regali. Tu non devi spendere. Sei così sensibile che ne soffriresti. Gli attori? figurati, per me sono come manichini. Mi dico sempre che, se non mi avvertissero, non li riconoscerei l'uno dall'al­tro... (porta via il carrello, torna) Tesoro! (lo abbrac­cia. Accenna a sciogliere la vestaglia) Andiamo a letto o parliamo ancora un po'?

Alfeo                             - (mezzo sveglio) Quella ragazza al risto­rante... Si aggiustava i capelli sulla nuca, cercava con le punta delle dita le piccole forcine... Quegli strumenti intimi che le donne maneggiano come se avessero gli occhi sulle dita... Scartano un ricciolo, ne piegano un altro... Si accorgono al tatto di una macchia di rossore sulla pelle.

La Diva va eseguendo le azioni che Alfeo descrive. Ora corre allo specchio e si guarda alle spalle. Inu­midisce col dito un punto dietro il collo, mette una crema, la cipria, controlla.

Alfeo                             - Vicino a lei quel brutto ceffo col cranio pelato, che sputava il fumo... (con la mano abbando­nata accarezza il capo della Diva come se fosse accucciata ai suoi piedi) Aspettavo che voltasse gli occhi e li fermasse su di me... Ecco, gira il capo attorno, arriva a me... Mi ha saltato come un paracarro!

Suono di un organetto sulla piazzetta. La Diva balla. Si unisce al suono dell'organetto una voce aspra e lacerata.

Alfeo                             - Zitti! Zitti! Dovrebbero proibirli!

Il suono e la voce si allontanano. La Diva scompare. Dalla piazzetta sale la voce di un gelatiere.

Il Gelatiere                    - Gelati! Gelati!

Voce di Marcella          - Andavo pazza per i gelati alla crema, te ne ricordi? (Marcella appare).

Marcella                        - E per le tue parole che mi ubriaca­vano... Andammo al mare... (avanza di qualche pas­so. Alfeo le volta le spalle) Scrivevi con l'unghia sul­la mia pelle abbronzata. Credi che quelle parole sia­no scomparse perché le cancellavi subito col dito ba­gnato di saliva? Se guardi bene, sono ancora sulle mie gambe, come striature di lumaca... (alza le gonne) Quando mi hanno raccolta sulla scarpata della fer­rovia luccicavano al sole, tutti le hanno vedute. È la nostra storia. L'hai scritta tu.

Alfeo                             - (si tormenta i risvolti della vestaglia).

Marcella                        - Forse domani ti chiameranno al Com­missariato.

Riappare il viso illuminato dell'Esecutore di Giu­stizia.

L'Esecutore                   - (ad Alfeo) Lei conosceva questa donna?

Alfeo                             - (in piedi, dinanzi al tavolo, voltando le spal­le all'Esecutore di Giustizia. Umile) Non la vedevo da dieci o dodici anni, signor Commissario...

L'Esecutore                   - Come mai aveva il vostro ritratto nella borsetta?

Alfeo                             - Ricordi di gioventù. Superstizione...

L'Esecutore                   - Bisogna pensare che corressero fra voi rapporti speciali...

Alfeo                             - Oh, no! Una avventura come tante altre. La conobbi in autobus. Portava una sciarpa con una frangia, che si impigliò a un bottone del mio cappotto e così...

Marcella si mette accanto ad Alfeo in autobus, in piedi. Alfeo alle sue spalle, legge il giornale e la sbir­cia. Ora Marcella vuole scendere e domanda permes­so, ma resta attaccata per la frangia, come Alfeo ha raccontato. Crede che sia Alfeo a trattenerla.

Marcella                        - Oh, mi lasci.

Alfeo                             - Ma signorina, io...

Marcella                        - Scusi.

Alfeo                             - Non tiri così. Si strappa.

Marcella                        - Devo scendere.

 

Alfeo                             - Scenderò con lei.

Marcella                        - È buffo.

Alfeo                             - (scherzoso) Legati per la vita!

Si fanno strada. Alfeo aiuta Marcella a scendere, sempre legato a lei con la frangia. L'autobus riparte suonando il claxon.

Alfeo                             - (prende la ragazza sottobraccio) «Venga con me. Non c'è che una strada in questa città, che conduce a casa mia ».

Marcella                        - (alle sue spalle) Di fronte alla casa dove mi conducesti quella sera... (Si appoggiano al ta­volo come se fosse il davanzale della finestra) Col tuo braccio sulle mie spalle, vedevo le ombre dietro le griglie, ombre rosa, ombre celesti... Tu ridevi del­la mia ingenuità. « Adesso te lo spiego io », dicevi, e mi buttasti di traverso sul letto. È scritto qui, col mio sangue...

Alfeo                             - (si distacca) Son cose che tutti gli uomi­ni... Se qualsiasi cosa uno faccia, dovesse preoccu­parsi che dopo vent'anni...

Marcella                        - Certo che no. Sarebbe assurdo. Quan­te mani sono passate sul mio corpo. Quanti uomini mi hanno gettata di traverso sul letto. Anche per terra, sull'erba, nei giardinetti della periferia... E tu che c'entri? Ero io che li cercavo. Mi ero fatta più bella, più attraente. Gli uomini si voltavano a guar­darmi. Pareva che vedessero le carezze segrete che tu mi avevi insegnato.

Alfeo                             - Sarebbe finita così, anche senza di me, era destino...

Marcella, la borsetta pendula al braccio, gira in­torno ad Alfeo come una donna alla cerca.

Marcella                        - Ti piace di pensarmi così, eh? Una ragazza che si è data alla vita, una donna da mar­ciapiede, vizi, disordini, brutte malattie... Tutto sa­rebbe accaduto anche senza di te... Questo pensiero ti conforta. (Alfeo si siede) Ti ci metti a sedere so­pra, bello comodo.. Ma non è così. Avevo la camicia di cotone con l'orlo a giorno, una collanina d'argento con la medaglia... Il mattino dopo mi mandasti i fio­ri con un biglietto. Il fattorino aveva anche i guanti.

Alfeo riprende il giornale. Legge.

Voce                             - « Si sta ricercando quel giovane che si ac­compagna alla donna tutte le sere. Pare si tratti di un noto pregiudicato... ».

Marcella                        - Un bel giovane. Tu hai cinquant'an-ni. Lui venticinque. Quindici meno di me... Aveva giurato di sposarmi... Rumore di un treno che si avvicina.

Marcella                        - E ieri... ieri... Basta! Basta! Non ne poso più. (con un grido si getta in terra. Fischio del­la locomotiva, strepito di freni-, grida. Alfeo è immo­bile).

Appare il volto illuminato dell'Esecutore di Giu­stizia.

L'Esecutore                   - Ecco fatto, signore, come lei aveva predisposto... (scompare).

Alfeo                             - (si copre il volto con le mani. Pausa).

Entra Giuditta con le stoviglie. Ne ha le braccia ca­riche. Si è vestita, incipriata. Sembra un'altra.

Giuditta                        - (sgombera il tavolo, stende la tovaglia e dispone le stoviglie mentre parla) È venuto giù l'ingegnere. Voleva parlarti.

Alfeo                             - (senza ascoltarla) L'ingegnere?

Giuditta                        - Suo figlio è scappato questa notte.

Alfeo                             - (non risponde).

Giuditta                        - Non sanno spiegarsi come abbia potuto eludere la sorveglianza degli infermieri. Fatto sta che è scappato.

Alfeo                             - (si alza) Io vado a fare il bagno.

Giuditta                        - (scatta) Che egoista sei.

Alfeo                             - Perché vado a fare il bagno?

Giuditta                        - Fai tante storie, tanti discorsi, e poi qui c'è un uomo, poveretto, che si dispera e tu non trovi neppure una parola...

Alfeo                             - Scusa, non avevo capito. Seguivo altri pensieri...

Giuditta                        - Pensavi ancora ai magistrati?

Alfeo                             - Sei diffidente. Che cosa vuoi che pensassi? Siamo qui io e te. Adesso c'è anche l'ingegnere.

Giuditta                        - Dove?

Alfeo                             - Se dobbiamo occuparci di lui e come se fosse qui.

Giuditta                        - E tu ti difendi, è così?

Alfeo                             - (serio) Mi fa pena. Un padre... Ma il fi­glio io lo conosco?

Giuditta                        - Lo hai veduto mille volte. Quel bel giovane coi capelli rossi...

Alfeo                             - Ah, sì. Da quanto tempo lo avevano chiu­so in manicomio?

Giuditta                        - Non è un manicomio: una casa di cu­ra. Una malattia nervosa...

Alfeo                             - Di che genere?

Giuditta                        - Come un'idea fissa: vuole incontrare sua madre. Stamattina ha lasciato un biglietto alla Casa di Cura che usciva perché aveva appuntamen­to con sua madre.

Alfeo                             - Ma la madre non è...

Giuditta                        - Eh già. Morì pochi giorni prima che lui tornasse, e lui non lo sapeva. Entrò in casa chia­mandola da una stanza all'altra... Sarà stato il colpo che ne ricevette... I primi tempi pareva normale. Poi cominciò a chiudersi in camera sua, a non voler man­giare.

Alfeo                             - Non credi che si sia messo in testa che quella donna che è in casa possa prendere il posto della madre?

Giuditta                        - Può darsi.

Alfeo                             - E il padre che ti ha detto?

Giuditta                        - Disgraziato anche lui.

Alfeo                             - Certo, in quelle condizioni può fare qual­che sciocchezza. Ma non può essere andato lontano. I soldi, chi glieli dava?

Giuditta                        - Una donna, pare.

Alfeo                             - Una donna? Ridotto com'è?

Giuditta                        - È un bel giovane e sono cose che pas­sano, (pausa) Sarebbe andato così bene per Teresa.

Alfeo                             - Che ti viene in mente? Teresa è una bam­bina.

Giuditta                        - Tutte le volte che un pensiero ti in­fastidisce, dici che Teresa è una bambina.

Voci che altercano giungono dalla strada: più pre­cisamente dal negozio che è sulla piazzetta. Rosa esce dal negozio continuando a discutere da sola e ad invei­re contro il bottegaio.

Rosa                              - Un po' di coscienza, questo ci vuole. Un po' di coscienza, (guarda in giro, in alto, se mai ve­desse qualcuno con cui sfogarsi) Come se io non vo­lessi pagare. Con tutto quel ben di Dio!

Giuditta esce. Alfeo commette l'imprudenza di af­facciarsi. Rosa non aspettava altro: viene sotto la fi­nestra.

Rosa                              - Un po' di coscienza, questo ci vuole, (ad Alfeo) Dico bene? Alfeo si ritira.

Rosa                              - Dico a lei. Mio cognato è disoccupato, mia sorella è incinta.

Voce del bottegaio       - Quando non si hanno sol­di non si fanno tanti figli. Alfeo sporge il capo con prudenza.

Rosa                              - È disoccupato, gli dico. Sta tutto il giorno a casa... (ad Alfeo) Dica lei. Alfeo si ritira ma resta nel vano della finestra. Rosa   - Il signore mi dà ragione. È un uomo di coscienza. Tra cristiani ci si aiuta. Un osso, che co­s'è un osso? A mia sorella hanno rubato trecento lire, ha capito?

Voce del bottegaio       - Andate dalle monache, al convento qui vicino.

Rosa                              - Le monache? E non lo sapete che è Qua­resima? Di Quaresima le monache non mangiano. Non fanno che cantare.

Giuditta rientra portando qualcosa che posa sulla credenza.

Rosa                              - Gesù! Trecento lire le hanno rubato, mica un soldo.

Alfeo                             - (si volta verso la moglie) Giuditta, ce l'hai un osso?

Giuditta                        - Che osso?

Alfeo                             - - Che osso? Io non lo so che osso. Un osso da dare a quella donna.

Giuditta                        - E che è, un cane? (esce).

 

Alfeo                             - (si decide e si affaccia) Ecco le trecento lire, (le lascia cadere).

Rosa                              - (sorpresa, raccoglie i biglietti) Gesù! E che si compra oggi con trecento lire?

Alfeo chiude la finestra. Rosa rientra nel negozio. Dalla cucina arriva il rumore di un pollo che star­nazza.

Alfeo                             - (chiama) Giuditta!

Giuditta entra. Ha tra le mani un pollo.

Giuditta                        - M'era sfuggito di mano. L'ho ripreso sul davanzale, (si prepara a tirargli il collo).

Alfeo                             - (spaventato come se stesse per assistere a un delitto) Che fai?

Giuditta                        - Tu lo mangi vivo? (si avvia per uscire).

Alfeo                             - Perché Teresa non è qui ad aiutarti? Do­ve è andata?

Giuditta                        - (fermandosi) È uscita presto stamatti­na. Andava al mare, ha detto.

Alfeo                             - Con chi?

Giuditta                        - Non lo so, con i suoi amici.

Alfeo                             - Bisognerebbe seguirla di più quella ra­gazza. Scommetto che tu non conosci neppure i suoi amici.

Giuditta                        - Conosco lei.

Alfeo                             - E io?

Giuditta                        - Tu non conosci neppure te stesso.

Alfeo                             - (è davanti allo specchio intento a strapparsi un ciglio) Vuoi dire che io...?

Giuditta                        - Niente. Tu sei un brav'uomo. (lo guar­da) Non ti piace che ti dica brav'uomo?

Alfeo                             - Mi pare un'espressione... Dici sempre del lattaio che è un brav'uomo.

Giuditta                        - Beh, lui lo è.

Alfeo                             - E io no?

Giuditta                        - Ma sì, anche tu.

Alfeo                             - Che cosa? Sentiamo.

Giuditta                        - (guarda contro luce una bottiglia; è vuo­ta) Ci vai tu a prendere il vino in cantina?

Alfeo                             - Non cambiare discorso.

Giuditta                        - (gli mette la bottiglia tra le mani) Se a te il vino non piacesse, in cantina ci andresti ugual­mente?

Alfeo                             - Non ci sono sempre andato?

Giuditta                        - Hai anche sempre bevuto.

Alfeo                             - (scrolla le spalle) Io vado a fare il bagno. (la Diva sporge il capo dalla porta del bagno).

Alfeo esce. Anche Giuditta esce per rientrare duran­te la scena che segue. Nel giardinetto entrano Teresa e Giacomo. Teresa è giovanissima. Giacomo è un bel giovane non ancora trentenne, ha i capelli rossi.

Teresa                            - Di qui. Aspetta un momento. Accostati al muro, (va sotto la finestra, ascolta, torna indietro) Presto, salta sul balcone. Le persiane sono socchiuse. Potrai star lì quanto vorrai, nessuno entrerà nella camera.

Giacomo                       - E tu?

Teresa                            - Io vado alla Casa di Cura. Farò finta di aspettarti là. Così svieremo meglio le tracce.

Giacomo                       - Resta con me.

Teresa                            - Non possiamo restar chiusi nella mia ca­mera.

Giacomo                       - Ma tu perché non vuoi dirlo neppure a tua madre?

Teresa                            - No. No... Devi far pace con tuo padre, prima.

Giacomo                       - Non essere ostinata: io non ce l'ho con lui. Quando avrà capito che in casa non c'è rimasto lui solo, e che non può sotto gli occhi di lei...

Teresa                            - Oh, Giacomo...

Giacomo                       - Che c'è?

Teresa                            - Niente.

Giacomo                       - (la conduce per mano più lontano, dove non possono essere uditi) Ricordati che l'appunta­mento è per le tre.

Teresa                            - (gira lo sguardo attorno con un certo sgo­mento, come se si aspettasse di vedere un'ombra) Oh, Giacomo!

Giacomo                       - Allora lo fai per compiacenza? per « ac­contentarmi »? Perché non bisogna contraddirmi... È così?

Teresa                            - Non voglio sentirti dire queste cose. Sto con te, tutti i discorsi che facciamo, vuol dire che io...

Giacomo                       - (agitato) Non lasciarmi solo, Teresa, Tu non sai che cosa significa, la notte, quel silenzio sopra di me, sembra che mi schiacci. Alle prime luci dell'alba cominciano a passare le ombre sul soffitto. Qualcuna la riconosco: prima la guardia notturna, poi il carro del lattaio, gli infermieri... Ma ce n'è una, la grande ombra, più grande delle altre, che ogni tanto si ferma e torna indietro come se cercasse qual­cuno. Fino a che non vengono a spalancare la fine­stra non se ne va. Stamattina faceva così con le ma­ni, come se scostasse una tenda. Lo stesso gesto di quando io mi nascondevo per gioco e la mamma fin­geva di cercarmi. Per fortuna mi sono fermato a tem­po e ho nascosto il capo sotto le coperte. Potevo far­mi vedere in quella stanza con le sbarre alla fine­stra?... Pensa quanto ne soffrirebbe. Oggi, invece, vedendomi in casa tua, coi tuoi, tutti assieme, come se festeggiassimo qualcosa... Io fingerò di tornare da un viaggio d'affari e lei sarà contenta... Tornerai in tempo?

Teresa                            - Sì, caro. Io faccio tutto quello che vuoi, lo vedi? Ma a me lasciami stare. Mi abituerò.

Giacomo                       - Bisogna che tu ti abitui. Io non potrei vivere se non sentissi intorno a me, nell'aria... Ma ti pare verosimile?... (agita le mani) Aria! Aria! Sol­tanto aria! Restano gli odori e i pensieri no? Resta­no le voci, i suoni e « loro » no, con tutte le cose che hanno detto e pensato da vivi?

Teresa                            - (sgomenta) Sento venir qualcuno. Vai. (lo spinge dolcemente).

Giacomo                       - (sale sul balcone, apre le persiane per en­trare nella stanza. Si volta) Ciao. Alle tre. (entra richiudendo le persiane).

Teresa                            - (gira lentamente lo sguardo attorno. Esce in fretta).

Giuditta, che è rientrata, come s'è detto, durante la scena, sempre in faccende, ora si ricorda del tele­gramma. Lo prende. Lo apre. Lo legge. Alfeo rientra dal bagno. È quasi vestito. Ha il capo avvolto in un asciugamano.

Alfeo                             - Che dice il telegramma?

Giuditta                        - (gli indica dove l'ha posato).

Alfeo                             - (lo prende e lo apre, servendosi di una sola mano, mentre con l'altra si passa l'asciugamano sui capelli) « Triste anniversario... » Quale anniversa­rio? (guarda la moglie) Oh! (si volta verso il ritratto appeso alla parete) Scusami.

Giuditta                        - Non dire così.

Alfeo                             - (le si è accostato per abbracciarla).

Giuditta                        - (staccandosi) Che fai?

Alfeo                             - Perché non me l'hai ricordato?

Giuditta                        - Ieri, oggi, domani, che cosa cambia?

Alfeo                             - La Giuseppina se ne ricorda sempre.

Giuditta                        - È rimasta la sola che se ne ricordi.

Alfeo                             - Cinque anni. Ne avrebbe quindici. Quin­dici e tre mesi. Che abbiamo fatto per meritarcelo? Non è giusto. Non è giusto. Dico che non è giusto.

Giuditta                        - (ha finito di vestirsi. Si prende il tele­gramma, lo ripiega, lo ripone nella tasca) Come la vuoi la verdura? Cotta o cruda?

Alfeo                             - Non lo so... Com'è più semplice... Cotta.

Suono di campanello. Giuditta va ad aprire. Rumo­re di voci accese. Giuditta rientra accompagnando l'ingegnere, il padre di Giacomo. Sui sessant'anni o più, ma ben portati, capelli e baffi tinti, vestito ricer­catamente, l'Ingegnere è un uomo che ancora non ha rinunziato, si capisce, ai piaceri della vita. L'aspetto è simpatico, ma c'è un che di mellifluo e di ipocrita nel suo modo di fare, che insospettisce.

Giuditta                        - C'è l'Ingegnere che vuole parlarti.

Saluti.

Ingegnere                      - Mi scusi. Mi scusi. Mi dispiace di di­sturbare. Di domenica, poi...

Alfeo                             - Prego.

Ingegnere                      - Vengo da lei per un consiglio, tra coinquilini. Lei mi perdonerà.

Alfeo                             - Mia moglie mi diceva poco fa...

Ingegnere                      - Non riusciamo a immaginare chi può averlo aiutato. Un complice c'è di sicuro. Se indivi­duassimo il complice sapremmo dove cercarlo. E io sono venuto da lei, che può saperne più degli altri... Sua figlia conosce bene il mio Giacomo...

Alfeo                             - Che cosa le viene in mente?

Ingegnere                      - Credevo che lei lo sapesse... (Giuditta gli fa un cenno. L'Ingegnere si riprende) ... Una pa­rola, sa? Se mai avesse sentito dire da sua figlia qual­che cosa di mio figlio o di me...

Alfeo                             - Mia figlia non c'entra.

Ingegnere                      - Lo dico perché so come parlano di me nel casamento discorsi aperti, sospetti immondi...

Alfeo                             - (finge, naturalmente) Io non ho mai sen­tito nulla...

Ingegnere                      - Lei no. Perché lei... Nel casamento è nota la sua integrità. Un modello di sposo e di padre... (si rivolge verso Giuditta. Alfeo si gratta il mento. Giuditta esce) Ma i pettegolezzi non si fanno pre­gare per farli. E parlando, alle volte... Mio figlio, di­co, parlando... Basta una parola per montare la testa a una ragazza e farle credere...

Alfeo                             - Teresa non c'entra, le dico. Teresa è una bambina Di' tu, Giuditta          - (si volta e non vede più la moglie) Ma quando è uscita mia moglie? Poteva par­lare con lei meglio che con me...

Ingegnere                      - Eh no! Eh no! Anche sua moglie mi ha detto: « Mio marito non sa nulla ». Ma qui c'è di mezzo la mia rispettabilità e io ci tengo che lei sap­pia... Se sono stato costretto a far rinchiudere mio figlio in una Casa di Cura             - non mi importava che mi impedisse di lavorare, di vivere, praticamente... Lo sa che Giacomo capitava al negozio e mandava via i clienti, si piantava sull'uscio per impedire che entrassero? Ha fatto persino ritirare dei mobili già venduti e consegnati.

Alfeo                             - Perché lo faceva?

Ingegnere                      - Lo sa lei? Mi guardava e non rispon­deva, sempre cupo, con l'orecchio all'aria in ascolto di chi sa di che come se stesse di guardia, ecco.

Alfeo                             - Di guardia a che cosa?

Ingegnere                      - Lo sa lei? I medici allora...

Alfeo                             - E... quella donna... in casa? Io la incontro spesso per le scale una bella bruna, non c'è che di­re... Fianchi solidi, seno robusto...

Ingegnere                      - A sentir dire queste cose da lei, si­gnor Alfeo, c'è da non crederci.

Alfeo                             - (con intenzione) Gli occhi li abbiamo tutti.

Ingegnere                      - Dopo la morte di mia moglie, buona anima, che Dio mi fulmini in questo istante...

Alfeo                             - (guarda, preoccupato, il soffitto) Calunnie. Certo, calunnie. Ma forse le converrebbe, per tagliar corto...

Ingegnere                      - Posso dar soddisfazione al vento?

Alfeo                             - Lei sa come si dice: certe cose, gli uo­mini... meglio fuori di casa, m'intende?^

Ingegnere                      - Parola d'oro. La casa... è sacra!

Alfeo                             - (gli batte sulla spalla) Si stia bene, In­gegnere, (lo riaccompagna all'uscio) Vedrà che suo fi­glio è più vicino di quanto lei non immagini.

Ingegnere                      - Che Dio l'ascolti. E se mai, interro­gando sua figlia, se per caso, dico...

Alfeo                             - Le ho detto che mia figlia non ne sa nulla...

Ingegnere                      - Glielo domandi, se capita...

Intanto si è udito battere all'uscio: tra i battenti appare la testa di Rosa. L'Ingegnere esce.

Rosa                              - (inchinandosi più volte) La signora tanto buona...

Alfeo                             - Che cosa volete?

Rosa                              - Posso voler qualcosa? Con che coscienza? Le ho riportato le trecento lire. Le abbiamo ritrovate. Sa dove stavano? Nel reggipetto di Giovannina. Giovannina sarebbe mia nipote, che poi sarebbe la figlia di mio cognato. Eccole.

Alfeo                             - Tenetele, tenetele pure.

Rosa                              - Lei è un uomo di coscienza, ma io non posso accettare. Indebitarsi con una persona come lei per trecento lire sole... Dico bene?

Alfeo                             - Ah, così?

Rosa                              - Io gliel'ho spiegato a mio cognato. « Se mi ha dato trecento lire senza pensarci su, se io ci va­do e gliele riporto... ». Non capita mica tutti i giorni, dica lei, che uno riporti trecento lire... Mio cognato non lo capiva. È un po' ignorante, sa, è disoccupato.

Alfeo                             - (per punirla) E va bene. Sarà per un'altra volta, (tende la mano).

Rosa                              - (lesta, infila i biglietti nella tasca e ne trae un santino) Le ho portato un'immagine benedet­ta. Quando c'è questa in una casa, ci cresce l'abbon­danza. Io la tenevo a capo del letto da tanti anni.

Alfeo                             - Ma da voi l'abbondanza non è cresciuta.

Rosa                              - (rassegnata) E che, l'abbondanza va dai poveri? Tribolazioni. Sia fatta la volontà di nostro Signore. Se non ci fossero persone di coscienza che ci aiutano... E chi dà un fiasco d'olio. E chi dà mille lire...

Alfeo                             - Vostro cognato avrà il sussidio di disoc­cupato.

Rosa                              - Sì, glielo danno, ma lui è un po' ignorante, è disoccupato.

Alfeo                             - Se non fosse disoccupato non avrebbe il sussidio.

Rosa                              - E come faremmo a vivere senza il sussidio?

Alfeo                             - Avrebbe il salario, voglio dire.

Rosa                              - Il salario? Avrebbe il salario? Ma lui è di­soccupato, chi glielo dà il salario?

Alfeo                             - (per mandarla via) Bene, tenetevi le tre­cento lire.

Rosa                              - (non se ne va: ha qualche altra cosa da dire) Per via di Giovannina... Giovannina sarebbe...

Alfeo                             - ... la figlia di vostra sorella, ho capito.

Rosa                              - No, no. È proprio la figlia di mio cognato. Sono sposati. Si sono sposati subito dopo che lui è stato fatto disoccupato.

Alfeo                             - Quanti anni ha vostra nipote?

Rosa                              - Diciotto.

Alfeo                             - E vostro cognato è disoccupato da allora?

Rosa                              - Lui è un po' ignorante, è disoccupato... Una brava ragazza, Giovannina, tanto buona quan­to è bella. Sa far di tutto: cucina, lava, stira... In una casa come la sua... Se lei la vuole per i servizi, sarebbe una benedizione...

Alfeo                             - No, noi non abbiamo bisogno...

Rosa                              - Una persona fidata, di questi tempi... (in­sinuante, da vecchia mezzana) La signora si stanca a far tutto da lei... Non è più tanto giovane...

Alfeo                             - Ho detto di no, che non...

Rosa                              - (gli passa una fotografia) L'ha fatta al mare l'anno passato...

Alfeo                             - (è colpito, si capisce, dell'avvenenza della ra­gazza) Ehm, già... Sì, sì, dico... Lo capisco... (Si riprende). Dico una giovane... robusta, resistente alle fatiche... Potrò vedere... in ufficio, se avessero biso­gno di...

Rosa                              - Negli uffici non ci può andare. Deve tro­varsi una casa dove si mangia tutti i giorni...

Alfeo                             - Si può mangiare anche... in trattoria.

Rosa                              - In trattoria? con lei? E che figura ci fa­rebbe Giovannina?

Alfeo                             - Che figura ci farebbe lei?

Rosa                              - Lo capirebbero tutti che lei ce la porta per farla mangiare

Alfeo                             - Tutti vanno in trattoria per mangiare.

Rosa                              - No. No. I signori ci vanno per diverti­mento.

Alfeo                             - Io non ho detto che l'accompagnerò. Po­trà andarci da sola.

Rosa                              - Da sola? In trattoria? Gesù! E chi glieli darebbe i soldi?

Alfeo                             - Be', questo si vedrà...

Rosa                              - E le pare che se Giovannina avesse i sol­di li butterebbe per mangiare?

Alfeo                             - Ma allora che cosa volete?

Rosa                              - Giovannina vuol fare i servizi. E poi, in ufficio, non potrebbe dormire. E neppure Antonio.

Alfeo                             - Cos'è questo Antonio? Il fidanzato?

Rosa                              - No, no, è soltanto il marito. Non si sono mai fidanzati, non avevano i soldi e allora si sono soltan­to sposati. Quando avranno i soldi si fidanzeranno.

Alfeo                             - Per che fare?

Rosa                              - Per andare a spasso.

Alfeo                             - E adesso non ci vanno?

Rosa                              - Eh, adesso no, per via del latte. Se le vie­ne il latte, potrebbe andare come balia.

Alfeo                             - Ecco. Brava. Arrivederci.

 Rosa                             - Allora devo andare? (per la prima volta si guarda attorno) Che bella casa. Quanti mobili... Quel­lo è suo figlio? che bel ragazzino. E' in collegio?

Alfeo                             - Andate, adesso.

Rosa                              - Anche mio nipote è in collegio. Al Colle­gio Corrigendi - un bel palazzo, lo conosce? Sta pro­prio bene. Quando esce, lo fanno disoccupato anche lui. Tanti rispetti. (Esce).

Non è ancora uscita che Giacomo sporge il capo. Vede Alfeo e si nasconde di nuovo dietro la tenda. Giuditta entra asciugandosi le mani. Per prendere la bottiglia del vermouth e un bicchiere, Alfeo ha aperto un armadietto accanto alla tenda ed è sta­to sul punto di scoprirli. Alfeo posa la bottiglia e il bicchiere sul tavolo. Si versa da bere. Beve.

Giuditta                        - (apre la radio) « La Spia atomica è stata trasferita nella cella della morte... ».

Alfeo                             - (scatta, grida) Chiudi! Chiudi! (Corre lui stesso a chiudere la radio). No, non accetto! L'uomo non è nato per queste cose. L'uomo è nato per vive­re. E la vita... La vita è alzarsi al mattino, guardare il cielo, lavarsi, vestirsi, prendere il caffelatte, vede le un bambino che dorme, sentire" nell'aria l'odore dei prati...

Giuditta                        - (lo guarda) A chi parli?

Alfeo                             - A lui parlo, (alza il braccio indicando) A lui. Anche le disgrazie, accettiamo anche quelle. Pian­gere, disperarsi, ma come un fatto che ti cade ad­dosso. E li distribuisca come vuole, chi può dirgli niente? Ma che uno, che non ha fatto del male, che sta tranquillo in casa sua, ad un certo momento si senta desolato e pensi ai morti che sono in pace questo a me, vivo, non spetta. (Cammina per la stan­za). Io sono un uomo normale.

Giuditta                        - (alza gli occhi al cielo ed esce).

Alfeo                             - Sono andato a scuola, ho studiato. Ho studiato anche la storia del vostro Paese... (Riap­pare la Spia). E mi fidavo, gente seria, di ca­rattere. Eravamo d'accordo, no? Perché di punto in bianco tutto cambia? Che cos'è questa storia? Lei era stato messo a quel posto per difendere me e gli altri come me. Per pensarla come me. Come una sentinella. Come un soldato. Aveva in consegna le mie opinioni. Ma se lei si fa prendere dalle crisi ideo­logiche, io non sono più sicuro delle mie opinioni...

Mentre la Spia si annoda una corda attorno al collo, Giacomo che è stato a sentire con il capo fuo­ri della tenda, avanza di qualche passo. Alfeo gli volta le spalle e non lo vede.

Giacomo                       - Capita anche a me.

Alfeo                             - Appunto. Ma a lei non doveva capitare. Le persone per bene non mutano opinione.

Giacomo                       - (gentile, tranquillo, avanzando) Veda, signor Alfeo... (La Spia scompare).

Alfeo                             - (si volta. Vede Giacomo e fa un salto indie­tro) Ma lei chi è?

Giacomo                       - Non parlava con me?

Alfeo                             - Quando è entrato? E come?

Giacomo                       - (sempre tranquillo, con naturalezza) Ma sa che lei è un po' strano? Io credevo che non mi vedesse e invece mi aveva veduto benissimo. Si met­te a parlare con me, e poi all'improvviso...

Alfeo                             - (chiama, ma la voce gli esce soffocata) Giuditta!

Giacomo                       - Ssssst... Per piacere. Non gridi! (gli fa cenno di non farsi udire dalla moglie. Concitato, sveltissimo) Mi danno la caccia. Mi inseguono. Poi mi lascerò prendere. Ma ancora no. Devo fare una cosa. Sono scappato per questo.

Alfeo                             - (fa un passo indietro) Lei è...?

Giacomo                       - (tranquillo) Sono il figlio dell'Ingegne­re.

Alfeo                             - E da dove è entrato?

Giacomo                       - Da dove vuole che sia entrato? Dal bal­cone.

Alfeo                             - (con ira) Anche dal balcone, adesso? Vo­glio andare ad abitare all'ultimo piano, in cima a u-na torre! (Passa, scrociando e facendo tremare l'aria, un aeroplano a reazione. Alfeo alza gli occhi al cielo).

Giacomo                       - (tranquillo e indulgente, indicando il sof­fitto) Matti!

Alfeo                             - (va all'uscio e vi si pone davanti per essere pronto a scappare) Suo padre...

Giacomo                       - Si tratta di lui. (Muove qualche passo verso Alfeo).

Alfeo                             - (fermandolo col gesto) Stia pur lì. Stia pur lì. Io avverto suo padre. Io chiamo la Polizia.

Giacomo                       - (umile, paziente) Questo lei non può farlo. Si tratta di mia madre.

Alfeo                             - Che c'entro io con sua madre?

Giacomo                       - (contento, festoso) Verrà qui, oggi, al­le tre.

Alfeo                             - Sua madre?

Giacomo                       - Che cosa le costa? Pochi minuti... Quando sarà andata via...

Alfeo                             - Chi?

Giacomo                       - Mia madre.

Alfeo                             - Ma che dice? Sua madre è... (morta).

Giacomo                       - Sssst. La vedrà anche lei.

Alfeo                             - Ah, la... la... vedrò?...

Giacomo                       - Lo spero. Sa come sono: qualche volta preferiscono non farsi vedere. Si mettono dietro una tenda... (Alfeo guarda la finestra. Un soffio di vento gonfia la tenda)...

Alfeo                             - Giud... Giud... (ma la voce non gli esce dalla gola serrata).

Giacomo                       - (il dito sulle labbra) Per piacere... Non mi importerebbe di sua moglie, ma ho paura che si metta a gridare e potrebbe udirla...

Alfeo                             - (sta per protestare di nuovo, ma lo arresta la voce di Giuditta).

Voce di Giud.               - Alfeo, apri la porta. Ho le mani ingombre.

Alfeo                             - Mia moglie ha il cuore debole... Non pos­so darle emozioni...

Giacomo                       - (mentre sta per scomparire dietro la ten­da) Appunto. Lei mangi tranquillo, tanto io non ho appetito. (Scompare).

Alfeo                             - (rinculando, intimorito, apre la porta).

Entra Giuditta con la zuppiera della minestra.

Giuditta                        - A tavola.

Alfeo                             - (è incerto. Smarrito, inghiotte saliva).

Giacomo                       - (sporge il capo, e gli fa ancora segno di tacere indicando il soffitto).

Giuditta                        - (scodella. Si siede) Oh, finalmente sto seduta. Un po' di pace, se Dio vuole. (Passa la scodel­la ad Alfeo e intanto, con la punta del piede si sfila una scarpa sotto la tavola).

SECONDO QUADRO

La stessa stanza, un'ora dopo. Giuditta, Alfeo e Giacomo sono seduti intorno alla tavola. Hanno fini­to di mangiare. Giacomo è fra i due e racconta. Il viso appoggiato sulla mano, Giuditta lo ascolta con grande attenzione. Alfeo sembra insonnolito: accarez­za con gli occhi semichiusi il capo della Diva, come se fosse accucciata ai suoi piedi.

Giuditta                        - (con sollievo) Ma sai che è straordi­nario come parla? Non sembra affatto...

Alfeo                             - (con imbarazzo). Giuditta!

Giuditta                        - (imperterrita) Voglio dire che ragiona bene, pulito...

Alfeo                             - Insomma, Giuditta...

Giuditta                        - A te pare di no?

Alfeo                             - Ha già detto lui, ha spiegato che...

Giuditta                        - Storie! Quando è uscito fuori dalla tenda con quegli occhi... (si riprende) Ha dei begli occhi, dico... (gli sorride).

Alfeo                             - Ha già spiegato che, appunto, è dovuto ricorrere a questa via perché il padre...

Giuditta                        - Tu ci credi?

Alfeo                             - Anche tu ti sei persuasa...

Giuditta                        - No, no. Io sono ancora sudata. Ho ta­ciuto perché si dice che non si deve... (si ferma, si riprende come prima, rivolta a Giacomo) Lei... si sente bene? Mangia con appetito?

Giacomo                       - Lei allude alla Casa di Cura? Un equi­voco, signora. Tutto è accaduto per via dei mobili.

Giuditta                        - Appunto. Perché lei impediva a suo padre di vendere i mobili? E' il suo commercio, il suo lavoro.

Giacomo                       - (scuote il capo) Io non volevo che an­dassero via alcuni mobili che erano pieni di roba. I mobili che avevamo in casa quando c'era ancora mia madre. Lei li spolverava ogni giorno col piumino. Gli specchi, per esempio. Immagini le volte che vi si sa­rà veduta, pensando a me, che ero lontano. Pensie­ri che ritrovava il giorno dopo, cose che mi avrebbe dette al ritorno potevamo venderli, signora?

Alfeo e Giuditta si scambiano un'altra occhiata.

Giacomo                       - La verità è che ad un certo punto qua, lo vede? si chiude, cala la saracinesca e le cose più semplici non entrano più, neppure le cose più sem­plici. Mio padre non ne ha colpa. Lui è nato che il motore a scoppio non esisteva ancora. Andava a scuo­la con l'omnibus a cavalli, usavano l'acetilene. In cinquant’anni, guardi dove siamo arrivati! Natural­mente, ci si abitua, e anche lui gira gli interruttori della luce elettrica o della radio, come se lo avesse fatto da quando era bambino, ma la verità è che non si rende conto...

Giuditta                        - Di che cosa?

Giacomo                       - Non sa trarne le conseguenze.

Giuditta                        - (preoccupata) Ci sono delle conse­guenze?

Giacomo                       - L'aria è chiara, è abitata.

Giuditta                        - Anche lei crede la storia dei dischi vo­lati?

Giacomo                       - No. No. L'aria, questa: L'A-R-I-A.

Alfeo                             - (spiega alla moglie) Parla dei microbi.

-

Giacomo                       - Macché microbi. A meno che lei chia­mi microbi anche gli uomini... (ride di gusto. A Giu­ditta) Faccia così, (stringe i pugni in aria) Sente com'è? Si avverte al tatto.

Giuditta                        - Fumate troppo con la finestra chiusa. (si alza per andare ad aprire la finestra).

Giacomo                       - (ride) Ah! Ah! Ah! Quando lei apre la radio, che cosa fa? Quando lei parla? Dica qualcosa. Dica. Per esempio "Io". Dica. Dica.

Giuditta                        - (torna) Io dico che...

Giacomo                       - (la interrompe col gesto, afferra le parole in aria con le dita raccolte a fuso e le fila). Dove sono le parole che lei ha detto? Le vede ancora? So­no già arrivate a Parigi? A Londra? A Melbourne? Io sto a Melbourne. Eccole, le sue parole, arrivano in questo istante a Melbourne: "Io dico che...", (ripren­de le parole con le dita e le fa girare a mulinello in­torno al proprio capo, sempre più rapidamente). "Io dico che...". "Io dico che...'". "Io dico che...". Dove le metto?

Alfeo                             - (ride nervosamente. La butta in ischerzo) Le posi pur lì, per il momento...

Giacomo                       - (serio, con un tono di rimprovero) Le devo mettere qui. (le infila a forza nella testa) le parole che arrivano da Londra o da Melbourne.

Alfeo                             - (è a disagio. Per cambiare il discorso) Giu­ditta, ci dai il caffè?

'Giuditta                        - (riflettendo) Sarà, ma queste, a me, sem­brano bizzarrie...

Giacomo                       - (subito) Come mio padre: le cose serie le chiamano bizzarrie e le vere bizzarrie, quelle in cui credono loro (sventola la mano davanti alla fron­te) le prendono sul serio.

Giuditta                        - Dice a me?

Alfeo                             - (scherzoso) Badi, sa, che questo è vera­mente un giudizio che una persona ragionevole... No. No. Non c'è persona più equilibrata, più tranquilla, più serena di mia moglie...

Giacomo                       - (serio) Appunto, di questi tempi...

Alfeo                             - (ride) Ah, ah! Questa è buona. Questa è buona...

Giuditta                        - (alzandosi da tavola, risentita) Senta, lei avrà avuto dei dolori, delle sofferenze, non discu­to, ma per me tutto è più semplice. Siete voi uomini che complicate le cose, (si avvia portando alcune sto­viglie che ha radunate mentre parlava).

Giacomo                       - (gentile) Non vorrei esserle dispiaciuto.

Giuditta                        - Vado a preparare il caffè... (esce).

Alfeo                             - Non ci badi. Mia moglie diceva così per celia. E in ogni caso, io sono persuaso che lei... magari un po' di stanchezza nervosa... ma lei sta meglio di me... (gli batte bonariamente sulla spalla).

Giacomo                       - Questo Io credo anch'io, (si guarda at­torno).

Alfeo                             - Che guarda?

Giacomo                       - Quando sono entrato avevo con me...

Alfeo                             - Ha perduto qualcosa?

Giacomo                       - No, perduto no. C'era Piero, il mio ami­co, che mi accompagna sempre ogni tanto lo di­mentico e allora...

Alfeo                             - E' rimasto di là? Anche l'amico si è por­tato?

Giacomo                       - (è andato alla porta della stanza di Tere­sa, l'ha aperta) Avanti, Piero, vieni avanti... Scu­sami se ti ho lasciato... (naturalmente non si vede nes­suno).

Alfeo                             - Ma no! Ma... no, questo poi...

Giacomo                       - (ad Alfeo) Le dispiace se si siede qui? (A "Piero") Siedi, caro, siedi...

Alfeo                             - (balbetta).

Giacomo                       - Siamo stati assieme in guerra...

Alfeo                             - Ma... di chi parla?

Giacomo                       - (gentile) Le spiegavo di questo mio a-mico...

Alfeo                             - Senta, ragioniamo con calma. Lei aveva detto che voleva tornare alla Casa di Cura... (gli par­la come ai bambini) Vuole che l'accompagni? Chia­miamo un taxi?

Giacomo                       - Più tardi. Mancano ancora venti minu­ti...

Alfeo                             - (annaspando) Giuditta! Giuditta!

Entra di corsa Teresa, seguita da Giuditta.

Teresa                            - Oh, Giacomo!

Alfeo                             - Teresa.

Teresa                            - Sì, papà. Dopo ti spiegherò tutto. Stanno per venire. Bisogna salvarlo.

Alfeo                             - Ma..,

Teresa                            - Dopo, (mentre esce di corsa) Dite che mi sto vestendo, tratteneteli in qualche modo, (escono).

Suono vibrato di campanello.

Alfeo                             - Giuditta! Ma tu lo sapevi?

Giuditta                        - Sapevo che si vedevano qualche volta.

Alfeo                             - E non mi hai detto nulla?

Si ode bussare all'uscio.

Giuditta                        - No, era inutile. (Esce per andare ad a-prire).

Alfeo                             - Inutile? Io non devo saper mai nulla. Inu­tile? Io? (Entrano il medico e l'Ingegnere. Dalla fret­ta con la quale sono entrati si capisce che inseguono qualcuno).

Medico                          - Sono il Medico della Casa di Cura. E' qui?

Giuditta                        - (fingendo) Qui? Chi?

Ingegnere                      - Mio figlio, è qui, lo hanno veduto.

Giuditta                        - (sicura) Non ci siamo che noi. E nostra figlia.

Ingegnere                      - E' qui. E' qui.

Il Medico                      - Signora, lei si rende conto... della gra­vità...

Giuditta                        - Non capisco di che cosa stia parlan­do?

Alfeo                             - (timido, incerto, combattuto) Giuditta...

Medico                          - Io non conosco le ragioni del suo atteggia­mento e non mi riguardano. Il mio dovere di medico è di ricondurre l'ammalato alla Casa di Cura. Spero che lei non mi obbligherà a chiamare gli infermieri che sono fuori dell'uscio.

Giuditta                        - Gli infermieri? Per fare? Vuole fruga­re la casa? E' aperta, guardino pure.

L'Ingegnere e il Medico si scambiano un'occhiata, poi il Medico si dirige con passo deciso alla camera di Teresa. Fa per aprire: la porta è chiusa a chiave. Si volta come per dire: "È lì".

Giuditta                        - Teresa!

Teresa apre, appare semi svestita. Vede un estraneo. Finge stupore, disappunto e si ritira. Il Medico esita: sta per entrare).

Giuditta                        - Abbia pazienza un minuto. Ha pur vi­sto...

Giacomo è uscito sul balcone e si tiene addossato al muro. Teresa riappare. Ha indossato una vestaglia. Finge sorpresa.

Teresa                            - Che c'è?

Il Medico entra nella camera. Giacomo scende dal balcone. Esce.

Teresa                            - Che cosa è accaduto? Oh, Ingegnere, lei qui?

Ingegnere                      - Mio figlio. Dov'è mio figlio?

Giuditta                        - (a Teresa) Credevano che fosse qui.

Il Medico ha aperto anche il balcone. Ora ritorna, non è persuaso.

Medico                          - Non c'è. (guarda fissamente Alfeo, poi Giuditta) Deve essere entrato di soppiatto, si è nasco­sto e poi è fuggito dalla parte del giardino... (guarda Teresa che si allontana).

Ingegnere                      - Che cosa gli accadrà?

Medico                          - Nulla, stia tranquillo. Con i vivi non cor­re pericolo.

Alfeo                             - Con i vivi?

Medico                          - (schermendosi) Sarebbe lungo spiegare... (all'Ingegnere) Andiamo?

Alfeo                             - Non vorrei che loro credessero. Non ci sa­rebbe ragione da parte nostra di...

Teresa                            - (a sfida, dal fondo) La ragione ci sareb­be.

Si voltano tutti insieme verso di lei.

Medico                          - (gentile. Ha capito) Quale?

Teresa                            - (si pente d'aver parlato, d'essersi tradita. Confusa) Dicevo... Nulla.

Medico                          - (fa un passo verso di lei) Arrivederla, signorina.

Teresa                            - (subito con rancore) Sono io che l'ho fat­to fuggire.

Nella confusione, nell'imbarazzo generale, il Medi­co, tranquillo, si accosta a Teresa.

Medico                          - Quale ragione, signorina?

Teresa                            - (c. s.) Perché non è malato. È un sopruso tenerlo rinchiuso.

Medico                          - Sopruso?

Teresa                            - Non voglio parlare.

Alfeo                             - Teresa, che dici?

Giuditta                        - Figlia mia...

Teresa                            - Lasciatemi stare. So quello che dico, (al Medico) Lei non lo sa. Ma lui... (indica l'Ingegnere).

Ingegnere                      - (costernato) Come si permette?...

Teresa                            - (senza più controllo) Ha i suoi motivi, si­curo, il suo interesse.

Ingegnere                      - Oh!

Alfeo                             - (richiamandola con autorità) Teresa, ti proibisco... (è sul punto di levare la mano su di lei).

Il Medico accortamente si infila fra i due. Fa se­gno al padre di calmarsi, di lasciar parlare lui.

Medico                          - Anch'io avrei i miei motivi? Il mio in­teresse?

Teresa                            - (per evitare di rispondere) Non lo so e non mi riguarda.

Ingegnere                      - (indignato, ora è lui che avanza) Come può dire una cosa simile? di me? del padre? Abbiamo aspettato per anni il suo ritorno. Sono so­lo...

Teresa                            - Non tanto solo!

Ingegnere                      - Ah! (agita le mani, scuote il capo) Basta! Basta!

Alfeo afferra la figlia per un braccio per condur­la via.

Alfeo                             - (all'Ingegnere) Le domando scusa. E' u-na scriteriata.

Ingegnere                      - (vince l'indignazione, e con una calma quasi tragica) Aspetti. La lasci parlare.

Si fermano.

Ingegnere                      - La ragazza parla per affetto. Non importa quello che pensa di me. Vorrei che avesse ragione, (a Teresa con dolcezza, dal fondo di un do­lore sincero) Lei crede... Lei crede davvero...? Lei giudica mio figlio... come gli altri?

Teresa                            - Sì

Ingegnere                      - (con una lieve luce di speranza) Sì? Lei sa che cosa abbiamo passato dopo il suo ritorno? Quelle settimane? Chiuso in camera, si rifiutava di vedermi, di mangiare...

Teresa                            - A me mi vedeva.

Alfeo                             - Come? Dove?

Teresa                            - (non risponde).

Ingegnere                      - E perché non voleva vedere me?

Teresa                            - Non voleva vedere nessuno. Voleva la­sciarsi morire. Gliel’ho impedito io, perché c'ero e lo capivo.

Ingegnere                      - Perché ?

Alfeo                             - Ed io non sapevo nulla di nulla, il Capo di casa. Giuditta!

Medico                          - Come sosteneva con lei il suo tragico proposito? Il padre dice che i primi tempi sembrava sereno... Che cosa è accaduto, poi, che giustifichi...?

Teresa                            - Non potete capirlo. La sua disgrazia è questa che non potete e non volete capirlo, e voi la chiamate la sua malattia.

Ingegnere                      - Un padre non può capire suo figlio?

Teresa                            - Soltanto una donna, soltanto sua madre. Aveva bisogno di lei, ha bisogno di lei. Ma non è malato. Non è malato. Non è malato!

Ingegnere                      - Che Dio l'ascolti.

Medico                          - Signorina, la sua fiducia è commovente. Ma lei deve persuadere anche noi.

Alfeo                             - (al medico) Perché lei ha detto che "con i vivi" non corre pericolo?

Medico                          - Questo è il punto, (a Teresa) Anch'io sarei portato a credere che non è propriamente ma­lato. Il suo comportamento è quasi normale coi vivi... Ma è come se non sapesse più quali sono i vivi e qua­li sono i morti...

Teresa                            - (volge il capo e non risponde subito) Era ancora un ragazzo quando è partito. La madre gli scriveva tutti i giorni. Non trovarla più, al ritorno...

Ingegnere                      - Disperato. Disperato, questo è vero.

Teresa                            - Non poterle dire che era tornato. Non sa rassegnarsi al sopruso, alla cattiveria, al rimorso... (all'Ingegnere) E se lei lo avesse seguito, se gli avesse dato modo di « incontrarsi » una volta con la madre...

Giuditta                        - Teresa...

Medico                          - Un uomo normale si rende conto delle realtà, anche le più dolorose. Codesto suo pensiero fisso indica uno stato patologico...

Teresa                            - Perché lui crede che la madre lo cerchi? Non ci dicevate, da bambini, che dal cielo ci guar­dano?

Alfeo                             - Teresa, e figlia mia...

Teresa                            - (al padre) Quando tu ci portavi in cam­pagna, con Mario, la domenica, e ci dicevi di respi­rare quell'aria pulita. « È l'aria che respirano gli uc­celli e gli alberi », dicevi. Mario ti domandò: « An­che gli alberi, papà ». E tu cosa gli rispondesti? « Cer­to, figlio mio, anche le pietre, chi lo sa? ».

Alfeo                             - Che c'entra tutto questo?

Giuditta                        - (ha capito e si allontana).

Teresa                            - Giacomo mi ha fatto respirare quell'aria.

Alfeo                             - (si impazientisce) Quale aria? Quale aria?

Teresa                            - Adesso se ti dico che mi viene in mente un altro ricordo, tu ti arrabbi.

Alfeo                             - Sentiamo. Avanti.

Teresa                            - Quella domenica che tu volevi andare a pescare e io, invece, avevo preso appuntamento con Piero per confessarmi. « Tutte queste confessioni, tu dicevi. Ti confesserai all'aperto. Dio non è dapper­tutto? ». E io mi confessai all'aria aperta mentre tu pe­scavi le trote nel fiume...

Alfeo                             - E con questo? Continui a parlare, a par­lare e non si riesce a capire dove vuoi arrivare.

Teresa                            - Non pretendere un ragionamento filato, papà. Anch'io vado avanti all'oscuro. Mi sto confes­sando con te.

Alfeo                             - (si è messo gli occhiali per guardar meglio la figlia).

Teresa                            - Quando metti gli occhiali, provo subito vergogna e rimorso... Oh, papà, cerca di capire. Per essere in pace con se stessi, non c'entra il buon senso, non c'entra quello che è ragionevole...

Alfeo                             - Ma allora si può sapere che cosa c'entra?

Teresa                            - Se io penso alla mia vita come vorrei che fosse... Tu me l'hai insegnato, papà - e la mamma - e adesso Giacomo... che è tutto... « disponibile », aper­to agli altri, ai loro pensieri, ai silenzi... alla loro presenza     - di quelli che ci sono e di quelli che non ci sono... Cercare di vivere anche con loro, se mai fosse possibile... Stiamo zitti papà. Vedi che la mamma ha capito.

Alfeo                             - (guardando al di sopra delle lenti) Giu­ditta? Piangi? Perché piangi?

Giuditta                        - (spaventata) Oh, Dio... (abbraccia la figlia come per proteggerla).

Suono deciso di campanello. Teresa si distacca e corre ad aprire. Rientra subito con Giacomo che ha un viso festoso.

Giacomo                       - (in fretta, sottovoce, a Teresa) Non c'è più tempo: la mamma sta per arrivare. Facciamo fin­ta di essere tutti allegri. Aiutami, (andando incontro e salutando) Buon giorno, signora. Buon giorno, si­gnor Alfeo. Oh, papà, anche tu qui. (al Medico) E lei, avvocato come sta? Che gioia trovarci tutti qui riu­niti, come se ci fossimo dato appuntamento. Sono ar­rivato pochi minuti fa...

Teresa                            - (alle spalle di Giacomo, fa segno agli altri di seguirlo nelle finzione).

Giuditta                        - Si metta a sedere.

Giacomo                       - Grazie, (si siedono. Al Medico) Pensi, Avvocato, che mi stavo dicendo di telefonarle per una combinazione fortunata che si presenta...

Medico                          - (compiacendolo) Sarò in studio tutto il giorno.

Ingegnere                      - (smarrito) Giacomo...

Giacomo                       - (affettuoso) Sì, papà! caro. Stai meglio oggi, vero? Quando sono partito eri pallido. Oggi di­mostri trent'anni.

Giuditta                        - Prende qualche cosa?

Giacomo                       - Volentieri.

Giuditta versa da bere, lasciando i bicchieri sulla tavola.

Giacomo                       - E lei, quando andiamo al cinema? Me l'ha promesso...

Teresa                            - Certo. Certo... (anche lei è smarrita, teme che gli altri si tradiscano, e li sorveglia).

Giacomo                       - Quando tornerò dal mio prossimo giro d'affari., (a poco a poco si eccita, forza i toni) È una vita che mi piace moltissimo - girare di qua e di là - e poi un ottimo guadagno. Il solo inconveniente è che non so mai dove sarò il giorno dopo - non posso ricevere la posta. Il babbo me la tiene da parte, la mette sul mio tavolo... (a Giuditta) Guardi quante let­tere ho trovato oggi, tornando... (trae dalla tasca un pacco di lettere. Ora si alza, quasi di scatto, si acco­sta alla tavola; prende in mano un bicchiere, distri­buisce agli altri con una allegria eccessiva, innatura­le) Facciamo un brindisi, facciamo un brindisi... Quand'ero ragazzo, la mamma mi dava sempre due dita di vino. Aiuta a crescere, diceva...

Teresa                            - (dal fondo della stanza, alle sue spalle, con voce soffocata e dolcissima) Ben tornato, figlio mio...

Lungo silenzio. Giacomo nasconde il volto tra le mani. Ancora un lungo silenzio.

Giacomo                       - (con un tono di voce serio e normale) Andiamo, dottore.

Teresa                            - (spaventata) Giacomo!

Giacomo                       - Scusami.

Teresa                            - Che dici. Giacomo?

Giacomo                       - È così.

Teresa                            - Così, come? Che cosa? (si è accostata a lui).

Giacomo                       - (le fa una carezza) Grazie, Teresa.

Teresa                            - Oh, Giacomo!

Giacomo                       - (scoppia in pianto, il viso nascosto nell'ansa del braccio) Ho tanta vergogna. Non mi ac­cadeva da molto tempo... Andiamo, Dottore...

Il Medico lo prende sottobraccio. L'Ingegnere, mi­sero, affranto, smarrito, guarda il figlio che passa. Avanza una mano verso di lui che prosegue senza volgere il capo. Allora, barcollando e incespicando, il vecchio si butta avanti a sbarrargli il passo; con la mano tesa allontana il medico, si prende il figlio tra le braccia, lo conduce a sedere, si siede di fronte a lui, chino verso di lui.

Ingegnere                      - Tornerai a casa. Va bene?

Giacomo                       - (scrolla il capo).

Teresa                            - (è rimasta dov'era e si trova adesso alle sue spalle. Lontana qualche passo, si raccomanda) Gia­como, caro...

Il Medico parla ad Alfeo. Giuditta non perde una parola, né un gesto del dialogo tra padre e figlio e Teresa.

Giacomo                       - Non è colpa mia.

Ingegnere                      - Chi ha detto che è una colpa?

Teresa                            - (non si è mossa; da lontano, con voce che trema appena) Vuoi sposarmi, Giacomo?

Silenzio.

Giuditta interviene, ma subito, tendendo il braccio, Teresa la ferma. Giacomo non risponde, non si è mos­so, come se non avesse udito.

Teresa                            - (più dolce e commossa) Vuoi sposarmi, Giacomo.

Giacomo si alza, tiene il capo chino sul petto. Si avvia verso l'uscio. Passando accanto al Medico infila il braccio sotto il suo. Proseguono insieme. Escono. L'Ingegnere li segue. Sembra ubriaco. Giuditta abbrac­cia Teresa, che piange sulla sua spalla.

Alfeo                             - Oh! Oh! Questa poi... (si accosta alla mo­glie e alla figlia) Teresa... figliola mia...

Giuditta                        - (sopra le spalle di Teresa, gli fa cenno di tacere, di lasciarla stare. Tenendola sempre abbrac­ciata, accompagna la figlia in camera sua. Escono).

Ora Alfeo è solo, ma l'aria è densa intorno a lui. Respira con un lieve affanno. Per occuparsi in qual­che modo, mette a posto le sedie intorno alla tavola, due, tre, quattro sedie. Poi ne toglie una e l'addossa alla parete. Ma anche li quella sedia vuota, quella sedia « in più » lo turba e le volta le spalle. Si siede alla tavola, al centro, vi distende le braccia aperte sino a toccare gli altri due posti, con un gesto di pro­tezione. Così lo vede Giuditta rientrando.

Alfeo                             - (senza voltarsi) Ci mancava anche questa.

Giuditta                        - (viene alla tavola, si siede. Scrolla appe­na le spalle) Cose da ragazzi, per fortuna.

Alfeo                             - Da ragazzi?

Giuditta                        - Si ribellano contro qualche cosa...

Alfeo                             - Che cosa?

Giuditta                        - È difficile capirli.

Alfeo                             - Ma tu perché non mi hai detto nulla?

Giuditta                        - Di che?

Alfeo                             - Che, insomma, si vedevano, c'era questa storia...

Giuditta                        - Se te l'avessi detto, tu che avresti fatto?

Alfeo                             - Sarei intervenuto, avrei impedito che le cose arrivassero a questo punto.

Giuditta                        - A quale punto?

Alfeo                             - Lo hai veduto, no? Mi pare che una ra­gazza non abbia niente da guadagnarci in una situa­zione così assurda.

Giuditta                        - Perché assurda?

Alfeo                             - Che domande fai! Un uomo malato...

Giuditta                        - (guarda fissa davanti a sé, senza rispon­dere).

Alfeo                             - Giuditta, non ti riconosco. Dici a me che sono strano e poi tu ti lasci influenzare tanto da tro­vare normale un uomo che confonde, come dice il me­dico, i vivi con i morti...

Giuditta                        - È un uomo mortificato. Non è il solo.

Alfeo                             - Appunto. Ci sono milioni di giovani nelle sue condizioni e anche peggiori, ma io non ne co­nosco nessuno che...

Giuditta                        - Voi le vedete meglio queste cose. An­che il Medico, del resto... Ma io...

Alfeo                             - Ti lasci commuovere da Teresa.

Giuditta                        - Pensavo a Mario.

Alfeo                             - (alza di scatto il viso e fissa la moglie).

'Giuditta                        - (si è alzata, ora piega i tovaglioli. Silen­zio) Era così felice quel mattino di andare in mon­tagna, con quelle scarpe più grandi di lui, il sacco sulle spalle... « Ci vediamo stasera », aveva detto...

Alfeo                             - (con dolce richiamo) Giuditta... (e guarda la sedia vuota addossata alla parete).

Silenzio.

Giuditta                        - Non è morto, capisci?

Alfeo                             - (sgomento, vorrebbe fermarla) Giuditta, che dici?

Giuditta                        - (si corregge) Il fatto che è morto non è... Che non sia tornato a casa quella sera, come aveva detto... Che non sia più tornato a casa, che io non gli possa parlare più, il silenzio! questo è in­sopportabile. (Ora piangerebbe. Batte forte con la ma­no sui tovaglioli piegati e va a riporli in un tiretto della credenza, poi torna e sgombera il tavolo) Ti ricordi che aveva imparato quella canzonetta e che continuava a fischiarla tutto il giorno, anche a tavo­la, e tu lo rimproveravi?

Alfeo                             - Lo dici come se tu volessi rimproverare me, adesso...

Giuditta                        - Ma no. Dico che per molto tempo, ogni volta che uscivo, c'era sempre qualche ragazzo che passava in bicicletta, fischiettando quel motivo...

Alfeo                             - Si capisce, era in voga, poi passa di mo­da e...

Giuditta                        - L'ho udito anche stamattina.

Silenzio.

Giuditta                        - La sera prima noi due avevamo bistic­ciato. Io non volevo lasciarlo andare a quella gita, ma poi, con la storia di tenerti il broncio, di non rivol­gerti per prima la parola, non ti comunicai i miei dubbi. Se lo avessi fatto, forse anche tu...

Alfeo                             - Giuditta, tutto questo è assurdo.

Giuditta                        - Hai ragione, ma sono pensieri che mi vengono. Se non li dico a te, come faccio?

Alfeo                             - Devi impedire che ti vengano. Che vuoi, adesso? I figli, le persone care, restano vivi qui den­tro. Fuori di noi, intorno            - ci sono soltanto i rimorsi...

Suono di campanello. Giuditta va ad aprire la por­ta. Rientra.

Giuditta                        - Non c'era nessuno.

Silenzio. Teresa apre l'uscio della sua camera, af­facciandosi.

Teresa                            - Chi era?

Giuditta                        - Hai sentito suonare anche tu?

Teresa                            - Certo. Chi era?

Alfeo                             - Ragazzi che si divertono.

Teresa rientra in camera. Giuditta esce. Squillo di telefono.

Alfeo                             - (al telefono) Pronto? Sei tu? mammà? Sì, Teresa è rientrata. Sì, Che cosa abbiamo fatto? Niente, stiamo qui tra di noi.

FINE