La donna di maneggio

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Carlo Goldoni

La donna di maneggio


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La donna di maneggio

AUTORE: Goldoni, Carlo

TRADUTTORE:

CURATORE: Ortolani, Giuseppe

NOTE: Il testo è stato preparato in collaborazione con Giuseppe Bonghi, responsabile del sito "Biblioteca dei Classici Italiani" (http://www.classicitaliani.it/), e con Dario Zanotti, responsabile del sito "Libretti d'opera italiani" (http://www.librettidopera.it).

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO

DA: "Tutte le opere"

di Carlo Goldoni; a cura di Giuseppe Ortolani;

volume settimo, seconda edizione; collezione: I classici Mondadori;

A. Mondadori editore;

Milano, 1955

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 febbraio 2008

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Giuseppe Bonghi, bonghi18@classicitaliani.it Dario Zanotti, dzanotti@tiscali.it Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

REVISIONE:

Giuseppe Bonghi, bonghi18@classicitaliani.it

Dario Zanotti, dzanotti@tiscali.it

Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Carlo Goldoni

LA DONNA DI MANEGGIO

Commedia in tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia

nell'Autunno dell'Anno 1760.

ALLA CELEBRE E VIRTUOSA

LA SIGNORA DU BOCAGE

DELLE ACCADEMIE DI ROMA, DI BOLOGNA, DI PADOVA E DI LIONE ECC.

Sarei troppo mal conoscitore del merito, s'io non rendessi omaggio al vostro sapere e alla vostra virtù, e sarei troppo vile ed ingrato, s'io non vi dessi una pubblica testimonianza della mia divota riconoscenza.

Son guidato egualmente dall'amor proprio e dall'amor della verità, e l'una e l'altra di queste guide mi conducono a Voi direttamente, e mi assicurano di essere bene accolto. Come Donna di lettere, accetterete un'offerta, che male o bene si approssima a questa classe; e come particolarmente inclinata a favorirmi e ad onorarmi, non isdegnerete proteggere la Commedia, che ho l'onore di presentarvi. Questa mia lusinga è fondata sulle riprove della vostra bontà. Voi me ne avete dato le prime testimonianze in Venezia, allora quando ebbi l'onor di conoscervi in Casa di Sua Eccellenza il Signor Filippo Farsetti. Vi compiaceste poscia ricordarvi di me nelle vostre lettere, colle quali faceste la più giudiziosa descrizione de' vostri viaggi, e mi colmaste di gentilezze in Parigi, ammettendomi alla vostra amabile conversazione. Così avess'io potuto profittarne più spesso, ché certamente non potea derivarmene che un'abbondante messe di cognizioni e di erudizione, per la facile comunicativa del vostro genio e del vostro talento, e per la società numerosa de' Letterati che vi stimano, e che vi frequentano. La vastità di Parigi, le quotidiane mie occupazioni mi privano di questo bene, ma leggo le vostre opere, non solo per ammirarle, ma per istudiarvi sopra, ed apprendere. Non crediate ch'io voglia farvi la corte; parlo sinceramente con tutti, e Voi non siete fatta per soffrire le adulazioni. Trovo nelle vostre opere quelle verità e quella facilità che m'incanta, e che è la sola ch'io vorrei saper imitare.

La Commedia che io vi dedico, ha per titolo La Donna di maneggio. Voi intendete la nostra lingua perfettamente: sapete che Donna di maneggio vuol dire una Dama di autorità, che ha delle conoscenze e delle buone amicizie, fa valere il suo credito, per ottener delle grazie in favore delle persone ch'ella ama o protegge, ed è in caso di rendere il cambio a chi la stima e la favorisce. Non vorrei che, riconoscendo Voi stessa in questo ritratto, malgrado vostra modestia, v'immaginaste ch'io avessi avuto intenzione di lavorar la Commedia sopra di Voi. Quand'io l'ho data al Teatro, non avea l'onor di conoscervi che per fama, e se ora dovessi trattare un tale argomento, e avessi in animo di arricchirlo coll'immagine di un original come il vostro, o avrei disperato di potervi riuscire, o l'avrei con altri colori più vivi e più brillanti adornato. La mia Donna di maneggio è un quadro, e non è un ritratto. Trovo che Voi l'assomigliate nella grandezza dell'animo, nella bontà di cuore, nella nobiltà de' pensieri, e per questa parte la credo degna di essere da Voi protetta. Ve la offerisco dunque umilemente, e vi prego di accoglierla con quella umanissima cortesia, colla quale vi degnate di trattar l'Autore, che a Voi s'inchina, e si protesta pieno di ammirazione e rispetto, Madama,

Vostro Devotiss. Obbligatiss.

Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia ha molto serio, unito a molto ridicolo: due cose difficili ad unirsi insieme perfettamente. I due gran contrapposti di una Moglie saggia e di un Marito pazzo basterebbero per una Commedia giocosa, e non mancano originali. Tutti i Personaggi episodici contribuiscono ad arricchirla in ambidue i generi che la compongono, e gli accidenti la sostengono coll'interesse e la sospensione. Non manca ella di critica e d'instruzione. L'amore vi è trattato in più modi. La vanità è messa nella sua situazione più comica, e l'avarizia fa il chiaroscuro colla nobile liberalità. Il dialogo è proporzionato agli Attori. Vi è qualche squarcio di erudizione, vi è qualche formulario di lettere, vi è del politico e dell'economico; in somma... pare ne venga per conseguenza: questa è una Commedia perfetta. Ma (dirà alcuno) tu sei diventato pazzo. Tu fai il più grand'elogio di questa Commedia, cosa che non hai fatto di verun'altra. Sapete perché lo faccio? Perché la Commedia non ha incontrato; e se io non ne dico bene, nessuno forse ne vorrà dire. Leggetela, e dite in vostra coscienza tutto quel che vi pare.

PERSONAGGI

Don PROPERZIO.

Donna GIULIA sua consorte.

FABRIZIO segretario.

Donna ASPASIA

Donna AURELIA

Don ALESSANDRO

Don RIDOLFO poeta.

PASQUALE mastro di casa.

ORAZIO cameriere senza impiego.

LISETTA cameriera di donna Giulia.

SERVITORI.

Un NOTARO.

La Scena si rappresenta in Napoli.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di donna Giulia, con tavolino e sedie.

Donna Giulia e Fabrizio, ambi seduti al tavolino.

FABR. Questa è la lettera che va al marchese di Cappio.

GIU. Sentiamo. Illustrissimo Signore, Signor mio colendissimo. Perché non ci avete messo il Padrone?

FABR. Perdoni; mi pare che scrivendo una dama ad un cavaliere che non è più di lei, non le convenga usare questo titolo di umiliazione.

GIU. No, no, io penso diversamente. Se esaminiamo i titoli che si danno, e quelli che si usano nelle soscrizioni, sono per lo più eccedenti alla verità, e qualche volta contrari all'animo di chi scrive. Ma dall'uso ne è derivato l'abuso. Mio Signore e mio Padrone suonano l'istessa cosa, e siccome questo titolo duplicato a me niente costa, e niente reca di più a chi scrive, io soglio usarlo prodigalmente. Molto più volentieri abbondo in termini di rispetto e di umiliazione con quelle persone dalle quali desidero qualche cosa; e spesse volte un titolo rispettoso, un'espressione di stima, move l'animo di chi legge, e ricompensa l'onore col benefizio. Io son contenta finora del mio sistema. Non ho mai trovato che la cortesia mi pregiudichi. Ho riscosso dagli altri quella civiltà medesima che ho praticata. Ho mantenute non solo, ma aumentate di giorno in giorno le corrispondenze, e sono a portata di far piacere agli amici, di far del bene ai raccomandati, e di superare qualunque impegno.

FABR. Savissimo è il pensamento della padrona; ma mi permetta il dirle, che il signor don Properzio pensa molto diversamente.

GIU. Sì, mi è noto il costume di mio marito. Ei scrupoleggia sopra tutte le cose.

FABR. Io non mi pregio di essere un buon segretario; ma per il lungo uso di tal mestiere, mi lusingo di saper formare una lettera. Eppure qualunque volta ho avuta l'occasion di servirlo, mi è convenuto correggere, mutare, ricominciare da capo. Parlo con tutto il rispetto, egli è sofistico al maggior segno (o per meglio dire, è il maggior seccatore di questo mondo).

GIU. Sì, avete ragione. Ma lo soffro io; lo potete soffrire anche voi. Sentiamo che cosa avete scritto al Marchese. Sono sensibilissima alla cortese maniera ed alla singolare prontezza, con cui V. S. illustrissima si è compiaciuta di favorire il mio raccomandato. Egli riconosce dalla di lei protezione la carica di Auditore che ha conseguito, ed io le resto in debito per quella benignità con cui le è piaciuto d'accogliere e di secondare le mie premure. Si accerti che niente più desidero, oltre il fortunato incontro di corrispondere coll'esecuzione di qualche di lei comando, e di manifestarmi coll'opere, quale piena di stima e di rispetto ho l'onore di protestarmi. Va benissimo. (vuol sottoscrivere)

FABR. Perdoni. Non vuol ch'io rifaccia la lettera per la mancanza del titolo di Padrone?

GIU. No, no, la penna ed il temperino possono di quel secondo Signore formar Padrone. Parmi che la fatica v'incresca, e non vorrei che mi diceste sofistica, con quella facilità con cui l'avete detto al padrone. (sottoscrive)

FABR. (Ha saputo trovar il tempo per rimproverarmi. Donna Giulia è una dama di spirito. La servo assai volentieri; ma con suo marito non si può vivere).

GIU. Rispondete a quest'altra lettera. Il barone di Sciarnechoff mi scrive, come vedrete, che la Corte di Peterburgo ha bisogno di un poeta drammatico, e siccome l'ho io servito in altre occasioni di sua premura, mi fa la finezza in quest'incontro di riportarsi a me nella scelta. Scrivetegli ch'io lo ringrazio, che cercherò di servir la Corte e le di lui premure nel miglior modo, e che quanto prima ne avrà sicuro riscontro.

FABR. Perdoni. Crede ella che potessi io esser degno di tal impiego?

GIU. Io non ho mai saputo che voi siate poeta.

FABR. Ho qualche diletto per la poesia.

GIU. Drammi ne avete fatti?

FABR. Per dire il vero, non mi sono in ciò esercitato. Ma con un poco di lettura, ed un poco di studio, credo non sia difficile poter riuscire in un paese dove non vi può essere tutta la delicatezza italiana.

GIU. No, no; vi consiglio di abbandonare questo pensiero. Se avete piacere di essere impiegato ad una Corte, cercherò di procurarvi qualche occasione più adattata all'abilità vostra. La Corte di Moscovia è assai colta per distinguere i buoni ed i cattivi poeti, e noi dobbiamo cercare di mantenere presso degli esteri la riputazione del nostro paese, e non mandar persone che ci facciano scomparire.

FABR. Dice benissimo, signora. Confesso il mio torto, e mi raccomando alla di lei protezione.

GIU. Prima per altro che rispondiate a questa lettera, s'ha da rispondere ad un'altra, che mi mette in maggior pensiere.

FABR. Procurerò di farlo colla maggior attenzione.

GIU. Mi preme tanto l'affare di questa lettera, che ne voglio prima l'abbozzo, non solo per ridurla a quel punto che io desidero, ma per conservarne presso di me la memoria.

FABR. Ella sarà servita come comanda.

GIU. È necessario ch'io v'informi del fatto, perché possiate capire la mia intenzione. Voi conoscerete don Alessandro.

FABR. Sì, signora. Non è quegli che dee maritarsi con donna Aspasia?

GIU. Sì, è desso che mi vuol mettere nel maggior imbarazzo del mondo. Ho maneggiato io quest'affare, e dopo infinite difficoltà ho condotto a buon termine il maritaggio. Ora questo giovane cavaliere trova ogni dì de' pretesti nuovi per dilazionare i sponsali. Veggio in lui un raffreddamento sensibile, e non trovando nelle sue parole di che compromettermi con sicurezza, voglio scrivere a don Sigismondo suo padre, protestandogli che non soffrirò in verun modo veder esposta la dama e me medesima ad un insulto. Questo dev'essere il sentimento della lettera, e siccome in una materia sì delicata devonsi misurare i termini, per non eccedere e non mancare; così, com'io diceva, me ne farete la mala copia.

FABR. Sarà obbedita. (si pone a scrivere)

GIU. (Fabrizio ha del talento, è molto a proposito per gli affari miei, tuttavolta non lascierò di privarmene, se avrò l'incontro di poter fare la sua fortuna). (da sé)

SCENA SECONDA

Lisetta e detti

LIS. Signora, un giovane forestiere ha una lettera da presentarle.

GIU. Che persona è?

LIS. Non mi pare di condizione.

GIU. Fatti consegnare la lettera, e digli che si trattenga.

LIS. Sarà servita. (in atto di partire)

GIU. Don Properzio è in casa? (a Lisetta)

LIS. Sì, signora. Strilla al solito col mastro di casa.

GIU. Se strilla, avrà ragione di strillare. Che c'entri tu a sindicare?

LIS. Perdoni. (Conosce meglio di me le di lui stravaganze, ma lo vuol difendere per riputazione). (parte, e poi ritorna)

GIU. (Duro fatica a tenere in freno la servitù. Mio marito fa di tutto per farsi odiare).

LIS. Ecco la lettera. (dà la lettera a donna Giulia)

GIU. Segretario, sospendete di scrivere, e sentiamo se questa lettera esige pronta risposta. (apre la lettera) Il Conte de' Trappani. (osservando la soscrizione) Madama siccome non vi è niente nel mondo, che sia più amabile della vostra persona, reputo per me felice qualunque istante che seco voi mi trattenga. Non cesserò mai di dar lode a chi ha suggerito alla società il commercio di lettere traendo io da un tale provvedimento il bene di presentarvi la mia osservanza, a dispetto di cento e cinquanta miglia che ci dividono. Il comparire dinanzi a voi senza chiedervi grazie, sarebbe un torto alla vostra singolare bontà. (leggendo fa rimarcare la sua maraviglia per lo stile caricato) Quindi è, che nell'atto di rinnovarvi l'ossequiosa mia servitù, vi presento nell'onorato latore di questo foglio un novello risalto alla vostra autorevole protezione. Orazio Zappafiori inclina all'onore di esercitare la sua attività nel servire in codesta Metropoli, ed è sicuro di una invidiabil fortuna, se lo producono i vostri rispettabili, generosi auspici. Degnatevi di risguardare in lui il mio qualunque siasi riverentissimo uffizio, e concedetemi ch'io vaglia ad accumulare fra le innumerabili grazie vostre quella che or vi domando, e pieno di vero ossequio mi arrogo la inestimabile felicità di umilmente soscrivermi, quale mi pregio riverentissimamente di essere e di protestarmi. Che cosa dite di questa lettera? (a Fabrizio)

FABR. Io dico, signora mia, che alcuni si affaticano estremamente scrivendo, niente per altro che per esser derisi. Se quei che scrivono si figurassero di parlare colla persona a cui scrivono, e usassero le parole e le frasi che userebbono in ragionando, farebbono essi minor fatica, e sarebbero meglio intesi.

GIU. Così è; verità e chiarezza bastano a formare una buona lettera e chi non ha l'abilità di piacere, non si affatichi per disgustare. Continuate la lettera che vi ho ordinato. E tu di' a quel giovane che venga innanzi. (a Lisetta)

LIS. Sì, signora. (Almeno la mia padrona è sempre occupata. Poco tempo le resta per divertirsi. È vero che spende molto in lettere, ma s'ella, in vece di scriver tanto, si occupasse a giuocare un'ora di giuoco, le potrebbe costar più di un anno di posta). (parte)

SCENA TERZA

Donna Giulia, Fabrizio, poi Orazio

GIU. Converrà che mi adoperi con premura per impiegar quest'uomo. Il Conte mi ha fatto de' piaceri consimili più d'una volta.

ORAZ. Umilissimo servidore di Vostra Signoria illustrissima.

GIU. Siete voi che mi ha recato la lettera del conte de' Trappani?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. Orazio, non è egli vero?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. Di che paese siete?

ORAZ. Romano, per obbedirla.

GIU. Che fa il conte de' Trappani?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. Non sapete dir altro, che per obbedirla?

ORAZ. Perdoni.

GIU. In che cosa vorreste voi impiegarvi?

ORAZ. Per cameriere.

GIU. Avete più servito?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. Che cosa sapete fare?

ORAZ. Un poco di tutto, per obbedirla.

GIU. Per far piacere al Conte, io cercherò d'impiegarvi; è necessario però ch'io sappia fin dove si estende la vostra abilità; ma se ho da farvi dell'altre interrogazioni, io non posso soffrire la seccatura dell'obbedirla.

ORAZ. Perdoni.

GIU. Sì, perdoni. Per quel ch'io sento, il vostro vocabolario è molto ristretto. Sapete voi assettare il capo?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. Sapete preparare una tavola?

ORAZ. Servirla.

GIU. Spendere?

ORAZ. Per obbedirla.

GIU. (Costui è una caricatura). E dove avete servito?

ORAZ. Ho servito a Roma, ed ho servito a Bologna, ed ho servito in Ancona, e in altri luoghi ho servito, per obbedirla.

GIU. Amico, mi dispiace dovervi dire, che io non sono in grado di offerire a nessuno una simile caricatura.

ORAZ. Perdoni.

GIU. Come siete venuto?

ORAZ. A piedi, per obbedirla.

GIU. Sarete stanco.

ORAZ. Servirla.

GIU. Trattenetevi qui per oggi.

ORAZ. Per obbedirla. (si ritira un poco)

GIU. (Mi maraviglio del Conte, che mi abbia mandato uno stolido di questa sorte). Avete ancor terminato? (a Fabrizio)

FABR. Com'era mai possibile, signora mia, ch'io scrivessi, con questo pappagallo che m'intronava le orecchie?

GIU. Vi compatisco; sollecitatevi. (a Fabrizio che si pone a scrivere) E voi, riposatevi; e poi, se non troverete qui da servire... (ad Orazio)

FABR. Ecco il padrone, signora. (a donna Giulia)

SCENA QUARTA

Don Properzio e detti

PROP. Servidore umilissimo, signora donna Giulia.

GIU. Serva, signor consorte.

PROP. Impedisco?

GIU. Oh niente.

PROP. Si può venire?

GIU. Padrone.

PROP. Scrive troppo, signora.

GIU. Non crederei che il mio scrivere le dovesse dar dispiacere.

PROP. La troppa applicazione può pregiudicar la salute.

GIU. Io sto benissimo, grazie al cielo.

PROP. E poi troppo tempo consuma nella segretarìa.

GIU. Non sarebbe peggio impiegato il tempo alla tavoletta, al giuoco, al passeggio?

PROP. Ho pagato ora la lista delle lettere del mese scorso.

GIU. Benissimo.

PROP. Sei scudi, quattro paoli e sette baiocchi.

GIU. Non mi pare sia tale spesa da rovinar la famiglia.

PROP. Io non dico che la spesa sia molto grande. Ma per non imbrogliar i miei conti, potrebbe ella, signora donna Giulia, aver la bontà di pagar le lettere colla sua mesata.

GIU. Ben volentieri: quando a lei sia d'incomodo, supplirò del mio senza alcuna difficoltà.

PROP. Questi sei scudi, quattro paoli e sette baiocchi vuol ella pagarli, o vuole che li paghi io?

GIU. Faccia come le piace.

PROP. Senza che s'incomodi, li posso mettere alla di lei partita.

FABR. (Che sordidezza!)

GIU. Tiene scrittura doppia per la mia mesata?

PROP. Eh! un picciolo conterello.

GIU. Faccia pur come vuole. Basta che nelle mie camere si compiaccia di lasciarmi la mia libertà.

PROP. È troppo giusto; non ho niente che dire.

GIU. Perdoni. Ho qualche lettera di premura.

PROP. Ma vossignoria mi tiene tutto il giorno il segretario occupato.

GIU. Vuol ella ch'io supplisca al di lui salario colla mia mesata?

PROP. Non dico questo. Ma vorrei servirmene ancora io.

GIU. Basta ch'ella lo dica, sarà a servirla.

PROP. A proposito. Vossignoria che ha tante corrispondenze, le darebbe l'animo di scrivere a Roma a qualcheduno, che mi provvedesse di un buon cameriere?

GIU. Per lei?

PROP. Per me.

GIU. Non ha il suo?

PROP. Ho stabilito di licenziarlo.

GIU. Perché?

PROP. Perché è un ladro.

GIU. Le ha rubato qualche cosa?

PROP. Non mi ha rubato, ma aveva intenzion di rubarmi.

GIU. E come ha potuto raccogliere questa sua intenzione?

PROP. Questa mattina sono uscito di casa, e mi sono scordate le chiavi sul mio tavolino. Egli mi ha lasciato partire senza avvisarmi, e senz'altro ha avuto in animo di rubarmi.

GIU. Perdoni; può essere ch'egli neppure se ne sia avveduto.

PROP. Eh! se n'è avveduto benissimo, e tanto se n'è avveduto che, tornato in casa, aveva egli lechiavi in tasca.

GIU. Le avrà levate dal tavolino per maggior cautela.

PROP. Signora no, le levò per rubare.

GIU. Le manca niente?

PROP. Niente.

GIU. Dunque non ha voluto rubare.

PROP. Dunque, dunque; ella ha sempre i suoi dunque, e vuol ritorcere ogni mio argomento col dunque, e mi vuol dare del babbuino col dunque. Dunque, dunque; mi voleva rubare dunque, e se io lo dico, è così dunque; con permissione del dunque, e con rispetto del dunque. (alterato)

GIU. (Ci vuole una gran sofferenza).

FABR. (Io gli darei un dunque nel grugno).

PROP. Compatisca, signora donna Giulia, compatisca ve'. Non pensi che io le voglia perdere il rispetto. Conosce il mio temperamento. Ho tutta la stima. Ho tutta la venerazione per lei.

GIU. Sì, signore, sono molto ben persuasa delle di lei finezze.

PROP. A chi possiamo noi scrivere per ritrovar questo cameriere?

GIU. Eccolo. Se ne vuole uno, è qui pronto. (accenna Orazio)

ORAZ. (Fa una profonda riverenza)

PROP. E chi è costui? (a donna Giulia)

GIU. È uno che mi viene raccomandato dal conte de' Trappani.

PROP. A qual fine le viene raccomandato?

GIU. Acciò gli trovi impiego per cameriere.

PROP. Per cameriere? Sente ch'io ho di bisogno di cameriere, e mi lascia dire, e non si cura di presentarmelo, e in luogo di preferir me ad ogni altro, fa la protettrice del ladro, e mi favorisce col dunque? (alterato)

GIU. Signor don Properzio, si ricordi che ho l'onore di essere sua consorte; ma che sono anch'io nata dama, e che ho il mio caldo al pari di lei, e che non m'impegno di soffrir sempre il di lei difficile temperamento. (con caldo)

PROP. Sentiamo, se si contenta, le abilità di questo suo raccomandato.

GIU. Si serva pure. Lo conduca seco e lo interroghi.

PROP. Vuol ch'io stia in sala?

GIU. Non può andare nelle sue camere?

PROP. Non conduco nelle mie camere chi non conosco.

GIU. Ma io ho da terminar una lettera che mi preme.

PROP. Faccia pure. Venite qui, galantuomo. (ad Orazio)

GIU. Vuol restar qui?

PROP. Se si contenta.

GIU. E se non ne fossi contenta?

PROP. Ci starei tant'e tanto, per insegnarle che il marito è padron di star dove vuole; e la signora, sia detto con ogni buona riserva, non ha da dire ch'io me ne vada.

FABR. (Ma che maniera obbligante!)

GIU. (Sento che la testa mi si riscalda). Io dunque posso andarmene quando voglio.

PROP. Maraviglio dunque: è padrona.

GIU. Fabrizio, andiamo. (si alza sdegnosa)

PROP. Mi lasci qui il segretario.

GIU. Lo vuol per lei?

PROP. Se me lo permette! (con riverenza)

GIU. Anzi; si serva pure. Ella è il padrone; io in casa non conto nulla. Non posso compromettermi d'altro da lei, che di riverenze sguaiate e di complimenti stucchevoli. Tiriamo innanzi, fin che si può. Ma pensi bene, signore, che se un giorno arriverò a dire risolutamente un dunque, sarà un dunque che le porrà la testa a partito. (parte)

SCENA QUINTA

Don Properzio, Fabrizio ed Orazio

PROP. Pah! Teh! Ih! Uh! Ha creduto di spaventarmi. Segretario, scrivete. (siede)

FABR. (A buon vederci a mezzogiorno sonato).

PROP. Molto illustre e colendissimo Signore, e Signore e Padrone venerandissimo. (detta adagio e pensando)

FABR. (Un formulario alla moda). (con ironia)

PROP. Ehi! che nome avete? (ad Orazio)

ORAZ. Orazio, per obbedirla.

PROP. La patria?

ORAZ. Romano, per obbedirla.

PROP. Volete impiegarvi?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. Avete fatto? (a Fabrizio)

FABR. Per obbedirla. (imitando Orazio)

PROP. Scrivete. Napoli, li 24 Decembre 1760.

FABR. Ho fatto.

PROP. Mi do l'onor di rispondere al di lei veneratissimo foglio.

FABR. (Scrive)

PROP. Al di lei veneratissimo foglio dei due di Agosto prossimo passato.

FABR. Perdoni. Questa lettera va in Persia o alla China?

PROP. Va a Roma, a Roma. Va a Roma, e non in Persia o alla China; va a Roma. Perché mi domandate se va in Persia o alla China?

FABR. Perché dall'agosto al decembre sono passati cinque mesi.

PROP. Seccatore! I pari miei rispondono quando possono, quando vogliono, e quando se ne ricordano.

FABR. Verissimo. Non ci aveva pensato.

PROP. Scrivete. (pensa)

FABR. Scrivo. (aspetta, poi dice) Vuole che scriva?

PROP. Siete lesto?

FABR. Son qui, detti pure.

PROP. Come dice il principio della lettera?

FABR. Mi do l'onor di rispondere al di lei veneratissimo foglio dei due di Agosto prossimo passato.

PROP. Prossimo passato. Tanto più, che mostrando ella una premura estrema...

FABR. (Se aveva premura, è stato servito bene). (scrive)

PROP. Avete più servito? (ad Orazio)

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. E chi avete servito?

ORAZ. Ho servito il conte degli Utili, il conte Spergoli, il marchese Docili, per obbedirla.

PROP. Cosa abbiamo scritto? (a Fabrizio)

FABR. Tanto più, che mostrando ella un'estrema premura...

PROP. Un'estrema premura... (pensa)

ORAZ. Ho servito...

PROP. Tacete. (ad Orazio)... di conseguire la carica di Cassiere delle finanze. (dettando)

FABR. Delle finanze.

PROP. Dove avete servito? (ad Orazio)

ORAZ. A Roma, per obbedirla.

PROP. E chi avete servito? (ad Orazio)

ORAZ. Ho servito...

PROP. Avete fatto? (a Fabrizio)

FABR. Ho fatto.

PROP. Non mancherò di procurarle questo onorevole impiego. (dettando)

FABR. Signore, quest'impiego è stato dato che saranno tre mesi.

PROP. Seccatore! che importa a voi? Non posso procurarlo per dopo la morte di quello che è stato fatto?

FABR. Verissimo. (scrive)

PROP. Che cosa sapete fare? (ad Orazio)

ORAZ. Un poco di tutto, per obbedirla. PROP. Ehi! (chiama alla scena)

SERV. Comandi.

PROP. Il mastro di casa. (al Servitore)

SERV. Sarà servita. (parte)

PROP. Avete fatto? (a Fabrizio)

FABR. Ho fatto.

PROP. Che cosa abbiamo detto? (a Fabrizio)

FABR. (Gran pazienza ci vuole!) Non mancherò di procurarle...

SCENA SESTA

Pasquale e detti

PASQ. Sono qui a' suoi comandi.

PROP. Avete fatta la spesa che vi ho ordinato?

PASQ. Perdoni, quale spesa intende di dire?

PROP. Sciocco! stolido! smemorato! non v'ho io commesso di comperare della cioccolata?

PASQ. Signor, mezza libbra.

PROP. E non l'avete presa?

PASQ. L'ho presa.

PROP. E quanto l'avete pagata?

PASQ. A ragione di quattro paoli la libbra.

PROP. Quattro paoli la libbra? Siete pazzo? Siete ubriaco? Quattro paoli la libbra la cioccolata? Voi non tendete che a rovinarmi. Non sapete spendere. Vi caccerò via.

PASQ. Non si scaldi, che ci vado subito.

PROP. Dove?

PASQ. A liberarla dal mio cattivo servizio.

PROP. Avete da aspettare il mio comodo, e non il vostro. Vi licenzierò quando vorrò io. Avete da servirmi fin che mi pare, e i miei danari imparate a spenderli meglio.

PASQ. Ma in questa maniera, signore...

PROP. È buona la cioccolata che avete preso?

PASQ. È perfettissina. Ne ho comprato varie libbre per la signora ed è rimasta contenta.

PROP. La mia tenetela separata. La signora donna Giulia dà la cioccolata a tutti quelli che vengono, e se manca la sua, non voglio che s'abbia a prevaler della mia.

PASQ. Non dubiti; non c'è questo pericolo.

PROP. È buona questa cioccolata?

PASQ. Vuol provarla?

PROP. Sì, sbattetene una mezz'oncia. La beveremo insieme col segretario.

FABR. Obbligatissimo alle di lei grazie. Non bevo mai cioccolata.

PROP. Fate bene. La cioccolata riscalda.

PASQ. Ma se la facciamo sì lunga, non potrà sentire il sapore.

PROP. Fatela ristretta. Io la bevo in una chicchera da caffè. Sono dell'opinione del segretario; non

voglio che mi riscaldi.

PASQ. Sarà servita.

PROP. Andate.

PASQ. Se mi permette, avrei da dirle una cosa.

PROP. Andate via, vi dico. Ho da scrivere una lettera di premura.

PASQ. Come comanda. (va per partire)

PROP. Che cosa abbiamo scritto? (a Fabrizio)

FABR. Non mancherò di procurarle...

PROP. Ehi. (a Pasquale)

PASQ. Signore.

PROP. Che cosa volevate dirmi?

PASQ. Il sarto ha portato una polizza.

PROP. Una polizza? Per me una polizza? Il sarto ha portato per me una polizza? Sono cinqu'anni che non ispendo un baiocco in vestiti, e il sarto mi porta una polizza? (alterato, e si alza)

PASQ. Perdoni. È il sarto da donna, per fatture per la signora.

PROP. Che c'entro io colla signora? Chi ha ordinato, paghi; chi ha comandato, soddisfi; chi è bestia, suo danno. Io le do dieci scudi il mese. Altri cinque ne ha per un legato del padre. Ha più di me, sta meglio di me, e vorrebbe che io supplissi ai di lei capricci, alle di lei vanità? Date qui quella polizza. Sette scudi? Sette scudi in fattura? Io con sette scudi mi faccio un abito, e pretenderebbe che io li pagassi? Dov'è la signora? Donna Giulia dov'è? Vo' che mi senta; vo' che m'intenda; vo' che le passi la voglia di mandare i sarti da me. (in atto di partire)

FABR. La lettera...

PROP. Aspettatemi. (a Fabrizio)

ORAZ. Signore... (a don Properzio)

PROP. Non mi seccate. (ad Orazio)

PASQ. La cioccolata... (a don Properzio)

PROP. Il diavolo che vi porti. (parte)

PASQ. (Non ci starei, se mi pagasse il doppio). (parte)

FABR. (Sarei ben stolido, se l'aspettassi). (partendo)

ORAZ. Signore... (a Fabrizio)

FABR. Che cosa volete?

ORAZ. Mi raccomando a lei.

FABR. Non so che farle; per obbedirla. (parte)

ORAZ. Maledettissimo, per estirparla. (parte)

SCENA SETTIMA

Altra camera.

Donna GIULIA e LISETTA

GIU. Sì, per oggi vo' trattenermi in quest'appartamento terreno.

LIS. Fa benissimo. Così sarà più lontana dalle seccature.

GIU. Da quai seccature?

LIS. Mi può intendere senza ch'io parli.

GIU. Non vuoi desistere?

LIS. Io non nomino alcuno.

GIU. Ma ti capisco.

LIS. È segno dunque ch'io do nel vero.

GIU. Ma il vero sempre non si ha da dire.

LIS. Io non lo dico.

GIU. Ma lo pensi.

LIS. Il pensiere non si può impedire.

GIU. Orsù, acchetati, e va a vedere se il signor don Properzio si è servito del segretario, e se può venire da me.

LIS. Chi?

GIU. Il segretario.

LIS. Voleva dire io, che avesse volontà di una seccatura.

GIU. Lisetta, meno lingua, e più giudizio.

LIS. (Di lingua so che sto bene, di giudizio poi così e così). (parte)

SCENA OTTAVA

Donna Giulia poi Lisetta

GIU. Posso far quant'io voglio per coprire i difetti di don Properzio, sono troppo visibili a tutto il mondo e quantunque usi per me medesima ogni cautela per tollerarli, qualche volta scappami la pazienza, e non ho valore per superarmi.

LIS. La signora donna Aspasia manda l'imbasciata per esser qui a riverirla. Ci vuol essere, o non ci vuol essere?

GIU. Fatele dir che è padrona.

LIS. Vuol riceverla qui?

GIU. Sì la riceverò qui. Ella vien per affari, e non mi vo' prendere soggezione.

LIS. Anche questa signora ha un bel carattere stravagante.

GIU. Sì, non dici male.

LIS. E il signor don Alessandro non burla. Se si sposano insieme, formeranno una bella coppia. (parte)

SCENA NONA

Donna Giulia, poi donna Aspasia

GIU. Spiacemi ora l'impegno in cui mi ha posto don Alessandro, e non vorrei che donna Aspasia penetrasse il di lui cambiamento.

ASP. Serva, donna Giulia.

GIU. Serva umilissima, donna Aspasia. Accomodatevi.

ASP. Quant'è che non avete veduto don Alessandro?

GIU. È stato da me ieri sera.

ASP. Me ne rallegro infinitamente.

GIU. (Dubito che qualche cosa ella sappia). Ieri c'è stato da voi?

ASP. Ieri no.

GIU. E l'altr'ieri?

ASP. Mi pare di no.

GIU. Quant'è che non viene da voi?

ASP. Non me ne ricordo.

GIU. Non ve ne ricordate? Dev'esser molto dunque.

ASP. No, non è molto.

GIU. Spiacemi ch'egli vi scarseggi le visite.

ASP. Oh! a me non dispiace niente.

GIU. Non vi preme di veder sovente lo sposo?

ASP. Considero che l'avrò da vedere anche troppo.

GIU. (Se non si curasse di lui, sarebbe facile lo scioglimento). In fatti la libertà è la migliore cosa del mondo.

ASP. È vero.

GIU. Qualche soggezione l'abbiamo sempre d'avere; ma la peggio di tutte è quella del matrimonio.

ASP. Non so davvero. Ne soffro tanta in casa degli zii dove sono che più non ne potrei avere.

GIU. Desiderate dunque di essere maritata?

ASP. Che interrogazione ridicola! Non ho io forse da maritarmi? Non deve essere don Alessandro il mio sposo? Non è qui venuto per questo?

GIU. È tutto vero, ma se ora pensaste diversamente...

ASP. Bella davvero! Mi maraviglio di voi, che mi parliate in tal modo. Se non aveste maneggiato voi quest'affare, vi compatirei. Sapete in qual impegno io sono, anzi in quale impegno siete voi medesima, e avreste cuore di mettere le mie nozze in dubbio?

GIU. Mi spiacerebbe che lo faceste per impegno, e che annoiata dalle di lui affettate caricature, non vi sentiste portata ad amare don Alessandro.

ASP. Chi vi ha detto, che io non l'ami? Chi vi ha detto, che mi dispiaccia?

GIU. Giudicava ciò...

ASP. Oh! giudicate assai male. Siete una donna di spirito; ma non credo che abbiate l'abilità di penetrar nel cuore delle persone.

GIU. Ma dalle vostre parole medesime...

ASP. Le parole sono parole, e i fatti sono fatti.

GIU. (Ancora non arrivo bene a capirla).

ASP. Quando pensate voi che si abbiano a concludere queste nozze?

GIU. Per quello che mi disse l'altr'ieri vostro zio Eugenio, egli vorrebbe procrastinare.

ASP. Per qual motivo?

GIU. Io credo che non sia in ordine per la dote.

ASP. Come! vi hanno da essere difficoltà per la dote? La mia dote mi fu assegnata dal mio genitore. Ed è in effetti costituita, e non si ha da ritardare un momento per questo capo.

GIU. Per dir la verità, donna Aspasia, io non vi credeva innamorata a tal segno.

ASP. Né io vi ho detto quanto sia innamorata, né voi dovete far l'indovina.

GIU. Il vostro ragionamento, la vostra ansietà, la vostra sollecitudine sono manifesti segni d'amore.

ASP. Non vi parrebbe cosa giusta ed onesta, ch'io amassi don Alessandro?

GIU. Anzi giustissima, s'egli ha da essere il vostro sposo.

ASP. E che cosa direste, s'io non l'amassi?

GIU. Che fareste male.

ASP. E se non potessi amarlo?

GIU. Vi compatirei.

ASP. E se non lo volessi amare?

GIU. Ma, cara donna Aspasia, l'amate o non l'amate?

ASP. Voi mi fate ridere. Che interrogazione curiosa!

GIU. Io non vi capisco.

ASP. Non so che farvi.

GIU. Bramate ch'io solleciti queste nozze?

ASP. Io vi lascio in pienissima libertà.

GIU. In libertà di scioglierle, se occorresse?

ASP. Voi dite cose questa mattina, che mi fanno maravigliare. (si alza)

GIU. E voi rispondete in un modo, che non si può capire. (si alza)

ASP. Parlo pure italiano.

GIU. Il vostro italiano è più oscuro dell'arabo.

ASP. Eh! via, donna Giulia, non mi fate arrabbiare per carità.

GIU. Pagherei moltissimo a non essermi impicciata in un tal affare.

ASP. Mi dispiace del vostro incomodo; ma ci siete, e per punto d'onore dovete starvi.

GIU. Concludiamo dunque.

ASP. Concludiamo.

GIU. Volete ch'io mandi a chiamare don Alessandro?

ASP. Mandate pure.

GIU. Sentiremo in che disposizione si trova.

ASP. Sì, sentiremo.

GIU. (Voglio uscirne. O che si sciolgano, o che si concluda). Chi è di là?

SERV. Comandi.

GIU. Va a ricercare don Alessandro, e digli...

SERV. Perdoni. Ho veduto ora dalla finestra ch'ei viene qui.

GIU. Benissimo, subito ch'egli arriva, fa che passi senz'altra imbasciata.

SERV. Sarà servita. (parte)

ASP. Donna Giulia, a buon rivederci.

GIU. Andate via?

ASP. Sì, è tardi, e sono aspettata.

GIU. Non volete sentire don Alessandro?

ASP. Sentitelo voi.

GIU. Non volete esser presente?

ASP. Io non ho quella gran curiosità.

GIU. E se si deve concludere?

ASP. Concludete.

GIU. E se don Alessandro inclinasse allo scioglimento?

ASP. Non lo crederei così ardito.

GIU. E se si stabilissero le nozze, ora, subito, questa sera, domani?

ASP. Ehi! mi credete cotanto ansiosa di maritarmi?

GIU. Donna Aspasia, non vi capisco.

ASP. Eccolo. Permettetemi ch'io vada da quest'altra parte. (incamminandosi)

GIU. Perché non vi volete incontrare...

ASP. Serva; ci rivedremo. (parte)

SCENA DECIMA

Donna Giulia, poi don Alessandro

GIU. Io credo essere la calamita dei pazzi. In casa mia non ci piovono, ci tempestano. Che capo particolare ha costei? Non mi pare di essere tanto sciocca; eppure non arrivo a capirla. In sostanza questo matrimonio deve seguire, e don Alessandro, o per amore, o per forza, mi dee mantener la parola. So che il trattare con lui è una cosa incomoda, per le sue infinite caricature; ma soffrirò tutto per non rimanere pregiudicata.

ALESS. Servidore umilissimo della mia riverita padrona.

GIU. Serva, don Alessandro.

ALESS. Come avete voi riposato la scorsa notte?

GIU. Non molto bene. Ho avuto delle inquietudini.

ALESS. Oimè! voi mi avete mortalmente ferito. Le vostre inquietudini mi piombano sul cuore.

GIU. In fatti, se fossero le vostre espressioni sincere, sarebbe giusto il vostro rammarico, sapendo esser voi stesso la cagion che m'inquieta.

ALESS. Oh cieli! Sarà egli possibile, che le avverse stelle mi rendano sì sfortunato, ch'io giunga a turbar la pace di quell'anima peregrina, ch'io venero, e stimo, ed onoro?

GIU. Signore, io vorrei meno venerazione; ma un poco più di zelo per il mio carattere e per il vostro onore.

ALESS. Spargerei il mio sangue per la delicatezza dell'onor vostro e dell'onor mio.

GIU. Siete voi disposto a rendermi quella giustizia che vi domando?

ALESS. Il dubitarne è un insulto; il temerne è un oltraggio.

GIU. Preparatevi dunque alle nozze di donna Aspasia.

ALESS. Questo è un fulmine che mi atterrisce.

GIU. Un cavalier d'onore non dee mancare alla sua parola.

ALESS. Le regole della cavalleria mi son note; ma note mi sono ancor le appendici.

GIU. Tutte le appendici in materia d'onore non fanno che accrescere i doveri del cavaliere.

ALESS. Dirò meglio. So le regole e le eccettuazioni.

GIU. Non si dà eccettuazione in una materia sì delicata.

ALESS. Ah! madama, nel caso mio la ritrovo.

GIU. Come potete voi distruggere la massima generale di dover mantener la parola?

ALESS. Con un'altra massima generale, che la combatte e la annichila.

GIU. E qual è questa massima?

ALESS. Che in materia d'amore non siamo padroni di noi medesimi. Che il cuore è libero nell'amare. Che il vincolo degli sponsali non può distruggere l'antipatia dell'oggetto. Che non è azione onorata il sagrificare una sfortunata fanciulla; e che mi credo in debito di manifestare la mia avversione, anziché armar di lusinghe la verità e preparare il martirio a due vittime sagrificate all'idolo dell'interesse o dell'ambizione.

GIU. Tutti questi saggi riflessi sarebbono stati opportuni prima di promettere.

ALESS. Perdonatemi, vi chiedo scusa. Ditemi per grazia, per gentilezza, chi parlò, chi stabilì, chi ha promesso?

GIU. Per voi lo fece chi per voi potea farlo. La parola è di vostro padre.

ALESS. Ah viva il cielo! Chi ha parlato, risponda; e chi ha promesso, mantenga.

GIU. Sì, manterrà vostro padre quel che ha promesso, e voi sarete sposo di donna Aspasia.

ALESS. Venero i sensi vostri qualunque sieno. Profondamente all'autorità vostra m'inchino: una sola cosa vi dico, se mi concedete di dirla.

GIU. Parlate pure.

ALESS. Non isposerò donna Aspasia.

GIU. No?

ALESS. Con tutto l'ossequio, vi replico umilissimamente di no.

GIU. Ed io vi dico ossequiosamente di sì.

ALESS. Deh, per tutti i numi del cielo...

GIU. Qual motivo potreste addurre, per esimervi con decoro da un tale impegno?

ALESS. Molti potrei annoverarne. Ve ne dirò uno solo.

GIU. Ditelo, e se sarà ragionevole...

ALESS. Sentite, se la ragione è fortissima.

GIU. E qual è?

ALESS. L'antipatia del mio cuore col cuore di donna Aspasia.

GIU. Eppure, quando giungeste in Napoli, diceste che vi piaceva, e ne parlaste con dell'amore.

ALESS. Madama, Sapientis est mutare consilium.

GIU. Di grazia, signor sapiente, sarebbe mai derivata la mutazione del vostro consiglio dalle lusinghe di qualche amante novella?

ALESS. Oh chiaro intelletto! oh perspicacissima mente! Giunse la vostra penetrazione là dove la verecondia custodiva l'arcano.

GIU. E chi è quest'idolo che v'innamora?

ALESS. Ahimè, dirlo non posso senza intenerirmi; ma la speranza mi anima, ed il dover mi costringe. L'idolo de' miei pensieri, la fiamma di questo seno, è collocata nei bellissimi occhi di donna Aurelia.

GIU. (Mi farebbe ridere a mio dispetto). Ed ella vi corrisponde?

ALESS. Oh dolcissimo mio tesoro! langue, muore, si dilegua per amor mio.

GIU. E che pensate di fare?

ALESS. O morte, o nozze. O Aurelia, o morire.

GIU. Ed io vi dico: O morte, o Aspasia; o Aspasia, o crepare.

18


ALESS. No, madama. (con tenerezza)

GIU. Sì, monsieur. (caricandolo)

ALESS. Per carità. (come sopra)

GIU. Per giustizia. (come sopra)

ALESS. Compatitemi.

GIU. Non vi è rimedio.

ALESS. Eccomi a' vostri piedi. (s'inginocchia)

GIU. Eh! Alzatevi. (risoluta)

SCENA UNDICESIMA

Don Properzio in disparte, e detti

PROP. (Che cos'è quest'imbroglio?) (vedendo don Alessandro in ginocchio)

GIU. Alzatevi, dico.

ALESS. Movetevi a pietà di un amante. (alzandosi)

PROP. (Amante?)

GIU. Mi trovereste fors'anche disposta a compiacervi, se non vi andasse dell'onor mio.

PROP. (L'onor suo? E il mio non lo conta per niente?)

ALESS. Ah! sì, trovate voi il modo di consolar le mie fiamme, e di porre in salvo il decoro.

PROP. (Sì, è una signora di spirito. Lo troverà ella il modo. Non vorrei far nascere un precipizio).

GIU. Non si accheterà donna Aspasia.

ALESS. Perdonerà, se una maggior bellezza mi accende.

PROP. (Donna Giulia le par più bella di donna Aspasia?)

GIU. (Mio marito?) Signore, perché non venite innanzi?

PROP. Non vorrei disturbare gli affari suoi.

ALESS. (Va facendo delle riverenze a don Properzio, il quale grossamente gli corrisponde)

GIU. Gli affari miei e gli affari vostri non devono essere fra noi comuni?

PROP. Non signora; non vorrei che fossero le cose nostre tanto comuni.

GIU. E bene, dunque. Se i miei impegni v'infastidiscono, non venite dappertutto a perseguitarmi.

PROP. Se vengo, vengo perché mi ci fa venire l'onore.

GIU. Che onore? Che dite voi dell'onore? In che cosa v'interessa l'onore? Ardireste voi di pensare villanamente? Una dama della mia qualità non ha bisogno di custodi dell'onor suo. Posso tollerare tutte le inquietudini che mi arrecate, ma quest'insulto mi eccita a dichiararvi... (con sdegno)

PROP. E perché Vostra Signoria si riscalda? (con sdegno)

GIU. E voi, che cosa intendete di dire? (come sopra)

PROP. Dico di questa polizza del sartore, che vuol esser pagato, che l'onore vuol che si paghi, e che io non intendo di pagar per lei.

GIU. Date qui, signore. (gli strappa il conto di mano) Mi maraviglio di voi, e delle vostre insoffribili stravaganze (parte)

SCENA DODICESIMA

Don Alessandro e don Properzio

ALESS. Ossequiosissimo servidore. (a don Properzio)

PROP. La riverisco divotamente.

ALESS. Con permissione. (incamminandosi)

PROP. Dove va, padron mio? (arrestandolo)

ALESS. A congedarmi dalla signora.

PROP. Non s'incomodi.

ALESS. So il mio dovere.

PROP. Non occorre.

ALESS. È indispensabile.

PROP. L'assolvo io.

ALESS. Non tocca a lei.

PROP. Chi è il padrone di questa casa? (riscaldato)

ALESS. Servidor suo ossequiosissimo. (incamminandosi per uscir di casa)

PROP. Padrone mio riveritissimo.

ALESS. A' suoi comandi.

PROP. Alla sua obbedienza.

ALESS. Mi raccomandi alla di lei veneratissima sposa.

PROP. Io?

ALESS. Ah! sì, da essa dipende o l'apice delle mie contentezze, o l'abisso delle mie sventure. Vi supplico della vostra umanissima protezione, e vi bacio le mani e vi faccio umilissima riverenza. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Don Properzio solo

PROP. Mediatore io? Che non sappia costui che io sono il marito di donna Giulia? Poffiar il mondo! mediatore io? Ma di che? Penserò mal di mia moglie? Dubiterò di una dama? Eh cospetto di bacco! era inginocchiato a' suoi piedi... Fuoco, lite, separazione. Sì, principiamo da questo: sospensione della mesata dei dieci scudi. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera di donna Giulia con tavolino e sedie.

Donna Giulia e Fabrizio

GIU. Sì sì, terminiamo pure la lettera che si è principiata. Vo' che sappia il padre di don Alessandro in quale imbarazzo cerca di pormi il di lui figliuolo. Anzi aggiungete alla lettera, ch'io credo necessario ch'ei venga in Napoli, per poner freno alla sua novella passione.

FABR. Va benissimo, signora; ma intanto che il padre si dispone a venire, il figlio potrebbe mandare ad effetto segretamente la sua intenzione.

GIU. Ho già pensato di ripararvi. Manderò a chiamar donna Aurelia. Ella è una povera figlia, che ha il padre all'armata, e la madre inferma. La compatisco, se desidera collocarsi, e spera far valere la gioventù e l'avvenenza in luogo di dote. M'interesserò per ritrovarle marito, e mi lusingo di guadagnarla.

FABR. Saggiamente ella pensa, ma la consiglio non perder tempo, sapendo io di certo che don Alessandro è innamoratissimo, e passa con essolei tutte le ore del giorno; e le cose sono molto avanzate.

GIU. Manderò subito da donna Aurelia. Chi è di là?

SCENA SECONDA

Lisetta e detti

LIS. Signora.

GIU. Un servitore.

LIS. Un servitore? Qual servitore, signora?

GIU. O l'uno, o l'altro di loro. O il cameriere, o alcuno degli staffieri.

LIS. Non sa niente?

GIU. Che cosa ho io da sapere? Non c'è nessuno in casa?

LIS. Non lo sa che il padrone li ha licenziati tutti, che li ha cacciati via sul momento, e che in casa non c'è più nessuno?

GIU. Perché una simile risoluzione?

LIS. Glielo direi; ma se glielo dico, va in collera.

GIU. Dillo pure; quel che è di fatto, non si può celare.

LIS. È di fatto, che il padrone ha licenziata la servitù, ed è di fatto, ch'egli l'ha fatto perché è sofistico e stravagante.

GIU. Ma con tutte le sue stravaganze, una ragione ci ha da essere stata.

LIS. Mi accorda che è stravagante?

GIU. Per accordartelo, convien ch'io sappia, se a ciò l'ha mosso stravaganza o ragione.

LIS. Sa ella perché li ha licenziati?

GIU. E perché?

LIS. Perché dice che portano ambasciate per la padrona a persone che a lui non piacciono; perché introducono liberamente tutti quelli che vengono, senza ch'egli lo sappia, e specialmente don Alessandro, e ha detto cose che non convengono né al suo carattere, né al di lei decoro; e perché voleano giustificarsi, li ha cacciati via subito, e li ha minacciati, se non partivano.

GIU. Ah! don Properzio vuol stimolarmi a qualche strana risoluzione.

LIS. È stravagante.

GIU. Sì, è stravagantissimo.

LIS. Lodato il cielo.

GIU. Dunque non c'è nessuno?

LIS. Nessuno.

GIU. E il mastro di casa?

LIS. Può essere che quegli ci sia.

GIU. Se c'è, digli che venga qui.

LIS. Basta ch'egli non sia con quel sofistico del padrone. Se è con lui, non gli parlo. Ha una maniera il padrone, che fa rabbia, che non si può soffrire. Non credo che in tutto il mondo vi sia un uomo più inquieto, più stravagante di lui. (Almeno ora la padrona mi lascia dire. Aveva una volontà di sfogarmi, che mi sentiva crepare). (parte)

SCENA TERZA

Donna Giulia e Fabrizio

GIU. Che dite eh? Mi ha licenziato la servitù. Ho da servirmi da me medesima? Non ho da poter mandare un'ambasciata dove mi pare?

FABR. Se altri non vi sono, anderò io ad avvisar donna Aurelia.

GIU. Mi farete piacere. Ma spero che potrò valermi del mastro di casa.

FABR. Vuol sentire come ho principiato a scrivere a don Sigismondo?

GIU. Sì, io sentirò volentieri. (siedono)

FABR. Con quanto piacere ho incontrato l'onore di render servigio a lei ed al figlio, con altrettanto rammarico mi trovo in grado di dovermene ora pentire.

GIU. Benissimo detto.

FABR. Il signor don Alessandro, poco ricordevole degl'impegni suoi e delle mie attenzioni...

GIU. Sospendete. Ecco il mastro di casa.

SCENA QUARTA

Pasquale e detti

PASQ. Sia ringraziato il cielo. Sono fuori del maggior impiccio di questo mondo.

GIU. Il padrone ha licenziata la servitù, ed io ho bisogno di valermi di voi per un'ambasciata.

PASQ. Signora, in questo momento ho avuta la fortuna di essere licenziato ancor io.

GIU. Anche voi?

PASQ. Ancor io.

GIU. E per qual motivo?

PASQ. È venuta Lisetta a domandarmi per ordine suo. Ei l'ha sentita. È montato in bestia, e mi ha licenziato.

GIU. A me un simile trattamento?

PASQ. Perdoni se in qualche cosa ho mancato, mi raccomando alla di lei protezione, e le faccio umilissima riverenza.

GIU. Volete voi partir subito?

PASQ. Subito.

GIU. Non volete farmi il piacere di un'imbasciata?

PASQ. Per carità, mi dispensi. Sa con chi abbiamo da fare.

GIU. Andate.

PASQ. Mi piange il core per lei; ma vi vuol pazienza. (parte)

SCENA QUINTA

Donna Giulia e Fabrizio

FABR. Signora, adoperi, or piucché mai, la di lei virtù. Non si lasci abbattere da una persecuzion manifesta.

GIU. No, non mi perdo di animo. Le cose, quando giungono agli estremi, sono prossime al cambiamento. Don Properzio vorrebbe mettermi al punto di qualche precipitata risoluzione, che avesse poscia da ridondare in avvantaggio della sordida sua avarizia. Sono in impegno di deludere le sue speranze, e di condurmi per una strada da lui sconosciuta. Grazie al cielo, in tutti i maneggi più spinosi e difficili ne sono uscita con gloria, e spero che mi abbia a valere per me medesima quella condotta che mi ha giovato per altri. Vedrete che don Properzio si pentirà d'avermi insultata, e saprò forse assicurarmi senza violenze e senza rumori la mia tranquillità. Intanto non perdiamo di vista don Alessandro. Fatemi voi la finezza di far in modo ch'io possa parlare con donna Aurelia. Vedetela e sappiatemi dire se ha difficoltà di venir da me.

FABR. Terminata che avrò questa lettera, non mancherò di servirla.

SCENA SESTA

Don Properzio e detti

PROP. Servidore umilissimo della signora.

GIU. Serva sua.

PROP. Signor segretario, una parola.

FABR. Comandi. (s'alza)

PROP. Venga qui. Si contenti di venir qui. Si compiaccia d'incomodarsi, e di venir qui.

GIU. Via, andate. Il padrone comanda, andate. (a Fabrizio)

FABR. (Oh, se non fosse per lei, non ci starei un momento). (s'avvia alla volta di don Properzio)

GIU. (Non vi vuol poco a dissimulare). (da sé)

FABR. Eccomi a suoi comandi. (a don Properzio)

PROP. Sa ella, signor segretario, che cosa le devo dire?

FABR. Se non me lo dice, non saprei indovinarlo.

PROP. Devo dirle, ascolti bene, le devo dire che casa mia non è più per lei; che il suo servizio non fa più per me; che favorisca di andarsene in questo punto; e che non me lo faccia dire due volte.

FABR. Ha sentito? (a donna Giulia)

GIU. Ho sentito. Comanda chi puote, obbedisca chi deve.

PROP. Viva la sapientissima mia signora.

GIU. Non è tempo ora ch'io gli risponda. Verrà il momento ancora per me. Scriverò io la lettera a don Sigismondo. (va a scrivere)

FABR. Posso sapere almeno per qual ragione mi licenzia? (a don Properzio)

PROP. Non è necessario ch'io ve la dica.

FABR. È necessario che si sappia, per il mio decoro, per la mia onoratezza.

PROP. Vi farò un benservito.

FABR. Me lo faccia dunque.

PROP. Ve lo farò.

FABR. Me lo faccia ora.

PROP. Non ho tempo presentemente da spendere due o tre ore a stendere un benservito.

FABR. Questo è una cosa che si fa in un momento.

PROP. Voi fate le cose in un momento. Vada ben, vada male, si fa in un momento. Io le cose mie non le faccio in momenti. Un attestato non è una lettera. Si fa presto a scrivere una lettera d'invito ad un cavaliere, un viglietto di appuntamento per ritrovare la dama, una risposta graziosa ad un appassionato servente; queste sono cose che si scrivono in un momento, perché la mano è avvezzata, perché l'abilità del segretario in simili affari è eccellente.

FABR. Signore, capisco il senso del vostro ragionamento.

PROP. Ed io ho piacere di esser capito.

FABR. Mi vergognerei a giustificarmi.

PROP. Io non ci penso che vi giustifichiate, mi basta che ve n'andiate.

FABR. I nostri conti, signore.

PROP. Per questo non preme. Io non intacco la vostra pontualità.

FABR. Son creditore di cinque mesi.

PROP. Non so niente. A me non avete servito sei volte l'anno. Se mi seccherete, non vi farò il benservito.

FABR. Me lo faccia, o non me lo faccia, son conosciuto. Mi paghi, o non mi paghi, sarò lo stesso. Faccio il mio dovere colla signora, e gli levo l'incomodo immediatamente.

PROP. La signora non ha bisogno di complimenti.

GIU. Andate, Fabrizio, vi dispenso da qualunque uffizio.

FABR. (Povera sfortunata!) Servidore umilissimo. (a don Properzio)

PROP. La riverisco. (a Fabrizio)

FABR. (Mi piange il core a lasciare una padrona di tanto merito e di tanta bontà). (parte)

SCENA SETTIMA

Donna Giulia e don Properzio

PROP. Signora compatisca se l'ho privata del segretario.

GIU. Tutto quello ch'ella fa, è ben fatto. (scrivendo)

PROP. Se ha bisogno di scrivere, la servirò io.

GIU. Obbligatissima. So far da me, quando occorre.

PROP. Non vorrà che io sia a parte de' suoi segreti?

GIU. Io non ho segreti, signore. (piega la lettera)

PROP. Ha una gran premura di piegar quella lettera. Ha timor ch'io la vegga?

GIU. No, signore, se comanda, si serva. (gliela presenta)

PROP. Oh! io non sono curioso.

GIU. Crederei che di una dama, qual io mi sono, non gli dovessero venire in capo sinistri sospetti. (seguita a piegar la lettera)

PROP. Oh! che dice mai? Davvero si vede che non ha la mano a piegar le lettere. È avvezza col segretario. Vuole che faccia io?

GIU. Via, mi farà piacere. (si alza)

PROP. Lo farò volentieri. Osservi, non faccio per dire, ma la piegatura non va bene. (apre la lettera) Non creda già ch'io abbia intenzione di leggere.

GIU. Oh! son persuasissima. Son certa che non ha veruna curiosità, che supporrà la mia lettera indifferente, e che si compiacerà, senza leggerla, di piegarla, di sigillarla, e di farle la soprascritta.

PROP. A chi è diretta?

GIU. A don Sigismondo, padre di don Alessandro degli Alessandri. Lo conosce?

PROP. Lo conosco benissimo. È il padre di quel civilissimo cavaliere, che per rispetto s'inginocchia a' piè delle dame.

GIU. Appunto quello.

PROP. Sarà servita. (procurando di leggere furtivamente)

GIU. Se mi permette, vado per un picciolo affare, e poi torno.

PROP. S'accomodi.

GIU. Intanto avrà la bontà di chiudere e sigillare.

PROP. Senz'altro.

GIU. Se vuol leggere, legga; ma non vi è bisogno.

PROP. Oh! non perdo il tempo sì inutilmente.

GIU. Con sua licenza.

PROP. Vada pure.

GIU. (Legga pure il curioso, s'illumini l'indiscreto, e si prepari a pagarmi caro l'insulto). (parte)

SCENA OTTAVA

Don Properzio solo

PROP. Sciocca! Si persuade ch'io non voglia leggere? Non vorrei che mi stesse a vedere. (osserva intorno) Ma potrebbe anche essere una lettera fatta con malizia, perché io credessi una cosa per l'altra. Basta, me ne accorgerò. Qui vi è un fascio di lettere, vedrò i suoi carteggi, scoprirò i suoi raggiri. Leggiamo questa frattanto. (torna ad osservare, poi legge) Monsieur. Con quanto piacere ho incontrato l'onore di servir Lei ed il Signor Don Alessandro di lei Figliuolo, con altrettanto rammarico mi trovo in grado di dovermene ora pentire. In che cosa doveva servire questi signori? Sentiamo. Ella sa quanta pena mi è costato ridurre a termine il maritaggio con donna Aspasia, ed ora il giovane mostra esserne renitente, e minaccia di voler mancare alla sua parola. Sì, vuol mancare a donna Aspasia per la buona grazia di donna Giulia, ed io ho da essere il mediatore. Don Alessandro si è invaghito di certa giovane, nobile di qualità, ma povera di fortune... Non credo niente. Ed è questa donna Aurelia Pansecchi. Non credo niente. Ella vede, Signore, che l'onor mio e l'onor suo sono interessati egualmente, che però la consiglio non solo, ma la prego e la eccito pel suo decoro, e per la mia estimazione, venire in Napoli personalmente, a por freno al di lei Figliuolo, staccarlo dalla conversazione di donna Aurelia, e costringerlo a mantenere l'impegno con donna Aspasia. Corpo di bacco! Questo è qualche cosa di concludente. Se chiama ed eccita a venire in Napoli don Sigismondo, deve esser vero che don Alessandro vuol distaccarsi da donna Aspasia, perché è innamorato di donna Aurelia. Può anche essere che s'inginocchiasse a mia moglie, per persuaderla a non iscrivere al di lui padre, e che per lo stesso effetto si raccomandasse alla mia mediazione. Se la cosa fosse così, avrei fatto la bella capocchieria. Ma sarà così senza dubbio. Ella mi lascia in libertà tutte le sue scritture, e non lo farebbe se vi fosse cosa da sospettare. Maladetto vizio che ho io di pensar male! Ecco qui, ho irritato l'animo di donna Giulia, ed è una dama, per dir la verità, che non merita di essere maltrattata. Vo' vedere, s'io posso, d'accomodarla. Presto, presto, pieghiamo la lettera e mostriamo di non averla nemmeno letta; si chiami donna Giulia, e si procuri di pacificarla. Chi è di là? (piega la lettera) Ehi, chi è di là? (la sigilla) Chi è di là, ehi! (fa la soprascritta) Ehi? c'è nessuno? Ma stolido ch'io sono! Chi ci ha da essere, se ho licenziata tutta la servitù? Ci dovrebbe essere almeno la cameriera. Ehi! Lisetta.

SCENA NONA

Lisetta e detto

LIS. (In mantiglia) Signore.

PROP. Dov'è la padrona?

LIS. Si è serrata nel suo gabinetto.

PROP. Valle a dire che la lettera è chiusa, e che con suo comodo venga qui, che le ho da parlare.

LIS. Perdoni, io non ci posso più andare.

PROP. E perché?

LIS. Perché la padrona mi ha licenziato dal suo servizio.

PROP. Ti ha licenziato?

LIS. Sì, signore, ed eccomi in mantiglione per andarmene per i fatti miei.

PROP. Ma per qual ragione ti ha licenziato?

LIS. Io non la so, non me la vuol dire: vuole ch'io parta subito, e che più non le comparisca dinanzi.

PROP. Fermati, vedrò io d'aggiustarla.

LIS. Perdoni: ho risoluto d'andarmene, e non ci resterei se mi desse cento zecchini.

PROP. Dove vai?

LIS. A procacciarmi miglior fortuna.

PROP. No, non voglio che tu te ne vada.

LIS. Anzi vo' partire in questo momento.

PROP. Resta almeno per qualche giorno.

LIS. Anzi vo' partir subito.

PROP. Ti pagherò.

LIS. Non ho bisogno del suo denaro. (La mia padrona mi ha provveduta bastantemente). (da sé, con allegrezza)

PROP. Ma chi vuoi che ci dia da pranzo?

LIS. Vada all'osteria.

PROP. E la padrona?

LIS. Che stia a digiuno.

PROP. Hai un cuore di bestia.

LIS. Ed ella, signore, ha il più bel cuore del mondo. Con sua licenza.

PROP. Fermati.

LIS. La riverisco. (La mia padrona sa quel che fa, ed io la deggio obbedire). (parte)

PROP. Si è ricattata come va, la signora. Se si potesse star soli, e far tutto da sé, senza mangiapani, la disgrazia non sarebbe sì grande. Ma il punto si è che qualcheduno ci vuole. E da chi ho da farmi servire? Dal cane? Da una parte, donna Giulia ha ragione. Sono stato io un animale. Anderò a ritrovarla, ma fino che ha il sangue caldo, non vo' arrischiar di far peggio. Sarà meglio ch'io vada in traccia di qualcheduno che venga a servire. Ma chi troverò io? Qualche ladro? Qualche briccone? Il mondo è pieno di tristi, di vagabondi; non si sa di chi potersi fidare. Almeno aveva in casa gente onorata. E perché privarmene? Mi sta bene, merito peggio. Ma donna Giulia non doveva licenziare Lisetta. Una moglie non si ha da vendicar col marito. Sono io il padrone, comando io. Sì, comando, comando, e non c'è nessun che mi serva. (parte)

SCENA DECIMA

Gabinetto con finestra e sedie.

Donna Giulia sola alla finestra

GIU. Sì, sì, Lisetta, ho capito. Ti sei portata benissimo, vattene, e non temere che la mia protezione ti manchi. Quando ti vorrò, ti farò da qualcheduno avvisare. Addio. (si ritira dalla finestra) Ho piacere che sia riuscita sensibile a don Properzio la mia bizzarra risoluzione. Questo non è che un principio de' miei studiati risentimenti, e se mi riesce, vo' senza strepito illuminarlo. Avrà letta la lettera, avrà inteso ciò che m'interessa rapporto a don Alessandro, e arrossirà, io spero, de' suoi ingiuriosi sospetti. Se verrà alcuno a visitarmi, secondo il solito, uscirò di casa, e farò accompagnarmi, o in carrozza, o a piedi, come potrò. Fra le inquietudini del marito, non vo' perder di vista il maritaggio di donna Aspasia. Ho mente che val per tutto, e posso provvedere agli affari miei, senza scaldarmi il capo. Parmi di sentir gente. Converrà ch'io apra, e che mi serva da me medesima; ma mi consolo che il signor marito farà lo stesso. (va ad aprire la porta)

SCENA UNDICESIMA

Donna Aurelia e la suddetta

GIU. Oh! donna Aurelia, che onore è questo che m'impartite?

AUR. Il vostro segretario mi ha fatto sapere che desiderate parlarmi, e non ho tardato a ricevere i vostri comandi.

GIU. Sono molto tenuta alle vostre finezze.

AUR. Mi ho fatto accompagnare fin qui dal signor don Ridolfo Presemoli...

GIU. Permettete ch'io vi prenda una sedia...

AUR. E sono restata sola, e non ho trovato nessuno...

GIU. Scusate se non vi è un servitore...

AUR. E sono salita le scale così da me...

GIU. Per una certa avventura...

AUR. Ho chiamato, e non rispondendo nessuno...

GIU. Trovandomi senza la cameriera...

AUR. E così a caso sono venuta innanzi.

GIU. Accomodatevi.

AUR. Che cosa avete da comandarmi?

GIU. Donna Aurelia, voi sapete che ho per voi della stima, e che professandomi vostra amica...

AUR. Mia madre m'ha imposto di farvi i suoi complimenti.

GIU. Obbligatissima. Che fa donna Fulgida?

AUR. Al solito. Sempre male.

GIU. Povera signora, me ne dispiace. Ora, figliuola mia, permettetemi ch'io vi dica...

AUR. Da quindici giorni a questa parte ha moltissimo peggiorato.

GIU. Se il ciel vorrà, starà meglio. Parliamo ora di ciò che preme.

AUR. Io credo che i medici non abbiano conosciuto il suo male.

GIU. Sentite quel che ho da dirvi...

AUR. Chi dice una cosa, chi dice un'altra. Contrastano fra di loro, e l'ammalata peggiora.

GIU. Cara donna Aurelia, permettetemi ora, che possa dirvi il motivo per cui vi ho incomodata.

AUR. Eh avete bel dire voi, che non siete ne' guai ne' quali mi trovo io. Son sola colla madreinferma, e con pochissimi assegnamenti; ed ora avrei una buona occasione di maritarmi con una persona che, se vogliamo non pretenderebbe nemmeno gran dote, ma qualche cosa ci vuole, e non so da che principiare, e non ho cuore di andar lontana e di lasciar la madre in un letto.

GIU. Avete occasione di maritarvi?

AUR. Sì, certo. L'incontro non potrebbe esser migliore. Un giovane nobile, ricco, figlio solo, e che mi vuol bene, che mi adora.

GIU. Si può saper chi egli sia?

AUR. Se ve lo dico, non lo conoscerete. È forestiere, non lo conoscerete.

GIU. Ne conosco tanti de' forestieri.

AUR. Questo non lo conoscerete, perché sta tutto il giorno da me, e non pratica con nessuno.

GIU. Che difficoltà potete avere a dirmi il suo nome?

AUR. Io non ho difficoltà nessuna, ve lo dirò; ma per amor del cielo, non parlate. Non vuol che si

dica, perché se lo penetrasse suo padre, ci sarebbero de' guai.

GIU. Confidatevi meco, e non vi troverete scontenta.

AUR. Suo padre lo vorrebbe maritare a suo modo...

GIU. Ditemi il nome...

AUR. E mi ha detto che vi è di mezzo una certa persona, che vuole ingerirsi in quello che non le tocca, e vuol fargli delle prepotenze, e vuol obbligarlo con insolenza a sposar un'altra.

GIU. Questa persona vuol obbligarlo con insolenza?

AUR. Così m'ha detto, e credo sia una donna costei, e se sapessi chi è, vorrei insegnarle io, così giovane come sono, a non impicciarsi nei matrimoni, e a non pregiudicare le povere figlie, che cercano onestamente di collocarsi.

GIU. Alle corte, si può sapere chi è questo vostro amante?

AUR. Sì, ve lo dico liberamente. Si chiama don Alessandro degli Alessandri. Lo conoscete?

GIU. Lo conosco.

AUR. Lo conoscete! (con maraviglia)

GIU. Oh! se lo conosco, e conosco anche suo padre, e la sposa che gli fu destinata, ed anco quella persona che con prepotenza vuol obbligarlo a mantenere il suo primo impegno.

AUR. Oh capperi! Ho piacer che sappiate tutto. Raccontatemi. (si accosta colla sedia)

GIU. Vi dirò, prima di tutto, esser questo per l'appunto il motivo per cui ho desiderato parlarvi.

AUR. Buono! oh, adesso son quasi sicura di sortir l'intento, e di far star a dovere quella illustrissima signora che mi perseguita.

GIU. Vi dirò poi, che la sposa destinata a don Alessandro è donna Aspasia.

AUR. Oh! non mi fa paura.

GIU. Vi aggiungerò che don Sigismondo, padre di don Alessandro, ha data la parola da cavaliere;

che il figlio l'ha confermata; che donna Aspasia è dama di qualità...

AUR. Ed io, che cosa sono? I danari non fanno la nobiltà. In ordine al sangue, io non la cedo a nessuno.

GIU. E vi dirò, per ultimo, che io sono quella persona, che non per prepotenza e per insolenza, ma per giustizia e per punto d'onore, intendo che don Alessandro abbia da sposar donn'Aspasia.

AUR. (Ci sono caduta io, non volendo). (si ritira colla sedia)

GIU. E voi, che cosa dite?

AUR. Dico, dico, che se non avevate altro da dirmi, potevate lasciarmi stare, e che questa non è la maniera. (mortificata)

GIU. Favorite di parlar nei termini.

AUR. E se la fortuna vuol aiutare una povera fanciulla civile, non è carità il pregiudicarla... (come sopra)

GIU. E non è giusto che una fanciulla civile...

AUR. Io non ho né parenti, né amici, e se perdo questa buona sorte, per me è una disperazione. (piangendo)

GIU. Temete voi di non maritarvi?

AUR. Senza dote chi volete voi che mi pigli? (come sopra)

GIU. E perché don Alessandro vi ha da sposar senza dote?

AUR. Perché mi vuol bene; e chi ama, non cerca interesse. (come sopra)

GIU. E che sarebbe di voi, se il padre di don Alessandro negasse di ricevervi in casa?

AUR. Ci darà il modo di vivere fuor di casa, e poi è vecchio, e probabilmente morirà prima di suo figlio. (arditamente)

GIU. Come! (alzandosi) Così parlate? Nutrite in seno tai sentimenti? Le vostre massime sono indegne del vostro sangue, e se la povertà dello stato non pregiudica la condizione, il mal talento fa torto alla nascita, e deturpa la nobiltà. Noi non ci regoliamo colle leggi della natura soltanto, ma con quelle della civil società e chi tenta usurpare ad un padre l'autorità, il diritto e la convenienza, è reo in faccia del cielo e nel concetto del mondo. Una giovane costumata dee domandare al cielo la sua fortuna, e non valersi de' mezzi illeciti per usurparla. Se a voi convenisse un tal matrimonio, non vi affatichereste per occultarlo. Le cose che si nascondono, non ponno essere che maliziose, e chi si procaccia un bene per via indiretta, non perde mai il rossore di averselo con ingiustizia acquistato. Per due ragioni avete da vergognarvi di un tal progetto; e per l'insulto che procurate ad un padre, e per il torto che promovete a una sposa. Di ciò aspettatevi la ricompensa che meritate. Nessuna colpa andò mai immune dal suo castigo. O rassegnatevi al dovere, alla ragione, alla convenienza; o preparatevi ad essere un'infelice, odiosa nella famiglia, criticata dal mondo, e abborrita un giorno per interesse da quello stesso che ora per acciecamento vi ama. Prendete le mie parole per un'ammonizione amorosa. Figuratevi che vi parli il cielo per bocca mia, abbandonate un disegno che vi fa torto, e preferite ad una seduttrice lusinga l'onestà e la ragione. Se vi mortifica lo stato vostro, fate uso della virtù, e prevaletevi dell'amicizia e della interessatezza di una dama d'onore, che non v'insulta con prepotenza, ma con amore vi parla, e a vostro pro vigorosamente s'impegna. (s'alza)

AUR. Ah! donna Giulia, ah! mia amorosissima amica, mi raccomando alla vostra bontà. Sono una povera figlia, sono nelle vostre braccia.

GIU. Sì, rasserenate il vostro spirito. Non vi abbandonerò mai, e penserò io a procacciarvi una conveniente fortuna.

AUR. Sì, donna Giulia, disponete di me come di cosa vostra.

GIU. Prima di tutto, promettetemi di licenziare immediatamente don Alessandro.

AUR. Subito ho da licenziarlo?

GIU. Sì, subito.

AUR. Aspetterò ch'egli venga da me, e gli dirò... davvero io non so come fare.

GIU. Vi compatisco. Se vien da voi, non avrete cuore di licenziarlo. Fate così, licenziatelo con un viglietto.

AUR. E come ho da fare a mandarglielo?

GIU. Scrivetelo qui da me, lasciatelo nelle mie mani, e penserò io a fare che gli pervenga.

AUR. Benissimo: farò tutto quello che voi volete. Perché mia madre non istia in pensiere, mandate subito un servitore.

GIU. Ora sono tutti impiegati. Non dee venire a prendervi don Ridolfo? Manderemo lui.

AUR. Sì, manderemo lui.

GIU. Favorite di venir meco a formare il viglietto che dovete scrivere a don Alessandro. Può essere ch'egli venga da me, e che glielo possa dare colle mie mani.

AUR. Io non so come concepirlo.

GIU. Se vi contentate, ve lo detterò io.

AUR. Sì, mi lascierò regolare da voi.

GIU. Andiamo. (partono)

SCENA DODICESIMA

Camera di don Properzio.

Don Properzio ed Orazio

PROP. Proverò; vedrò quel che sapete fare, e a misura di quello che saprete fare, vi darò il salario.

ORAZ. Come comanda Vostra Signoria illustrissima.

PROP. Per oggi vi darà l'animo di cucinare?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. E di preparare la tavola?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. E ricevere qualche imbasciata?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. (Se costui fosse buono per tutto questo, mi risparmierebbe tre o quattro salari almeno). Andate subito in cucina; troverete la spesa fatta. Troverete un pollastro. Siamo in due; un pollastro in due non si mangia, ed io nel mangiare son delicato, e non voglio roba rifatta. Tagliate a mezzo il pollastro, e cucinatene mezzo oggi, mezzo domani. Troverete dell'erbucce; fatemi con esse una buona zuppa; co' rottami del pollastro fate un intingolo, e di due fette di fegato che ci sono, dividetene una in due, e cucinatela per arrosto. Avete capito?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. Andate.

ORAZ. Perdoni. E per me, che cosa ci resta?

PROP. Voi non dovete entrar colla mia cucina. Alla servitù do danari.

ORAZ. Perdoni. Favorisca qualche cosa dunque.

PROP. Siete senza un baiocco?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. Io non do niente a nessuno, se non ho provata l'abilità.

ORAZ. Pazienza.

PROP. Andate a lavorare. Avvertite di essere pontuale. Non vi usurpate niente di quel del padrone. Il brodo lo voglio tutto per me, e non ardiste di schiumare il grasso. Non consumate legna più del dovere. Non caricate le vivande di sale. Spezierie non ne voglio; butirro pochissimo e quel che avanza di tavola, riponetelo per la sera. Avete capito?

ORAZ. Per obbedirla.

PROP. Andate, e portatevi bene.

ORAZ. (Oh! sì, che ho ritrovata la mia fortuna). (parte)

SCENA TREDICESIMA

Don Properzio, poi Orazio

PROP. Costui è un uomo che mi piace, perché sa fare di tutto, e perché ha poche parole; e poi è in bisogno, è in estrema necessità, e per campare, si contenterà d'ogni cosa. Il punto sta che la mia signora se ne contenti. È diventata sofistica al maggior segno.

ORAZ. (Col grembiale da cuoco ed un pollo in mano) Signore. PROP. Cosa volete? ORAZ. Un'imbasciata.

PROP. E così si va a ricevere le imbasciate?

ORAZ. Come vuole ch'io faccia?

PROP. E chi è?

ORAZ. Non so niente. Ho sentito salir le scale, e chiamare nell'anticamera.

PROP. Vi hanno veduto?

ORAZ. Non signore.

PROP. Presto, date qui quel pollastro.

ORAZ. Per obbedirla. (dà il pollastro a don Properzio)

PROP. Cavatevi quel grembiale.

ORAZ. Subito.

PROP. Non lo strapazzate.

ORAZ. Perdoni.

PROP. Andate a veder chi è.

ORAZ. Per obbedirla. (parte e poi ritorna)

PROP. Poh! è pur magro arrabbiato questo pollastro! È vero che costa un paolo; ma per un paolo si

poteva avere qualche cosa di meglio.

ORAZ. È il signor don Alessandro.

PROP. Che vuol da me il signor don Alessandro?

ORAZ. Domanda della padrona.

PROP. Sciocco! E sono io la padrona? Ho la gonnella io? Ho la cuffia in capo? Che vada dalla  padrona.

ORAZ. (In atto di partire)

PROP. No, aspettate, ditegli che venga da me.

ORAZ. Per obbedirla. (va per partire, poi torna indietro) Il pollastro? (a don Properzio)

PROP. Sciocco! Volete andargli incontro col pollastro in mano?

ORAZ. Perdoni. (Si cucinerà questa sera). (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Don Properzio, e poi don Alessandro

PROP. Non sanno niente costoro, non sanno niente. (nasconde il pollastro)

ALESS. Faccio umilissima riverenza all'amabilissimo don Properzio.

PROP. Servitor suo divotissimo.

ALESS. Perdoni se con tanta frequenza ardisco d'importunare il di lei veneratissimo domicilio.

PROP. Anzi... anzi... l'abbondanza delle di lei grazie empie di estremo giubbilo la mia casa.

ALESS. Ella è il prototipo della gentilezza.

PROP. Io sono... io sono... suo divotissimo servitore.

ALESS. Potrei aver l'onore di umiliare l'ossequio mio alla di lei gentilissima sposa?

PROP. Ella è più che padrone; anzi padronissimo.

ALESS. Se avesse disoccupato alcuno de' suoi domestici, potrebbe onorarmi di far preceder l'annunzio.

PROP. Subito, immantinente. Ehi? chi è di là? Presto, servitori.

SCENA QUINDICESIMA

Orazio col grembiale ed una cazzaruola in mano, e detti

ORAZ. Comandi.

PROP. Che maniera è questa?

ORAZ. Perdoni.

PROP. Non chiamo il cuoco; chiamo il cameriere, lo staffiere, il lacchè.

ORAZ. E dove sono?

PROP. Cercateli dove sono, e che portino l'imbasciata alla padrona. Sciocco, ignorante, alla padrona. M'avete capito? Subito alla padrona.

ORAZ. Ho capito, per obbedirla. Vado subito, per obbedirla. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Don Properzio e don Alessandro

PROP. Chi ha troppa servitù, è mal servito. Sarebbe meglio averne un solo. (a don Alessandro)

ALESS. Ottima riflessione!

PROP. Favorisca di grazia. Che intendeva ella dir questa mane, volendomi onorare dello specioso titolo di mediatore?

ALESS. Ah! signore. Io sono una vittima del dio Cupido.

PROP. E chi è la Venere che vi ha ferito?

ALESS. Donn'Aurelia è la bella fiamma che m'arde.

PROP. E che cosa c'entra mia moglie?

ALESS. Ella, per un impegno d'onore, legatomi a donn'Aspasia, minaccia ruine alla mia unica felicità.

PROP. (È tutto vero dunque quel che diceva la lettera).

ALESS. Deh! impietosite il cuore della vostra sposa. Fate voi ch'ella discenda dal puntiglio alla compassione. Sono acceso, sono afflitto, son disperato.

PROP. Sì, non temete, m'interesserò io.

ALESS. Caro amico. (vuol abbracciarlo)

PROP. Che cosa fate?

ALESS. Un trasporto di gioia. (come sopra)

PROP. Lasciatemi stare. (si difende, e cade in terra il pollastro)

ALESS. Oh cieli! (osservando il pollastro)

PROP. (Maladetto!) (da sé)

ALESS. Un araldo felice de miei amori.

PROP. Sarà caduto dal soffitto.

ALESS. Vieni, o colomba di pace. (lo prende)

PROP. Non è una colomba, è un pollastro.

SCENA DICIASSETTESIMA

Orazio e detti

ORAZ. Perdoni. Dice la dama, che favorisca il cavaliere nelle sue camere, e aspetti un poco che vi sarà ancor essa, per obbedirla.

ALESS. Volo colla mia rispettosa obbedienza. (parte)

PROP. Il pollastro. (dietro a don Alessandro) Che tu sia maladetto. (ad Orazio)

ORAZ. Io?

PROP. Sì, tu.

ORAZ. Perdoni.

PROP. Va, corri. Fatti render quel pollastro.

ORAZ. Per servirla.

PROP. Va al diavolo.

ORAZ. Per obbedirla. (parte)

PROP. Mia moglie è la rovina della mia casa. Ho dovuto prendere quest'ignorantaccio di servitore per causa sua. Tutto male. Io spendo le viscere, e non son servito. Mantengo la casa, e non son padrone. Ho il peso del matrimonio, e non c'è altro per me che il peso. Madama s'interessa per tutti, e non può vedere il marito. In casa mia flusso e riflusso; chi va, chi viene. Consumano le scale, rovinano i pavimenti, e guai se parlo; e guai a me, se apro bocca. E di più, e per giunta, ho da pagar dieci scudi il mese? No, non glieli vo' più pagare, non glieli pago più se mi castrano. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera di donna Giulia col tavolino.

Don Alessandro solo

ALESS. Oh cieli! sono impazientissimo. Ogni momento mi pare un secolo. Mi attenderà donn'Aurelia, ed io vorrei presentarmi ad essa ilare in volto, e senza questa spina nel cuore. Vorrei vedere donna Giulia placata, compassionevole all'amor mio, mediatrice de' miei contenti. Ma oimè! non viene, non si vede, mi fa tremare. (siede presso al tavolino) Gran carteggio! Gran corrispondenze che ha questa dama. Stelle! che miro? Una lettera al mio genitore? Spiacemi che è sigillata. Vedrei pur volentieri ciò che gli scrive. Ma no, se fosse anche aperta, non sarebbe cosa ben fatta il dispiegarla ed il leggerla. Ma io ho un'estrema curiosità. Chi sa mai, s'ella scrive per difendermi, o per accusarmi? Per indurlo a cedere, o per obbligarlo a resistere? No, no, voglio superarmi, non voglio porre al cimento la mia delicatezza. (va bel bello tentando il sigillo, e si apre) S'ella se ne accorgesse, avrebbe giusta ragione di mortificarmi. Per bacco! il suggello è aperto e si può richiudere senza che se ne avvegga. Potrei pur leggere, potrei pur vedere. No, voglio mortificarmi, voglio rimettere il foglio com'era prima. Ma sento che non posso resistere. L'amore mi sprona, il timore mi agita, sono in necessità di vedere. (apre il foglio) Mi trema la mano, mi manca il cuore. Se mai venisse, se mi sorprendesse... (si alza, guarda intorno, e si allontana dal tavolino) Coraggio; non c'è nessuno. La mia passione supera ogni rimorso. (legge piano) Povero me! Cosa sento? Si querela di me con mio padre? Lo mette al punto di violentarmi? Lo chiama a Napoli per mio malanno? Son fuor di me; non so quel che mi faccia. Son disperato. (si allontana sempre più dal tavolino) Oimè! Ecco donna Giulia... La lettera... Non son più a tempo. (imbroglia la lettera, e se la mette in saccoccia)

SCENA SECONDA

Donna Giulia ed il suddetto

GIU. Compatite, don Alessandro, se vi ho fatto aspettare.

ALESS. Anzi son pien di rossore per l'impazienza del vostro incomodo. (Non so quel che mi dica).

GIU. (L'impazienza del vostro incomodo? Si può sentire di peggio?)

ALESS. (Mi par di essere in una fornace).

GIU. Che vuol dire, che siete così confuso?

ALESS. Vuol dire, signora, che l'eccesso della passione suscita nel mio seno una tempesta d'agitazioni.

GIU. Povero don Alessandro, vi compatisco; ma io mi lusingo di avervi procurata la calma.

ALESS. Ah! voi mi procurate il naufragio.

GIU. No, assicuratevi che mi preme la vostra pace.

ALESS. (Menzognera! Se potessi, la vorrei convincere col suo foglio).

GIU. Io spero che tutte le cose si accomoderanno senza inquietar me, e senza inquietar vostro padre.

ALESS. Senza inquietar mio padre? (con empito)

GIU. Sì, non è giusto che il buon cavaliere s'inquieti.

ALESS. (Oh! se potessi parlare!)

GIU. Anzi, per dirvi la verità, gli aveva scritta una lettera risentita, ma ho piacere di non averla spedita e di poterla sospendere, e forse forse cambiare.

ALESS. Avete intenzione di cambiar la lettera che avete scritta? (placidamente)

GIU. Sì, può essere che abbia motivo di farlo.

ALESS. Deh! per amor del cielo, cambiate una lettera così funesta, così barbara, così ingiuriosa.

GIU. Come potete voi sapere che la mia lettera fosse barbara ed ingiuriosa?

ALESS. Io non lo so... non so niente. Mi fa parlare il timore, la confusione.

GIU. Che cosa dubitate voi ch'io possa scrivere a vostro padre?

ALESS. Oh! signora mia, non saprei immaginarmelo. Non è possibile ch'io l'indovini.

GIU. Temete ch'io gli partecipi gli amori vostri per donna Aurelia?

ALESS. Non saprei... Questo è quello ch'io temo.

GIU. Non vi è pericolo.

ALESS. Non vi è pericolo? (con calore)

GIU. No certo.

ALESS. Credete dunque, o signora, che possa aderire mio padre alle nozze di donna Aurelia?

GIU. Sì, avrà piacere che donna Aurelia sia collocata, ed io sono impegnata per il di lei matrimonio. (ironicamente)

ALESS. E potrò io sperare di possederla?

GIU. Questo poi è un altro discorso.

ALESS. Qual altro ostacolo può frapporsi alle nostre nozze?

GIU. Vi potrebbe essere una picciola difficoltà.

ALESS. E quale mai?

GIU. Che, per esempio, donna Aurelia fosse ritornata in se stessa, che comprendesse non convenirle un tal maritaggio, e che vi supplicasse di abbandonare l'idea che avete sopra di lei concepita.

ALESS. Ah! donna Giulia, voi vi date ad immaginar l'impossibile. Donna Aurelia mi adora, per me si strugge, non vive che per amarmi, e non si nutre che colla speranza di possedermi.

GIU. Conoscete voi il carattere di donna Aurelia?

ALESS. Ella è di un carattere il più onesto, il più fedele, il più amoroso del mondo.

GIU. Io non parlo del carattere della persona. Dico, se conoscete il carattere della sua mano.

ALESS. Sì, ho delle lettere di sua mano, lo conosco perfettamente.

GIU. Leggete dunque, e disingannatevi. (gli dà un viglietto)

ALESS. Oimè! tremo, palpito, che sarà mai? Don Alessandro. Ho pensato alle circostanze del vostro stato e del mio. Voi avete degl'impegni da mantenere. Io non voglio espormi a disgrazie. Perciò vi supplico di scordarvi di me, avendo io già proposto e risolto di dimenticarmi di voi. (gli va mancando il fiato, e poi rimane ammutolito)

GIU. Siete ora convinto?

ALESS. No, non lo sono. Aurelia non può scrivere in cotal modo. Non nutre così barbari sentimenti un cuor amabile, un cuor sincero. Il carattere non può essere, e non sarà di sua mano.

GIU. Ardirete di dire, ch'io macchini un'impostura?

ALESS. Ve lo proverò col confronto. Ho degli altri fogli della mia bella, ne sarete or or persuasa. Vedremo ora s'ella abbia scritto. (cerca dei fogli in tasca, e gli esce quello di donna Giulia)

GIU. Come! (strappandogli la lettera di mano) Volete voi confrontarla col mio carattere, temendo forse ch'io abbia scritto in luogo di donna Aurelia? Ma che vedo? Questa è la lettera ch'io aveva destinata per vostro padre: come vi capitò nelle mani? come è in vostro potere? com'ella è aperta, dissigillata? Ah! cavaliere, vi abusaste dunque della mia buona fede, e ritrovata la lettera sul mio tavolino, ardiste di aprirla? Ora intendo le vostre smanie. Capisco ora la confusione dei vostri ragionamenti. Non aspettate più ch'io vi parli né di nozze, né di pontualità, né d'impegno; voi non siete capace di concepire la vera idea delle cose; scusatemi, vi manca il buon senso, e compiango la vostra infelicità. Sì, mi querelava con vostro padre e lo eccitava a distaccarvi dai nuovi amori, allorché vi supponea vincolato dalle insistenze di donna Aurelia. Or che la giovane vi ha conosciuto, e vi usa il trattamento che meritate, cambierò il foglio, consiglierò un padre prudente a richiamare un figliuolo che vuol far poco onore alla sua famiglia.

ALESS. Ah! donna Giulia, vi domando perdono.

GIU. Non vi credeva di sì poco senno.

ALESS. Insultatemi, che mi sta bene.

GIU. Non saprei qual titolo darvi.

ALESS. Ditemi sfortunato, e non fallerete.

GIU. Basta; scriverò a vostro padre.

ALESS. No, per amor del cielo.

GIU. E che cosa pensate di donna Aurelia?

ALESS. Donna Aurelia... Donna Aurelia non merita l'amor mio.

GIU. Sposerete voi donn'Aspasia?

ALESS. Non mi distaccherò dai vostri consigli.

GIU. Non ho motivo di compromettermi della vostra parola.

ALESS. Giuro da cavalier d'onore.

GIU. Un cavalier d'onore non apre le lettere di una dama.

ALESS. Perdonatemi, ve ne scongiuro.

GIU. Se vi cale del mio perdono, adoperatevi per meritarlo.

ALESS. Voi non avete che a comandarmi.

GIU. Andate tosto, e conducetemi qui un notaro.

ALESS. Signora... Io non ho cognizione di cotal gente; non saprò rinvenirlo.

GIU. Dite che non volete.

ALESS. Nulla più desidero che compiacervi.

GIU. Ricercatelo.

ALESS. Farò il possibile per obbedirvi.

GIU. Andate.

ALESS. Obbedisco.

GIU. Vi aspetto.

ALESS. Sarò sollecito. (parte)

SCENA TERZA

Donna Giulia sola

GIU. Veramente è più da compatire, che da sdegnarsi; ma in ogni modo mi basta di condurlo al termine che mi ho prefisso. Ho superato il maggiore ostacolo, che era quello di donna Aurelia; dal suo viglietto ne è derivato il disinganno di don Alessandro. Parmi di sentir gente. Oh! davvero è qui donn'Aspasia. Pare che la fortuna la guidi. Ottimo augurio per la terminazion dell'affare.

SCENA QUARTA

Donna Giulia e donna Aspasia

ASP. Serva di donna Giulia.

GIU. Serva, donna Aspasia.

ASP. Che dite? Non vengo spesso ad incomodarvi?

GIU. Mi fate grazia. Comprendo dalla vostra sollecitudine la premura del vostro cuore.

ASP. Per chi?

GIU. Per don Alessandro.

ASP. Non ci penso nemmeno.

GIU. Su questo punto io non pretendo che mi diciate la verità.

ASP. Oh! ve la dico liberamente. Non ci penso.

GIU. Siete sdegnata con esso lui?

ASP. Sdegnata? perché? Perché ho da essere sdegnata? Perché si è invaghito di donna Aurelia, e passa tutte le ore con lei, e dice di volerla sposare? Io per me non ci penso. Rido di queste frottole; lascio che ogni uno si soddisfaccia, e non mi prendo verun fastidio.

GIU. (Ed io penso sia venuta qui per passione).

ASP. Credete voi che me ne dispiaccia?

GIU. Vi dirò, se fosse vero, sarebbe giusto che vi doleste...

ASP. Se fosse vero? Mi vorreste dare ad intendere che non sia vero? Lo so di certo, e so che voi lo sapete quanto lo so io; e mi maraviglio di voi, che me lo vogliate nascondere, e fate torto al vostro impegno ed alla nostra amicizia.

GIU. Vedete? Se non ci pensaste, non vi riscaldereste cotanto.

ASP. Oh! non ci penso. Ci ho gusto io; sposi pur donna Aurelia, che gli darà una buona dote, e il di lui padre sarà contento, e voi farete una bella figura in Napoli.

GIU. Donn'Aspasia, voi non mi conoscete.

ASP. Eh! vi conosco.

GIU. Mi credereste voi a parte di questi amori?

ASP. Un poco.

GIU. Voi mi offendete.

ASP. Se non si sapesse la verità...

GIU. No, non la sapete la verità. (con calore)

ASP. Donna Giulia, con permissione. (in atto di partire)

GIU. Andate via?

ASP. Io parlo placidamente; vedo che voi vi alterate, è meglio ch'io parta.

GIU. Amica, ci vorrebbe uno specchio, e vedreste chi si altera più di noi.

ASP. Come volete che io mi alteri, se non ci penso?

GIU. Eh! sì, lo vedo che non ci pensate.

ASP. Potete voi dire, ch'io sia stata mai innamorata di don Alessandro?

GIU. Io non lo posso dire, perché non lo so; ma so bene, che don Alessandro ha data a voi la parola, che voi ad esso l'avete data, che io ci sono di mezzo, e che queste nozze devono immancabilmente seguire.

ASP. A chi lo raccontate?

GIU. A voi.

ASP. A me? Povera donna Giulia! Andatelo a dire a donna Aurelia, che è stata oggi da voi, e che non si sa quando sia uscita di questa casa, e che può essere che ci sia ancora e che la tenghiate nascosta, e che mi vogliate dare ad intendere che la luna è caduta nel pozzo.

GIU. Io non dico bugie, signora. Donn'Aurelia è venuta da me, ed io l'ho mandata a chiamare, ed è qui: sì signora, è nell'appartamento terreno.

ASP. Oh! ci ho gusto, ci ho gusto. L'ho indovinata, ci ho gusto. (ridendo affettatamente)

GIU. E per qual fine credete voi che l'abbia fatta venir da me?

ASP. Oh! per prudenza, per compassione; perché è una povera figlia, senza dote. Io finalmente posso trovar di meglio; ella, poverina, ha bisogno di tutto... Brava donna Giulia, brava, fate bene a far delle opere di pietà. Ci ho gusto; in verità, ci ho gusto.

GIU. Leggete questo viglietto.

ASP. Eh! che non voglio legger viglietti.

GIU. Se non volete, lasciate. (lo ritira)

ASP. E che cosa c'è in quel viglietto? (fa conoscere la curiosità)

GIU. Leggetelo, e lo saprete.

ASP. Via, per farvi piacere. (lo prende, e legge)

GIU. (Ha più voglia ella di leggerlo, che io non aveva di darglielo).

ASP. Oh bene! oh brava! Ci ho gusto. L'ha licenziato dunque?

GIU. Sì, lo ha licenziato, e questa è opera mia, e a questo fine l'ho fatta venir da me, e non sarò quieta se non la vedrò collocata.

ASP. Lo sa ancora don Alessandro?

GIU. Sì, lo sa. Ha veduto il viglietto.

ASP. E che cosa ha detto?

GIU. Gli parve strano; ma poi...

ASP. Ma poi ci ha dovuto stare.

GIU. Per necessità, e per dovere.

ASP. Ci ho gusto, davvero, ci ho gusto. (ridendo)

GIU. Voi avete gusto di tutto.

ASP. Sì, ci ho un gusto pazzo. (come sopra)

GIU. Mi dispiace che tutto ciò vi sia venuto a notizia; ma poiché avevate saputo l'intrigo, è stato bene ch'io vi abbia manifestato lo scioglimento.

ASP. Non avrei dato questo piacere per cento doppie.

GIU. Non può negarsi, che don Alessandro non abbia usato un mal termine verso di voi.

ASP. Oh! non ci penso io.

GIU. Ma è stato un caso.

ASP. Sì, accidenti che nascono.

GIU. Vi posso assicurare, che è veramente pentito.

ASP. Poverino! è di buone viscere. (ironicamente)

GIU. E si chiamerà felicissimo, se gli perdonerete il trascorso.

ASP. Oh! gliel'ho perdonato.

GIU. Lo dite di cuore?

ASP. Sicuramente. (Maladetto!)

GIU. (Eh, ti conosco; non ti credo). Volete ch'io gli parli?

ASP. Parlategli. (con indifferenza)

GIU. Volete ch'io lo costringa a domandarvi perdono?

ASP. Non c'è questo bisogno; gli ho perdonato.

GIU. E circa alle vostre nozze?

ASP. Se il cielo vorrà, mi mariterò.

GIU. Con lui.

ASP. Con lui? Col diavolo, ma non con lui.

GIU. E dite che gli avete perdonato?

ASP. Sì, gli ho perdonato; ma non lo voglio vedere.

GIU. Bella maniera di perdonare.

ASP. Io l'intendo così questa volta.

GIU. Una delle due, donn'Aspasia, o ricever le scuse di don Alessandro, e dargli la mano di sposa, o

metterlo in libertà, che si possa maritar con chi vuole.

ASP. Chi è che propone queste due condizioni?

GIU. Le propongo io.

ASP. Che autorità avete voi di obbligarmi o a sposarlo, o a metterlo in libertà?

GIU. Siccome ho trattato io queste nozze, intendo o che si concludano quanto prima, o che si sciolgano legalmente.

ASP. Voi che ci avete legati, voi con la vostra gran prudenza scioglieteci.

GIU. No, donn'Aspasia. Una vostra parola formò il legame, ed una parola vostra dee formare lo scioglimento.

ASP. Se non basta una delle parole, ne dirò dieci. Vi dirò che don Alessandro è un mal cavaliere, che non ha né amore, né fedeltà per nessuno, che non sa distinguere il grado e la condizione delle persone, che ha un cuor perfido e scellerato. Ne volete di più?

GIU. (Sì, ho capito). Conviene dunque che risolviate.

ASP. Ci giuoco io, ch'egli non avrà faccia di comparirmi dinanzi.

GIU. Chi sa che non lo vediate fra poco?

ASP. Povero lui.

GIU. Davvero?

ASP. Povero lui, se si lascia da me vedere.

GIU. Io vi consiglio sfuggir l'incontro. La bile potrebbe farvi del male.

ASP. Per me lo sfuggirò certamente. Ditegli voi, che non ardisca di essere dov'io sono.

GIU. Cara donna Aspasia, mi dispiacerebbe che l'incontro dovesse nascere in casa mia.

ASP. Per me, ne starò lontanissima.

GIU. Egli deve essere qui a momenti.

ASP. A momenti?

GIU. Sì, certo, l'aspetto a momenti.

ASP. E che cosa deve venire a fare da voi?

GIU. Dee qui venire con un notaro; onde se voi voleste sfuggir l'incontro...

ASP. A qual fine ha qui da venire con un notaro?

GIU. Voglio escir dall'impegno, in cui sono, con solennità e con decoro. Voglio che in atti notariali si stenda tutta la serie de' fatti. Voglio la rinunzia di donna Aurelia autenticata; voglio lo stesso per parte di don Alessandro; e colla stessa occasione farò seguire lo scioglimento delle vostre nozze.

ASP. Questo non si può fare senza di me. (con calore)

GIU. Ma voi non ci volete essere.

ASP. Sì, ci sarò: per questo motivo non ho difficoltà di esserci.

GIU. Ma non vorrei che nascesse poi qualche scandalo.

ASP. Cosa avete paura? Che lo ammazzi, che lo bastoni? Se lo strapazzerò ben bene, se lo avrà meritato.

GIU. (Chi non lo vede, che è innamorata?)

SCENA QUINTA

Don Properzio e le suddette

PROP. Con permissione. Veda quanta stima e quanta venerazione ho per la mia signora: in mancanza de' servitori, vengo io medesimo a farle un'ambasciata.

GIU. Troppo gentile, signore.

PROP. Ella è domandata da un giovane, che non so dirle chi sia.

ASP. (Sarà don Alessandro). (ansiosamente a donna Giulia)

GIU. (Potrebbe darsi). (a donna Aspasia) Non lo conosce? (a don Properzio)

PROP. Lo conosco, ma non mi sovviene. L'ho veduto altre volte, ma non mi ricordo chi sia.

ASP. (Sarà egli senz'altro). (come sopra)

GIU. (Non facciamo scene in presenza di mio marito). (a donna Aspasia)

ASP. (Non potrò trattenermi). (come sopra)

GIU. (Venite meco in un'altra camera). (a donna Aspasia)

PROP. E così, signora, lo vuole, o non lo vuole?

GIU. Favorisca introdurlo e trattenerlo un momento. Servo di là questa dama, e torno subito. (a don

Properzio) Andiamo. (a donna Aspasia)

ASP. (Mi sento rimescolar tutto il sangue). (parte con donna Giulia)

SCENA SESTA

Don Properzio, poi don Ridolfo

PROP. Già so che con essa è tutto buttato via. Con tutte le mie buone grazie, non farò niente. Pure vo' tentar di convincerla: non vorrei ch'ella mi facesse spendere in una lite. Ehi! signore, favorisca. (alla scena)

RID. Mi rincresce di dover dare a lei quest'incomodo.

PROP. Non fa niente. La signora lo prega di trattenersi un poco, che or ora viene.

RID. Prenda pure il suo comodo.

PROP. Chi è ella, signore, se è lecito?

RID. Ridolfo Presemoli, ai di lei comandi.

PROP. Ah! il signor don Ridolfo, quel bravo poeta. Me ne rallegro infinitamente.

RID. Suo umilissimo servitore.

PROP. Viene ella da mia moglie per qualche raccomandazione?

RID. Per verità, vengo a prendere una signora che ho avuto l'onore di accompagnare fin qui, e che devo ricondurre alla sua abitazione.

PROP. Sì, la signora donna Aspasia era qui in questo momento.

RID. Perdoni, non è la signora donna Aspasia, ma la signora donna Aurelia.

PROP. Aurelia, o Aspasia, non mi ricordo bene. Io credeva che si chiamasse Aspasia.

SCENA SETTIMA

Donna Giulia e detti

GIU. Eccomi.

RID. Servo suo riverente. (a donna Giulia)

GIU. È questi il signore che mi domandava? (a don Properzio)

PROP. È questi.

RID. Sono venuto a riprendere...

GIU. Ho capito.

PROP. Eh favorisca, quella signora ch'era qui, si chiama Aurelia o Aspasia? (a donna Giulia)

GIU. Aspasia. (a don Properzio)

PROP. Ha sentito? (a don Ridolfo)

RID. Ma la signora donna Aurelia? (a donna Giulia)

GIU. Favorite di trattenervi, che or ora sono da voi. (a don Ridolfo) Signor consorte, giacché ha tanta bontà per me, mi faccia la finezza di tenere un poco di compagnia al signor don Ridolfo, fintanto che dico una parola a quella dama, e ritorno subito. (a don Properzio)

PROP. Si serva pure.

GIU. (Giacché è qui don Ridolfo, vo' meglio assicurarmi del cuore di donna Aurelia, e prevenirla del mio disegno). (parte)

SCENA OTTAVA

Don Properzio e don Ridolfo

PROP. Grand'affari ha sempre la mia signora! (a don Ridolfo)

RID. È una dama di qualità, di spirito e di buon core. Ha moltissime corrispondenze, ed è a portata di poter fare de' gran piaceri e de' gran benefizi.

PROP. Sì, ma consuma un tesoro in lettere.

RID. Impiega bene il danaro, se con questo si fa amare e stimare dalle persone beneficate.

PROP. Fa tanti piaceri, si prende tanti disturbi, e mai che nessuno le mandasse una guantiera di cioccolata, una dozzina di capponi, e cose simili.

RID. Questa poi è un'ingratitudine. Io so, che se ottenessi da lei qualche grazia, non mancherei alla debita riconoscenza.

PROP. Avete bisogno di qualche cosa?

RID. Dirò, signore; ho fatto un picciolo poema, lo vorrei dare alle stampe, e mi premerebbe dedicarlo ad un mecenate che non mi fosse ingrato; onde se la signora donna Giulia mi procurasse la protezione di qualcheduno...

PROP. Sì, raccomandatevi a lei, e non dubitate.

RID. Quando ella mi fa coraggio, mi azzarderò a supplicarla.

PROP. Avvertite poi non fare anche voi come fanno gli altri.

RID. Saprò il mio dovere.

PROP. E se ella mostrasse, per prudenza, di ricusar le vostre finezze, mandate a me quel che vorreste mandare a lei, che sarà ben accettato.

RID. Benissimo. Vuol sentire qualche stanza del mio poema?

PROP. Io non me n'intendo gran cosa.

RID. Eh! so ch'ella è di buon gusto, e poi è scritto in uno stile che non le dispiacerà.

PROP. Via, sentiamo. (Se dico di no, è capace di non mandar niente).

RID. Ecco, signore. L'argomento è sopra i deliqui.

PROP. Sopra i deliqui?

RID. Sì, signore, sopra gli svenimenti.

PROP. Che diavolo di argomento patetico!

RID. È una novità.

PROP. Lasciate vedere.

RID. Leggerò io, se comanda.

PROP. No, no, ho piacere di legger io.

RID. Si serva.

PROP. (Legge fra' denti, in maniera che non si sente altro che borbottare)

RID. (Legge in un modo che mi fa morire). (da sé)

PROP. (Come sopra)

RID. (Poveri versi!) Favorisca, che gli pare di quell'immagine della rosa languente?

PROP. Bellissima. (segue come sopra)

RID. Rimarchi que' due versi.

PROP. Li ho rimarcati.

RID. «Apre il seno la rosa in sull'aurora: Divien pallida, e sviene, e par che mora.»

 (con enfasi)

PROP. Bravissimo. (segue a borbottar come sopra)

RID. (Io glielo strapperei dalle mani).

SCENA NONA

Donna Giulia e detti

GIU. Son qui, vi domando scusa.

RID. Signore, non s'annoi d'avvantaggio. (chiedendo il poema a don Properzio)

PROP. Ci ho ritrovato gusto, è un capo d'opera.

GIU. Se ha che fare, signore, si serva. Ho qualche cosa da trattare con don Ridolfo. (a don Properzio)

PROP. Faccia pure; tratti, parli liberamente. Io non impedisco. Mi diverto a leggere questo bel sonetto.

RID. Sonetto, signore, a un poema di sessanta ottave?

PROP. Sì, come volete: questo bel poema di sessanta ottave.

RID. (Povera poesia!)

PROP. (Ho curiosità di sentire, se donna Giulia gli promette di far per lui; non lo vo' perdere di vista. Non ho gran concetto della generosità dei poeti).

GIU. Don Ridolfo, io credo di essere in grado di poter stabilire la vostra fortuna.

RID. Il cielo volesse, signora. Mi raccomando alla vostra protezione.

GIU. Mi scrivono da Moscovia, che la Corte avrebbe bisogno di un poeta drammatico. V'impegnereste voi di riuscire in questo genere di poesia?

RID. Signora, io ho fatto de' drammi, e posso far vedere la mia abilità.

PROP. (Oh! signor poeta, se ciò succede, l'abbiamo da discorrere insieme).

GIU. La paga che offeriscono, è di mille rubli.

PROP. (Borbottando i versi del poema, mostra il compiacimento di questa proposizione)

RID. È arrivato ancora, signore, alla descrizione della farfalla? (a don Properzio)

PROP. Sì, bellissima! È proprio adattata per una canzonetta per musica.

RID. Per un'aria vuol dire.

PROP. Bravissimo. Questa sola val mille rubli.

GIU. (Don Properzio è capace di guastar ogni cosa). (da sé) Sentite. (a don Ridolfo, tirandolo in disparte) Io vi procurerò questa buona fortuna. Anzi vi farò subito far la scrittura da chi ha l'incombenza, e vi farò dare un quartale anticipato oltre l'occorrente pe 'l viaggio.

PROP. (Non sentendo quel che dice donna Giulia, si accosta bel bello per sentire)

RID. Questa per me è una beneficenza che mi dà l'essere.

GIU. Ma anche voi avete da fare qualche cosa per me.

PROP. (E per me ancora ce n'ha da essere).

GIU. Ci è quella povera donn'Aurelia, che fa compassione. Ha per voi della stima e dell'affetto. So che anche voi l'amate, ma le vostre comuni disgrazie non vi permettevano di accompagnarvi insieme... Ora che il cielo vi ha provveduto, mi obbligherete infinitamente sposandola, e conducendola con voi in Moscovia.

PROP. Che sproposito! (forte)

GIU. (Voltandosi, e vedendo don Properzio) Sproposito, signore? (a don Properzio)

PROP. Eh! dico che in questo verso ci è uno sproposito.

RID. E qual è questo sproposito?

PROP. Non sarà vostro, sarà del copista.

RID. L'ho copiato io.

PROP. Sarà mio dunque. (seguita a borbottare i versi, ritirandosi)

RID. (Che tormento mi fa provare!) (verso don Properzio, da sé)

GIU. E così che cosa mi dite?

RID. Io veramente voleva bene grandissimo a donna Aurelia, e l'avrei sposata potendo; ma avendola veduta impegnata con don Alessandro...

GIU. Ciò non vi dia alcuna pena. La povera figliuola lo faceva per necessità. Don Alessandro è da lei solennemente licenziato, e son certa che sarete di lei contento.

PROP. (Si accosta, come sopra, per ascoltare)

GIU. (Si volta, e vede don Properzio) (Orsù, ho capito). Sentite, andate giù nell'appartamento terreno, colà troverete donna Aurelia. Io le ho parlato, ed è di ciò contentissima. Fate anche voi le vostre parti. Disponetevi a darle la mano, ed assicuratevi della mia gratitudine.

RID. Non ho coraggio di replicare ai vostri comandi.

GIU. Andate.

RID. Signore, favorisca i miei versi. (a don Properzio)

PROP. (Eh! mille rubli non è picciola bagattella). (piano a don Ridolfo)

RID. (Ma per mantenersi a una Corte...)

PROP. (Corbellerie! mille rubli l'anno è uno stato da cavaliere).

RID. (E il peso della moglie...)

PROP. (In sostanza, non volete dar niente?)

RID. (Farò il mio dovere).

GIU. Lasciatelo andare, signore. (a don Properzio)

PROP. Vada pure. RID. I miei versi.

PROP. Né anche questi non mi volete lasciare?

RID. Basta, se li vuol tenere, si serva (Convien dire che gli paiono buoni davvero). (parte)

PROP. (Questa carta mi può servire per involgere qualche cosa).

SCENA DECIMA

Donna Giulia e don Properzio

GIU. (Ma! io penso agli altri, e non penso a me stessa. Sarebbe ora il tempo di parlare con don

Properzio).

PROP. (Mia moglie mi guarda, e non dice niente. Da una parte ha qualche ragion di dolersi).

GIU. (Vo' provare di mettere in pratica il progetto che ho divisato). Signor don Properzio. (lo

chiama)

PROP. Padrona mia.

GIU. Si ha da durar lungo tempo a vivere in cotal guisa?

PROP. Signora mia, non saprei che dire; chi l'ha voluta, se l'ha da godere. (Voglio sostenere la mia ragione).

GIU. Per me, me la posso godere per oggi. Domani non sarò in questo stato.

PROP. E cosa sarà domani?

GIU. Domani sarò in casa de' miei parenti, ben servita, ben veduta, e trattata da quella dama che sono.

PROP. S'accomodi pure. Stia bene, stia sana, si diverta, e se posso servirla, mi comandi. (Volesse il cielo, che dicesse la verità).

GIU. Ella poi avrà la bontà di darmi il mio mantenimento.

PROP. In casa de' suoi parenti? Sarebbe un far torto alla sua famiglia.

GIU. Io non voglio mangiare di quel di nessuno.

PROP. E perché vuol mangiare del mio?

GIU. Del suo! voglio del mio, e non del suo. Il frutto di sessantamila scudi di dote potrà farmi vivere decentemente.

PROP. Come! la dote? La dote è cosa mia. Finch'io vivo, nessuno mi può obbligare a restituire la dote. La dote è mia.

GIU. Sì, quand'ella tratti la moglie come deve esser trattata, e non dia motivo ad una separazione legale, che l'obblighi o a restituire la dote, o a fare un assegnamento che mi convenga.

PROP. Già a lei non mancano raggiri, non mancano prepotenze; a forza di maneggi e di protezioni vorrà farmi stare e farà sapere al mondo quelle cose che non si devono far sapere. Farà perdere il concetto a me, e farà rider di lei: farà rider di lei; di lei, di lei.

GIU. Tutte cose che si potrebbero risparmiare.

PROP. E chi le va cercando?

GIU. Vossignoria.

PROP. Io?

GIU. Sono originate da lei.

PROP. Eh! no, dica piuttosto da lei.

GIU. Per me, altro non pretendo che l'onesta e lecita mia libertà.

PROP. Ha fatto sempre a suo modo. Lo faccia ancora per l'avvenire.

GIU. Favorisca, signore, perché ha licenziata tutta la servitù?

PROP. Perché... perché mi rubano a precipizio.

GIU. Le rubano? Oh! se rubano, vossignoria ha ragione. Facciamo così, signor don Properzio. Si contenti di dare a me il maneggio di casa. M'impegno che le faccio risparmiare più di quindici scudi il mese.

PROP. Questa sarebbe la miglior cosa che potesse fare una donna di garbo del suo sapere e della sua abilità.

GIU. Dia a me il maneggio. Provi, e vedrà se è vero quel ch'io le dico.

PROP. (Se potessi fidarmi, sarebbe per me una delizia).

GIU. Vossignoria è un bravo economo in casa, ma non ha pratica delle cose fuori di casa. Crede che il risparmio di certe spese dia utile, ed io le farò vedere che reca danno. Conviene spendere nel miglioramento delle campagne, e se rendono quattro, farle render sei; conviene mantenere in buon assetto le case, acciò non rovinino, acciò stiano appigionate, e per poterne accrescere le pigioni. Conviene provvedere la casa all'ingrosso di ciò che occorre, e non ispendere il doppio comprando al minuto, e penar di tutto, e convien prendere poca servitù, ma buona, e pagarla bene, perché un servitore vaglia per due. Facendo in questa maniera, s'ella dà a me il maneggio delle rendite e della casa, m'impegno in poco tempo di ridurre gli stabili a perfezione, di aumentar le rendite del patrimonio, e far buona figura, e star bene, e farci stimare, e fargli ritrovare in casa qualche migliaio di scudi di sopra più.

PROP. Qualche migliaio di scudi?

GIU. Sì, certo, e star bene.

PROP. Si può provare.

GIU. Proviamo. (So quanto mi posso compromettere della mia attività).

PROP. Signora donna Giulia, ella è una donna di garbo.

GIU. Basta che si fidi della mia pontualità.

PROP. Oh!

GIU. E del mio contegno.

PROP. Uh!

GIU. Ci vorrebbero due righe di scritturetta.

PROP. Sì, facciamola.

GIU. Mi farebbe il piacere di farmi avere il mio segretario?

PROP. Volentieri.

GIU. Siamo pacificati?

PROP. Oh! (Se mi fa risparmiare, l'amerò con tutto il mio cuore).

GIU. Mi dia la mano.

PROP. Ah! (sospirando)

GIU. Che cosa ha?

PROP. Ella mi ha promesso delle cose belle. Ne mancherebbe una a finire di consolarmi.

GIU. E qual è?

PROP. Un poco di bene.

GIU. Se se lo meriterà.

PROP. Me lo meriterò. (ridendo parte)

GIU. Anche questa è fatta. Ho lavorato per me. Andiamo ora ad operare per gli altri. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Camera a terreno.

Donna Aurelia e don Ridolfo

RID. Basta, donn'Aurelia; per l'amor che vi porto, e in grazia di donna Giulia che mi benefica, mi scordo tutto, e vi prometto di sposarvi.

AUR. Anderemo in Moscovia?

RID. Sì, così spero. A questa condizione soltanto, posso impegnarmi che siate mia.

AUR. E mia madre, poverina?

RID. Vostra madre per sé sola ha tanto che le basta da mantenersi.

AUR. La faremo venire in Moscovia?

RID. Sì, se starà bene.

AUR. Sì, sì, starà bene, e verrà in Moscovia con noi.

SCENA DODICESIMA

Donna Giulia e detti

GIU. E così, che nuova mi date?

RID. Posso dirvi, signora...

AUR. Lasciate parlare a me. (a don Ridolfo) Don Ridolfo è tutto contento che gli abbiate procurata questa buona fortuna. Io pure vi ringrazio per parte mia. Siamo pacificati, ci vogliamo bene, ci sposeremo, e preparateci i vostri comandi.

GIU. Per dove?

AUR. Per Moscovia.

GIU. Ho piacere che siate contenti. Questa è la scrittura che don Ridolfo dovrà sottoscrivere, come poeta della Corte. Aspetto un notaro; si formerà il vostro contratto di matrimonio, e avanti sera vi saranno contati duecentocinquanta rubli per il primo quartale.

RID. Io non ho lingua bastante per ringraziarvi.

SCENA TREDICESIMA

Don Alessandro col Notaro, e detti

ALESS. Ecco qui, signora.. (s'arresta vedendo donna Aurelia)

AUR. (Davvero ho un poco di rossore a vederlo).

GIU. Che c'è, signor don Alessandro?

ALESS. Niente è qui il notaro.

GIU. Consolatevi colla signora donna Aurelia, che è sposa del signor don Ridolfo, e va con esso in Moscovia.

ALESS. Me ne consolo. (ironicamente)

AUR. Obbligatissima. (caricandolo)

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Aspasia e detti

ASP. Siete voi, che mi ha fatto chiamare? (a donna Giulia)

GIU. Io no.

ASP. Mi hanno detto ch'io era domandata. Se ho sbagliato, compatitemi, anderò via.

GIU. No, no, restate (Crede che non si capisca la sua grande accortezza). (ironicamente)

ASP. (Mi verrebbe volontà di precipitare).

GIU. Può essere che vi domandi don Alessandro.

ASP. Che vuol da me? Eccola lì la sua cara. (accennando donna Aurelia)

GIU. Donn'Aurelia è sposa di don Ridolfo, e partirà a momenti per Peterburgo. Signor notaro, voi siete chiamato per questo. Rogate i sponsali fra questi due, e poi faremo qualche altra cosa.

NOT. Sono a servirla. (va al tavolino, si accostano li due suddetti, e scrive)

ASP. (Dice davvero dunque).

GIU. Don Alessandro, fate il vostro dovere con donna Aspasia.

ASP. Eh! lo dispenso.

ALESS. Deh! se le grazie profusero in voi la bellezza...

ASP. Sguaiataggini.

ALESS. V'inspiri il cielo altrettanta pietà.

ASP. Freddure.

ALESS. Vi domando perdono.

ASP. Non vi abbado.

ALESS. Eccomi a vostri piedi. (s'inginocchia)

ASP. Andate al diavolo. (lo getta in terra)

GIU. Così lo trattate?

ASP. Merita peggio.

GIU. In casa mia?

ASP. Fossi in casa del principe.

GIU. Dunque non volete pacificarvi?

ASP. Non voglio.

GIU. Lo licenziate dunque?

ASP. Quante volte ve l'ho da dire?

GIU. Oh! bene; quand'è così, favorite: questi sono due fogli. In uno vi è la conferma della vostra parola con don Alessandro. Nell'altro vi è lo scioglimento. Sottoscrivete quel che vi pare. Se poi negherete di farlo, troverò io la maniera di concludere senza di voi.

ASP. E ho da risolvere in questo momento?

GIU. Sì, certo. Sono stanca d'impazzire per voi.

ASP. Date qui quei fogli. Vi farò vedere chi sono. (altiera)

GIU. Teneteli. (donn'Aspasia va al tavolino)

ALESS. Aspetto la mia sentenza. Donn'Aspasia vuol vendicarsi. (a donna Giulia)

GIU. Chi sa? Vi odia meno che non credete. (a don Alessandro)

ASP. Eccomi, donna Giulia. Non sono quella donna che voi credete. Supero ogni passione, vinco la mia ripugnanza, e a voi riconsegno il foglio di mia mano segnato. Sì, il foglio che a mio dispetto mi obbliga, e per sempre mi lega a quel barbaro di don Alessandro.

GIU. Viva l'eroica azione di donna Aspasia!

ALESS. Ah pietosissimo mio tesoro!

ASP. Ingrato!

GIU. Signor notaro, rogate quest'altro foglio.

SCENA ULTIMA

Don Properzio, Fabrizio e detti

PROP. Signora, ecco il suo segretario.

GIU. (Il suo cambiamento è sincero).

FABR. Eccomi nuovamente all'onor di obbedirla.

GIU. Sì, ho piacere di avervi ricuperato. Vi ringrazio di aver avvisata per me donn'Aurelia, e vi prego innanzi sera di farmi venir la mia cameriera. Intanto, alla presenza vostra e del signor don Properzio, seguiranno questi due matrimoni. Donna Aurelia, vi servirò io in luogo di madre. Son certa che donna Fulgida sarà contenta; date la mano a don Ridolfo.

AUR. Eccola. (porge la mano a don Ridolfo)

RID. L'accetto, e vi do la mia fede.

GIU. A voi, signori. (a don Alessandro e a donn'Aspasia)

ALESS. Deh! accordatemi la vostra mano. (a donn'Aspasia)

ASP. Sì, per dispetto. (gli dà la mano)

GIU. Signor notaro, fate quel che va fatto.

NOT. Benissimo.

PROP. Signora donna Giulia, non si potrebbe fare una cosa?

GIU. E che cosa?

PROP. Tornare a far di nuovo il nostro matrimonio?

GIU. E perché? Non è forse ben fatto?

PROP. Finora è stato un matrimonio arrabbiato, vorrei che ne cominciassimo un pacifico.

GIU. Sì, per questo buon fine non vi è bisogno di rinnovare gli sponsali. Basta rinnovellare i costumi, e prendere una migliore strada. Io baderò all'economia della casa, e procurerò di rendermi degna del vostro compatimento. Voi lasciatemi in pace, e non m'inquietate nel mio carteggio, ne' miei maneggi. Questi servono al mio piacere, ed al bene de' miei amici: piacere onesto, che distingue la donna nobile dalle donne volgari.

Fine della commedia