La donna forte

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LA DONNA FORTE

di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di cinque Atti in Versi Martelliani, fu per la prima volta rappresentata in

Venezia nell'Autunno dell'Anno .

AL NOBILE ED ERUDITISSIMO CAVALIERE

IL SIGNOR CONTE

GIROLAMO TORNIELLI

A tre qualità di persone, Illustrissimo Signor Conte, soglio io dedicare le mie Commedie: a Cavalieri illustri, a Letterati insigni, ed a cordiali Amici e Padroni. Ecco dunque, che per tutte e tre le ragioni spronar mi sento a dedicarne una anche a Lei, Cavaliere cospicuo, Letterato ornatissimo, ed Amico e Padrone mio benignissimo. La verità è nota al Mondo delle mie due prime proposizioni, cioè del motivo della di Lei nobiltà, e della di Lei dottrina. Sono piene le Storie d'Italia, e specialmente quelle di Lombardia, degli antichissimi fregi della nobilissima Famiglia de' Conti Tornielli, originaria della Città di Novara, ma arricchita di Feudi, di Signorie, di dignità Ecclesiastiche, e Militari, e Civili, che fu carissima all'Imperador Carlo Quinto, ai primi Duchi della Savoia, ed a quelli della Lorena, insignita della Nobiltà Milanese, grande e rispettata fin dal duodecimo secolo, e cresciuta in meriti e dignità per le gloriose gesta di tanti Eroi che ha prodotto.

Pari al nobilissimo di Lei sangue, è altresì la di Lei notissima letteratura, estesa non meno alle profonde scienze, che alle belle lettere, e alle belle arti. L'esquisitissima Poesia è in Lei un adornamento, ma però è tale, che basterebbe da sé solo a renderla illustre, e meritevole d'alta lode; poiché tanto nello stile grave, che nel faceto, spicca ne' versi suoi l'amplissima erudizione, il pensar giusto e maturo, e l'ottimo gusto in simile facoltà, incantatrice amena e piacevole de' cuori umani. Ella conosce il merito de' migliori antichi, e sa imitare di loro il meglio, senza rendersi schiavo, adattando perfettamente la lodevole imitazione al gusto del nostro secolo, rendendo piacevoli i modi antichi, e non con affettazione stucchevoli ed annoianti. Fonte perenne di bei pensieri e la di Lei chiarissima fantasia, fecondata vieppiù dallo studio e dalla seria sua applicazione, rendendo Ella giustizia a' Maggiori suoi col farsi degna di loro, poiché il più bell'ornamento de' Cavalieri è l'essere adornati di sapere, di gentilezza e di cortesia.

Questi ultimi fregi, che si ammirano nell'amabilissima di Lei Persona, somministrano a me il terzo motivo della mia dedica, risguardandola, per me fortunatamente, come gentilissimo mio Padrone, e mi permetta il dirle, mio amorosissimo Amico. L'Amicizia verso le persone di minor grado non disonora le più riguardevoli, quand'ella principalmente deriva da un cuor buono, e da un certo compiacimento su qualche circostanza fondato. Ella mi ama e mi protegge, perché le pare ch'io non sia persona oziosa nel Mondo, perché trova in me, se non il sapere, un buon desio di sapere, e malgrado la mia insufficienza, si compiace vedermi battere il sentiere, da Lei coltivato, delle persone che studiano. Ciò tutti veggono, e tutti sanno, ma tutti non mi amano, com'Ella mi ama, anzi per lo contrario vi son di quelli che con aspri modi m'insultano; è forza dunque dell'amicizia in Lei, che mi compatisce, e mi difende, e mi onora. Grandissimo è il bene e la consolazione che da questo di Lei prezioso dono io ne traggo, ponendo la protezione e l'amicizia sua a fronte degl'insultarti, sicuro d'averli con questo mezzo avviliti. Ecco le mie vendette, Signore, ecco le mie difese. Cavalieri illustri, che mi proteggono; letterari insigni, che mi consolano; amici


rispettabili, che mi degnano della loro predilezione. Ella con questi tre titoli cortesemente mi onora, ed io per le medesime tre ragioni questa Commedia qualunque siasi, umilmente le dedico, e le consacro, protestandomi con profondissimo ossequio

Di V. S. Illustriss.

Umiliss. Devotiss. Obbligatiss. Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Se convenga o disconvenga alla Donna, protagonista di questa Commedia, il titolo di Donna forte, ne potrà giudicar chi la legge. Le circostanze certamente in cui ella si trova, esigono una estraordinaria fortezza di animo e di mente, e riuscendo ad essa favorevole la sua condotta e la sua costanza, pare a me che non sia indegna di un titolo sì specioso.

Comparve questa Commedia sulle scene sott'altro titolo, cioè con quello di Sposa fedele; ma per variare il titolo, fu altresì necessario ch'io variassi in qualche parte la condizion della Donna, facendola Sposa promessa, e non Consorte, come ora l'espongo, e come prima l'avea formata. Fu creduto che per l'azione teatrale fosse meglio esposta in carattere solamente di Sposa. Io ho obbedito, ma l'azione non potea riuscire che languida e snervata. Eccola, Lettor carissimo, nella sua purità, e ne puoi giudicare secondo l'animo tuo, sicuro che il pubblico non l'ha veduta, come ora è, ma come ho dovuto fare per un'onesta necessità.


Personaggi

Il MARCHESE di Monte Rosso.

La MARCHESA di lui consorte.

Donn'ANGIOLA sorella della Marchesa.

Il CONTE RINALDO promesso a donn'Angiola.

Don FERNANDO.

REGINA cameriera della Marchesa.

PROSDOCIMO confidente di don Fernando.

FABRIZIO cameriere della Marchesa.

Un UFFIZIALE.

Un SERVITORE.

SOLDATI.

La Scena si rappresenta nel Feudo del Marchese di Monte Rosso.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Fernando.

Don Fernando e Prosdocimo.

FER.                  Questa volta, Prosdocimo, convien che adoperiate

Quel valor, quel coraggio, che posseder vantate.

Di fedeltà non parlo: l'arcano ch'io vi svelo,

So che custodirete con gelosia, con zelo;

Altrimenti facendo, l'avrete a far con me;

Ma vi conosco in questo, e da temer non c'è.

Chiedovi adunque aiuto nel caso in cui mi trovo;

Or d'un uom, qual voi siete, l'abilitade io provo.
PRO.                 Ridere voi mi fate parlando in tal maniera.

Dubitate di me? guardatemi alla ciera.

Vi par che questi baffi, vi par che questi musi,

Manchino di coraggio, e a paventar sian usi?

Quanti ammazzar ne deggio? porgetemi la lista.

Se fossero anche dieci, li ammazzo a prima vista.
FER.                  Può darsi che l'affare vi metta in un cimento,

Ed userete allora la forza e l'ardimento.

Per or, caro Prosdocimo, adoperarvi io voglio

Di una femmina sola a superar l'orgoglio.
PRO.                 Come! con una donna ho a cimentar l'onore?

Per sì debole impresa un uom del mio valore?
FER.                  Perdonatemi, amico, io già non vi domando

Che andiate ad attaccare la femmina col brando.

Basta che le parole non adopriate invano.
PRO.                 Ditelo, in confidenza, vi ho da fare il mezzano? (placido)

FER.                  Non ardirei di esporvi a un simile esercizio.

PRO.                 Se di ciò mi parlaste, vedreste un precipizio.

FER.                  Dite, il conte Rinaldo è da voi conosciuto?

PRO.                 Lo conosco, e stamane in piazza io l'ho veduto.

FER.                  Vi ha detto nulla?

PRO.                                             Nulla.

FER.                                                       Non si sarà arrischiato,

Perché sa che voi siete un uomo delicato.

So ch'ei volea offierirvi dieci zecchini, e poi

Non ha avuto coraggio di favellar con voi.
PRO.                 Voleva offrire il Conte dieci zecchini a me?

E di dirmi tal cosa non ebbe ardir? Perché?

Sa ch'io son galantuomo, sa quel che fare io so.

Vuol che ammazzi qualcuno? Son qui, l'ammazzerò.


FER.                  Non vuol sangue per ora. Brama (non vi adirate)

Brama che ad una donna in suo favor parliate.

PRO.                 M'offre dieci zecchini, sol che per lui favelli?

FER.                  Sì, non andate in collera, ruspidi, nuovi e belli.

PRO.                 Ditemi in cortesta, s'io prendo un tal impegno.

Vi può essere il caso che alcun si muova a sdegno?

FER.                  Certo che si potrebbe destar qualche sospetto.

PRO.                 Quando vi son pericoli, più volentieri accetto.

Io soglio andare in traccia di risse e di rumori, Lo so quai precipizi soglion produr gli amori. Accetterò l'impegno con patto e condizione D'ammazzare a drittura chi al suo voler si oppone.

FER.                  Di lei probabilmente si opponerà il marito.

PRO.                 Si opponga anche il demonio, accetterò il partito.

Chi è la donna, signore?

FER.                                                          La Marchesa del Sale.

PRO.                 Cospetto! suo marito è un cavalier bestiale.

FER.                  Ma il Marchese suo sposo in Napoli non è.

PRO.                 No? Son qui, comandatemi, fidatevi di me.

FER.                  Di voi ha fatto scelta il Conte amico mio,

Perché sa chi voi siete e vi conosco anch'io. Oltre il vostro coraggio, si sa pubblicamente, Che voi solete in casa andar frequentemente; E si sa che Regina, serva della Marchesa, Volentieri vi vede, e che di voi s'è accesa. Dunque con questo mezzo, e col sottile ingegno, Potete compromettervi di riuscir nell'impegno.

PRO.                 Niente è a me difficile; ma almen saper vorrei:

Che cosa vuole il Conte; cosa ho da dire a lei?

FER.                  Vi confido l'arcano: ei la Marchesa ha amata,

Pria che fosse al Marchese dal genitor legata. Ella gli corrispose, fin che libera fu; Dopo ch'è maritata, con lui non tratta più. Ed egli, per non essere di casa discacciato, Della di lei cognata si è finto innamorato. Trovandosi in impegno un dì fra quelle porte, Donn'Angiola al Marchese richiesta ha per consorte, Ma poi di ciò pentito, pien di mestizia ha il seno, Brama che la Marchesa sappia il mistero almeno. Brama una conferenza con lei segretamente; Sia di notte, o di giorno, il tempo è indifferente. Basta che si solleciti; e tosto, in sul momento, Mi dà i dieci zecchini, ed io ve li presento.

PRO.                 Non vuol altro che questo?

FER.                                                             Altro da voi non vuole.

PRO.                 Signor, mi maraviglio, io non vendo parole.

Per parlare a una donna mi vuol pagar? Cospetto! S'ei mel dicesse in faccia, gli perderei il rispetto. Parlerò alla Marchesa, e colla serva ancora; Procurerò che accordisi per visitarla un'ora. Accetterò i zecchini ch'egli offerisce a me,


Non per queste freddure; vi dirò io perché. Perch'egli allora quando a conferir sen vada, Io di far mi esibisco la guardia in sulla strada. E se alcuno volesse sturbar la conferenza, Sia chi esser si voglia, l'ammazzo di presenza. Questo è quel che si paga. Un galantuomo io sono; Vendo i fatti soltanto, e le parole io dono. (parte)

SCENA SECONDA

Don Fernando solo.

FER.                  Il poltrone conosco, comprendo i vanti sui,

Ma in un simile incontro, bisogno ho anch'io di lui.

Parli pur per il Conte; quest'invenzion mi giova

Il cuor della Marchesa per mettere alla prova.

S'ella condiscendente si vuol mostrar col Conte,

Posso sperare anch'io, posso scoprir la fronte;

E arrendersi potrebbe a un uom che un giorno ha amato,

Pria che a me, che il mio foco ancor non le ho svelato.

Ma, cuor mio, che pretendi da lei, che d'altri è sposa?

Ah lo veggo pur troppo, la fiamma è perigliosa.

Ma troppo fieramente son dall'amore oppresso,

E sentomi pur troppo capace d'ogni eccesso.

Se l'onor della donna contrasta alla mia sorte,

Mi resta una lusinga nel fin di suo consorte.

Egli morir potrebbe... Non ho coraggio a dirlo,

Ma sentomi di dentro, che ho cuor di concepirlo.

Tentisi pria di tutto scoprire il di lei cuore,

Vagliami la finzione, pria di parlar d'amore.

Ceda al Conte, o resista, di lui valermi io voglio;

Vo' per ultimo mezzo adoperar l'orgoglio.

Amor brama la pace, ma se il destin contrasta,

Usa gl'insulti ancora, quando il pregar non basta.

SCENA TERZA

Un Servitore e detto; poi il Conte Rinaldo.

SER.

Signore, un'ambasciata.

FER.

Chi viene?

SER.

Un cavaliere.

FER.

E chi è?

SER.

Il conte Rinaldo.

FER.

Venga; mi fa piacere. (il Servitore parte)

Pare ch'egli lo sappia, che favellargli io bramo.

Ho piacer ch'egli venga, e che fra noi parliamo.


CON.                Amico, perdonate s'io vengo a disturbarvi.

FER.                  Conte, non dite questo. Potete assicurarvi,

Che un piacer mi recate, che volentier vi vedo, Che vi son buon amico.

CON.                                                        (Ai labbri suoi non credo). (da sé)

Vengo per domandarvi, se voi sapete il giorno Che il marchese Rinaldo a noi farà ritorno. Donn'Angiola mi dice ch'egli non vien per ora, E la Marchesa istessa non sa nïente ancora.

FER.                  Veramente l'altr'ieri mi scrisse in confidenza,

Che l'aria di collina gli giova in eccellenza, Che colà si diverte con ottima partita, E che la sua venuta sarà ancor differita.

CON.                Spiacemi un tal ritardo.

FER.                                                       Perché? Per sua sorella

L'amor sì fortemente vi cruccia e vi martella? So pur, Conte carissimo, che sol per un impegno La chiedete in isposa; e or vi preme a tal segno?

CON.                So che mi siete amico; con voi vo' confidarmi.

Anzi da un tal contratto vorrei disimpegnarmi. Conosco che donn'Angiola a forza vi acconsente, Io non fui, non ne sono acceso estremamente; E se ad altri è inclinata, da lei non spero amore. (Di costui, se è possibile, vo' penetrar nel core). (da sé)

FER.                  Per chi mai vi credete donn'Angiola impegnata?

CON.                Lasciate ch'io vi parli nella mia foggia usata.

Veggo dal suo contegno, veggo dagli occhi suoi, Né di ciò me ne offendo, che inclinerebbe a voi.

FER.                  A me?

CON.                          Sì, caro amico. Forz'è ch'io me ne avveda.

FER.                  Sarà, quando lo dite. (Ho piacer ch'ei lo creda). (da sé)

CON.                Non vo' coll'altrui danno formar la mia rovina.

(Fingo di non sapere che alla Marchesa inclina). (da sé)

FER.                  Dunque con questa pace a me la rinunziate?

CON.                So quel che mi conviene.

FER.                                                          Lo so perché lo fate.

Parliamoci fra noi, ma che nessun ci senta: L'amor per la Marchesa tuttavia vi tormenta. Voi l'adoraste un giorno, prima che fosse sposa, Ancor nel vostro seno la piaga è sanguinosa; Né basta a medicarla tentare un altro affetto, Se il primo ha già piantate le sue radici in petto. Quella vera amicizia che passa in fra di noi, Fa ch'io risenta al vivo la compassion per voi. Se mi cedete un cuore che vostro esser dovria, Anch'io per amicizia vo' far la parte mia. Confidatevi a me, se la Marchesa amate, E ad onta d'ogni ostacolo nell'opra mia fidate.

CON.                Ma il marito?

FER.                                        Le cose non si pon fare a un tratto;

Si fa il secondo passo, quando il primiero è fatto.


Veggiam prima di tutto, veggiam se la Marchesa

Di voi segretamente si è mantenuta accesa.

Un segreto colloquio seco aver procurate;

Procurerollo io stesso, se a me vi confidate.

So che la donna austera sfuggirà un tal periglio,

Ma io saprò trovare chi le darà il consiglio.

Basta che non si mostri nemica apertamente,

Basta che ad ascoltarvi conoscasi indulgente.

Quando la donna ascolta, quando a trattar si espone,

Sagrifica col tempo all'amor la ragione.
CON.                Di lei formar potete questo pensier sì ardito,

Che tradire ella possa l'onor di suo marito?
FER.                  No, non vo che noi siamo di lei mal persuasi,

Ma, Conte mio carissimo, si potrian dar dei casi.

Il Marchese è suggetto a malattia frequente,

Sollecitar potrebbe il fin d'ogni vivente.

E poi ho rilevato da un certo testimonio,

Ch'andata è la Marchesa forzata al matrimonio.

Quand'ella lo accordasse in questo o in altro modo,

Sciogliere si potrebbe delle sue nozze il nodo.
CON.                (Del suo pensiero indegno veggo, conosco il fine). (da sé)

FER.                  Della fortuna, amico, deesi afferrare il crine.

Giovane è la Marchesa, bella, gentil, vezzosa,

Sola di sua famiglia antica e doviziosa.

So che vi ha amato un giorno, credo che vi ami ancora,

Veggo che il vostro cuore con gelosia l'adora.

Non vi do fatto il colpo; ma il disperar non giova,

E pochissima pena vi ha da costar la prova.

Date a me la licenza di procurarne il modo?
CON.                Fate quel che vi pare.

FER.                                                    Sì, di servirvi io godo.

Un domestico affare sollecitar mi preme.

Trattenetevi, amico; noi partiremo insieme.

E forse innanzi sera, e forse da qui a poco,

Del segreto colloquio vi saprò dire il loco.

Di donn'Angiola poscia ragionerem fra noi;

Potremo, s'ella mi ama, sentir i pensier suoi.

Per sciogliervi con essa noi troverem l'impegno.

(La fortuna finora seconda il mio disegno). (da sé, e parte)

SCENA QUARTA

Il Conte solo.

Perfido, ti conosco. So che tu celi in seno L'amor per la Marchesa; certo ne sono appieno. Ma se tu sei mendace, accorto anch'io mi rendo, E l'onor della dama di preservare intendo. Sì, l'amai, lo confesso; ma dal dover convinto,


Son del suo sposo amico, ed ho l'amore estinto. Per evitar col tempo di ripigliar l'amore, Alla di lei cognata sagrificato ho il cuore. Donn'Angiola è mia sposa, data ho la mia parola, Sciogliere non mi deggio, e sposerò lei sola. Veggo di don Fernando l'inganno e la malizia, Giovami coll'astuto di fingere amicizia. Vedrò fin dove giunga la sua passione ardita; Vo' difender la dama a costo della vita. (parte)

SCENA QUINTA

Camera della Marchesa.

La Marchesa e Regina.

REG.                 Signora, un galantuomo brama parlar con lei.

LA M.               E chi è costui?

REG.                                          Prosdocimo.

LA M.                                                             Cosa vuol?

REG.                                                                                 Non saprei.

LA M.               Parlar con certa gente il labbro mio non suole.

Va tu, cara Regina, chiedigli cosa vuole.
REG.                 E se a me non vuol dirlo?

LA M.                                                          Vedi se puoi sottrarmi.

È un uom facinoroso, di lui non vo' fidarmi.
REG.                 No, signora padrona, ella è male informata.

Prosdocimo è fratello di Livia mia cognata,

Né ho mai sentito dire ch'ei sia facinoroso.

Egli non ha altro male, se non ch'è puntiglioso.

Si scalda, se taluno ad insultar lo viene;

Per altro le assicuro ch'è un giovane dabbene.
LA M.               Basta, se vuol parlarmi, posso ascoltarlo ancora;

Ma non voglio star sola.
REG.                                                         Ci sarò io, signora.

(Mi preme che l'ascolti. Non ho coraggio in petto

Di dire alla padrona tutto quel che mi ha detto). (da sé, e parte)

SCENA SESTA

La Marchesa, poi Prosdocimo.

LA M.               So che costui suol essere soverchiamente ardito;

L'ho veduto più volte con don Fernando unito, E so che don Fernando mi fa lo spasimato. Non vorrei che Prosdocimo fosse da lui mandato. Ma se ardirà l'audace mandarmi un'imbasciata,


Si pentirà d'avermi con ardir provocata.
PRO.                 Servo, signora mia.

LA M.                                              Dov'è andata Regina?

PRO.                 Che volete da lei?

LA M.                                              La voglio a me vicina.

PRO.                 Di che avete timore? Quand'io vi sono appresso,

Non abbiate paura di Satanasso istesso.

Lo so che siete sola, senza il vostro consorte;

Ma quando ci son io, si ponno aprir le porte.

Se avete dei nemici, se alcun venir si vede,

Io gli spacco la testa, e ve la getto al piede.
LA M.               Regina. (forte)

SCENA SETTIMA Regina e detti.

REG.

Mia signora.

PRO.

Non abbiate timore.

LA M.

Non ho timor, vi dico, non ho sì vile il cuore,

Di nemici non temo, in casa mia non vi è

Chi ardisca, chi presuma, venir senza di me.

Delle vostre sciocchezze ridere son forzata.

Ma spicciatevi tosto.

PRO.

V'ho a fare un'imbasciata.

LA M.

E per chi?

PRO.

Per un certo padron mio venerando...

LA M.

Dite: quel che vi manda, è forse don Fernando?

PRO.

Non signora. È quell'altro.

LA M.

Quell'altro? e chi sarà?

PRO.

Sarà il conte Rinaldo.

LA M.

Che vuol?

PRO.

Vuol venir qua.

LA M.

Brama il conte Rinaldo venir in casa mia?

Ora non vi è il mio sposo, dee aspettar ch'ei ci sia.

Lo sa pur che il Marchese venir gli ha proibito,

Fino che di donn'Angiola non veggasi marito.

REG.

Signora, il vostro sposo, per dir la verità,

Con queste sottigliezze è un torto che vi fa.

Non bastagli che voi vegliate a custodirla?

Ha paura il padrone che vengano a rapirla?

LA M.

Di simili faccende che sa la gente sciocca?

Tu di ciò perché parli?

REG.

Parlo, perché ho la bocca.

PRO.

Certo, la tua padrona è savia ed è prudente.

Non deve il signor Conte venir pubblicamente.

Con voi di un certo affare vuol ragionare un poco.

Verrà segretamente, dategli il tempo e il loco.

LA M.

Taci; mi maraviglio del tuo parlare audace.


So chi è il conte Rinaldo; di ciò non è capace.

Egli non ardirebbe proporre ad una dama

Cosa tal che potrebbe offendere la fama.

È noto a tutto il mondo, che fummo amanti un giorno,

D'altri il destin mi fece, e a delirar non torno.

Ma un segreto colloquio potria recar sospetto,

Che la fiamma già spenta mi rinascesse in petto.

S'egli a me ti ha diretto, digli che son pentita

D'avere amato un giorno un'anima sì ardita.

Digli che si rammenti il suo dovere e il mio;

Che se passion l'accieca, debole non son io.

Digli che si vergogni d'aver di me pensato...

Ma no, il conte Rinaldo non ti averà mandato.

Sa il ciel qual reo disegno tu vai nutrendo in cuore.

Perfido, ti conosco, tu sei un impostore.

Vattene da me lungi; qui non tornar mai più. (Prosdocimo mostra timore)

Va, che mi sei sospetta, indegna, ancora tu. (a Regina)

Pieno di tristi è il mondo, ho di ciascun sospetto;

Ma vacillar non puote la mia costanza in petto. (parte)

SCENA OTTAVA

Regina e Prosdocimo.

REG.                 Hai sentito?

PRO.                                    Ho sentito.

REG.                                                      E non ti muovi a sdegno?

PRO.                 Di altercar colle donne, lo sai ch'io non mi degno.

Se un uom mi avesse detto sol la metà di quello

Che mi disse costei, gli mangerei il cervello.
REG.                 Qualche volta mi pare che abbi un po' del poltrone.

PRO.                 Regina, io vo pensando ad un'altra ragione.

Spiacemi aver perduti, per i suoi stolti eccessi,

Quei bei dieci zecchini, che mi erano promessi.

Ed io per certe cose son puntiglioso assai,

E quando mi promettono, non mi mancano mai,

E non mi mancheranno, li voglio, o tardi o tosto.

Voglio i dieci zecchini, li voglio ad ogni costo;

E se non me li danno, in testa l'ho fissata,

Al Conte e a don Fernando menerò una stoccata.
REG.                 E s'essi ti menassero qualcosa in su la testa?

Se accoppar ti facessero?
PRO.                                                         Vi mancheria ancor questa. (con qualche apprensione)

Farò così: ho pensato sfuggire un precipizio.

Voglio usar questa volta l'astuzia ed il giudizio.

Vo' far credere al Conte, e a don Fernando istesso,

Che in casa la Marchesa accordagli l'accesso.

Farò che il Conte creda che ad ascoltarlo inclini,

E mi daranno subito i miei dieci zecchini.


REG.

Ma se poi nol riceve?

PRO.

Riceverlo dovrà,

Quando che tu lo voglia; Regina mia, vien qua:

Due zecchini per te, se l'introduci, e poi,

Quando sarà introdotto, ch'ei pensi ai casi suoi.

Che ti par del progetto?

REG.

Due zecchini per me?

PRO.

Subito te li porto.

REG.

Se fossero almen tre.

PRO.

E non conti per nulla aver al tuo comando

Un uom che alle occasioni sa adoperare il brando?

Un uom che, se qualcuno ti dà qualche molestia,

È capace di farlo morir come una bestia?

REG.

Appunto avrei bisogno di far star a dovere,

Con un po' di paura, di casa il cameriere.

PRO.

Dimmi, cosa ti ha fatto?

REG.

Sposarmi ei mi ha promesso,

Mi ha data la parola, e poi mi manca adesso.

PRO.

Dov'è costui?

REG.

Osserva, ch'ei viene a questa volta.

Fagli un po' di spavento.

PRO.

Regina un'altra volta.

REG.

No no, già che la sorte lo manda in questo punto,

Fallo tremare un poco.

PRO.

Mi vuoi mettere al punto?

Son qui, non mi ritiro. Venga, mi sentirà.

REG.

Favorisca, signore. (verso la scena)

SCENA NONA

Fabrizio e detti.

FAB.

Padrona, eccomi qua.

Che cosa mi comanda? (ironico)

REG.

Nulla, padrone mio. (ironica)

(Ditegli qualche cosa). (a Prosdocimo)

PRO.

(Ho da principiar io?) (a Regina)

REG.

(Sì, principiate voi).

PRO.

Signor mio garbatissimo,

Sapete voi chi sono?

FAB.

Vi conosco benissimo. (con rispetto)

PRO.

Questa giovine, a cui faceste promissione,

Sapete voi che ha il merito della mia protezione?

FAB.

Davver? Non lo sapeva.

PRO.

Ora che lo sapete,

Fate il vostro dovere; se no, vi pentirete.

FAB.

Ma, signor, se il permette, qualche cosa ho in contrario

Sposarla io non mi sento.

PRO.

Voi siete un temerario.


Ella è da me protetta, sposatela a drittura;

Se tardate un momento, vi mando in sepoltura.
REG.                 Sì, sposarmi dovete. Codesta è un'insolenza.

PRO.                 Non vi è tempo da perdere.

FAB.                                                               Signor, con sua licenza.

Vado, e ritorno subito.
PRO.                                                      Dove?

FAB.                                                                  Poco lontano.

Sì, signor protettore, or or le do la mano. (parte e torna)
PRO.                 Che vi pare? Son uomo?

REG.                                                         Temo di qualche imbroglio.

PRO.                 Che temer? Che temere? Farà quello ch'io voglio.

FAB.                 Eccomi di ritorno. Anch'io la protezione

Godo, signor Prosdocimo, del protettor bastone.

Se ho da sposar Regina ho domandato ad esso;

Ed egli mi ha risposto, che vuol sposarsi anch'esso.

Domandai chi è la sposa; l'ho domandato appena,

Rispose: di Prosdocimo voglio sposar la schiena.

Onde, s'ella comanda, senz'altri testimoni,

Possiamo stabilire questi due matrimoni.
PRO.                 Bravo, è un uomo di spirito; mi piace in verità.

Non merita un insulto, lo lascio in libertà.

Per or la schiena mia prender non vuol marito.

Regina, a rivederci. Padron mio riverito. (parte)
FAB.                 Scacciar la mia padrona mi ha imposto quell'indegno.

Se di qua non partiva, adoperavo il legno.

E voi, garbata giovane, che colui praticate,

Coi bindoli suoi pari a maritarvi andate.
REG.                 Ah poltron, poltronaccio; ostenta la bravura,

E poi lo fa un bastone morir dalla paura?

Ma quanti fan com'esso bravate a tutt'andare,

E poi nell'occasione si veggono a tremare. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera della Marchesa.

La Marchesa sola.

Che è mai quest'inquietudine che nel mio core io sento?

Pace, calma, riposo non trovo un sol momento.

Dopo che quel ribaldo mi fe' quell'imbasciata,

Misera! son rimasta confusa ed agitata.

Penso, che se non fosse dal Conte a me spedito,

Di mentir senza causa non averebbe ardito;

E se lo manda il Conte, vi sarà il suo mistero.

Chi sa mai quale arcano nasconda il suo pensiero?

E s'egli di un colloquio mi prega instantemente,

Cosa temer io posso da un cavalier prudente?

Riceverlo potrei di mia cognata in faccia,

Di femmina imprudente per isfuggir la taccia:

Ma forse con donn'Angiola tacere io lo vedrei;

Chi sa ch'egli non m'abbia a ragionar di lei?

Dunque o deggio esser sola, o a lui negar l'accesso.

No, no, meglio è che al Conte venir non sia permesso.

Del marito ai comandi sempre sarò qual fui;

Ritornerà il Marchese, potrà parlar con lui.

Forse se qualcun altro bramasse visitarmi,

Potrei senza il marito tal libertà pigliarmi;

Ma il Conte più d'ogni altro altrui può dar sospetto,

Ed io gelosamente serbo l'onore in petto.

Correre la risposta lasciam che gli ho mandata,

Non tentiam la passione che un giorno ho superata.

La ragion, la prudenza, sostenga il mio decoro,

La domestica pace è il massimo tesoro;

E a costo di un rammarico sagrificar conviene

Un piacer passaggiero per posseder tal bene.

SCENA SECONDA

Regina e detta; poi il Conte.

REG.                 Signora, io non ne ho colpa.

LA M.                                                             Di che?

REG.                                                                           Non so che dire:

Per forza il signor Conte ha voluto venire.


LA M.               Per forza?

REG.                                 Sì, signora.

CON.                                                  Vi domando perdono;

Ardito a questo segno, signora mia, non sono.

Prosdocimo mi ha detto, che voi mi aspettavate.
LA M.               Prosdocimo è un ribaldo. Donde veniste, andate.

CON.                A un cavalier d'onore perdonate, Marchesa,

Questo vil trattamento è una soverchia offesa.

Per dir la verità, venir non ho cercato;

Ma poiché qua mi trovo, il ciel mi avrà mandato.
LA M.               Come! non fu da voi Prosdocimo spedito?

CON.                No certo.

LA M.                               Ed a qual fine avrà colui mentito?

CON.                Se mi udirete in pace vi svelerò un arcano,

Per cui forse il destino non mi conduce invano.
LA M.               Deh svelatemi adunque per qual cagion l'indegno

La macchina ha inventata per pormi in un impegno.
CON.                Tutto da me saprete, ma vuol la convenienza

Ch'io di ciò non vi parli dei servi alla presenza.
REG.                 Oh per me vado via, non ho curiosità.

(Prosdocimo è servito. La mancia ei mi darà). (da sé, e parte)

SCENA TERZA La Marchesa ed il Conte.

LA M.               (Povera me! per quanto mi sforzi a ripararmi

Par che il destino istesso congiuri ad insultarmi). (da sé)

CON.                Ah Marchesa, nel dirvi quel che a dir son forzato,

Son per vostra cagione nell'alma addolorato. So che vi darà pena l'ardir di un temerario, Ma pel vostro decoro saperlo è necessario.

LA M.               Non mi tenete in pena. So che a soffrir son nata;

Ai colpi della sorte quest'alma ho preparata. Superate ho finora tante sventure e tante; Nei novelli perigli non sarò men costante.

CON.                Noto vi è don Fernando.

LA M.                                                       Mi è noto il prosontuoso.

CON.                Egli per voi nel seno serba l'amore ascoso:

Ma un amore perverso che tende ad insultarvi, Che medita le insidie tramar per guadagnarvi. Di me tenta valersi, che sa quanto vi ho amato; Sperar nell'amor vostro testé mi ha consigliato; Ma tanto il tristo fine coprir non può l'astuto, Che un uom, che non è stolido, non se ne sia avveduto. Conosco il cuor mendace. Vuole che innanzi io vada A' suoi disegni occulti ad appianar la strada. Brama che di me siate novellamente accesa, Onde la virtù vostra più debole sia resa,


Sperando che, accecata dalle lusinghe altrui,

Siate costretta un giorno a paventar di lui.

Finsi di non capire i suoi disegni oscuri,

Perché di un altro mezzo servirsi ei non procuri.

Mostrai la grazia vostra di sospirare io stesso;

Lasciai ch'egli mandasse sotto mio nome il messo.

Venni per avvertirvi; so che donna avvisata

Più facile si rende soccorsa e preservata.

Deh accettate, signora, della mia stima in segno,

E del mio zelo in prova, quest'onorato impegno.
LA M.               Siete per me impegnato onestamente, il veggio,

Ma la condotta vostra disapprovare io deggio.

Perdonatemi, Conte, non si dovea quell'empio

Nella macchina occulta tentar col mal esempio.

E voi, se l'amor mio seco sperar mostrate,

L'onor mio calpestando, è un torto che mi fate.

Dissimular volendo il suo disegno espresso,

Doveva un cavaliere difendere se stesso.

Risponder dovevate al perfido consiglio

Colle rampogne in bocca, e col furor nel ciglio.

Era vostro dovere rispondere all'ingrato:

Non tenta un nobil cuore un animo onorato.

La Marchesa conosco, conosco il suo costume,

So che l'onore apprezza, so che la fé è il suo nume.

So che tradir lo sposo la femmina è incapace.

E chi tal non la crede, è un temerario audace.

S'egli scopertamente svelava il suo disegno,

Era di minacciarlo vostro preciso impegno.

Io che femmina sono, al mio dover non manco.

Voi per qual fin portate codesta spada al fianco?

Difendere le dame opra è da cavaliere:

Un uom merita lode, facendo il suo dovere.

Se in pubblico si avesse scoperto il nero inganno,

Sopra di lui sarebbe l'onta caduta e il danno.

E se il Marchese istesso fosse di ciò avvisato,

Di un animo sincero il zelo avria lodato.

Ora presso del mondo voi pur siete in sospetto;

Vanterà don Fernando da voi quel che fu detto.

E il raccontar non giova, che lo faceste ad arte;

Creder vi vorrà il mondo de' rei disegni a parte.

Onde per non accrescere all'onor mio un periglio,

Quanto è con lui seguito, tacere io vi consiglio.

Giovami che avvertita resa mi abbiate, è vero;

Dalle insidie sottrarmi più facilmente io spero.

Ma di ciò non parlate. L'onor ve lo contrasta;

Per difender me stessa, tanto ho valor che basta.

Provisi pur l'audace; di svergognarlo aspetto

Colla virtude al fianco, colla costanza in petto.
CON.                Nacqui pur sfortunato! Misero pure io sono!

Se ho potuto spiacervi domandovi perdono.

Ma raccogliete almeno, ch'è l'intenzion sincera,


E che da voi non merito una rampogna austera.
LA M.               Compatite s'io dico quel che nel core io sento.

Il mio stil rammentate.
CON.                                                     Ah sì, me lo rammento.

So che ognor vostro pregio fu la sincerità.

Il destin mi ha rapita la mia felicità.
LA M.               Orsù, Conte, partite, voi siete un uom d'onore;

Ma non siamo padroni talor del nostro cuore.

Voi un giorno mi amaste, vi amai non poco anch'io,

La vostra vicinanza fa ombra all'onor mio.

Donn'Angiola fra poco dev'esser vostra sposa.

Pur troppo ella di me suol essere gelosa.

Pur troppo mia cognata col labbro un poco ardito

Destò la gelosia nel cuor di mio marito.

Ve lo ridico, andate.
CON.                                                  Parto, se il comandate.

L'idea di don Fernando scoprir non trascurate.

Tacerò, se il volete, fino ad un certo segno;

Ma saprò anch'io le tracce seguir di quell'indegno.

E se avanzarsi io vegga il suo pensiere insano,

Non direte che al fianco porti la spada invano. (parte)

SCENA QUARTA

La Marchesa sola

Potea più dolcemente accogliere l'avviso, Potea con lui mostrarmi più mansueta in viso. Ma chi fu amante un giorno, se docile mi sente, Potria le antiche fiamme destar novellamente. Ah sì, se il cuor del Conte vo' misurar col mio, Creder per me lo deggio qual per lui sono anch'io. Spento nell'alma, è vero, violentemente ho il foco, Ma a riaccender le fiamme, oh vi vorria pur poco. Dell'umana prudenza séguito il buon consiglio: Di cader non ha dubbio chi sfugge il suo periglio. Di Fernando non temo l'arti, l'insidie e l'onte; Più di lui, lo confesso, può spaventarmi il Conte.

SCENA QUINTA

Donn'ANGIOLA e la suddetta.

ANG.                È permesso, signora?

LA M.                                                 Venite pur, cognata.

Cos'avete, donn'Angiola? Mi parete turbata.
ANG.                Quando vien mio fratello?


LA M.                                                          Doveva esser venuto.

La caccia e i buoni amici l'averan trattenuto.

Tosto ch'egli ritorna, sarete consolata,

E delle vostre nozze fisserem la giornata.
ANG.                Siete l'arbitra voi di questo dì fatale?

LA M.               Perché fatal chiamate il giorno nuzïale?

So pur che di tal nodo vi chiamate contenta.
ANG.                Eh, la mia contentezza, per quel ch'io vedo, è spenta.

LA M.               Per qual ragion? Del Conte potete voi lagnarvi?

ANG.                Non so che dir; se parlo, non vorrei disgustarvi.

LA M.               Parlate pur.

ANG.                                   Ch'ei mi ami, sperar non mi conviene;

S'ei viene in questa casa, certo per me non viene.

E se servire io deggio d'inutile pretesto,

Schernita esser non voglio, lo dico e lo protesto.
LA M.               Voi parlate assai male, signora mia compita;

Compatisco l'amore che vi fa meco ardita.

È ver, venuto è il Conte a ragionar con me:

A voi non è bisogno che dicasi il perché.

Lo saprà mio marito. Perciò non mi confondo,

Ma ai rimproveri vostri con più ragion rispondo.

S'egli non vien per voi, se di servir pensate

D'inutile pretesto, dite, di che parlate?

Arrivereste forse, nel fabbricar lunari,

A offender indiscreta l'onor di una mia pari?

A chi servir credete d'inutile pretesto?

A una dama ben nata? a un cavaliere onesto?

Di voi mi maraviglio. Vi ho tollerato assai;

Tutto donarvi io posso, ma l'onor mio non mai.
ANG.                Troppo vi riscaldate. Di voi non ho sospetto.

Ma perché viene il Conte di furto in questo tetto?
LA M.               Di furto? Egli è venuto di giorno, apertamente.

ANG.                Viene da voi soltanto, e a me non dice niente?

LA M.               Noto vi è che il Marchese non vuol che in queste porte

Venga a vedervi il Conte, pria di esservi consorte.
ANG.                Lo so che mio fratello su questo ha i dubbi suoi,

Ma se da me non viene, non dee venir da voi.
LA M.               Io son moglie alla fine.

ANG.                                                     Eh signora cognata,

La donna è sempre donna, ancorché maritata.
LA M.               Voi eccedete a un segno, che tollerar non posso.

ANG.                (La gelosia mi mette cento diavoli addosso). (da sé)

LA M.               Possibile, cognata, ch'io veggami ridotta

A rendere sospetta altrui la mia condotta?

Dopo ch'ebb'io l'onore di essere in questa casa,

Mi ho dimostrato al mondo di debolezze invasa?

Che sfortuna è la mia? Che pensamento è il vostro?

Facciam, cognata mia, facciamo il dover nostro.

Portatemi rispetto, che credo meritarlo;

Non temete del Conte, saprò giustificarlo.

A lui, pensando male, voi commettete un torto.


E se insultarmi ardite, le ingiurie io non sopporto.
ANG.                Meno caldo, Marchesa; ditemi solamente

Perché il Conte è venuto da voi segretamente.
LA M.               Dirvi di più non deggio.

ANG.                                                        Se a me nol confidate,

De' miei giusti sospetti dunque non vi lagnate.
LA M.               Che di voi non mi lagni per un sospetto indegno?

Più che a parlar seguite, più mi movete a sdegno.

Obbligo ho di svelarvi quel che è a me confidato?

Chi siete voi, signora? quale poter vi è dato?

Vi venero e rispetto del sposo mio qual suora;

Ma dipender da voi non ho creduto ancora.

So che mi avvelenate il cuor di mio marito;

Ma non ho già per questo lo spirito avvilito.

Esamino me stessa, mi onora il mio costume,

Séguito ad occhi chiusi della ragione il lume.

E se gloriarmi io posso senza rimorso alcuno,

Non ho, ve lo protesto, paura di nessuno.
ANG.                Serva sua. (licenziandosi)

LA M.                               Riverisco.

ANG.                                                  Perdoni.

LA M.                                                                In avvenire,

Quando meco parlate, frenate il vostro ardire.

Son femmina sincera; quello che ho in cuore, io dico.
ANG.                Eh, ne son persuasa. (No, non le credo un fico). (da sé, e parte)

SCENA SESTA

La Marchesa sola.

Che tracotanza è questa? Fino sugli occhi miei, Gl'insulti, le rampogne, ho da soffrir da lei? Dunque, per soddisfarla, dovrei svelare ad essa Quel che vorrei, potendo, nascondere a me stessa? No, non saprallo ad onta del suo parlare ardito. Ah, pur troppo mi duole che il sappia mio marito. Vorrei da me medesima mortificar l'indegno, Senza veder lo sposo con esso in un impegno. Ma se con lui favella la garrula germana, Se lo mette in sospetto, la mia prudenza è vana. Deggio per mia salvezza, deggio per l'onor mio, Palesare un arcano che ho di celar desio. Rimproveri non temo, se faccio il mio dovere. Nasca quel che sa nascere, l'onor dee prevalere.

SCENA SETTIMA


Don Fernando e la suddetta, poi Prosdocimo.

FER.                  Perdonate, Marchesa...

LA M.                                                    Qual ardire è cotesto?

FER.                  Scusatemi, vi prego; non vi sarò molesto.

LA M.               Venir senza imbasciata?

FER.                                                          A ragion vi dolete.

Non ritrovai nessuno.
LA M.                                                 Servitori, ove siete? (chiamando)

FER.                  No, per portar le sedie d'uopo non vi è di loro.

Farò io. (si frappone, perché non si accosti alla porta)
LA M.                            Giusti numi, salvate il mio decoro.

FER.                  Se di seder vi aggrada...

LA M.                                                       Vo' i domestici miei.

FER.                  Se vi occor qualche cosa... Prosdocimo, ove sei?

PRO.                 Eccomi qui, signore.

LA M.                                                 Come? Avete coraggio

Di ricondurmi in faccia quel seduttor malvaggio?

E tu, perfido, ardisci tornare in casa mia?
PRO.                 Cospettone! (facendo il bravo)

LA M.                                  Fabrizio. (chiamando forte)

PRO.                                                   Signora, io vado via. (mostrando paura)

FER.                  Cara Marchesa mia, sol compiacervi io bramo.

Vattene, e non ardire tornar, se non ti chiamo.
PRO.                 Vi aspetto nella sala. (Ma fatemi un servizio,

Procurate non venga quel diavol di Fabrizio). (a don Fernando)
FER.                  (Hai paura di lui?)

PRO.                                                (Paura? Cospettone!) (a don Fernando)

(Mi fa un po' di paura il protettor bastone). (da sé, e parte)

SCENA OTTAVA La Marchesa e don Fernando.

LA M.               Ditemi, don Fernando, di me cosa pensate?

Atterrirmi credete? Signor, voi v'ingannate.
FER.                  Atterrirvi, Marchesa? Perché? per qual disegno?

Quel che da voi mi guida, è un intrapreso impegno.

Dite, quant'è che il Conte da voi non fu veduto?
LA M.               Non è molto, signore; poc'anzi è qui venuto.

FER.                  Da voi fra queste mura viene il Contino accolto;

E quand'io mi presento, veggovi accesa in volto?

Credete ch'io non sappia dei vostri antichi amori

Le riaccese faville, i rinnovati ardori?

Ma saprò compatirvi; basta che a me lo dite.

Voi l'adorate il Conte.
LA M.                                                    No, non è ver. Mentite.

FER.                  Della vostra mentita offendermi non voglio.

In voi tutto mi piace; mi piace anche l'orgoglio.


Compatisco una donna che brama altrui celarsi,

Ma a dispetto del cuore amor suol palesarsi.

A me noto è il mistero. Vi nascondete invano;

So che vi amate ancora, ed ho le prove in mano.
LA M.               Con voi garrir non voglio; quel che vi par, pensate.

FER.                  Potete voi negarmi?...

LA M.                                                    Da queste soglie andate.

FER.                  A bell'agio, Marchesa. Vi è noto il grado mio.

Se può venire il Conte, posso venirvi anch'io.
LA M.               A qual fine, signore?

FER.                                                    A quel medesmo oggetto,

Per cui celar vi piacque l'amante in questo tetto.
LA M.               Torno a ridirvi in faccia, un mentitor voi siete.

FER.                  Ah ch'io deggio adorarvi, ancor che mi offendete.

LA M.               Come! a moglie onorata parlasi in guisa tale?

FER.                  Parlo con quel linguaggio che parla il mio rivale.

LA M.               Lo saprà mio marito.

FER.                                                    Sappialo, e gli sian noti

Della moglie infedele e dell'amante i voti.

Io troverò la strada di rendere palese

L'insidia che si tenta al credulo Marchese.

So quel che il mondo dice, so quel che disse il Conte,

So i segreti colloqui, so i tradimenti e l'onte;

E se di usar vi piace meco un trattar villano,

Di continuar la tresca vi lusingate invano.
LA M.               Perfido! nelle vene sento gelarmi il sangue;

Par che mi punga il cuore una cerasta, un angue.

Avrete core in petto sì barbaro, sì ardito,

Di tradire una sposa, di offendere un marito?

So che la mia innocenza di voi temer non puote;

So che le trame indegne il ciel renderà note.

Ma quanto ha da costarmi il riacquistar la pace,

Se me l'usurpa ingrato un traditor mendace?

Deh, se credete al nume regolator del cielo,

Se l'onor conoscete e della fama il zelo,

Se umanità nudrite, se l'onestade amate,

Gl'insulti a un'infelice di procacciar cessate.
FER.                  Qual duro cor potrebbe resistere all'incanto

Di una beltà cui rende ancor più vaga il pianto?

No, non son io sì crudo, che tormentarvi aspiri;

Basta che non si veggano scherniti i miei sospiri.

Vi sarò, lo protesto, amico e difensore,

Bastami che crudele non mi negate amore.
LA M.               Anima scellerata, d'amor tu mi favelli?

Soffri che reo ti chiami, che traditor ti appelli.

A delirar cogli empi non è il mio core avvezzo.

La pace che m'involi, non compro a questo prezzo.

Usa, se puoi, l'inganno. Mirami a tuo dispetto

Non paventar gl'insulti coll'innocenza in petto.
FER.                  Veggiam fin dove arriva di femmina l'ardire.

Voi dovrete, Marchesa, o cedere, o morire.


LA M.               Pria morir, che avvilirmi.

FER.                                                          Olà.

SCENA NONA

Prosdocimo e detti.

PRO.                                                               Mi ha domandato?

LA M.               Che vuoi, ministro indegno di un seduttor malnato?

PRO.                 A me?

FER.                            Qui non vi è scampo; amor mi ha reso cieco.

Questo stile importuno pensate a cangiar meco.

Solo un sguardo amoroso tutto il mio sdegno ammorza,

E se l'amor non giova, dee prevaler la forza.
LA M.               (Soccorretemi, o numi). (da sé)

PRO.                                                      Ma che vergogna è questa?

Non vi ha già domandato un occhio della testa.

Per un tenero sguardo si fa tanto rumore?

Se aveste a far con me, vorrei cavarvi il cuore.
LA M.               Non siete sazi entrambi di tormentarmi ancora?

FER.                  No, abbandonar non voglio quel bel che m'innamora.

Se dell'onor vi cale, sia l'onor vostro illeso;

Non è il cuor d'un amante ad oltraggiarvi inteso.

Morte disciolga il nodo che vi ha al Marchese unito,

Libera ritornate, di voi sarò marito;

O se del vostro sposo vi vuole amor pietosa,

Non siate a me nemica non siate a me ritrosa.

L'uno o l'altro partito eleggere potete;

Se i ricusate entrambi, dell'ira mia temete.

Sarò per cagion vostra pronto a qualunque eccesso.

Risolvete, Marchesa, in sul momento istesso.
LA M.               Perfido, ho già risolto. Sono al mio sposo unita,

Serberò la mia fede a lui fin che avrò vita;

E tu, se ti cimenti, vedrai se ho cuore in petto...
PRO.                 Fuor delle nostre mani non fuggirà, al cospetto.

Se fosser cento donne, vorrei disfarle in brani,

Innanzi che potessero fuggir dalle mie mani.

O se fossero tigri, se fossero leonesse,

Cedere alla mia forza dovrebbero ancor esse.

Date a me la licenza di metterla a dovere,

E non son quel ch'io sono, se non la fo tacere.

SCENA DECIMA
Fabrizio e detti.
FAB.                 Quai rumori son questi?


LA M.                                                       Ah Fabrizio carissimo.

PRO.                 (Mostra timore)

FER.                  Ti perdi di coraggio? (a Prosdocimo)

PRO.                                                   Servitore umilissimo. (parte)

FAB.                 Che è accaduto, signora? (alla Marchesa)

LA M.                                                       Ah! mancami il respiro...

Favellare non posso... Andiam nel mio ritiro.

Le anime, amor scorretto, a quai perigli esponi?

Perfido don Fernando, il ciel ve lo perdoni. (parte)
FAB.                 (vuol seguir la Marchesa)

FER.                  Fabrizio.

FAB.                                 Mio signore.

FER.                                                       Prendi, e tacer t'impegna. (gli offre una borsa)

FAB.                 Non accetto una borsa per un'azione indegna. (parte)

FER.                  Se testimon sei stato della mia trama ardita,

Se di tacer ricusi, perder dovrai la vita.

E tu, femmina ingrata, che l'amor mio deridi,

Vedrai quanto t'inganni, se in tuo valor confidi.

Già ho principiato il corso del mio cammin funesto,

Dalla tentata impresa per tema io non mi arresto.

Vedrem chi più di noi sarà costante e forte.

Se l'amor mio non cura, giuro vendetta, o morte. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Fernando

Don Fernando, poi Servitore.

FER.                  Il marchese Riccardo di prevenir mi giova;

Spedirò questo foglio in villa ov'ei si trova.

Spero che ritornando verrà fra queste soglie,

Pria di veder nessuno, pria di veder la moglie.

Egli che ancor dell'ombre suol prendere sospetto,

Verrà, perch'io gli spieghi il mister del viglietto.

Chi è di là?
SER.                                     Che comanda?

FER.                                                             Immantinente io voglio,

Che al marchese Riccardo spedisca questo foglio.
SER.                  Egli verrà a momenti. Veduto ho il suo lacché.

FER.                  Il lacché del Marchese?

SER.                                                       Or or parlò con me.

Dissemi che il padrone l'avea spedito innante,

E che sarà egli stesso da noi poco distante.
FER.                  Disseti la cagione, onde a venir si appresta?

SER.                  Parmi che mi dicesse che gli dolea la testa;

Che cambiatosi il tempo, risolse in un momento

Di lasciar per quest'anno il suo divertimento.
FER.                  Di qui dovrà passare. Fermati sulla strada:

Digli che da me scenda pria che da lui sen vada;

Digli che ho da svelargli cosa di sua premura;

E s'ei venir ricusa, chiamami a dirittura.
SER.                  Sì, signore.

FER.                                     Mi sembra lo strepito sentire

Dei cavalli di posta. Vanne, non differire. (il Servitore parte)

SCENA SECONDA

Don Fernando solo.

Inutile è la carta. Talor lo scritto nuoce.

Meglio sarà ch'io cerchi di favellargli a voce. (straccia la lettera)

Sento fermar le sedie. Sarà il Marchese, io credo.

Ah mi palpita il cuore, ma per viltà non cedo.

Quel che ho fissato in mente, voglio condurre al fine,


A costo d'ogni impegno, a costo di ruine.

Son dall'amore acceso, son dal dolore oppresso;

Vo' vendicar gl'insulti... Ecco il Marchese istesso.

SCENA TERZA

Il Marchese ed il suddetto.

IL M.                 Eccomi ai cenni vostri.

FER.                                                       Marchese mio, venite;

Se incomodo vi reco, di grazia, compatite.

Se la cagion non fosse pressante a dismisura,

Non avrei procurato vedervi in queste mura.

Da voi sarei venuto, quale il dover m'insegna,

Ma l'affare è geloso, e a segretezza impegna.
IL M.                 Ora e in ogni altro tempo dispor di me potete.

Vostro amico mi vanto, quale voi pur mi siete.
FER.                  Di perfetta amicizia darvi desio una prova.

Quando di onor si tratta, dissimular non giova.

Compatite l'amore che il zelo mio trasporta...

Che non ci senta alcuno. Vo a chiudere la porta. (la chiude)
IL M.                 (Ahimè, qualche sventura a danno mio pavento.

Da mille tetre immagini inorridir mi sento). (da sé)
FER.                  Or la cagion vi svelo del mio pressante invito.

Siete offeso, Marchese, e nell'onor tradito.
IL M.                 Nell'onor? Chi m'insulta?

FER.                                                          La vostra sposa istessa,

Da un altro amor sedotta, dalla passione oppressa.
IL M.                 Oh ciel! la sposa mia vile sarà a tal segno?

Chi è colui che l'accende? chi è il traditore indegno?
FER.                  Egli è il conte Rinaldo.

IL. M.                                                     Quel che di mia germana

Esser dovria lo sposo, quel l'onor mio profana?

Ah compatite, amico, se co' miei dubbi eccedo.

Facile è l'ingannarsi, tal fellonia non credo.
FER.                  Vi compatisco. Io pure ciò non avrei creduto,

Se non avessi il vero cogli occhi miei veduto.

Un segreto colloquio ebbe con essa il Conte;

Uscir di casa vostra lo vidi a fronte a fronte.

Dissimulai la tema ch'ei vi facesse oltraggio,

Tentai di rilevare il suo pensier malvaggio;

Ed ebbe l'ardimento, senza verun rossore,

Di svelar le sue trame, di confidarmi il cuore.

Fremea dentro me stesso nell'ascoltar l'audace,

Ma suscitar non volli la critica mendace.

L'onor troppo è geloso. La pubblica vendetta

Può rendere la fama a scapitar soggetta.

Necessario è il silenzio quanto il riparo istesso;

Si ha da celare al mondo il temerario eccesso.


E se la colpa è chiusa fra le pareti ancora,

Ciò pubblicar non deve chi la sua fama onora.
IL M.                 Sono fuor di me stesso. Mi arde di sdegno il petto.

Si laveran col sangue le macchie del mio tetto.

A rivedervi, amico... Oimè, qual tetro orrore

Mi ricerca le vene, e mi avvilisce il cuore?

Vile la sposa mia? la mia diletta infida?

Pria che crederla tale, un fulmine mi uccida.

Ella di onor, di fede, fu sempre mai l'esempio...

Ma che non pon le insidie di un seduttor, di un empio?

Vissero amanti un giorno. Spento mi parve il foco;

Ma un amor radicato tutto non cede il loco.

Restano le scintille del concepito amore,

E una scintilla ancora può ravvivar l'ardore.

Ah son tradito, amico, ah mia vergogna estrema!

Vo' vendicar miei torti... ma il piè vacilla, e trema. (vuol partire, e poi si arresta)
FER.                  Sì, sfogatevi pure con chi può dar consiglio;

Ma non vogliate esporvi ad un maggior periglio.

Se la consorte ingrata voi rimirate in viso,

Chi può sottrarvi il cuore da un turbine improvviso?

Se di me vi fidate, prenderò io l'impegno

Di vendicar gl'insulti, senza vibrar lo sdegno.

Sappia la sposa vostra, che note al suo consorte

Son le fiamme che nutre: sappia ch'è rea di morte.

Ma se pietà richiede, pietà ritrovi il modo

Di renderla ai congiunti, e di disciorre il nodo.

Si sa che al vostro talamo dal genitor forzata

Venne d'un altro amante la donna innamorata,

E far valer si puote di chi governa in faccia

Del genitor severo l'impegno e la minaccia.

S'ella non è più vostra, l'offesa a voi non resta,

Siete da lei disciolto, e la ragione è onesta.
IL M.                 No, vederla non soffro di un mio nemico in braccio.

Altro fuor che la morte non può troncare il laccio.

Muoia la traditrice, sento gridar l'onore;

Ma di vederla almeno mi suggerisce il cuore.
FER.                  Voi l'adorate ancora.

IL M.                                                   L'amo, ve lo confesso.

FER.                  Degna vi par d'amore rea di sì nero eccesso?

IL M.                 Ma se fosse innocente?

FER.                                                       Dunque son io mendace.

IL M.                 Non può mentir piuttosto quel temerario audace?

FER.                  Il colloquio è seguito.

IL M.                                                   Quando?

FER.                                                                   Saran due ore.

IL M.                 Vicino alla mia sposa chi vide il seduttore?

FER.                  Vidi il suo turbamento, m'accorsi da' suoi detti

Della perfida tresca.
IL M.                                                   Sono tutti sospetti.

FER.                  Orsù, finor vi ho detto di tai sospetti il meno.

Voglio dell'amor vostro disingannarvi appieno.


Dopo del Conte, io stesso passai dalla Marchesa,

La ritrovai confusa, la riconobbi accesa;

Negar non mi ha saputo l'amor che nutre in petto:

Lo disse non volendo, lo disse a suo dispetto.

Ed a rimproverarla, dal zelo mio portato,

Onte, insulti, minacce contro di me ha scagliato.
IL M.                 Come! voi pure ardiste entrar nelle mie soglie?

Voi lasciar vi sentiste rimproverar mia moglie?

Serbar mi consigliate silenzio in caso tale.

E voi con imprudenza faceste il maggior male?

Non so più che pensare, confuso io mi confesso.

Dubito degli amici, dubito di me stesso.

Vil non sarò, il protesto, se avrò l'error scoperto;

Ma l'error della sposa parmi per anche incerto.
FER.                  Orsù, se l'amor vostro vi accieca a questo segno,

Compatitemi, amico, siete d'aiuto indegno.

Né vi credea capace di tanta debolezza.

Vuol meritar gl'insulti chi l'onor suo disprezza.
IL M.                 Troppo vi riscaldate. Lodo d'amico il zelo;

Ma dai confusi detti la verità non svelo.

Cauto l'ira eccitata saprò celare in seno,

Fin che il cuor della sposa giunga a scoprire appieno.

Di ciò non vi offendete, alfin di me si tratta;

Vano è il ritrarre il passo, quando la corsa è fatta.

Né vo' scagliare il colpo fin che il delitto è incerto.

Voi dell'opra amorosa, voi non perdete il merto.

Vi sarò buon amico, se il mio decoro amate;

Ma l'amor di un marito perciò non condannate.

Se rea scopro la sposa, seco sarò inclemente;

Ma non lo credo ancora, ma la desio innocente. (si apre da sé la porta, e parte)

SCENA QUARTA

Don Fernando solo.

Peggio ho fatto finora, sperando di far bene; Ma meditando inganni, poco sperar conviene. Tuttavia non mi perdo. Fu un colpo ben pensato Prevenire il Marchese che in casa io sono entrato. Se da lei, se dai servi il mio garrir si accusa, Fu provvido consiglio il prevenir la scusa; Che se amico mi riesce passar presso al Marchese, Posso sperar un giorno di vendicar le offese. Quel che d'altri più temo, è il camerier malnato, Che con villano orgoglio la borsa ha ricusato. Ma saprò quell'audace punir in modo tale, Che per lui non mi possa succedere alcun male. Prosdocimo. (chiamando)


SCENA QUINTA Prosdocimo ed il suddetto.

PRO.                                       Signore.

FER.                                                       D'uopo ho del tuo coraggio.

PRO.                 Muoio di volontà di darvene un buon saggio.

FER.                  Esser vogliono fatti, e non parole.

PRO.                                                                        E bene,

Che si faccian dei fatti. Da ridere mi viene. A me voi dite questo? A me, che son quell'uomo Bravo da tagliar teste, come si taglia un pomo? A me, che se mi trovo esposto ad un cimento, Non mi fanno paura, se fossero anche in cento? Perché credete voi che mi abbiano cassato Dal ruol dei militari, dove da pria son stato? Perché se qualcheduno faceami un mezzo torto, Diceano immantinente, questo soldato è morto; E se quel che mi dite un altro avesse detto, Io gli averei cacciato questa mia spada in petto.

FER.                  Quando averò veduto una bravura sola,

Crederò quel che dici, ti do la mia parola. Ma fin che sol ti vanti, non credo alle bravate.

PRO.                 Oh cospetto di bacco! Il valor mio provate.

FER.                  Or da te mi abbisogna un picciolo servizio.

PRO.                 Comandatemi pure.

FER.                                                 Devi ammazzar Fabrizio.

PRO.                 E non altro?

FER.                                     Non altro.

PRO.                                                      Gli trarrò le cervella.

FER.                  Hai coraggio di farlo?

PRO.                                                      Questa è una bagattella.

FER.                  Se ti offro sei zecchini dimmi, ti faccio un torto?

PRO.                 Non signor, fate conto che Fabrizio sia morto.

FER.                  Cercalo fuor di casa.

PRO.                                                   Lo sfiderò alla spada.

FER.                  Ma in un luogo remoto.

PRO.                                                      Su la pubblica strada.

FER.                  Ma se vengono i sbirri?

PRO.                                                         Cospetto! io son chi sono;

Se vengono gli sbirri, li ammazzo quanti sono.

FER.                  Basta, di te mi fido; all'occasion sii pronto.

PRO.                 Si potrebbono avere due zecchinetti a conto?

FER.                  Eccoli; se l'uccidi, questi di più ti dono;

Ma se poltron ti veggo, sul mio onor, ti bastono. (parte)

SCENA SESTA


Prosdocimo solo.

Non occor che s'incomodi con un tal complimento.

So usar, quando bisogna, l'astuzia ed il talento.

Ha da morir Fabrizio per le mie man, lo giuro.

In corpo di sua madre da me non è sicuro.

È ver che fino adesso nessun non ho ammazzato;

Ma sarò un uom terribile, quando avrò principiato.

Parmi già di vederlo tremar dalla paura;

Subito che l'incontro, l'infilzo a dirittura.

E se vien col bastone? Non mi vo' spaventare;

Finalmente un bastone non può che bastonare.

E s'egli sulla schiena mi dà una bastonata,

Mentre che ha il braccio in aria, gli tiro uno stoccata.

SCENA SETTIMA

Fabrizio e detto.

FAB.                 Oh di casa.

PRO.                                    (Cospetto! eccolo qui il birbone). (con un poco di paura)

FAB.                 Ditemi, galantuomo, è egli qui il mio padrone?

PRO.                 Non so nulla, signore.

FAB.                                                      So pur che è qui venuto.

PRO.                 (Oh, se in là si voltasse!) (da sé) Io qui non l'ho veduto.

FAB.                 (Povera mia padrona! Vive in un gran sospetto).

PRO.                 (Se mi volta la schiena, gli misuro un colpetto). (mostrando di voler cacciar la

spada)
FAB.                 Avanzatevi un poco, parliam con confidenza.

PRO.                 Mi perdoni, signore, so la mia convenienza. (mostrando star indietro per rispetto, e

facendo qualche riverenza)
FAB.                 Don Fernando è sortito?

PRO.                                                         Credo di sì, signore.

FAB.                 Dov'è andato? il sapete?

PRO.                                                         No, da suo servitore.

FAB.                 (Temo che don Fernando abbia col mio padrone

Qualche insidia tramata). (da sé)
PRO.                                                      (Seco non ha il bastone). (disponendosi a cacciar la spada)

FAB.                 Galantuom, cosa fate? (accorgendosi)

PRO.                                                      Ho male a questa mano.

FAB.                 (Costui vuole insultarmi; non lo sospetto invano).

PRO.                 (Voltati un poco in là). (come sopra)

FAB.                                                      (Stiamo a vedere un poco,

Dove di quel poltrone va a terminare il gioco). (mostra voltarsi, ma sta con

attenzione)
PRO.                 (Ora mi sembra a tiro). (tira fuori la spada)

FAB.                                                      Cosa vuol dir, signore? (voltandosi in fretta)

PRO.                 Pulisco la mia spada, non abbiate timore.


FAB.

Ora che mi sovviene, anch'io voglio bel bello

Levare un pocolino la ruggine al coltello. (tira fuori un coltello, e mostra di pulirlo)

PRO.

Servo suo riverente (vuol partire con timore)

FAB.

Di qua non se ne vada. (minacciandolo)

PRO.

Che cosa mi comanda?

FAB.

Favorisca la spada.

PRO.

La spada mia?

FAB.

Perdoni, la vo' vedere un poco.

PRO.

È lama della Lupa. (gli dà la spada con paura)

FAB.

Per attizzare il foco.

Vada, se vuol andare.

PRO.

Mi favorisce il brando?

FAB.

Glielo darò domani.

PRO.

A lei mi raccomando.

FAB.

Servitore umilissimo.

PRO.

La spada mia, signore.

FAB.

Gliela darò nei fianchi.

PRO.

Grazie del suo favore.

FAB.

Padron mio riverito.

PRO.

Servidore obbligato.

FAB.

Poltronaccio, insolente. (parte)

PRO.

Eccomi disarmato.

Corpo di satanasso! A me codesto torto?

Voglio cavarti il cuore. (Fabrizio si fa vedere con la spada)

Gente, aiuto, son morto. (fugge via, battendo la testa in una

scena)

SCENA OTTAVA

Camera di donn'Angiola

Donn'ANGIOLA sola.

Dica quel che sa dire, a ragion mia cognata Temo del Conte accesa, se un dì fu innamorata. Perché farlo venire solo a parlar con lei? E perché il testimonio sfuggir degli occhi miei? Ah, che non vedo l'ora che torni il mio germano. Ch'io taccia, mia cognata può lusingarsi invano. Son nel debole colta, la gelosia mi sprona, Ed a soffrir gl'insulti non sarò io sì buona. Stelle! chi vedo mai? Tornato è mio fratello? Egli la sposa ardita può mettere in cervello. E se prima del tempo veggolo a noi tornato, Per rimettermi in calma il ciel l'avrà mandato.

SCENA NONA


Il Marchese e la suddetta.

IL M.                 Come state, donn'Angiola?

ANG.                                                           Male, fratello mio.

IL M.                 Male? che vi sentite?

ANG.                                                  Non lo so né men io.

IL M.                 Ma pur de' vostri incomodi vi sarà una cagione.

ANG.                Provien la mia tristizia da interna agitazione.

IL M.                 Confidatevi meco, se vi poss'io giovare.

ANG.                Sì, giovar mi potete, ma non vorrei parlare.

IL M.                 Non mi tenete in pena, il vostro cuor svelate.

Tutto farò per voi, certissima ne siate.

Cosa che a voi convenga, non vi negai finora.
ANG.                La Marchesa vedeste?

IL M.                                                      Non l'ho veduta ancora.

Per la scala segreta tacito son venuto,

Alcun della famiglia venir non mi ha veduto.

E per ponere in chiaro certi sospetti miei,

Sono da voi passato pria di passar da lei.
ANG.                Ah pur troppo i sospetti saran verificati.

Ditemi, i suoi deliri vi fur notificati?
IL M.                 Di chi?

ANG.                             Della Marchesa...

IL M.                                                            Qualche cosa ho sentito.

ANG.                Ella è accesa del Conte.

IL M.                                                         (Ah, mi ha la rea tradito). (da sé)

Venne da lei l'indegno?
ANG.                                                     Venne celatamente.

IL M.                 Per qual fin? Con qual mezzo?

ANG.                                                                 Nessuno seppe niente.

So che lo vidi io stessa entrare in queste soglie;

So che segretamente parlò con vostra moglie.

Stetter mezz'ora insieme, poi si partì confuso,

Guardandosi d'intorno qual chi tradire ha in uso.

Passai da mia cognata col turbamento in volto;

Veggola sostenuta, e minacciarmi ascolto.

Tutti segni veraci che ancor nel di lei cuore

Arde segretamente il suo primiero amore.
IL M.                 Siam traditi, germana. Siam tutti due traditi;

Ma se n'andran, lo giuro, i traditor pentiti.

Vorrei veder Fabrizio, il camerier fidato;

Tutto saprà narrarmi quando ne sia informato.
ANG.                So ch'ei voleva al feudo venire a ritrovarvi;

Qualche cosa di grande Fabrizio ha da narrarvi.

Ei si trovò presente, mi pare, allora quando

S'udì vostra consorte gridar con don Fernando.
IL M.                 Dunque è ver che Fernando anch'egli è qui venuto.

ANG.                Verissimo, signore, io stessa l'ho veduto.

IL M.                 Fedelissimo amico, tu mi dicesti il vero;

Or riconosco il zelo del tuo parlar sincero.


Se a te commisi un torto scemandoti la fede,

Ora l'error comprendo, ed il mio cuor ti crede.
ANG.                A don Fernando ancora nota è la tresca indegna?

IL M.                 Sì, l'amico i miei torti di vendicar s'impegna.

ANG.                Quale pensiere è il vostro in simile periglio?

IL M.                 Non so; del fido amico accetterò il consiglio.

Lascierò di vedere per or la sposa infida.

Chi sa, s'io la rimiro, dove il furor mi guida?

La scellerata offesa sento nel cuore a segno,

Che contener nel seno più non poss'io lo sdegno.

Vo' saper da Fabrizio quel che svelarmi ei vuole;

Fate che alcun mel guidi senza formar parole.

La Marchesa non sappia ch'io son nel vostro quarto.

Il camerier si cerchi; senza di lui non parto.
ANG.                Farò che una mia donna lo trovi immantinente.

Di lei posso fidarmi; altrui non dirà niente.

Ma vi consiglio intanto a moderare il foco;

Potete la Marchesa mortificar con poco.

A voi non manca il modo di farlo in guisa tale,

Onde il rimedio stesso non sia peggior del male.

Col Conte io vi consiglio di regolar lo sdegno;

Se la donna l'invita, ei di perdono è degno.

Esser con lei dovete assai più rigoroso.

(Bramo di vendicarmi, senza smarrir lo sposo). (da sé, e parte)

SCENA DECIMA

Il Marchese solo.

Di regolar lo sdegno so che prudenza impone,

Ma chi può mai vantarsi padron della ragione?

Questo poter sublime a noi dal ciel donato

Talor dalla passione è vinto e dominato,

E chi frenar dell'ira può la passione ultrice,

Può vantarsi nel mondo di vivere felice.

Fuggirò di vederla fin che si calmi il foco...

Scellerata, sugli occhi mi viene in questo loco? (osservando verso la scena)

Ah, l'onor mi sollecita che di mia man l'uccida.

Aiutatemi, o numi, a tollerar l'infida.

SCENA UNDICESIMA

La Marchesa ed il suddetto.

LA M.               Signor, degna non sono?

IL M.                                                         No, che non sei più degna

Che a rivederti io venga, perfida donna indegna.


Togli da me quel volto che può ispirarmi orrore.

Fino il tuo nome istesso vo' cancellar dal core.

Di comparirmi in faccia fosti cotanto ardita,

Col tuo delitto in petto, colla mia fé tradita?

Vattene da me lungi, t'abborro e ti detesto,

Anima senza fede.
LA M.                                              Che favellare è questo?

Con tai villani oltraggi si parla ad una dama?

Contro il marito istesso vo' garantir mia fama.

Ho nelle vene un sangue che al suo dover non manca:

Con chi l'onor mi tocca, son risoluta e franca.

Della mia vita istessa l'arbitro, è ver, voi siete,

Ma nell'onor, signore, a rispettarmi avete.
IL M.                 Chi dell'onor si pregia, alla passion non cede;

Rispettare non deggio chi mancami di fede.
LA M.               Chi vi manca di fede?

IL M.                                                      Il vostro cuore audace.

LA M.               Chi di accusarmi ardisce, è un traditor mendace.

Dove poc'anzi andaste, dove vi trovo adesso,

Lo so che si congiura contro il mio sangue istesso.

Ma una germana ingrata, che di oltraggiarmi ardì,

Ma un scellerato amico conoscerete un dì.
IL M.                 Ogni perfido core, per mendicar la scusa,

Suol tentar cogl'insulti discreditar l'accusa.

No, più garrir non voglio con una donna ardita,

Perfida, le menzogne ti han da costar la vita.
LA M.               Questa minaccia orribile non forma il mio spavento.

Salva la mia innocenza, di morire acconsento.

Provami la mia colpa, se hai tal potere, ingrato.
IL M.                 Non provocarmi, altera.

LA M.                                                       Sfido la morte e il fato.

IL M.                 Qual fato a te sovrasta, dica il tuo cuore insano.

La morte che tu sfidi, l'avrai dalla mia mano.

So quel che tu facesti, so quel che a me si aspetta.

Non attendo discolpe; vo a meditar vendetta. (parte)

SCENA DODICESIMA

La Marchesa sola.

Non ti avvilir, mio core. Se il barbaro non t'ode, Cerca per altra strada di smascherar la frode. Vezzi, preghiere e pianti ora non sono al caso; Li crederebbe inganni il fier marito invaso. Vagliami il giusto orgoglio, vagliami la costanza; Chi ha l'innocenza in petto, può parlar con baldanza. Sappianlo i miei congiunti, sappialo tutto, il mondo; Quel che celar dovevasi, altrui più non ascondo. Mille nemici ho intorno, anche il marito istesso


Carica la mia fama di un vergognoso eccesso.

Prima si disinganni; poi, se il desia, si mora;

Ma nel morir si serbi la mia fortezza ancora. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Strada

Il Marchese da una parte, e don Fernando dall'altra.

IL M.                 Finalmente vi trovo.

FER.                                                    Che avete a comandarmi?

IL M.                 Bramo, se il permettete, con voi giustificarmi.

Scusatemi, vi prego, se dubitare ho ardito,

Se mal vi corrisposi, se fui male avvertito.

Ah pur troppo, pur troppo, de' scorni miei son certo,

E della moglie infida l'indole ria ho scoperto.
FER.                  Come veniste in chiaro del meditato eccesso?

IL M.                 Ah la germana, alfine, giunsemi a dir lo stesso.

Ella li sa i deliri della consorte mia.
FER.                  (Favorisce il disegno di lei la gelosia). (da sé)

Ora che siete certo del suo perverso errore,

Cosa di far pensate? cosa vi dice il cuore?
IL M.                 Dicemi il cuore, acceso di un onorato sdegno,

Che riparar col sangue deesi l'affronto indegno,

Che cavaliere io sono, che all'onor mio si aspetta

Contro di chi m'insulta di procurar vendetta.

Muoiano i tristi amanti. Pera la donna infida;

Al seduttore indegno si mandi una disfida.

Paghino la lor pena quell'alme scellerate.

A ciò il cuor mi consiglia. Voi, che mi consigliate?
FER.                  Sì, l'unico rimedio, non ve lo niego, è morte;

Deve perir il Conte, perir dee la consorte.

Ma deesi al tempo istesso salvare in apparenza

Il decoro, la stima, l'onor, la convenienza.

Sfidar il cavaliere non vi consiglio, amico;

Pubblico allor si rende il periglioso intrico.

Della disfida il mondo saprà la ria cagione;

Perde l'uom facilmente la sua riputazione.

E per seguir talvolta l'accostumato inganno,

Si pubblica l'affronto, si fa maggiore il danno.

Lasciate a me la cura di far perir l'indegno;

Prendo dell'onor vostro sopra di me l'impegno.

La colpa è a pochi nota; tutto sperar vi lice,

Se cautamente e in tempo troncata è la radice.
IL M.                 Bene, a voi mi rimetto circa punire il Conte;

Ma riparar pensiamo di quell'indegna all'onte.

Non mi parlate, amico, di separare il nodo.


Ha da perir l'ingrata. Voi suggerite il modo.
FER.                  Vi fidate di me?

IL M.                                             Solo da voi dipendo.

FER.                  Della sposa infedele a vendicarvi io prendo.

Posso segretamente entrar nel vostro tetto,

Senza che a voi tal passo vaglia a recar sospetto?
IL M.                 Fate torto a voi stesso parlando in guisa tale.

L'amicizia, l'onore, nel vostro cuor prevale.

Ite liberamente, la facoltà vi dono.

Rammentate l'offesa, e che l'offeso io sono.
FER.                  Basta così, vedrete dell'onor mio l'impegno.

Giungere mi prometto al fin del mio disegno.

Non vo' svelarvi il modo; saper non lo dovete.

Quando sarà adempito, allor voi lo saprete.
IL M.                 Se fidar vi dovete d'alcun de' servi miei,

È Fabrizio quel solo di cui mi fiderei.

Spiacemi che finora invan l'ho ricercato;

So che parlarmi ei brama.
FER.                                                             Fabrizio è un scellerato.

IL M.                 Come! che mai mi dite?

FER.                                                          Egli è con lei d'accordo.

Ei favorisce il Conte, di un vil guadagno ingordo.
IL M.                 Ah, ciascun mi tradisce. Lo troverò l'ardito.

FER.                  Dar si può che a quest'ora sia il fellone punito.

IL M.                 Da chi?

FER.                               Nell'avanzarmi ch'io feci arditamente

Presso della Marchesa, spinto da zelo ardente,

Egli parlommi in guisa, mi provocò a tal segno,

Che l'ardir fui costretto punir di quell'indegno.
IL M.                 Un mio servo puniste?

FER.                                                       Perdere dee la vita

Un testimon ribaldo di quella trama ordita.

Quando si tratta, amico, di vergognosi eccessi,

Si hanno a punir coi rei anche i complici istessi.
IL M.                 Non so che dir, mi veggo cinto per ogn'intorno

Da perfidi nemici, che fan maggior lo scorno.

Non ho più forza, amico, per regolar me stesso;

Son dalle mie sventure, son dal dolore oppresso.

Pietà di un infelice, pietà del mio destino;

Alla quiete, al riposo, apritemi il cammino.

Ma no, fino ch'io viva, pianger dovrò il mio fato.

Pace trovar non spero, morirò disperato. (parte)

SCENA SECONDA

Don Fernando, poi Prosdocimo.

FER.                  Favorisce il disegno la mia fortuna, il veggio;

Ma la prospera sorte forse sarà il mio peggio.


Non mi cal d'incontrare i precipizi un dì,

Bastami rivedere quel bel che mi ferì.
PRO.                 (Eccolo qui davvero. Troverò un'invenzione

Per conseguir l'effetto della sua promissione). (da sé)
FER.                  Prosdocimo, che rechi? Fabrizio hai ritrovato?

PRO.                 Zitto, nessun ci senta.

FER.                                                    Cosa fu?

PRO.                                                                  L'ho ammazzato.

FER.                  Bravo; ad un'altra impresa destino il tuo valore.

Hai da uccidere un altro.
PRO.                                                         Un altro? Sì signore.

Come ho ammazzato quello, ne ammazzerò anche cento.

Datemi i sei zecchini. (Di perderli pavento).
FER.                  Dimmi, come facesti ad eseguir l'impresa?

PRO.                 Lo trovai ch'era solo; promossi una contesa.

Col mio solito caldo la rissa ho provocata.

Egli rispose ardito, gli diedi una guanciata.

Tosto si venne all'armi; lo stesi in sulla strada;

L'ammazzai sul momento.
FER.                                                             Ma dov'è la tua spada?

PRO.                 La spada mia... gli diedi colpo sì maladetto,

Che restò fino al manico di quel meschino in petto.
FER.                  Perché lasciarla? Avranno contro te il testimonio.

PRO.                 Eh che non ho paura, se venisse il demonio.

Datemi i sei zecchini.
FER.                                                    Prima di darli, io voglio

Esser certo del fatto.
PRO.                                                   (Codesto è un altro imbroglio). (da sé)

Signor, mi maraviglio. Voi non mi conoscete.

Servitevi d'un altro, se a me voi non credete.

Ma voglio i miei danari. (gridando)
FER.                                                          Taci. (Acchetarlo è bene.

A costo anche di perderlo, dargli il danar conviene). (da sé)

Eccoti i sei zecchini. (tirando fuori la borsa)
PRO.                                                   (Vengono per mia fé). (da sé)

FER.                  Prendili, e se hai coraggio...

SCENA TERZA

Fabrizio e detti.

FAB.                                                               Signor. (a don Fernando)

PRO.                                                                           (Povero me!) (da sé)

FER.                (Come! il morto cammina?) (a Prosdocimo)

PRO.                                                               (Sarà risuscitato). (a don Fernando)

FER.                (Va, che un vile tu sei). (mette via la borsa)

PRO.                                                      (Il diavol l'ha portato). (da sé)

FAB.                Signor, si può sapere dove sia il mio padrone?

FER.                (Ah, costui può tradire la mia riputazione). (da sé)


Odimi: se tu parli, il tuo castigo aspetta.

Mira se da quest'arma posso sperar vendetta.

(gli mostra una pistola, e Prosdocimo trema)

Ma se parlar volessi, a te non darà fede

Il tuo padrone istesso, che un traditor ti crede.

Per avvilirti il dico; sappi che usai tal arte,

Che il cavalier ti crede d'ogni suo scorno a parte.

Fiati miglior consiglio sfuggire il di lui sdegno;

Salvati in altra parte, e in tuo favor m'impegno.
FAB.                 (Si deluda quest'empio). (da sé) Signor, non so che dire;

In un tale periglio meglio è per me fuggire.

A voi mi raccomando.
FER.                                                       Soccorrerti prometto.

Eccoti sei zecchini. (tornando a cacciar la borsa)
PRO.                                                (Oh destin maladetto!) (da sé)

FAB.                 (Prenderli è necessario per mascherar la cosa). (da sé)

Accetterò, signore, la grazia generosa. (li prende)

Vado a salvarmi subito, pria che di peggio accada.

Vado di qua lontano. (in atto di partire)
PRO.                                                   Rendimi la mia spada.

FAB.                 Prendila, uom valoroso, prendila, uom forte e bravo.

Stimo la tua fortezza, e al tuo valor son schiavo. (dà la spada a Prosdocimo, e

parte)

SCENA QUARTA

Don Fernando e Prosdocimo.

PRO.                 Ehi! Avete sentito? (gloriandosi per quel che ha detto Fabrizio)

FER.                                                 L'elogio assai ti onora. (ironico)

PRO.                 Vado a ammazzar quell'altro?

FER.                                                                   No, non è tempo ancora.

(Costui lasciar non deggio lungi dal fianco mio;

Ei sa tutto l'arcano, e dubitar degg'io.

Posso di lui servirmi in quel che ho meditato). (da sé)

Vieni meco.
PRO.                                    I zecchini...

FER.                                                          Vieni, non sarò ingrato.

Ora mi dei servire più risoluto e franco.
PRO.                 Farò tremare il mondo colla mia spada al fianco. (partono)

SCENA QUINTA

Camera della Marchesa

La Marchesa e Regina.


LA M.               Parti dagli occhi miei...

REG.                                                      L'avete anche con me?

LA M.               Ebber le mie sciagure l'origine da te.

Se tu non favorivi il perfido disegno,

No, non sarei caduta in sì funesto impegno.

Tu accordasti l'ingresso, ed il tuo cuore avvezzo

All'avarizia indegna ne ha conseguito il prezzo.
REG.                 Oh cospetto di bacco! Di voi mi maraviglio.

Son fanciulla onorata.
LA M.                                                    Tacere io ti consiglio.

Lasciami nello stato in cui mi vuol la sorte.

Non temer che gl'inganni discopra al mio consorte.

Egli più non mi crede, sono al suo cuor sospetta,

E di voler si vanta contro di me vendetta.
REG.                 Ma procurar io posso, salvo il decoro mio,

Ch'egli con voi si plachi.
LA M.                                                       Nulla da te vogl'io.

I testimon tuoi pari recano disonore.

Bastami l'innocenza, che ho radicata in cuore.

Vattene da me lungi, e i tuoi rimorsi, ingrata,

Siano la ricompensa di un'alma scellerata.
REG.                 Mai più m'è stato detto quello che voi mi dite.

La finirò ben io, se voi non la finite.

Anderò via, signora, e si saprà il perché.

(Ch'io di qua me ne vada, meglio sarà per me). (da sé, e parte)

SCENA SESTA

La Marchesa sola.

LA M.               Riparo all'onor mio da' miei congiunti aspetto.

Chiamerò mio cugino; gli scriverò un viglietto. Ah, nel vergare il foglio mi assale un fier spavento: La vita del mio sposo dovrò porre in cimento? Ah no, morir piuttosto... Ma dell'onor mi priva; Ma la mia fama oscura... Che si ha da far? Si scriva. (scrive) Cugin. Sono insultata dal mio consorte ingrato... Ma la cagion proviene da un traditor spietato. Contro di lui si scriva; svelisi don Fernando, E de' suoi tradimenti dicasi il come e il quando. Cugino. Un traditore insidia l'onor mio... Ma con ciò di ruine sola cagion son io. Espongo i miei congiunti, perdo il marito istesso, E l'onor mio rimane miseramente oppresso. Porga rimedio il tempo. Soffra un animo forte I colpi del destino, le ingiurie della sorte. La calunnia non dura, la verità è una sola; La virtù, l'innocenza, l'anima mia consola. Soffrirò i crudi sdegni del mio consorte altero,


Fin che arrivar lo faccia a discoprire il vero. Se di vedermi ei sdegna, soffrasi il rio martoro, Soffransi ancor gl'insulti, ma salvo il mio decoro. S'egli da solo a sola usa termini indegni, Farò che il mio coraggio il suo dover gl'insegni. Se in pubblico non teme esporre l'onor mio, In pubblico ragione mi saprò fare anch'io. Lo sposo mio rispetto, calmi della sua fama. L'onor della famiglia dee premere a una dama. La domestica pace spero dal cielo in dono; Ma se minacce ascolto, femmina vil non sono.

SCENA SETTIMA

Don Fernando e detto.

LA M.               Perfido! Ancor ritorni?

FER.                                                       Tacete, a voi dinante

Non vedete, Marchesa, un lusinghiero amante.

Un uom vi si presenta, che coraggioso e ardito

Vi minaccia la morte in nome del marito.

Egli di voi, del Conte, seppe la trama audace;

Sa che voi l'adorate...
LA M.                                                 Oh traditor mendace!

È cavaliere il Conte; per l'onor suo m'impegno;

Tu sei l'empio profano, tu il seduttore indegno.
FER.                  Meno orgoglio, signora. Tosto morir dovete.

Ecco un ferro e un veleno. L'uno dei due scegliete.

(pone sopra un tavolino uno stile ed una boccetta con del veleno)
LA M.               Con questo ferro istesso darti saprò la morte. (prende lo stile, e s'avventa per

ferirlo)
FER.                  Viva non isperate uscir da queste porte. (mette mano ad una pistola)

LA M.               Servi, servi, accorrete.

FER.                                                       No, non vi ascolta alcuno;

Quivi, fin ch'io ci sono, non penetra nessuno.

Sola morir dovete.
LA M.                                              Barbara tigre ircana,

I rimorsi non senti della ragione umana?
FER.                  Ah sì, ve lo confesso, premer mi sento il cuore

Per il vostro destino asprissimo dolore.

Bramo serbarvi in vita. Posso, se lo bramate,

Salvar la vostra fama che più di tutto amate.

Di rendervi felice la potestà mi è data;

Ma non vo' la pietade usar per un'ingrata.
LA M.               Né io per un indegno posso cangiar costume.

Se mi tradisce il mondo, non mi abbandona il nume.

Questi fieri strumenti ch'esponi in mia presenza,

Potran, quando ch'io muoia, provar la mia innocenza.

Vattene, traditore.


FER.                                                 Un'altra volta il dico.

Sarò, qual mi volete, amico od inimico.

Ecco la morte vostra, quando morir vogliate;

Eccovi un difensore, se la pietade usate.
LA M.               Odio più del carnefice il difensor crudele;

Coll'innocenza in petto voglio morir fedele.

Vanne, ministro indegno, reca tu al mio consorte,

Che mi vedesti intrepida ad incontrar la morte. (alza il ferro per ferirsi)
FER.                  Fermatevi un momento. Ah, non ho cuore, ingrata,

Vedervi in faccia mia morir da disperata.

Pensateci anche un poco. Sola lasciarvi io voglio.

La natura contrasti col forsennato orgoglio.

Ma fuor di queste soglie vano è sperar l'uscita:

O arrendervi dovete, o terminar la vita. (parte. E chiude l'uscio)

SCENA OTTAVA

La Marchesa sola.

Aiutatemi, o numi, voi datemi il consiglio,

Voi porgetemi aita nel fatal mio periglio.

Cedere a un scellerato? No, non sarà mai vero.

Morir senza delitto? oh mio destin severo!

Chiuse la porta il perfido; niun mi porge aiuto.

Ah sì, de' giorni miei l'ultimo dì è venuto.

Ingratissimo sposo, morta mi vuoi? perché?

Dato mi fosse almeno morir dinanzi a te!

Ma no, creder non posso ch'ei sia così spietato;

Chi m'insidia la vita, non è che un scellerato.

Fernando è il traditore senza l'altrui consiglio,

E non saprà nemmeno lo sposo mio il periglio.

Dunque morir io deggio per un fellone irato?

Che risolver mai deggio in sì misero stato?

S'ei torna ad insultarmi, di lui più non mi fido;

Se violentarmi ardisce, senza esitar mi uccido.

Ah, nel mio male estremo voglio tentar la sorte:

Vo' col periglio incerto sfuggir sicura morte.

Cielo, mi raccomando al tuo pietoso auspizio.

Voglio la mia salvezza cercar nel precipizio. (salta dalla finestra)

SCENA NONA
Strada.
Il Conte e Fabrizio.
FAB.                 Signor, voi sol potete, voi cavalier possente,


Salvar me sventurato, salvar quell'innocente.
CON.                Come render poss'io la misera sicura

Dal furor di un consorte che contro lei congiura?

S'egli ha di me sospetto, degg'io per la mia stima,

Con lui che reo mi crede, giustificarmi in prima.
FAB.                 Sollecitar potete...

SCENA DECIMA

La Marchesa e detti.

LA M.                                              Misera me!

CON.                                                                 Che vedo?

LA M.               Aiutatemi, amici.

FAB.                                             Ah il suo destin prevedo.

CON.                Cosa avvenne, Marchesa?

LA M.                                                          Oh ciel, mi trema il core.

CON.                Ecco in vostra difesa un cavalier d'onore.

LA M.               Conte, con voi non posso venir senza periglio.

Vieni meco, Fabrizio; il ciel darà il consiglio. (parte correndo con Fabrizio)

SCENA UNDICESIMA

Il Conte solo.

Misera sventurata! Sapere almen vorrei.. Ma la ragion non vuole che vegganmi con lei. La seguirò da lungi pel pubblico cammino. Cercherò da Fabrizio sapere il suo destino. Parlerò col Marchese. S'ei sarà meco umano, Del perfido Fernando gli svelerò l'arcano. Ma se a torto la sposa brama veder punita, Difenderò la dama a costo della vita.

SCENA DODICESIMA Don Fernando, poi Prosdocimo.

FER.                  Ah fuggì la spietata. Son di furor ripieno.

In qualche via nascosta la ritrovassi almeno.

Ah se la trovo, il giuro, non valerà l'orgoglio.

Se anche morir dovessi, in mio poter la voglio.
PRO.                 È trovata?

FER.                                  È trovata?

PRO.                                                   Ne ho piacer.


FER.                                                                         La vedrò. (minaccioso)

PRO.                 Dove la ritrovaste?

FER.                                                 Tu la trovasti?

PRO.                                                                        Io no.

FER.                  Stolido, vanne tosto, cercala in ogni parte.

Usa, per rinvenirla, usa l'ingegno e l'arte.

Se a me tu non la guidi, la testa io ti fracasso.
PRO.                 La condurrò, se fosse in braccio a Satanasso. (parte correndo)

SCENA TREDICESIMA Don Fernando, poi Fabrizio.

FER.                  Dove sarà fuggita, senza consiglio e sola?

Non sarà lungi, io spero.
FAB.                                                         Signore, una parola.

FER.                  Come! non sei partito?

FAB.                                                      Partirò immantinente;

Ma pria vo' raccontarvi stranissimo accidente.

Mentre che d'uscir fuori la strada avevo presa,

Incontro per la via la povera Marchesa.

Mi ha domandato aiuto. Aiuto io le ho prestato.

Il salto dal balcone piangendo mi ha narrato...
FER.                  Dove si trova?

FAB.                                          Adagio, che sentirete il resto.

A lei posto ho in veduta il suo destin funesto.

Le dissi che voi solo darle potete aiuto;

Che se in voi non confida, tutto è per lei perduto;

Ch'io le farò la scorta; e alfin l'ho persuasa

Di ragionar con voi pria di tornare in casa.

Vederla se vi preme, di me se vi fidate,

Dentro al caffè vicino ad aspettarmi andate.
FER.                  Pensi tu d'ingannarmi?

FAB.                                                      Giuro sull'onor mio.

Dite, se non vi guido, che un traditor son io.

La condurrò in mia casa; le parlerete in pace.
FER.                  Non crederei che fossi nell'ingannarmi audace.

FAB.                 Se pensier non avessi di far quello ch'io dico,

Chi mi obbliga a venire a pormi in un intrico?

La padrona mi preme, difenderla vorrei;

Parlar con voi si fida, s'io son presso di lei.

Siete un uomo d'onore, e sono assicurato

Che l'onor della dama sia da voi rispettato.
FER.                  Bene, colà ti aspetto.

FAB.                                                   Molto non tarderò.

FER.                  Guarda, se tu m'inganni, che giungerti saprò.

(Nel caso in cui mi trovo, mi giova ogni speranza.

Goderò, se mi riesce, frenar la sua baldanza). (da sé, e parte)
FAB.                 Fidati pur di me vedrai quel che ho pensato.


Il ciel mi diè il consiglio, il ciel mi ha illuminato. Vo' salvar l'innocenza, svelando il traditore. Benché povero nato, l'idolo mio è l'onore. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Fabrizio, con varie porte.

La Marchesa e Fabrizio.

LA M.               Non m'ingannar, Fabrizio.

FAB.                                                            Come, signora mia?

Avete voi sospetto che un traditore io sia?

Per voi, per il padrone, per tutta la famiglia

Esponere la vita il dover mi consiglia.

So che azzardo moltissimo con quell'uom sì spietato;

Ma vo' sperar buon fine, se mi seconda il fato.

Siete in albergo, è vero, povero, ma onorato;

Questa è la casa mia, la casa ove son nato.

L'abita ancor mia madre, e acciò non sappia niente,

L'ho mandata per oggi in casa di un parente.

Qui verrà don Fernando...
LA M.                                                          Ah, nel pensarvi io tremo.

Non per timor di lui, ché il traditor non temo;

Ma nel vedermi in faccia di quel fellon l'aspetto,

Trattener non mi fido lo sdegno ed il dispetto.
FAB.                 Fate quel che vi ho detto, frenatevi per poco,

E sarete contenta al terminar del gioco.

Tal cosa ho macchinato che, se mi assiste il cielo,

Voi sarete contenta, io mostrerò il mio zelo.
LA M.               E il Marchese?

FAB.                                          Il Marchese, anzi per meglio dire,

Il mio caro padrone non tarderà a venire.

Avvisar io l'ho fatto, che in casa mia voi siete;

Fra brevissimi istanti venir voi lo vedrete;

E toccherà con mano se voi siete innocente,

E vedrà da se stesso chi è stato il delinquente.
LA M.               Ed il Conte?

FAB.                                    Anche il Conte comparirà opportuno.

LA M.               Non vorrei si dicesse...

FAB.                                                      No, non vi è dubbio alcuno.

Sento gente. Celatevi là dentro in quella stanza.

State pur di buon animo.
LA M.                                                       Non manco di costanza.

Sono in via, non mi arresto. All'amor tuo mi affido,

E all'ultimo de' mali nel mio valor confido. (entra in una stanza laterale)


SCENA SECONDA Fabrizio, poi il Marchese.

FAB.                 Chi sarà quel che viene? Egli è il padron. L'indegno

Contro di me infelice l'ha provocato a sdegno.
IL M.                 Sei tu, vile ministro di quella donna ardita,

Che a vendicar miei torti contro d'entrambi invita?

Dov'è colei?
FAB.                                       Signore, se traditore io sono,

E dal cielo e da voi non merito perdono.

Ma della mia innocenza marche onorate io porto;

E voi, pria d'ascoltarmi, mi condannate a torto.

Eccomi a' piedi vostri; s'io fossi un traditore,

Chi è che condur mi sforza dinanzi al mio signore?

Fuggirei dal castigo, s'io fossi un delinquente;

Ma il rigor, la giustizia, non teme un innocente.
IL M.                 Alzati. (mostrandosi quasi convinto)

FAB.                              Vi obbedisco.

IL M.                                                      Dov'è la rea celata?

FAB.                 La vedrete fra poco.

IL M.                                                   Oh l'avess'io svenata!

FAB.                 Quella povera dama rea tuttavia credete?

IL M.                 Tu lo porresti in dubbio?

FAB.                                                         S'ella è rea, lo vedrete.

IL M.                 Rea la credei finora; ma l'ultimo furore

Rea vieppiù la dimostra, e perfida di cuore.

La sua colpa conosce; non cura il pentimento,

Cerca sfuggir la pena, si espone ad un cimento.

E di calmare invece l'ira mia provocata,

Con temerario ardire la colpa ha replicata.
FAB.                 Favorite, signore, di trattenervi un poco.

Parto e ritorno subito. Calmate il vostro foco.

Vado al caffè vicino. Per carità, fermatevi...

(Cieli! è qui don Fernando). Presto, signor, celatevi.
IL M.                 Perché celarmi io deggio?

FAB.                                                            Tutto da ciò dipende.

Necessario il consiglio al vostro onor si rende.

Per un momento solo fidatevi di me.
IL M.                 Ah se m'inganni, il colpo cadrà sopra di te. (si nasconde in un'altra camera)

SCENA TERZA

Fabrizio, poi don Fernando e Prosdocimo.

FAB.                 L'impiccio è periglioso; ma superarlo io spero.

Conoscerà il padrone, s'io sono un uom sincero.
FER.                  Quanto aspettar doveva? Ti hai di venir scordato?


PRO.                 T'insegnerò il trattare, servitor malcreato. (a Fabrizio, e si nasconde dietro don

Fernando)
FAB.                 Venivo in questo punto.

FER.                                                          Ma dov'è la Marchesa?

Di un mentitor mi aspetto qualche novella impresa.
PRO.                 Se manchi di parola!... (minacciando Fabrizio, e celandosi come sopra)

FAB.                                                      Son galantuom, signore.

Ella è in camera chiusa; or or la chiamo fuore.
FER.                  Anderò io da lei.

PRO.                                             Sì, ci anderemo noi.

FAB.                 Voi, signor, moderatevi. Tu bada ai fatti tuoi.

La vedrete fra poco; ma parvi ch'ella sia

Cosa onesta il riceverla con simil compagnia? (accennando Prosdocimo)
FER.                  In un luogo sospetto solo restar non deggio.

FAB.                 Veramente con voi una gran scorta io veggio. (ironico)

PRO.                 Se alcun vorrà insultarlo, tu lo vedrai chi sono.

FAB.                 Parlami con rispetto. (minacciandolo)

PRO.                                                   Per ora io ti perdono. (ritirandosi)

FAB.                 Signore, io vi consiglio usar la convenienza,

Che almeno della dama non resti alla presenza.

Può passar in cucina, dove gli ho preparato,

Perché non stiasi in ozio, un boccon delicato.
PRO.                 Non dice mal Fabrizio. Potrebbe il mio cospetto

Far palpitar il cuore della signora in petto.

Andrò intanto in cucina. Se di me d'uopo avete,

Chiamatemi, son pronto; il mio valor vedrete. (parte)

SCENA QUARTA Don Fernando e Fabrizio.

FAB.                 Ora la fo venire. Parlare io vi permetto,

Ma avvertite, signore, non perderle il rispetto.

(va ad aprir la camera, ed entra dov'è la Marchesa)
FER.                  Costui che fa il politico, non ben capisco ancora.

M'irritò questa mane, fece l'onesto allora,

Ed or per me si mostra sì docile e impegnato?

Credo che i sei zecchini lo abbiano lusingato.

È ver che anche stamane gli ho del danaro offerto;

Ma non sapea la somma, era il guadagno incerto.

Or, ch'io sia generoso, assicurarsi ei può.

Eh, che la chiave d'oro apre ogni porta, il so.

SCENA QUINTA La Marchesa e Fabrizio, ed il suddetto.


FAB.                 Regolatevi bene nell'intrapreso impegno.

Io del padrone intanto vo a raffrenar lo sdegno. (piano alla Marchesa)

Signor, accomodatevi. La dama, eccola qua. (pone due sedie)

Sarò poco lontano. Vi lascio in libertà. (entra dov'è il Marchese)
FER.                  Vi supplico, signora. (le fa cenno di sedere)

LA M.                                                 (L'ira con pena io celo). (da sé. Siedono)

FER.                  Vi faceste voi male?

LA M.                                                 No, per grazia del cielo. (sostenuta)

FER.                  È ver che il quarto vostro sembra che sia poc'alto;

Ma pur per una donna è periglioso il salto.

Queste son della sorte rarissime mercedi.

Come cadeste al suolo?
LA M.                                                    Mi ho ritrovata in piedi.

Non so dir io medesima come la cosa è andata,

So che senza avvedermene mi ho per la via trovata.

Di misurare il salto allor non ebbi campo,

Pensai unicamente a procurar lo scampo.

E il ciel che gl'innocenti pietosamente aiuta,

Porsemi con prodigio la mano alla caduta.
FER.                  A voi nel vostro stato rimproverar non voglio

Gl'insulti che mi usaste, e il forsennato orgoglio.

Voi ancor mi potete impietosire il seno.

Quello ch'è stato, è stato; non ne parliam nemmeno.
LA M.               Anzi vorrei, signore, se ciò non vi dispiace,

Che fra noi del passato si ragionasse in pace.

Convincetemi almeno, se ho da restar contenta.

(Vo' che il marito ascoso sappia, conosca, e senta). (da sé)
FER.                  No, non cerchiam, Marchesa, novi motivi acerbi

Per riscaldarci entrambi e divenir superbi.
LA M.               Ditemi solamente se di buon cor mi amate,

O se sol per capriccio voi l'amor mio cercate.
FER.                  Vana ricerca è questa; con tutto il cuor vi adoro:

Siete la mia speranza, voi siete il mio tesoro.
LA M.               Ma se ciò è vero, adunque perché tentare il Conte

Che l'amor mio cercasse, che mi venisse a fronte?
FER.                  Ah vi confesso il vero, mi ha consigliato amore

Scoprir per questa strada qual fosse il vostro cuore.

Debole vi sperai con un amante antico,

Sperai che voi cedeste al lusinghiero amico;

E allor che di una donna il cuore è indebolito,

Un incognito amante può divenir più ardito.
LA M.               Dissi pur a Prosdocimo da voi perciò mandato...

FER.                  Non ne parliam, Marchesa, quello ch'è stato, è stato.

LA M.               Soffritemi un momento. Gli dissi pur che audace

Meco non fosse il Conte, e mi lasciasse in pace.

Ed il messo bugiardo, ardito e scellerato,

Fece venire il Conte credendosi invitato.

Egli viene, mi scopre di voi tutti gl'inganni,

Da cavalier promette di riparar miei danni;

Salva dal rio periglio, salvo l'onore io credo,

Spero da voi sottrarmi, e comparirvi io vedo.


FER.                  Ma tralasciam, Marchesa...

LA M.                                                          Deh, terminar lasciate.

Vo' veder se mentite, o se davver mi amate.

Vi ricordate avermi fatto sperare il modo

Di troncar col Marchese delle mie nozze il nodo?
FER.                  Me ne ricordo, e sono all'opera disposto.

Se voi non mi sprezzate, son vostro ad ogni costo.

E se altra via non resta per esservi consorte,

Posso ancor del Marchese accelerar la morte.

(il Marchese si fa vedere sulla porta in atto di voler uscire furiosamente, e Fabrizio

lo tira indietro, e serra la porta)
FER.                  Parmi di sentir gente.

LA M.                                                 Niente, sarà Fabrizio.

(Sopra di te, inumano, caderà il precipizio) (da sé)

A un simile progetto io che risposi allora?
FER.                  Di ciò non mi sovviene.

LA M.                                                       Posso ridirlo ancora.

Dissi che dama io sono, che venero il marito;

Che chi l'onore insulta, è un temerario ardito.

E voi, per la ripulsa d'alto furor ripieno,

Mi presentaste audace un ferro ed un veleno.

Fino un'arma da foco mi presentaste al petto.

Minacciaste di farmi violenza a mio dispetto.

Per non morir col nome di femmina infedele,

Fuggii col precipizio da un seduttor crudele.

Ora che salva io sono, cercato ho di parlarvi.

Sol delle vostre colpe desio rimproverarvi,

E replicarvi intendo, senz'ombra di timore,

Ch'io morirò fedele, che siete un traditore.
FER.                  Ti pentirai, superba, di favellarmi ardita. (s'alza)

SCENA SESTA

Il Marchese e Fabrizio, e detti.

Il Marchese esce fuori furioso; vuol mettere mano alla spada, e Fabrizio lo trattiene.

IL M.                Anima scellerata, tu perderai la vita.

FER.                 Qual tradimento è questo?

LA M.                                                          Tu, traditor malnato...

IL M.                Lascia ch'io lo ferisca. (scotendosi, e Fabrizio lo tiene)

SCENA SETTIMA
Prosdocimo con un boccale in mano ed un bicchiere, e detti.
PRO.                                                      Signor, che cos'è stato?


IL M.                 Tutto è scoperto alfine, ed il tuo labbro istesso,

Perfido, me presente, ha l'error suo confesso. (a don Fernando)

Lascia che al sen ti stringa, moglie onorata e saggia,

La gelosia perdona che il tuo bel core oltraggia.

Servo fedel, ti abbraccio. (a Fabrizio) Grazie, pietosi numi.

Tu pagherai la pena dei perfidi costumi. (a don Fernando)

E tu, ministro indegno de' profanati amori,

Il tuo castigo aspetta. (a Prosdocimo)
PRO.                                                   Schiavo di lor signori.

LA M.               Ah sposo mio, perdono tutte le ingiurie e l'onte,

Se rivedervi io posso rasserenato in fronte.

Se l'onor mio trionfa, son consolata appieno...
IL M.                 Perfido! alla mia sposa un ferro ed un veleno? (a don Fernando)

FER.                  Deh, d'insultar cessate. Veggo, confesso il torto.

Il rossor, la vergogna, mi toglie ogni conforto.

Vendicate gl'insulti, ch'io vi offerisco il petto:

Vivere più non curo, e la mia morte aspetto.
IL M.                 Sì, traditor. (minacciandolo con la spada)

LA M.                                  Fermate. Quel barbaro inumano

Punire non si aspetta a voi di vostra mano.

Evvi giustizia in cielo, evvi giustizia al mondo,

Soccomberà l'audace delle sue colpe al pondo.

Se privata vendetta sopra di lui prendete,

Della ragione invece torto in giudizio avrete.

Quell'anima rubella non merta i vostri sdegni;

A consolar la sposa il vostro amor s'impegni.
FER.                  No, tollerar non posso che mi si vegga in faccia

Di mentitore i segni, di traditor la taccia.

E se da voi la morte posso sperare invano,

Vivere più non voglio. L'avrò dalla mia mano. (vuol ferirsi)
FAB.                 In casa mia, signore, non vo' di queste scene. (trattenendolo)

Ite a morire altrove.
LA M.                                                 Parmi sentir...

IL M.                                                                           Chi viene?

SCENA ULTIMA

Il Conte, un Uffiziale con soldati, e detti.

CON.                D'ordine del Governo, prigione è don Fernando.

UFF.                  Rendetemi la spada, e obbedite al comando.

FER.                  Difendermi non curo. Cedo alla cruda sorte.

Cercherò da me stesso accelerar la morte.

Pietà nel duro caso non merta un traditore;

Questo è il fin che procaccia un sregolato amore. (parte coll'Uffiziale e soldati)
FAB.                 E Prosdocimo indegno non sarà castigato?

CON.                Prosdocimo a quest'ora dai birri è carcerato.

Come tu consigliasti, fu la giustizia intesa;

Contro i rei sul momento risoluzion fu presa.


Furo per don Fernando spediti i militari, E per l'altro i ministri dovuti ad un suo pari.

IL M.                 Conte, de' rei pensieri contro di voi formati,

Imputate la colpa ai menzogneri ingrati. E mia germana istessa...

CON.                                                        Ella di tutto è intesa,

E di dolor si affanna, e di rossore è accesa. Consolarla fa d'uopo.

IL M.                                                   Sta in poter vostro il dono.

CON.                Se consentir vi piace, pronto a sposarla io sono.

LA M.               Andiam, sposo diletto, a stabilir tal nodo.

Godo per l'altrui bene, qual per me stessa io godo. Vieni, Fabrizio, a parte di quel piacer, cui diede Onorata cagione l'amor tuo, la tua fede. Grazie al poter de' numi, grazie all'amica sorte, Nelle sventure estreme ressi costante e forte. Apprendete, o mortali, che l'innocenza oppressa Dee trionfare un giorno della calunnia istessa. Che in mezzo a' suoi perigli, ogni periglio avanza Chi serba fra i disastri l'intrepida costanza. E la fortezza istessa, ch'empie un bel cuor di zelo, Non è virtute umana, ma è puro don del cielo.

Fine della Commedia