La donna sola

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LA DONNA SOLA

 di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di cinque Atti in versi Martelliani, fu per la prima volta rappresentata in

. Venezia nel Carnovale dell'anno

ALL'EGREGIO ED ORNATISSIMO

SIGNOR

AGOSTINO CONNIO

L'amore, il rispetto e la gratitudine (Signor mio, e Suocero Amorosissimo) egualmente mi spronano a darvi una pubblica testimonianza della mia più sincera riconoscenza, acciocché se un legame ci ha fatto essere uniti in vita, possiamo su questi fogli durar congiunti anche dopo morte. Grande è l'obbligo ch'io vi professo, poiché darmi non potevate maggior tesoro di quel che dato mi avete nella vostra esemplare Figliuola, amorosissima mia Consorte. Meno non vi voleva della sua sofferenza per tollerare i difetti miei; e sì buona compagna mi è sempre stata, che in tutti gli anni non pochi che siamo insieme, mai m'è accaduto, né per domestiche differenze, né per fantasia riscaldata, l'avermene un momento solo a pentire. Ella ha saputo soffrir meco tranquilla gli avversi colpi della fortuna, contenta di ogni picciolo stato, desiderosa sol della pace, di cui ella fu sempre la promotrice, e la prudente custode. Ma se ho ammirato la sua Virtù nelle incomode situazioni, più plausibile è ancora la sua moderazione nella migliore fortuna, lontana sempre da quelle immagini e da quei costumi, che sono incomodi alle Famiglie, e pericolosi ai Mariti. Ella è amantissima della civiltà e della pulizia, ed è nemica mortale del fasto e dell'ambizione. Sa unir sì bene in se stessa l'onesta liberalità e la sollecita economia, che senza irritare il genio mio troppo facile, mi ha procacciati de' sensibili quotidiani vantaggi. Rarissima cosa parrà a taluno, che formisi da un Marito il panegirico alla propria Moglie. Alcuni l'hanno fatto dopo la di lei morte, tempo in cui si ricordano più facilmente le virtù che i difetti. Io lo faccio mentr'ella vive, e rendole quella giustizia che l'è dovuta, sicuro di non essere da chiunque la conosce di soverchia benevolenza tacciato, portando ella la bontà in volto, come l'ha scolpita nel cuore.

Benedico ancora que' dì felici, ne' quali ebb'io l'onore di conoscere in Genova la degnissima Persona vostra, e la vostra cara Famiglia. La sorte mi ha fatto essere a voi vicino d'abitazione, mi fe' con voi contrarre amicizia, ed ebbi campo di rilevare il merito di questa vostra Figliuola, per cui ho sentito prima la stima, e poi ne è derivato l'amore. Questa sorta d'amori nati dalla cognizione del merito della persona, e non già dal capriccio o dalla facilità del moderno costume, quelli sono che durano più lungamente, e promettono il maggior bene del matrimonio, che è la domestica tranquillità. Il sistema della vostra Famiglia è stato sempre esemplare. L'educazione che avete data alle vostre Figlie, è quella de' buoni Padri, severi quanto bisogna, e docili quanto conviene. La saggia vostra Consorte, mia veneratissima Suocera, non aveva a far altro per contribuire alla buona riescita delle Figliuole, che offerir loro se medesima per esempio, e condurle per quella strada, per cui ha ella sempre con gloria e decoro i di lei passi diretti. Tre Figliuole Dio vi ha lasciate in vita: una, data intieramente alla divozione, non ha voluto perciò privare della dolce sua compagnia i Genitori, persuasa che possasi servire a Dio esattamente anche fralle domestiche mura, e menar vita penitente e contemplativa, senza ritirarsi nei Chiostri. L'altra è assai decentemente collocata in Ispagna, che forma anch'essa la delizia e il conforto di un


onorato, comodo e assai civile Marito. A me è toccata la vostra prediletta amabile Nicolina, che meritava miglior fortuna, ma non poteva essere né più amata, né più stimata. So che con pena estrema ve la staccaste dal fianco, ma non dal cuore. Fu effetto della bontà che avevate per me l'accordarmela, e anche al giorno d'oggi non cesso di ringraziarvi e di benedirvi. Lo stato della vostra Famiglia non poter permetterle una ricca dote, ma la condizion degl'impieghi che sostenete, e l'onestà della vostra nascita, non le poteano far mancare in Genova de' migliori partiti. Voi siete assai conosciuto e assai stimato costì. Sostenete con merito e con decoro l'uffizio in Corsica di Cancelliere. Vi portaste con valore e con lode nel carico dell'appuntatura in san Giorgio, e meritaste poi vi appoggiassero il grave premurosissimo geloso impiego de' Cartularj, che formano la ricchezza de' pubblici e privati erari di Genova, ne' quali e' necessaria l'abilità, la fede e la più esatta condotta. I vostri cinque Figliuoli maschi non fanno che rendere onore alla vostra Casa. Due dell'ordine militare servono il loro Principe naturale, il primo in grado di Capitano, e di Tenente il secondo. Il Primogenito vostro segue la traccia de' vostri impieghi, e i due più giovani sono per onorate vie incamminati.

La Figlia che voi mi avete accordata, merita, com'io diceva, miglior fortuna; ma pure la sua bontà, la sua moderazione, la fa esser contenta. Io non sono uomo ricco, ma il Signore mi dà del bene piucch'io non merito, e se non si vive in casa mia lautamente, per Provvidenza Divina non si penuria. Mi costa sudori il pane ch'io mi procaccio, ma dividendolo colla mia diletta compagna, dolci mi si rendono le fatiche. Vero è che la Provvidenza medesima mi ha caricato di un grave peso colla Famiglia di mio Fratello; ma da ciò appunto risulta il merito grande di mia Consorte, che ama i Nipoti come Figliuoli, e soffre gl'incomodi di una Madre, senza l'impulso e la ragione del sangue.

A me il Signore non ha concesso Figliuoli, né per ciò ho avuto mai in animo di dolermi. Che cosa avrei io potuto lasciare al mondo a pro loro? Comodi, fortune, ricchezze, no certamente; poco non è che io mi regga decentemente alle spese del povero mio talento, assai limitato e già vicino a stancarsi. Potrebbe forse giovare ad essi quel poco di buon concetto, che mi ho acquistato nel Mondo? Questo è un inganno: se i Figli hanno del merito per farsi amare e stimare, poco hanno bisogno della fama del Padre loro; ed all'incontro, se riescono malamente, la memoria del Padre è un rimprovero alla dappocaggine loro, e sono più conosciuti per essere più disprezzati.

Il mio mestiere non può passare per eredità. Non v'è esempio, non v'è istruzione che vaglia, per fare una testa comica, quand'ella non sia per ciò lavorata dalla Natura. Guai s'io avessi Figliuoli, e s'invogliassero di quest'arte senza conoscerne il peso, e per la sola apparenza d'un'arte lusinghiera e gioconda.

Non saprei dire io medesimo quale spirito, qual talento sia necessario per tal mestiere. Un grave, melanconico, ottuso, mal si adatta ai vezzi, al brio, alla giovialità della comica. Uno spiritoso, vivace, allegro, non è suscettibile per ordinario delle riflessioni serie, succose e morali, che vi abbisognano. Vuol essere un cervello misto, una mediocrità fra gli estremi, un'inclinazione presso che universale, insomma una testa lavorata apposta dalla Natura. S'io abbia o no simil testa, non lo so dire; so che ho principiato senz'animo di continuare, e che ho continuato senza poter più finire. So che ho principiato colle sole regole della Natura, e ho proseguito a piacere, con questo solo ragionevole ed universale principio. Credo che tutti gli Autori Comici più rinomati abbiano fatto come ho fatt'io, più felicemente di me perché avranno avuto miglior talento, ma tutti collo specchio della Natura, colla osservazione dei costumi e del Mondo, e colla pratica del Teatro; ma coll'incertezza altresì in qualunque opera di piacere, essendo l'esito sempre incerto, quando si tratta di compiacere l'universale. Una prova dar si può alle Commedie, leggendole in casa prima di darle al pubblico. Fama è che Molière le leggesse alla propria serva, per iscorgere in essa l'effetto semplice della Natura. L'avrà fatto però soltanto di quelle opere, che poteano interessare lo spirito di una serva. Io le opere mie di costume, di buon carattere, d'onesta critica, le leggo e le comunico alla mia cara Moglie. L'ho veduta ridere e piangere parecchie volte, ed ho veduto che al suo pianto e al suo riso hanno corrisposto in Teatro i movimenti del pubblico, e gli occhi e le labbra de' spettatori. Io non voglio, Signore, che fra di noi ci aduliamo; non intendo far passare la vostra


Figlia, la mia Compagna, per donna erudita, saccente, o romanziera e sputasentenze; ma ha il cuor benfatto e la mente illuminata, quanto a donna conviene, e basta ciò, perch'ella sappia discernere la verità del costume, e la forza del sentimento e della vera passione. Volete una più certa prova del suo prudente discernimento? Eccola. Ella conosce perfettamente quando ha da parlarmi, e quando desidero ch'ella taccia. L'estro, la fatica, l'impegno mi rendono talora inquieto, intollerante, fantastico; ella lo conosce perfettamente, e tace, e soffre, e non mi molesta. Sparito il pensier torbido dalla mia mente, è prontissima a rallegrarmi con qualche detto giocoso, e mi fa scordare ogni noia passata. Noi formiamo tuttavia fra noi due una piacevole conversazione, come ne' primi dì delle nozze, e ad essa comunicando tutti i miei disegni ed i miei pensieri, ne ho riportato mai sempre buoni consigli e salutevoli previsioni. Manca alla nostra felicità il piacere di poter essere cori Voi e colla Vostra degna Famiglia. Il destino ci vuol lontani, e due sole volte, dacché ho l'onore di essere vostro genero, ci siam veduti. Spero e desidero di rivedervi, e di passare con Voi delle ore gioconde e tranquille. Voi sapete occuparvi assai piacevolmente negli ozi vostri. Le amicizie poi, che Voi coltivate, sono tutte onorifiche, esemplari, costumatissime. Col mezzo vostro contratta ho pure costì servitù profittevole con Cavalieri illustri, con persone di merito, con Religiosi degnissimi. Voi siete uomo d'intelligenza e d'amenissima conversazione. Dio vi mantenga sano e felice, e prosperi gli affari vostri e la vostra Famiglia, e mi conceda la grazia di rivedervi, e di dare una simile consolazione alla cara vostra Figliuola. Frattanto degnatevi di ricevere cortesemente questa Commedia che io vi spedisco, e che al vostro Nome consacro e dedico, con quell'amore e con quel rispetto con cui umilmente mi sottoscrivo

Vostro Devotiss. Obbligatiss. Servidore e Genero Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

La Donna sola, che mai vuol dire? dirà taluno. Sola nella bontà, nel merito, nel buon costume? No, Lettor mio carissimo, non ardirei di far ciò, sapendo benissimo che di tai Donne saggie, virtuose e dabbene ve ne sono parecchie, e più di quello che il tristo mondo si persuade. Questa è una di quelle Donne che si vorrebbero veder sole, e in fatti, per soddisfare il carattere, sola è nella Commedia medesima, e sola fra molti uomini comparisce. La ragion principale che a qualche Donna fa desiderar d'esser sola, è l'invidia, e si lusinga di essere, senza confronti, perfettamente contenta. Ma s'inganna chi spera aver pace colle passioni nel cuore. Bastano queste a renderla inquieta, e trova, anche sola, da contrastare co' suoi pensieri. La presunzione suol produrre nelle Femmine un altro effetto. Amano tanto se stesse, e si fidano tanto della loro mal conosciuta prudenza, che vogliono operar da sé sole, e sfuggono ogni direzione ed ogni consiglio. La mia Donna sola ha quest'altro pregiudizio intorno di sé, e accade poi, che regolatasi sempre col solo di lei capriccio, non trova aiuto quando lo chiede, non trova chi la consigli quando le occorre; ma in pena del suo sistema, resta da tutti solennemente piantata. Questa non dovrebbe essere cattiva lezione. Se l'applichi a se stessa chi per avventura ne abbisognasse. Io saprei forse applicarla, ma Dio mi guardi dal dichiararmi. Scrivo per tutti; parlo all'universale; taccia chi pungere si sentisse, e si corregga se può, e mi compatisca se vuole.

Personaggi

Donna BERENICE vedova; Don FILIBERTO;
Don CLAUDIO;
Don LUCIO;
Don AGABITO;
Don ISIDORO;
Don PIPPINO;
FILIPPO servitore; GAMBA servitore;
Altri servitori.

La Scena si rappresenta in Milano.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di donna Berenice

Donna Berenice sola, poi Filippino.

BER.                 Son pur lieta e contenta. Mi par d'esser rinata,

Or che son dalla villa in Milan ritornata.

Dicono che in campagna si gode libertà?

V'è soggezione in villa molto più che in città.

Qui almen tratto chi voglio, rinchiusa nel mio tetto;

Deggio trattare in villa chi viene, a mio dispetto.

A conversar con donne mi viene il mal di core,

In villa non si vedono che donne a tutte l'ore.

Almen qui sono sola, se alcun viene a trovarmi,

Senza che vi sien donne che vengano a seccarmi.
FI.                      Signora.

BER.                               Cosa vuoi?

FI.                                                      La di lei genitrice

Seco lei si consola del suo ritorno, e dice

Che sarà a riverirla alla sorella unita.
BER.                 Oh, di' che non ci sono, che son di casa uscita.

FI.                      V'è un altro servitore con un'altra imbasciata.

BER.                 Chi lo manda?

FI.                                             Lo manda donn'Alba sua cognata.

Le dà parte, che sposo si è fatto il suo figliuolo.
BER.                 Non me n'importa un fico. Di' che me ne consolo.

FI.                     La prega intervenire alla funzione usata.

BER.                 Digli che la ringrazio; che sono incomodata.

FI.                     Se dico un'altra cosa, la prego, mi perdoni.

Son qui due cavalieri.
BER.                                                     Vengano, son padroni.

FI.                     (Ho capito. Alle donne difficilmente inclina,

E tratta con più gusto la razza mascolina). (da sé, indi parte)

SCENA SECONDA

Donna Berenice sola.

BER.                 Quand'era mio marito ancora fra' viventi

Volea ch'io praticassi le amiche e le parenti. Ma sia costume usato, o mio speziale umore, Non so d'avere avuta un'amica di core. So che mi criticavano ogn'atto, ogni parola.


Non vuò praticar donne; vuò viver da me sola. È ver, sarà difficile fissare in casa mia Un numero costante di buona compagnia, Perché questi signori si sogliono annoiare, Se una donna per uno non han da vezzeggiare. Ma darò lor tai spassi e tai divertimenti, Che spero alle mie spese di renderli contenti. Ho l'arte di conoscere d'ognun la inclinazione, A ognun, secondo il genio, farò conversazione. Studierò di far sempre quel che gli amici alletta, Purch'io non sia con donne a conversar costretta.

SCENA TERZA Don Filiberto, don Claudio e la suddetta.

FIL.                   Eccomi qui, signora.

BER.                                                  Bravo, don Filiberto;

Bravo, bravo, don Claudio.

CLA.                                                           Qual colpa, qual demerto,

Fe' sì che dalla villa partir volesse sola, Senza dire agli amici nemmeno una parola?

FIL.                   Perché non avvisarci di tal risoluzione?

BER.                 Scusatemi, di grazia; vi dirò la ragione.

Prima saper dovete, che sia nel ben, nel male, Mai non consiglio alcuno.

FIL.                                                             Mal, perdonate, male.

Far sempre di sua testa non è la miglior scuola.

BER.                 È ver, ma sono avvezza a consigliar me sola.

Così, com'io diceva, pensando a mio talento Vidi che la campagna riuscivami un tormento; E temendo gli amici mi avesser sconsigliata, Senza dirlo a nessuno, sono in Milan tornata.

FIL.                   Stupì ciascuno in fatti.

CLA.                                                       Ciascun di ciò avvertito,

Dopo che voi partiste, si è dietro a voi partito.

BER.                 Faceste ben, vi lodo, e vi ringrazio ancora.

Gli altri dove son eglino?

CLA.                                                         Li rivedrete or ora.

FIL.                   Di saper, di vedervi, ciascun è curiosissimo.

CLA.                 Fatto avete buon viaggio?

BER.                                                            Un viaggio felicissimo.

Cotanto mi premeva partir da quel villaggio, Che mi riuscir piacevoli gl'incomodi del viaggio.

FIL.                   Eppur quei pochi giorni, ch'ebbi l'onor anch'io

Di villeggiar con voi, mi parve, a parer mio, Che tanto si brillasse, e tanto si godesse, Che più per esser lieti bramar non si potesse.

CLA.                 Don Lucio, don Agabito, don Pippo ed Isidoro,


Caratteri son tutti che vagliono un tesoro.

Uno vanaglorioso, un mesto ed un giocondo,

Un altro che fa il dotto, e non sa nulla al mondo,

Pare che espressamente uniti in compagnia

Fossero, per produrre lo spasso e l'allegria.
BER.                 Sì, dite ver; s'avrebbono goduti mille mondi.

Giorni goder potevansi lietissimi, giocondi,

Se state non ci fossero nel nostro vicinato

Tante signore donne a fare il sindicato.
CLA.                 Non venivano anch'esse a ridere con noi?

BER.                 Veniano, sì signore, si divertiano; e poi?

E poi tornando a casa quest'era il loro uffizio,

Della conversazione dir male a precipizio.

Che dite della vedova che si scordò il marito?

Vi pare che in quest'anno fatt'abbia un bell'invito?

Come fa a mantenersi? l'entrate sue son note;

Crediam che in poco tempo consumerà la dote?

Talvolta in faccia mia vidi strizzarsi l'occhio

Aspasia con Celinda, e battersi il ginocchio.

Dissi non so che cosa, e intesi la Contessa

A dir piano ad Eufemia, ch'io fo la dottoressa.

Parlano per invidia, lo so, non v'è che dire;

Ma sia quel che si voglia, non le posso soffrire.
FIL.                   Si prendono talvolta le cose in mala parte;

Talora un accidente si giudica per arte.
BER.                 Ecco le vostre solite contraddizioni eterne.

Vendere non mi lascio lucciole per lanterne.
CLA.                 Ma torneran le amiche alla città fra poco.

Dovrete rivederle in questo o in altro loco.
BER.                 Venire in casa mia niuna sarà sì ardita

Ha da soffrir me sola chi è della mia partita.

Se voi, se altri si degnano venire ad onorarmi,

Di compagnia di donne non ha più da parlarmi.
FIL.                   Si ha da servir voi sola?

BER.                                                         Sì, questa è la mia brama.

FIL.                   E in quanti s'ha a dividere la grazia di madama?

BER.                 Distinguere conviene. Altro è conversazione,

Altro è quel che si chiama impegno di passione.

Spero nel primo caso non disgustare alcuno;

Nel secondo può darsi ch'io mi consacri ad uno. (guardando con arte tutti e due)
CLA.                 Sarà ben fortunato chi avrà tal cuore in dono.

FIL.                   Se troppo mi avanzassi, domandovi perdono.

Non chiederò chi sia l'avventuroso oggetto,

Bramo saper soltanto, se già l'avete in petto.
BER.                 Forse sì, e forse no.

FIL.                                                  Questo è un non dir niente.

CLA.                 Anzi mi fa in quel forse pensar diversamente.

Guardate ove mi guida il cuor coi dubbi suoi:

Creder mi fa che in petto rinchiuda uno di noi.
BER.                 (Oh, s'inganna davvero). (da sé)

FIL.                                                         Di noi chi avrà tal merto?


BER.                 Vorreste saper troppo, caro don Filiberto.

Sentite, in casa mia tutti vi bramo eguali; Non voglio che vi siano nemici, né rivali. Non vuò che alle mie spalle si fabbrichi un romanzo. Oggi vi prego uniti di favorirmi a pranzo. Poi giocheremo un poco, poscia in carrozza a spasso, O andremo nel giardino a fare un po' di chiasso. La sera alla commedia tutti nel mio palchetto; Ma voglio che ci stiate sin l'ultimo balletto. Non voglio che si giri qua e là dalle signore; Quando che si vien meco, non si va a far l'amore. Parto per un momento. Or or ritorno qua. Ho un affar che mi preme; vi lascio in libertà. (parte)

SCENA QUARTA

Don Filiberto e don Claudio.

FIL.                   Che dite voi, don Claudio, del suo bizzarro umore?

CLA.                 Circa alla distinzione, che vi predice il cuore?

FIL.                   So che la distinzione di donna Berenice

Capace è un onest'uomo di rendere felice.

Ma in mezzo a tanti e tanti difficile è acquistarla,

Ed io non mi lusingo ancor di meritarla.
CLA.                 Corriam la nostra lancia. Non siete voi capace

D'attendere l'evento, e tollerarlo in pace?
FIL.                   Io sono un uom sincero. Quel che ho nel core, ho in bocca.

Tolleranza in amore parmi importuna e sciocca.
CLA.                 Oh, come mai fra gli uomini il pensamento varia:

Tolleranza in amore a me par necessaria.

Fondo la mia ragione sovr'un principio certo:

Per esser bene amato, conviene acquistar merto;

E merto non acquista con donna d'amor degna,

Chi a qualche tolleranza l'affetto non impegna.
FIL.                   Falso principio è questo. Un'alma tollerante

O mostra d'esser vile, o d'esser poco amante.

Chi ben ama, è impaziente. Ogni rival paventa.

Di un forse mal inteso il cor non si contenta.

Ogni amator fedele amor fa sospettoso.
CLA.                 Fa ingiuria alla sua dama un amator geloso,

L'offende chi la carica di un simile strapazzo.
FIL.                   E chi di lei si fida soverchiamente, è un pazzo

CLA.                 Sfido l'intolleranza che voi nutrite in petto.

FIL.                   A tollerar seguite. Io la disfida accetto.

CLA.                 Non apprendeste ancora, quanto trionfi più

Sul cor di bella donna la lunga servitù.
FIL.                   Anzi appresi al contrario, che quanto più servite

Sono da noi, si mirano andar più insuperbite.
CLA.                 Ma la superbia istessa, quando adorar si vedono


Fa che al più fido amante tutto l'amor concedono.
FIL.                   Oh che pensar ridicolo! anzi la donna è avvezza

Cercar di farsi amare da quel che la disprezza.
CLA.                 Alle discrete donne di ciò voglio appellarmi.

FIL.                   Trovate una discreta, e lascio giudicarmi.

CLA.                 Qui l'onor delle donne m'arma a ragione il petto.

FIL.                   Voi mi sfidate a prova; io la disfida accetto.

SCENA QUINTA Filippino e detti.

FI.                      Signori, la padrona siede alla tavoletta.

La loro compagnia con desiderio aspetta.
FIL.                   Andiam.

CLA.                               Non dirò nulla, per timor che le spiaccia

Della questione nostra.
FIL.                                                         La dirò ad essa in faccia.

Non ho rossore a dirle che a femmina non credo

Un forse sospettoso, qualor di più non vedo.

Così, s'ella mi apprezza, mi mostra il volto umano;

Se finge, e non mi cura, non mi lusingo in vano. (parte)
CLA.                 Ad una meta istessa sembra ch'amor ne porte;

Egli i suoi passi accelera, io vo di lui men forte.

Ma può inciampar chi corre; dura chi pian cammina.

E nella dubbia impresa vedrem chi l'indovina. (parte)

SCENA SESTA Filippino, poi Gamba.

FI.                     Dunque la mia padrona ha stabilito adesso

Non voler più trattare con gente del suo sesso.

È ver che non è brutta, è ver che non è vecchia;

Ma quattro o cinque cani stan male ad un'orecchia.
GAM.                Oh Filippino!

FI.                                           Oh Gamba! tu pur giunto in città.

GAM.                Son qui col mio padrone.

FIL.                                                           Il tuo padron che fa?

GAM.                È partito con Lucio, cogli altri amici uniti,

Di villa, poco dopo che voi foste partiti.

Oh se sentissi, amico, quel che colà si dice

Nelle conversazioni di donna Berenice!

Tal partenza improvvisa diede da dir sul sodo.

Interpretar le donne la vogliono a lor modo.

Chi dice: è innamorata; chi aggiunge: ed è gelosa.

Chi dice: non ha merito, per questo è invidiosa.


Chi crede che in campagna finiti abbia i danari,

E sola sia in Milano venuta a far lunari.
FI.                     E in città, che ti credi abbian di lei parlato?

Dicono: s'è tornata, qualche gran caso è stato.

Chi dice: avrà perduto tutti i quattrini al gioco.

Chi dice: i villeggianti l'avran trattata poco.

Chi dice: or che il gran mondo sen sta in villeggiatura,

Venuta è alla cittade a far la sua figura.
GAM.                Si può saper la causa che la fe' ritornare?

FI.                     Io credo di saperla, ma non vuò mormorare.

Don Claudio lo conosci, don Filiberto ancora.
GAM.                Sì, li conosco.

FI.                                             Ehi, senti. Son dietro alla signora:

Un col pettine in mano, l'altro colla guantiera.

Chi fa da parrucchiere, chi fa da cameriera.

Ma non vuò mormorare.
GAM.                                                        Sei un ragazzo onesto.

FI.                     Vien la padrona. Ehi, senti. Doman ti dirò il resto.

SCENA SETTIMA Donna Berenice e detti.

BER.                 Tu pur sei ritornato?

GAM.                                                 Signora, il mio padrone

Vorrebbe riverirla, se gli dà permissione.

BER.                 A don Lucio dirai, ch'oggi l'aspetto qui,

Un'ora, o poco più, sonato il mezzodì.

GAM.                Dunque a pranzo?

BER.                                              S'intende.

GAM.                                                             Don Pippo eravi seco.

BER.                 Digli che con don Pippo l'aspetto a pranzar meco.

GAM.                Sì signora.

BER.                                  Raccontami: di mia risoluzione

In villa cosa dissero quelle buone persone?

GAM.                Certo, signora mia, il ver dirlo conviene.

Ha detto ciascheduno che voi faceste bene, Che siete una signora benissimo allevata, Che gli affari di casa vi hanno in città chiamata, Che siete dagli spassi avvezza a star lontana, E che faceste bene partire alla romana. (parte)

BER.                 Gamba è un furbo, è egli vero?

FI.                                                                       Oibò, sull'onor mio

Egli è un giovin dabbene, tale e quale son io. Anche i vicini nostri han detto ch'è un indizio. Questo ritorno vostro, di donna di giudizio. E dopo voi venendo quei cavalieri istessi, Han detto: la signora avrà degl'interessi. Gamba ed io certamente siam due persone schiette.


Abbiam, ve lo protesto, due bocche benedette. (parte)

SCENA OTTAVA Donna Berenice, poi Filippino.

BER.                 Li credo due birboni di prima qualità.

Chi sa che cosa han detto in villa ed in città?

Ma ciò poco mi preme: son vedova, son sola;

Nessuno mi comanda; ciò basta, e mi consola.

Vuò fare a queste donne vedere a lor dispetto,

Se vincere la posso allor che mi ci metto;

Una conversazione non voglio che ci sia,

In tutta la cittade, compagna della mia.

E mantenerla io voglio sola senz'altre donne.

Che fan certe signore? Stan lì come colonne;

Non sanno che giocare, dir male, e far l'amore;

Per incantar degli uomini vi vuol spirito e cuore.

Quei due si son scoperti rivali innamorati,

Ma li terrò mai sempre sospesi ed obbligati.

Gridi don Filiberto che vuole esser sicuro;

Alla passion dee stare finché ne ho voglia, il giuro.

Don Claudio soffra in pace modesto, sofferente,

E aspetti quanto vuole, non otterrà mai niente.

Sono ambidue partiti con tal lusinga interna,

Ma in me viverà sempre l'indifferenza eterna.

Se mi dichiaro ad uno, perdo dell'opra i frutti;

Il mio cuor per nessuno, la grazia mia per tutti.
FI.                      Due visite, signora.

BER.                                                Si sanno i nomi loro?

FI.                      Don Agabito l'uno, l'altro don Isidoro. (parte)

SCENA NONA Donna Berenice, poi Don Isidoro, poi Don Agabito.

BER.                 Come si sono uniti due di sì strano umore?

Uno allegro, un patetico; un ride, e l'altro more.

Esser della partita però voglio obbligarli,

E per averli amici studiar di secondarli.
ISI.                    Oh donna Berenice! (allegro sempre)

BER.                                                  Son serva. (allegra)

ISI.                                                                     Riverente,

Eccoci qui con voi per stare allegramente.
BER.                 Allegri, allegri pure, che non si pianga mai.

ISI.                    Finché si può, si rida, e non si pensi a guai.

BER.                 Serva di don Agabito.


AGA.                                                    Servitore divoto.

BER.                 Che avete che vi turba?

AGA.                                                      Il mio stil non vi è noto?

Sto bene, grazie al cielo, non mi sento alcun male,

Ma sono un po' patetico così per naturale.
BER.                 Tutti nascono al mondo col suo temperamento. (patetica)

ISI.                    Io voglio rider certo.

BER.                                                  Chi ride, ha il cuor contento.

Sediamo: chi è di là?
ISI.                                                     Lasciate, farò io. (prende due sedie, una per lui, una per

Berenice)
BER.                 Volete ch'io vi serva, don Agabito mio? (patetica)

AGA.                Eh, prenderò la sedia. (va a prenderla lentamente)

BER.                                                     Sì, se così volete. (patetica)

ISI.                    Discorriamola un poco in allegria. Sedete. (a Berenice, e siedono)

BER.                 Dite, alla mia partenza si fe' verun schiamazzo?

ISI.                    Quando siete partita, io ho riso come un pazzo.

BER.                 Partii senza dir nulla.

ISI.                                                     Bravissima.

BER.                                                                     Scusate.

ISI.                    Oh, quanto che mi piacciono le belle improvvisate!

AGA.                (A tempo a tempo reca innanzi la sua sedia, e si pone a sedere colla solita

patetichezza, senza dir niente)
ISI.                    Che son le cerimonie? tutte caricature.

BER.                 Compatite, di grazia. (a don Agapito)

AGA.                                                 No. Servitevi pure.

BER.                 Quando io mi son partita, voi che diceste, in grazia? (a don Agapito)

AGA.                Dissi che si poteva soffrir la malagrazia.

BER.                 Dunque mi condannaste.

AGA.                                                        Io poche volte approvo.

BER.                 Né anche le cose buone?

AGA.                                                        Buone? se non ne trovo.

BER.                 In fatti anch'io nel mondo niente di buon vi veggio.

AGA.                Il mondo? oh, questo mondo va pur di male in peggio.

ISI.                    Ma che si fa? si piange? Eh, stiamo allegramente.

AGA.                Parlate pur con lui, che non m'importa niente.

Tanto sto da me solo.
BER.                                                     Che dite? non consola? (a don Isidoro con ironia, di don

Agabito)
ISI.                    Sta le giornate intere senza mai dir parola.

Io, se non parlo e rido, mi sento venir male.
BER.                 Oh, l'allegria di cuore certo è un gran capitale.

ISI.                    Su via, cosa facciamo per divertirci un poco?

BER.                 Volete che giochiamo?

ISI.                                                          A cosa serve il gioco?

Allegria non la chiamo star fitti al tavolino.

Andiamo a passeggiare; andiamo nel giardino.

Giochiamo a volantino, ovvero al bilbocchè.

Cerchiamo un suonatore, balliamo un minuè.
BER.                 Tutto quel che volete. (allegra) Spiacemi solamente

Pel signor don Agabito. (patetica)


AGA.

Non ci penso niente.

Lasciatemi pur solo, che tanto io ne ho piacere.

BER.

Andiamo a passeggiare.

AGA.

Io sto bene a sedere.

BER.

Se volete sedere senz'altra compagnia,

Potete divertirvi, leggendo, in libreria.

AGA.

Io non leggo.

BER.

Suonate?

AGA.

Oibò.

BER.

Che inclinazione

Avete mai?

AGA.

Mi piace star in conversazione.

BER.

Senza parlar?

AGA.

Che importa? ascolto, osservo, e noto.

ISI.

Eh, andiamo. (a don Agapito, ridendo)

AGA.

Non mi movo, se viene il terremoto.

BER.

Per fare una finezza a me, voi non verrete?

Via, caro don Agabito, so che gentil voi siete.

Ad una donna alfine, che vi rispetta e prega,

Che in cortesia vel chiede, la grazia non si nega.

AGA.

(S'alza patetico, senza parlare)

BER.

Bravo.

ISI.

Bravo davvero, l'amico è un omenone. (ridendo)

AGA.

Qual motivo di ridere trovate in ciò? buffone. (a don Isidoro, e serioso parte)

BER.

Andiam, che non si sdegni.

ISI.

Va in collera per niente.

Eh, che si rida; andiamo.

BER.

Andiamo allegramente. (partono)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Don Lucio, poi Filippino.

LUC.

Chi è di là? c'è nessuno?

FI.

Servitore umilissimo

Del signore don Lucio, mio padrone illustrissimo.

LUC.

C'è la padrona in casa?

FI.

Illustrissimo sì.

LUC.

Bramo di riverirla.

FI.

Può trattenersi qui.

Vado a avvisarla subito.

LUC.

Anderò io da lei.

FI.

Mi perdoni, illustrissimo, non la consiglierei.

LUC.

Perché?

FI.

Perché potrebbe... vede ben... la signora...

Essere, per esempio... non mi capisce ancora?

LUC.

Bene, bene, va tosto; di' che la sto aspettando.

FI.

Servo di vossustrissima. A lei mi raccomando. (parte)

SCENA SECONDA Don Lucio, poi don Isidoro.

LUC.                 Costui non mi dispiace; sa la creanza almeno

Veggo che tutto il mondo di malcreati è pieno. Molti negan di darmi il titol che mi tocca, Altri dell'illustrissimo mi danno a mezza bocca. Sono tre anni e più, che nobile son fatto, Che colla nobiltà gioco, converso e tratto, E l'ignorante volgo audace, invidiosissimo, Nega il più delle volte di darmi l'illustrissimo.

ISI.                    Schiavo, amico. (ridendo)

LUC.                                           Divoto.

ISI.                                                          Vado, e torno repente.

Cospetto! vuò che stiamo tutt'oggi allegramente.

Noi pranzeremo insieme da donna Berenice.

Se in compagnia si mangia, mi par d'esser felice.

Brindisi alla salute del bevitor più bravo;

E che si mangi e goda, e che si beva, e schiavo. (parte)

SCENA TERZA


Don Lucio, poi don Agapito.

LUC.                 Una volta ancor io brillava in società.

Ma dopo ch'io son nobile, mi ho posto in gravità.

Non vuò sedere a tavola vicino a questo pazzo,

Per non soffrir ch'ei m'abbia a dir qualche strapazzo.

I scherzi delle tavole, è ver, son buoni e bei.

Ma devesi rispetto portare ai pari miei.
AGA.                (Saluta un poco don Lucio senza parlare, camminando)

LUC.                 Vi saluto, signore. Voi pure in questo loco?

AGA.                Venni dalla signora per divertirla un poco. (patetico)

LUC.                 (L'avrà ben divertita). Ed or volete andare?

AGA.                Vado poco lontano. Tornerò a desinare.

LUC.                 Voi pur siete invitato?

AGA.                                                    Sicuro; e perché no?

Non mangio come gli altri?
LUC.                                                              E più degli altri, io so.

Ma so che l'allegria voi non avete a grado.
AGA.                Io mangio nel mio piatto, ed a nessuno abbado. (parte)

SCENA QUARTA Don Lucio, poi donna Berenice.

LUC.                 Eccolo il malcreato, parte così alla muta;

Va via per la sua strada, e nemmen mi saluta.

Non lo voglio vicino costui, quando si pranza;

Capace egli sarebbe d'usarmi un'increanza.
BER.                 Compatite, don Lucio, s'io qui non venni in prima;

Nol feci per mancanza di rispetto, di stima.

Voi mi compatirete, cavalier generoso.

(Incensarlo conviene quest'uom vanaglorioso). (da sé)
LUC.                 La vostra gentilezza mi obbliga estremamente.

Voi siete una signora dall'altre differente.

Soglion trattar le donne sovente con disprezzo;

Ma a certe scioccherie don Lucio non è avvezzo.

Si puote aver in petto della parzialità;

Ma è cosa che sta bene trattar con nobiltà.
BER.                 Odio anch'io quei vivaci bellissimi talenti

Che han tutto il loro merito nel far gl'impertinenti.

Bella cosa il vedere la femmina ben nata

Coi giovani, coi vecchi, a far la spiritata!

Dare un urtone a questo, un pizzicotto a quello,

Far le preziose al brutto, far le civette al bello;

E intendono di esigere affetti e convenienze

A suono di disprezzi, a suon d'impertinenze.
LUC.                 Oh, io ve lo protesto, non soffrirei d'intorno

Una indiscreta simile nemmeno un solo giorno.


BER.                 Tutti, signor, non pensano come pensate voi.

Don Lucio è cavaliere: conosce i dritti suoi.

LUC.                 (Si pavoneggia)

BER.                 Da me si fa giustizia; e se mi onorerete,

Fra quanti mi frequentano, il vostro luogo avrete.

LUC.                 Appunto son venuto per tempo a incomodarvi

Pria dell'ora appuntata; prima per ringraziarvi Dell'onor che mi fate di esservi commensale, Poi per saper se gli ospiti sono di grado eguale.

BER.                 Oh signor, perdonate, al mio dover non manco;

Non esporrei don Lucio d'un ignobile al fianco.

LUC.                 Dirò, non è ch'io sdegni pranzar coi cittadini,

Coi dottor, coi mercanti, se stan nei lor confini: Ma trovansi di quelli che prendonsi licenza Di trattar coi miei pari con troppa confidenza. Voglio sfuggir gl'impegni, perciò v'interrogai.

BER.                 Altri che cavalieri da me non vengon mai.

LUC.                 Io tollerar non posso quelle conversazioni

Ove i plebei si ammettono con titol di buffoni. Costoro impunemente, senza temer pericolo, Fino il padron di casa por sogliono in ridicolo.

BER.                 Voi avete pensieri sublimi e ragionati.

Così parlano gli uomini che son bene allevati.

LUC.                 E se averò figliuoli, allor ch'io mi mariti,

Saran colle mie massime nell'animo nutriti.

BER.                 Pensate di accasarvi?

LUC.                                                    La convenienza il chiede.

Al feudo che mi onora, vuò provveder l'erede.

BER.                 Lo trovaste il partito?

LUC.                                                    Ancor non lo trovai.

BER.                 Caro signor don Lucio, voi meritate assai.

Sarà cosa difficile trovare un parentado, Che uguagli il vostro merito, e che vi torni a grado.

LUC.                 Vi dirò per parlarvi con tutta confidenza,

Vorrei una che avesse il titol d'eccellenza. Col grado della moglie unito al grado mio, Avrei più facilmente dell'eccellenza anch'io.

BER.                 Permettete che dicavi, signor, fra voi e me

Una cosa verissima. Già qui nessuno c'è. Nobile siete certo, siete garbato, è vero, Ma nato voi non siete figliuol d'un cavaliero. E il fanatismo è invalso, in chi nobile è nato, Che il sangue si consideri dal padre e dal casato. Trattando in certe case, signor, chi vi assicura, Che in campo non si metta di voi cotal freddura? Quei che non posson spendere, come potete voi, Ognor pongono in vista il sangue degli eroi; Trattar non vi consiglio plebei nati dal fango, Ma con persone nobili così di mezzo rango.

LUC.                 Che? degno non son io d'ogni conversazione?

BER.                 Sì, degnissimo siete; avete ogni ragione.


Ma pria di esser la coda di un corpo assai maggiore;

È meglio esser il capo d'un popolo minore.
LUC.                 Non dite male in questo. E chi trattar dovria?

BER.                 Signor, siete padrone ogni or di casa mia.

LUC.                 Sì, Vi sono obbligato; con voi verrò a spassarmi.

Ma ve l'ho detto ancora, io penso a maritarmi.
BER.                 Lo volete far presto?

LUC.                                                  Più presto che potrò.

BER.                 Non vorrete una vedova.

LUC.                                                         Vedova? perché no?

Voi, donna Berenice, parlando colla stessa

Confidenza, con cui meco vi siete espressa,

Credo che non sareste per me tristo partito.
BER.                 D'essere vostra moglie però non mi ho esibito.

LUC.                 Mi credereste indegno?

BER.                                                       Oh signor cosa dice?

Un cavalier suo pari? sarei troppo felice.
LUC.                 Dunque risoluzione.

BER.                                                  Ne parlerem fra poco.

Intanto non pensate d'andare in altro loco.

La mia conversazione dev'essere la sola

Ch'è da voi frequentata.
LUC.                                                       Vi do la mia parola.

BER.                 (Eccolo anch'ei fissato con tal speranza in petto). (da sé)

LUC.                 (Almeno avrò una moglie che ha per me del rispetto). (da sé)

SCENA QUINTA

Filippino e detti.

FI.                      Signora, è qui don Pippo.

BER.                                                         Venga, se l'accordate. (a don Lucio)

LUC.                 L'ignorante m'annoia; ritornerò, scusate.

BER.                 Egli è al pranzo invitato.

LUC.                                                         Lo so, me ne dispiace.

È nato bene anch'egli, ma il suo stil non mi piace.

Vuol far l'uomo saccente, ed è un ver babbuino.

A tavola, badate, io non lo vo' vicino.
BER.                 A un cavalier sì degno sceglier io lascio il posto.

LUC.                 (Oh che compita donna!) Ritornerò ben tosto. (s'inchina e parte)

SCENA SESTA

Donna Berenice, Filippino, poi don Pippo.

BER.                 Fa che venga don Pippo.

FIL.                                                           Eccol ch'ei viene innanti.


(Ecco il vero esemplare degli uomini ignoranti). (da sé, e parte)
BER.                 Se vincere vo' il punto, che m'ho fissato in mente,

Con tutti usar convienmi uno stil differente.

Evvi una cosa sola ch'eguale a ognun mi fa:

Tutti mi tendon lacci, e sono in libertà.
PIP.                   Eccomi qui, signora; ma questa non mi pare,

Sia detto per non detto, l'ora del desinare.
BER.                 Perché?

PIP.                                 Perché i Romani, ch'erano genti dotte,

Solevano mangiare verso un'ora di notte.
BER.                 Voi siete bene istrutto dunque del stile antico.

Gran bello studio è questo!
PIP.                                                              Siete del studio amante?

BER.                 Io per le belle lettere son pazza delirante.

PIP.                   Certo le belle lettere sono un studio assai bello.

In materia di lettere, io scrivo in stampatello.

Ho una raccolta in casa di medaglie bellissime,

E di monete ancora, con lettere grandissime.
BER.                 Questa è la beltà vera, visibile e palpabile,

E non certe anticaglie d'un prezzo immaginabile.

Nelle lucerne antiche spendon tanti quattrini.
PIP.                   Io ho una lucerna in casa, nuova, con tre stoppini.

BER.                 So ancor che voi avete una gran libreria.

PIP.                   Può esser che di meglio al mondo non ci sia.

Ho speso in dieci anni, non son caricature,

Più di sessanta scudi in tante legature.
BER.                 Cosa avete di bello?

PIP.                                                    Son tanti i libri miei.

Se me li ricordassi, quasi ve li direi.

Aspettate: due tomi avrò del Caloandro,

Averò quasi tutta la Vita l'Alessandro,

Paris e Vienna certo, i Reali di Franza,

Il Guerrino meschino, le Femmine all'usanza,

Dieci o dodeci tomi del Giornale Olandese.

Ho sedici commedie tradotte dal francese;

Il libro delle Poste per viaggiare il mondo;

Un libro che ha per titolo... mi pare, il Mappamondo;

Due o tre Calepini, due o tre Dizionari,

Una serie perfetta di trentadue Lunari;

In specie un Almanacco ch'è il più sicuro e dotto,

E un libro per trovare i numeri del lotto.
BER.                 Tutte cose sceltissime da trarne buoni frutti.

PIP.                   È ver, ma non son cose che le intendano tutti.

Voi ne avete dei libri?
BER.                                                     Cose da trar sul fuoco.

Ho l'Arte, per esempio, che insegna a far il Cuoco.
PIP.                   Non è cattivo libro.

BER.                                                Ho nello studio mio

L'Arte di far danari.
PIP.                                                    Credo d'averlo anch'io.

BER.                 Ho una raccolta intera di tutte le canzoni


Uscite da vent'anni.
PIP.                                                  Questi son libri buoni.

BER.                 Li tengo lì per comodo, se vengon forestieri.

PIP.                   Dopo aver desinato, leggerò volentieri.

Infatti, andando intorno a tante signorine,

Non trovo che romanzi, sonetti e canzoncine.
BER.                 Dovete d'ora innanti venir sempre da me,

E leggeremo insieme il Libro del perché.
PIP.                   Questo libro l'avete?

BER.                                                  L'ho, ma il tengo serrato.

PIP.                   Lo vedrò volentieri. Oh, quanto l'ho cercato!

Vi saran, mi figuro, tutti i perché del mondo.
BER.                 Certo.

PIP.                               Perché la luna faccia ogni mese il tondo?

BER.                 Anche questo.

PIP.                                           Saravvi il perché, mi figuro,

Il latte, ch'è sì tenero, faccia il formaggio duro.
BER.                 Vi è tutto in questo libro.

PIP.                                                           Vo' veder se ritrovo

Il perché le galline cantino, fatto l'uovo.

SCENA SETTIMA

Filippino e detti.

FI.                      Viene don Filiberto.

BER.                                                  Venga pure, è padrone.

FI.                      Senta (dice che brama parlar da solo a sola). (piano a Berenice)

BER.                 (Digli che aspetti un poco). (piano a Filippino)

FI.                                                                (Subito lo consola). (da sé, indi parte)

BER.                 Vedeste il mio giardino? (a don Pippo)

PIP.                                                           Non credo, non mi pare.

BER.                 Fino all'ora del pranzo andate a passeggiare.

Vedrete, vel protesto, un vago giardinetto.
PIP.                   Eh, di queste freddure io non me ne diletto.

BER.                 Ho dei fiori, ho dei frutti; fate quel ch'io vi dico.

PIP.                   E dei fiori e dei frutti non me n'importa un fico.

BER.                 Fatevi dar un libro di là, dal cameriere.

PIP.                   Non vien don Filiberto? Mettiamoci a sedere.

BER.                 Ho con don Filiberto un interesse insieme;

Esser con lui soletta per un affar mi preme.
PIP.                   Ed io devo dar loco?

BER.                                                  Fate il piacere a me.

PIP.                   Vi sarà la ragione nel Libro del perché?

BER.                 Se leggete quel libro, v'avete a deliziare.

Vi son tanti perché, che fan maravigliare.
PIP.                   Il Libro del perché dirà, con permissione,

Ch'io vado e che vi servo, perché sono un minchione. (parte)


SCENA OTTAVA Donna Berenice, poi Filiberto.

BER.                 Credo che in vita sua non sia da quella testa

Uscita una sentenza più bella di codesta.

Ma con lui ci vuol poco per tenerlo obbligato.

Son certa che per questo non sarà disgustato.

Anche quegli altri amici han tutti il loro merto,

Ma quei che più mi premono, son Claudio e Filiberto.
FIL.                   Compatite, signora, se con indiscretezza

V'ho troncato il piacere di qualche stolidezza.
BER.                 Certo mi ha fatto ridere don Pippo la mia parte:

Ma per don Filiberto tutto si lascia a parte.
FIL.                   Bene obbligato. In grazia, fino che soli siamo,

Permettete, signora, fra noi che discorriamo.
BER.                 Volentieri. Possiamo seder.

FIL.                                                                Come v'aggrada. (siedono)

BER.                 (Vedrò com'egli viene, e andrò per ogni strada). (da sé)

FIL.                   Prevedete il motivo, per cui la grazia chiedo

Di favellarvi solo?
BER.                                                Sì, signor, lo prevedo.

FIL.                   Come sta il vostro cuore?

BER.                                                         Sta bene, a quel ch'io veggio.

FIL.                   E il mio sta così male, che non potria star peggio.

BER.                 Perché?

FIL.                                 Per un difetto suo naturale antico,

Che della sofferenza suol renderlo nemico.
BER.                 Fate sia tollerante, che ne avrà merto e gloria.

FIL.                   Ecco, del mio rivale sicura è la vittoria.

BER.                 Qual rivale?

FIL.                                      Don Claudio.

BER.                                                         Voi vivete ingannato.

FIL.                   Non amate don Claudio?

BER.                                                         Non l'amo, e non l'ho amato.

FIL.                   Dunque a me il vostro cuore dona la preferenza.

BER.                 Vi par che questa sia sicura conseguenza?

FIL.                   Ho da temer in altri chi al desir mio contrasti?

BER.                 Non temete nessuno, lo giuro, e ciò vi basti.

FIL.                   Se altri temer non deggio, dunque io sarò il primo.

BER.                 Caro don Filiberto, io vi rispetto e stimo.

FIL.                   Certo la stima vostra mi reca un sommo onore.

Ma ditemi sincera, come si sta d'amore?
BER.                 D'amor io sto benissimo.

FIL.                                                           Per chi?

BER.                                                                       Siete pur caro!

FIL.                   No, donna Berenice, mi avete a parlar chiaro.

BER.                 Vorreste ch'io venissi col cuore alla carlona,

Che vi dicessi tutto. Oibò, non son sì buona.


FIL.

Qual riguardo vi rende con me sì riservata?

BER.

Riguardo di non essere derisa e beffeggiata.

FIL.

Or bene, per provarvi che tal sospetto è vano,

Che son sincero e onesto, prendete, ecco la mano

Senza far più dimora...

BER.

Signor, non tanta furia.

Non sono una villana da farmi tal ingiuria.

FIL.

Vi offendo ad esibirvi la man, se il cuor vi diedi?

BER.

Vi par che sia faccenda da far così in due piedi?

FIL.

Lo confesso, a ragione voi mi rimproverate.

Farò quel che conviene; che ho da far? comandate.

BER.

Soffrir pazientemente, o che con voi mi sdegno.

FIL.

Lungamente soffrire, signora, io non m'impegno. (s'alza)

BER.

Dove andate?

FIL.

A cercare la smarrita mia quiete.

BER.

Siete qui sulle spine?

FIL.

Parmi che sì.

BER.

Sedete.

FIL.

Consolatemi almeno. (sedendo)

BER.

Di consolarvi io bramo.

FIL.

Ardo per voi d'amore.

BER.

Lo credo. Ed io non v'amo?

FIL.

Lo saprò, se mel dite.

BER.

Di me cosa pensate?

FIL.

Non saprei.

BER.

Siete caro!

FIL.

Mi amate, o non mi amate?

BER.

Lascio a voi giudicarlo. (s'alza con un poco di serietà)

FIL.

Come?

BER.

Non dico il modo.

FIL.

Questo è un parlar da oracolo.

BER.

(Di tormentarlo io godo). (da sé)

FIL.

Eh, parlatemi schietto.

BER.

Vi caverò di pene.

FIL.

Ma quando?

BER.

Quanto prima, ma tollerar conviene.

FIL.

Soffrirei volentieri fino all'estremo dì,

Pur che un sì mi diceste.

BER.

Non volete altro? sì.

FIL.

Sì? di che cosa?

BER.

Ancora ciò non vi basta? orsù,

S'è parlato abbastanza, non vuò discorrer più.

FIL.

Una parola sola. (patetico)

BER.

E che parola è questa? (caricandolo un poco)

FIL.

Ditemi se mi amate. (come sopra)

BER.

Dove avete la testa? (come sopra)

FIL.

Non vi capisco ancora. (come sopra)

BER.

Mi capirete poi. (come sopra)

FIL.

Quando vi spiegherete? (come sopra)

BER.

Quando vorrete voi. (come sopra)

FIL.

Non si potrebbe adesso?... (come sopra)


BER.                                                            Vedo uno che ci guarda. (osservando fra le scene)

Andiamo a desinare, che l'ora si fa tarda. (parte)
FIL.                   O ch'ella vuol deridermi, o ch'io non ho più niente.

M'ha detto cento cose, e non capisco niente. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Alcuni servitori portano la tavola preparata per sette, e accomodano la credenza in fondo della

scena. Poi Filippino e Gamba.

FI.                     Oh Gamba mio carissimo, tu pur sei qui venuto?

GAM.                Son venuto a vedere, se hai bisogno d'aiuto.

FI.                     Il pranzo veramente non è di soggezione;

Potrai servire a tavola dietro del tuo padrone.

Poscia meco t'invito. Desineremo insieme.
GAM.                Sì, caro Filippino, quest'è quel che mi preme.

Per dirtela... nessuno ci ascolta in questo loco:

In casa di don Lucio si mangia molto poco.

Dopo ch'è fatto nobile, o almen che tal si stima,

È diventato in casa più economo di prima.
FI.                     Rimettere vorrà, stringendo l'ordinario,

Quel che ha speso per essere il signor feudatario.
GAM.                Per comprar questo rango di fresca nobiltà,

Ha fatto, il so di certo, debiti in quantità.

SCENA SECONDA

Don Claudio e detti.

CLA.                 Mi hanno forse aspettato? (a Filippino)

FI.                                                                Non signor; se le aggrada,

Favorisca di darmi il cappello e la spada.
CLA.                 No, no, so il mio dovere. Esige la mia stima,

Che alla padrona vostra io mi presenti in prima.

Dov'è?
FI.                                 Non lo so certo.

CLA.                                                       Fategli l'imbasciata.

FI.                      So che con due signori è nel giardino andata.

CLA.                 Si può saper chi sono?

FI.                                                         Uno di loro è certo

Il famoso don Pippo, l'altro don Filiberto.
CLA.                 (Sola se sono in tre, col mio rival non parla). (da sé)

FI.                      (Gamba, vien se vuoi ridere). Anderò ad avvisarla. (a don Claudio, e parte con

Gamba)

SCENA TERZA

Don Claudio solo, poi donna Berenice.


CLA.

Di donna Berenice conosco l'intenzione.

Chi aspira ad obbligarla, andar dee colle buone.

Senza mostrarmi ardito, senza mostrar gran fuoco,

Di farla innamorare io spero a poco a poco.

BER.

(Non vorrei disgustarlo quest'altro cavaliero).

CLA.

(Eccola immantinente; ecco s'io dico il vero).

BER.

Perché restar qui solo, e non venire innanti?

CLA.

Il mio dover m'insegna farlo sapere avanti.

BER.

In giardin si passeggia, finché del pranzo è l'ora.

CLA.

Verrò, se mel concede, a servir la signora.

BER.

Anzi mi fate onore... ma no, vi manca poco

A far che diano in tavola. Restiamo in questo loco.

CLA.

Sono ai vostri comandi.

BER.

Ho cento affari intorno.

Permettete ch'io vada; or or faccio ritorno.

CLA.

Tutto quel che vi aggrada.

BER.

(Vi è quell'altro che aspetta).

Con licenza.

CLA.

Servitevi; ma una parola.

BER.

Ho fretta. (parte)

SCENA QUARTA

Don Claudio, poi Filippino, poi don Lucio.

CLA.                 Parmi che mi distingua. Lo spero, e mi consolo.

FI.                      Signor, sono con lei, per non lasciarlo solo.

CLA.                 Obbligato.

FI.                                      Vuol darmi la spada ed il cappello?

CLA.                 Ella ancor non l'ha detto; ve la darò bel bello.

FI.                      Per farsi voler bene, questa è la vera strada.

LUC.                 Paggio.

FI.                                 Signore.

LUC.                                           Prendi il cappello e la spada.

FI.                      (Altro che cirimonie!) (da sé)

LUC.                                                    La padrona dov'è?

FI.                     È di là. Se comanda...

LUC.                                                    No, no, vi andrò da me.

(A questa faccia tosta io molto non inclino. (osservando don Claudio)

A tavola stamane non lo voglio vicino).

Schiavo, amico. (saluta don Claudio, e parte)

SCENA QUINTA Don Claudio e Filippino, poi don Agabito.


CLA.

Costui non ha creanza alcuna.

FI.

Eppur questi son quelli che hanno maggior fortuna.

CLA.

A lungo andar si vedono delusi e discacciati.

FI.

Ma intanto si approfittano.

AGA.

Ci sono i convitati?

FI.

Sì, signor, quasi tutti. Manca don Isidoro.

AGA.

Per uno non si aspetta. Bisogno ho di ristoro.

FI.

La spada ed il cappello vuol favorir?

AGA.

Prendete. (gli dà la spada ed il cappello)

Schiavo, amico, sediamo. (a don Claudio)

CLA.

Sto ben.

AGA.

Come volete. (siede)

CLA.

Voi pur degli invitati?

AGA.

Ma questa è una gran cosa.

Pare la mia venuta a ognun maravigliosa.

Io chi sono?

CLA.

Siet'uno, che pare che non sia

Portato estremamente al spasso e all'allegria.

AGA.

Io non son qui venuto per cantar, per ballare;

Sia in compagnia, o sia solo, egli è tutto un mangiare.

SCENA SESTA Don Isidoro colla spada in una mano ed il cappello nell'altra; e detti.

ISI.                    Eccomi: son venuto correndo per la strada;

E intanto, per far presto, mi ho cavato la spada.

Prendi, ragazzo caro. Dov'è quest'altra gente?

Batteria di bottiglie? Staremo allegramente. (osservando la credenza)
FI.                     Ora che ci son tutti, vo a avvisar la signora.

Si vuol levar la spada? (a don Claudio)
CLA.                                                    No, non è tempo ancora.

FI.                     Si accomodi. (Gli estremi ci sono in questo loco.

Altri modesto è troppo, altri civile è poco). (da sé e parte)
ISI.                    Animo, don Agabito, vi voglio a me vicino.

A bevere vi sfido.
AGA.                                             Io non bevo mai vino.

ISI.                    Bevete, se volete esser robusto e forte.

So anch'io che avete in viso il color della morte.

Che dite voi, don Claudio? È ver che il vino è buono?

Fa rallegrar gli spiriti? È ver da quel ch'io sono. (ridendo)
CLA.                 Tutte le cose, prese colla moderazione,

Fanno del bene agli uomini, tutte son cose buone.
ISI.                    Certo che non intendo volermi ubbriacare.

Ma un bicchierin di più, che mal ci potrà fare?

Ogni cibo col vino divien più saporito.
AGA.                E s'io bevessi vino, perderei l'appetito.

ISI.                    Bevendo sol dell'acqua, come mangiar potete?

AGA.                Come mangiar io posso? aspettate, e il vedrete.


SCENA SETTIMA

I Servitori mettono in tavola e dispongono le sedie, e poi di quando in quando mettono e levano qualche piatto. Donna Berenice, don Filiberto, don Lucio, don Pippo ed i suddetti.

BER.                 A tavola, signori. Perché non vi cavate

La spada ed il cappello? (a Claudio)
CLA.                                                       Ecco, se il comandate. (si leva la spada ed il cappello, e dà

ogni cosa a Filippino)
BER.                 A tavola d'amici distinzion non si fa:

Ciascun prende il suo posto con tutta libertà.
ISI.                    La padrona nel mezzo.

BER.                                                       Eccomi, sì signori. (siede nel mezzo)

AGA.                Io starò qui in un canto, lontano dai rumori. (siede nell'ultimo posto, a dritta della

tavola)
LUC.                 Io vicino di voi. (a donna Berenice) Chi vien presso di me?

BER.                 Verrà don Isidoro.

LUC.                                                Starem male.

ISI.                                                                        Perché?

LUC.                 Siam stati ancora insieme a qualcun altro invito,

E mi ricordo ancora che mi avete stordito.
ISI.                    Oh, voglio rider certo, e chi non vuole, addio.

BER.                 Via, da quest'altra parte venir potete. (a don Lucio)

FIL.                                                                              Ed io?

Compatisca don Lucio, lo prego a capo chino,

Ma qui ci vuò star io. (siede alla dritta di donna Berenice)
BER.                                                     Sedete a lui vicino.

LUC.                 No, no, stia dove vuole, non gli vuò dare impaccio.

Egli è un uom troppo caldo, ed io non son di ghiaccio.
BER.                 Orsù, signori miei, le differenze in bando.

Venite qui, don Claudio.
CLA.                                                         Sono al vostro comando. (siede vicino a donna Berenice,

alla sinistra)
BER.                 Sieda ognun dove vuole.

ISI.                                                            Io di star qui destino. (siede presso don Claudio)

FIL.                   (Ma intanto il mio rivale se lo ha posto vicino).

LUC.                 Sederò in questo canto. (si pone in capo della tavola rimpetto a don Agapito, alla

sinistra)
PIP.                                                         Io sto da tutti i lati. (va a sedere presso don Filiberto e don

Agabito)
BER.                 Grazie al cielo, alla fine siam tutti accomodati.

Chi vuol zuppa di voi? (a tutti)
LUC.                                                       Date a me il cucchiaione.

Voglio presentar io.
BER.                                                  Volete voi? Padrone. (fa passare il cucchiaione a don Lucio)

LUC.                 Oh, in questo non la cedo.

ISI.                                                              Se il sa l'imperadore,

Vi fa della famiglia mariscalco maggiore.


LUC.

La prima impertinenza. (dispensando la zuppa)

ISI.

Si fa per allegria.

AGA.

Don Lucio, della zuppa vorrei la parte mia.

LUC.

Di qua nessun ne vuole; portatela di là. (dà il piatto a Filippino)

FI.

(Porta la zuppa dalla parte di don Agapito, levando il piatto che trovasi da quella

parte, e lo porta dove era la zuppa)

AGA.

Sia ringraziato il cielo. (se la tira sul tondo)

PIP.

Noi faremo a metà. (a don Agapito)

Adagio, camerata; tutta per voi?

ISI.

Da bevere.

CLA.

Sì, presto.

ISI.

Nella zuppa vi han cacciato del pevere. (portano da bevere a don

Isidoro)

LUC.

(Dispensa un altro piatto)

PIP.

Da bevere. (forte)

FIL.

Un po' presto si sveglia l'allegria.

BER.

Fate valer, don Pippo, la vostra poesia. (portano da bevere a don Pippo)

PIP.

Subito, all'improvviso. E perché son poeta,

Beverò alla salute del signor Bocca fresca. (accennando a don Agabito)

AGA.

A me? io non vi bado. (seguitando sempre a mangiare)

ISI.

Viva quel che si stima

Un poeta famoso, e non sa far la rima.

BER.

Basta, basta per ora; se si va troppo innanti,

Le rime, miei signori, saran troppo piccanti.

Sentite quel ragù, che mi par eccellente.

LUC.

Oh che bestialità! cattivo, e non val niente.

FIL.

Don Lucio, compatitemi, questa è un'impertinenza.

LUC.

L'ho detto, e posso prendermi con lei tal confidenza.

FIL.

Questa è una confidenza che i limiti sorpassa.

LUC.

Fra lei e me nessuno può saper quel che passa.

FIL.

Signora, che interessi seco avete in segreto?

BER.

Eh via, don Filiberto, vi prego di star cheto.

FIL.

Favorite di dirlo, che lo vogliam sapere.

CLA.

Si tace, se una dama comanda di tacere.

FIL.

Quando una donna tace, vi è sempre il suo mistero.

BER.

Voi vi piccate a torto.

LUC.

Io saprò dire il vero.

Lo dico in faccia a tutti.

BER.

Direte una pazzia?

LUC.

Dirò che Berenice dev'esser moglie mia.

FIL.

S'ella è così, signora, la mia pretesa è insana. (s'alza)

CLA.

S'ella è così, signora, la tolleranza è vana. (s'alza)

BER.

Voi mentite, don Lucio.

LUC.

Un mentitor son io? (s'alza)

Si fa cotale insulto, cospetto! ad un par mio?

È una donna che il dice, ma se un uom fosse quello...

FIL.

Io per lei lo confermo.

LUC.

La spada ed il cappello. (placidamente a Filippino)

BER.

Servite il cavaliere. (a Filippino)

FI.

Subito, immantinente.

LUC.

Mi farò render conto del tratto impertinente.


FI.

La spada ed il cappello. (dà tutto a don Lucio)

LUC.

Andiam. (a Gamba, e parte)

BER.

Che bel trattare!

GAM.

Ed io, povero gramo, perduto ho il desinare. (parte)

ISI.

Son finite le risse?

BER.

Or resteremo in pace.

ISI.

Adunque alla salute di quel che più vi piace.

PIP.

Bravo, don Isidoro, questo brindisi è mio.

Son io quel che le piace: alla salute di io.

È rima, o non è rima?

BER.

È una rima perfetta.

AGA.

Ehi donna Berenice, che torta benedetta!

BER.

Voi almeno mangiate senza sentir rumori.

AGA.

Badino ai fatti loro; che gridino, signori. (mangiando)

BER.

Se altro mangiar non vogliono, levate i piatti tutti.

AGA.

Questa torta no certo. E non vi sono i frutti?

BER.

Che mettano il desèr.

ISI.

E le bottiglie ancora.

AGA.

(Io di qua non mi levo nemmeno per un'ora).

(i Servitori levano i piatti, e mettono il desèr)

FI.

Signor, vuol favorire questa torta? (a don Agabito)

AGA.

Perché?

FI.

Vorrei che ne restasse un poca anche per me.

AGA.

Tieni, metà per uno.

FI.

Grazie de' suoi favori.

ISI.

Bravo quel don Agabito.

AGA.

Che parlino, signori.

ISI.

V'invito quanti siete, signori, in questo loco,

A bere alla salute di quel che mangia poco.

PIP.

Io rispondo per tutti. La notte canta il cuco.

Evviva quel signore, che mangia come un lupo.

È rima, o non è rima, cosa mi dite?

ISI.

È un cavolo.

PIP.

Cosa parlate voi? non ne sapete un diavolo.

FIL.

Ma con qual fondamento colui ch'è andato via,

Ha potuto vantarsi di simile pazzia?

Voglio che sia uno stolto senz'ombra d'intelletto,

Ma con qualche principio certo l'avrà già detto.

CLA.

Ho dei sospetti anch'io, ma in grazia della dama

Taccio, m'accheto e credo.

FIL.

Viltà questa si chiama.

CLA.

Non m'insultate, amico.

BER.

Tacete in grazia mia.

CLA.

Per ubbidir, non parlo.

FIL.

Tacere è codardia. (s'alza)

A vincer mi sfidaste un cuor di cui diffido.

A discoprir l'inganno per parte mia vi sfido. (a don Claudio)

BER.

Voi andate agli eccessi.

ISI.

Eh via che son freddure.

PIP.

Che dicono di sfida? (a don Agabito)

AGA.

Che si battano pure.


BER.                 E avete cuore, ingrato, di perdermi il rispetto? (a don Filiberto)

FIL.                   Con don Claudio io favello.

CLA.                                                              Io la disfida accetto. (s'alza)

Sostengo che la dama è una dama d'onore,

E chi pensa il contrario, dico ch'è un mentitore. (vuol partire)
FIL.                   Chi ha la ragione o il torto, vedrassi al paragone. (vuol partire)

BER.                 Ah, che va in precipizio la mia conversazione.

ISI.                    Scherzano, o fan davvero? è una disfida, o un gioco?

Non vuò guai, voglio ridere; andrò in un altro loco. (parte)
PIP.                   Andrò da un'altra parte, l'aria non fa per me.

Lo vedrò un'altra volta il Libro del perché. (parte)
AGA.                La tavola è finita. Sono partiti tutti.

Vado anch'io, vuò pigliarmi quattro di questi frutti. (prende dei frutti, e parte)
FI.                     Portate via la tavola, che or ora il cavalier

Porta via le salviette, i piatti ed il desèr. (parte)

(I Servitori levano tutto)

SCENA OTTAVA

Don Filiberto, don Claudio e donna Berenice.

FIL.                   No certo, non vi è caso. (volendo partire sdegnato)

BER.                                                       Restate in grazia mia. (a don Filiberto)

FIL.                   Voglio partir, vi dico. (come sopra)

BER.                                                     Nemmeno in cortesia? (a don Filiberto)

FIL.                   Don Claudio m'ha sfidato.

BER.                                                            Egli è persona onesta.

Che sì, che se gli dico di non partire, ei resta?
CLA.                 Ad onta d'ogni impegno, e del spiacer che or provo,

Se comanda la dama, io resto, e non mi movo.
BER.                 Sentite? (a don Filiberto)

FIL.                                 E lo consente l'onor d'un cavaliere?

CLA.                 A rispondervi ho tempo. Or faccio il mio dovere.

FIL.                   (Vuol soverchiarmi, il vedo). (da sé)

BER.                                                                (Perch'ei moderi il foco,

Altro non v'è rimedio che ingelosirlo un poco). (da sé)
FIL.                   Foste il primo a sfidarmi.

CLA.                                                         E di provarvi ho brama.

FIL.                   Andiam.

CLA.                               Vi sarà tempo; voglio obbedir la dama.

BER.                 Tanta docilità merita affetto e stima.

FIL.                   Via, per lui dichiaratevi; sposatelo alla prima.

BER.                 Siete qui colla solita proposizione ardita.

I vostri matrimoni li fate in sulle dita.

Nessun sa quel ch'io pensi, nessun mi vede il core,

Ma affé, voi mi fareste venire il pizzicore.
FIL.                   Io?

BER.                        Che indiscreti! a forza voler che mi palesi!

CLA.                 Signora, io son disposto a tollerar dei mesi.


FIL.                   (Che ti venga la rabbia! eccolo l'indurito). (da sé)

BER.                 Via, perché non si parte, signor inviperito? (a don Filiberto)

FIL.                   Vorreste ch'io partissi per consolarvi seco?

BER.                 Ecco qui, per la bile voi diveniste un cieco.

FIL.                   Non è ver quel ch'io vedo?

BER.                                                            Don Claudio, in cortesia,

Qual pretensione avete?
CLA.                                                         Niuna, signora mia.

BER.                 E voi? (a don Filiberto)

FIL.                               Io ne ho di molte, e con ragion fondate.

BER.                 Non so che dir, signore, mi par che delirate.

Quel che non chiede nulla, si ferma con bontà;

Quel che pretende tutto, m'insulta e se ne va.

Se fosse il nostro caso in un teatro pieno,

Dirian: quel che più vuole, è quel che merta meno.
CLA.                 (Dello stil che ho fissato, ancora io non mi pento).

FIL.                   (La flemma di don Claudio mi fa dello spavento).

BER.                 (Se amici mi riuscisse farli ancor ritornare!)

CLA.                 (Se ne anderà il furioso).

FIL.                                                           (Non la vuò abbandonare).

BER.                 Questo è quel che si acquista per usar distinzione.

FIL.                   Per or non vi rispondo.

CLA.                                                       Ma la dama ha ragione.

FIL.                   Sì, ha ragione. (affettando placarsi)

BER.                                         Lo dite davvero, o per ischerno?

Via, placatevi un poco.
FIL.                                                         Ma che tormento eterno!

BER.                 Sapete voi, signori, ch'è l'onor mio in pericolo,

E che per cagion vostra sarò posta in ridicolo?

Ecco la gran mercede che alfine ho conseguita,

I miei due cavalieri m'hanno ben favorita.

Domani per Milano a dir si sentirà:

Ehi, donna Berenice più un cavalier non ha.

Eccoli disgustati, eccoli in un impegno;

E per chi? son io forse la causa dello sdegno?

Don Lucio è conosciuto, si sa ch'è uno stordito:

Vedeste in faccia vostra, se franca io l'ho smentito.

La gelosia che nasce fra voi per mio tormento,

Si appoggia, si sostiene, su qualche fondamento?

E se parlar potessi libera ad uno ad uno,

Puot'esser ch'io facessi vergognar qualcheduno.

Se ora di più non dico, se mi trattengo un poco,

È perché non vuò accrescere legna novelle al foco.

Via, se animati siete da spiriti onorati,

Lasciate ch'io vi possa veder pacificati.

Vedrete a sangue freddo, se il ver considerate,

Vedrete ingiustamente il torto che mi fate.

Puntigliarvi in mio danno? Di voi mi maraviglio.

Di rendermi obbligata ponetevi in puntiglio.

Vadan gli sdegni in bando. Ceda all'amor l'orgoglio.

Pace domando a entrambi, questa sol grazia io voglio.


Se il mio voler si sprezza, se il domandar non giova,

Venga l'amore almeno a far l'ultima prova.

E se saper vi cale a chi d'amor favello,

Dirò che chi m'insulta, sa di non esser quello.

Dirò che si lusinghi chi più non mi contrasta:

Che il mio dover conosco, che son chi sono, e basta.
FIL.                   Degli equivoci detti la spiegazione aspetto.

BER.                 Ma con l'armi alla mano.

FIL.                                                           A voi tutto rimetto.

BER.                 Dunque sperar io posso i miei desir felici.

Non mi lusingo invano di rivedervi amici.

Di voi chi sarà il primo a darmi un certo segno,

Che in grazia mia dal petto discaccisi lo sdegno?
FIL.                   Che s'ha da far? chiedete.

CLA.                                                         Invan ciò si domanda.

Tutto obbliar si deve, se la dama il comanda.

Porgetemi la mano. A lei rendo giustizia,

Nel ridonarvi intero l'amore e l'amicizia. (a don Filiberto)
FIL.                   Sì, della dama in grazia, d'ogni livor si taccia.

Col titolo d'amico venite alle mie braccia. (a don Claudio)

(Spero di guadagnarla, se non ha l'alma ingrata). (da sé)
CLA.                 (Spero col sagrifizio d'avermela obbligata). (da sé)

BER.                 Oh cavalieri amabili, oh cavalier ben degni

D'aver della mia stima sincerissimi segni!

Torni il sereno al viso, torni il piacer qual fu.

Di quel ch'oggi è passato, non s'ha a parlar mai più.

Fatemi voi il piacere, don Filiberto mio,

Andate da mia madre, non ci posso andar io.

Ditele che desidero saper com'ella sta,

E che da voi son certa saper la verità.
FIL.                   Vi servirò. (Ma intanto l'amico resta qui). (piano a donna Berenice)

BER.                 Don Claudio, la memoria quest'oggi mi tradì

Mia cognata Lugrezia mandò per avvisarmi

Che sposa il primogenito. Con lei vuò consolarmi;

Ma a me tanto stucchevoli sono i discorsi suoi,

Che seco le mie parti vi supplico far voi.
CLA.                 Subito, mia signora.

FIL.                                                    Servirvi anch'io mi affretto.

BER.                 Andate, e poi tornate, che tutti due vi aspetto.

CLA.                 (L'arte seguir mi giova per conservarla amica). (da sé, indi parte)

FIL.                   (Il moderar la bile costami gran fatica). (da sé, e parte)

BER.                 Spero colla mia testa riunir gli amici miei.

Li voglio tutti uniti, li voglio tutti sei.

A vivere mi piace in buona società;

Per un se mi dichiaro, perduta è libertà.

Tener incatenati gli amici non pavento,

Se fossero sessanta, se fossero anche cento.


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Donna Berenice, poi Filippino.

BER.                 Che risposta mi rechi? parla, rispondi a me.

FI.                      I quattro cavalieri li ho trovati al caffè.

A tenor del comando ho l'imbasciata esposta,

Ed eccole a puntino di ognuno la risposta.

Disse don Isidoro, facendo una risata:

Ho piacer che madama si sia rasserenata.

Dille che l'amicizia fra noi non s'ha a dividere,

Che verrò quanto prima a riverirla e a ridere.
BER.                 Sta bene l'allegria, sta bene il riso e il gioco,

Ma proverò ben io di moderarlo un poco.
FI.                      Disse poi don Agabito, e avea la bocca piena:

Tornerò quanto prima, e starò seco a cena.
BER.                 Via, che dissero gli altri?

FI.                                                              Don Pippo un certo che

Disse, ch'io non capisco, del Libro del perché;

Poi, che verrà, soggiunse l'ingegno peregrino,

Parlando non so bene se greco, o se latino.
BER.                 Bene bene, ch'ei venga; un dì mi comprometto

Di moderargli almeno un simile difetto.

Ed egli, frequentando la mia conversazione,

Di farsi men ridicolo mi avrà l'obbligazione.

Di persuader col tempo parmi di avere il dono.

E don Lucio che disse?
FI.                                                           Oh, adesso viene il buono.

Il capo dimenando, battendo in terra il piede,

Disse: la tua padrona da lei più non mi vede.

Aspetto sulla piazza quei cavalieri arditi;

Vo' battermi con tutti, vo' che ne sian pentiti.

Che donna Berenice tralasci di cercarmi;

Dille che non ardisca nemmen di nominarmi;

Che un cavalier mio pari così non si strapazza:

E unir fece gridando i circoli di piazza.

Chi lo credea in duello, chi lo credea un insano.

E chi credea che il balsamo vendesse un ciarlatano.
BER.                 Non vuol venir?

FI.                                               No certo. L'ha detto e l'ha ridetto.

BER.                 Lo voglio a tutta forza, lo voglio a suo dispetto.

Gli scriverò una lettera. So quel che far conviene.
FI.                     Non ci verrà, signora.

BER.                                                     E che sì, che ci viene?

Vo a stender quattro righe, scritte alla mia maniera.

Se lo ritrovi in piazza, l'aspetto innanzi sera. (parte)


SCENA SECONDA

Filippino solo.

FI.                     È una gran prosunzione che la padrona ha in testa.

La stimo una gran donna, se mi fa veder questa. Chi sa? non vorrei poi scommetter né anche un pavolo. Certissimo ne sanno le donne più del diavolo. Stiamo a veder la scena, la goderò io il primo. Finalmente don Lucio grand'uomo io non lo stimo. Ella che lo conosce, trovar puote un pretesto Per obbligarlo ancora... Eccola; oh, ha fatto presto.

SCENA TERZA

Donna Berenice ed il suddetto.

BER.                 Portagli caldo caldo il mio viglietto in fretta,

E digli: la padrona una risposta aspetta, O in voce, o almeno in scritto. Attendo il tuo ritorno. (Lo voglio, sì, lo voglio; e dentro a questo giorno). (da sé, e parte)

SCENA QUARTA

Filippino solo.

FI.                     Vado e ritorno subito. Oh son pur curioso

Di leggere il viglietto! dev'essere gustoso. Il bollo è ancora fresco, si può dissigillare. La padrona non vede. Mi vuò un po' soddisfare. Cavalier generoso. Principia molto bene: Riparar l'onor vostro e l'onor mio conviene. Dicesi per Milano ch'io v'abbia licenziato, Sdegnando che vi siate amante dichiarato. Ciò fa parlar di voi con derisione aperta, Dicendo che don Lucio si sa che poco merta. Vuò far veder al mondo quanto vi apprezzo e stimo: Oggi però vi prego di favorirmi il primo. Se quel che dissi a tavola, parvi a ragione amaro, Venite, e non temete, mi spiegherò più chiaro. Accettate le scuse di un animo sincero. L'onor vuol che torniate, se siete un cavaliero. Brava la mia padrona d'ogni malizia adorna! L'ha colto nel suo debole; scommetto che ritorna. Ecco unito il suggello. Porto la carta in fretta.


O che donna, o che donna! che testa maladetta! (parte)

SCENA QUINTA

Don Agabito solo.

AGA.                Chi è qua? non c'è nessuno? Camerier, servitori.

Che vuol dir? o che dormono, o che son tutti fuori.

Avanzar non mi voglio senza far l'imbasciata:

La signora non merita essere disgustata.

Fa pranzi che consolano. Ritrovar non si ponno

Conversazion sì belle. Ma mi par d'aver sonno.

Ho mangiato assai bene, e in verità mi sento

Il cibo dolcemente passar in nutrimento.

Giacché mi trovo solo, e altro non ho che fare,

Posso su questa sedia provar di riposare.

Se dormissi un pochino, potrei riprender lena,

Per essere più franco al tempo della cena.

Oh che morbida sedia! Eh, di dormir non dubito.

Io soglio per costume addormentarmi subito. (si addormenta nel bello)

SCENA SESTA

Donna Berenice ed il suddetto addormentato.

BER.                 Parmi di sentir gente. Lo staffier dov'è andato?

Don Agabito è qui? Zitto, ch'è addormentato. Dorma pur, poverino, che ha di dormir ragione, Se di quel che ha mangiato vuol far la digestione. Prima che ritornassero don Claudio e Filiberto, Vorrei che ci venisse don Lucio. Certo, certo, Se il pensier non m'inganna, dev'essere piccato Di far vedere al mondo che in casa è ritornato. E se a parlargli arrivo, non ho più dubbio alcuno; Saputo han mie parole convincere più d'uno.

SCENA SETTIMA

Don Isidoro e detti, come sopra.

ISI.                   Eccomi pronto e lesto. (forte e ridendo)

BER.                                                     Zitto.

ISI.                                                                 Che cosa c'è?

BER.                 Don Agabito dorme.

ISI.                                                     Dorma, che importa a me?


Quel matto di don Lucio vuol finir d'impazzire. (come sopra)
BER.                 Ditemi, cos'è stato?

AGA.                                                 Oh! non si può dormire? (destandosi)

BER.                 Compatite. L'ho detto. Se riposar volete,

Là dentro in quella stanza letto ritroverete;

Poi vi risveglieremo.
AGA.                                                 Non vi prendete pena.

Basta che mi svegliate all'ora della cena. (insonnato parte)

SCENA OTTAVA

Donna Berenice e don Isidoro.

ISI.                    Un uom simile a questi al mondo non vi fu.

Egli è su questa terra un animal di più.
BER.                 Ciascuno ha il suo difetto, e compatir conviene.

Vi è in ciaschedun del male, vi è in ciaschedun del bene.
ISI.                    Fa quella faccia tetra venir malinconia.

BER.                 E a qualchedun dispiace la soverchia allegria.

ISI.                    Il mio temperamento di barattar non bramo.

BER.                 Amico, da noi stessi noi non ci conosciamo.

ISI.                    Oh oh, mi fate ridere. Andate di galoppo

Dell'ippocondria in cerca?
BER.                                                            No, quel ch'è troppo, è troppo.

E un giorno il vostro ridere, con i trabalzi suoi,

Vi obbligherà di farvi conversazion da voi.
ISI.                    Perché?

BER.                               Perché chi ride per onta e per dispetto

Obbliga i galantuomini a perdergli il rispetto.

Le società civili sogliono conservarsi,

Allora che a vicenda si cerca uniformarsi;

E quando uno s'accorge che offende i suoi compagni,

Dee moderar lo scherzo, onde nessun si lagni.

Queste le leggi sono di buona società:

Ridere con misura, scherzar con civiltà.
ISI.                    Padrona mia garbata. (in atto di partire)

BER.                                                     Con un'azion simile

Voi confessate adunque che siete un incivile.
ISI.                    Io confessar tal cosa?

BER.                                                     Sì, voi lo confessate,

Se una lezione onesta di tollerar sdegnate.
ISI.                    Ma io vi parlo chiaro; non ho altro bene al mondo

Che rider, se ne ho voglia, e vivere giocondo.
BER.                 Rider non v'impedisco, quando vi sia il perché.

Ridete con don Pippo, sfogatevi con me.

Con quelli che non l'amano, il ridere lasciate.

Fra noi da solo a sola farem delle risate.
ISI.                    Io vi sono obbligato di tali esibizioni,

Ma credete che manchino a me conversazioni?


BER.                 Quali conversazioni, don Isidoro mio?

Di quelle che oggi corrono, di quelle che dich'io, Vi faran mille grazie le donne in sul mostaccio, E poi dietro le spalle diran: che buffonaccio! Stuzzicheranno a posta la gente a provocarvi A ridere e a scherzare, affin di corbellarvi: Certo procureranno d'avervi nel palchetto Per disturbar la gente, per far qualche chiassetto; E poi se qualcheduno si lagnerà di loro, Diranno: è stato causa quel pazzo d'Isidoro. Qui troverete un misto di serietà e di gioco, In casa mia ciascuno può avere il proprio loco. Basta sia vicendevole la stima ed il rispetto, Una felice Arcadia divenirà il mio tetto. E voi che per il brio, per le vivezze estimo, Voi nei giocosi impegni sempre sarete il primo.

ISI.                    Signora, mi stringete sì forte i panni addosso,

Che forza è ch'io vi lodi, e ridere non posso. Quello che avete detto, è tutto vero, il so. Modererò il costume, o almen mi sforzerò.

BER.                 L'uomo fa quel che vuole, quando di far s'impegna.

ISI.                    L'uomo fa quel che deve, quando far ben s'ingegna.

BER.                 Bravissimo.

ISI.                                       Che dite? anch'io faccio il morale. (ridendo)

Posso ridere adesso, non ve n'avete a male.

BER.                 Quando siam fra di noi, ridete pure in pace.

Anch'io so stare allegra, e il ridere mi piace.

ISI.                    Andiamo nel giardino?

BER.                                                       Sì bene, andiamo giù.

ISI.                    Subito, allegramente.

BER.                                                     Facciam chi corre più.

ISI.                    Non vo' che vi stanchiate; andiam, gioietta mia.

Viva chi vi vuol bene.

BER.                                                     E viva l'allegria. (partono)

SCENA NONA

Don Lucio e Filippino.

LUC.                Ah, per il mio buon nome che sofferir mi tocca!

FI.                     Meglio è che la risposta dia alla padrona a bocca.

LUC.                Dov'è?

FI.                                 Non so davvero

LUC.                                                       Avrà gli amanti appresso.

FI.                     Che cosa vuol ch'io sappia? vede ch'io vengo adesso. (parte)

SCENA DECIMA


Don Lucio, poi don Pippo.

LUC.                 Io che la nobiltade di sostener procuro,

Non ho potuto alfine resistere al scongiuro.

Se di viltade alcuno vorrà rimproverarmi,

Con questo foglio in mano potrò giustificarmi.
PIP.                   Oh oh, me ne rallegro, don Lucio; ben tornato.

Mi consolo con voi, che il caldo vi è passato.
LUC.                 Non soffro che nessuno m'insulti e mi derida.

PIP.                   È ver che contro due faceste una disfida?

LUC.                 L'ho fatta, e la sostengo, e battermi son pronto,

Per riparar l'onore, per riparar l'affronto.
PIP.                   Imparai dei duelli ogni arte ed ogni usanza

Nell'Amadis di Gaula, nei Reali di Franza.

Però mi maraviglio che qua siate venuto,

Prima di vendicare l'affronto ricevuto.
LUC.                 Son cavalier d'onore, l'onte soffrir non soglio.

La ragion che mi guida, leggete in questo foglio. (vuol dare il foglio a don Pippo)
PIP.                   Ho studiato quel tanto che ad un par mio conviene;

Ma a dir il ver, lo scritto io non l'intendo bene.
LUC.                 Dunque vi dirò a voce la ragion che mi pressa

Ritornar dalla dama...
PIP.                                                       Eccola qui ella stessa.

SCENA UNDICESIMA

Donna Berenice e detti.

BER.                 Scusatemi, don Lucio, se attendere vi ho fatto.

PIP.                   E a me nulla, signora?

BER.                                                     Vuò mantenervi il patto.

Quel libro che sapete, lo preparai testé;

Ho trovato per voi un ottimo perché.

Andate a ritrovare don Isidoro intanto.

Ei nel giardin vi aspetta. Fatelo rider tanto.

Poscia il perché bellissimo di leggere mi preme;

Quando saremo soli, lo leggeremo insieme.
PIP.                   Benissimo, ho capito. Don Lucio, riverente.

Di già di quel negozio non m'importa niente. (a don Lucio, e parte)

SCENA DODICESIMA

Donna Berenice e Don Lucio.

LUC.                 Voi mi badate poco, cara signora, e invano

Questo foglio m'invita.


BER.                                                       Perché tenerlo in mano?

LUC.                 Per poter far constare la ragion che mi guida

A venir dove nacque il punto di disfida.
BER.                 Lasciate ch'io vi parli con vero amor sincero:

Voi siete poco cauto, e poco cavaliero.

Mostrar vorrete a quelli che forse non lo sanno

Le beffe che di voi dai discoli si fanno?

Il testimon vorrete mostrar nel foglio espresso

Del disprezzo che serba il mondo di voi stesso?

Quel che là dentro ho scritto, a voi lo posso dire:

Non lo direi ad altri, a costo di morire.

Volano le parole, lo scritto ognor rimane,

E son di un foglio a vista tarde le scuse e vane.

Più di quanto fu detto di voi dal volgo insano,

Pregiudicar vi puote chi ha quella carta in mano.

E se talun con arte ve la rapisce un giorno,

E se girar si vede la bella carta intorno,

Quale ragione avrete contro un sì fatto imbroglio?

Arrossirete in volto. Datelo a me quel foglio. (glielo leva di mano)

Note pericolose vadano col demonio. (lo straccia)

(Così dell'arte mia perito è il testimonio). (da sé)
LUC.                 Volea, pria di stracciarlo, concludere l'istoria.

BER.                 Eh, favellar possiamo, che l'ho tutto a memoria.

LUC.                 Dunque di me si dice...

BER.                                                       Superfluo è il replicarlo

Di quel che già leggeste, con fondamento io parlo.

Or che da me tornaste, è ogni rival smentito:

Non resta che vedervi di nuovo stabilito.
LUC.                 Qual condizion mi offrite, perché in impegno io resti?

BER.                 Da me voi non avrete che giusti patti e onesti.

LUC.                 A buone condizioni di accomodarmi assento.

10fo due patti soli, voi fatene anche cento.

11primo, che don Claudio e che don Filiberto In questa casa vostra non vengano più certo. Ed accordato il primo, questo sarà il secondo: Voglio che siate mia, quando cascasse il mondo.

BER.                 Due patti voi faceste, due ne vo' fare anch'io.

Il primo, in casa mia vo' fare a modo mio.

Ha da venir don Claudio, verrà don Filiberto,

Che son due cavalieri degnissimi, e di merto.

Secondo: di sposarmi parlar non vo' sentire,

E tanto e tanto in casa don Lucio ha da venire.
LUC.                 Io?

BER.                        Sì, voi.

LUC.                                    Con tai patti?

BER.                                                            Con questi patti appunto.

LUC.                 V'ingannate di grosso.

BER.                                                     Or mi mettete al punto.

LUC.                 Credete di don Pippo ch'io abbia l'intelletto?

BER.                 Don Pippo è un galantuomo, portategli rispetto.

LUC.                 Tutti di me più degni.


BER.                                                     Tutti egualmente io stimo;

E fra color ch'io venero, forse voi siete il primo. Sì, don Lucio carissimo, avete un non so che, Che mi obbliga all'estremo, e non so dir perché. Non so che non farei per dimostrarvi il cuore, Ma poi pensar dovete ch'io son dama d'onore. Cosa mi costerebbe il licenziar repente Quei due che vi dispiacciono? Ve l'accerto, niente. Pensate voi ch'io li ami? Lo dico fra di noi: Per me non li trattengo, li trattengo per voi.

LUC.                 Per me, che deggio farne?

BER.                                                            Eh, lasciate ch'io dica.

Vedrete se vi sono sincerissima amica. Spiacemi aver stracciato quel foglio, ma non preme: I pezzi lacerati si ponno unire insieme. Ma nemmeno, nemmeno; la memoria ho felice, La carta è lacerata, ma so quel ch'ella dice. Caro don Lucio, il mondo v'invidia malamente, Potete in certi luoghi andar difficilmente. La nobiltà vi sfugge, le dame principali (Compatite, di grazia) voglion trattar gli eguali: E i loro cavalieri, per far la bella scena, In grazia delle donne vi voltano la schiena. Qui ritrovate un numero di cavalier stimati, Ciascun coi suoi difetti, però tutti bennati; In grazia mia vi soffre ciascuno volentieri, Mangiate in compagnia, giocate ai tavolieri; E quei che qui vi trattano, fan poi questo buon frutto, Che in forza d'amicizia vi trattano per tutto. Se di scacciarli tutti vi dessi or la parola, Cosa fareste al mondo voi solo con me sola? Nessun ci guarderebbe, ed io sarei forzata Privarmi di don Lucio per essere trattata. Ma il mio caro don Lucio tanto mi preme e tanto, Che fargli degli amici vo' procurarmi il vanto; E vo' che il mondo sappia, e vo' che il mondo dica: Sì, Berenice infatti è di don Lucio amica.

LUC.                 Resto convinto appieno: il pensier vostro io stimo.

BER.                 (Tu non sarai a credermi né l'ultimo, né il primo). (da sé)

LUC.                 Ma perché non potrebbesi aver tal compagnia,

Ancor ch'io vi sposassi, ancor che foste mia.

BER.                 Trattar mi converrebbe il vostro parentado,

E dicon, perdonate, sian gente di contado; E i cavalieri istessi che or vengono a onorarmi, Avrebbono in tal caso riguardo a praticarmi.

LUC.                 Mi date del villano così placidamente.

BER.                 Eh via, zitto, don Lucio, che nessun non ci sente.

LUC.                 Ma se vo' maritarmi, non l'ho da far per voi?

BER.                 Aspetto a questo passo di rispondervi poi.

È un articolo questo, che voi sol non impegna. Darò a ognun la risposta che la ragion m'insegna.


LUC.

Datela dunque.

BER.

E presto.

LUC.

Quando l'avrò?

BER.

Sta sera.

LUC.

Siete una donna accorta.

BER.

Ma però son sincera.

SCENA TREDICESIMA

Filippino e detti.

FI.

Viene don Filiberto.

BER.

Fallo aspettare un poco. (Filippino parte)

Non è ben che vi trovi per ora in questo loco. (a don Lucio)

LUC.

Perché?

BER.

Bella domanda! siete nemici ancora.

Quando gli avrò parlato, vi vederete allora.

Oggi l'impegno è mio di far tutti felici.

In casa mia vi voglio tutti fratelli e amici.

E d'essere tenuta da tutti io goderò

Per sorella amorosa.

LUC.

E per consorte?

BER.

No. (caricato fra la rabbia e lo scherzo)

Quegli altri nel giardino a ritrovar passate.

E quel ch'è stato, è stato; più non si parli; andate.

LUC.

Di non avervi in sposa il dispiacer sopporto.

Ma son chi son, né voglio che mi si faccia un torto. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA Donna Berenice, poi Filippino.

BER.                 L'ho accomodata bene con questi facilmente.

Don Claudio sarà anch'egli, cred'io, condiscendente.

Difficile è quest'altro, più risoluto e sodo,

E ancor di persuaderlo non ho trovato il modo:

Ma studierò ben tanto, che mi verrà in pensiero.

Sottrarmi coi ripieghi per or fa di mestiero.

Hanno queste da essere le mire principali,

Far che sian tutti amici senza trattar sponsali.

Sei costì, Filippino? (verso la scena)
FI.                                                      Eccomi, mia signora.

BER.                 Dov'è don Filiberto?

FI.                                                      Non è salito ancora.

BER.                 Ne ho piacer. Quando viene, sta sempre alla portiera.

Vedrai che nelle mani terrò la tabacchiera.

Quando prendo tabacco, vien tosto immantinente


A dirmi qualche cosa: quel che ti viene in mente.
FI.                     Lasci pur far a me, che mi saprò ingegnare.

BER.                 Lo fo per certi fini. Basta; non ti pensare

Che vi sia qualche arcano.
FI.                                                                Da ridere mi viene.

Io son uno, signora, che pensa sempre bene.

Dir mal della padrona non tentami il demonio.

Se mormoro, se parlo, Gamba è buon testimonio.

SCENA QUINDICESIMA Donna Berenice, poi don Filiberto, poi Filippino.

BER.

Nol credo tanto schietto, conoscolo alla ciera.

Ma i nostri servitori son tutti a una maniera.

Ne abbiamo di bisogno, di lor convien fidarsi

E se non sono i peggio, è grazia da lodarsi.

FIL.

Eccomi di ritorno.

BER.

E tanto siete stato?

Cosa dice mia madre?

FIL.

Don Claudio è ritornato?

BER.

Non ancora.

FIL.

La vostra cortese genitrice

Brama di rivedervi per esser più felice.

Sta bene di salute, dalla vecchiaia in fuori.

E i vostri complimenti li accetta per favori.

BER.

Anderò a visitarla. Grazie vi rendo intanto

Dell'incomodo preso.

FIL.

Buon servitor mi vanto.

Ma di già che siam soli, deh, se vi contentate,

Favelliamo sul serio.

BER.

Sì, mio signor, parlate.

FIL.

Fatta ho la strada a piedi, son stanco, a dir il vero.

BER.

Ehi, chi è di là? due sedie. (esce Filippino e reca le sedie)

FIL.

(Escir di pene io spero). (da sé)

BER.

(Se dichiararsi aspetta, or si lusinga invano). (tira fuori la tabacchiera)

FIL.

(Affé, che ha la padrona la tabacchiera in mano). (da sé, e parte)

BER.

Che volevate dirmi?

FIL.

Da capo io tornerò

A dir quel che già dissi.

BER.

Quel che diceste il so.

FIL.

Una risposta certa a me più non si nieghi.

BER.

Permettetemi prima, che di un favor vi preghi.

FIL.

Disponete pure.

BER.

Ma poi non mi mancate.

FIL.

Con simile timore nell'onor m'insultate.

BER.

Vo' che torniate amici...

FIL.

Son di don Claudio amico.

BER.

Lo so, non è di lui...


FIL.

Qualche novello intrico?

BER.

Don Lucio...

FIL.

Ah, con colui...

BER.

Voi v'impegnaste a farlo.

FIL.

È ver.

BER.

Sarete amici in grazia mia?

FIL.

Non parlo.

BER.

L'uomo che non favella, non spiega i pensier suoi.

FIL.

Sì, dite ben, lo stesso posso dir io di voi.

Finché non vi spiegate sinceramente e schietto,

Raccogliere non posso quel che chiudete in petto.

Su donna Berenice, ditemi apertamente

Sulle proposte nozze quel che chiudete in mente.

Di qua più non si parte senza un sì certo e chiaro,

Senza un no risoluto.

BER.

(Prende tabacco)

FI.

Signora, il calzolaro.

FIL.

Che il diavolo sel porti.

BER.

Di' che di fuori aspetti.

FIL.

Va tu ed il calzolaro; che siate maledetti. (Filippino parte ridendo)

BER.

Quali smanie son queste?

FIL.

Di grazia, compatite.

Da me vi liberate tosto che il ver mi dite.

BER.

Il falso in vita mia non so d'averlo detto.

Stupisco che voi abbiate di me sì bel concetto!

FIL.

Sarà difetto mio di non avervi inteso.

Compatite signora, un ch'è d'amore acceso.

Due parole vi chiedo; non parmi essere audace.

BER.

Vo' contentarvi alfine. Orsù, datevi pace.

Son pronta ad isvelarvi candidamente il cuore.

Voglio che siate certo... (prende tabacco)

FI.

Signora, è qui il sartore.

FIL.

(Povero me!) (da sé)

BER.

Si fermi. Parlate, aspetterà. (a don Filiberto)

Non mi dà soggezione.

FIL.

Va via, per carità. (a Filippino, che ridendo parte)

(Ride il briccon... Se giungo...) Seguitate, via, su.

BER.

Che cosa vi diceva, non mi ricordo più.

FIL.

Pronta, mi dicevate, ad isvelare il vero,

Voglio che siate certo...

BER.

Or mi ricordo, è vero.

Certo vi rendo, e dico, e lo protesto ancora... (apre la tabacchiera)

FIL.

Perché tanto tabacco? vi farà mal, signora.

BER.

Ma voi non crederete tutto quel ch'io dirò.

FIL.

Colle prove alla mano tutto vi crederò.

BER.

Colle prove alla mano? dunque è il parlar sospetto.

FIL.

Ma finor che ho da credere, se nulla avete detto?

BER.

Da voi posso sperare egual sincerità?

FIL.

Del mio cuor siete certa.

BER.

Quai prove il cuor mi dà?

FIL.

Comandate.


BER.

Don Lucio...

FIL.

Maledetto colui!

Datemi il mio congedo, se più vi cal di lui.

BER.

Io congedarvi? ingrato!

FIL.

Vi domando perdono.

BER.

Vi ricordate poco qual io fui, qual io sono.

Si vede ben che avete un cuor debole e fiacco,

Di reggere incapace... (apre la tabacchiera)

FIL.

Non prendete tabacco. (le ferma la mano)

BER.

Un picciolo favore non mi accordar?...

FI.

Signora,

È venuto don Claudio.

FIL.

Vattene in tua malora. (a Filippino)

BER.

Mi fareste la scena di dir che non si avanzi

L'onor mio nol consente. Fa pur ch'ei venga innanzi. (Filippino parte)

Non mancherà poi tempo di dare un compimento

Al nostro mal inteso fatal ragionamento.

FIL.

Non so che dir; direi tanto, se dir potessi,

Che arriverei parlando a dar fin negli eccessi.

Megli' è che non si parli; vi leverò d'imbroglio.

BER.

Anzi si ha da parlare; ve lo comando, e voglio.

FIL.

Ma quando?

BER.

Questa sera.

FIL.

Ma dove?

BER.

Appunto qui.

FIL.

Voi mi fate impazzire.

BER.

Don Claudio eccolo qui.

SCENA SEDICESIMA Don Claudio e detti.

CLA.

Recovi la risposta della cugina vostra,

Che ai generosi uffizi gratissima si mostra.

Spera poi di vedervi al nuziale invito.

BER.

Obbligata, don Claudio. Siete così compito,

Che ardisco di pregarvi di un'altra grazia ancora.

Me la farete voi?

CLA.

Che non farei, signora?

BER.

Vorrei che con don Lucio tornaste in amistà.

CLA.

Se il comandate voi, non ho difficoltà.

BER.

Sentite? per amico non sdegna d'accettarlo.

E voi me lo negate? (a don Filiberto)

FIL.

Ho detto di non farlo?

BER.

Dunque il farete.

FIL.

Accordo.

BER.

Di lui tornate amico.

FIL.

Bene.

BER.

Ditelo chiaro.


FIL.                                                    Ma sì, ma sì, vi dico.

BER.                 Tanto ancor non mi basta. Venite, se vi piace.

FIL.                   Dove?

BER.                             Venite entrambi a far con lui la pace.

CLA.                 Son pronto ad obbedirvi.

BER.                                                         E voi, signor? (a don Filiberto)

FIL.                                                                                   Nol nego.

BER.                 Andiamo, cavalieri, non comando, vi prego.

Ma siete sì gentili, lo so, col nostro sesso, (li prende per mano)

Che i preghi ed i comandi sono con voi lo stesso. (li tiene per mano, e partono)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Lumi accesi

Filippino e Gamba.

FI.                     Oh Gamba, ho da contartene una ch'è fresca, fresca,

Senti fin dove arriva la malizia donnesca!

Col cavalier volendo sfuggir un certo impegno,

Perch'io l'interrompessi, era il tabacco il segno.
GAM.                Brava! queste lezioni e da chi mai le piglia?

FI.                     Sia detto a lode sua, nessun non la consiglia.

È una testa bizzarra, che opera a suo talento;

Ma sola, ne sa più che non ne sanno in cento.
GAM.                Certo pensar conviene ch'ella ne sappia assai.

Che il mio padron tornasse, non lo credea giammai.

C'è il mele in questa casa.
FI.                                                                Il mel? che dici tu?

C'è il vischio, e se si attaccano, non si distaccan più.
GAM.                I merlotti che vengono, ci lasciano le piume?

FI.                     Questo poi no, per dirla, la padrona ha il costume,

Al contrario di quello che tante soglion fare,

Invece di mangiarne, di farsene mangiare.

Aiutami le sedie a preparar.
GAM.                                                             Perché?

FI.                     Per la conversazione.

GAM.                                                   In casa ora chi c'è?

FI.                     I soliti. M'ha detto che qui verranno or ora.

Aiutami.
GAM.                              Son pronto.

FI.                                                      Eccola la signora. (dispongono sette sedie)

SCENA SECONDA

Donna Berenice, don Pippo e detti.

BER.                Il caffè si prepari, e il carrozzier sia lesto

Per attaccar due legni.
FI.                                                         Benissimo.

BER.                                                                       Via presto.

FI.                     (Senti, Gamba? li vuol con essa tutti sei). (piano a Gamba)

BER.                Ora di che si parla?
FI.                     Diciam bene di lei. (parte con Gamba)


SCENA TERZA

Donna Berenice e don Pippo.

PIP.                   Ma quando lo leggiamo questo libro sì bello?

BER.                 Il Libro del perché, don Pippo, è nel cervello.

Ciascuno lo possede se ha il lucido perfetto; Nessuno lo sa leggere, se scarso ha l'intelletto. Il perché principale che voi studiar dovete, È quello, compatitemi, per cui ridicol siete. Perché un uomo del mondo vuol fare il letterato, Sapendo appena leggere, e senza aver studiato? Spropositi si dicono che fanno inorridire. E voi, caro don Pippo (lasciatevelo dire), Voi dite all'impazzata quel che vi viene in bocca: Cosa non proponete che non sia falsa e sciocca. Vi parlo con amore, qual foste un mio germano; Spero lo aggradirete, e non lo spero invano. Quando che non si sa, non si favella audace; Insegna la prudenza, se non si sa, si tace. E l'uomo che tacendo si mostra contenuto Spesse volte sapiente nei circoli è creduto. Spesso da me venite, ragioneremo insieme, Procurerò insegnarvi quel che saper vi preme. Vo' che facciate al mondo una miglior figura, Che abbandoniate affatto ogni caricatura. E spero in poco tempo, se abbaderete a me, Che in voi ritroverete il Libro del perché.

PIP.                   Sono restato estatico. La stento a mandar giù.

BER.                 E questo è uno sproposito.

PIP.                                                              Non parlerò mai più.

BER.                 Anzi vo' che parliate, ma con debite forme.

Andate don Agabito a risvegliar, che dorme. Poscia con lui tornate; ho da parlar sul serio, E di essere ascoltata da tutti ho desiderio.

PIP.                   Anderò a risvegliare... si può dire amicorum?

BER.                 Ecco un altro sproposito.

PIP.                                                           Tacerò in saeculorum. (parte)

SCENA QUARTA

Donna Berenice.

BER.                 Bastami ch'ei capisca, per or, ch'è un ignorante;

I pensier, le parole regolerà in avante. Col tempo e coll'ingegno averò, lo protesto, Una conversazione di gente di buon sesto. Ecco don Filiberto. Questi mi dà più intrico,


Ma vo', senza sposarmi, ch'egli mi resti amico.

SCENA QUINTA

Donna Berenice e Don Filiberto.

FIL.                   Eccomi un'altra volta a importunar madama.

BER.                 Voi qui arrivate in tempo che di parlarvi ho brama.

FIL.                   Di dar fine agli arcani cosa mi sembra onesta.

BER.                 Di terminar gli arcani ora opportuna è questa.

FIL.                   Il ciel sia ringraziato; son lieto, e mi consolo.

Vi spiegherete alfine.
BER.                                                     Ma non però a voi solo.

FIL.                   Altri volete a parte?

BER.                                                  Sì, della mia intenzione

Vo' in testimonio unita la mia conversazione.
FIL.                   Questo è un torto novello.

BER.                                                            Signor, voi v'ingannate.

In pubblico parlare perché vi vergognate?
FIL.                   Arrossir non paventa chi ha massime d'onore.

BER.                 Dunque il celarsi al mondo è un manifesto errore.

FIL.                   Mettervi in soggezione potria qualche indiscreto.

BER.                 Saprò parlare in pubblico, qual parlerei in segreto.

FIL.                   Sì, donna Berenice, prevedo il mio destino.

BER.                 Che prevedete?

FIL.                                             Udite, se appunto io l'indovino.

Scegliere voi volete lo sposo in faccia mia,

E far sì ch'io lo sappia degli altri in compagnia,

Perché de' miei trasporti a ragion dubitate.
BER.                 E voi, così pensando, da cavalier pensate?

Se avessi ad altro oggetto diretti i pensier miei,

In pubblico a un insulto, signor, non vi esporrei.

E se pensassi ad altri di consacrare il cuore,

Né in compagnia, né sola mi fareste timore.

Son libera, son donna; altrui non mi ho venduto;

Con onestà con tutti finor mi ho contenuto.

Voi vantar non potete da me un impegno espresso;

E son, quale voi siete, tutti nel caso istesso.
FIL.                   Dunque...

BER.                                  Dunque attendete ch'io spieghi i miei pensieri

Libera, alla presenza di tutti i cavalieri.

Vedrò in confronto almeno chi avrà per me nel petto

Non dirò amor soltanto, ma discrezion, rispetto.
FIL.                   Nessun mi vince in questo.

BER.                                                            Bene, or or si vedrà.

FIL.                   Ne dubitate ancora? ah crudel!...

BER.                                                                     Chi è di là? (chiamando)


SCENA SESTA

Filippino e detti.

FI.                     Vuole il caffè?

BER.                                         Che vengano qui tutti i cavalieri.

FI.                     Sì signora. (parte)

BER.                                  Saprete or ora i miei pensieri.

FIL.                   Per me son tristi, o buoni?

BER.                                                            Saran qual li volete.

SCENA SETTIMA Don Agabito, don Pippo e detti.

AGA.

Quanto averò dormito?

PIP.

Cinque o sei ore appena.

AGA.

Eh, non è poi gran cosa. Preparata è la cena?

BER.

Don Agabito mio, vi stimo e vi ho rispetto,

Ma vorrei moderaste sì sordido difetto.

Altro non fate al mondo che mangiar, che dormire.

AGA.

E che ho da far, signora?

BER.

Vi avete a divertire.

Alla commedia uniti vo' che si vada.

AGA.

E poi?

BER.

Qui ceneremo insieme.

AGA.

Bene, sarò con voi.

BER.

La vita che or menate, di gloria non vi fu.

Cosa dite, don Pippo?

PIP.

Oh, io non parlo più.

FIL.

Pensate alla commedia? (a donna Berenice)

BER.

Voi venir non volete?

FlL.

Altro mi passa in mente.

BER.

Sì, signor, ci verrete.

SCENA ULTIMA Don Lucio, don Claudio, don Isidoro e suddetti.

BER.

Su via, don Isidoro, sedete, e siate fido

Alla parola vostra.

ISI.

Eccomi qui, non rido. (siede nell'ultimo luogo alla sinistra)

BER.

Don Pippo in mezzo a loro.

PIP.

La virtù sta nel medio

ISI.

(Ride forte)

BER.

Bravo, don Isidoro.


ISI.                                                   Oh, qui non vi è rimedio.

Se rido di don Pippo, conviene aver pazienza: A ridere di lui mi deste la licenza.

BER.                 In pubblico non voglio.

ISI.                                                          Bene, non riderò.

BER.                 Voi non dite spropositi.

PIP.                                                         Bene, non parlerò.

BER.                 Finalmente, signori, suonata ho la raccolta,

Per essere ascoltata da tutti in una volta. Quel di che vo' parlarvi, ciascun forse interessa, Ché ci fa l'amicizia tutti una cosa istessa. Noi siamo un picciol corpo in union perfetta, Un'adunanza stabile, una repubblichetta. E solo l'uguaglianza, solo l'amor fraterno, Può mantenere in noi la pace ed il governo. Io son per grazia vostra, per amor vostro io sono Quella che rappresenta in questo centro il trono: E sarò sempre ogni ora sofferta con pazienza, Finché userò per tutti amor d'indifferenza. Evvi talun che aspira, con parzïale orgoglio, A fronte dei compagni di dominare il soglio; Onde tener non solo la libertade oppressa Dei cavalier suoi pari, ma della dama istessa. Sta in mia man l'accordare del bel disegno i frutti, Ma per piacere ad uno, son sconoscente a tutti. Onde, pria di risolvere, l'altrui consiglio aspetto, E ai consiglieri innanzi le mie ragion premetto. L'un che di voi fia scelto, l'odio sarà d'altrui, E quel che in altri sdegna, ha da sdegnare in lui. Finalmente un possesso chi d'acquistar procura, Pensi, pria d'acquistarlo, quanto si gode e dura. E per brievi momenti di un bene immaginato, Perdere non conviene un ben che si è provato. Se uno di voi mi sposa (parliam più chiaramente), Spera volermi seco legar più strettamente. Che praticar non abbia, e viver da eremita? L'uso, dacché son vedova, perdei di cotal vita. E se soffrir s'impegna ogni grazioso invito, Quel che servente abborre, soffrirà poi marito? Oh, se sarai mia sposa, sento talun che dice, Ti avrò meco nell'ore che averti ora non lice. Rispondo in generale al cavaliere onesto, Che l'ore sospirate finiscono assai presto. Ecco quel ben che dura: un'amicizia vera, Una conversazione saggia, onesta, sincera, In cui nell'eguaglianza trova il suo dritto ognuno, Tutti comandar possono, e non comanda alcuno. Torto alfin non si reca a alcun dei pretendenti; Se tutti son padroni, e tutti dipendenti. Uno all'altro non rende invidia o gelosia; Se ognun può dire, io regno, niun può dire, è mia.


Prevedo un altro obbietto, poi l'orazion finisco.

So che volete dirmi, vi vedo e vi capisco.

Sento che tontonate: se mi venisse offerto

Il regno in altro loco dispotico e più certo,

Ho da lasciar di reggere una provincia solo,

Per obbedir cogli altri, e comandar di volo?

No, cari miei, sentite quanto discreta io sono.

La monarchia accettate, vi assolvo e vi perdono.

Mi spiegherò: di nozze chi vuol nutrir la brama,

Non deve alla consorte prescegliere la dama;

Chiedo sol che, fintanto che liberi vivete,

Restiate nel governo in compagnia qual siete.

Ecco i disegni miei, eccovi il cuor svelato,

Per me vo' viver certo nel libero mio stato.

Al cuor di chi mi ascolta, non prego e non comando.

Chi si contenta, approvi; chi non approva, al bando.
ISI.                    Dopo il lungo silenzio rider si può, signora?

BER.                 Sospendete le risa, che non è tempo ancora.

AGA.                Io sarò dunque il primo, signori, ad aprir bocca.

Contento della parte son io, che qui mi tocca.

In questa unione nostra, in questo nostro stato,

Del pranzo e della cena mi eleggo il magistrato.
BER.                 Però discretamente.

AGA.                                                 Sì, più dell'ordinario.

PIP.                   Anch'io son contentissimo. Sarò il bibliotecario.

BER.                 A leggere imparate, e lo sarete poi.

PIP.                   Mi lascierò correggere e regolar da voi.

ISI.                    Al nobile progetto anch'io pronto annuisco.

Promotor delle feste, signori, io mi esibisco.
LUC.                 Per me un riguardo solo faceami ardere in seno

La voglia di consorte: per non esser di meno.

Se tutti siamo eguali, se abbiamo egual destino,

Sì, mi contento d'essere anch'io concittadino.
BER.                 Voi che dite, don Claudio?

CLA.                                                           Finor fui sofferente,

Sperando farmi un merito nel cuor riconoscente.

Ora il mio disinganno mi fa restar scontento,

Ma del rispetto usatovi per questo io non mi pento.

Voi meritate tutto, vi servirò qual lice.

Basta che, s'io mi dolgo, altri non sia felice.
BER.                 A voi, don Filiberto.

FIL.                                                    L'ultimo adunque io sono.

BER.                 All'ultimo per uso sempre si lascia il buono.

FIL.                   Ecco le mie speranze dove a finir sen vanno.

BER.                 Io non ho colpa in questo; vostro fu sol l'inganno.

FIL.                   Non diceste d'amarmi?

BER.                                                       Vi amo cogli altri unito.

FIL.                   Questa è la stima, ingrata?

BER.                                                            Non vi ho alcun preferito.

FIL.                   Se d'accordar ricuso, di me che destinate?

BER.                 Ve lo dirò con pena; ma deggio dirvi: andate.


FIL.                   No, crudel, non vi lascio. Deggio servirvi ancora;

E voglia il ciel ch'io possa servirvi infin ch'io mora. La dubbietà rendevami ardente al sommo eccesso; Ora il mio disinganno m'ha vinto, e m'ha depresso. Giuro a voi, mia sovrana, giuro ai compagni miei, Più non parlar di nozze; mentir non ardirei. Quieta vivete pure, in pubblico vel dico, Son cavalier d'onore, sono di tutti amico.

BER.                 Ora mi siete caro, or mi piacete a segno,

Che di chi sente in faccia... ma no, stiasi all'impegno

Tutti eguali, signori. Il mondo che mi osserva.

Tutti amici vi vegga, io vostra amica e serva.

Tutti insieme al teatro andiamo in società.

So che la Donna sola si recita colà:

Difficile commedia, e se averà incontrato,

Lieti saranno i comici, e l'autor fortunato. (parte)

Fine della Commedia