La donna stravagante

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LA DONNA STRAVAGANTE

di Carlo Goldoni

La presente Commedia fu per la prima volta rappresentata in Venezia nel Carnovale dell'Anno .

ALL'ILLUSTRISSIMO

SIGNOR CONTE

GIOVANNI DE CATANEO

Così è, amabilissimo Signor Conte Giovanni, ho deliberato dentro di me medesimo dedicarvi una mia Commedia, e Voi siete obbligato a riceverla, ed a riceverla volontieri. Non vi formalizzate di quest'ardita espressione, con cui pare ch'io voglia esiger per obbligo ciò che dovrei domandarvi per grazia; ma io son uomo sincero, non dico che quel che penso, e Voi medesimo, che di verità vi pascete, mi farete ragione. Né tampoco credomi in necessità di giustificare presso di Voi questo mio pensiere, poiché una mente illuminata, come è la vostra, sa meglio di me quello che dire intendo, e d'onde posso aver tratti i fondamenti di una simile proposizione. Ma siccome questa mia lettera sarà stampata, ed alcuni curiosi avranno desiderio di saperne il fondo, ed altri forse potrebbero caricarmi di vanità, o d'impostura, avete da permettermi ch'io ponga in chiaro la ragione che mi fa pensare e mi fa scrivere in cotal modo. E perché, addrizzando il discorso a Voi, potrebbe offendersi la Vostra esimia modestia, permettetemi ch'io volga il ragionamento a quelli che leggeranno, figurandovi di essere tra la folla del popolo, chiuso e calcato in luogo da dove non vi sia permesso di uscire, costretto a sentir parlare di Voi, anche a dispetto Vostro.

Sappiate, o Voi, amici o nemici che siate, che la vera virtù alberga fra le pareti di questa Casa; che il degno Padre di sì onorata Famiglia eccita coll'esempio e cogli ammaestramenti dotti Figliuoli, ed ornatissime Figlie, al Divin culto ed all'amor delle lettere. Non troverete nei loro ragionamenti che verità e dottrina, principii infallibili di quell'onestà che anima i loro costumi, e che degnissimi d'amore li rende, e di rispetto, e di stima. Non contenta una sì amabile ed esemplare Famiglia di onorare e coltivare per se medesima solamente le scienze e le belle arti, ha voluto promoverne in altri ancora l'avanzamento, aprendo utile e dilettevole campo agl'ingegni di profittare con vivo impegno ed onorevole emulazione. D'una Accademia parlare intendo fra le Nobili Catanee mura eretta, dal genio della Famiglia promossa, e da ottimi peregrini talenti secondata e compiuta. All'ingegnosa denominazione degl'Industriosi, all'erudita società dai primi istitutori assegnata, corrisponde mirabilmente l'industria degli associati, tanto nelle private che nelle pubbliche ragunanze. Fissate le prime per la sera di ciaschedun Martedì d'ogni settimana, danno luogo a qualunque poetico o prosaico componimento, a piacere de' Recitanti, e nelle quattro pubbliche, o semipubbliche dette, sopra di un solo Tema, o sia Problema, ragionasi. Base di tale adunanza è il vicendevole ammaestramento, la coltivazion delle scienze, la saggia salutevol critica, la colta erudizione e il profittevol diletto; quindi è rigorosamente bandita la satira, la maldicenza, la scurrilità, la bassezza, e sopra d'ogni altra cosa è inculcata la Religione, l'onestà e il buon costume. Grandi progressi ha ella fatti finora, e maggiori in avvenir ne promette, feconda d'Uomini illustri, e letterati, ed eruditi, dalle di cui succose rime, ed eleganti robuste prose, sorgono tutto dì illustrazioni ed ammaestramenti novelli. L'Eruditissimo Conte Giovanni, nostro amorevolissimo Presidente, ci fa gustare di quando in quando forti eleganti dialoghi in prosa, tendenti all'interessante specioso fine della verità e della Giustizia Cristiana, massime impugnando erronee o pericolose, conducendo per la via del diletto alla sana dottrina ed al buon costume. Dietro le


orme gloriose di un sì buon Padre, vanno concordemente i Figliuoli, formando virtuosa gara fra loro di sapere, di docilità, di litterarie esercitazioni. Né solamente ne' virili animi de' Maschi suoi fece il paterno esempio poderosa impressione, ma nelle gentili, e saggie, e costumate Figlie non meno il talento e l'educazione risplende, norma elleno essendo e decoro del loro sesso, ed ornamento di sì pregiata Famiglia. Sappiate ora, o Voi che questi fogli leggete, che con cortese, giocondo animo, colà dove tanta virtù s'annida, vengo benignamente accolto, e ben veduto, e sofferto, e le opere mie colà trionfino piucché altrove, e per colmo di consolazione e di gloria, trovomi onorevolmente fra quegli illustri Accademici annoverato, e da' lumi che di là sorgono, chiare immagini alla mente mia si presentano, e messe doviziosa raccolgo, per dirozzare i pensieri ed ingentilire i miei scritti. Negatemi, se potete, essere per me questo un bene, di cui mi abbia giustamente a vantare, e se di tanto bene riconosco autore il Conte Giovanni, accordatemi che a Lui convenga la mia gratitudine, ed un pubblico testimonio del mio sincero riconoscimento. Resta ora a provarvi, come da ciò intenda che Egli abbia per ricompensa ai di lui benefizi ad accordarmene un altro, onorando col di lui Nome le Opere della mia penna. Non è difficile il persuadervi. Altro modo non ho che questo, per confessare gli obblighi miei, e per retribuirne la ricompensa. Che però, o egli ha da volermi avvilito e coll'aspetto d'ingrato, o ha da concedermi questa scarsa sì, ma sincera e rispettosa dimostrazione d'affetto.

Amabilissimo Signor Conte, applaudiscono gli uomini onesti al mio leale divisamento, e Voi, che d'onestà vi pregiate, non potete dal miglior giudizio sottrarvi, onde non dissi male, dicendo che siete in obbligo di accettar volentieri una mia Commedia, siccome la divota mia servitù e l'umile mia amicizia accettaste.

Un dubbio solamente potrebbe farmi dal divisamento mio rimanere, pensando a qual uomo ardisca io di offerire una miserabile mia Commedia. Voi, Signor Conte umanissimo, istrutto del pari nelle lettere Greche e Latine, e conoscitore delle opere e de' buoni Autori de' nostri Secoli, siccome in tutte le facoltà siete istrutto, e possedete la vera cognizione, e la vera critica, più facilmente d'ogni altro rilevar potrete i difetti miei, e perciò... Ma che perciò? Prenderò io motivo da tutto questo che vogliate Voi a misura del vostro talento condannarmi severamente? No certamente, anzi per lo contrario vi credo e vi spero più facile a compatirmi. I Vostri dolci ragionamenti, le Vostre saggie lezioni potranno bensì erudirmi, ma non avvilirmi giammai, poiché la morale che Voi possedete, e il gentil tratto che praticate, e la cortesia che vi adorna, sono qualità che vi portano al bene degli uomini, ed alla consolazione de' Vostri amici. Il Vostro ingenuo carattere, l'abilità Vostra negli ardui impegni, e la saggia condotta del Vostro vivere vi hanno fatto essere caro ad uno dei primi Potentati d'Europa, e tutti quelli che vi conoscono, non cessano di ammirarvi, di lodarvi e di benedirvi. Senza esitare più oltre, imprimo il Vostro prezioso Nome fra le mie carte, onoro colla Vostra protezione le Opere mie, e vi dedico precisamente questa Commedia. Dopo di averlo fatto, vi chieggo scusa se non ne siete contento, e son certo, per le dette ragioni, di conseguirla. Vi prego per ultimo raccomandarmi alla Famiglia Vostra degnissima, conservarmi il pregievolissimo affetto Vostro, e pieno di vera stima e venerazione, vi assicuro di voler essere eternamen te

Di V. Sign. Illustriss.

Venezia li  Agosto .

Devotiss. Obbligatiss. Servitore ed Amico Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

La Donna Stravagante è un titolo di commedia che promette assaissimo, e tutti quelli che hanno avuto occasione di trattare di questi spiriti stravaganti, saranno interessati nel leggerla. Ma sono tante le stravaganze che accadono a chi conversa, che alcuni per avventura non riconosceranno quelle da me dipinte, e ne vorrebbero delle altre. Io ho fatto scelta di queste, perché la fantasia me le ha suggerite, e perché qualche avventura me ne ha offerto l'esempio.

Supplico però le Signore Donne non isdegnarsi meco, pensando che solo al loro sesso apponer voglia l'essere stravagante. Noi pure abbiamo la parte nostra, e credo che la bilancia non vaglia a traboccar da veruna parte. Fra le opere mie vi ho dipinti degli uomini stravagantissimi, e ciò basti per mia giustificazione presso quella cara metà di mondo, di cui non sono mai stato nemico.

Personaggi

Don RICCARDO cavaliere;

Donna LIVIA nipote di don Riccardo;

Donna ROSA nipote di don Riccardo;

Don RINALDO amante di donna Livia;

Don PROPERZIO;

Don MEDORO;

Il marchese ASDRUBALE DEL LIUTO;

CECCHINO;

SERVITORE.

La Scena si rappresenta in casa di don Riccardo.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di don Riccardo con tavolino, sedie e lumi.

Don Riccardo sedendo al tavolino, e Cecchino.

RIC.                  Ehi!

CEC.                          Signore.

RIC.                                         Dal cielo sparita è ancor l'aurora?

CEC.                 No, mio signore, il sole non è ben sorto ancora.

RIC.                  Che hai, che sonnacchioso mi sembri oltre il costume?

T'avvezzai da bambino a sorgere col lume; Ora che coll'etade in te la ragion cresce, Lasciar le oziose piume sollecito t'incresce? Figlio, che con tal nome, quantunque servo, io chiamo Te giovane discreto, che hommi educato ed amo, Questa sollecitudine, che coll'esempio insegno, Rende più pronti gli uomini all'opre dell'ingegno; E se cangiare aspiri in meglio un dì la sorte, Odia il soverchio sonno, ch'è fratel della morte.

CEC.                 Con voi di buon mattino, sorger, signor, non peno;

Bastami che la notte possa dormire almeno.

RIC.                  E chi è che t'impedisca la notte il tuo riposo?

CEC.                 Ve lo direi, signore, ma favellar non oso.

RIC.                  Sento rumore in camera di donna Livia. È desta?

CEC.                 Oh sì, signor; passeggia.

RIC.                                                         Che stravaganza è questa?

Ella che il mezzogiorno udir nel letto suole, Perché sorger stamane prima che spunti il sole?

CEC.                 Dirò, signor padrone, la padroncina è alzata,

Perché (glielo confido) non s'è ancor coricata.

RIC.                  Come! la notte intera passò senza riposo?

CEC.                 Pur troppo, e son per questo lasso anch'io sonnacchioso.

RIC.                  Parla; a me si può dirlo, a me deono esser note

Le cure che molestano il cuor della nipote.

CEC.                 Ma se lo sa ch'io il dica, misero me! Provate

Più volte ho sul mio viso le mani indiavolate.

RIC.                  Non ardirà toccarti, se sei da me protetto.

CEC.                 Voi la terrete in freno?

RIC.                                                       Parla; te lo prometto.

CEC.                 Nasca quel che sa nascere, dover parmi, e ragione

Ch'io parli, ed obbedisca sì docile padrone. Sono due notti intere, che la padrona mia Non dorme, e vuol ch'io vegli con essa in compagnia.

RIC.                  Per qual ragion due notti star donna Livia alzata?

CEC.                 Perché?...

RIC.                                  Franco ragiona.


CEC.                                                           Meschina! è innamorata.

RIC.                  Di chi?

CEC.                             Di don Rinaldo.

RIC.                                                        M'è noto il cavaliere.

Ha sentimenti onesti; conosce il suo dovere.

Perché mai di soppiatto venir di notte oscura,

Per favellar con Livia d'intorno a queste mura?

Avrebbelo introdotto? Ah, i miei sospetti accresco.
CEC.                 Non signor, lo ha lasciato tutta la notte al fresco.

RIC.                  Come fu? perché venne? non mi tener celato...

CEC.                 Non parlerò, signore, se vi mostrate irato.

RIC.                  Calmo gli sdegni miei. Quel che tu sai, mi narra.

CEC.                 Sentite l'istoriella, che sembrami bizzarra;

E dite fra voi stesso, se dar puossi un'amante

Che sia più capricciosa, che sia più stravagante.

Sembra per don Rinaldo che amor la tenga in pena;

Quando da noi sen viene, guardalo in viso appena.

Se ragionar con altra lo vede, entra in sospetto;

Con altri in faccia sua fa i vezzi a suo dispetto.

Se vien, par che lo fugga; quando non vien, l'invita;

E son parecchi mesi che suol far questa vita.

Mandò l'altr'ieri a dirgli, che a lei fosse venuto

Sotto il balcon di notte, venirvi ei fu veduto.

Lo lasciò prender l'aria tutta la notte intera;

Dissegli poi sull'alba. Addio, domani a sera.

Chiuse la sua finestra, ed ei mortificato

Partì, ma la seguente notte è a lei ritornato.

Fece la scena istessa, godendo i suoi deliri,

Di lui prendendo a gioco le smanie ed i sospiri.

Ma stanco il Cavaliere, ed agghiacciato morto

Partissi, alto gridando. Non merto un simil torto.

Ella aprì le finestre, lo vide a lei distante,

E dissegli. Indiscreto, più non venirmi innante.

Tornò l'appassionato, e a lui la crudelaccia

Per ricompensa allora chiuse il balcone in faccia.

Irata, furibonda, a passeggiar si pose,

Pianse, sfogò lo sdegno, disse orribili cose;

In compagnia mi volle de' suoi deliri ardenti,

Presemi la berretta, me la stracciò coi denti,

Mi diede uno sgrugnone, cadei sovra uno specchio;

Dissemi maladetto, e mi tirò un orecchio.
RIC.                  Ah! donna Livia è tale, che da pensar mi diede

Fin da quel dì ch'io fui del di lei padre erede.

Tolsemi il buon germano giovine ancor la morte,

E il fren di due nipoti diedemi in man la sorte.

L'una è docile, umana, ch'è la minor; ma strana,

Ma fantastica è troppo l'altra maggior germana.

Frattanto che sfogavasi quel labbro furibondo,

Che facea donna Rosa?
CEC.                                                       Vengo al tomo secondo.

La giovane allo strepito si desta immantinente;


S'alza, e al balcone affacciasi, dove il rumor si sente.

La trova donna Livia, la fa partir sdegnosa,

Entrandole nel capo nuova pazzia gelosa.

Crede con fondamento, cui sostener non vale,

Aver nella germana scoperta una rivale.

Scommetterei la testa, che falso è il suo sospetto.
RIC.                  Deh, non le guasti almeno suora sì strana il petto!

E tu se al mal esempio presente esser ti vuole,

A condannarlo apprendi, non a seguir sue fole.

Venga a me donna Livia. Vo' ragionar con lei.
CEC.                 Sentirmi l'altra orecchia stirar io non vorrei.

RIC.                  Non ardirà di farlo. Vanne, obbedisci.

CEC.                                                                              Andrò.

S'ella vorrà toccarmi, son lesto, fuggirò.

Vuol che si spenga il lume? Il sol coi raggi suoi

A illuminar principia.
RIC.                                                      Sì, spegnere lo puoi.

CEC.                 Andrò, se mi è permesso, a riposare un poco.

RIC.                  È giusto.

CEC.                               Ma una visita prima vo' fare al cuoco.

RIC.                  Sappia pria donna Livia da te, ch'io qui l'aspetto.

CEC.                 E s'io la ritrovassi cacciatasi nel letto?

RIC.                  A quest'ora?

CEC.                                      A quest'ora. Ne ha fatto di più belle.

Quante volte si è alzata, che ancor lucean le stelle!

Quant'altre a mezzo il giorno, ovver di prima sera,

Per irsene a dormire chiamò la cameriera!

Ha una testa, che certo può dirsi originale;

Fa quel che far le piace, non per far bene o male.

Varian di giorno in giorno i suoi pensier più strani;

Suole quel che oggi ha fatto, disapprovar domani.

Se tante e tante donne son tocche dall'insania,

Questa delle fantastiche può dirsi capitania. (parte)

SCENA SECONDA

Don Riccardo solo.

RIC.                  Io, che per mia fortuna nacqui cadetto al mondo

E ricusai mai sempre della famiglia il pondo; Ch'ebbi le cure in odio, sol della pace amico, Dovrò soffrir per donna sì laborioso intrico? Staccarmela gli è d'uopo sollecito dal fianco. Le stravaganze sue di tollerar son stanco. Conosco il suo costume, m'è noto il suo talento; Procurerò di vincerla conoscere il momento. Ché non vi è donna alfine, che di resister valga, Quando con arte e a tempo nel debole si assalga.


SCENA TERZA

Donna Livia ed il suddetto; poi il servitore.

LIV.                  Signor, voi mi volete?

RIC.                                                      Nipote, io vi ho cercata.

LIV.                  Come mai a quest'ora pensar ch'io fossi alzata?

RIC.                  Nella vicina stanza qualche rumore intesi.

Del calpestio ragione alla famiglia io chiesi.

Dissermi donna Livia sorger di letto or ora.
LIV.                  Disservi mal, signore, letto non vidi ancora.

RIC.                  Per qual ragion?

LIV.                                            Ne ho cento delle ragioni in seno,

Che tolgonmi al riposo.
RIC.                                                        Ditene alcuna almeno.

Svelatemi i motivi ch'esser vi fanno inquieta.
LIV.                  Signor... meglio è ch'io taccia; lasciatemi star cheta.

RIC.                  Rimedio al mal non reco, s'emmi la fonte oscura.

LIV.                  Soffra tacendo il male, chi rimediar non cura.

RIC.                  Ma se fanciulla incauta nutre l'occulto affanno,

Chi la governa e regge, vuol evitarne il danno.
LIV.                  Difficile è svelare a forza un mio segreto.

RIC.                  Forza non vel richiede, amor giusto e discreto.

LIV.                  Né amor con sue lusinghe, né forza con orgoglio,

Farmi parlar potranno, quando parlar non voglio.
RIC.                  Ostinata?

LIV.                                Ostinata.

RIC.                                              Dunque, se tal voi siete,

Uditemi, nipote, pensate e risolvete.

Della paterna cura, ch'ebbi finor per voi,

Son stanco, e vuol ragione usar i dritti suoi.

Morte crudel vi tolse e padre e genitrice;

Nubili in casa meco tener più non mi lice.

Da voi, dalla germana dee eleggersi un partito.

O chiedasi un ritiro, o scelgasi un marito.
LIV.                  Tempo e consiglio esige l'elezion di stato. (siede)

RIC.                  (Il momento opportuno l'ho cerco, e l'ho trovato). (siede)

Quanto alla scelta vostra tempo accordar si deve?
LIV.                  Ci penserò, signore.

RIC.                                                   Ma che il pensar sia breve.

LIV.                  Breve sarà. capace son, se mi vien talento, (alzando un poco la voce)

Per togliervi d'affanno, risolver sul momento.

Solo saper vorrei, né la domanda è strana,

Se scelto sia lo stato ancor da mia germana.
RIC.                  Seco vegliar solete, seco posarvi in letto,

Quello che altrui non disse, forse a voi l'avrà detto.
LIV.                  Meco parlar non usa; mi asconde i suoi pensieri.

So che di sposo il nome udir suol volentieri;

E dallo zio, che l'ama più assai della maggiore,


Certa son che saprassi di donna Rosa il cuore.
RIC.                  Giuro sull'onor mio, credetelo, figliuola,

Su ciò con donna Rosa non feci ancor parola.

Ella da me non seppe qual pensi ad ambedue,

Né penetrar mi fece finor le brame sue.

Son cavalier, son giusto; son padre, e non comporto

Che alla maggior si faccia dalla minore un torto.

Voi per la prima io cerco; a voi dico. eleggete.

Tempo vi do al consiglio; pensate, e risolvete.
LIV.                  Signor, vi chiedo in grazia, vi chiedo in cortesia

Fate che sia lo stato scelto dall'altra in pria.
RIC.                  Questo non sarà mai.

LIV.                                                      Non sarà mai? lo vedo,

La grazia a me si nega, sol perché ve la chiedo.

Ma se di donna Rosa non si saprà la sorte,

Mutola sarò sempre anch'io sino alla morte.
RIC.                  Bene. Vo' soddisfarvi. Eh là.

SER.                                                               Signor.

RIC.                                                                           Se è alzata

Donna Rosa, qui venga.
SER.                                                       Le farò l'imbasciata. (parte)

RIC.                  Tutto da me si faccia quel che vi giova e piace.

Desio di contentarvi, desio la vostra pace.

Farò che la germana vi dia soddisfazione,

Ma puossi di tal brama sapersi la ragione?

Perché dall'altra in prima voler lo stato eletto?
LIV.                  (Che a don Rinaldo aspiri la prosontuosa aspetto). (da sé)

RIC.                  In tempo di valervi siete ancor di mia stima.

LIV.                  No, no, ch'ella si lasci eleggere la prima.

RIC.                  Una ragion, per dirla, di tal cession non vedo.

LIV.                  A lei per mio piacere la preferenza io cedo.

SER.                  Signor, di donna Rosa chiamata ho la servente,

Termina di vestirsi, e viene immantinente.
RIC.                  Si aspetterà; frattanto, cara nipote amata,

Meco restar potete a ber la cioccolata.
LIV.                  Farò come vi piace.

SER.                                                Un cavaliere ha brama

D'esser con lei, signore.
RIC.                                                        E chi è?

LIV.                                                                      Come si chiama?

SER.                  Don Rinaldo.

RIC.                                       È padrone.

LIV.                                                          Fermati. (s'alza agitata)

RIC.                                                                        (Livia freme) (da sé)

Con noi la cioccolata ber non volete insieme?
LIV.                  Lasciatemi partire, conosco il mio dovere.

Restar quivi non deggio, presente un cavaliere.
RIC.                  Meco restar vi lice. Di' ch'egli venga. (al Servitore)

LIV.                                                                             Aspetta.

RIC.                  Piacciavi un sol momento di trattenervi.

LIV.                                                                                  Ho fretta.


RIC.                  Ecco, vien la germana.

LIV.                                                      Signore, inconveniente

Parmi ch'ella pur trovisi col Cavalier presente.

Potreste in altra stanza riceverlo da voi.

Spicciate don Rinaldo, vi aspetterem qui noi.
RIC.                  Sì presto, donna Livia, la fretta vi è passata?

(Non sa quel che si voglia la donna innamorata). (da sé)
LIV.                  Partirò, se vi aggrada. (sdegnata)

RIC.                                                      No, no, frenate il caldo.

Fa che nel gabinetto mi aspetti don Rinaldo. (al Servitore che parte)

Colla germana intanto, se ciò vi cal, restate;

A far ch'ella si spieghi, voi stessa incominciate.

Ma d'una cosa sola voglio avvertirvi in pria.

Non fate che si stanchi la sofferenza mia.

Voi di pensier solete cangiar spesso di volo;

Io soglio per costume nutrir un pensier solo.

Dunque di voi ciascuna mi spieghi i desir suoi,

O saprò quel ch'io penso risolvere di voi.

Padre sarò d'entrambe, s'entrambe figlie sono.

A chi schernirmi ardisce, nipote, io non perdono. (parte)

SCENA QUARTA Donna Livia, poi donna Rosa.

LIV.                  Crede colle minaccie d'intimorirmi, il veggio;

Ma chi obbligarmi intende col minacciar, fa peggio.

Vita non diemmi alfine, quei che così mi parla;

Quando una cosa ho in mente, ho cuor da superarla.

E perché in me s'accresca nel vincerla l'orgoglio,

Basta che mi si dica. non s'ha da far, non voglio.
ROSA               Dite dov'è lo zio che a sé chiamar mi fece?

LIV.                  Di lui, che vi ha chiamata, me qui trovate in vece.

ROSA               Con voi star non isdegno, che vi amo e vi rispetto.

Ma se lo zio mi vuole...
LIV.                                                        Quivi ancor io l'aspetto.

ROSA               Deggio aspettar io pure?

LIV.                                                          Sì, se ciò non v'incresce.

ROSA               Far quel ch'ei mi comanda, dolcissimo mi riesce.

È un cavalier sì degno, sì docile, amoroso,

Che torto a lui farebbe un cuor men rispettoso.
LIV.                  Di quell'amor ch'ei vanta, avete voi gran prove?

ROSA               Le prove del suo affetto per noi non riescon nuove.

Orfane in età nubile di padre e genitrice,

Di più che può pretendersi, di più che sperar lice?

Ei ci ha raccolte seco, ricuperò l'entrate

Dal prodigo germano vendute o ipotecate;

D'un trattamento illustre non ci privò per questo,


Tal che a più ricche figlie grato sarebbe e onesto.

Solito a viver solo nella sua pace antica,

Per noi sfuggir non seppe le cure e la fatica.

Cosa da noi non bramasi, ch'ei non conceda appieno,

Sempre con noi piacevole, sempre con noi sereno.

Chi mai non amerebbe sì amabile signore?

Chi può negar, germana, chi può negargli il core?

LIV.                  Questa d'amore intendo dolcissima favella.

Di sua bontà vuol darvi una prova novella.

ROSA               Che mai di più far puote per me l'uom generoso?

LIV.                  Vuol animarvi ei stesso a scegliere uno sposo.

ROSA               Voi lo sceglieste?

LIV.                                              Ancora di me non ha fissato.

ROSA               A voi spettasi in prima di scegliere lo stato.

LIV.                  S'io vi cedessi il loco, ricusereste il dono?

ROSA               Germana, qual credete, sì semplice non sono.

Non cede alla seconda il dritto di natura, Chi col vegliar le notti lo sposo si procura.

LIV.                  Voi non sapete, ardita, che motteggiar schernendo;

Le vostre mire io veggio, l'animo vostro intendo. Finger volete meco la dipendenza onesta, Ma se lo zio il volesse, altro per voi non resta. Volea per i miei fini cedervi il loco, è vero; Or non lo voglio, in pena di quel linguaggio altero. Io son la prima nata. è ver che il padre è morto, Ma son bastante io sola a riparare un torto. So che di nozze amico è il cuor candido e puro, Ma sposa non sarete, s'io non lo sono, il giuro; E per vedervi afflitta senza il consorte a lato, Capace son di vivere trent'anni in questo stato. Qual voi di maritarmi la brama non mi alletta, E più di un matrimonio, mi piace una vendetta. (parte)

SCENA QUINTA

Donna Rosa sola.

ROSA               Che stravagante umore! che subitaneo foco!

Il cuor di donna Livia accendesi per poco. Scherzar seco m'intesi, qual lice a una germana; L'ira infiammolle il petto, ma cotal ira è vana. L'amor di don Riccardo mi basta; e mi consolo Ch'egli ragione intende, e che comanda ei solo.

SCENA SESTA Don Riccardo, don Rinaldo e la suddetta.


RIC.                  Donna Livia dov'è?

ROSA                                                Or si è da me staccata.

RIN.                  Forse perch'io qua venni?

ROSA                                                       Meco partissi irata;

RIC.                  Per qual ragion?

ROSA                                         Ragione io non le diedi alcuna,

Ma so con mia germana d'aver poca fortuna.
RIN.                  Da lei, chi la conosce, suole ottener tai frutti.

RIC.                  (La confidenza fattami non sia comune a tutti). (piano a don Rinaldo)

ROSA               Signore, ai cenni vostri erami qui portata.

RIC.                  Si parlerà, nipote, beviam la cioccolata.

Esservi donna Livia dovea; ma ciò non preme.
ROSA               Io partirò frattanto.

RIC.                                                 No, la berrete insieme. (siedono e si porta la cioccolata per tutti

tre)
RIN.                  (Oh fosse donna Livia, qual donna Rosa, umana!) (da sé)

ROSA               (Non fosse don Rinaldo qual è per mia germana!) (da sé)

RIC.                  (Veggo, o di veder parmi, tenere occhiate alterne.

Non vorrei mi vendessero lucciole per lanterne). (da sé)
RIN.                  (E pur forzato sono amarla a mio dispetto). (da sé)

ROSA               (Non ci pensiam nemmeno). (da sé)

RIC.                                                               (M'entran de' dubbi in petto). (da sé)

Nipote, avvi la suora svelato un mio pensiero?
ROSA               Disse, ma il vero intendere dal labbro suo non spero.

RIC.                  Si parlerà. (Conviene scernere il ver con arte). (da sé)

SCENA SETTIMA

Donna Livia e detti

LIV.                  Lice, signor, ch'io sia d'una notizia a parte?

RIC.                  Di che?

LIV.                              Dee mia germana sposar quel cavaliere?

RIC.                  Creder chi ciò vi fece?

LIV.                                                      Mel disse un mio pensiere.

RIC.                  Spesso il pensier inganna con i sospetti suoi.

Voi apprendeste gli altri a misurar da voi.
LIV.                  Signor, la preferenza che alla germana ho cesso,

L'onore mi consiglia di rivocare adesso.

Don Rinaldo ha impegnati meco gli affetti sui;

L'ardita potea scegliere ognun fuori di lui.

A rendermi schernita or che ciascun procura,

Riprendo in faccia vostra il dritto di natura. (a don Riccardo)
RIC.                  Voi vi lagnate a torto; e chi è che vel contrasta?

Sollecitate a scegliere, non mi stancate, e basta.
RIN.                  Se l'amor mio vi cale...

LIV.                                                        Amor so che v'impegna

A preferir gli affetti di un'anima più degna. (con ironia, additando donna Rosa)


ROSA               Noto è a ciascun, germana, lo stil del vostro core.

Confondere vi piace lo sdegno coll'amore;

E il vostro amor volubile, e il vostro cuor geloso,

Vi fa col labbro a torto prorompere sdegnoso.

Per me dal zio dipendo; l'obbedienza ho in uso.

Parli, disponga, elegga; non cerco e non ricuso. (parte)
RIC.                  Di lei non so dolermi. Di voi fate del pari,

Che di doler non dianmi ragion quei detti amari.

Mi confidò l'amico, che amor nutre per voi.

È cavalier; ricordasi, mantien gl'impegni suoi;

E sia amor che lo sproni, o sia costante impegno,

Malgrado l'onte vostre, v'offre la mano in pegno.
LIV.                  Non merta la mia mano chi non ha in seno un core

Di sofferir capace le prove dell'amore.

Di grado e maggioranza i dritti altrui non cedo,

Ma il cuore ad un ingrato di vendere non chiedo.

Il Cavalier sen vada. Freni colei l'orgoglio.

Non si violenti un cuore; dirvi di più non voglio. (parte)
RIC.                  Chi 'l paragon vuol pingere di donna come questa,

Descriva dell'oceano i venti e la tempesta;

Che la pareggi al fulmine, che la somigli al foco,

Canti le furie e i demoni; e poi soggiunga. è poco.

Che ve ne pare?
RIN.                                            Oh stelle! m'insulta, e m'innamora.

RIC.                  Irriterebbe un sasso, e voi l'amate ancora?

RIN.                  L'amo, ve lo confesso; così vuol la mia stella.

È donna Livia ingrata, ma donna Livia è bella.

Ed ho talmente un cuore ad adorarla avvezzo,

Che a struggere l'amore non basta il suo disprezzo.

So che nel pensier vostro stolto a ragion mi dite,

Ma la costanza almeno lodate, o compatite. (parte)
RIC.                  Parmi la sua costanza sì inusitata, e strana

Che ancor dubbio mi resta, ch'ei pensi alla germana.

Come soffrir si puote, come serbare affetto

Per donna, che sol desta la bile ed il dispetto?

Ira per lui svegliavami la forsennata in seno.

In caso tal ragione come tener può il freno?

Se a tal mercede ingrata non arrossisce in volto,

O don Rinaldo ingannami, o don Rinaldo è stolto. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera di donna Livia con canapè e sedia.

Donna Livia sul canapè, che dorme; poi Cecchino.

CEC.                 Eccola qui che dorme. Padrona capricciosa,

Vegliar suol colla luna, col sole indi riposa. Ma stia, se vuol, le notti in avvenir svegliata, Con seco non mi gode la giovane garbata. Non so quel che or mi faccia; vorrei darle il viglietto, Ma se si desta irata, strilli, minacce aspetto. Di don Rinaldo il cenno seco eseguir desio, Tanto più che di farlo m'accorda il padron mio. Che sarà mai? destarla bel bello i' vo' provarmi. Quel che sa dir, mi dica; alfin che potrà farmi? Signora.

LIV.                                Chi mi chiama? (destandosi)

CEC.                                                         Son io. Chiedo perdono

Se disturbarvi ardisco...

LIV.                                                        Cecchino! ah, dove sono? (s'alza)

CEC.                 Ho da dirvi una cosa. (Or ora mi bastona) (con timore)

LIV.                  Vieni qui, il mio Cecchino.

CEC.                                                              (Zitto; la luna è buona.) (s'accosta)

LIV.                  Crudel, troncasti un sogno ch'empieami di diletto.

CEC.                 Vi recherà piacere maggior questo viglietto.

LIV.                  Di chi?

CEC.                             Di don Rinaldo.

LIV.                                                        Ah, che finora i' fui

In dolce sonno immersa a ragionar con lui!

CEC.                 Il foglio che vi reco, viene utile al bisogno.

LIV.                  Pria che dal sen mi fugga, vo' raccontarti il sogno.

Fermati, ascolta, e taci.

CEC.                                                       Prima leggete il foglio.

LIV.                  Lo leggerò, ma il sogno prima narrarti io voglio.

Pareami in bel giardino seder vicino a un fonte, In cui l'acque s'udivano precipitar dal monte; E il mormorìo dell'onde, e degli augelli il canto, Diviso il cuor tenevami fra la letizia e il pianto. Pareami all'aure, ai tronchi, narrare il mio cordoglio, Rimproverar me stessa dell'ira e dell'orgoglio; Ed impetrar dai numi, che mi rendesse amore L'amante più discreto, più docile il mio cuore. Quando, (contento estremo!) quando il mio ben si vede Mesto tra fronda e fronda, e mi si getta al piede. Eccomi a voi, mi dice, eccomi a voi dinante, Punite il mio trasporto, sdegnoso, intollerante.


Se mi riuscì l'attendervi noioso all'aere oscuro,

Soffrirò il caldo e il gelo per l'avvenir, lo giuro.

Starò le intere notti a quelle mura intorno;

Sarò, qual più v'aggrada, mesto o ridente il giorno.

Ricuserò per voi d'ogni altro cuore il dono.

Donatemi, vi prego, la pace ed il perdono.

Non ti saprei, Cecchino, spiegar la gioia estrema.

Meco a seder l'invito; s'alza, s'accosta e trema.

La man gli porgo in segno del ridonato affetto.

Egli la bacia e stringe, balzami il cuor nel petto.

Sguardi, sospiri e vezzi... ma stolida ch'io sono!

Or dell'error m'avveggo. Di ciò con chi ragiono?

Con un fanciul, che appena sa che l'amor si dia.

Dove, aimè! mi trasporta la debolezza mia?

Tu, di quanto intendesti, non fare altrui parola.

Misero te, se parli. Dagli occhi miei t'invola.
CEC.                 Non parlerò, il prometto. (Oh che grazioso sogno!

Che ragazzate insipide! per essa io mi vergogno). (in atto di partire)
LIV.                  Fermati.

CEC.                               Non mi movo.

LIV.                                                        Rimanti, e a me ti accosta.

Vo' veder se dal foglio esigesi risposta.
CEC.                 Sembra, per dir il vero, che il Cavalier la brami.

LIV.                  Leggasi. Già mi aspetto che barbara mi chiami,

Che stanco sia di vivere negli amorosi affanni,

E di provar che i sogni son della morte inganni.

Donna Livia adorata. Amabil cavaliero!
CEC.                 (Se l'ama e la sopporta, è amabile davvero). (da sé)

LIV.                  Voi mi volete oppresso; ma interpretar io voglio,

Che da un geloso affetto provenga il mio cordoglio.

Ah, non fu vano il sogno! egli m'adora, il veggio.
CEC.                 (Misero, non s'avvede, che coll'amor fa peggio! (da sé)

LIV.                  Se reo nel vostro cuore d'intolleranza io sono,

M'avrete al piede vostro a chiedervi perdono.

Verificato è il sogno; verrà, verrà prostrato.
CEC.                 (M'aspetto più di prima vederlo strapazzato).

LIV.                  Se mi bramate in vita, donatemi un conforto;

Se disprezzar mi veggo, idolo mio, son morto.

Caro foglio adorato! vo' per amor baciarlo.

Ah, ch'io baciassi il foglio tu non gli dir. (a Cecchino)
CEC.                                                                                 Non parlo.

LIV.                  Ad onta del disprezzo, con cui penar mi fate,

Lo spirto, il cuor, la mano vostr'è, se la bramate.

M'ingannò il mio sospetto; il Cavalier m'adora.

Ma dell'amor ch'ei m'offre, non son contenta ancora.

Pria di gradir l'amore, pria di premiar l'amante,

Vo' renderlo agl'insulti discreto e tollerante.

Di un ordinario affetto il cuor mio non s'appaga,

Son delle cose insolite sol desiosa e vaga.

E i vezzi, ed i sospiri, e le dolcezze, e il pianto,

Piacer fra' sogni miei mi possono soltanto.


Prendi stracciato il foglio; s'adempia il mio comando.
Digli che, senza leggerlo, lo sprezzo e lo rimando.
Goditi quest'anello per amor mio; non dirmi
Strana, crudel, fantastica, ma pensa ad obbedirmi. (parte)
CEC.                 Io non dirò niente. Grazie dell'anellino

Il foglio lacerato riporto a quel meschino.

(Con una testa simile, più che le grazie e i vezzi

Farebbero profitto le ingiurie ed i disprezzi.

Finché l'amante prega, finché d'amor languisce,

La donna che s'avvede, presume, insuperbisce.

Se l'uom non fosse debole, come in un libro io lessi,

Vedrebbonsi le donne pregar gli uomini stessi;

E dietro correrebbono all'uom le belle tutte,

Come per lor destino far sogliono le brutte). (da sé, e parte)

SCENA SECONDA Donna Rosa sola, poi il servitore.

ROSA               Troppo egli è ver, che un solo spirto inquieto, audace,

Basta da una famiglia a esiliar la pace. Vissi finor contenta senza pensier molesti, Or per cagion di Livia ho dei pensier funesti; E don Riccardo istesso, pacifico, sereno, Par che per lei nutrisca mille sospetti in seno. Sperar vo' che non giunga di lei lo strano umore A far che me non privi lo zio del primo amore. Ma coll'usato ciglio or or non mi ha guardata; Par minaccioso, irato, e son mortificata.

SER.                  Il padron di voi cerca.

ROSA                                                   V'andrò. Dove si trova?

SER.                  Con donna Livia in sala.

ROSA                                                       Andarvi or non mi giova.

SER.                  Era, pria d'incontrarla, diretto a questo loco.

ROSA               Perché da lei si sciolga, qui tratterrommi un poco.

SER.                  Vidi una bella scena testé dalla germana.

Guardate s'è bizzarra, se veramente è strana. Ordina che le porti il cuoco un brodo caldo; Gliel porta, e in quel momento s'affaccia don Rinaldo. Ella, come se colta da fulmine improvviso, Fugge, e al povero cuoco getta la tazza in viso.

ROSA               Il Cavalier che fece?

SER.                                                   Restò pien di spavento,

Facendo a messer cuoco di scuse un complimento.

ROSA               Soverchia sofferenza a derision lo espone.

SER.                  Povero pazzarello... Ma accostasi il padrone. (parte)


SCENA TERZA Donna Rosa, poi don Riccardo.

ROSA               Ci vuol fortuna al mondo, un cavalier sì saggio

Soffre da lei gli scherni, perdonale ogni oltraggio;

E di una, che di Livia avesse maggior merto,

Ogni leggiero insulto sarebbe mal sofferto.
RIC.                  (Eccola, vo provarmi svelar del suo pensiero

Con arte a me non usa, se mi riesce, il vero).

Vi ho ritrovata alfine, posso alfin ragionarvi.
ROSA               Unito alla germana temei d'importunarvi.

RIC.                  Per la germana vostra parmi veder tal sdegno

Nutrirsi in voi, che passa d'ogni ragione il segno.

E ver che spesso abbonda di strani sentimenti,

Ma in lei trovansi ancora dei docili momenti.

Di voi parlommi in guisa testé con cuore aperto,

Che dubitar non posso, che del suo amor son certo.

Del dispiacer che diedemi, sente dolor, si affanna.
ROSA               Signor, l'accorto labbro, credetemi, v'inganna.

RIC.                  Il sospettar mai sempre, il dubitar di tutto,

Della virtù più bella fa che si perda il frutto.

Io che mentir non soglio, facile credo ai detti;

La diffidenza vostra fa che di voi sospetti.
ROSA               Qual mi offre donna Livia prova di vero amore?

RIC.                  Una, che d'ogni prova dee credersi maggiore.

Lascia non sol che a lei vada la suora innante,

Ma pronta si dichiara a cederle l'amante.
ROSA               Signor, voi lo credete?

RIC.                                                        Il dubitar non giova.

ROSA               S'è ver che di cuor parli, facciamone una prova.

RIC.                  Voi non sprezzate il dono, s'è il di lei cuor sincero?

ROSA               Quando sperar potessi... ma che sia ver non spero.

RIC.                  Facciamone una prova.

ROSA                                                     Vediam se si ritratta,

Qual già di fare ha in uso.
RIC.                                                             Sì, sì, la prova è fatta.

Semplice, qual pensate, non credo ai detti suoi,

Ma semplice non sono nel prestar fede a voi.

Diedemi il vostro ciglio di ciò qualche sospetto;

Dall'arte mi ho servito per trarvi il ver dal petto.
ROSA               Signor, non vi capisco.

RIC.                                                        Quella finzione istessa

Che mi ostentate in faccia, rimproveri voi stessa.

Bella prontezza accorta di un cuor che si rassegna!

Se la germana il cede, l'amante non isdegna.

Segno che prevenuta è da un segreto amore.

Non ponesi per prova a repentaglio il cuore.

Livia che stolta è detta, di voi teme a ragione,

E la sorella incauta al suo livor si espone.

In lei che ha l'alma ardita, men condannar mi piace


Follia che altri nasconde colla menzogna, e tace.
ROSA               Possibile, signore, che me nel vostro petto

Dipinga il mio destino con un sì nero aspetto?

Giuro per tutti i numi...
RIC.                                                        Basta così; si taccia.

Smentir faravvi a un tratto quel che or vi viene in faccia.
ROSA               Don Rinaldo? Vedete se amor per lui mi punge.

Parto, e mi vegga ei pure partire allor che giunge.

Nol curo, s'ei mi segue; mi parli, io non l'ascolto.
RIC.                  Franco favella il labbro, ma vi cambiate in volto.

ROSA               Quel che mi cambia in viso, non è colpa o rossore.

Ma il nuovo inaspettato parlar del mio signore.

Da voi non seppi unquanco tradir la dipendenza.

Sa il cielo, ed a voi nota sarà la mia innocenza. (parte piangendo)
RIC.                  (Fammi sperar quel pianto il di lei cuor sincero.

Donne chi vi può credere? Quando mai dite il vero?)

SCENA QUARTA Don Rinaldo e don Riccardo.

RIN.                  Signor, m'indussi alfine tentar con un viglietto

Prove alla mia tiranna dar di costante affetto.

Di cavalier mi parve opera degna, onesta.
RIC.                  Qual risposta ne aveste?

RIN.                                                          La sua risposta è questa. (mostra il foglio stracciato)

RIC.                  Lo lesse e lo stracciò?

RIN.                                                     Letto lo avesse almeno.

RIC.                  Or che vi dice il cuore?

RIN.                                                        Fremer lo sento in seno.

L'aspro crudele insulto sdegnommi in sul momento.

Volea contro l'ingrata formare un giuramento,

Ma nel momento istesso la pinse al mio pensiero

Bella più dell'usato il faretrato arciero;

E dir nel cuor m'intesi. perché non le perdoni?

Morrai, se tu la perdi, morrai, se l'abbandoni.
RIC.                  Basta, qualunque siasi, amico, il vostro affetto,

Soffrir più lungamente non deesi nel mio tetto.

Se amar donna vi piace, che a voi mal corrisponde

Ite, perdon vi chiedo, ad incensarla altronde.

Aspro non sono a segno, che tollerar l'amore

A un imeneo vicino non sappia il mio rigore;

Ma s'ella il cuore ha ingrato, e voi l'avete insano;

Sdegno l'amor mi desta, e il tollerarlo è vano.
RIN.                  So che con voi ardito fui di soverchio, il vedo,

Ma una sol grazia, amico, e fia l'estrema, io chiedo.

Fate che una sol volta possa vederla ancora;

Possa parlarle almeno, poi sarò pago allora.
RIC.                  Non bastavi il disprezzo con cui trattovvi audace;


Onte maggiori e insulti aver da lei vi piace?
RIN.                  Chi sa che gli occhi miei non destin nel suo petto

Quella pietà, che invano cercai con un viglietto?

Non è una tigre alfine, e son le fere istesse

Flessibili talvolta alle lusinghe anch'esse.
RIC.                  Oh voglia il cielo, e mi escono caldi dal seno i voti,

Che possa in altro stato mirar le due nipoti!

Non se d'armata in campo mio sol fosse il governo,

Tal proverei, qual provo, agitamento interno.

Questo vi si conceda ultimo dono onesto.

Ma cavalier voi siete; l'ultimo don sia questo. (parte)

SCENA QUINTA

Don Rinaldo solo.

RIN                   Lo compatisco, a un zio che sta di padre invece,

Che dell'onor si vanta, più tollerar non lece. E a me chi dà consiglio sì barbaro, sì strano, Di procacciar gl'insulti, di tollerarli invano? Chi mi avvilisce a segno d'averne alto rossore? Ah, chi consiglia è un cieco, chi mi avvilisce è amore! Deggio in dì sì fatale tentar l'ultima sorte; E se mi sprezza ingrata? qual sarà il fin? la morte.

SCENA SESTA Donna Livia ed il suddetto.

LIV.                  (Dolce obbedir quel cenno, a cui l'alma consente?

Sempre così comandi, lo zio mi avrà obbediente). (da sé)
RIN.                  Eccola. Ah donna Livia, non mi fuggite almeno!

LIV.                  Mio zio vuol ch'io vi veda; posso per lui far meno?

RIN.                  Soffro, perché lo merto, questo linguaggio acerbo;

Se qua per me veniste, n'andrei troppo superbo.

Ma qual ragion vi guidi, esaminar non deggio.

Pietà, se non amore, bell'idol mio, vi chieggio.

Udir soffrite almeno dal labbro mio, che vi amo,

Che son fedele ad onta...
LIV.                                                             Signor, quant'ore abbiamo?

RIN.                  L'ore per me son sempre funeste e dolorose.

Non girano le stelle che a danno mio sdegnose.

Dal dì che vi mirai, fin l'ultimo momento,

Notte a' miei lumi eterna mi offerse il mio tormento.
LIV.                  E pur di breve notte so che vi pesa il giro.

RIN.                  Eccomi a vostri piedi; toglietemi il respiro.

Ma non rimproverate colpa, da cui già sono


Fieramente punito.
LIV.                                                 Sorgete; io vi perdono.

RIN.                  Voce che mi consola; cuor generoso, umano,

Grazia, grazia compita. Porgetemi la mano.
LIV.                  (Oh, del felice sogno immagini avverate!) (da sé)

RIN.                  Deh, sulla destra almeno...

LIV.                                                             (Vo' tormentarlo). Andate.

RIN.                  È ver, troppo vi chiesi. ragion me lo contrasta.

Mi perdonaste, o cara, ed il perdon mi basta.

Delle sventure andate parlar più non intendo;

Da voi, da' cenni vostri, in avvenir dipendo.

Fatemi il sole ardente, fatemi il gel soffrire,

Saprò pria di lagnarmi, pria di partir...
LIV.                                                                               Morire.

Questo è quel che mi piace, in uom che vanti affetto.
RIN.                  Voi comandar degnatevi; io d'obbedir prometto.

LIV.                  Partite.

RIN.                              Ancor sì cruda?

LIV.                                                        Me d'obbedir vantate

Ed al primier comando d'acconsentir negate?
RIN.                  È ver, ma il cuor confonde con il desio il dovere.

Partirò per piacervi.
LIV.                                                   (Povero Cavaliere!) (da sé)

Fermate.
RIN.                                A cenni vostri pronto sarò qual devo.

LIV.                  Non partite per ora.

RIN.                                                 Per grazia io lo ricevo.

(Fra la speranza e il duolo mi sento il cuor dividere). (da sé)
LIV.                  (Povero appassionato! mi piace, e mi fa ridere) (da sé)

SCENA SETTIMA Cecchino e detti.

CEC.                 Signora, è don Properzio unito a don Medoro,

Che riverirvi aspirano.
RIN.                                                     (Che vogliono costoro?) (da sé)

LIV.                  Sì, sì, vengano entrambi a divertirmi un poco.

CEC.                 Son veramente entrambi due cavalier da gioco. (parte)

RIN.                  Perdon chiedo, s'io parlo. Stupisco che accettiate

Tai ridicoli arditi.
LIV.                                               Signor, come c'entrate?

Piacemi di ricevere chi voglio in casa mia

Voi del partir potete riprendere la via;

E se restar volete, meglio è tacer.
RIN.                                                                      Non parlo.

LIV.                  (Son genti ch'io non curo, ma fo per tormentarlo). (da sé)


SCENA OTTAVA Don Properzio, don Medoro e detti.

PRO.

Servo di donna Livia.

MED.

Son servitor di lei.

LIV.

Son serva. Favorite seder, signori miei.

PRO.

Vi siam, di qua passando, venuti a riverire.

LIV.

Voglio seder nel mezzo. (siede nel mezzo alli due)

RIN.

(Questo ho ancor da soffrire?) (da sé)

MED.

Donna Rosa dov'è?

LIV.

Sarà nella sua stanza.

MED.

Sta ritirata in camera? Che patetica usanza!

PRO.

La madre sua nol fece. So che si è divertita

Fin l'ultimo respiro ancor della sua vita.

MED.

E donna Livia anch'essa segue i paterni esempi.

Che s'ha da far al mondo?

RIN.

(Quest'è il parlar degli empi). (da sé)

LIV.

Sì certo, un miglior bene non ho dell'allegria.

Piacemi l'ore oziose passare in compagnia.

PRO.

L'amico don Rinaldo sarà il più ben veduto.

LIV.

Oibò; per accidente stamane è qui venuto.

RIN.

(Bella finezza invero!) (da sé)

MED.

Diteci in confidenza.

Come si sta d'amori?

LIV.

Ne sono affatto senza.

Chi volete che il tempo meco disperda al vento?

MED.

Basta che voi vogliate, cento ne avrete e cento.

LIV.

Può darsi che taluno di me fosse invaghito;

Ma dopo brevi giorni vedrebbesi pentito.

Sono una giovin strana, se nol sapete, e tanto

Pretendo dagli amanti, che li riduco al pianto.

RIN.

Tutto soffrir si puote, quando passione ardente

Sforza e violenta un cuore.

LIV.

Questo non è niente.

Verrà l'amante afflitto a chiedermi perdono;

Gli negherò crudele fin della destra il dono.

E quando piange e freme, e suol giurar ch'è fido,

Godo de' suoi deliri, e del suo pianto io rido.

RIN.

(Parla per me l'ingrata. Il suo rigor confessa). (da sé)

PRO.

È amabile il ritratto che fate di voi stessa.

MED.

Amare ad un tal patto? Nemmeno una regina.

RIN.

(E pur quest'è l'amore che il fato a me destina). (da sé)

LIV.

Non ho però fissato d'esser così mai sempre.

Cangiandosi gli oggetti, amor può cangiar tempre.

Chi sa ch'io non ritrovi tal aria e tal sembiante,

Che delirar non facciami nel divenir amante?

MED.

S'io mi mettessi al punto!

PRO.

Se mi provassi anch'io!

LIV.

Uditemi. voi siete fatti sul taglio mio.


La franchezza mi piace.
RIN.                                                          (Troppo soffrir m'impegno).

LIV.                  Don Rinaldo, che dite?

RIN.                                                        Ammiro il bell'ingegno.

PRO.                 Per me con una donna non vorrei far da schiavo;

L'uomo servir non deve, ma comandarle.
LIV.                                                                                    Bravo.

MED.                Quando una donna è cruda, quando l'amante è schiva

Lasciola, e con un'altra cerco rifarmi.
LIV.                                                                             Evviva.

RIN.                  Se donna Livia applaude a' bei concetti e nuovi,

Chi la soddisfi e apprendali, esser può che si trovi.
LIV.                  Trovili pur chi soffre mal volentieri il giogo.

Faccia l'ardir vendetta, faccia l'amor suo sfogo.

Le leggi dell'amore non studio e non insegno,

Ciascuno a suo talento uscir può dall'impegno,

Cambiar le sue catene, saldar le piaghe sue.

Son serva a don Rinaldo. Seguitemi voi due.

(Di rabbia e gelosia quel misero è ripieno;

Ma tornerà a pregarmi, voglio sperarlo almeno). (parte)
PRO.                 Andiamo. (Ho già capito). (piano a don Medoro)

MED.                                                           (Anch'io me n'ho avveduto). (piano a don Properzio, e

partono)
RIN.                  Non so che dir; si sdegni. Soffrii finché ho potuto.

Vivere a una tal legge non vo', non so, non devo.

Son dell'onore offese, i torti ch'io ricevo.

S'ha da morir? si mora d'affanno e di dolore,

Ma s'abbandoni un'empia, e si disciolga il cuore. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Altra camera

Don Riccardo da una parte, e don Rinaldo dall'altra.

RIN.                  Signor, grazie a voi rendo della bontade usata

Meco nel tollerarmi.
RIC.                                                   Come la cosa è andata?

RIN.                  Andò come potevasi sperar da un cuor ferino;

Andò qual per mio peggio comanda il mio destino.

Che non fe', che non disse, un labbro innamorato?

Mi vide al di lei piede la barbara prostrato.

Finse pietà l'ingrata; mi dier lusinga i vezzi;

Ma ricambiommi alfine coll'onte e coi disprezzi.

Molto soffersi, e molto; alfin la mia speranza...
RIC.                  Non mi vantate in faccia la stolida costanza.

Della nipote ardita cerco disfarmi, è vero.

Darla a voi piacerebbemi, egregio cavaliero;

Potrebbesi sperare che si cambiasse un dì,

Ma voi veder non posso ingiuriar così.

Amo l'onesto, il giusto; odio un ingrato eccesso;

Tinto di simil macchia abborrirei me stesso.

Qual parlerei, lo giuro, ad un nipote, a un figlio,

Tale a voi, don Rinaldo, propongo il mio consiglio.

Scordatevi l'ingrata, lasciate di seguirla,

E a me lasciate, amico, la cura di punirla.
RIN.                  Per cagion mia, vi prego, non la punite.

RIC.                                                                                  Ancora.

Ad onta degl'insulti l'audace v'innamora?
RIN.                  Sì, lo confesso.

RIC.                                          E siete, qual uom di sangue oscuro,

Insensibile ai torti?
RIN.                                                 Ah questo no, vel giuro.

Amo la donna ingrata; ma cavaliere io sono

Consigliami l'onore lasciarla in abbandono.

Costimi ancor la vita, saprà ch'io son disciolto;

Più non mi avrà d'intorno, più non vedrolla in volto.

Ma se per mia sventura amarmi ella non puote,

Per me del zio lo sdegno non soffra una nipote.

A me più non si pensi da voi, da lei, dal mondo,

E il suo rossor non crescami delle mie pene il pondo.

Compatitemi. Addio.
RIC.                                                      Dove sì mesto in viso?

RIN.                  A rendermi per sempre dalla crudel diviso.

RIC.                  Come ciò far pensate?

RIN.                                                     Avrà con brevi detti


La libertà in un foglio del cuore e degli affetti. L'avrà senza rimorso; potranno a lor talento Quegli occhi traditori altrui render contento; Ed io, che invidia sempre avrò dell'altrui sorte, Attenderò il rimedio dal tempo, o dalla morte. E voi, se a me congiunto il ciel non vuol che siate. Dell'amicizia vostra almen non mi private. Siami permesso il dirvi, che alla nipote umano Esser vogliate, ad onta di un cuor barbaro e strano; Ch'ella, se tal fu meco, lo fu per mia sventura. Altrui sarà quell'anima più docile, men dura. Fu meco sconoscente, m'insulta, mi martella; Giurato ho di lasciarla; ma dirò sempre. è bella. (parte)

SCENA SECONDA Don Riccardo, poi donna Rosa.

RIC.                  Grazie al mio buon destino, che da follia d'amore

Tennemi in guardia sempre colla ragione il core. Ogn'altro mal che provasi, se dal destin proviene, La sofferenza apprendere dalla virtù conviene. Ma i procacciati mali di un misero talento Dal mondo non può esigere nemmen compatimento. Io merto esser compianto, io che per mia sventura D'una famiglia ho il peso, queste due donne ho in cura; Ma non andrà gran tempo, che fuor da questo tetto Vorrò vederle entrambe, fosse anche a lor dispetto. Ecco a me la minore, men dell'altra orgogliosa.

ROSA               Signor, voi mi lasciaste inquieta e sì dogliosa,

Che fui da quel momento finor fuor di me stessa, Da mille doglie afflitta, da mille dubbi oppressa. L'unico ben ch'io bramo, è l'amor vostro, e questo Togliemi senza colpa il mio destin funesto.

RIC.                  No, figlia, non iscemasi il mio sincero affetto.

Ebbi, non so negarlo, di voi qualche sospetto; E alfin la diffidenza non condannar bisogna, Se d'altri in me la genera l'inganno e la menzogna. Uditemi, nipote. da voi, dalla germana, Vo' che si scelga stato. La resistenza è vana; E chi svelar ricusa l'interno suo desio, Vedrà il proprio destino dipendere dal mio. Ebbi per donna Livia finor tal convenienza, Che mertano i riguardi di onesta preferenza. Ma questi han da aver fine. pensate a voi soltanto, La soggezion del sangue lasciatela da un canto. Come se sola foste, svelate a me la brama; Ditemi a quale stato l'inclinazion vi chiama. Fidatevi del labbro di un zio, di un cavaliero.


Il vostro cuor, nipote, apritemi sincero.
ROSA               Al ragionar discreto di un zio d'amor ripieno,

Non vo' che altri timori si destin nel mio seno.

Signor, se voi sdegnate di me più lunga cura,

Giust'è che mi solleciti di uscir da queste mura.

Non gradirei, per dirla, la noia di un ritiro;

Intender voi potete lo stato a cui aspiro.
RIC.                  Più gentilmente accorto un labbro rispettoso

Svelar non mi poteva la brama di uno sposo.

Sì, l'avrete; non pochi sono i partiti onesti

Che offerti sono. Il meglio si sceglierà fra questi.

E vaglia a consolarvi, che i pregi vostri ammirano,

E che alle nozze vostre i più felici aspirano.

Della maggior germana superba stravaganza

Vanterà meco invano la folle maggioranza.

Quando ritorni il zio con uno sposo eletto,

Si accetterà da voi?
ROSA                                              Sì, mio signor, l'accetto.

RIC.                  Bene, la suora vostra quel che sa dir, si dica

Chieda ragione invano, chi è di ragion nemica.

Di lei non vi spaventino onte, minacce, orgoglio.

Ella è che così merita; son io che così voglio. (parte)

SCENA TERZA

Donna Rosa.

ROSA               Ecco come nel mondo talun fa sua rovina,

E il ben ch'egli trascura, per altri si destina. La morte, dir si suole, d'ingorda belva ardita Può all'innocente agnella assicurar la vita; Così della germana, che meco è un fier mastino! Faran le metamorfosi migliore il mio destino. Eccola in compagnia di due che l'assomigliano; Saggia com'esser puote, se i stolti la consigliano?

SCENA QUARTA

Donna Livia, don Properzio, don Medoro e detta.

LIV.                 Di voi, germana, appunto si cerca e non è poco
V'abbiam finora invano cercata in più d'un loco.

ROSA              Da me che può volere sì nobil compagnia?

LIV.                 Passar un'ora insieme si vuole in allegria.

PRO.                Riverir donna Rosa.

MED.                                                 Goder la sua presenza.

ROSA              Sorella, un'altra volta. Signori, con licenza. (in atto di partire)


LIV.                  State qui, scioccarella.

ROSA                                                   Domandovi perdono…

LIV.                  Sì, sì, restar negate, lo so, perch'io ci sono.

Possibile che sempre sdegnata abbia a vedervi

Meco senza ragione?
ROSA                                                Starò per compiacervi.

PRO.                 Malinconia, ritiro, non son cose da voi. (a Rosa)

MED.                Se siete addormentata, vi sveglieremo noi. (a Rosa)

LIV.                  Germana, vi assicuro, dicono cose tali

Che ridere farebbon chi avesse cento mali.
ROSA               Mi rallegro con voi, poiché vi veggo in viso

Succedere allo sdegno coll'allegrezza il riso.
LIV.                  È ver, lieto com'ora unqua il mio cuor non fu.

(Provato ho don Rinaldo. Ei non mi fugge più.) (da sé)
ROSA               (O non sa qual destino a lei sorte minaccia,

O prova il suo dispetto a simulare in faccia). (da sé)
PRO.                 Ma che facciam qui in piedi?

MED.                                                               Seggan le dame almeno.

LIV.                  (Venisse don Rinaldo a consolarmi appieno!

È ver che lo lasciai scontento, ma già sono

Certa, ch'ei dee tornare a chiedermi perdono). (da sé)
PRO.                 Degnatevi. (a donna Rosa)

MED.                                 Sedete. (a donna Livia)

LIV.                                                 Tutti seder possiamo.

ROSA               Eccomi.

LIV.                                Che s'ha a fare? giocar?

MED.                                                                    No, mormoriamo

LIV.                  Di chi?

PRO.                             Di tutto il mondo.

ROSA                                                       Par che ragion lo vieti.

MED.                Facciam quel che si pratica; mormoriam dei poeti.

LIV.                  Sì, sì, ci ho proprio gusto. Oggi mi trovo in vena.

Parliam delle commedie vedute in sulla scena.
ROSA               Germana, compatitemi, tal uso non mi piace;

Perché trattar gli autori con critica mordace?
PRO.                 Se sempre si lodassero, si perderian gli autori.

La critica è quel pungolo che rendeli migliori.
MED.                Allor che una commedia si sprezza a voce piena,

Allor si dà il poeta a lavorar di schiena.
ROSA               Se prevalesse al pubblico un simil sentimento,

Mai, per sperar di meglio, vedrebbesi contento.
LIV.                  Il pubblico per altro composto è di tal gente,

Che suol con vari capi pensar diversamente.

Alcuni sprezzan l'opere che ad altri paion belle,

Alcuni le sprezzate sollevano alle stelle;

Se vari i geni sono, anche il giudizio è vario;

E il mio della corrente va sempre all'incontrario
PRO.                 A voi quali in quest'anno son l'opere piaciute?

LIV.                  Una commedia sola fra quante ne ho vedute.

ROSA               (Sentiam le prove solite di stravagante umore). (da sé)

MED.                La vostra favorita qual è?


LIV.                                                             Il Raggiratore. (tutti ridono)

PRO.                 Se sa chi la compose che abbiate tal concetto,

Vi manda a regalare almen con un sonetto.
MED.                Dubito che l'autore, con vostra permissione,

Sia amico vostro, e abbiate per lui della passione.
LIV.                  È vero, io lo conosco, per lui ho della stima,

Ma quando a me non piace, sono a dir mal la prima.
ROSA               Sì, sì, quando a lui riescono le opere infelici,

Son primi a lamentarsene i suoi migliori amici.

Lo sa che amor li stimola ad un linguaggio amaro,

Ma questo amor talvolta gli costa troppo caro.
LIV.                  Dunque cotal commedia ragione ho di lodarla.

ROSA               Doveasi con prudenza lasciar di nominarla.

LIV.                  Germana, la credete sì trista e scellerata?

ROSA               Giudicheralla il mondo allor che sia stampata.

PRO.                 Che intreccio saporito, che fin maraviglioso!

MED.                L'ha preso dal Destouches, nel suo Vanaglorioso.

PRO.                 Dunque per quel ch'io sento, così pessimo ed empio

Ch'egli è il Raggiratore, ha più di un buon esempio.

Famoso è quel Francese che diede il scioglimento,

E al nostro autor si nega il suo compatimento?

Sapete la sua colpa? Eccola, egli non suole

Copiar mai da nessuno gl'intrecci e le parole.

Una sol volta il fece, e questi è il suo delitto.

Con più attenzion dell'altre questa commedia ha scritto.
LIV.                  Lasciam questo proposito, che alfin non val niente.

Troviam materia nuova di star più allegramente.

Oggi mi sento il cuore di tal letizia pieno

Che trattener non posso il giubbilo nel seno.
ROSA               Da che provien, germana, tal gioia inusitata?

LIV.                  Dall'esser da chi s'ama temuta e rispettata.

PRO.                 Amor rallegra i cuori.

MED.                                                    Amor rende tai frutti.

LIV.                  Ma quel piacer ch'io provo, non si ritrova in tutti.

SCENA QUINTA

Cecchino e detti.

CEC.

Signora.

LIV.

Oh mio Cecchino, che vuoi da me?

CEC.

Qual soglio,

Eccomi nuovamente apportator d'un foglio.

LIV.

Recalo a me.

CEC.

Tenete. (le dà il foglio)

LIV.

(Oh foglio a me diletto!

Nuovo piacer preveggo. Nuovi perdoni aspetto). (apre il foglio)

ROSA

(Stupida la rimiro). (da sé)

PRO.

Giubbila di contento. (a donna Rosa)


MED.                Nuove felici, è vero? (a donna Livia)

LIV.                                                   (Misera me, che sento?) (da sé)

ROSA               Si turba.

PRO.                               Si scolora. (a donna Rosa)

MED.                                               L'occhio non par più quello. (a donna Rosa)

CEC.                 (Dubito questa volta non donimi un anello). (da sé)

LIV.                  (Possibil che mi lasci? Ah! da' suoi detti il temo.

Ingratissimo foglio! ah, dalla bile io fremo). (da sé)
ROSA               Che vuol dir, donna Livia?

LIV.                                                             Un improvviso assalto

Di convulsioni al capo.
PRO.                                                       Che? vanno i fumi in alto?

ROSA               Quel foglio avvi destato l'intempestivo umore?

LIV.                  Può darsi, egli ha di muschio un orribile odore.

ROSA               Datelo a me, che allettami l'odore, e non mi offende.

LIV.                  Donna curiosa invano di leggerlo pretende. (s'alza adirata)

MED.                Se cosa è che vi spiaccia, a noi non la celate.

PRO.                 Deh parlateci almeno.

LIV.                                                      Non vo' parlare. Andate.

ROSA               Vi licenzia, signori.

PRO.                                                  Noi non andrem per questo.

ROSA               Restate, se vi aggrada, io più con lei non resto.

Non vo' che mi rimproveri curiosità malnata.

Livia è fuor di se stessa, quel foglio l'ha sdegnata.

(Qualche desio, confesso, ho di saperlo in petto;

Ma provocar non voglio, restando, il suo dispetto.

Sia pur qual esser vuole quel cor, lieto o sdegnoso,

So quel che il zio mi disse, sull'amor suo riposo). (da sé e parte)

SCENA SESTA Donna Livia, don Properzio, don Medoro e Cecchino.

PRO.

L'una partì con garbo. (a Medoro)

MED.

L'altra ha i deliri suoi. (a Properzio)

PRO.

Ora, se il ciel s'annuvola, a che restiam qui noi?

CEC.

(Bella conversazione! nessun dice parola).

LIV.

Signori, con licenza. Desio di restar sola.

PRO.

Bel complimento invero!

MED.

Andrem, quando vi piace;

Ma il cuore ai buoni amici si spiega, e non si tace.

LIV.

Voglio tacer, v'ho detto.

MED.

Quel foglio disgraziato

Qualche dolor vi reca.

PRO.

Qualche spiacer vi ha dato.

LIV.

(Mi seccano) (da sé)

PRO.

Se a noi fate la confidenza

MED.

Se vi spiegate a noi...

LIV.

Mi pare un'insolenza.


Quando parlar non voglio, quando andar vi ammonisco,

Se a dir mi provocate...
PRO.                                                       Padrona. (parte)

MED.                                                                    Riverisco. (parte)

SCENA SETTIMA

Donna Livia e Cecchino.

LIV.                  Chi ti diè questo foglio? (a Cecchino)

CEC.                                                       Mel diede don Rinaldo.

LIV.                  Disseti nulla in voce?

CEC.                                                     Nulla.

LIV.                                                               Oimè! mi vien caldo.

Apri quella finestra, e non tornar fin tanto

Che qui non ti richiami.
CEC.                                                       (Oh oh, vi è del mal tanto). (si ritira)

LIV.                  Indegnissimo foglio! perfido chi ti ha impresso!

Cento insulti ha sofferti, e si risente adesso?

Dopo il perdon ch'ei m'ebbe richiesto, ed ottenuto

Per più leggiera offesa sì indocile è venuto?

Leggiamole di nuovo queste superbe note.

Ah, di rossor nel leggerle si tingono le gote.

Io soffrirò che tale un amator mi scriva?

Da me ottener non speri perdono infin ch'io viva.

Signora. L'idol suo più non mi chiama? indegno!

Della signora aspettati a tollerar lo sdegno.

Signora. A tollerarvi son da lung'uso avvezzo,

Ma giunse ad istancarmi quest'ultimo disprezzo.

Che dissi mai stamane, che fosse oltre l'usato?

Ah sì, l'aspra catena cangiar l'ho provocato.

Ma ch'io da scherzo il dissi, non s'avvisò lo stolto?

Ah, che trascorre il labbro, allor che parla molto!

S'egli da me tornasse, direi che tal non fu...

Ma che da me non torni; non vo' vederlo più. (adirata, poi sospira)

Trovate altri che sappia meglio di me soffrire.

Io, pria di più vedervi, mi eleggo di morire.

Morrà, se non mi vede. Ma vuol morir, protesta.

Eh, di sdegnato amante solita frase è questa.

Ritornerà, son certa; amor vince l'orgoglio;

Ma torni pur l'ingrato, più rimirar nol voglio. (adirata, poi sospira)

Lo dissi a don Riccardo. Giurai sull'onor mio.

Recavi questo foglio un sempiterno addio.

Questo è troppo. (siede) Narrarlo a don Riccardo istesso?

Debolezza da stolto, indegna del suo sesso.

Di me che dirà il zio? che dirà il mondo tutto?

Ah, delle mie stranezze ecco alla fine il frutto.

Cecchino.
CEC.                                  Mia signora.


LIV.

Don Rinaldo dov'è?

CEC.

Non lo saprei davvero.

LIV.

Voglio un piacer da te...

CEC.

Mi comandi.

LIV.

Va tosto girando la città...

Guarda un po' s'egli fosse sotto al balcon. Chi sa?

CEC.

Non crederei, signora.

LIV.

Perché?

CEC.

Perché sdegnato,

Allor che alle mie mani quel foglio ha consegnato,

Dissemi. Del mio duolo abbi pietà ancor tu;

Non mi vedrai, Cecchino, non mi vedrai mai più.

LIV.

Questo di più a te disse, e a me lo taci, indegno? (s'alza)

Ah, merti ch'io principii sfogar teco il mio sdegno.

CEC.

Non me lo ricordava. (forte ritirandosi)

LIV.

Accostati.

CEC.

Ho timore.

LIV.

Vieni qui.

CEC.

Dell'orecchio mi pizzica il bruciore.

LIV.

Recami il calamaio. Scrivere io voglio.

CEC.

Subito.

Sana quest'altra orecchia non conservare io dubito. (va a prendere da scrivere)

LIV.

Mi avvilirò a tal segno? gli scriverò? si faccia;

Ma il foglio mio contenga un'onta, una minaccia.

E poi se più s'irrita? Eh, non potrà durarla.

Se vede una mia carta, son certa, ha da baciarla.

CEC.

Ecco qui l'occorrente.

LIV.

Non ti partire.

CEC.

Aspetto.

LIV.

Ho cento dubbi in cuore; ho delle smanie in petto.

Vorrei, e non vorrei. Son di consiglio priva.

Ora spero, or pavento. Risoluzion. si scriva. (siede)

Perfido!

CEC.

(Eh, bel principio!)

LIV.

Ah, si moderi il caldo. (straccia il foglio)

Ma l'onor si sostenga. Scrivasi. Don Rinaldo.

Nuovo linguaggio e strano giunse al cuor mio nel foglio,

Che di dolore empiendomi... Non sappia il mio cordoglio. (straccia la carta)

CEC.

(Ho inteso. Donna Livia or or farà ch'io parta,

Dieci quinterni almeno a provveder di carta). (da sé)

LIV.

Don Rinaldo, stupisco che un tal linguaggio nuovo

Giunga a me d'improvviso... I termini non trovo.

SCENA OTTAVA

Il servitore e detti.

SER.

Signora, favorisca.

LIV.

Che vuoi?


CEC.

(Abbi giudizio). (piano al Servitore)

SER.

Perché?

CEC.

(Perché ti vedo la testa in precipizio).

LIV.

Si può saper che cerchi?

SER.

Con vostra permissione,

Cerco di donna Rosa.

LIV.

Chi la vuole?

SER.

Il padrone.

LIV.

Si sa perché?

CEC.

(Se il sai, dillo pria di sdegnarla). (al Servitore)

SER.

Credo, per quel che intesi, ch'ei voglia maritarla.

LIV.

Maritar la germana? come lo sai? favella. (s'alza)

SER.

Sentii parlar con uno...

LIV.

Con un? come s'appella? (al Servitore)

CEC.

(Oh, stai fresco). (al Servitore)

SER.

Perdoni, non so più di così.

LIV.

Pria di me la germana?

SER.

Appunto. eccola qui.

SCENA NONA

Donna Rosa e detti.

SER.                 Signora, vi domanda il padron con premura. (a donna Rosa)

LIV.                  Fermati. (al Servitore)

SER.                                Non ho tempo. (Affé, mi fa paura). (parte)

LIV.                  Andate, graziosina, che il zio vuol maritarvi.

ROSA               S'egli lo vuol, si faccia; non vengo a consigliarmi.

LIV.                  Prima di me ardirete sposa mostrarvi al mondo?

ROSA               Chi ci governa ha in mano il primo ed il secondo.

LIV.                  Ah se vivesse il padre, non soffrirei tal torto.

ROSA               Ora lo zio comanda; e il genitore è morto.

LIV.                  Orfana saprò ancora farvi arrossire in volto.

ROSA               A chi comanda io cedo; vi lascio, e non vi ascolto. (parte)

SCENA DECIMA

Donna Livia e Cecchino.

LIV.                  Così mi parla in faccia labbro orgoglioso e baldo?

Ah, fosser noti almeno miei torti a don Rinaldo! Ma non li cura ingrato. Sì, ancor vo' lusingarmi, Ch'ei torni a rivedermi, ch'ei vaglia a vendicarmi. Calmisi il mio furore, soffra l'usato orgoglio; A lui, che alfin m'adora, giunga un tenero foglio Lo formerò; ma in prima sappia lo zio indiscreto. Che all'onta ch'io ricevo, protesto e non mi accheto.


Seguimi; non lasciarmi. Ho di te d'uopo; o numi! (a Cecchino)
Come la sorte a un tratto cambiar fa di costumi!
No, perfida germana, no, tu non mi precedi,
Se anche gettar dovessimi di don Rinaldo ai piedi. (parte)
CEC.                 Oh, se vedessi questa, vorrei pur rider tanto!

Sarebbe un bell'esempio delle superbe al vanto.

È ver che donna Livia ha indocile talento,

Ma un cuor ch'è stravagante, si cambia in un momento. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Altra camera.

Cecchino ed il servitore s'incontrano.

CEC.                 Oh, volentier t'incontro. Le cose come vanno?

Donna Rosa è contenta? Le nozze si faranno?

SER.                  Per quello che ho potuto intendere dall'uscio,

Per ora donna Rosa non vuole uscir dal guscio. Il cavalier propostole è ricco, è grande, è nobile, Ma è vecchio ed ha, per dirla, in faccia un brutto mobile. È stravagante, è altiero, parla e pensa a sproposito.

CEC.                 Questo per donna Livia è un partito a proposito.

SER.                  Dov'è la capricciosa, che non si vede?

CEC.                                                                               Scrive.

SER.                  Volea dal mio padrone passar con le cattive,

Ma io che aveva l'ordine di non lasciarla entrare, Affé, l'ho canzonata, e mi ho fatto stimare.

CEC.                 Oh, se l'avessi intesa quando tornò! quai furie!

Contro di don Riccardo scaricò mille ingiurie; Poi si placò, si pose a scrivere un viglietto; Dissemi che aspettassi, ed io son qui che aspetto.

SER.                  Aspettala a tuo grado, ch'io non la vo' d'intorno.

Andai per un affare, al posto or fo ritorno.

CEC.                 Sono serrati ancora?

SER.                                                   Sì, v'è ancor la fanciulla.

Tenta di persuaderla, ma già non si fa nulla.

CEC.                 Per altro egli è un sistema, mi pare, inusitato,

Specialmente fra nobili. Mi son maravigliato Sentir che don Riccardo, ch'è un cavalier prudente, Volesse in tal incontro la giovine presente.

SER.                  È ver, doveva in prima concludere il contratto,

Poi chiamar la nipote; ma so perch'ei l'ha fatto. Con un ch'è ricco e nobile vorrebbe accompagnarla, Ma strano conoscendolo, non vuol precipitarla. In prima egli ha voluto veder s'ella è contenta, Acciò la poverella un dì non se ne penta. Oh, se così facessero i padri colle figlie, Al mondo non vedrebbonsi cotante maraviglie. Se amor facesse i sposi, sarebbon più contenti, Né tanti si vedrebbono più amici che parenti.

CEC.                 Ecco la mia padrona.

SER.                                                   Non vo' mi veda in faccia.

CEC.                 Talora io me la godo.

SER.                                                   Sì, sì, buon pro ti faccia. (parte)


SCENA SECONDA Cecchino, poi donna Livia.

CEC.                 Con lei sono avvezzato; la so blandir da scaltro;

Quello ch'io talor soffro, non soffrirebbe un altro.

Ma se colle stranezze mi provoca e m'aizza,

Con qualche regaluccio mi medica la stizza.
LIV.                  Cecchino.

CEC.                                  Mi comandi.

LIV.                                                        Reca questo viglietto

A don Rinaldo subito, e la risposta aspetto.
CEC.                 Sarà servita.

LIV.                                       Osserva nel leggerlo ben bene,

Quali moti egli faccia.
CEC.                                                     (Da ridere mi viene). (da sé)

LIV.                  Sappimi dir se lieto ei ti rassembri in viso;

Se avesse mai di lagrime l'occhio dolente intriso;

Se nell'aprire il foglio, la man gli tremi, e come

Leggere ansioso mostri di donna Livia il nome.

Guarda, osserva, raccogli, se il foglio mio gli è grato.
CEC.                 E se me lo rendesse il Cavalier stracciato?

LIV.                  Se tal disprezzo io soffro, non mi venir più innante.

Ma nol farà; son certa che don Rinaldo è amante.

È un amator sdegnato; tal della donna è il vanto;

Forzato è dalla speme venir biscia all'incanto.

Vanne, ritorna lieto, quale il cuor mio ti aspetta.
CEC.                 (Oh, di superba femmina prosunzion maledetta!

Pretende che l'amante di tutto abbia a scordarsi.

Se don Rinaldo è un uomo, stavolta ha da rifarsi.

Lo goderei, lo giuro, vederlo ricattato,

A costo anche di perdere, e di essere picchiato). (da sé, indi parte)

SCENA TERZA

Donna Livia sola.

LIV.                  Questa volta m'indusse, più che l'amor, lo sdegno,

A usar contra mia voglia un atto di me indegno. Il trattamento strano del zio meco incivile Resemi coll'amante dolce, discreta, umile; Prima che alle mie nozze non diasi il compimento, Veder della germana non vo' l'accasamento. E in pronto non avendo altro miglior partito, La brama in don Rinaldo sollecita un marito. L'amo ancor, non lo nego, ma d'irritarlo ho in uso; Or con note amorose seco mi spiego, e scuso.


L'invito, lo addormento, e a far ch'egli mi creda, Bastami che mi ascolti, mi basta ch'ei mi veda.

SCENA QUARTA

Donna Rosa e la suddetta.

ROSA               Oh incontro inopportuno! (da sé, arrestandosi)

LIV.                                                          Venga, signora sposa.

Non lasci che i suoi titoli la rendano orgogliosa.

È principe, è marchese, è duca, è coronato

Lo sposo, che al suo merito le stelle han destinato?
ROSA               Sospendere potete lo scherno, amabil suora;

Comandano le stelle ch'io non lo sappia ancora.
LIV.                  Non si formò il contratto tra i fortunati eroi?

ROSA               Rinunzio a tal fortuna, e ve la cedo a voi.

LIV.                  Grazie dell'onor massimo che degnasi di farmi.

Dovrei di un sì bel dono sommessa approfittarmi;

Ma quel che dai begli occhi fu tocco e affascinato,

Me sdegnerebbe in cambio sposa mirarsi allato.
ROSA               Il cavalier propostomi è tal, ve lo protesto,

Che cambierebbe in meglio con sì felice innesto.
LIV.                  Non vi capisco.

ROSA                                         Udite. Al cavalier sublime

Congiunte son di sangue le illustri case, e prime;

E ha tai dovizie e onori, a ha nome tal nel mondo,

Che a pochi in patria nobile può renderlo secondo.

Altra di me più saggia ne daria grazie al nume;

A me spiace il suo volto, dispiace il suo costume.

O pur dirò che il fato in me difetti ad una,

Che degna non mi rendono di simile fortuna.

Chi sa che destinata per voi non sia tal sorte?

Miratelo, germana, escir da quelle porte.

Al zio che l'accompagna, spiegatevi. chi sa?

Par che per voi sia nato. Vel lascio in verità. (parte)

SCENA QUINTA Donna Livia poi don Riccardo ed il marchese Asdrubale.

LIV.                  Restami ancor in dubbio, se finga, o sia già sposa.

Posso appagar la brama, che rendemi curiosa.

Dissimular lo sdegno saprò, finché del vero

Mi appaghi don Riccardo, che or vien col cavaliero.
RIC.                  Marchese, il cuor conferma quel che col labbro io dico;

Vi è noto qual vi sono fin da' prim'anni amico.

Bramai che a voi congiunto fosse il mio sangue invano,


E la nipote al nodo prestar nega la mano.
MAR.                Perché pensate voi sdegnar voglia in consorte,

Cospetto! un cavaliere, un uom della mia sorte?
RIC.                  Sprezzo in lei non credete, ma un debole desio.

MAR.                Le prime dame aspirano, cospetto! ad un par mio.

LIV.                  (Per dirla, al primo abbordo ha un'aria che ributta,

Ma spesso il bel si cela, se l'apparenza è brutta). (da sé)
MAR.                Lo zio colla nipote voler può a suo dispetto.

L'uomo dev'esser uomo, farsi stimar, cospetto!
LIV.                  (Gli sta pur bene in bocca quel cospettar frequente!) (da sé)

RIC.                  Non ponno ad uom felici riuscir nozze violente,

Né d'amor foco accendere potrebbe un cuor di ghiaccio.

Acchetatevi, amico. Alfin...
MAR.                                                             Cospettonaccio!

LIV.                  (Segno è d'animo grande quel risentire il caldo.

Tutti non hanno in seno il gel di don Rinaldo). (da sé)
RIC.                  Che fa qui la nipote?

LIV.                                                   Fo quel che piace a me.

RIC.                  Risposta di voi degna!

LIV.                                                      Quel cavalier chi è?

RIC.                  Questi è il marchese Asdrubale.

LIV.                                                                    (Asdrubale! mi piace).

MAR.                Chi è quella?

RIC.                                       È donna Livia.

MAR.                                                             Cospetto! non mi spiace.

RIC.                  (Affé, se amor formasse sì strano matrimonio,

Pronubo a nozze tali vedrebbesi il demonio).
MAR.                Donna Livia è fanciulla?

LIV.                                                          Lo son, per mia sventura.

RIC.                  Piacevi il bel costume? (al Marchese)

MAR.                                                      Parlatele a drittura.

RIC.                  (Quasi di farlo ho in animo, sol per escir d'imbroglio). (da sé)

LIV.                  (Pentomi a don Rinaldo aver inviato il foglio). (da sé)

RIC.                  (Ma non ho cuor di unire destra a destra furente). (da sé)

MAR.                (Se non lo fa, cospetto!) (da sé)

LIV.                                                        (Ah, che d'amor è ardente!) (da sé)

RIC.                  Piacciavi, donna Livia, andar per un momento.

Sarò da voi fra poco.
LIV.                                                   (Ardere anch'io mi sento). (da sé)

Parto per obbedirvi. Alle mie stanze aspetto,

Ma l'aspettar soverchio fremer mi fa.
MAR.                                                                           Cospetto!

Che bell'ardir sublime, che spirito è codesto!
LIV.                  (Non ho veduto un uomo più amabile di questo). (da sé, indi parte)

SCENA SESTA Il marchese Asdrubale e don Riccardo.


MAR.                Perché lontan la giovane mandar dagli occhi miei?

RIC.                  Perché vi bramo in prima parlar senza di lei.

MAR.                Ben, che volete dirmi?

RIC.                                                      Dirò, prima di tutto,

Che amor sì repentino non fa sperar buon frutto;

Che a me venuto siete per la minor germana.

E parmi or tal richiesta irregolare e strana.
MAR.                A voi non è ben noto il mio temperamento.

Son uno che, per solito, si accende in un momento.

Chi sa pigliarmi a un tratto, di me fa ciò che vuole;

Difficoltà m'irritano, mi seccan le parole.

Sarò di donna Livia, s'ella è di me contenta;

Concludansi le nozze innanzi ch'io mi penta.
RIC.                  Non mi credea rinchiudersi in cavalier sì degno

Un cuor di simil tempra, volubile a tal segno.

A voi basta un sol punto per divenir marito;

Non vo' arrischiar domani di vedervi pentito.

Questa maggior nipote m'inquieta, io lo confesso;

Ma a lei niente di meno serbo l'amore istesso.

All'imprudenza indocile, che forma il suo periglio,

Opponere mi giova la forza ed il consiglio.
MAR.                Oh cospetto, cospetto!

RIC.                                                      Escir da questo tetto

Favorite per ora.
MAR.                                          Dev'esser mia, al cospetto.

RIC.                  Ella è strana, signore.

MAR.                                                   Lo sono al par di lei.

RIC.                  I grilli suoi son perfidi.

MAR.                                                      Si cambieran coi miei.

RIC.                  Suol sdegnarsi per nulla.

MAR.                                                        Mi sdegno anch'io per poco.

RIC.                  Manderanno due mantici tutta la casa a foco.

MAR.                Tutti i consigli vostri al desir mio son vani.

Cospetto! ho già risolto.
RIC.                                                        Ne parlerem domani.

MAR.                No, che il doman s'aspetti, male da voi si spera.

RIC.                  (Mi vo' sottrar, se posso). ne parlerem stassera.

MAR.                Bene, fino alla sera sarò a soffrir costretto;

Perché mi sento in seno... non lo so dir... Cospetto! (parte)

SCENA SETTIMA

Don Riccardo solo.

RIC.                  Da molti anni al Marchese amico esser mi vanto,

Strano il conobbi, è vero, ma nol credea poi tanto. Era per donna Rosa tristo compagno, il veggio; Ma unito a donna Livia, che lo somiglia, è peggio. Donna potrebbe umile fargli cambiar talento;


Fa stragi, allor che soffia da doppio lato il vento.

Quello che a donna Livia franco proporre aspiro,

Essere non si aspetti sposo no, ma ritiro,

Ove da strette mura, da leggi rigorose,

Saggie a forza diventano anche le capricciose. (parte)

SCENA OTTAVA Donna Livia sola, poi il servitore.

LIV.

Affé, soverchiamente parmi nel quarto mio

Aver l'indiscretezza attesa dello zio.

S'egli da me non viene, giusta gl'impegni sui,

Strano non è ch'io venga a ricercar di lui.

Chi è di là? c'è nessuno? Chi sa che inavvertito,

Senza più ricordarsene, non sia di casa uscito.

Le stanze sue son chiuse. Non veggo i servitori.

Si chiama, e non rispondono. Eh là, vi è alcun di fuori?

Or ora entrar in frugnolo mi fa l'impazienza.

Possibil che non sentano? cos'è questa insolenza?

Non senti, o non sentire fingi tu, sciagurato?

SER.

Perdoni, sulla sedia mi era un po' addormentato.

(Pur troppo l'ho sentita, ma di venir non curo).

LIV.

Dov'è il padrone?

SER.

È uscito.

LIV.

Che sia ver?

SER.

L'assicuro.

LIV.

Fammi un piacer.

SER.

Comandi.

LIV.

Dammi una sedia.

SER.

Presto. (le porta la sedia)

LIV.

Non mi lasciar qui sola. (sedendo)

SER.

Se lo comanda, io resto.

LIV.

Dimmi, quel cavaliere poc'anzi a noi venuto

Lo conosci?

SER.

Il conosco. è il marchese Liuto.

LIV.

È ricco?

SER.

Anzi ricchissimo.

LIV.

Accostati.

SER.

Son qui. (s'accosta)

LIV.

Che disse a don Riccardo, quando da noi partì?

SER.

L'intesi dir (conviene farla gioire un poco)

Ch'avea per donna Livia le viscere di foco.

LIV.

Usi a prender tabacco?

SER.

Quando ne ho, signora.

LIV.

Prendi una tabacchiera.

SER.

Davver? troppo mi onora.

LIV.

Disse d'amarmi adunque.

SER.

Certo, e se il ciel destina...


LIV.

Oibò, che odore è questo? tu appesti di cucina.

Allontanati un poco.

SER.

Perdoni. (si scosta)

LIV.

A dir s'intese,

Che alle mie nozze aspira il labbro del Marchese?

SER.

Lo replicò più volte. Peno, sospiro ed ardo

Per quei begli occhi amabili.

LIV.

Che dicea don Riccardo?

SER.

Non vorrei... (guardando d'intorno)

LIV.

Avvicinati.

SER.

Pavento incomodarla

Coll'odor di cucina,

LIV.

Avvicinati. Parla. (col fazzoletto si copre il naso)

SER.

Disse il padrone allora... (accostasi all'orecchio)

LIV.

Oibò, ti puzza il fiato.

Presto, presto tabacco.

SER.

Son pur male imbrogliato

Ecco.

LIV.

La tabacchiera. Non mi toccar la mano

SER.

Si serva come vuole.

LIV.

Stammi pur da lontano. (prendendo tabacco)

SER.

Così, come diceva, sentii dir al padrone,

Che volentieri avrebbe... (in tasca la ripone?)

LIV.

Segui.

SER.

Se il ciel destina, se si compiace e vuole... (patetico)

Signora, mi perdoni, perdute ho le parole.

LIV.

Perché?

SER.

Perché mi aveva per grazia sua donato

Quella scatola, e poi...

LIV.

Briccone, or ti ho squadrato. (s'alza)

Per la speranza ingorda di trarmi dalle mani

Qualche mercé, seguisti lo stile de' mezzani.

SER.

Obbligato, signora... (in atto di partire)

LIV.

Vien qui. Dove vai tu?

SER.

Che mi si rompa il collo, se ci ritorno più. (parte)

SCENA NONA

Donna Livia, poi Cecchino.

LIV.                  Il zio con il Marchese che mai disser fra loro?

Il ver non è possibile sapersi da costoro. O scemano le cose, o aggiungono a talento. Colui parlar faceva la scatola d'argento. Ma i detti suoi dovevansi esaminare almeno. Quando il furore assaltami, non so tenermi in freno. Basta; se nel Marchese fe' colpo il mio sembiante... Ritornerà, lo spero, a comparirmi innante. E don Rinaldo (oh come del fatto or mi vergogno)


Vedrà che donna Livia di lui non ha bisogno.
CEC.                 Eccomi di ritorno. Ho consegnato il foglio...

LIV.                  Taci. lo consegnasti? altro saper non voglio.

CEC.                 Attento ad ogni moto, a norma del comando,

Vidi che il Cavaliere...
LIV.                                                      Di ciò non ti domando.

CEC.                 Ma nel legger la carta vidi che i lumi suoi...

LIV.                  O taci, o ti bastono.

CEC.                                                (Soliti grilli suoi). (da sé)

LIV.                  (Pur troppo, or lo conosco! il cuor debole fu;

Colla risposta inutile non vo' arrossir di più). (da sé)
CEC.                 Bastami siate certa, che ho fatto il mio dovere...

LIV.                  Gente è nell'anticamera. Chi sia, vanne a vedere.

CEC.                 (Credea farmi un gran merito nel dire che l'amico

A sospirar ritorna, ma non le cale un fico). (da sé, e parte)

SCENA DECIMA Donna Livia, poi Cecchino che torna.

LIV.                  Siasi qual esser voglia il mio novello impegno,

Vuole che a don Rinaldo mantengasi lo sdegno.

E se dell'umil foglio vorrà riconvenirmi,

Dir potrò che formato l'ho sol per divertirmi.
CEC.                 Signora, un cavaliere che ha titol di marchese,

Brama di riverirvi.
LIV.                                                 Asdrubale cortese

Ei sarà, mi figuro. Di' ch'è padrone.
CEC.                                                                          Subito. (va alla scena, accennando al Cavalier

che entri)
LIV.                  Sollecito ritorna. Dell'amor suo non dubito.

SCENA UNDICESIMA

Il Marchese e detti.

MAR.                Eccomi a rivedervi, anche del zio a dispetto.

LIV.                  Lo zio non lo vorrebbe? che prosunzion! cospetto!

MAR.                Brava. Un po' di riguardo m'avea fatto lasciare

In faccia di una donna l'usato intercalare.
LIV.                  Recagli da sedere. (a Cecchino)

MAR.                                               No no, vo stare in piè.

LIV.                  Se piace a voi star ritto, per or non piace a me.

MAR.                Sedete.

LIV.                              Sederò.

MAR.                                       Sì, senza far parole.

In casa mia, signora, si fa quel che si vuole.


LIV.                  (Ci starei da regina). (da sé)

CEC.                                                  (Che cavalier garbato!

La padrona a suo dosso, affé, l'ha ritrovato). (da sé)
MAR.                Per venir alle brevi, se il zio non ve l'ha detto,

Sappiate che per voi ho dell'amore in petto.
LIV.                  Posso crederlo poi?

MAR.                                               Non mentono i miei pari.

LIV.                  Perché non aggiungete gli usati intercalari?

MAR.                Oh, se vi dà piacere lo cospettar, senz'altro

Dirò cento cospetti, un più bello dell'altro.
LIV.                  Par che aggiungano forza al ragionar sincero.

CEC.                 (Che giovane garbata! che nobile pensiero!) (da sé)

MAR.                Della germana vostra, che stolida provai

Voi siete più gentile, siete più bella assai.

E quel che più diletta, cospetto, il desir mio,

È che siete lunatica, come lo sono anch'io.
LIV.                  Questa espression per altro... (s'alza)

MAR.                                                               Dite pur; faccio il sordo.

CEC.                 (Ei siede, ed ella s'alza. oh van bene d'accordo). (da sé)

LIV.                  Questa espression, cospetto...

MAR.                                                               Sedete.

LIV.                                                                             Non son stracca.

MAR.                Sedete, non sedete, non me n'importa un'acca.

CEC.                 (Propriamente innamorano). (da sé)

LIV.                                                               Io in piedi, e voi seduto?

Dite, signor Marchese, a che siete venuto?
MAR.                Per rilevar da voi se mi vorrete amare,

Senza che vi proviate a farmi cospettare.
LIV.                  Di rendervi contento non averei riguardo,

Ma ho qualche dipendenza. Che dice don Riccardo?
MAR.                Mi fe' con una strana difficoltà ridicola

Strillar contro i pianeti e contro la canicola.
LIV.                  Qual obbietto vi oppose?

MAR.                                                        Udite, s'è una razza...

Dissemi. Mia nipote? non la prendete, è pazza.

Lo so, risposi a lui...
LIV.                                                   Lo so, gli rispondeste?

MAR.                Lo so, ma non importa.

LIV.                                                        Che villanie son queste?

Così non si favella. Di perdermi il rispetto

Farò pentirvi, il giuro.
MAR.                                                   Basta così, cospetto!

LIV.                  Pretender le mie nozze, signor, non vi consiglio,

Che correre potreste di perdere il periglio.

Son donna intollerante più assai che non credete,

E se pazzia m'offuschi, or or lo proverete.
MAR.                Basta così, vi dico. Credea non fosse nata

Donna di me più strana, e alfin l'ho ritrovata.

Sovente amor mi stimola a procacciar mie doglie,

Ma presto il cor mi sgombra desio di prender moglie.

Stamane era infuriato per divenir marito,


Se fatto oggi l'avessi, doman sarei pentito.

Il lucido mi è reso da voi per mia fortuna.

Non vo' più donne, il giuro. Cospetto della luna! (parte)

SCENA DODICESIMA Donna Livia e Cecchino.

CEC.

(Se questi due si univano, dir francamente ardisco,

Che da sì bel consorzio nasceva il basilisco).

LIV.

Cecchino.

CEC.

Mia signora. (Qualche novello imbroglio). (da sé)

LIV.

Che disse don Rinaldo nel leggere il mio foglio?

CEC.

Ma! se ascoltar non vuole...

LIV.

Vo' che mi narri il tutto.

CEC.

(Del cavalier bisbetico or si conosce il frutto). (da sé)

Lo lesse attentamente.

LIV.

Quando gliel'hai recato,

L'accolse con piacere?

CEC.

Con piacer.

LIV.

L'ha baciato?

CEC.

Baciar non lo poteva, chiuso com'era ancora.

LIV.

Quando finì di leggerlo, l'ha poi baciato allora?

CEC.

Per dir la verità, non l'ho veduto.

LIV.

Ingrato!

Dimmi presto, che avvenne? l'ha il crudel lacerato?

CEC.

Nemmen.

LIV.

Lo lesse tutto?

CEC.

Tutto.

LIV.

Più d'una volta?

CEC.

Parmi due volte almeno; indi mi disse. Ascolta,

Di' alla tiranna mia...

LIV.

Alla tiranna! e intanto

Dagli occhi gli vedesti cader stilla di pianto?

CEC.

Umido aveva il ciglio.

LIV.

Se lo sapea di certo,

Che piangere dovea sol che l'avesse aperto.

Che t'inculcò di dirmi?

CEC.

Dille, mi disse afflitto,

Che amore in queste note il mio destino ha scritto.

LIV.

Piangea nel dirlo?

CEC.

E come! Dille, che più sdegnato

Non mi averà il suo cuore, che scorgesi umiliato.

LIV.

Umiliato il cuor mio? (sdegnosa)

CEC.

Così dicea, signora.

LIV.

No, non sarò, qual crede, umiliata ancora.

CEC.

Dille, soggiunse poi, che serbo a lei la fede,

E che mi avrà ben tosto la mia tiranna al piede.

LIV.

Ecco, quel ch'io attendeva. La solita sua stima.


Verrà al mio piè prostrato. Perché non dirlo in prima?

Sì, sì, m'apposi al vero, conosco il mio potere;

Le chiavi della vita ho in man del Cavaliere.

Più non mi fugge, il veggo. Ma se irritarlo io torno?

Venir disse al mio piede, pria che sparisca il giorno?
CEC.                 Chi sa ch'egli a quest'ora non siasi incamminato?

LIV.                  Ah, qual sarà il mio giubbilo, se veggolo prostrato!

Pentomi dell'insania, che al marchese Liuto

Mi feo sì ingiustamente offrir qualche tributo.

Fu la disperazione, che mossemi a gradirlo.

Misero don Rinaldo! ah, non dovea tradirlo.

Compenserò ben tanto il duol de' miei disprezzi...

Ma coll'amante, o cuore, non profondiamo i vezzi.

Volare ad un estremo dall'altro non si faccia;

Dalla tempesta orribile non passi alla bonaccia.

Tempri un po' di rigore il tenero desio.

Già son di lui sicura; già il di lui core è mio. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Strada con palazzo di don Riccardo in prospetto, con loggia praticabile e porta chiusa.

Don Rinaldo solo.

RIN.                  Eccomi al duro passo di presentarmi a lei,

Col dubbio di vedere schernir gli affetti miei. Quante altre volte, oh quante, mi lusingò vezzosa, Indi languir mi fece, barbara, disdegnosa! Vuole amor ch'io ritorni; l'onor par che l'affretti, Fede prestando intera di onesta dama ai detti. Resistere ostinato, dopo un tenero foglio, Giusta ragion non fora, ma pertinace orgoglio. So che il cuor suggerisce con suoi motivi ardenti, Alla dubbiosa mente i facili argomenti; Ma sia qual esser voglia, la forza o la ragione, Giustificar può un foglio la mia risoluzione. Ma come entrar mi lice colà fra quelle porte, Senza che don Riccardo lo sappia e lo comporte? Diedi la mia parola, spiegommi i desir sui, Son cavalier, non deggio tornar senza di lui.

SCENA SECONDA Donna Livia sopra della loggia, ed il suddetto in strada.

LIV.                  Eccolo lì; chiamarlo vorrei con un pretesto.

Ma no; mi aspetti ancora, di richiamarlo è presto. (parte)
RIN.                  (Nell'atto che donna Livia rientra in casa, si avvede ch'ella è stata in sulla loggia)

Quella, se non m'inganno, è donna Livia; è dessa.

Perché da me s'invola? Torna all'usanza istessa?

Pentita è già d'avermi a rivenir spronato,

O mi ha sol per ischerno deriso e lusingato?

Non vo' temer sì audace cuor di una dama in petto,

Forse trattien lei pure del zio tema e rispetto.

Se don Riccardo è in casa, non ardirà invitarmi,

Ma voglio in ogni guisa del vero assicurarmi.

Battere all'uscio i' voglio, cercar del Cavaliere,

E pria d'ogn'altro passo far seco il mio dovere. (s'avvia verso la porta)

SCENA TERZA


Don Riccardo ed il suddetto.

RIC.                  (Viene per una strada, non veduto da don Rinaldo)

Dove, signore?
RIN.                                         A voi guidami ansiosa cura.

RIC.                  Non si sa don Rinaldo staccar da queste mura.

RIN.                  È ver, sia debolezza, sia amor, non so staccarmi,

Ma ho una ragion novella, che può giustificarmi.
RIC.                  Si può saper?

RIN.                                       Voi prima saperlo anzi dovete.

Sol per comunicarvela venia da voi. Leggete. (gli dà il foglio di donna Livia)

SCENA QUARTA

Donna Livia sulla loggia, ed i suddetti in strada.

RIC.                  (Legge piano)

LIV.                  Che legge don Riccardo? Scommetto che in sua mano

Don Rinaldo confida il foglio mio. Villano!
RIC.                  Lessi il tenero foglio, sommesso e lusinghiero.

RIN.                  Che ve ne par, signore?

RIC.                                                        Io non le credo un zero.

RIN.                  S'ha da temer che inganni?

RIC.                                                             Ha da temer chi è saggio.

LIV.                  Mi pagherà, lo giuro questo novello oltraggio. (parte)

RIN.                  Facile è assicurarsi, se ancor de' torti miei

Sazia non sia la cruda.
RIC.                                                      Come?

RIN.                                                                 Sentiam da lei,

Se col suo labbro afferma ciò che dettò in un foglio.
RIC.                  Vi capisco.

RIN.                                     Vi prego.

RIC.                                                   Rispondovi. non voglio.

RIN.                  Meco perché, signore, questa novella asprezza?

RIC.                  Perché il mio cuor non soffre la vostra debolezza.

Vano il fidar, voi stesso diceste, in sue parole.

È il suo pensar più instabile, più mobile del sole;

Sdegno ed amor succedono a donna Livia in seno,

Come nel ciel si cangiano le nuvole e il sereno;

E il raggio di speranza, che vi abbagliò in quel foglio,

Può esser divenuto, da che lo scrisse, orgoglio.

Avventurar io sdegno l'onor mio, l'onor vostro.

Rammentatevi, amico, qual fu l'impegno nostro.

Voi di lasciar giuraste l'ingrata in abbandono;

Se debole voi siete, cieco qual voi non sono.
RIN.                  Non so che dir, ragione parla in voi, lo confesso

RIC.                  Non avvilite, amico, l'onor del nostro sesso.

Donna superba ingrata abbia un'egual mercede.
RIN.                  Ma se pentita fosse...


RIC.                                                   Non merita più fede.

RIN.                  L'ultima prova almeno...

RIC.                                                          Il lusingarsi è vano.

Già delle due nipoti tengo la sorte in mano.

Ecco due fogli, in cui d'entrambe ho stabilito.

La strana abbia il ritiro, la docile il marito.

Testé per donna Rosa segnai colla mia mano

Le nozze fortunate di un principe romano.

Ella nol sa per anche, ma lo saprà, e son certo

Che lieta potrà farla un giovane di merto,

Ricco, nobile, dotto, che l'ha veduta e l'ama,

E palesar mi fece da un cavalier sua brama.

Questa, che ha cuor gentile, avrà lo sposo allato,

L'altra diman fia chiusa. lo dico, ed ho fissato.

Compatitemi, amico, se strano a voi mi rendo;

Col mio rigor giustissimo vi giovo, e non vi offendo.

V'inganna, vi seduce amor protervo e rio.

Ritornate in voi stesso, non vi pentite. Addio. (s'avvia verso la porta del suo

palazzo, per la qual entra)

SCENA QUINTA

Don Rinaldo solo.

RIN.                  Misero me! son pieno d'affanno e di rossore.

Saggio l'amico parla, ma non s'appaga il core. Che dirà donna Livia dell'incivil mio tratto? Vorrei giustificarmi, vederla ad ogni patto. Ma il mio dover lo vieta. Chi può, così dispone. Misera! in un ritiro andrà per mia cagione? Sì, sì, lo merta, il vedo, lo merta il suo costume; Amor tutto non togliemi della ragione il lume. Chi sa che non si cambi nel rigido contorno? Chi sa che, men volubile, non si corregga un giorno?

SCENA SESTA Don Properzio, don Medoro ed il suddetto.

PRO.                 Amico, se degnate con noi d'accompagnarvi,

Andiam da don Riccardo, venite a consolarvi.

RIN.                  Per qual ragion?

MED.                                          Si dice che sia concluso e fatto

Fra la minor nipote e un principe il contratto.

PRO.                 L'altra maggior germana motivo ha d'invidiarla.

MED.                Che dite? don Rinaldo non basta a consolarla?

PRO.                 È ver, l'esser che vale di titoli ripieno?


Nobile è don Rinaldo di un principe non meno.
MED.                La nobiltade in lui sopra d'ognun s'apprezza.

PRO.                 Ed alla nobiltade congiunta ha la ricchezza.

RIN.                  Amici, delle lodi non son soverchio amico;

Ma se adular pensate, franco sostengo e dico,

Che son per il mio grado, che son pel mio natale,

Più assai che non credete ai primi lumi eguale.
PRO.                 Questo si sa, nel mondo entrambi siete noti.

RIN.                  Né meglio don Riccardo locar può le nipoti.

PRO.                 (Giustizia ai loro meriti giovaci far con arte,

Se delle nozze loro vogliamo esser a parte). (piano a don Medoro)
MED.                (Son cavalieri illustri, son ambi generosi.

Godrem de' trattamenti magnifici e pomposi). (piano a don Properzio)
RIN.                  (Più non si stia dubbioso, giacché partir conviene). (da sé)

SCENA SETTIMA Donna Livia sulla loggia, e detti.

LIV.                  (Ma che fa don Rinaldo, che a' piedi miei non viene?

Eccolo ancora incerto, smanioso e delirante.

Ah, si conosce appieno, ch'è nell'amor costante.

Sì, sarò sua; per esso il cuor diè la sentenza,

Ma ha da soffrire ancora un po' di penitenza). (da sé)

Che fan qui don Properzio e don Medoro uniti?

Perché non favoriscono? Che restino serviti.
RIN.                  (La saluta senza parlare)

LIV.                  Serva sua, mio signore. (a don Rinaldo)

PRO.                                                       A voi siamo indrizzati. (a Livia)

MED.                Don Rinaldo, venite?

RIN.                                                   Non son degl'invitati.

LIV.                  Venga chi venir vuole, chi vuol restar si stia.

PRO.                 Noi accettiam l'invito.

MED.                                                    Venghiam, signora mia. (s'incamminano, ed entrano per la

porta)
RIN.                  (Eh, non ha don Riccardo a torto dubitato). (da sé)

LIV.                  Che dice ella, signore, da me non è invitato?

Che far di più potea? ancor mi sembra un sogno.

Al foglio che ho vergato, se penso, io mi vergogno.

Questa è ben altra prova, che starsi all'aria bruna

A tollerar pacifico gl'influssi della luna.

Altro maggiore sforzo essere il mio si vede,

Di quel d'un uom pentito della sua diva al piede.

Donna che scrive e prega, s'abbassa ad un tal segno,

Che di vergogna è fonte, che di rossori è degno.

E il Cavalier compito per gradimento umano

Pone di un zio furente le altrui finezze in mano?
RIN.                  Bella, perdon vi chiedo...

LIV.                                                          Poco il perdono aggrada,


Chi si trattien da stolido a domandarlo in strada. (entra)

SCENA OTTAVA

Don Rinaldo solo.

RIN.                  Entrisi dunque... Ah no, non mi convien di farlo.

Vietalo don Riccardo, né devesi irritarlo. In casa sua dovuto è a lui cotal rispetto. Partir forza m'induce; soffrire a mio dispetto... Livia parlommi in guisa, che a lunsingarmi insegna. Del foglio al zio svelato meco a ragion si sdegna. E non poss'io gettarmi della sdegnata al piede? Né assicurarla io posso per or della mia fede? E se dal zio domani fia chiusa in aspre mura, Qual menerò mia vita miserabile e dura? Per or partirmi io deggio, e al prossimo periglio Qualche miglior rimedio suggerirà il consiglio. (parte)

SCENA NONA

Camera in casa di don Riccardo.

Don Riccardo e Donna Rosa.

RIC.                  Figlia, allor che il vedrete il giovin Cavaliere,

Crescerà a dismisura la gioia ed il piacere.

Il sangue, la ricchezza sono i minor suoi fregi.

Grazia, beltà, virtude fa che si laudi e pregi.
ROSA               Signor, fuor di me stessa al fortunato avviso

Trassemi, lo confesso, il giubbilo improvviso.

Felicità sì grande non merita il mio cuore.

Dal ciel lo riconosco, e poi dal vostro amore.

Eppur, chi il crederebbe? scemar il mio contento

Potrà della germana l'invidioso talento.
RIC.                  Questa virtù mi piace, che di bell'alma è un segno.

ROSA               Preveggo le sue smanie, preveggo il suo disdegno.

Quasi rinunzierei, se delirar la vedo...
RIC.                  Basta così, nipote; tanta virtù non chiedo.

Chinate al ciel la fronte, e al zel de' voti miei.
ROSA               Povera donna Livia! Signor, che fia di lei?

RIC.                  Questa curiosa brama, che sì che l'indovino?

È vanità del vostro piacevole destino.

Non è egli ver?
ROSA                                       Ma sempre a sospettar v'intesi.

RIC.                  Dacché due donne ho in casa, a sospettare appresi.


SCENA DECIMA Donna Livia e detti.

LIV.                  Signor, chiedo perdono; è ver che donna Rosa

Collocata col principe sarà di Selva Ombrosa?
RIC.                  D'una cessione vostra si è fatto uso migliore.

LIV.                  La mia cession verbale la rivocai, signore.

RIC.                  Non la cession mi calse da voi fatta coi detti

Ma quella che solenne faceste cogli effetti;

Mostrandovi in amore irrisoluta e strana,

Il dritto delle nozze cedeste alla germana.
LIV.                  Abbia l'illustre sposa di principessa il nome;

Cinga, se non le basta, coronisi le chiome;

Venga l'eroe sublime, cui la superba ostenta;

Chi sa? quand'io gli parli, può darsi ch'ei si penta.
RIC.                  Non si vedrà lo sposo entrar fra queste porte,

Prima che donna Livia non passi a miglior sorte.
LIV.                  Ma qual destin, signore, si pensa procacciarmi?

RIC.                  Un ritiro.

LIV.                                   Un ritiro? si crede spaventarmi?

Sì, vi anderò contenta, perciò non mi confondo.

Darò un addio per sempre alla famiglia, al mondo.

Fate che almen sia tale, come lo bramo ardente.

Non veggami più mai né amica, né parente.

Lungi dalle lusinghe, e dalle cure insane,

Bastami i brevi giorni nutrir con poco pane.

Datemi un foglio adesso, rinunzio alla germana

Quanto di bene ho al mondo. Mandatemi lontana;

Onde di me non giunga dal mio felice nido,

Dove vivrò contenta, memoria a questo lido.
RIC.                  (O delira, o s'infinge). (da sé)

ROSA                                                   Che favellare è il vostro?

LIV.                  Quel che nell'alma ho fisso, sinceramente io mostro.

Non crediate ch'io finga. Conosco il mio talento.

Pace aver qui non spera il mio temperamento.

Son fiera, intollerante, da mille smanie oppressa;

Talor, ve lo confesso, abborrirei me stessa.

Chi ha da soffrir tal peso? megli'è che sola io viva;

Stabile sarò sempre, se di variar son priva.

Signor, deh permettete...
RIC.                                                          Qual cangiamento strano!

LIV.                  Non mi mortificate; porgetemi la mano.

RIC.                  Ma come mai?...

LIV.                                            Vi prego. L'ultimo dono è questo,

Che la nipote or chiede a un cavaliere onesto.
RIC.                  Son fuor di me. Tenete, per compiacervi.

LIV.                                                                                    Imprima

Su questa mano i segni il cuor della sua stima;


Grazie per me vi renda, per il paterno zelo
Onde voi mi soffriste, grazie vi renda il cielo.
Germana, ogni passato livor si spenga e taccia,
Col cuor vi bacio in viso; vi stringo alle mie braccia.
ROSA               (Le lagrime davvero mi fa cader dagli occhi). (da sé)

RIC.                  (Ancor dubito e temo che finga, e m'infinocchi). (da sé)

Nipote, io sperar voglio, che di virtude un raggio Scenda nel vostro cuore a renderlo più saggio. Godrò, che rassegnata al cielo ed alla sorte, Non vi rincresca o pesi l'andar tra ferree porte. Ma sia finto o sincero il labbro, il cuore, il guardo, È già il destin fissato, ed il pensarvi è tardo. (parte)

SCENA UNDICESIMA Donna Livia e donna Rosa.

LIV.                  Deh per pietà, germana, dite allo zio sagace,

Che non mi tratti austero, che non mi parli audace.

Sincero è il labbro mio, non ardirei mentire;

Ma il dir. così dev'essere, farmi potria pentire.
ROSA               Eh via, rasserenatevi, che farlo alfin vi lice.

Potete, se vi aggrada, potete esser felice.

Poco vi vuole il cuore a impietosir del zio;

Sposo non mancheravvi, che possa star col mio;

E se vi cal ch'io ceda...
LIV.                                                        No, suora mia, non cura

Il cuor da voi quel dono che deve alla natura.

Non mi svegliate in seno pensier troppo funesti.

Quello che ho detto, ho detto; i miei pensier son questi.
ROSA               Non so che dir, secondi le vostre brame il nume.

Felicità vi prego. (Conosco il suo costume;

S'è ver che al nuovo stato passar voglia contenta,

Il cielo la consoli, innanzi che si penta). (da sé, parte)

SCENA DODICESIMA

Donna Livia, poi Cecchino.

LIV.                  Tant'è, vo' che si veda che ho spirito e ragione

Di sostener capace la mia risoluzione. Chi in un ritiro a forza veder potriami oppressa, Se a chiudermi negassi condurmi da me stessa? E chi mi sforza andarvi? L'ho detto, e vo' una volta Disingannar chi credemi volubil donna e stolta. Alfin di donna Rosa le nozze hansi concluse; E me, nata primiera, zio sconoscente escluse.


Vano sarà l'oppormi, deggio soffrire il torto,

E sol dal rassegnarmi sperar posso un conforto.

Veggendo il mondo in prima la suora accompagnata,

Dirà ch'io lo soffersi, dal mondo ritirata.

Ma di me don Rinaldo che dirà mai? Stupisca.

E s'egli è ver che mi ami, ei per amor languisca.

Ah, pria d'escir dal mondo, pria di staccarmi appieno,

Potessi rivederlo una sol volta almeno.

Quest'unico conforto per ultimo desio.

Vederlo un sol momento, dirgli per sempre addio.

Chi è di là?
CEC.                                    Mi comandi.

LIV.                                                          Va tosto, il mio Cecchino.

Cerca di don Rinaldo. Digli che il mio destino...

(Ma no, sol da me sappia il duol che gli sovrasta).

Digli che venga tosto a rivedermi, e basta.
CEC.                 Ma se il padron non vuole ch'egli entri, il poverino?

LIV.                  Pazienza. Due parole dirò dal terrazzino.

Pregalo in nome mio, che partirà ben tosto.
CEC.                 Non si potrebbe in casa condurlo di nascosto?

LIV.                  No, figlio mio; non lice far quel che non conviene.

CEC.                 (Capperi, come parla! che giovane dabbene!) (da sé)

LIV.                  Va presto, il mio Cecchino, a te mi raccomando;

Questo della padrona è l'ultimo comando.

Perdonami, se teco fu' il mio costume austero.
CEC.                 Signora... mi perdoni... mi fa pianger davvero. (singhiozzando parte)

SCENA TREDICESIMA

Donna Livia sola.

LIV.                  Tutti rimarran stupidi di tal risoluzione

Ho piacer che si parli di me dalle persone,

E che si dica un giorno, dopo i discorsi vari,

Che donna Livia alfine risolto ha da sua pari.

Che dirà don Rinaldo? Questi mi sta nel cuore;

Ma nulla ho superato, se mi molesta amore.

Quando l'avrò veduto, sarò contenta appieno;

Potrò più facilmente staccarmelo dal seno.

Strano direbbe alcuno il mio pensier fallace,

Ma posso compromettermi di rivederlo in pace.

E parmi cotal forza aver nel seno mio,

Da dirgli francamente. Sì, don Rinaldo, addio.

E se il cuor mi tradisse? No, dubitar non giova,

Vo' far del mio coraggio, vo' far l'ultima prova. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA


Strada come sopra, colla casa e loggia solita.

Don Properzio e don Medoro escono dalla porta.

PRO.                 Bel trattamento invero, che a noi fu praticato!

MED.                Ci hanno lasciati soli; ci ha ciaschedun piantato.

PRO.                 Donna Livia promise di ritornar, ma invano.

MED.                Don Riccardo con noi potea parlar più strano?

PRO.                 Non soffre volentieri, che sieno visitate

Le due nipoti in casa. Vuol che stian ritirate.
MED.                Per me più non le vado a visitar, lo giuro.

PRO.                 Né il tempo mio vo' perdere sì mal, ve l'assicuro.

MED.                Ora poi, che si dice che donna Livia andrà

Sollecita in ritiro.
PRO.                                             Che sia la verità?

Parmi ancora impossibile, ch'ella lo soffra in pace.
MED.                Una, qual lei fantastica, d'un'altra è più capace.

PRO.                 Senza far all'amore star non saprebbe un'ora,

E quando vede un uomo, cogli occhi lo divora.
MED.                Le nozze della suora saran di ciò cagione.

PRO.                 Dunque la sua dovrebbesi chiamar disperazione.

MED.                Vedete don Rinaldo col paggio a questa volta.

PRO.                 Che sì, che se le parla l'amico, la rivolta?

MED.                Veggiam s'egli entri in casa.

PRO.                                                              Restiamo inosservati.

MED.                Dietro di quella casa coperti e rimpiattati. (si ritirano)

SCENA QUINDICESIMA

Don Rinaldo e Cecchino.

CEC.                 La sorte veramente mi ha reso fortunato,

Facendo che sì presto io vi abbia ritrovato.

RIN.                  Sai da me che richieda?

CEC.                                                       Nol so, ma l'ho veduta,

Credetelo, signore, sì languida e svenuta, E tai cose m'ha detto, e tai sospiri ha tratto, Che stupido rimasi, e lagrimar mi ha fatto.

RIN.                  Cieli, che sarà mai? potessi alle sue pene

Recar qualche conforto.

CEC.                                                       Eccola, che sen viene.

RIN.                  Dov'è?

CEC.                             Vien sulla loggia.

RIN.                                                          Potessi almen d'appresso...

Ma la parola ho data; entrar non mi è permesso.


SCENA SEDICESIMA

Donna Livia sulla loggia, e detti.

LIV.                  (Eccolo. Ah, nel vederlo sento nell'alma un foco...) (da sé)

RIN.                  Eccomi a' cenni vostri.

LIV.                                                      Accostatevi un poco.

RIN.                  Vuole il destin ch'io soffra vedervi in lontananza. (accostandosi)

LIV.                  (Oimè! sento nel cuore smarrir la mia costanza.

Ma coraggio vi vuole). (da sé)
RIN.                                                     Se del mio amor chiedete

Nuove costanti prove, dall'amor mio le avrete.

Se reo nel vostro cuore per mia sventura io sono.

Son pronto nuovamente a chiedervi perdono.

Né arrossirò di farlo, se altrove non vi aggrada,

In faccia al mondo tutto, nel mezzo ad una strada.

Basta che certa siate, mio ben, dell'amor mio.
LIV.                  (Ah, se così mi parla, più non gli dico addio). (da sé)

RIN.                  Non rispondete? oh numi! son vani i sospir miei?

LIV.                  Troppo è quel che dir deggio. Troppo parlar dovrei.

Restringere non valgo quel che mi cale, in poco;

E al desir mio si oppone la convenienza, il loco.
RIN.                  Quel che si può, si dica.

LIV.                                                        Addio, ma ciò non basta.

Oh rigor inumano, che al desir mio contrasta!

Vo' che mi senta il zio, che a un cavalier si oppone;

Vedrà quel che sa fare la mia disperazione. (entra)

SCENA DICIASSETTESIMA Don Rinaldo, Cecchino; poi don PROPERZIO e don Medoro.

RIN.                  Ah Cecchino, sollecito entra tu in quelle soglie.

Di' che si freni e taccia, che di furor si spoglie;

Che soffra il mio destino, che un dì si cangerà.
CEC.                 Questa volta senz'altro l'orecchio se ne va. (entra in casa)

RIN.                  Di don Riccardo alfine si placherà lo sdegno,

Se in noi vedrà rivivere il primitivo impegno.
PRO.                 Amico, compatiteci, s'entriam ne' vostri affari.

Star come i cani all'uscio non è da vostro pari.
RIN.                  (Questi importuni abborro). (da sé)

MED.                                                             Entrate in quella porta.

Se alcun dubbio v'arresta, noi vi sarem di scorta.
PRO.                 Dovrebbesi per voi aver miglior riguardo.

MED.                Noi la faremo in barba vedere a don Riccardo.

RIN.                  Lasciatemi, vi prego, in libertà.

PRO.                                                                   No certo.

Si oltraggia il grado vostro.
MED.                                                           Si offende il vostro merto.


SCENA DICIOTTESIMA Cecchino e detti.

CEC.                 Signor, se non venite, la dama è mezza morta,

Scese le scale in fretta, s'avvia verso la porta.

Giura, quando da lei l'amante suo non vada,

Venir pubblicamente a far la scena in strada.
RIN.                  Dille che del decoro più dell'amor le caglia.

L'onor, la convenienza, alla passion prevaglia.
CEC.                 È inutile ch'io parli, anzi sarebbe questo

Un stimolo per farla risolvere più presto.
RIN.                  Stelle, che far degg'io?

CEC.                                                       Vi domando perdono;

È ver che son ragazzo, che giovane ancor sono,

Ma pure ardisco prendermi, signore, un ardimento

Dandovi in caso tale un mio suggerimento.
RIN.                  Parla, amato Cecchino. ah, se possibil fia,

L'onor non si cimenti della parola mia.
CEC.                 Al palazzo contigua la casa è di un staffiere,

Che quando è regalato, disposto è a far piacere.

Comunica di dentro per il cortil l'entrata.

Colà, per dirvi tutto, la dama è ritirata.

Parmi che là si possa salvar ogni riguardo.
RIN.                  È ver, di mia parola non manco a don Riccardo.

Soccorrisi la dama che d'uopo ha di consiglio.

Mostrami tu la via.
CEC.                                                Venga con me.

RIN.                                                                        Sì, figlio. (entrano per una porta contigua al

palazzo)
PRO.                 Son curioso d'intendere... entriam per altra parte.

MED.                Sì, se sarem veduti, ci sottrarrem con arte. (entrano per la porta solita del palazzo)

SCENA DICIANNOVESIMA

Camera in casa dello staffiere, contigua al cortile del palazzo di don Riccardo.

Donna Livia, poi don Rinaldo.

LIV.                  Se per l'ultima volta qui non lo veggo in faccia,

Non so che mi risolvere, non so quel che mi faccia.

Della ragione il lume smarrisco a poco a poco.

Eccolo. Ah che dirà, veggendomi in tal loco?
RIN.                  Possono i cenni vostri trarmi 've più v'aggrada;

Anderò tra le fiamme, se a voi piace ch'io vada.

Veggovi da per tutto con gioia e con diletto,


Ma spiacemi vedervi in loco altrui sospetto.
LIV.                  Perdonar si può bene quest'ultimo deliro,

A donna che sacrifica se stessa in un ritiro.
RIN.                  Ah sì, di don Riccardo suo fine ha la minaccia

Me l'ostentò egli stesso barbaramente in faccia.

Dunque a sì fier comando vi rassegnaste umile?
LIV.                  Chiudermi per suo cenno? alma non ho sì vile.

Volli il novel mio stato eleggere da me.
RIN.                  Voi rinunziare al mondo? Idolo mio, perché?

LIV.                  Non so. Dalla germana mi si fa un torto indegno.

In voi, più che l'amore, so prevaler lo sdegno.

M'odiano i miei congiunti, mi opprime il dolor mio

Odio l'ingrato mondo; vo' abbandonarlo. Addio.
RIN.                  Ah, se miglior consiglio non vi favella al cuore,

Lo stato a cui cedete, per voi sarà peggiore.

Pace al ritiro invita, non ira e non impegno,

Non quel livor domestico, d'una bell'alma indegno.

Se amor di casta vita scendesse in cuor più saggio,

A costo del mio duolo saprei darvi coraggio.

Ma in voi predominando l'ira, l'affanno, il tedio,

vuol l'amor mio che vi offra più facile il rimedio.

Della germana il torto può riparar la mano

Di un che vi adora, e sdegnasi con chi l'insulta invano.

Dell'amor mio le prove con sì bel mezzo avrete.

Torna lo zio ad amarvi, docile allor che siete.

Renda sereno il viso bell'animo giocondo;

Può, chi ragione intende, viver felice al mondo.

Che vi par, donna Livia?
LIV.                                                          Vorrei... ma il mio rossore...

La man, gli affetti vostri mi si offrono di cuore?
RIN.                  Non ardirei di farlo, senza un consiglio interno.

V'amo, lo giuro ai numi, e vi amerò in eterno.
LIV.                  Posso sperar che, prima della germana ardita,

Sia la destra di sposo alla mia mano unita?
RIN.                  Può di ciò assicurarvi mia mano in sul momento.

SCENA VENTESIMA Don Riccardo di casa, e li suddetti.

RIC.                  Olà, qui la nipote? Signor, tale ardimento?

Tentar nobil fanciulla? Pria che di peggio accada,

Delle parole invece, rispondami la spada. (impugna la spada)

RIN.                  Son cavalier, signore... (mette la mano sulla spada)

LIV.                                                        Fermate, (a don Rinaldo) il torto vostro

Di riparar qual devesi, sarà l'impegno nostro. Cessino i fieri sdegni, e sia con minor caldo La spada che rispondevi, la man di don Rinaldo.

RIC.                  Il ritiro è codesto?


RIN.                                              Signor, questa è mia sposa.

LIV.                  E l'imeneo precedere vedrassi a donna Rosa.

RIN.                  Deh signor, compatite, se amor mi rese ardito.

RIC.                  Farà amor le mie parti nel rendervi punito.

LIV.                  Signor, qui esposti siamo di bassa gente al guardo.

RIC.                  Per donna di consiglio il pensamento è tardo.

Pria che da me non sciolgavi il titolo di sposi, Rientrar donna fantastica nel tetto mio non osi.

LIV.                  Ecco la man.

RIN.                                       Son pronto.

RIC.                                                          Sia solenne il contratto.

SCENA ULTIMA

Don Properzio, don Medoro e detti.

PRO.                 Ecco due testimoni.

MED.                                                 Il matrimonio è fatto.

PRO.                 Or sarà più contenta ancor vostra germana. (a Livia)

RIC.                  Oh nozze capricciose, degne di donna strana!

LIV.                  Conosco i miei deliri, fui Donna stravagante.

Nuovo non è il mio titolo, voi lo sapeste innante.

Perdonimi lo zio, mi torni il primo affetto;

La suora compatiscami; mi soffra il mio diletto.

Rendemi la vergogna della ragione il lume.

Cambiar prometto il cuore, cambiare il mio costume.

E in quella vita umile, che aveami destinata,

Vivere collo sposo prometto accompagnata.

Non so se donna simile al mondo ora si dia.

Quando ci sia, si specchi, corregga la follia.

E se perdon dal popolo non merita il ritratto,

Si applauda all'intenzione almen di chi l'ha fatto.

Fine della Commedia.