La donna volubile

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Carlo Goldoni

La donna volubile


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La donna volubile

AUTORE: Goldoni, Carlo

TRADUTTORE:

CURATORE: Ortolani, Giuseppe

NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: "Tutte le opere" di Carlo Goldoni; a cura di Giuseppe Ortolani; volume 3, seconda edizione; collezione: I classici Mondadori; A. Mondadori editore; Milano, 1955

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 4 settembre 2003

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

REVISIONE:

Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

Alberto Barberi, barberi.a@e-text.it

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LA DONNA VOLUBILE

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nel Carnovale dell’anno

1751.

ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNOR

GIOVANNI COLOMBO

PER LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA

RESIDENTE IN MILANO

Giacché in quest’anno sperar non posso d’essere a lei vicino colla persona, vogl’io pertanto (Illustrissimo Signor Giovanni) avvicinarmele quanto più posso coll’animo non solamente, ma coll’opera della penna e con qualche tributo del mio rispetto. La prima volta ch’ebbi l’onore di conoscerLa fu in Torino, ove era Ella presso sua Maestà Sarda, Residente per la Serenissima Repubblica di Venezia, il primo a tal carica eletto, dopo gli straordinari Ministri. Colà, onorato io dalla di lei protezione, e ammesso all’amabile conversazione sua, conobbi quanto bene appoggiato erale il pesante onorevole carico, e con quanto merito lo sosteneva. Vidi io medesimo in quanta stima era Ella presso la Regia Corte, presso gli Esteri Ministri, e quanto amore e stima aveasi dalla Città tutta acquistato. Torino è una Città che onora infinitamente la nostra Italia, quantunque situata, dirò così, sul margine della Francia, non poche abbia adottate delle sue lodevoli costumanze; onde avendo essa il comodo di potersi scegliere delle due Nazioni il meglio, ha formato un sistema degno di ammirazione e di lode. In qualche altro luogo di queste mie stampe, parrà ch’io non sia stato allora del mio soggiorno in Torino intieramente contento, ma ciò fu soltanto per rapporto a qualche disputa di Teatro, non perché io non conoscessi il pregio altissimo di una sì bella, di una sì colta Metropoli, resa felice dal suo Reale Sovrano, per la di cui provvidenza ella non va nelle lettere e nelle arti a verun’altra seconda. Quel misto delle due nazioni, di cui feci parola poc’anzi, teneva gli animi de’ Torinesi in favore della Commedia Franzese onninamente impegnati, e non saprei che lodarli, se detestavano nel corrotto gusto del Teatro comico il resto degl’Italiani. Io principiato aveva a cambiar l’usato sistema, e avvezzo a conseguire altrove abbondante piacevole gradimento, scarsi mi parevano colà i favori; ma non poteansi sperar maggior là dove non aveano i cattivi semi piantate le lor radici, dove abbracciata era dal valoroso Molière la riforma. M’accorsi meglio di una tal verità, allora quando posto da me il lodato Riformatore in scena, accostandomi più che potei alle sue leggi ed al suo sistema, festa grande si fece all’opera mia in Torino, e ben si ricorderà V. S. Illustrissima quante volte fu colà replicata, e con quanto giubbilo mi ha Ella assicurato di ciò, in tempo che disperando io un tanto onore, erami di colà preventivamente partito. Ho desiderato da poi poter colà ritornare, ne ho avuti dei graziosissimi inviti: ma non mi fu dalle mie contingenze permesso. Spero però di poterlo fare, e certo sono in qualunque tempo di ritrovare in Torino viva ancora la memoria del di lei nome, del di lei merito, non meno negli animi dei soggetti più riguardevoli, che in quelli ancora delle più gentili persone, poiché Ella ha eguale facilità nell’esigere l’ammirazione e l’amore, sapendoselo acquistare col merito, e mantenere colla costanza. Al propositi della costanza, che dirà Ella di me, ora che le presento, le dedico e le consacro una Commedia mia, che ha la Donna Volubile per argomento? Pur troppo se ne trovano alla giornata delle donne di tal carattere, e quantunque Ella, per la gentilezza del tratto, per la sincerità dell’animo, e per tante altre belle virtù che l’adornano,

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abbia men d’ogn’altro a temerlo, non sarà sempre andato esente da un sì comune pericolo. Gran cosa è questa! Che sempre a temer s’abbia dell’incostanza! Che non solo abbiasi a star in guardia contro l’inimici esterni della nostra quiete, ma temer s’abbia l’inimico domestico nel cuor medesimo di chi si ama! Il miglior preservativo contro un sì fatto malore, credo sia il prevederlo; ed il cambiar paese giova infinitamente per chi ha il cuor tenero. Io non so come il di lei cuore sia fatto, ma dal dolce esteriore della persona, può arguirsi egual dolcezza nell’animo. In tal caso affatto inutile non le sarebbe tenere dinanzi agli occhi un ritratto di una beltà volubile... Ma dove mi vado io perdendo, quasi che non sappia a quai alti pensieri, a quali seriose cure abbia Ella la mente sua rivolta? Passato dalla Residenza di Torino a quella importantissima di Milano, colà non pensa che a segnalarsi colla prudenza sua, col suo zelo e colla utilissima sua virtù, qualità che la rendono vieppiù benemerito all’Augusta Patria, e ammirabile e grato alla Città magnifica in cui risiede. Del mio caro Milano non mi sazierei di parlare, ma tante altre volte ne’ fogli miei l’ho fatto, che ora con pena deggio astenermene. Dirò soltanto essermi colà nell’anno scorso vieppiù consolato, sentendo al di lei merito far giustizia, encomiando le belle qualità che l’adornano, lagnandosi anche più d’uno che per parecchi giorni l’avesse di là levato la Repubblica di Venezia, per ispedirlo per gravissimi affari a quella di Genova. Infatti fu opportuna la scelta che in tal incontro di lei fu fatta; poiché né più sollecitamente, né con maggiore decoro e piacer comune potea condursi a fine 1’estraordinaria sua commissione. Venezia, conoscitrice vera del merito, e gratissima sempre verso de’ valorosi suoi Cittadini, non lascerà ozioso mai un sì sperimentato ministro, fin tanto che invitandolo al riposo ed al premio, coronerà le fatiche sue coll’illustre fregio che di un tal ordine nobilissimo suol essere il combattuto retaggio.

Ella fra gli altri infiniti meriti che l’adornano, ha quello ancora della nobiltà dell’origine; ed io, oltre agli altri titoli di servitù e di ammirazione e di amore che a lei mi legano, vanto quello di aver con lei la Patria originaria comune. Diramata da Modena la di lei casa, vive colà il Nobilissimo Signor Conte Giovanni Colombo, con cui non ha Ella comune soltanto e il nome e lo stemma, ma il possedimento de’ beni ereditati dagli Avi suoi, che costituiscono il vassallaggio a quel Serenissimo Duca: Principe valoroso e magnanimo, che il merito conoscendo delle persone, segni manifesti di sua clemenza e predilezione verso di lei profuse, e per l’illustre carattere ch’Ella sostiene, e per le qualità personali che la distinguono.

Ma troppo lungamente ardisco io distrarla dalle serie sue occupazioni, e sarei non meno ardito, se colla lunghezza de’ fogli miei toglierle pretendessi i momenti felici de’ suoi onesti trattenimenti. È però compatibile un uomo che desidera star con lei, se mancandogli la via di farlo colla persona, studia di avvicinarsele coll’animo sincero e divoto su queste carte impresso. La sua sperimentata generosità mi fa sperare i soliti tratti della sua compiacenza; ma io non deggio abusarmene più lungamente, che però, pregandola di ricevere sotto il suo patrocinio questa povera mia Commedia, che unita a questo riverente foglio Le giugnerà alle mani, fo fine, sottoscrivendomi col più profondo rispetto

Di V. S. Illustrissima

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni

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L’AUTORE A CHI LEGGE

Dopo lunga remora di più e più mesi, riprendo ora la penna in mano per continuare la mia edizione. So quanto è stato mormorato di me per tal causa, e so quante favole sono state inventate. Corsi veramente un po’ troppo, promettendo nel primo mio Manifesto di dar terminata l’edizione di dieci Tomi in un anno: ciò non ostante, pochi mesi di più avrei speso nell’ultimarla, se cinque mesi continui non fossi stato malato: due in Modena e tre in Milano. Della malattia di Modena ho già parlato nel Tomo sesto, di questa di Milano parlerò ora a chi ella non fosse nota; non perché io abbia vanità di render pubbliche le menome cose che di bene o di male mi accadono, le quali niente interessano la curiosità de’ Lettori, ma solo per giustificare la mia condotta. Fu essa una malattia più di spirito che di corpo, prodotta da una incessante fatica, consistente in una diffusione di pessimi sughi in tutto il genere nervoso, con convulsioni, vigilie e debolezza di mente, a tal segno che non solo io mi trovava inabilitato allo scrivere, ma leggere io non poteva una lunga lettera. In tale stato vissi penando tutta l’estate, e debitore son io della riacquistata salute al dottissimo Dottor Baronio, Medico Milanese, non perché egli cercato abbia di guarirmi con medicamenti superflui o vani; ma perché conoscendo egli il mio male consistere principalmente nella fantasia, alterata dai disturbi dell’animo mio pur troppo al Mondo tutto palesi, ha trovato l’utile medicina delle parole, dei consigli e delle ragioni, la quale a poco a poco mi ha sollevato, e nello stato di prima la mente mia ha ricondotta. Ma che doveva io fare nell’autunno, quando mi trovai in istato di poter scrivere? Aveva l’obbligo di terminar l’Edizione: aveva quello di dar otto Commedie nuove alla Compagnia a cui scrivo: gli Associati non mi hanno dato denari per antecipazione: il Cavaliere che mi ha scritturato, di mese in mese somministravami anticipatamente il pattuito denaro. Gli Associati potevano senza danno differir il piacer di leggere; il Teatro all’incontro giornalmente pativa senza le produzioni novelle. In tale stato, in tale contingenza, se consultati avessi gli Associati medesimi, qual di loro avrebbemi animato ad abbandonar il Teatro, per terminar l’Edizione? Niuno certamente, se non se un qualche Libraio, per desiderio di ristamparla. Ora dunque, dopo essermi consigliato colla mia puntualità, col mio preciso dovere, chi saprà condannare la mia condotta? Di che sono io debitore ai Signori Associati? Che perdono essi per una dilazione di pochi mesi o di un anno? Ah sì, son debitore ad essi della sollecita amorosa cura, con cui desiderando le mie Commedie, mostrano più vivamente d’amarle. Ma questi mesi, ne’ quali invece di regolare e correggere le Commedie vecchie, ne ho fatte delle nuove, non sarà tempo perduto nemmen per essi. Terminata l’Edizione dei dieci Tomi (e forse fino ai dodici in Firenze allungata), si principierà una nuova Edizione in Venezia, a due tomi l’anno, di Commedie nell’Edizione Fiorentina non comprese, e si renderà in tal guisa più lungo il divertimento. Egli è vero che in quest’anno a causa delle malattie suddette, quantunque ad altro non mi sia applicato, cinque Commedie solo, in luogo delle otto promesse, mi riuscì di compire, ma spero poter negli anni successivi supplire, tanto più che la generosità di S.E. il Signor Antonio Vendramini mi ha accresciuto per gli anni avvenire dugento ducati all’anno, senza nemmeno che io mostrassi desiderarli. Ecco un altro fatto che sarà reputato superfluo di render pubblico in questi fogli, ma io sentomi mosso a farlo per dar gloria all’animo pio e generoso del Cavaliere, e per far al Mondo costare che mai non dovrò pentirmi dell’onore che ho di servirlo e che nuovamente ringraziar deggio chi n’è stato la causa.

Le parole dette sinora niente servono alla Commedia che seguita; ma che dovrò io dire sopra di essa? Una Donna volubile che nel giro di poche ore cambiasi più e più volte, sembrerà a qualcheduno pazza, e più che volubile. Veramente parlando, la volubilità per se stessa è una spezie di pazzia limitata, mentre la ragione suggerisce agli animi la costanza, e chi opera contro ragione suol dirsi pazzo. In tutte le cose vi è il più ed il meno. In un giorno una volubile si cambierà una volta: un’altra due e qualcheduna tre. Rosaura si cambia più volte ancora, ond’ella è una volubile eccedente, una volubile da Commedia. Per far rilevare un carattere sulle Scene, conviene necessariamente dipingerlo con i più forti e vivi colori. Alcuni caratteri si dipingono con poche azioni che lo dimostrano; ma la volubilità che consiste nella moltiplicazione degli atti opposti, non

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può in poche azioni consistere, e breve essendo il periodo della Commedia, conviene necessariamente far nascere in corto tempo, ciò che meglio starebbe, se in più giorni rappresentar si potesse.

Parmi che il celebre Monsieur Destouches, che occupa sì degno luogo fra i Comici Autori Franzesi, abbia fatto lo stesso nel suo Irresoluto, in cui Dorante si cambia forse più volte di quello si cambi nella mia Commedia Rosaura. Chi poi lo faccia con più ragione, non istà a me deciderlo, siccome non ardisco mettere quest’opera mia, ch’è forse delle inferiori, a fronte di quelle dell’egregio Scrittor Franzese. Tuttavolta, chi piacer avesse di confrontarle, e non intendesse la lingua, potrà leggere l’Irresoluto in lingua nostra tradotto, stampato in Milano per il..., Opera della vezzosa, erudita penna di una illustre Dama, che accoppiando alla grandezza del sangue il bel talento e il buon genio, ha arricchito il Teatro e la lingua nostra colla traduzione di tutte le Opere d’un sì accreditato Autore, il quale però nell’avvantaggio di essere tradotto da una sì nobil mano, deve soffrire, almeno presso di noi, di cedere alle novelle grazie, delle quali l’opera sua viene ora accresciuta.

Personaggi

PANTALONE mercante veneziano;

DIANA di lui figliuola;

ROSAURA di lui figliuola;

COLOMBINA prima cameriera;

CORALLINA seconda cameriera;

Il DOTTOR BALANZONI;

FLORINDO di lui figliuolo;

BEATRICE;

ELEONORA;

LELIO;

ANSELMO mercante ricco delle vallate di Bergamo;

BRIGHELLA servitore di Pantalone;

Un CAMERIERE di Eleonora;

Un SERVITORE di Beatrice;

TIRITOFOLO servitore di Anselmo:

La Scena si rappresenta in Verona.

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura, vestita pomposamente, a sedere ad un tavolino collo specchio in mano.

ROS. Questa scuffia mi sta malissimo; non si confà niente all’aria del mio viso; mi fa parer brutta. Se viene il signor Florindo, e mi vede con questa scuffia, non mi conosce più. Oh, non mi servo mai più di questa scuffiara! Gran disgrazia è la mia! Ho cambiato più di trenta scuffiare; tutte per un poco mi servono bene, e poi cambiano la mano e mi servono male. Questa scuffia non la voglio assolutamente. Ehi, donne, dove siete? Dove siete, donne?

SCENA SECONDA

Colombina e detta.

COL. Eccomi, signora.

ROS. Guarda, Colombina, questa scuffia mi sta male, non è egli vero?

COL. Mi par che stia bene.

ROS. Oibò, non mi posso vedere.

COL. E pure è quella che vi piaceva tanto. Ieri diceste che non avete mai avuto una scuffia meglio

fatta. ROS. Ieri mi pareva che andasse bene, e oggi no.

COL. Compatitemi, signora padrona, siete un poco volubile.

ROS. Impertinente, così parli di me?

COL. Via, compatitemi, l’ho detto senza intenzione di offendervi.

ROS. Va via di qua.

COL. Non credeva che l’aveste per male. So che mi volete bene, e che da me soffrite qualche barzelletta.

ROS. Non voglio barzellette. Corallina, dove sei? (chiama)

COL. Come, signora, chiamerete la sottocameriera? Farete a me questo torto?

ROS. Mi voglio far servire da chi voglio io, e tu va via di qui.

COL. Vi aveva da dire una cosa per parte del signor Lelio.

ROS. Non voglio sentir parlare di Lelio.

COL. Mi diceste pure ieri, che lo salutassi per parte vostra.

ROS. So che è stato in casa della signora Eleonora, non lo voglio più per nulla.

COL. La signora Eleonora è pur vostra amica.

ROS. Sì, sì, è mia amica! Se verrà da me, ci avrà poco gusto.

COL. Ma, cara signora padrona, io vi voglio bene e vi parlo per vostro bene. Ieri avete fatto tante finezze alla signora Eleonora, avete dette tante belle parole al signor Lelio, e oggi non lo volete sentir nominare. Che concetto volete che si faccia di voi?

ROS. Va via di qua.

COL. Sì, sì, vado. (Vi vuol pazienza, e bisogna compatire il temperamento). (da sé, e parte)

SCENA TERZA


Corallina e Rosaura.

ROS. Corallina.

COR. Signora.

ROS. Non senti? Ti ho chiamato tre volte.

COR. Compatitemi, ho sentito; ma quando vi è Colombina, non ardisco venire.

ROS. Perché?

COR. Perché colei mi perseguita; dice ch’io sono la sottocameriera, che a me non tocca a venire in camera, e qualche volta si diletta di allungare le mani.

ROS. Povera Corallina, vien qui, cara, ti voglio tutto il mio bene. In avvenire voglio servirmi unicamente di te.

COR. (Oh! che vuol dire questa stravaganza?) (da sé)

ROS. Dimmi: non è vero che questa scuffia sta male?

COR. Sì, sì, signora, sta malissimo. (Voglio secondarla). (da sé)

ROS. Oh, tu sei una giovane che intende. Colombina è una ignorantaccia.

COR. Non fo per lodarmi, ma anch’io so far qualche cosa.

ROS. Sai far le scuffie?

COR. Sì, signora, le so fare; ne ho fatta una per la signora Diana vostra sorella.

ROS. Lasciamela vedere.

COR. Subito. (parte per pigliare la scuffia, poi ritorna)

ROS. Colombina non la voglio più, è troppo pettegola. Corallina da qualche tempo in qua ha messo giudizio; è divenuta una buona cameriera, mi voglio servir di lei.

COR. Signora, ecco la scuffia.

ROS. Bella, bella; mi piace infinitamente. Tu ne sai molto più di Colombina.

COR. (Oh che miracolo! Ha sempre sprezzate le mie fatture, e oggi le loda). (da sé)

ROS. Tu sei una giovane spiritosa.

COR. Signora, io non so se abbia fatto bene o male, ma credo di aver fatto bene.

ROS. Che cos’hai fatto?

COR. È venuta per ritrovarvi la signora Beatrice, ed io le ho detto che siete impedita.

ROS. Perché le hai detto così?

COR. Perché ieri sera ho sentito quanto male avete detto di lei. Ho sentito che eravate con essa fieramente arrabbiata; onde ho giudicato che non la vogliate ricevere.

ROS. Hai fatto male; mi dispiace che sia andata via.

COR. Non sarà andata via. Si è fermata a discorrere con vostra sorella.

ROS. Presto, falla venire da me.

COR. Ma ieri sera...

ROS. Ieri sera mi sono state dette delle cose di lei, che ho scoperto non esser vere. Io non ho collera e le voglio parlare.

COR. Dunque la farò venire. (Oh che cervello volubile!) (da sé, parte)

ROS. Quella cara Eleonora me la pagherà. Sa che il signor Lelio ha della stima per me, ed ella procura tirarlo a sé? Che amica finta! Che cuor doppio! Ma Lelio non avrà più da me una finezza. Quando amo, voglio esser sola.

SCENA QUARTA

Beatrice e Rosaura.

BEAT. Mi dispiace esservi di disturbo.

ROS. No, cara amica, anzi mi avete fatto un piacer singolare a favorirmi colla vostra visita.

BEAT. Mi è stato detto una cosa, ma non la credo. Mi è stato supposto, che ieri sera eravate in collera meco.

ROS. Io in collera con voi? Mi maraviglio; che cosa mi avete fatto?

BEAT. Questo è quello che diceva fra me; non so d’avervi fatto nulla.

ROS. Male lingue, amica cara, male lingue. Che sì che indovino chi ve l’ha detto?

BEAT. Via, indovinate.

ROS. La signora Eleonora.

BEAT. No, v’ingannate.

ROS. Altri che ella non può essere stata.

BEAT. Vi giuro sull’onor mio, che non è vero.

ROS. Dunque chi ve l’ha detto?

BEAT. Non posso dirlo.

ROS. Se non me lo dite, dirò che non fate conto di me.

BEAT. Via, lo dirò, è stata Corallina.

ROS. Corallina? Oh disgraziata!

SCENA QUINTA

Corallina e dette.

COR. Signora...

BEAT. Va via di qua.

COR. Senta...

ROS. Va via di qua, ti dico, e in questa camera non venir mai più.

COR. La signora Diana vuol la sua scuffia.

ROS. Tieni questo bel cencio. (gliela getta in faccia)

COR. (Se lo dico che è pazza). (da sé, e parte)

BEAT. Mi dispiace che per causa mia prendiate ad odiare quella povera ragazza.

ROS. Ditemi, amica, quant’è che non avete veduto il signor Florindo?

BEAT. È qualche giorno che non lo vedo.

ROS. Che dite, eh? Che giovane di garbo... che bel giovane... Sediamo, sediamo: ehi, chi è di là?

BEAT. (Come! Rosaura amante di Florindo? Costei è mia rivale). (da sé)

SCENA SESTA

Colombina e le due suddette.

COL. Signora.

ROS. Porta due sedie.

COL. Signora sì.

ROS. Che hai, che sei ingrugnata?

COL. Perché non si fa servire da Corallina?

ROS. Via, via, pazzerella. Sai che la collera mi passa presto.

COL. (Non è mai per un giorno intiero del medesimo umore). (da sé, reca le due sedie, e parte)

ROS. Orsù, sediamo e discorriamo un poco di Florindo. Non è vero ch’egli è un bel giovane?

BEAT. Sì, è verissimo. (Ma per te non sarà). (da sé)

ROS. Ha due begli occhi. Ha delle cosette buone.

BEAT. Ma ditemi, come ve la passate col signor Lelio?

ROS. Oh, non me lo state a nominare nemmeno. Egli è senza garbo, senza grazia: non lo posso vedere.

BEAT. Come dite ora tanto male del signor Lelio, se l’altro giorno era il vostro diletto?

ROS. Non lo conosceva bene. Ora l’ho conosciuto meglio; e poi fa le grazie con la signora Eleonora.

BEAT. (Ora capisco perché ne dice male). (da sé)

ROS. Ma quel Florindo, che dite di quel caro Florindo, non è un giovane che consola a mirarlo?

BEAT. Lo sa il signor Pantalone vostro padre, che vi piace Florindo?

ROS. Non lo sa; anzi ieri mi propose per marito un certo Anselmo, mercante di montagna, ed io per rabbia ho detto di sì.

BEAT. Ed ora come anderà con vostro padre?

ROS. Dirò di no.

BEAT. Basta che siate a tempo, e non vi voglia obbligare a sposarlo.

ROS. Oh, non vi è pericolo. Mio padre mi ama teneramente; fa tutto quello ch’io voglio; non mi disgusterebbe per tutto l’oro del mondo. Cara signora Beatrice, voi siete la più cara amica ch’io m’abbia, a voi sola confido il mio cuore. Come mai potrei fare a parlare col signor Florindo?

BEAT. Ingegnatevi.

ROS. Voi mi potreste aiutare; potreste condurlo da me in compagnia vostra.

BEAT. Che! Vorreste ch’io vi facessi la mezzana?

ROS. A un’amica non si può fare un piacere? Farei lo lo stesso per voi. Finalmente, Florindo ed io siamo da maritare.

BEAT. Basta, ne parleremo. (Anzi vo’ fare il possibile, perché nemmeno lo veda). (da sé)

ROS. Oh, ecco mio padre. (s’alzano)

SCENA SETTIMA

Pantalone e le suddette.

PANT. Servitor obbligatissimo. (a Beatrice)

BEAT. Gli son serva, signor Pantalone.

PANT. Fia mia, cossa fastu? Xestu de bona voggia? (a Rosaura)

ROS. Ora mi sento bene. Vi è qui la mia cara amica, che viene a consolarmi.

PANT. Sì? Ho piaser che la siora Beatrice te sia cara, e che la se degna de farte compagnia.

ROS. Sì, signora Beatrice, venite spesso a ritrovarmi, venite ogni giorno, venite a pranzo con noi.

BEAT. Vi ringrazio delle vostre cortesi esibizioni, sarò quanto prima a rivedervi. (Verrò per discoprir terreno). (da sé) Se mi date licenza, io parto.

ROS. Eh no, non partite.

PANT. Lassa che la vaga, che t’ho da parlar. (piano a Rosaura)

BEAT. Per compiacervi resterò.

ROS. Basta, se volete andare, siete padrona. (Son curiosa di sentire che cosa ha da dirmi mio padre). (da sé)

BEAT. Non voglio che diciate che io non istò volentieri con voi. Resterò ancora un poco.

ROS. No, no, non vi prendete incomodo: andate pure.

BEAT. Ma se vi dico che resterò.

ROS. Ma se vi dico che andiate.

BEAT. Pare che ora mi discacciate.

ROS. Oh no, cara, non vi discaccio.

BEAT. Basta, anderò.

ROS. (Sì, andate, e ricordatevi di condur Florindo). (piano a Beatrice)

BEAT. Bene, bene; riverisco il signor Pantalone: amica, addio.

PANT. Ghe fazzo reverenza.

BEAT. (Per ora ho rilevato tanto che basta. Saprò regolarmi). (da sé, e parte)

SCENA OTTAVA

Pantalone e Rosaura.

ROS. Ebbene, signor padre, che cosa avete da dirmi?

PANT. T’ho da dar una bona nova.

ROS. E in che consiste?

PANT. El sanser ha fatto pulito. El t’ha messo in grazia a quel sior Anselmo che ti sa; l’ha mostrà de trovarme a caso, e semo in parola.

ROS. Ma io non lo conosco, e dubito di non volerlo.

PANT. Mo se giersera ti m’ha dito de sì.

ROS. Se ho da maritarmi, non voglio andar lontana da questa città.

PANT. Cara fia, el xe un omo ricco de milioni; un omo che va alla bona, ma che gh’ha dei bezzi assae, che se trata ben, e che al so paese xe stimà come un gran signor.

ROS. Confinarmi sopra una montagna? Oh, non sarà possibile.

PANT. Ma perché giersera m’astu dito de sì?

ROS. L’ho detto senza pensare.

PANT. Bella cossa! Adesso per causa toa son in t’un bel impegno. Ho promesso a quel galantomo de far che el te veda, e no so come far a mancar.

ROS. Oh, se mi vuol vedere, è padrone. Fatelo pur venire.

PANT. E se ti ghe piasessi?

ROS. Non basta ch’io piaccia a lui; bisogna vedere se egli piace a me.

PANT. E se a ti el te piasesse?

ROS. Oh, è impossibile.

PANT. Perché impossibile? Vien qua, desgraziadella, vien qua, confidete con mi; ti sa che te voggio ben. Gh’astu qualche amoretto?

ROS. Per dirvela... non ho coraggio.

PANT. Via, parleme liberamente, ti xe la mia cara fia. Ti xe la mia prima, a ti te voggio più ben; farò de tutto per consolarte.

ROS. Caro signor padre! Io prenderei volentieri il signor Florindo.

PANT. Florindo xe un putto che no me despiase. Bisognerà véder mo se elo te vorrà ti.

ROS. Eh, mi vorrà, mi vorrà.

PANT. Lo sastu de seguro?

ROS. Mi vorrà, mi vorrà.

PANT. Mi vorrà, mi vorrà; eh, putta, putta. Basta, destrighete presto, che no voggio più deventar matto. Co t’ho maridà ti, vôi maridar quell’altra, e po son fora de tutti i intrighi.

ROS. Che? Non maritate mia sorella prima di me.

PANT. No, no te dubitar, no te farò sto torto.

ROS. Eh, datemi il signor Florindo.

PANT. Oggio d’andar mi a cercar el marìo per mia fia?

ROS. No, no, verrà egli da voi.

PANT. Se el vegnirà, te prometto de consolarte.

ROS. Caro padre, voi mi date la vita.

PANT. Ma arrecordite ben, se vien sto sior Anselmo, bisogna che lo riceva per civiltà, e che te lassa véder per convenienza.

ROS. Sì, sì, che mi veda pure; ma quando mi averà veduta, potrà leccarsi le dita.

PANT. E pur la sarave la to fortuna.

ROS. Io non penso che a esser contenta. A me non importa di denari, di abiti, di grandezze. Se trovo un marito che mi voglia bene, non cerco altro. (Caro il mio Florindo, stimo più un tantino del tuo bene, che non istimo mille milioni). (da sé, parte)

PANT. Ma! co se gh’ha delle putte, no se sta mai quieti. Ve’ qua st’altra. Vardè co granda che la vien. Anca ella un de sti dì, siben che la xe una gnocca, la vorrà marìo.

SCENA NONA

Diana e Pantalone.

DIA. Serva sua, signor padre.

PANT. Bondì sioria, siora fia.

DIA. Vorrei pregarvi d’una grazia.

PANT. Cossa voleu, siora?

DIA. Non vorrei più dormire con Corallina.

PANT. Perché?

DIA. Perché la notte si sogna, e mi dà dei pugni.

PANT. Vedè ben, vu dormì con Corallina, Rosaura dorme con Colombina. Ve dago una cameriera per una, acciò che abbiè compagnia.

DIA. Ma io con Corallina non voglio più dormire.

PANT. Sola no sta ben che dormì.

DIA. Anche Corallina ha detto che non vuol più dormire con me.

PANT. No? Per cossa?

DIA. Perché dice che un giorno starà in compagnia di Brighella.

PANT. Benissimo, i se fa l’amor; se i se sposerà, i starà insieme.

DIA. Se Corallina può star con Brighella, vi posso stare anch’io.

PANT. Orsù, a monte sti discorsi. Andè a lavorar. Fe su le vostre camise, le vostre traverse: parecchieve anca vu la vostra dota.

DIA. Oh, la mia dote è un pezzo ch’è fatta.

PANT. Chi ve l’ha fatta?

DIA. Mia madre.

PANT. Vostra mare v’ha lasà della roba e dell’intrada, e mi ve darò siemille ducati.

DIA. Seimila ducati? Quanti soldi fanno?

PANT. Ti staressi fresca, se ti volessi contar siemille ducati in tanti soldi. Sastu che i fa più de settecento mille soldi?

DIA. Già io non so contar altro che sino al venti.

PANT. Brava, ti xe una putta de garbo. Co ti averà da governar una casa, ti farà una bella figura.

DIA. Io governar la casa? Ci sono le cameriere.

PANT. Oh, no digo in sta casa.

DIA. Che! Mi volete mettere a servire?

PANT. Ve vôi metter a servir un marìo.

DIA. Se avessi un marito, vorrei ch’egli servisse me.

PANT. Come mo vorressi ch’el ve servisse?

DIA. Vorrei che mi scaldasse i piedi.

PANT. Che el ve scaldasse i piè, e non altro?

DIA. I piedi e le mani. Che cosa si fa dei mariti? Servono per scaldarsi.

PANT. Mi no so cossa ti intendi de dir. Sastu cossa che xe marìo?

DIA. Oh, se lo so. È quella cassetta che serve per scaldare le donne, quando hanno freddo.

PANT. Al scaldapiè ti ghe disi marìo?

DIA. Qui tutti dicono così.

PANT. (Mo la xe un poco troppo semplice). (da sé) Mi mo, vedistu, te voggio dar un’altra sorte de marìo.

DIA. Io lo prenderò come me lo darete.

PANT. Te darò un omo per marìo, che te tegnirà compagnia, che starà con ti de notte, e cussì no ti gh’averà paura, e no ti dormirà più con Corallina.

DIA. Vi sono due giovinotti, che mi hanno esibito di tenermi compagnia.

PANT. (Oh, bisogna che la destriga presto). (da sé) Chi?

DIA. Uno è il figlio del signor Pancrazio, e l’altro il figlio del signor Fabrizio.

PANT. (No i me despiase né l’un, né l’altro). (da sé) Chi torressi più volentiera de sti do?

DIA. Io li prenderei tutti due.

PANT. (Oh poveretto mi!) (da sé) Via, andè là, parleremo.

DIA. Se me ne avete a dare un solo, datemi il figlio del signor Fabrizio.

PANT. Perché mo quello, e no quell’altro?

DIA. Perché è più grande.

PANT. Oh via, no vôi sentir altro.

DIA. Basta, fate voi. Con Corallina non voglio più dormire. Se voi non mi trovate compagnia, pregherò qualcheduno che venga a favorirmi. (parte)

PANT. Oh, la ghe ne troveria de quei pochi, che la favorirave. Ma mi ghe remedierò. Sta putta xe troppo semplice, e in casa no la sta ben: o la mariderò, o la manderò da so amia, che xe una donna che gh’ha giudizio. Gran cossa xe questa! Se le putte xe furbe, le pol fallar per malizia; se le xe gnocche, le pol precipitar per troppa innocenza. Xe meggio non averghene; ma co se ghe n’ha, bisogna badarghe; corregger le spiritose, illuminar le semplici: con quelle rigor, con queste dolcezza, e con tutte occhi in testa, giudizio in cassa, e co le xe in ti anni della discrezion, destrigarle de casa, darghe stato, e liberarse dal peso de custodirle, e dal pericolo de rovinarle. (parte)

SCENA DECIMA

Corallina e Brighella.

COR. E così, Brighella mio, quando concludiamo le nostre nozze?

BRIGH. No ve dubitè, faremo presto. Ho dito qualche cosa al padron, e anca lu me agiuterà. Se sposeremo, metteremo su una botteghetta, e lasseremo star de servir.

COR. Oh, il cielo lo voglia! Questo servire è pur una cosa cattiva; e poi in questa casa non ci starei per causa della signora Rosaura... È fastidiosa: si cambia da un momento all’altro, e non mi può vedere.

BRIGH. Sopportè ancora un poco, e non ve dubitè, che ve sposerò. (Quanto ti è minchiona, se ti lo credi). (da sé)

COR. E poi vi è anche quella cara Colombina, che mi perseguita e non mi lascia aver bene.

BRIGH. Anderemo via, e no la vederè mai più.

COR. Ma quando si concluderanno le nostre nozze?

BRIGH. Aspetto de aver fatto un poco de capital da averzer bottega, e po subito se destrigheremo.

COR. Quanto vi manca?

BRIGH. Se gh’avesse tre zecchini, compreria della cordella che me manca, e poderia destrigarme anca doman. Do zecchini li gh’ho, e me ne manca uno.

COR. Vi manca un zecchino?

BRIGH. Sì ben, con tre zecchini son a cavallo.

COR. Se fosse vero, ve lo darei io.

BRIGH. Come! A mi no me credè? Dèmelo e vederè.

COR. Ora lo vado a prendere. L’ho avanzato dal mio salario. Caro Brighella, ve lo do. Di voi mi fido, e vi prego a far presto.

BRIGH. Andèlo a tor, e in do ore me sbrigo.

COR. (Non vedo l’ora di uscire di questa casa. Oh, se potessi essere sposa prima di Colombina, la vorrei far crepar d’invidia). (da sé, parte)

BRIGH. Intanto chiapperemo sto zecchin. Mi maridarme? Oh, no son cussì matto. Me vado devertendo co ste massere; e co le posso pelar, lo fazzo col mazor gusto del mondo.

SCENA UNDICESIMA

Colombina e Brighella.

COL. Brighella, la padrona vi cercava.

BRIGH. Chi? Siora Rosaura? No voio deventar matto con ella.

COL. Voi siete un servitore garbato. Volete tutte le cose a vostro modo.

BRIGH. Cara siora Colombina, mi no so cossa che gh’abbiè con mi. Da poco in qua, no me podè véder.

COL. Che cosa v’importa di me? Non avete Corallina che è la vostra diletta?

BRIGH. Corallina la mia diletta? Chi v’ha dito sto sproposito?

COL. Eh, che non son orba, né sorda. Vedo e sento, e so quel che dico.

BRIGH. In verità, v’ingannè.

COL. Ditemi un poco, che cosa facevi ieri sera nella sua camera?

BRIGH. Ve dirò, ve parlerò sinceramente. Xe arrivà un mio parente in cattivo stato, e l’è ricorso da mi. Mi no gh’ho bezzi da poderlo agiutar. Ghe n’ho domandà al padron, nol me n’ha volsudo dar. Corallina ha sentido che me lamentava, la m’ha dito se vôi un zecchin, che la me lo impresterà; mi ho accettà la so esebizion, e la m’ha promesso de darmelo.

COL. Ve l’ha dato?

RRIGH. No la me l’ha gnancora dà.

COL. Basta, se vi foste degnato di parlare con me, un zecchino ve lo avrei dato ancor io.

BRIGH. Cara Colombina, semo ancora in tempo. Za che Corallina no me l’ha dà, mi el torrò più volentiera da vu che da ella.

COL. Ma poi non mi guarderete in faccia.

BRIGH. Me maraveio, son un galantomo: son un omo che sa esser grato, e a chi me fa un servizio, procuro de farghene do, se posso.

COL. A me basterebbe una cosa sola.

BRIGH. Che vol dir?

COL. Che mi voleste bene.

BRIGH. Mi mo de volerve ben no me contento.

COL. No? Perché?

BRIGH. Perché ve vorria anca sposar.

COL. Oh, quanto sarebbe meglio!

BRIGH. In quattro parole se fa tutto. Subito che m’ho destrigà de sto mio parente, la discorreremo.

COL. Andatevi a spicciare.

BRIGH. Co gh’ho el zecchin, vago subito.

COL. Lo vado a prendere in questo momento. (Voglio far morire di rabbia quella pettegola di Corallina). (da sé, parte)

BRIGH. Oh che bella cossa! Cavarghe un zecchin per una, e burlarle tutte do! Ecco qua Corallina.

SCENA DODICESIMA

Corallina e Brighella.

COR. Eccomi con lo zecchino.

BRIGH. Oh brava! Ve son tanto obbligà. El metteremo in conto de dota.

COR. Tenete, e quando mi sposerete, ve ne darò altri tre.

BRIGH. Brava, pulito. (Pol esser che ghe li magna senza sposarla). (da sé)

COR. Ricordatevi di far presto.

BRIGH. No ve dubitè gnente. Me preme anca a mi.

COR. Ecco qui Colombina.

BRIGH. Andè via, no ve lassè véder.

COR. Oh, voglio star qui. Non ho paura di lei.

SCENA TREDICESIMA

Colombina e detti.

COL. Signor Brighella, gli si potrebbe dir una parola?

BRIGH. Son a servirla, patrona. Aspettè. (a Corallina)

COL. (Sempre con lei). (da sé)

COR. (Che mai vorrà da Brighella?) (da sé)

COL. (Ve l’ha dato ella lo zecchino?) (piano a Brighella)

BRIGH. (Oibò, no l’ho volesto). (piano a Colombina)

COL. (Eccolo). (dà lo zecchino a Brighella)

BRIGH. (Brava, sto cor l’è vostro).

COR. Gran segreti, signor Brighella.

COL. Che importa a lei, signora?

COR. Se non me ne importasse, non parlerei.

COL. Parli pure, è padrona.

BRIGH. (Adesso adesso le fa baruffa). (da sé)

COL. È forse il suo sposo Brighella?

COR. A lei non sono obbligata a rispondere.

COL. Dite, signor Brighella, avete a lei donato il vostro cuore?

COR. Oh no, signora, l’averà donato a lei.

BRIGH. El mio cuor l’ho vendù: l’è stà comprà per un zecchin. Chi m’ha dà sto zecchin, ha acquistà el mio cuor. No contendè, no gridè; m’avè inteso tanto che basta.

COR. (Dunque Brighella è mio!) (da sé, e parte)

COL. (Il cuore di Brighella è venduto a me). (da sé, e parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Rosaura e Brighella, poi Colombina.

ROS. Vi ho mandato a chiamare, e non siete venuto. (a Brighella)

BRIGH. Vegnivo in questo momento.

ROS. Presto, andate dalla signora Beatrice, e ditele che venga subito, subito, e non manchi.

BRIGH. La sarà servida. (parte)

ROS. Sì, voglio sposarmi a Florindo, per far rabbia a quello sguaiato di Lelio.

COL. È qui la signora Eleonora.

ROS. Non la voglio ricevere.

COL. Che volete che io le dica?

ROS. Dille ch’io sono impedita.

COL. Io non so come fare.

ROS. Non la voglio.

COL. Eccola, non siamo a tempo. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Rosaura ed Eleonora.

ROS. (Che impertinenza!) (da sé)

ELEON. Compatitemi, se sono venuta tardi.

ROS. Eh! non importa.

ELEON. Che avete, che mi parete di malumore?

ROS. Ho poca volontà di parlare.

ELEON. Siete in collera? L’avete meco?

ROS. (Sa la sua coscienza). (da sé)

ELEON. E che sì, che indovino che cosa avete?

ROS. Può essere che lo sappiate meglio di me.

ELEON. Oh, se lo so! Siete disgustata per via dell’amante.

ROS. Sì, signora, per via dell’amante.

ELEON. E vi dispiace che una, che vi fa l’amica, procuri di levarvelo.

ROS. Mi pare che questa sia un’azione indegna.

ELEON. Avete ragione, e vi compatisco se siete adirata.

ROS. E venite voi stessa a dirmelo?

ELEON. Ve lo dico, perché siamo amiche. E quando ho saputo che la signora Beatrice tenta levarvi il signor Florindo, mi sono sentita ardere di sdegno per parte vostra.

ROS. Come! Beatrice amoreggia con Florindo?

ELEON. Che! non lo sapete?

ROS. Non lo so: ditemi qualche cosa.

ELEON. Sappiate che Florindo va in casa di Beatrice quasi tutti i giorni, e stanno a parlare insieme, e sono innamorati morti.

ROS. (Ah traditora! Così mi tratta?) (da sé)

ELEON. Ella vien qui, vi fa l’amica, e poi lavora sott’acqua.

ROS. Non occorr’altro, so quel che ho da fare.

ELEON. Delle amiche come me, ne troverete poche.

ROS. Ditemi, cara Eleonora, il signor Lelio viene da voi?

ELEON. Oh, non ci viene. Voleva provarsi a venire, ma io non l’ho voluto. (Subito! le dirò la verità). (da sé)

ROS. Dunque Lelio è poca cosa di buono, e voi siete un’amica fedele.

ELEON. Lelio aveva promesso d’amarvi?

ROS. Me l’aveva promesso.

ELEON. Dunque ho fatto bene a non riceverlo.

ROS. Avete fatto benissimo, e vi sono obbligata.

ELEON. Oh, io colle amiche tratto sinceramente, non faccio come la signora Beatrice.

ROS. Ella è un’amica finta, e da qui avanti non la tratterò più. Voi sarete la mia compagna.

ELEON. Di me vi potete fidare.

SCENA SEDICESIMA

Beatrice e dette.

BEAT. Son qui a vedere quel che volete da me.

ROS. Niente, signora, la riverisco. (parte)

BEAT. Mi lascia con questo bel garbo? Che maniera di trattar è questa? Che mai le è saltato in testa? Che cosa ha con me? Due ore sono mi fa mille finezze; ora mi manda a chiamare, e mi riceve così?

ELEON. Non sapete? Bisogna compatire la debolezza del naturale.

BEAT. In casa sua non ci vengo mai più.

ELEON. Io ci sono venuta per chiarirmi d’una cosa; per altro non ci veniva né pur io.

BEAT. Che razza di vivere! Ora d’un umore, ora d’un altro.

ELEON. È un temperamento che incomoda infinitamente. Voi mi piacete, che siete sempre uguale, sincera e propria.

BEAT. Cara Eleonora, anche voi siete fatta secondo il mio cuore. In verità vi voglio bene. (Non troppo per altro). (da sé)

ELEON. Ed io son contenta, quando sono con voi.

BEAT. Andiamo via di qui, venite con me.

ELEON. Andiamo.

BEAT. (La sua amicizia mi giova, perché non iscopra a Rosaura l’amor mio per Florindo). (da sé, parte)

ELEON. (La coltivo, perché non dica ch’io tratto con Lelio). (da sé, parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Altra camera.

Pantalone e Rosaura.

PANT. Orsù, vien qua, fia mia, ti sarà contenta: ho parlà col sior Dottor, pare de Florindo: semo amici, e tra lu e mi s’avemo giustà. Florindo sarà to marìo.

ROS. Signor padre, io non lo voglio più.

PANT. Come! No ti lo vol più?

ROS. Ho pensato meglio. È un giovinastro che non ha giudizio, non lo voglio.

PANT. Oh bella! Adesso che ho parlà col Dottor, ti me vol far far la figura del babuin. No basta che abbia da mancar de parola a sior Anselmo, ho da mancar al Dottor?

ROS. Piuttosto prenderò il signor Anselmo.

PANT. Veramente gh’ho dito al sior dottor Balanzoni, che gh’aveva sto mezzo impegno co sto mercante, che vol dir, sposandote a questo, no ghe saria tanto mal; ma se ti volessi un altro, ti me metteressi in t’un brutto impegno.

ROS. Prenderò il signor Anselmo.

PANT. Senti, adesso l’ho visto qua vesin; vago zo, se lo trovo, lo mando qua. Elo vederà ti, ti ti lo vederà elo, e se el genio s’incontra, presto presto concluderemo. (No vedo l’ora de destrigarme ste do putte de casa, questa principalmente: ora voggio, ora no voggio; la fa dar volta al cervello). (da sé, parte)

SCENA DICIOTTESIMA Rosaura sola, poi Colombina.

ROS. Florindo ingrato! Così tratta con me? Ma non è degno dell’amor mio: no, non lo voglio più; piuttosto se avessi a fare un sproposito, lo farei con Lelio... Ma egli voleva andar da Eleonora... può essere anche che non sia vero.

COL. Signora, è qui un certo signor Anselmo, che vorrebbe riverirla.

ROS. Venga, venga, è padrone. Vi è mio padre?

COL. Ha detto a me che l’introduca, che va ad un servizio e subito viene. Mi ha detto ch’io stia in anticamera.

ROS. Via, via, fallo passare. Ehi, dimmi, che figura è?

COL. Mi pare un’anticaglia. Io lo credo una bella caricatura. (parte)

ROS. Per far dispetto a questi ganimedi incivili, voglio sposarmi al signor Anselmo.

SCENA DICIANNOVESIMA

Anselmo e la suddetta, poi Colombina.

ANS. Chi è qui?... Oh illustrissima, eccellenza, perdoni.

ROS. Signore, perché mi date questo titolo?

ANS. Faccio il mio dovere con una dama.

ROS. Io son Rosaura, figlia del signor Pantalone.

ANS. La signora Rosaura? La figlia del signor Pantalone? Con quel gran mappamondo? (il guardinfante) Servitor umilissimo.

ROS. Favorisca, è ella il signor Anselmo?

ANS. Sono io, per servirla.

ROS. Vuole accomodarsi?

ANS. Oh, io non sono stanco. Ella sarà stanca, portando quel diavolo di peso addosso.

ROS. Questo è il vestire che si pratica qui da noi.

ANS. Io non ho mai veduto una cosa simile. Favorisca, quelle gioje quanti mila ducati varranno? ROS. Oh, non vagliono tanto. Costeranno al più tre zecchini.

ANS. Tre zecchini? Di che cosa sono?

ROS. Sono pietre false.

ANS. Diavolo! Pietre false? E perché portare al collo le pietre false?

ROS. Perché si usano.

ANS. (Dove si usano le cose false, non v’è da far bene). (da sé)

ROS. Ho anche delle gioje buone; ma qualche volta porto le false, per non consumarle.

ANS. Ma invece di portar le false, sarebbe meglio non portar niente.

ROS. Si usa così.

ANS. Le gioje false si usano, quei ricci si usano, quella polvere bianca si usa, quei piastrelli neri si usano, quei veli si usano, quei nastri si usano, quei guanti si usano, quel gran calderone si usa. Ella usa, io non uso. Qui si usa, da noi non s’usa. Signora mia, vi domando scusa. (in atto di partire)

ROS. Sentite: io sinora mi sono uniformata al costume delle persone, con cui ho dovuto trattare; ma se avessi a maritarmi, cercherei d’adattarmi all’uso del paese e al piacer del marito.

ANS. Signora, per dirvela, se io avessi l’onore di essere vostro marito, vorrei prima che facessimo una dozzina di patti fra voi e me.

ROS. Mi troverete facilissima a condiscendere.

ANS. Prima di tutto, quella capponaia no certamente. Io ho un’antipatia con quella macchina, che mi si gela il sangue quando la vedo. (del guardinfante)

ROS. Benissimo, di questo si può fare a meno.

ANS. Gioje false, no certo.

ROS. Qualche cosa al collo ci vuole.

ANS. O buone, o niente.

ROS. Signor sì, mi contento.

ANS. Polvere, no sicuro.

ROS. Si può andar senza.

ANS. Tanti imbrogli di pizzi, di nastri, tutto via.

ROS. Sì, tutto via.

ANS. (La giovane si va accomodando bene). (da sé)

ROS. (Quando il marito è buono, si può far tutto). (da sé)

ANS. Oro, argento, sugli abiti non ne voglio.

ROS. Non ne porterò.

COL. Signore, con licenza. (ad Anselmo) (È qui il signor Lelio, che desidera parlarvi; egli sa che siete in collera con esso lui, e vi vorrebbe placare). (piano a Rosaura)

ROS. (Placarmi? Vengo subito). (a Colombina)

COL. (Che bella figura per una giovinotta! Io non lo prenderei certamente). (piano a Rosaura, e parte)

ANS. Per tornare al nostro proposito, io non voglio conversazioni.

ROS. Via, via, signore; basta così. Volete troppe cose; parleremo poi con più comodo. (parte)

ANS. Costei è una pazza. Eh, ch’io sarei stolto, se io volessi ammogliarmi in una città. È meglio che mi prenda una donna delle mie montagne; ma lassù non v’è nessuna che mi piaccia. Se potessi trovare una cittadina senza ambizione, sarebbe il caso mio; ma sarà difficile.

SCENA VENTESIMA

Diana ed Anselmo.

ANS. Quella giovane, dite al vostro padrone che vado via, e ci rivederemo. (a Diana)

DIA. Al mio padrone? Chi crede ella ch’io sia?

ANS. Non siete una serva del signor Pantalone?

DIA. No signore, io sono sua figlia.

ANS. Ah, voi siete la figlia del signor Pantalone; e chi era quell’altra signora, che ha parlato con me?

DIA. Mia sorella maggiore.

ANS. Cara ragazza, compatite l’error mio. Quella era vestita magnificamente; onde ho preso voi per la cameriera.

DIA. Ella è vestita meglio, perché dev’essere sposa.

ANS. Ah, sì sì, l’intendo. (Quando si vuol vendere, si mette la mercanzia in figura. Tutto falso, tutto falso. Quanto mi piace più l’idea di questa giovanetta!) (da sé)

DIA. (Mi guarda, e par che rida; non vorrei avere la faccia tinta). (da sé)

ANS. E voi, ragazza mia, non vi farete sposa?

DIA. Io sposa? Signor no.

ANS. Vostro padre che vuol fare di voi?

DIA. Mi vuol dar marito.

ANS. Oh bella! marito e sposo non è tutt’uno?

DIA. Tutt’uno?

ANS. Sì, è tutt’uno.

DIA. Ora capisco. Signor sì, mi farò sposa.

ANS. Avete mai fatto all’amore?

DIA. Signor no. Non sono mai andata sul tetto.

ANS. Come sul tetto?

DIA. Le gatte, quando fanno all’amore, vanno sul tetto; io non ci sono mai stata.

ANS. (Questa è una ragazza semplice, questa sarebbe il caso per me). (da sé) Come avete nome?

DIA. Diana.

ANS. Cara la mia Dianina, volete ch’io vi trovi uno sposo?

DIA. Non s’incomodi, me lo troverà mio padre.

ANS. Sentite, se volete, io vi farò mia sposa.

DIA. Bisognerà che m’insegnate come si fa.

ANS. Sì, v’insegnerò. (Non ho creduto, che si potesse trovare in città una ragazza così innocente). (da sé) Tenete quest’anellino.

DIA. A me? Me lo donate?

ANS. Sì, ve lo dono.

DIA. Oh carino! oh bellino! Lo vado a mostrare a mia sorella.

ANS. Venite qui, sentite.

DIA. Lo voglio far vedere a Colombina, a Corallina, a Pasquina e anco alla figlia della lavandaia. (parte)

ANS. Costei è semplicetta; costei è innocente. Se posso, voglio veder d’averla, prima ch’ella si guasti. In città una semplicità di questa sorte! Non l’avrei mai creduto. (parte)

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA Lelio e Rosaura.

LEL. Cara signora Rosaura, io vi amo teneramente, ma voi mi ponete alla disperazione. Ogni cosa v’inquieta. Tutto vi fa ombra; sospettate di tutto. Voi non mi credete, e se non merito la vostra fede, sarò forzato a tralasciare d’amarvi.

ROS. Se mi voleste bene, non andereste da questa e da quella a far la conversazione.

LEL. Vado qualche volta a sfogare con qualcheduna la rabbia che voi mi fate provare.

ROS. Io so distinguere chi sa esser fedele.

LEL. Potete dire che io non sia fedele?

ROS. Che cosa andate a fare dalla signora Eleonora?

LEL. Ci sono andato... qualche volta... perché so che ella è vostra amica. Sono andato per trattar con lei, acciò vi parlasse.

ROS. Sì, sì, so tutto. Vi siete provato a far all’amore con Eleonora, ed ella non ha voluto, perché è una donna prudente; per altro, se ella vi avesse abbadato, voi mi avreste piantata.

LEL. (La cosa è tutta al contrario; ma non voglio dirlo, per non fare una mal’azione). (da sé)

ROS. Non rispondete, eh? Vi confondete, eh?

LEL. Signora, io non mi confondo. Vi dico che son fedele a voi, che a voi voglio bene: se lo credete, sarò contento, se poi non lo volete credere, mi converrà aver pazienza, e vi lascierò in libertà di amare chi volete.

ROS. Sentite... Io vi voglio bene e vi credo; ma se mi dicono certe cose, non posso fare a meno di non dubitare.

LEL. Non bisogna creder tutto. Chi riporta, meriterebbe gli fosse strappata la lingua; mentre queste graziose persone, che parlano nell’orecchio, sono la rovina delle famiglie. Anche a me è stato detto che guardate di buon occhio il signor Florindo, ma io non lo credo.

ROS. Non avete nemmeno a crederlo. Florindo amoreggia colla signora Beatrice.

LEL. Mi è stato detto che vostro padre voleva maritarvi con un forestiere.

ROS. È vero, ma io non lo voglio.

LEL. Dunque concludiamo: mi volete bene o non mi volete bene?

ROS. Sì, vi voglio bene.

LEL. Mi credete o non mi credete?

ROS. Vi credo. Parmi sentir mio padre.

LEL. Abbiamo fatto la pace?

ROS. Sì, sì, abbiamo fatta la pace. Ritiratevi, che non vi veda. (Lelio parte)

SCENA SECONDA

Pantalone e Rosaura.

PANT. Gran matta che ti xe stada a lassar andar el sior Anselmo.

ROS. Non mi piace per niente.

PANT. Te piaserave ben i so bezzi. El gh’ha le scarselle piene de zecchini. Basta, ti sarà causa della fortuna de to sorella.

ROS. La fortuna di mia sorella? Come?

PANT. Sì. L’ha visto Diana, la gh’ha piasso, e el me l’ha domandada.

ROS. Ma voi non gliela darete.

PANT. No ghe la darò? Anzi no veda l’ora che el se la toga.

ROS. Mia sorella sarà più ricca di me?

PANT. Sior Anselmo l’è un omo fatto alla grossolana; ma se vede che el xe generoso. Appena l’ha parlà con Diana, el gh’ha donà un anello de diamanti, che costerà trenta zecchini.

ROS. (A me questi amanti non m’hanno mai donato niente). (da sé)

PANT. Basta, to danno. Mi t’aveva procurà per ti sta fortuna, to danno. Vago a disponer le cosse, e stassera la ghe darà la man. (parte)

ROS. Oh, quel che mi convien sentire! Mia sorella, ch’è più ragazza, si sposerà prima di me? Ma questo non è niente. Ella sarà più ricca di me? Ma peggio ancora. Ella avrà dei regali, ed io no? Che merito ha colei da essermi preferita? Ah, so il perché il signor Anselmo lascia me e prende lei; per causa di questo cerchio, per causa di queste porcherie di pietre false, per causa di queste freddure. Basta, ci penserò; non voglio assolutamente che si dica, che mia sorella minore abbia avuto più fortuna di me. (parte)

SCENA TERZA

Strada.

Dottore e Florindo.

DOTT. Tant’è, ho data la parola al signor Pantalone.

FLOR. Perdonatemi, tutto farò; ma sposare la signora Rosaura, no certamente.

DOTT. Perché dite così? So pure che una volta avevate dell’inclinazione per lei.

FLOR. È verissimo: una volta aveva qualche passione per lei; ma ho scoperto il suo carattere, e non m’impiccerei più con essa per tutto l’oro del mondo.

DOTT. Che cosa v’ha mai fatto?

FLOR. È troppo volubile. Ora dice una cosa, ed ora ne dice un’altra. Ascolta tutti, fa caso di tutto, e quando le viene in capo qualche grillo, fa sgarbi, volta le spalle, e non si sa il perché.

DOTT. Queste sono freddure. Quando la gioventù fa all’amore, per lo più succede così, basta, io ho data la parola al signor Pantalone, e voi non dovete farmi rimanere un fantoccio.

FLOR. Caro signor padre, vi prego, dispensatemi.

DOTT. Non v’è dispensa. Io sono padre, voi siete mio figliuolo, m’avete ad ubbidire.

FLOR. Basta, lo farò per ubbidirvi.

DOTT. Bravo, così mi piacete. Il signor Pantalone non ha altro che queste due figlie, e dopo la sua morte elleno si divideranno la pingue di lui eredità.

FLOR. Io non intendo di disgustarvi.

DOTT. (Mio figliuolo veramente è un buon ragazzo.) (da sé)

SCENA QUARTA

Pantalone e detti.

PANT. (Oh diavolo! Xe qua el Dottor. Come faroggio a destrigarme?) (da sé)

DOTT. Oh, signor Pantalone, giungeste opportunamente, poiché m’era incamminato verso la casa vostra, per dirvi che mio figlio è prontissimo di ricevere per sua sposa la signora Rosaura vostra figliuola.

PANT. Caro sior Dottor, no so cossa dir: son pien de confusion; no so come far a parlar.

DOTT. No, caro amico, non avete motivo d’esser confuso, perché anzi mio figliuolo ed io ci crediamo onorati assai per un tal matrimonio.

PANT. Ve dirò... Sè pare vu anca, e savè che delle volte l’amor de pare fa far dei sacrifizi.

DOTT. Che? Intendete forse di sacrificar vostra figliuola, dandola a mio figlio?

FLOR. Se non vuole, s’accomodi. Noi non la vogliamo, s’egli non è contento.

PANT. Per mi lo vorria con tutto el cuor; ma mia fia... Caro Dottor, compatì... Mia fia no xe disposta a farlo.

FLOR. Oh bene, se non è disposta, non è giusto di violentarla.

DOTT. Come! siamo uomini, o siamo ragazzi? Voi stesso me l’avete offerta, e poi dite che non è disposta?

PANT. Cossa voleu che ve diga? Gh’ho una passion, una mortificazion per sta cossa, che me sento a morir.

DOTT. Se mi permettete, le parlerò io, e forse forse colla mia maniera mi riuscirà di fare quel che voi non avete potuto. Signor Pantalone, siete un galantuomo?

PANT. Cussì me vanto.

DOTT. Voi di questo matrimonio siete contento?

PANT. Contentissimo. Basta che giustè sior Lelio, che persuadè mia fia, e mi son contento.

DOTT. Si farà tutto. Vostra figliuola si sposerà con Florindo; vi riverisco. (parte)

PANT. Sior Florindo, averò gusto che la sia soa; ma gh’ho paura.

FLOR. No, non dubitate, io non la voglio. Dica e faccia mio padre quel che vuole, vostra figlia non la sposerò; e se la sposassi per forza, se ne pentirà. (parte)

PANT. Aséo! Co la xe cussì, no ghe la dago assolutamente. (parte)

SCENA QUINTA

Camera.

Colombina e Corallina.

COL. Via, animo, prendete uno straccio e ripulite la polvere di questi tavolini e queste sedie.

COR. Questa è una cosa che la potete fare anche voi.

COL. Queste cose non toccano a me: toccano a voi.

COR. Perché a me, e non a voi?

COL. Perché io sono cameriera, e voi sottocameriera.

COR. Che vuol dir questo sotto? Io non so di sotto o di sopra. Son venuta anch’io a servire per cameriera.

COL. Da me a voi v’è una gran differenza.

COR. In che consiste questa gran differenza?

COL. Io servo per disgrazia; per altro, sono una persona civile.

COR. Ed io, che credete ch’io sia? Mia madre andava in andrien.

COL. La mia signora madre ha portato il mantó, e siamo cittadini, e abbiamo dei campi e delle case; ci sono stati portati via; ma se avessi il modo di fare una lite, vorrei andare in carrozza.

COR. Io ho quattro cugine che hanno dell’illustrissime, ma non si degnano di me, perché sono venuta a servire. Chi l’avesse mai detto? Una casa com’era la mia! In casa nostra sempre corte bandita. L’oro e l’argento andava per i cantoni.

COL. Ih, ih, gran ricchezze! Basta, ora servite; e in questa casa siete la sottocameriera.

COR. Cameriera sì, ma sottocameriera no.

COL. Sì, sotto, sotto.

COR. No, no, sotto mai.

COL. E se non avrete giudizio, vi farò mandar via.

COR. Non me n’importa niente; già presto mi mariterò.

COL. Sì? me ne rallegro. Lo ha trovato lo sposo?

COR. Signora sì, l’ho ritrovato.

COL. Brava. E chi è, se è lecito?

COR. (Voglio dirlo per farle rabbia). (da sé) Vuol saperlo? È Brighella.

COL. Brighella! Oh oh, quanto mi fate ridere! Brighella non è un boccone per lei. Non è marito per una sottocameriera.

COR. Se non è per la sotto, sarà per la sopra.

COL. Sì, signora, sarà per me.

COR. Per lei? (Oimè! Mi fa venire i dolori colici). (da sé)

COL. Povera berghinella! Sì, per me. Non avete sentito ch’egli ha venduto il cuore a quella che gli ha dato un zecchino?

COR. Appunto per questo. Lo zecchino gliel’ho dato io, e il suo cuore l’ha dato a me.

COL. Voi gli avete dato lo zecchino?

COR. Signora sì, io.

COL. Eh via, che siete pazza. Gliel’ho dato io, e il suo cuore l’ha dato a me.

COR. Voi? Siete una bugiarda.

COL. Se non gliel’ho dato io, che il diavolo vi porti.

COR. Se non gliel’ho dato io, che il diavolo vi strascini.

COL. (Sarebbe bella che l’avesse preso da tutte due). (da sé)

COR. (Non credo mai che Brighella m’abbia burlato). (da sé)

COL. Adesso, adesso. Ehi, Brighella.

COR. Sì, sì. Facciamolo venire. Brighella.

SCENA SESTA

Brighella e dette.

BRIGH. Chi me chiama?

COL. Dite un poco: non ho dato a voi un zecchino?

BRIGH. Siora sì. (con caricatura)

COR. E io non ve l’ho dato?

BRIGH. Siora sì. (come sopra)

COL. Ma non avete detto, che il vostro cuore l’avete venduto a quella che vi ha dato lo zecchino?

BRIGH. Siora sì. (come sopra)

COL. Lo zecchino ve l’ho dato io.

COR. Ve l’ho dato io.

BRIGH. Siore sì. (come sopra)

COL. Dunque il vostro cuore è mio.

COR. Anzi è mio.

BRIGH. Siore sì. (come sopra)

COL. Ma spiegatevi: è mio o di Corallina?

COR. Dite su: è mio o di Colombina?

BRIGH. L’è de tutte do.

COL. Come! Io lo voglio tutto.

COR. Ha da essere tutto mio.

BRIGH. Via, le se quieta. Mi gh’ho tanto de cuor, grando e grosso: ghe n’è per vu; ghe n’è per vu; ghe n’è per altre quattro, se occorre.

COL. No, no assolutamente, o tutto mio, o niente.

COR. Io pure dico lo stesso: o tutto il vostro cuore, o tenetevi quello che dar mi volete.

BRIGH. No so cossa dir. Co no le se contenta de mezzo, el torrò indrio.

COL. Datemi il mio zecchino.

BRIGH. L’ho speso.

COR. Datemi il mio.

BRIGH. L’ho adoperà.

COL. Dunque come abbiamo da fare?

COR. Che risolvete?

BRIGH. Deme tempo, e risolverò.

COL. Quanto tempo volete?

BRIGH. Deme tre o quattro zorni.

COL. Oibò, oibò...

COR. Signor no, signor no...

COL. Vi do tempo fino a domani. (parte)

COR. Ed io fino a questa sera. (parte)

SCENA SETTIMA Brighella ed Anselmo.

BRIGH. Oh che gusto! Oh che spasso! Oh che bella cossa! Se posso, ghe vôi magnar quel pochetto che le gh’ha; godermela e torme spasso.

ANS. Galantuomo, siete voi di casa?

BRIGH. Sior sì, son de casa.

ANS. Vi è il signor Pantalone?

BRIGH. Nol gh’è.

ANS. Ditemi, si potrebbe riverire la sua figliuola?

BRIGH. Quala so fiola?

ANS. No quella da quel calderone, quell’altra. (accenna il guardinfante)

BRIGH. Ho inteso, la più zovene.

ANS. Sì, la più giovane, la più semplice, quella che par più una donna.

BRIGH. Anzi doveria più parer una donna quell’altra, che l’è maggior.

ANS. Oh, quella pare una macchina da fuochi artifiziali.

BRIGH. Donca la vol la piccola?

ANS. Sì, se mi volete far il piacere.

BRIGH. Ma... sior Pantalon no so se el se contenterà.

ANS. Ho parlato con lui, ed è contentissimo.

BRIGH. Basta... Vedremo... (Ghel dirò prima a siora Rosaura, sentirò cossa la dirà). (parte)

ANS. Se fossi andato al mio paese con una moglie incerchiata e piena di vetri al collo, mi avrebbero fatto le fischiate. La signora Rosaura non fa per me: ha troppe diavolerie d’intorno. Sua sorella mi piace perché è modestina, ed ha una veste civile, ma positiva.

SCENA OTTAVA

Rosaura vestita modestamente, ed Anselmo.

ROS. Serva sua. È ella che mi domanda?

ANS. Signora... siete voi?... Non vi conosco bene.

ROS. Ha parlato con me e non mi conosce?

ANS. Siete figlia del signor Pantalone?

ROS. Sì, signore.

ANS. Siete la maggiore o la minore?

ROS. Son la maggiore, per servirla.

ANS. Compatitemi, non vi conosceva. Che cosa avete fatto della vostra botte?

ROS. Me la son levata, perché a voi non piaceva.

ANS. E le pietracce che avevate al collo, dove sono?

ROS. L’ho gettate via, perché non vi aggradivano.

ANS. Perché avete lasciato l’abito da madama?

ROS. Mi son messo questo, per piacere a voi.

ANS. Per piacere a me? Che v’importa il piacermi o il dispiacermi? Io ho promesso al signor Pantalone di sposare l’altra vostra sorella.

ROS. Spero che non farete a me questo torto.

ANS. Se volevate ch’io prendessi voi, dovevate venire vestita così, da figliuola propria e civile, e non mascherata da Lugrezia Romana.

ROS. Io faccio tutto quello che vogliono. Mi ero messi quegli abiti per far a modo delle cameriere; per altro il mio genio è questo. Io vesto quasi sempre così.

ANS. Ma quei ricci e quella polvere?

ROS. Non ho avuto tempo di pettinarmi. Domani mi vedrete assettata nella mia solita semplicità.

ANS. Per quel che ho inteso l’altra volta che ho parlato con voi, vi piacciono le conversazioni.

ROS. Oh! il ciel me ne liberi. Sono anzi di spirito solitario. Mi piace stare nella mia camera.

ANS. E pure quando ho principiato a voler proibirvi la conversazione, avete detto: troppe cose, troppe cose, e mi avete piantato.

ROS. Ho voluto dire ch’io sono debole di memoria, che se mi dite troppe cose ad un tratto, non le terrò a mente: sono andata subito a disabbigliarmi, ed eccomi quale voi avete mostrato desiderarmi.

ANS. Cara signora, non so che dirvi. Mi spiace l’equivoco seguito; ma io sono un galantuomo. Ho promesso alla signora Diana, e le devo mantenere la parola.

ROS. Io sono la sorella maggiore, e tocca a me a maritarmi prima.

ANS. (Per dirla, ora che la vedo rassegnata a vivere a modo mio, mi pento quasi d’averla lasciata). (da sé)

ROS. Signore, io sarò ubbidiente: viverò a modo vostro.

ANS. Ma come volete ch’io manchi a vostra sorella?

ROS. Ecco mia sorella.

SCENA NONA

Diana in guardinfante, e detti.

ANS. Chi siete voi, signora?

DIA. Non mi conoscete? Son quella a cui avete dato l’anello.

ANS. La signora Diana?

DIA. Sì, signore.

ANS. (Oh cosa vedo!) (da sé) Perché vi siete cacciata dentro in quel laberinto?

DIA. Le cameriere m’hanno vestita così, perché ho da essere sposa.

ANS. Sposa di chi?

DIA. Di voi.

ANS. Di me? Chi son io? Qualche quagliotto, che per prendermi vi siete messa la gabbia?

DIA. Io non vi capisco.

ANS. La capisco io. Non fate più per me. (Maledetto quel campanone, non lo posso vedere). (da sé, e parte)

SCENA DECIMA

Rosaura e Diana.

ROS. E così, avete sentito? (a Diana)

DIA. Che cosa?

ROS. Il signor Anselmo non vi vuol più.

DIA. Non me ne importa un fico.

ROS. Sarò io la sua sposa.

DIA. Buon pro vi faccia.

ROS. Io ho da essere sposa prima di voi.

DIA. A me non importa di essere sposa. Bastami trovar uno che stia in mia compagnia.

ROS. Come, in vostra compagnia?

DIA Che so io? Il signor padre mi ha detto, che quando un uomo sta in compagnia di una donna, si chiama marito.

ROS. E così vorreste anche voi il marito?

DIA. Ho paura a dormir sola.

ROS. Non dormite con Corallina?

DIA. Sogna e mi dà dei pugni.

ROS. Se Corallina vi dà dei pugni dormendo, un marito ve li darà vegliando.

DIA. I mariti danno dei pugni?

ROS. Eccome! E bastonano, e maltrattano, e fracassano le povere donne.

DIA. Buono! Il signor padre mi vorrebbe fare un bel servizio! Farmi fracassar da un marito? No, no, non lo voglio. Se Corallina non avesse il vizio di dar dei pugni dormendo, mi vorrei maritare con lei. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Rosaura sola.

ROS. Oh che sciocca! Oh che scimunita! E pure, se io non era lesta, ella si maritava prima di me, e le toccava questa bella fortuna. Se sarò moglie del signor Anselmo, avrò tante e tante ricchezze; ma dovrei sempre andar vestita così. La cosa è un poco troppo dura! Ma ho dato parola, non mi voglio pentire. Non voglio che si dica ch’io sono volubile.

SCENA DODICESIMA

Pantalone e detta

PANT. Coss’è? Cossa vol dir? Perché t’astu despoggià? Gh’astu mal? Vastu in letto?

ROS. Signor padre, vorrei dirvi una cosa; ma non andate in collera.

PANT. Via mo, gh’è qualche novità?

ROS. Vi ho detto di non volere il signor Florindo, e in questo sono costantissima, non mi cambio. Vi ho poi pregato di darmi il signor Lelio, e voi con bontà, dopo qualche fatica, mi avete detto di sì.

PANT. E per causa de sior Lelio ho licenzià sior Florindo, e cussì?

ROS. E così ora ci converrà licenziare anche il signor Lelio.

PANT. Bon! Per cossa?

ROS. Perché sarà meglio ch’io prenda il signor Anselmo.

PANT. Eh, che ti è matta. El vol to sorella.

ROS. Il signor Anselmo è un uomo volubile; si è cambiato, e vuol me.

PANT. Mo, se ti ha promesso de sposar el sior Lelio?

ROS. Se un uomo si cambia, posso cambiarmi ancor io. Se il signor Anselmo manca a mia sorella, posso anch’io mancare al signor Lelio.

PANT. E ti gh’averessi sto bon stomego de mancarghe, dopo la espression che ti gh’ha fatto in presenza mia? Dopo che mi gh’ho dà parola per la segonda volta? Dopo che ho licenzià el sior Dottor, per causa de Lelio? Rosaura, deventistu matta? Te vustu far metter sui véntoli? Vustu che to pare deventa el bàgolo della città? Via, me maraveggio. Ti ha da esser muggier de Lelio. Sta volta no te riuscirà de voltarme; pur troppo, per causa toa, me son reso redicolo; m’ho fatto dei nemici, e debotto gh’ho vergogna per causa toa de lassarme véder in piazza. Col sior Anselmo semo in trattato che el sposa Diana. Co sior Florindo ho sciolto tutto. Co Lelio semo in parola, e la parola sta volta s’ha da mantegnir. Via, cara Rosaura, te parlo co le bone, te prego, no me far delle toe, no me far nasar, fame parer un omo. Stassera vegnirà sior Lelio: daghe la man, e no me far desperar. Se ti me vol ben, se ti me vol véder quieto e contento, dame, cara Rosaura, dame sta consolazion. Te lo domando per l’amor che te porto, per la memoria della to povera mare, per l’esser che t’ho dà. Sposa el sior Lelio, e fenimo una volta de farse da tutto el mondo burlar.

ROS. Signor padre, farò tutto quello che volete.

PANT. Oh brava! Siestu benedìa: adesso vedo che ti me vol ben. Sposerastu sior Lelio?

ROS. Lo sposerò.

PANT. Via, vatte a vestir con un poco de sesto. Vegnirà della zente; se farà un poco de allegria, se darà la man; no te far véder despoggiada.

ROS. Sì, sì, mi vestirò con un poco di garbo. Oimè, quest’abito mi fa venir la malinconia. Signor padre, vi riverisco. (parte)

PANT. Oh, se gh’arrivo a véderla maridada, no m’ha da parer vero. Da qua a stassera m’aspetto qualche altra novità; ma stimo de sior Anselmo, che promette a Diana e po el vorria st’altra. Anca elo el xe un pezzo de matto. Insieme i starave ben. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Strada.

Beatrice ed un Servitore.

BEAT. Da chi hai sentito dire questa novità?

SERV. Da Brighella, servitore del signor Pantalone.

BEAT. Dunque Rosaura si sposerà col signor Anselmo? SERV. Sì, signora, così hanno detto.

BEAT. Fa una cosa. Accompagnami a casa, e poi va subito in traccia del signor Florindo, e digli che quanto più presto può, venga da me.

SCENA QUATTORDICESIMA

Eleonora col Cameriere, e detti.

ELEON. Amica, dove andate?

BEAT. Appunto desiderava vedervi. Avete saputo la bella novità?

ELEON. Non so di che v’intendiate, poiché delle novità ne ho ancor io.

BEAT. Rosaura si mariterà con un mercante forestiere, nominato Anselmo.

ELEON. Oh figuratevi! Non è così.

BEAT. Domandatelo al mio servitore. Non è egli vero? (al servitore)

SERV. Sì, signora; lo so di certo.

ELEON. Sì, è vero. Rosaura era disposta a sposarlo, ma poi al solito si è cambiata, e ora vuole il signor Lelio.

BEAT. Non può stare che si sia cambiata da un momento all’altro.

ELEON. Domandatelo al mio cameriere. Di’ su la cosa com’è. (al Cameriere)

CAM. Sono andato a ritrovar Colombina, che è mia parente, ed ella ridendo m’ha raccontato che la signora Rosaura si è lasciata persuader da suo padre a prender il signor Lelio.

BEAT. Oh che donna leggiera! che spirito incostante! Cara Eleonora, mi dispiace per voi.

ELEON. Facciamo una cosa: andiamo a ritrovarla, e goderemo qualche buona scena.

BEAT. Oh, in casa sua non ci vengo.

ELEON. Perché?

BEAT. Mi ricordo dello sgarbo ch’ella mi ha fatto.

ELEON. Voi ve ne ricordate, ed ella non se ne ricorderà. Andiamo, e v’assicuro, che s’ella è di buon umore vi getterà le braccia al collo.

BEAT. Voi mi volete mettere a qualche impegno.

ELEON. Che! Avete paura di lei?

BEAT. Andiamo pure. E tu ricordati d’andare dal signor Florindo, e digli che a casa l’aspetto. (al Servitore)

SERV. Sarà servita. (Poveri servitori, bisogna far i mezzani). (da sé)

ELEON. Tu procura vedere il signor Lelio, e digli che mi rallegro con lui. (al Cameriere)

CAM. Sì, signora. (Si rallegra coi denti stretti). (da sé)

ELEON. Andiamo a ridere un poco. B

EAT. Io non so dissimulare. Non potrò ridere.

ELEON. Eh, che bisogna fingere, chi vuol prendersi gusto.

BEAT. Felice voi, che lo sapete fare. (tutti partono)

SCENA QUINDICESIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura mezza spogliata, che si fa vestire da Colombina e Corallina, poi Brighella.

ROS. Questo andrien non lo voglio. Va a prenderne un altro.

COL. Quale volete ch’io prenda?

ROS. Quello a fiori: da sposa anderà meglio.

COL. Benissimo, lo vado a pigliare. (parte, poi ritorna)

COR. Tenga i manichetti.

ROS. Non voglio questi: voglio quegli altri.

COR. Quali altri?

ROS. Quelli di velo.

COR. Signora sì. (parte, poi ritorna)

BRIGH. Son qua colla cioccolata.

ROS. Non la voglio. Voglio il tè.

BRIGH. No m’ala ordenà la cioccolata?

ROS. Non la voglio. Voglio il tè. (adirata)

BRIGH. No la vada in collera. Ghe porterò el tè. (parte, poi ritorna)

COL. Ecco l’andrien a fiori.

ROS. Credi tu che anderà bene?

COL. Anderà benissimo.

ROS. Mi pare antico.

COL. Voi sapete quel ch’egli è; l’avete portato tante volte.

ROS. Mettiamolo dunque.

BRIGH. Eccola servida del tè.

ROS. Benissimo. (a Brighella)

BRIGH. Lo vorla?

ROS. Aspetta. (a Brighella)

COL. Signora padrona, vi sono delle visite.

ROS. E chi sono?

BRIGH. El se giazza. (mostrandole il tè)

ROS. Aspetta.

COL. La signora Beatrice e la signora Eleonora.

ROS. Sì, sì, ho piacere. Darò loro la nuova ch’io sono sposa.

COL. Presto, levatevi quell’andrien, e mettetevi questo.

ROS. No, no, vi vuol troppo tempo. È meglio che io tenga questo.

COL. Oh via, facciamo presto.

ROS. Ti dico che non lo voglio.

COL. (Oh che pazienza!) (da sé, parte)

BRIGH. Signora, el se giazza. (come sopra)

ROS. Brighella, va a dire a quelle signore che passino. Preparate le sedie. (a Corallina)

BRIGH. E el tè?

ROS. Non voglio altro.

BRIGH. (Uh, sia maledetto i matti). (getta via il tè, e parte)

COR. (Se avessi due teste, me ne getterei via una). (parte)

SCENA SEDICESIMA

Rosaura, Eleonora e Beatrice.

ROS. Oh compatitemi, mi stava vestendo.

ELEON. Con noi non vi avete a prendere soggezione.

BEAT. Riverisco la signora Rosaura.

ROS. Serva, la mia cara Beatrice.

BEAT. Perdonate l’incomodo.

ROS. Oh, mi avete fatto il maggior piacere del mondo.

BEAT. (Oggi la luna è buona). (da sé)

ROS. Avete saputo ch’io sono sposa?

ELEON. Sì, l’abbiamo saputo. Me ne rallegro infinitamente. Il vostro sposo non è il signor Lelio?

ROS. Sì, il signor Lelio.

ELEON. Oh, quanto me ne consolo. (Maledettissima). (da sé)

BEAT. Orsù, signora Rosaura, spero che in avvenire saremo sempre amiche, e non mi guarderete più con occhio torbido.

ROS. Perché mi dite questo? Sapete che sempre vi ho voluto bene, e sempre ve ne vorrò; sarete sempre la mia cara amica.

BEAT. Non potete negare di aver avuta un poco di gelosia per il signor Florindo; ma ora che vi sposate col signor Lelio, e che di Florindo avete detto tutto il male del mondo, a lui certamente non penserete più.

ROS. Oh, io... non ci penso.

BEAT. E se io avessi qualche inclinazione per lui, non vi darò dispiacere.

ROS. Avete dell’inclinazione per lui?

BEAT. Per ora non so niente di positivo; ma dico che caso mai facessi con lui amicizia, ciò non mi farebbe perder la vostra.

ROS. Sì, ho capito che siete un’amica finta.

BEAT. Come! Amica finta? Perché?

ROS. Per causa vostra, Florindo si è disgustato con me.

BEAT. Perché per causa mia?

ROS. Non parliamo altro.

BEAT. Parlate, dichiaratevi.

ELEON. Eh, cara Beatrice, la signora Rosaura sa tutto, non occorre nascondersi. Sa che voi amate Florindo e che egli è innamorato di voi; ma siccome ella sposerà il signor Lelio, così vi lascia il vostro Florindo, e sarete due buone amiche.

ROS. Io non sarò mai amica di chi mi tradisce, e non ho licenziate le mie pretensioni sopra Florindo, e Lelio non l’ho ancora sposato. (parte)

BEAT. Che dite? (ad Eleonora)

ELEON. Io rido come una pazza.

BEAT. Ma voi avete accresciuto il fuoco.

ELEON. L’ho fatto per prendermi spasso.

BEAT. Amica, compatitemi. Voi parlate troppo.

ELEON. E voi siete furba, ma non quanto basta.

BEAT. Andiamo, che abbiamo fatto una bella visita. Che mai succederà?

ELEON. Da una donna volubile non si sa quel che possa succedere. (parte)

BEAT. Rosaura è volubile, Eleonora è ciarliera; ma io lascierò che dicano, lascierò che si sfoghino, e sposerò Florindo a dispetto di tutti. Quando io mi metto una cosa in capo, la voglio, se dovesse cascare il mondo. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera.

Rosaura sola.

ROS. Ma che testa è la mia? Che cervello è il mio? Che diranno di me le persone che mi conoscono? Mi cambio da un’ora all’altra. Quando penso con serietà al mio carattere, ho rabbia di me medesima e mi vergogno di essere così volubile. Quando dico una cosa, ha da essere. Quando faccio una risoluzione, non s’ha da preterire. Quando do una parola, s’ha da mantenere. Non sarà vero per altro che Beatrice si rida di me. Florindo è il primo ch’io ho amato, e se torno a lui, non fo che correggere la mia volubilità, mostrandomi al primo impegno costante. Sì, amerò Florindo; procurerò riacquistarlo, gli sarò fedele e farò che di me si formi miglior concetto. Ma come potrò io ricuperare il cuor di Florindo? Se gli potessi parlare, spererei persuaderlo. So aver io qualche volta dei momenti felici, nei quali mi posso compromettere di una vittoria.

SCENA SECONDA

Brighella e la suddetta.

BRIGH. Signora, gh’è el sior dottor Balanzoni che la vorria reverir.

ROS. (Questi è il padre di Florindo... Verrebbe a tempo). (da sé)

BRIGH. Comandela ch’el vegna, o ch’el vada?

ROS. Digli che è padrone.

BRIGH. Benissimo.

ROS. No, senti. (A me non è lecito parlar col padre dell’amante in tal congiuntura). (da sé)

BRIGH. Lo fazzo passar?

ROS. Vorrei... e non vorrei.

SCENA TERZA

Dottore e detti.

DOTT. Si può venire? (di dentro)

BRIGH. Animo, cossa vorla che ghe diga?

ROS. Digli... non so.

BRIGH. La resti servida, che l’è padron. (Cussì la finirò mi). (da sé)

ROS. Chi t’ha detto?...

BRIGH. La vegna; la se comodi. (al Dottore che viene)

ROS. Se io non voleva...

BRIGH. Se no la sa comandar, che la vada imparar. (parte)

DOTT. Signora Rosaura, mi perdoni l’ardire.

ROS. Oh, signor Dottore, mi favorisce, s’accomodi.

DOTT. Giacché non v’è il suo signor padre, mi prenderò la libertà di parlare con lei.

ROS. Comandi, in che la posso servire?

DOTT. Mi permette che parli con libertà?

ROS. Anzi parli pure senza soggezione veruna.

DOTT. Il signor Pantalone m’ha fatto intendere che avrebbe avuto piacere che fosse seguito il matrimonio tra lei e Florindo mio figliuolo.

ROS. (Già sapeva che doveva venir rossa). (si copre il viso colle mani)

DOTT. Perché si copre gli occhi?

ROS. Oimè, mi veniva da stranutire e non ho potuto.

DOTT. E così, come le diceva, intesa che ebbi la sua inclinazione, ne parlai subito al signor Pantalone, e gli domandai la signora Rosaura sua figliuola. Egli con bontà ha detto di sì, ed abbiamo concluso il matrimonio, ma poi dopo viene da me il signor Pantalone, e mi dice che sua figliuola si è mutata di pensiere, e che non vuol più mio figliuolo in consorte. Io non posso credere che la signora Rosaura abbia una tal debolezza di spirito di cambiarsi da un momento all’altro, e così fare scorgere suo padre; onde son venuto per sentire dalla propria sua bocca la verità, sicurissimo che una figliuola savia e onesta conoscerà il suo dovere, e non farà un affronto ad un galantuomo, dopo averlo fatto stimolare a domandarla per isposa.

ROS. (Orsù, vi vuol coraggio). (da sé) Signor Dottore, compatite se mio padre vi ha fatto credere che io non volessi mantenere la parola al signor Florindo. È corso un equivoco di un forestiere assai ricco, col quale si credeva che io dovessi accasarmi. Io l’ho ceduto a mia sorella per mantenere la parola al signor Florindo, e altri che lui non prenderò per isposo.

DOTT. Brava, evviva, sicché posso dir con franchezza a mio figliuolo, che stia sicuro ch’ella sarà sua sposa.

ROS. Sì, diteglielo francamente e disponetelo ad essere mio. Ho paura che egli non voglia me.

DOTT. Per questo non dubito punto, perché mio figliuolo ha da fare a modo mio; intanto la riverisco. (parte)

ROS. Miglior congiuntura di questa non mi poteva capitare. Mostrando di compiacere al signor Dottore, ho fatto il mio interesse. Qualche volta io sono una donna politica. (parte)

SCENA QUARTA

Pantalone, Anselmo e Tiritofolo con alcune robe.

PANT. Dove, sior Anselmo?

ANS. Torno al mio paese.

PANT. Cussì presto? E se no ve mando a pregar, no ve degnevi gnanca de vegnir da mi.

ANS. Che mi comanda il signor Pantalone?

PANT. Gnente altro che dirve, che avendo inteso la vostra intenzion de voler per muggier mia fia Diana, invece de Rosaura, son pronto a darvela e contentarve.

ANS. Signor mio, con vostra buona grazia, io non voglio né l’una, né l’altra.

PANT. Mo perché?

ANS. Perché tutte due con quel cerchione ora si allargano ed ora si restringono.

PANT. Ve dirò, sior Anselmo: ve compatisso, se per causa de qualche stravaganza che avè visto, ve sè squasi pentio. Ma mi son un omo onorato: me cognossè, savè che no digo busie, e ve parlerò schietto col cuor in man. Mia fia Rosaura ve accordo che la xe un poco mattarella, e per el vostro paese no la saria al caso, e la ve faria desperar; ma Diana, ve assicuro da omo d’onor, da mercante onorato, la xe una colombina innocente, una putta semplice, savia e modesta, da far de ella quel che se vol: no gh’è pericolo che la se metta in ambizion; la se contenta de tutto; onde, se la tiolè, ve chiamerè contento e felice. Vedè, a mi me compliria de maridar con vu quell’altra, che la xe la prima; ma la sincerità no vol che ve tradissa, e intendo de far giustizia alla bontà de Diana, procurandoghe una fortuna che la merita per el so costume, per el so bon cuor, per el bel tesoro della so innocenza.

ANS. Signor Pantalone, voi me ne dite tante di questa vostra figliuola, che quasi quasi mi persuadete; ma perché si è messa anch’ella intorno quel carretto da far camminare i bambimi?

PANT. Xe stà causa le cameriere. Ella no la lo porta mai. Sentindo le cameriere che l’aveva da esser sposa, le l’ha vestia in cerchio.

ANS. Una sposa non ancora sposata non ha d’aver bisogno che le si allarghino le vesti prima del tempo.

PANT. Diseme, caro vu, cossa xe quella roba?

ANS. Alcune coserelle che avevo comprate per regalarle alla signora Rosaura; ma ella le ha vedute, le ha disprezzate, chiamandole grossolane e vili.

TIR. È verissimo, non ha fatto altro che disprezzarle.

PANT. Vedeu, Diana no l’averia sprezzà quella roba.

ANS. Se la signora Diana non le disprezza, son galantuomo, io gliele dono.

PANT. Aspettè, proveremo. Diana.

DIA. Signore. (di dentro)

SCENA QUINTA

Diana e detti.

PANT. Vien qua mo, fia mia.

DIA. Vengo subito. (esce) Eccomi, signor padre.

PANT. Varda mo ste belle cosse, che te vol donar el sior Anselmo; te piàsele?

DIA. Oh belle! Oh care!

ANS. (Carina, mi piace con quel bel bocchino! Le nostre montanare avrebbero detto: oh care, con tanto di bocca). (da sé, con caricatura)

PANT. Cossa distu de sto bel panno? El xe grossetto, ma bon.

DIA. Questo mi terrà caldo.

PANT. Varda mo, sto scarlatto!

DIA. Oh bello! Per i giorni di festa. Oh bello!

ANS. (Oh, che tu sia benedetta!) (da sé)

PANT. Ste calze te piàsele?

DIA. Oh, se fossero tutte mie!

ANS. (Le piace tutto). (da sé)

PANT. Oe, oe, varda sto zoggielo: antighetto, ma bon.

DIA. Oh bello, oh bello! È mio, è mio. Lo voglio io, lo voglio io.

ANS. (Oh, che adorabile semplicità!) (da sé)

PANT. Varda mo st’altra zoggia. (le mostra Anselmo)

DIA. Qual gioja?

PANT. Questa. Sto boccon de zoggia. (parlando di Anselmo)

DIA. Via, mi burlate.

PANT. No astu dito che ti lo torressi per sposo?

DIA. Sì, l’ho detto. (ridendo)

PANT. Eccolo qua, se ti lo vol...

ANS. Se mi volete, son vostro.

DIA. E la gioja?

PANT. La zoggia, el xe elo.

DIA. Egli è la gioja? Oh, questa sì che è da ridere. È una gioja tanto grande, che mi fa spavento.

PANT. Orsù, cossa diseu, sior Anselmo? Ve piàsela sta putta?

ANS. Io ne sono innamoratissimo.

PANT. Se la volè, la xe vostra.

DIA. Come sua? Io son vostra; mi avete forse venduta? (a Pantalone)

PANT. Sì, t’ho vendù a sior Anselmo.

DIA. E quanto vi ha dato?

PANT. Sentiu che innocenza? (ad Anselmo)

ANS. Per le nostre montagne è un capo d’opera.

PANT. Andemo a far do righe de scrittura.

ANS. Andiamo pure; sono con voi.

PANT. Diana, quella roba xe toa. (parte)

ANS. Sì, quella roba è vostra, e anche questa gioja. (parte)

DIA. Quella non è gioja da portare al collo. (parte con Tiritofolo)

SCENA SESTA

Brighella, Colombina e Corallina.

BRIGH. Alto, alto, fermeve.

COL. Datemi il mio zecchino.

COR. Restituitemi il mio danaro.

COL. Così burlate le povere donne?

COR. Così le assassinate?

BRIGH. Me maraveggio dei fatti vostri. Son un galantomo, e non ho bisogno dei vostri danari. Ho fatto per far una prova, per véder se nissuna de vualtre do pettegole me vol ben. Mi no vôi più servir; me vôi maridar; ma vôi una che me voggia ben. V’ho provà; v’ho cognossù: sè do bone limòsine; me maltrattè, me strapazzè; per un zecchin me volè far perder la reputazion? Non occorr’altro. Andè al diavolo tutte do. Perderè sta fortuna, perderè un omo della mia sorte, e pianzerè la vostra maledetta avarizia, e mi riderò con una sposa al fianco, che ve farà morir dall’invidia.

COL. Io l’ho detto... così per ischerzo... per altro lo zecchino ve l’ho donato. (mortificata)

COR. Se ne volete degli altri, siete padrone. (mortificata)

BRIGH. Eh, sangue de mi, tolì el vostro zecchin. (finge tirarli fuori)

COL. No, no, tenetelo.

COR. Non lo voglio, non lo voglio.

BRIGH. Non lo volì?

COL. Io ve lo dono.

COR. Ed io ve l’aveva donato.

BRIGH. Basta, per no mortificarve, lo tegnirò.

COL. Ma... dite... Chi sarà la vostra sposa?

BRIGH. Quella che me vorrà più ben.

COR. Io vi amo con tutto il cuore.

COL. Ed io spasimo per voi.

BRIGH. Orsù, stassera se dà la man alla paroncina zovene, e pol esser anca alla più granda, se la se conserverà dell’istesso pensier fin a stassera. El padron farà un poco d’allegria, un poco de conversazion, e se pol dar che me resolva anca mi.

COL. Chi sarà mai la fortunata?

BRIGH. Ho fissà, ma nol voggio dir.

COR. Via, ditelo.

BRIGH. No, nol voggio dir. Una de vualtre do; ma no vôi dir quala.

COL. Ditelo, caro Brighella, levatemi di pena.

BRIGH. Orsù, lo dirò e no lo dirò. La più bella.

COL. (Questa fortuna avrebbe a toccare a me). (da sé)

COR. (Oh, sarò io senz’altro). (da sé)

COL. (Che cosa ha di bello colei? Niente).

COR. (Diavolo! Se dicesse che è più bella Colombina, direi che egli è orbo).

COL. (Oh, è mio senz’altro). Brighella, son contentissima. (parte)

COR. (Io, io sarò la sposa). Ora vedo che mi volete bene. (parte)

SCENA SETTIMA Brighella, poi Pantalone.

BRIGH. Andè là, che stè ben tutte do.

PANT. Animo, presto, governè quelle camere. Mettè suso le candele. Parecchiè un poco de caffè.

BRIGH. Per molta zente?

PANT. Per diese o dodese persone. Stassera Diana dà la man a sior Anselmo; bisogna far qualcossa.

BRIGH. E la siora Diana se sposerà prima della siora Rosaura?

PANT. L’occasion porta cussì. Sior Anselmo ha d’andar via, ma pol esser anca, che in tel istesso tempo Rosaura se marida col sior Lelio. Avemo parlà insieme za un poco: el gh’aveva della difficoltà per causa de un poco de zelosia, ma credo ch’el vegnirà qua, e se giusterà tutto.

BRIGH. Un gran cervelletto difficile che l’è quella siora Rosaura; la fa deventar matta la povera servitù.

PANT. Oh, se me la posso destrigar! Ma via, no perdemo tempo, fe quel che v’ho dito.

BRIGH. La servo subito. (parte)

SCENA OTTAVA

Pantalone, poi Florindo.

PANT. Se resto solo, se me libero da sti do intrighi, me vôi maridar anca mi.

FLOR. Servitor umilissimo, signor Pantalone.

PANT. Patron mio reverito. Cossa comandela?

FLOR. Desidero saper da lei una verità. Mio padre m’ha detto aver parlato colla signora Rosaura; e ch’ella non solo è disposta a darmi la mano, ma lo ha pregato a sollecitare le nostre nozze. Desidero sapere da vossignoria come vada questa faccenda.

PANT. Fio mio, ve posso assicurar che la cossa xe tutta al contrario. Rosaura xe impegnada co sior Lelio. La lo vol a tutti i patti. Per contentarla, ho dito de sì. Col sior Lelio s’ha stabilio, e a momenti l’aspetto per concluder sto matrimonio.

FLOR. Posso dunque dispor di me, senza riguardo alla parola che prima era corsa?

PANT. Quella parola no tien. Xe tutto a monte.

FLOR. Signor Pantalone, servitor umilissimo.

PANT. Compatime, mi no ghe n’ho colpa.

FLOR. Oh, non mi preme. Bastami essere in libertà, e vi ringrazio d’avermi assicurato. (Dica ciò

che vuole mio padre, Beatrice sarà mia sposa). (da sé, parte)

SCENA NONA Pantalone, poi Rosaura.

PANT. E pur quanto l’averia fatto meggio a tor Florindo, piuttosto che Lelio; ma le donne le la vol a so modo, e mi, per destrigarmela de casa, procuro de contentarla.

ROS. Ebbene, signor padre, siete rimasti d’accordo col signor Florindo?

PANT. Sì, in do parole s’avemo destrigà.

ROS. È contento?

PANT. Contentissimo.

ROS. Quando si faranno le nozze?

PANT. Che nozze?

ROS. Le nozze mie.

PANT. Anca stassera, se volè.

ROS. O son contenta. Fate venire il signor Florindo, e spicciamola.

PANT. Cossa gh’intra Florindo?

ROS. Non ha da esser mio sposo?

PANT. Come! Florindo? No astu dito che ti vol Lelio?

ROS. Ma ora non è venuto per me il signor Florindo?

PANT. E per questo?

ROS. Aveva pensato meglio...

PANT. Via, matta, via, senza giudizio. Ti ha dito de voler Lelio, e ti lo sposerà, o per amor, o per forza; e se no ti sposerà Lelio, no ti sposerà più nissun al mondo. E se no ti gh’averà cervello, te cazzarò tra do muri: frasconazza, imprudente, volubile come el vento. (parte)

SCENA DECIMA Rosaura e Lelio.

ROS. Canta, canta, io la voglio a mio modo. Ho stabilito di voler Florindo, e non voglio mutar pensiero. Mio padre mi dice volubile, ed io sono diventata la più costante donna di questo mondo.

LEL. Signora, perché il signor Pantalone mi ha rappresentato che voi avete della bontà per me, vengo ad assicurarvi che ho della stima per voi.

ROS. Io non mi curo della vostra stima, e voi potete far poco capitale della mia bontà.

LEL. Perché mi rispondete in tal guisa?

ROS. Perché sono una donna costante. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Lelio solo.

LEL. Bella costanza invero! Costante nella pazzia; costante, si potrebbe dire, nell’incostanza! Orsù, è finita. Con lei non me ne impaccio mai più. Sinora sono stato esitante; ora mi determino per la signora Eleonora, e vado in questo punto a risolvere, s’ella non mi ricusa. (parte)

SCENA DODICESIMA

Camera di conversazione, con illuminazione.

Diana, Colombina e Corallina.

COL. Oh via, venite qui; lasciatevi mettere il cerchio.

DIA. Non lo voglio assolutamente.

COR. Volete sposarvi in quest’abito?

DIA. Il signor Anselmo mi ha detto di sì.

COL. Eh, che il signor Anselmo è un pazzo.

COR. Eh, che il signor Anselmo è un montanaro.

SCENA TREDICESIMA

Anselmo e le suddette.

ANS. Che c’è? Che fate?

DIA. Guardate, signore, mi vogliono mettere il cerchio.

ANS. Ah, femmine indiavolate! La signora Diana è forse da distillare, che la volete mettere in quel tamburlano?

COL. Ma ha da sposarsi come serva?

ANS. In questo ci ho da pensar io, e non voi.

COR. Oh, che sposino di buon gusto!

ANS. Portate via quell’imbroglio. I piedi della signora Diana non hanno bisogno dell’ombrello per ripararsi dal sole.

SCENA QUATTORDICESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Oe, siori novizzi! Cussì me piasè star insieme.

ANS. Per carità, fate che quelle donne portino via quel copertoio da quaglie.

PANT. Via, portè via quel felze da barca.

ANS. Oh bravo! Questo è un nome ch’io non lo sapeva.

COL. Oh, volesse il cielo, che quando mi marito lo potessi portar io. (leva via il cerchio)

ANS. Ma perché avete accesi tanti lumi? Avete paura ch’io non ci veda ad ammogliarmi con vostra figlia?

PANT. Faremo un poco de conversazion.

ANS. A me basta la conversazione fra lei e me.

PANT. Vegnirà della zente.

ANS. A che fare? Per il matrimonio bastano due persone.

PANT. Caro sior Anselmo, compatì. In questo me son uniformà al costume. Co se dà la man, se invida i parenti e i amici. Mi parenti no ghe n’ho, perché son fora del mio paese; onde ho invidà qualche siora, amiga delle mie putte.

ANS. Ma colla signora ci sarà il signore?

PANT. Pol esser; ma no ghe xe mal.

ANS. Basta, anderemo in montagna.

COL. Ecco la signora Beatrice.

COR. Vi è ancora la signora Eleonora; si congratuleranno con voi, che siete la sposa.

DIA. Oh, io mi vergogno!

PANT. Vedeu? Ecco le signore.

ANS. Non ve l’ho detto? Colle signore vi sono i signori.

SCENA QUINDICESIMA

Beatrice, Eleonora, Florindo, Lelio e detti.

BEAT. Serva di lor signori. (tutti salutano)

ELEON. Riverisco lor signori.

BEAT. Sposina, mi rallegro con voi.

ELEON. Godo delle vostre felicità.

DIA. (Si nasconde dietro la scena)

BEAT. Via, via, non fuggite.

ELEON. Eh, gettate via la vergogna.

DIA. (Seguita a nascondersi)

ANS. (Oh che bella semplicità!) (da sé)

PANT. Ah, cossa diseu? (ad Anselmo)

ANS. È innocentissima; ma presto in montagna. (a Pantalone)

SCENA SEDICESIMA Rosaura e detti.

ROS. Signori miei, riverisco tutti. (tutti la salutano) Che vuol dire, signor padre, tutta questa bella conversazione? Sono forse venuti per favorirmi? Grazie. Ho piacere che qui vi siano varie persone unite, per far sapere a tutti che, se per lo passato sono stata soggetta a qualche cambiamento, ho mutato ora costume, e mi pregio della costanza; e perciò, siccome il mio primo impegno fu col signor Florindo, intendo di mantenerlo, e sono pronta a dargli la mano di sposa.

FLOR. Signora, vi ringrazio infinitamente della vostra cortese bontà. Lodo che abbiate stabilito di voler esser costante. Ciò accrescerà merito e prestigio alla vostra bellezza. Voi mi onorate coll’esibizione della vostra mano, ed io vi dico che la mia sposa è la signora Beatrice.

PANT. Tiò, gh’ho gusto. (a Rosaura)

ROS. Come! Amica finta, così mi tradite?

BEAT. Io tradirvi? Vi ha tradita la vostra volubilità.

ROS. Ma vedo benissimo la scioccheria ch’io faceva, a sposare uno che non lo merita. Eccomi sciolta dal primo impegno, ed eccomi obbligata al secondo. Se il signor Florindo mi ha messa in libertà, potrò appagare il mio genio, e sposarmi al mio caro signor Lelio.

LEL. Veramente confesso non meritar le vostre grazie, e mi sorprende l’improvvisa vostra predilezione; dicendomi caro, è segno che mi amate, ed io sono forzato a dirvi, che la mia sposa è la signora Eleonora.

PANT. Tiò, gh’ho gusto. (a Rosaura)

ROS. Come, anche voi mi avete tradita? (ad Eleonora)

ELEON. Io tradirvi? Incolpate la vostra volubilità.

ROS. Voi credete d’avermi fatto un’ingiuria, e pure mi avete fatto il maggior piacere del mondo. Per causa vostra, non poteva accettare una gran fortuna, temendo mi venisse rimproverata la parola che a voi dato aveva. Ecco qui il signor Anselmo: egli mi ha esibito più volte le di lui nozze: le ho ricusate per causa vostra; ora le accetto, e vado in questo momento a levarmi il cerchio.

ANS. Fermate. Senza che perdiate altro tempo, ecco qui che alla presenza di tutti questi signori, io do la mano di sposo alla signora Diana.

PANT. Tiò, gh’ho gusto. (a Rosaura)

ROS. Come! Alla sorella minore?

ANS. Ella pare di voi minore, perché non è imballata come siete voi.

ROS. Oimè! Vedo tre spose, ed io resto senza sposo?

PANT. To danno. (a Rosaura)

COL. Anzi ne vedrete quattro.

COR. Sì, quattro; Brighella deve sposarmi.

COL. Brighella sposerà me.

SCENA ULTIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Son qua, chi me comanda?

COL. È vero, Brighella, che voi sposerete me?

COR. È vero che a me darete la mano?

BRIGH. Ve dirò: ho dito de sposar la più bella; ma vedo che sè tutte do belle a un modo; onde per no far torto a nissuna, no sposerò né l’una, né l’altra.

COL. Briccone! Datemi il mio zecchino.

COR. Indegno! Datemi il mio danaro.

BRIGH. Sior sì, vago a servirla. La vol che porta el caffè? La servo subito. (a Pantalone, e parte)

ANS. Io non voglio altro caffè. Signori, auguro a tutti la buona notte; io me ne vado colla mia sposa. (parte)

FLOR. Ed io pure partirò colla signora Beatrice; giacché mi ha accordato di sposarla mio padre, assicurato del carattere della signora Rosaura. (parte)

LEL. Io parimenti anderò a concludere colla signora Eleonora. (parte)

ROS. Ed io resterò qui, col rossore di essere abbandonata e schernita? Ah sì, me lo merito. Questo è il gastigo della Donna Volubile: voler tutto e non aver niente. Cambiarsi sempre e non risolver mai, e finalmente voler esser costante, quando non v’è più tempo. (parte)

Fine della Commedia

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