La figlia obbediente

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LA FIGLIA OBBEDIENTE

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nell’Autunno dell’anno 1752.

A SUA ECCELLENZA

LA SIGNORA

CECILIA QUERINI ZORZI

Tre forti motivi m’inducono ad offerire all’E. V. un ossequioso tributo del mio rispetto: la Casa nobilissima dov’Ella è nata, nella quale tutti sono Protettori miei benignissimi; quella dove Ella è collocata, godendo io la protezione dell’Eccellentissimo Signor Marin, di lei Sposo; e finalmente quella benignità e gentilezza, con cui l’E. V. mi protegge, mi favorisce e mi onora. Queste tre ragioni, a dir vero, dovrebbono mettermi in apprensione e confondermi, considerandole bene in confronto della tenuissima offerta, che ardisco di presentarle con questa mia Commedia. Poiché se riguardinsi le due Famiglie illustri suddette, sono elleno per l’antichità, per gli onori e per la ricchezza, delle più cospicue della repubblica; e se all’E. V. rivolgo il pensiero, ornata la veggo di tanti meriti e di tante virtù, che con ragione dalla impresa mia dovrei ritirarmi. Tuttavolta considerando io che nel di Lei animo la benignità in mezzo delle altre Virtù risiede, regolandole essa con dolcezza ammirabile e singolare, voglio sperare che questa parlerà in mio favore al di Lei cuore magnanimo e generoso, impetrando a quest’Operetta mia un gentilissimo accoglimento; ed a me l’onore di potergliela dedicare La Figlia Obbediente alla di Lei validissima protezione ricorre. La Virtù della obbedienza è quella con cui si provano gli animi; poiché amando le ragionevoli creature con forza innata la libertà, merita somma lode chi a questa preferisce una virtuosa rassegnazione. L’obbedienza in alcuni è docilità d’animo naturale, in altri è derivata dalla ottima educazione. Unite poi queste due bellissime prerogative, formano un modello di perfezione. Tale è per l’appunto il Figliuolo dell’E. V., il quale ancora in tenera età colma di ammirazione gli amici, di consolazione i parenti, e di speranze la Patria. Egli ha uno spirito sorprendente, e questo sortito lo ha dalla nascita; ha una docilità singolare, e questa l’ha colla educazione acquistata. Tutto merito di una Madre, che col suo spirito lo ha formato, e colla educazione sua lo ha diretto. Fortuna grande de’ Genitori, se hanno la consolazione di essere contenti della loro prole; ma fortuna massima altresì de’Figliuoli, se da’ Genitori prudenti sortiscono, oltre l’essere, il buon costume, il talento, la probità. Questa è la maggior ricchezza, che i Padri lasciar possano per eredità ai Figliuoli loro; questa è la dote preziosa, che le sagge Madri preparano alle Figliuole: l’uso delle morali Virtù, le quali si possono esercitare con merito e ammirazione anche in mezzo al gran Mondo. Chi non è destinato al chiostro, o alla vita contemplativa, non può separarsi dal commercio delle persone, e deve vivere quella vita che al proprio grado compete. Si può brillare con onestà, si può conversare senza pericolo, unire si può la savia conversazione colla più rigorosa illibatezza di cuore. In fatti V. E. è adorabile per tutti questi riguardi. Il di Lei spirito è cosa rara, la di Lei condotta è pregiabile. Vorrei dire qualche cosa del diletto che Ella sente per la Commedia; ogni Artefice vorrebbe insinuare in tutti il gusto della sua professione. Così io vorrei che tutti amassero la Commedia, ed hanno nel cuor mio un maggior merito quelli che la coltivano; onde è per me una consolazione vivissima sapere che l’Eccellenza Vostra non solo delle Commedie mie con benignità si compiace, ma in Villa, in compagnia di altre valorosissime Dame e di eruditissimi Cavalieri, recita mirabilmente all’improvviso Commedie, che riescono a perfezione. Io

non ho ancora avuto la sorte di poterla in tale incontro vedere, ma spero che l’avrò, e son già prevenuto del piacer grande che le di Lei Scene mi recheranno, poiché una Dama giovane, bella, spiritosa e vivace non può che mirabilmente riuscire.

La prego pertanto umilmente a degnarsi di ricevere questa ossequiosa offerta dell’amor mio rispettoso e obbligato, ed onorando la Commedia che le presento coll’alta sua protezione, permettermi che io possa gloriarmi di essere con profondissimo. ossequio.

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni

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L’AUTORE A CHI LEGGE

La grande occasione, in cui si può meglio conoscere l’obbedienza e la rassegnazione de’ Figliuoli verso de’ Genitori, è allora quando si tratta della elezione dello stato loro. Parecchie volte pur troppo accade, che da un Padre severo si violenti l’animo di una fanciulla; e in questo caso, quando ella è costretta a doverlo fare, anche a fronte della giustizia paterna, avrà sempre il merito della obbedienza. Rosaura, figlia obbediente, è posta fra due incostanze, che la rendono angustiata. Ella ama, e per obbedienza non dee amare; ella odia, e per obbedienza cambiar dee l’odio in amore. Colui che le viene offerto in isposo, non ha alcun pregio per farsi amare. La ricchezza, che è l’unico di lui bene, viene avvilita dalla grossolana maniera sua di trattare; e se Rosaura potesse di quella appagarsi, colla speranza di dover vivere a modo suo, non possederebbe quella virtù che la rende schiava della obbedienza; e se obbediente non fosse al Padre, porgerebbe la mano all’adorato suo Florindo. In ogni maniera ella non può certamente desiderarlo; ha da procurar di sottrarsi dalle odiate nozze; eppure non solo per rassegnazione trovasi disposta ad acconsentirvi, ma ricusa aderire ad un’amica ardita, che le offre i mezzi ed i consigli per iscuotere il giogo della soggezione e del filiale rispetto.

Questa bella virtù meritava di essere ricompensata, siccome avvenne a Rosaura, colle nozze del suo Florindo, alle quali può condiscendere per opera appunto di colui, che per una parola data dal Padre, era l’ostacolo doloroso de’ suoi amori.

Questa è la Commedia, la quale raggirasi su questo fatto, rendendola istruttiva e morale il carattere di Rosaura, critica e faceta Beatrice, e il conte Ottavio ridicola. Vi ho innestato altri due Personaggi per episodio, non meno ridicoli, curiosi e veri. Una ballerina col suo papà. Con quest’ultimo spezialmente mi sono assaissimo divertito, e mi è riuscito divertire ugualmente gli spettatori della Commedia. Sono capi di opera alcuni padri, alcune madri di queste che chiamansi Virtuose, o di canto, o di ballo, e pochissime cose ho io introdotte nelle Scene di questi due, che non sieno vere, verissime, vedute da me, da me udite, e con particolare attenzione nel magazzino del mio cervello riposte per valermene all’occasione. I lotti sono poi graziosissime invenzioni per far danari con civiltà, e senza obbligo di ringraziare. Se si cavassero questi lotti colle polizze da me inventate, non se ne vedrebbono tanti, poiché per non soffrire i rimproveri, la superbia la farebbe perdere all’avarizia.

Sono riusciti ridicoli per modo questi caratteri, che hanno quasi oscurato il merito della Donna Protagonista, la quale conducendosi con serietà, non dà il piacere che i Personaggi lepidi sogliono dare. Alcuno crederà forse che tai Personaggi non sieno necessari alla favola, e che pecchi di superfluità. Non so che dire. Se si sta sul rigore, che i Personaggi abbiano a essere necessari in modo che senza di essi la Commedia non possa farsi, in questa vi sarebbe da poter discorrere: ma se basta che sieno bene intrecciati, e che lavorino tutti in armonia fra di loro, e accrescano la beltà e l’intreccio, staranno benissimo colla Figlia obbediente la Ballerina e suo Padre. Infiniti esempi potrei addurre di ciò, anche in Molière medesimo; ma per chi sa, non vi è bisogno di addur ragioni; e per chi non sa, è superfluo il dirle.

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Personaggi

PANTALONE mercante non molto ricco;

    ROSAURA sua figlia;

                                                          FLORINDO figlio di un mercante livornese;

                                                                       BEATRICE amica di Rosaura;

                                            Il conte OTTAVIO romano, uomo stravagante;

                                                                                         BRIGHELLA;

                                                             OLIVETTA ballerina, figlia di Brighella;

                                                                  ARLECCHINO servo di Pantalone;

                                                                            CAMERIERE di locanda;

                                                                         LUMACA servo di Olivetta;

                                                                      TONINO giovine di Pantalone;

                                                        Due ballerini, che non parlano;

                                                                            SERVITORE di Beatrice;

                                                                      CAMERIERE del conte Ottavio.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Pantalone.

Rosaura e Beatrice

ROS. Venite, amica, venite. Son sola, son malinconica, ho bisogno d’un poco di compagnia.

BEAT. Spero io essere venuta ad iscacciare la vostra malinconia.

ROS. Avete da raccontarmi qualche graziosa cosa?

BEAT. Sì, una cosa graziosissima. Una cosa che vi porrà in giubbilo, in allegria.

ROS. È tornato forse il signor Florindo?

BEAT. Bravissima; l’avete indovinata.

ROS. Il cuore me l’ha detto.

BEAT. È vero, è ritornato. Ma circa agl’interessi vostri amorosi, che cosa vi dice il cuore?

ROS. Che il di lui padre ricco vorrà ch’ei si mariti con ricca dote, ed egli sarà costretto a lasciarmi...

BEAT. Il vostro cuore non è sempre indovino. È venuto anzi con lettere di suo padre dirette al vostro, le quali accordano le vostre nozze, e vogliono che si solleciti la conclusione.

ROS. Si solleciti pure. Cara Beatrice, voi mi consolate. Dov’è il signor Florindo?

BEAT. Sarà qui a momenti. Ho voluto io prevenirlo, per darvi questa nuova felice.

ROS. Cara amica...

BEAT. Meriterei la mancia.

ROS. Meritate l’amor del mio cuore.

BEAT. Questo lo dovete serbare a Florindo.

ROS. Ma voi siete sempre allegra e gioviale. Benedetto il vostro temperamento.

BEAT. Zitto; sento gente.

ROS. Sarà mio padre.

BEAT. Altro che padre... (guardando alla scena)

ROS. Che?

BEAT. È l’amico.

ROS. Chi?

BEAT. Florindo.

ROS. Davvero?

BEAT. Vi mutate di colore? Animo, animo, allegramente.

SCENA SECONDA

Florindo e dette.

FLOR. Chi è qui? (di dentro)

BEAT. Venite, venite, signor Florindo.

FLOR. Servo di lor signore.

ROS. Ben venuto.

BEAT. Ben venuto.

ROS. Avete fatto buon viaggio?

FLOR. Buonissimo.

BEAT. Non vedete che è grasso, come...

ROS. Come che?

BEAT. Come un tordo, come un tordo.

FLOR. Godo, signore mie, di trovarvi spiritose ed allegre.

BEAT. La signora Rosaura non era così poco fa.

FLOR. Eravate voi malinconica?

ROS. Sì, per la vostra lontananza. Pel dubbio della vostra venuta, e per quello de’nostri amori.

FLOR. Tutto è accomodato, signora Rosaura...

BEAT. Lo sa, lo sa, gliel’ho detto io.

FLOR. Mi avete levato il piacere di darle io il primo questa felice novella.

BEAT. Volevate forse la mancia, che voleva dare a me?

FLOR. Che mancia? (a Rosaura)

ROS. Parliamo sul serio. Vostro padre si contenta delle mie nozze?

FLOR. È contentissimo.

ROS. Sa che la dote mia non corrisponde alle sue ricchezze?

FLOR. Sa tutto; è informato di tutto. Sa che voi siete di buon costume, ed essendo egli perfetto economo, preferisce alla ricca dote una fanciulla morigerata e discreta.

ROS. Son contentissima. Avete ancora veduto mio padre?

FLOR. Non l’ho veduto. Venni per presentargli la lettera, ma non è in casa.

ROS. Accoglierà con giubbilo una tal nuova.

FLOR. So benissimo ch’egli mi ama.

BEAT. Eppure egli non vi aspettava più di ritorno.

ROS. Temeva che vostro padre volesse accasarvi a suo modo.

FLOR. Pur troppo, se tardava io quattro giorni, stava egli sul punto di disporre di me. Finalmentesarete mia.

ROS. Ancora non mi par vero.

FLOR. Io non ci vedo altre difficoltà. Mio padre è contento; il vostro sapete quante volte mi ha detto, che volentieri avrebbe vedute le nostre nozze. Eccomi qui, son vostro.

ROS. Sì, siete mio. Sia ringraziato il cielo.

BEAT. Sarete stanco, signor Florindo. Siete venuto per terra?

FLOR. No, son venuto per acqua col corrier di Bologna.

ROS. Siete stato allegro per viaggio?

FLOR. Mi sono annoiato infinitamente. Eravi una ballerina, che non taceva mai. E suo padre poi, tutto il viaggio, non ha fatto altro che seccarmi, raccontandomi le grandezze della figliuola.

ROS. Anzi vi sarete divertito bene colla ballerina.

FLOR. Da uomo d’onore, non la poteva soffrire.

BEAT. Come chiamavasi? La conosciamo noi?

FLOR. La conoscerete. È una certa Olivetta.

ROS. Figlia di certo Brighella?

FLOR. Sì, per l’appunto.

ROS. Oh! la conosco. Suo padre è stato servitore in casa nostra.

FLOR. Servitore? Chi sente lui, è un signore.

BEAT. Non sapete? Le capriole della figliuola nobilitano tutta la casa.

SCENA TERZA

Arlecchino e detti

ARL. Siori, el padron l’è vegnudo.

FLOR. Gli avete detto che sono qui io?

ARL. Eh! so el me mistier. No gh’ho dito gnente.

FLOR. Bravissimo. Non vorrei ch’egli sapesse, che ho fatta la prima visita a voi.

BEAT. Facciamo così, signor Florindo. Andiamo giù per la scala segreta; e mostriamo di essere venuti ora.

FLOR. Benissimo. Andate, che ora sono da lui.

ARL. (Bisogna servirlo ben; el me dà qualche lirazza). (da sé, parte)

ROS. Anche voi, signora Beatrice, volete andare?

FLOR. Non occorre che v’incomodiate.

BEAT. Voglio venire ancor io. Vo’vedere, come quel caro vecchietto accetta una tal novella.

ROS. Cara amica, lasciateli parlar fra di loro.

BEAT. No, no; voglio esserci ancor io. In queste cose ci ho il maggior gusto del mondo. Andiamo. (parte)

FLOR. Signora Rosaura, or ora torno da voi.

ROS. Sì, caro...

FLOR. Sposa, addio. (parte)

SCENA QUARTA

Rosaura sola

ROS. Maggior contentezza io non potea bramare di questa. Mio padre ancora sarà contento. Cento volte mi ha detto, che bramerebbe volentieri vedermi sposa di quest’unico figlio di un così ricco mercante. Non credeva egli mai, che il di lui genitore si contentasse. Lode al cielo, si è contentato; Florindo sarà mio sposo. Ora parleranno fra loro. Ma Beatrice impedirà forse che parlino con libertà: quella è una buonissima donna, di buon cuore, amorosa, ma vuol saper tutto, vuol entrare per tutto... Ecco mio padre. Non può ancora aver veduto Florindo.

SCENA QUINTA

Pantalone e detta.

PANT. Fia mia, son qua con delle buone niove.

ROS. L’avete veduto?

PANT. Chi?

ROS. Il signor Florindo.

PANT. Sior Florindo! Dove xelo? Xelo vegnù a Venezia?

ROS. Non lo sapete? È qui, è tornato, e cerca di voi.

PANT. L’aveu visto?

ROS. Non l’ho veduto. Ma è stata da me la signora Beatrice, e mi ha raccontato ogni cosa.

PANT. Cossa v’ala contà?

ROS. Cento cose, una più bella dell’altra. Il signor Florindo è tornato. Ha lettere di suo padre. Suo padre accorda tutto, si contenta di tutto. Fa stima di voi, fa stima di me. Acconsente alle nostre nozze; ed il signor Florindo è venuto apposta a Venezia per isposarmi.

PANT. Oh! sia maledetto! (butta via con rabbia la sua berretta)

ROS. Oimè! Che è questo? Che c’è di nuovo?

PANT. Ghe xe de niovo, che sior Florindo xe vegnù tardi.

ROS. Come tardi?

PANT. Siora sì; el xe vegnù tardi. Perché non alo scritto una lettera?

ROS. Ha voluto egli portar la nuova in persona.

PANT. L’ha fatto una bella cossa.

ROS. Non mi tenete più sospesa; ditemi...

PANT. Alle curte. V’ho promessa a un altro. E za do ore ho serrà el contratto.

ROS. Oh cielo! Senza dirmelo?

PANT. No ghe giera tempo da perder. El partio no pol esser meggio. Un omo nobile, ricco e generoso.

ROS. Ma senza dirmelo?

PANT. Cara fia, no so cossa dir. L’occasion ha portà cussì. El carattere dell’omo xe stravagante; son informà, che chi nol chiappa in parola in certi momenti el se mua facilmente d’opinion. L’ho trovà de voggia. I amici m’ha conseggià de farlo; l’ho fatto. Avemo sottoscritto, e no ghe xe più remedio.

ROS. Quest’uomo ricco, e nobile, e stravagante, sarebbe mai il signor conte Ottavio?

PANT. Giusto ello. Cossa ve par? Gierelo un partio da lassar andar?

ROS. Povera me! Voi mi avete sagrificata.

PANT. Sagrificada? Perché?

ROS. Perché appunto note mi sono le di lui stravaganze, il di lui costume, il di lui strano temperamento.

PANT. Ve sarà anca nota la so ricchezza, la so nobiltà, e che una donna, che sappia far, lo farà far a so modo e senza una immaginabile suggizion... In summa vu starè da regina.

ROS. Mi lascerà dopo quattro giorni.

PANT. Credeu che sia un minchion. El ve fa diese mille ducati de contradota.

ROS. Ah! signor padre. Questa volta l’interesse v’accieca.

PANT. Me maraveggio de vu, siora. No l’ho fatto per interesse, l’ho fatto per l’amor che ve porto. Un povero pare, scarso de beni de fortuna, nol ve pol dar quella sorte che meritè, nol ve pol dar quel stato che el ve desidera. El cielo me presenta una congiontura per vu felice, e volè che la lassa andar? Ve vorria poco ben, se trascurasse la vostra fortuna. Questo xe un de quei colpi, che poche volte succede. Un omo ricco se innamora de una putta civil. El la domanda a so pare; se el pare tarda un momento a rissolver, el pol precipitar el so sangue. L’omo che gh’ha giudizio, no ha da tardar un momento a rissolver, a concluder, a stabilir. Ho rissolto, ho concluso. Rosaura, vu sarè so muggier.

ROS. E il povero signor Florindo?

PANT. Sior Florindo xe vegnù tardi.

ROS. L’avete pur sempre amato. Avete sempre fatta stima di lui.

PANT. Xe vero, ghe voggio ben, e lo stimo.

ROS. Avete detto pur tante volte, che avreste desiderato che potesse egli divenir vostro genero.

PANT. Sì, l’ho dito, xe la verità.

ROS. Ecco il tempo.

PANT. No gh’è più tempo. El xe vegnù troppo tardi.

ROS. Due ore hanno da decidere di me stessa?

PANT. Siora sì, un momento decide.

ROS. Ma il signor Ottavio...

PANT. Sior conte Ottavio sarà qua adess’adesso.

ROS. Il signor conte Ottavio, voleva dire, non ha avuto la mia parola.

PANT. L’ha avù la mia, e tanto basta.

ROS. Voi volete disporre di me, senza nemmeno sentirmi sul punto della mia inclinazione?

PANT. Rosaura, sè sempre stada ubbidiente; avè sempre fatto pompa della vostra rassegnazion. Adesso xe el tempo de farla maggiormente spiccar. L’ubbidienza no gh’ha nissun merito, quando no la xe in occasion de superar la passion. Domando el consenso dalla vostra ubbidienza, acciò abbiè sto merito de gratitudine verso de mi; del resto, in caso contrario, per farve acconsentir, me basta la mia autorità. Son pare, posso disponer d’una mia fia. So che al matrimonio no sè contraria, so che lo preferì a ogni altro stato, onde, maridandove, segondo la vostra inclinazion. Circa la scelta del mario, tocca a mi a farla. L’ho fatta, e vu da putta prudente rassegneve, e lodela.

ROS. Ma il signor Florindo venuto apposta di Livorno?...

PANT. Come xelo vegnù?

ROS. Col corriere di Bologna.

PANT. El doveva vegnir per la posta. Chi tardi arriva, mal alloza.

ROS. Non vi sarebbe rimedio?...

PANT. No gh’è remedio. El sior Conte xe qua adess’adesso.

ROS. Sentite il signor Florindo.

PANT. Lo sentirò, ma xe tardi.

ROS. Oh sventurata ch’io sono!

PANT. Via, fia, no ve stè a travaggiar. Finalmente sentì, Rosaura: el matrimonio, fatto con genio o contraggenio, lo paragono a un sorbetto, o a una medesina. El sorbetto se beve con gusto, ma el gusto passa e el fa mal: la medesina fa un poco de nausea, ma co la xe in stomego, la fa ben. Se no podè bever el sorbetto de sior Florindo, tolè el siroppo de sior Ottavio, e vederè che el ve farà ben. (parte)

SCENA SESTA

Rosaura sola.

ROS. Ei se la passa colle barzellette; ma io, povera disgraziata, io sento l’atroce pena che mi tormenta. L’obbedienza è una bella virtù, ma nel mio caso troppo costa a questo povero cuore. Che farò dunque? Mi opporrò ai voleri del padre? Deluderò i suoi maneggi con una manifesta disobbedienza? No, l’onestà mia nol consente, il mio costume non mi darebbe forza di farlo; ma Florindo? Potrò scordarmene? Nemmeno. Che farò dunque? Il tempo e la prudenza sono medici de’mali gravi. Chi sa? Spero ancora nella provvidenza del cielo di poter salvar il cuore, senza perdere il merito della più giusta, della più onesta rassegnazione. (parte)

SCENA SETTIMA

Altra camera di Pantalone.

Beatrice e Florindo, poi Pantalone

BEAT. Non viene mai questo signor Pantalone?

FLOR. Non avete inteso che cosa ha detto il servitore? Egli è colla signora Rosaura.

BEAT. Ella gli averà detto tutto; me ne dispiace infinitamente.

FLOR. Perché? Non lo ha da sapere?

BEAT. Voleva io essere la prima a dirglielo.

FLOR. Eccolo.

BEAT. Sentiremo, se sa ogni cosa.

PANT. (Oh diavolo! el xe qua; se savesse come far a schivarlo. No gh’ho cuor de parlarghe). (da sé)

FLOR. Servo del signor Pantalone.

PANT. Patroni reveriti.

BEAT. Eccolo qui il nostro signor Florindo. È tornato presto e con delle bellissime nuove.

PANT. Ala fatto bon viazo? (a Florindo)

FLOR. Buonissimo.

BEAT. Quando si va a nozze, si fa sempre buon viaggio.

PANT. Cossa fa so sior padre?

FLOR. Benissimo, grazie al cielo. M’impone di riverirvi.

BEAT. Il suo signor padre non vede l’ora che succeda...

PANT. Li portelo ben i so anni? (a Florindo)

FLOR. In verità, pare ringiovanito.

BEAT. E ora con questo matrimonio del figlio...

PANT. Vali ben i so negozi?

FLOR. La fortuna non lo abbandona.

BEAT. Via, dategli la lettera di vostro padre, e parliamo di quello che importa più.

FLOR. Ecco, signore, una lettera di mio padre.

PANT. Grazie. La vaniglia st’anno xela assae cara?

FLOR. Carissima.

PANT. Caccao ghe ne xe?

FLOR. In abbondanza.

BEAT. Ma via, signor Pantalone, apra la lettera, legga e senta.

PANT. Ghe xe qualcossa per ella? Gh’ala qualche premura? (a Beatrice)

BEAT. Per me non vi è niente; ma per la signora Rosaura. Ella vi avrà pur detto...

PANT. Quanto gh’ala messo da Livorno a vegnir a Venezia?

FLOR. Tre giorni da Livorno a Bologna, e tre da Bologna a Venezia.

PANT. (Fusselo almanco vegnù un zorno prima). (da sé)

BEAT. (Certamente la signora Rosaura non gli ha parlato, egli non sa ancora niente). (da sé)

FLOR. Signore, se avrete la bontà di leggere quella lettera...

PANT. Conossela a Livorno un levantin, che i ghe dise Mustafà Sissia?

FLOR. Non lo conosco.

BEAT. (Mi sento che non posso più). (da sé)

FLOR. Sapete ch’io sono stato quasi sempre in Venezia, ed ora non mi son trattenuto in Livorno che cinque giorni.

BEAT. Tanto che ha ottenuto dal padre la permissione di prendere in moglie...

PANT. I dise che Livorno xe un bel paese.

FLOR. Piccolo, ma grazioso.

PANT. Gh’ho voggia de véderlo.

BEAT. Ma via, aprite quella lettera.

PANT. L’averzirò co vorrò, patrona.

BEAT. Se non la volete aprire, vi dirò che il padre del signor Florindo accorda...

PANT. Circa quel conto delle cere, che gh’ho mandà, cossa diselo so sior pare?

FLOR. Nella lettera troverete anche questo.

PANT. Benissimo, la lezerò.

BEAT. Perché non leggerla adesso?

PANT. Adesso no gh’ho i occhiali: la lezerò.

BEAT. Sappiate che il signor Florindo ha avuto la permissione...

PANT. Ala savesto de quel fallimento de Palermo?

FLOR. Ho sentito discorrerne.

PANT. So sior pare xelo restà al de sotto?

FLOR. Credo che in quella lettera parli ancora di questo. E parmi vi avvisi d’un altro fallimento di

Livorno di un vostro corrispondente.

PANT. D’un mio corrispondente? (con alterazione)

BEAT. (Ora aprirà la lettera). (da sé)

PANT. Chi xelo sto mio corrispondente? (tira fuori gli occhiali)

BEAT. Vedete, se li avete gli occhiali? Leggete.

PANT. Ah! adesso m’arrecordo; gnente, gnente. I m’ha scritto. Gierimo del pari. (mette in tasca la lettera)

BEAT. (Che ti venga la rabbia!) (da sé)

FLOR. Signore, con vostra permissione...

PANT. Vorla andar via? La se comoda.

FLOR. Avrei da parlarvi.

PANT. Se vederermo, co la comanda.

BEAT. Deve parlarvi adesso.

PANT. Ma ella cossa gh’ìntrela?

BEAT. C’entro, perché la signora Rosaura...

PANT. Coss’è, cossa voleu? (verso la scena)

SCENA OTTAVA

Arlecchino e detti.

ARL. L’è qua el sior conte Ottavio.

PANT. Che el resta servido. El xe patron.

ARL. Questo l’è generoso. Me vôi buttar. (parte)

PANT. Se le permette. Gh’ho un interessetto co sto cavalier.

FLOR. Tornerò a darvi incomodo.

PANT. Co la comanda.

BEAT. Almeno ditegli...

PANT. Mo cara ella, no la sente che el xe un cavalier?

FLOR. Ha ragione; non lo disturbiamo. E poi il mio affare non è sì breve per trattarlo così su due piedi. Oggi sarò a riverirvi.

PANT. Ancuo, o doman. Co la vol.

FLOR. (Rosaura non gli ha detto nulla. Non so che pensare). (da sé, parte)

BEAT. Signor Pantalone...

PANT. Cara ella la prego...

BEAT. Una parola, e vado. Il padre del signor Florindo accorda...

PANT. El cavalier xe qua.

BEAT. Accorda ch’egli sposi la signora Rosaura. (L’ho detta). (da sé, parte)

PANT. Pustu parlar per l’ultima volta. No posso soffrir sta zente, che vol intrar dove che no ghe tocca. Me despiase anca mi de sior Florindo, ma no so cossa farghe, no ghe vedo remedio, e no gh’ho coraggio de dirghe a sto povero putto, che Rosaura xe dada via.

SCENA NONA

Il conte Ottavio vestito con caricatura, cioè con abito magnifico gallonato,

colle calzette nere, parrucca mal pettinata, con Arlecchino, e detto.

ARL. (Alza la portiera al conte Ottavio, e gli fa delle profonde riverenze. Ottavio lo guarda attentamente senza parlare, poi lo chiama a sé, tira fuori una borsa, e gli dona uno zecchino. Pantalone va facendo delle riverenze al conte e questi non gli abbada, osservando Arlecchino)

PANT. (Cossa t’alo dà?) (piano ad Arlecchino)

ARL. (Un zecchin). (resta sulla porta)

PANT. (Se lo digo che mia fia starà da regina). (da sé)

OTT. Servitor suo, signor Pantalone.

PANT. Servitor umilissimo. L’ho reverida ancora, ma no la m’ha osservà.

OTT. Dov’è la signora Rosaura?

PANT. Adess’adesso la vegnirà. Oe, diseghe a Rosaura che la vegna qua. (ad Arlecchino)

ARL. Sior sì. (Oh! a sto sior conte ghe ne vôi cuccar de quei pochi dei zecchini). (da sé, parte)

PANT. La prego; la se comoda.

OTT. Non sono stanco. Che dice di me la signora Rosaura? È contenta?

PANT. No vorla che la sia contenta?

OTT. Le ho portato una bagattella.

PANT. Qualche bel regalo?

OTT. Tenete, dategliela voi. (gli dà un involto di carta)

PANT. Benissimo. (Stago a véder, che la sia qualche freddura). (da sé) Possio véder?

OTT. Sì.

PANT. Olà! Zoggie? Sior conte, roba bona?

OTT. Sì, diamanti.

PANT. Cussì in t’una carta?

OTT. Della carta vi servirete voi.

PANT. Grazie. (O che omo curioso!) Questo xe un regalo da prencipe. I valerà almanco domille ducati.

OTT. (Ride)

PANT. Più, o manco?

OTT. (Ride)

PANT. Se ho dito un sproposito, la compatissa; mi no negozio de zoggie.

OTT. Mille doppie.

PANT. E cussì, in t’una carta!

OTT. Non favorisce la signora sposa?

PANT. Se la me permette, anderò mi a chiamarla. Ghe porterò ste belle zoggie. La farò consolar.

OTT. Pregatela che non mi faccia aspettare.

PANT. Vegno subito. Mille doppie in t’una carta! O che caro sior zenero! (parte)

SCENA DECIMA

Il conte Ottavio, poi Arlecchino

OTT. (Prende tabacco, poi chiama) Ehi. ARL. Comandi, lustrissimo?

OTT. Da sedere.

ARL. La servo. (Oh! se vegnisse un altro zecchin). (gli porta una sedia) Eccola obbedita.

OTT. (Siede e prende tabacco)

ARL. La perdona, lustrissimo; me ne favorissela una presa.

OTT. (Lo guarda in faccia e ripone la scatola)

ARL. La compatissa, gh’ho sto vizio, e no gh’ho tabacchiera. Tanti anni che servo, e non ho mai possudo avanzarme tanto da comprarme una scatola da galantomo.

OTT. Quanto hai di salario?

ARL. Un felippo al mese, ma me vesto del mio. La vede ben, no se pol viver. Manze no se ghe ne vede. Tutti no i xe miga generosi, come V.S. illustrissima. El cielo ghe renda merito del zecchin che la m’ha donà. Ghe ne aveva proprio bisogno. Per cavarme de un gran affanno, me ne vorria un altro. Basta, el cielo provvederà.

OTT. (Tira fuori una borsa)

ARL. (El vien, el vien) (da sé)

OTT. Cantami una canzonetta.

ARL. Lustrissimo, no so cantar.

OTT. Fammi una capriola.

ARL. Pezo. Non ho abilità, signor.

OTT. Dimmi: quanto hai rubato al padrone?

ARL. Oh! la perdona; son un galantomo.

OTT. Ai galantuomini non mancano denari. (ripone la borsa)

ARL. Ma... lustrissimo... son poveromo.

OTT. Sei povero? (tira fuori la borsa)

ARL. Illustrissimo sì, ho muggier e fioli.

OTT. È bella tua moglie?

ARL. Eh! per dirla, no l’è brutta.

OTT. A chi ha bella moglie non mancano denari. (ripone la borsa)

ARL. Oh! caro lustrissimo, ella la me poderave aiutar.

OTT. Senti una parola.

ARL. La comandi. (s’accosta)

 OTT. Sei un briccone. (all’orecchio, ma forte)

ARL. Ho capido.

OTT. Zitto, che nessuno senta.

ARL. Ma no se poderave...

OTT. (Gli fa cenno colla mano che se ne vada)

ARL. La perdoni.

OTT. (Replica il cenno)

ARL. La permetta che fazza el mio dover. (vuol baciare l’abito)

OTT. (Gli sputa in faccia, e resta colla faccia tosta)

ARL. Grazie a vussustrissima. (Se non ho avudo el zecchin sta volta, l’ho incaparrà per un’altra volta). (da sé, parte)

OTT. Bricconi! Dono quando voglio, bricconi!

SCENA UNDICESIMA

Pantalone e detto.

PANT. Son qua da ella...

OTT. Schiavo suo. (s’alza per partire)

PANT. Dove vala?

OTT. Se non viene la sposa, qui non so che cosa io deva fare.

PANT. La vien subito. La se destriga de una so amiga, e la vien. (Quella siora Beatrice sempre qua a intrigar). (da sé)

OTT. L’aspettare m’annoia.

PANT. La lo ringrazia infinitamente...

OTT. (Osserva l’orologio)

PANT. Xe ancora a bonora.

OTT. Avvertitela ch’io non aspetto mai.

PANT. Eccola qua che la vien.

OTT. Non aspetto mai.

PANT. (Tiolè, anca qua siora Beatrice. Siela maledetta! no la posso soffrir. La se ficca per tutto). (da sé)

SCENA DODICESIMA

Rosaura, Beatrice e detti; poi Arlecchino

ROS. Serva umilissima del signor conte.

OTT. Servitor umilissimo della signora contessa.

ROS. Ella mi onora di un titolo, che io non merito.

BEAT. Anch’io, signore, le sono umilissima serva.

OTT. Padrona mia. (Chi è questa?) (a Pantalone)

PANT. (Una cittadina, amiga de mia fia). (da sé)

OTT. (Non mi dispiace. È grassotta). (da sé)

PANT. Che i se comoda. Oe, portè delle careghe.

ARL. (Porta le sedie a tutti. Quando porge la sedia ad Ottavio, Ottavio si spurga. Arlecchino, per paura dello sputo, parte)

OTT. (Guarda nel viso Rosaura, senza parlare)

BEAT. Il signor conte ha donato delle belle gioje alla signora Rosaura.

PANT. Un regalo da cavalier nobile e  generoso, come che el xe.

OTT. (Seguita a guardare Rosaura)

ROS. Signore, ho io qualche cosa di stravagante, che mi guarda sì fisso?

OTT. Mi piacete.

BEAT. La signora Rosaura è una giovine veramente di merito; ha tutte le buone qualità, è bella, è graziosa...

OTT. Lo sappiamo anche noi.

BEAT. Voglio dire...

PANT. Séntela, siora Beatrice? No bisogna intrar dove no se xe chiamadi.

BEAT. (Avrei quasi piacere che Rosaura lo prendesse. È generoso, staremo allegri). (da sé)

OTT. Favoritemi della mano. (a Rosaura)

ROS. Oh signore, perdoni...

BEAT. Cara Rosaura, gradite le finezze del signor conte.

ROS. (Povero Florindo! Beatrice non si ricorda di lui). (da sé)

PANT. Via, deghe la man. Al novizzo xe lecito. No fe smorfie.

ROS. Sapete, signor padre, che io non sono avvezza.

PANT. Mia fia xe arlevada ben, sala, sior conte? Via deghe la man, che ve lo comando mi.

ROS. Per obbedire. (offre la mano al conte, col guanto)

OTT. (Osserva che ha il guanto. Ritira la mano, caccia un guanto di tasca, se lo mette, e poi dà la mano a Rosaura)

BEAT. Amor passa il guanto.

OTT. (Osserva Beatrice, che non ha i guanti. Le dà l’altra mano senza il guanto, ed ella l’accetta)

BEAT. Cinque e cinque dieci.

PANT. Amor non ha da far la fadiga de passar el guanto.

OTT. Cittadina grassotta! (a Beatrice)

ROS. (Oh! se la sorte mi liberasse da questo conte stucchevole, felice me! Lo cederei con tutte le sue ricchezze). (da sé)

OTT. Sposa mia, non voglio guanti. (a Rosaura)

ROS. Ma, signore, la civiltà... la pulizia...

OTT. Avete la rogna?

ROS. Mi maraviglio di lei. (sdegnata)

OTT. Uh! (con ammirazione, e si volta a Beatrice ridendo)

PANT. Sior conte se el temperamento de mia fia no ghe piasesse, se el fusse malcontento de sto negozio, la sappia che son un omo d’onor, capace de metterla in libertà.

OTT. (Tira fuori la tabacchiera e dà tabacco a tutti)

PANT. Gh’el digo de cuor, sala? Stimo infinitamente la so nobiltà, la so ricchezza, ma voggio ben a mia fia; e no vorave, che pentindose d’averla tiolta...

OTT. Zitto. Tenete. (offre la scatola d’oro a Rosaura)

ROS. Obbligatissima; io non prendo tabacco.

OTT. Tenete.

ROS. In verità, la ringrazio.

OTT. Grassotta, a voi. (dà la tabacchiera a Beatrice)

BEAT. A me, signore?

OTT. Favorite. (gliela dà)

BEAT. Obbligatissima alle sue grazie. (la prende)

PANT. (Eh! la se comoda presto). (da sé) Sior conte, ghe torno a dir che mia fia xe un poco rusteghetta; se el fusse pentio de volerla...

OTT. Zitto. (tira fuori una carta di tasca)

ROS. (Oh! volesse il cielo ch’ei si pentisse davvero). (da sé)

OTT. Vedete? (mostra la carta a Pantalone)

PANT. Vedo. Questo xe el nostro contratto. Se la lo vol strazzar...

OTT. Siete un uomo d’onore?

PANT. Tal me pregio de esser.

OTT. Tale voi, tale io. Quello che è scritto, è scritto. (ripone la carta)

PANT. Ma non ostante...

OTT. Questa sera mi darete la mano. (a Rosaura)

ROS. Questa sera?

OTT. Senza guanto.

PANT. Donca la vuol...

OTT. Questa sera si concluderà.

BEAT. Sì, questa sera si faranno le nozze.

PANT. Cossa gh’ìntrela ella? (a Beatrice)

OTT. Grassotta allegra, svegliate voi la mia sposa.

BEAT. Lasciate fare a me; non dubitate.

OTT. (Si mette a guardar Rosaura fisso)

PANT. (No gh’è remedio. Bisogna mantegnir la parola). (da sé)

BEAT. (È il più bel carattere di questo mondo). (da sé)

ROS. Signore, non mi avete ancora guardata?

OTT. Questa sera. Schiavo, signori. (parte)

ROS. Ah! signor padre, vedete che uomo stravagante è codesto?

PANT. La parola xe dada, e no ghe xe più remedio. El xe ricco, el xe generoso. Qualcossa s’ha da soffrir. Alle curte. Ho promesso; l’avè da tior. (parte)

ROS. Beatrice mia, e il povero Florindo?

BEAT. Eh cara Rosaura, Florindo non vi ha mai regalate di quelle gioje.

ROS. Povero infelice! E dovrò abbandonarlo?

BEAT. Eh! che tutti gli uomini sono uomini. Se io non avessi marito, vorrei liberarvi dall’incomodo del signor conte. Mille doppie di gioje? Oh che bel marito! (parte)

ROS. Il mio cuore val più di tutte le gioje di questa terra, e se dovrò perderlo, lo sacrificherò all’obbedienza, non all’idolo dell’interesse. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Camera di locanda.

Brighella in abito di campagna da viaggio. Lumaca servitore.

Camerieri d’osteria, che portanobauli ed altre cose del bagaglio della Ballerina.

BRIGH. Fe pian, fe pian con quel baul. Gh’è dentro un fornimento de porzellana de Sassonia, che val tre o quattrocento zecchini. Questa sarà la camera da ricever.

CAM. Ma noi, signore, in  questa locanda non abbiamo camere superflue. Può ricevere in quella del letto.

BRIGH. Seu matto? Siora Olivetta mia fia volè che la riceva in camera del letto? La mattina, co no la xe levada la receve in letto. Ma co la xe levada, la vol la so camera de udienza. Me despiase che no gh’è l’anticamera.

CAM. Se vuole un palazzo, in Venezia lo troverà.

BRIGH. Siguro che troverò un palazzo. A Vienna, a Berlin, a Dresda, a Lisbona, a Madrid, a Londra l’ha sempre avudo i primi appartamenti della città.

CAM. (Alle spalle de’gonzi). (da sé)

BRIGH. Tirè avanti quei do taolini.

CAM. Dove li vuole?

BRIGH. Qua, un per banda. (mettono li tavolini avanti) Lumaga.

LUM. Signor.

BRIGH. Tiò ste chiave; avri quel baul, e tira fora l’arzentaria.

LUM. La servo. (apre)

BRIGH. Cossa credeu! Gh’avemo la nostra arzentaria. (al Cameriere)

CAM. Me ne consolo.

BRIGH. E tutta fatta da siora Olivetta, colle so onorate fadighe.

CAM. Son persuaso.

LUM. (Tira fuori due candelabri, e li dà a Brighella)

BRIGH. Vedeu? Tutto arzento. (li mette sopra un tavolino)

LUM. (Ne dà altri due)

BRIGH. Altri do. Colla nostra arma. (al Cameriere, e li mette sull’altro tavolino) Le mocchette, i porta mocchette?

LUM. Eccoli.

BRIGH. Vedeu? Tutto compagno. (al Cameriere) Candele ghe n’è? (a Lumaga)

LUM. Sono finite.

BRIGH. Caro vu, quattro candele. (al Cameriere)

LUM. Di cera non ne ho; se le vuol di sevo...

BRIGH. De seo, de seo. Tanto fa.

CAM. Ma di sevo sui candelieri d’argento...

BRIGH. Cossa importa? Se stima l’arzento, no se stima le candele.

CAM. Ora la servo. (parte, poi torna)

BRIGH. Presto: fora quelle sottocoppe, quelle cogome, quel scaldapiè. Che femo un poco de palazzo. Anca i gotti, anca la saliera. Tutto l’è arzento, tutto impenisse l’occhio. (distribuisce tutto sui tavolini)

CAM. Ecco qua le candele.

BRIGH. Dè qua mo, amigo.

CAM. Se comanda, farò io.

BRIGH. Eh, lassè far a mi, che sta roba vu no la savè manizar. (mette le candele colle mani, si sporca, e si netta al giustacore)

CAM. (Povero argento! in che mani è venuto!) (da sé)

LUM. (Gli dà il bacile per le mani, e la brocca)

BRIGH. Presto un treppiè. (al Cameriere)

CAM. Subito. (va, e torna col treppiè)

BRIGH. Vedeu questo? L’ho fatto mi coi mi bezzi. Siora Olivetta non ha speso gnente.

CAM. Vossignoria negozia?

BRIGH. Ve dirò, in confidenza. Tutta la cioccolata che avanza, l’è mia. Tutti ghe ne manda; e mi metto via e vendo; e fazzo delle bagattelle. Ah! l’omo s’inzegna.

CAM. Bravissimo. (Capisco il carattere). (da sé)

BRIGH. Tiò, Lumaga, averzi quel cofrefort.

CAM. Che significa questa parola?

BRIGH. Eh poverazzi! Vualtri in Italia no savè gnente. Cofrefort è parola tedesca, vuol dir... Quel coso che è là.

CAM. Uno scrignetto, un bauletto.

BRIGH. Fe conto, una cossa simile. Tirè fora el relogio d’oro. (a Lumaca, che glielo dà) Vedeu? Londra. Repetizion. Cento doppie, ah! Ghe n’è in Italia de sta roba? Ghe n’ale le ballerine de sti tesori? Poverazze! bisogna che le ghe fazza de cappello a siora Olivetta.

CAM. L’ha guadagnato colle sue fatiche?

BRIGH. S’intende. Un milord ghe l’ha donà una sera, perché l’ha fatto una decima.

CAM. Che cos’è questa decima?

BRIGH. Eh! cossa saveu, sior alocco? Presto quei stucchi, le scatole, i anelli, le zoggie.

CAM. Che belle cose!

BRIGH. Vedeu sto anello? Vedeu sto boccon de brillante?

CAM. Lo vedo.

BRIGH. Un prencipe tedesco l’ha donà a siora Olivetta, perché l’ha avudo la sofferenza de farse far el so ritratto.

CAM. È fortunata.

BRIGH. Che fortuna! merito, merito, sior, merito. Bisognerà po metter dei taolini, tirar delle corde.

CAM. Per che fare?

BRIGH. Per destender i abiti, acciò che i chiappa aria.

CAM. Ne ha molti?

BRIGH. La se muda ogni zorno, e qualche zorno do volte.

CAM. Mi chiamano, con sua buona grazia.

BRIGH. Comodeve.

CAM. Mi dona nulla per aver aiutato a portare?

BRIGH. Sior sì; volentiera. Mi no me fazzo vardar drio. Tolè.

CAM. Due soldi? A me due soldi?

BRIGH. Cossa voleu che ve daga?

CAM. Se vostra figlia li avesse guadagnati a due soldi la volta starebbe fresca. (parte)

BRIGH. Gran bricconi che i è sti camerieri. Via, dighe a siora Olivetta, che se la comanda vegnir in camera de udienza, l’è all’ordene. (a Lumaca)

LUM. Sì, signore. (Due anni sono, la camera d’udienza era la cucina). (da sé, parte)

BRIGH. M’ingrasso a véder sta roba, sta bella arzentaria. Povera putta! La gh’ha maniere cussì belle, che la cavaria la roba dai sassi.

SCENA QUATTORDICESIMA

Olivetta col servitore che le alza la portiera, e detto.

OLIV. Grand’asino! Un poco più, mi guastava il tuppè.

BRIGH. Cossa feu, fia? Seu più stracca dal viazo?

OLIV. Non sono stanca, ma ho ancora nel naso il puzzo della barca.

BRIGH. Gh’aveu gnente da nasar?

OLIV. Sì, ho quest’acqua di melissa.

BRIGH. Oe, quella bozzettina d’oro no l’ho più vista.

OLIV. È un mobile nuovo.

BRIGH. Da quando in qua?

OLIV. In barca.

BRIGH. Brava!

LUM. (In barca non l’ha guadagnata a far le capriole). (da sé)

BRIGH. Voleu lavarve le man?

OLIV. Me le ho lavate.

BRIGH. No ve le avè miga lavade col bazil d’arzento.

OLIV. Che importa?

BRIGH. Cara vu, lavevele un’altra volta. Me par che no le gh’abbiè troppo nette.

OLIV. Ho preso tabacco.

BRIGH. Vedeu? A mi me piase la pulizia. Lavevele col bazil d’arzento.

OLIV. Farò come volete.

BRIGH. Presto, da sentar. (a Lumaca, che prende una sedia) Porta avanti quel bazil. Va a tor dell’acqua. Ecco qua la saonetta. Tutto arzento, tutto arzento.

OLIV. Lumaca.

LUM. Illustrissima.

OLIV. Una guantiera per mettere questi anelli.

BRIGH. Tiò una sottocoppa d’arzento.

LUM. (Prende la sottocoppa con una mano, e coll’altra la brocca coll’acqua, versandone nel bacile)

OLIV. (Lavandosi) Lumaca, vammi a prendere lo sciugatoio.

BRIGH. Quello bello, coi pizzi di Fiandra.

LUM. Ma questa roba...

BRIGH. Lassa véder a mi. (prende egli tutto, Lumaca parte)

OLIV. Mi dispiace, signor padre, che abbiate questo incomodo.

BRIGH. Niente, figlia; ho l’onore di favorirvi.

SCENA QUINDICESIMA

Il CAMERIERE, e detti.

CAM. Signori...

BRIGH. Oh diavolo! Lumaga.

CAM. Un cavaliere...

BRIGH. Lumaga... Caro vecchio, tegnì sta roba.

CAM. Ma senta...

BRIGH. Tegnì sta roba. (il Cameriere prende la sottocoppa) Adesso parlè.

CAM. Un cavalier forestiere, alloggiato in questa locanda, vorrebbe farle una visita.

BRIGH. Oe. Subito cavalieri. (a Olivetta)

OLIV. (Lavandosi) E chi è questo cavaliere?

CAM. Un certo signor conte Ottavio, forestiere.

OLIV. Sarà qualche spiantato.

BRIGH. La mia putta no riceve visite.

CAM. Anzi è ricco; è generoso.

OLIV. Basta, se comanda, è padrone.

BRIGH. Semo tutti forestieri, che el se comoda.

CAM. Tenga. Anderò a dirgli che passi.

BRIGH. Lumaga. Siestu maledetto! Servì, servì la padrona. Anderò mi a introdurlo. (parte)

OLIV. Gettate l’acqua. (Cameriere getta) Bel bello, che non mi bagnate li manichetti. Voi altri camerieri di locanda, siete asini, non sapete far nulla.

CAM. (Or ora le getto l’acqua sul tuppè). (da sé)

SCENA SEDICESIMA

Il conte Ottavio e Brighella, e detti; poi Lumaca

BRIGH. Siora Olivetta, ghe presento sto cavalier.

OLIV. Serva divota. (s’alza un poco) Perdoni, mi trova qui lavandomi le mani.

OTT. Lavatevi pure tutto quel che volete.

OLIV. S’accomodi.

BRIGH. Deghe da sentar. (al Cameriere)

CAM. Ma come... (accenna aver le mani ingombrate)

BRIGH. Dè qua. Deghe da sentar. (prende egli la brocca) Lumaga.

CAM. Si serva, illustrissimo. (dà la sedia ad Ottavio)

OTT. (siede)

OLIV. L’asciugatoio. (a Lumaca)

BRIGH. Elo quello coi pizzi de Fiandra? Tien saldo. (dà la sottocoppa a Lumaca)

OTT. Voi siete ballerina?

OLIV. Per servirla. (si va asciugando e mettendo gli anelli)

BRIGH. Ma no l’è miga de ste ballerine d’Italia, sala, signor.

OTT. Siete francese?

OLIV. No, signore, sono italiana.

OTT. Italiana tutta?

OLIV. Come tutta?

OTT. Galantuomo. (a Brighella, ridendo)

BRIGH. A mi?

OTT. Sì, a voi.

BRIGH. La perdoni...

OTT. Non siete galantuomo?

BRIGH. Son galantomo; ma son el padre de siora Olivetta.

OTT. Datemi una presa di tabacco.

BRIGH. Ho perso la scatola, signor.

OTT. Mi dispiace. N’aveva una, l’ho data via.

BRIGH. Deghene una presa del vostro, de quello della scatola d’oro. (a Olivetta)

OLIV. Lo servirei; ma veda. Non ne ho più. (mostra la scatola vuota)

OTT. Lasciate vedere. (prende la scatola)

BRIGH. Parigi, sala? E tanto val l’oro, quanto la fattura.

OTT. (Mette nella scatola delli zecchini) Compratevi del tabacco.

OLIV. Oh, troppo incomodo.

BRIGH. (Me piase; el sa far pulito). (da sé) Cara fia, lassè che veda se podesse, nettando la scatola, trovarghene una presa. Gh’ho sto vizio, e no gh’ho scatola.

OLIV. Tenete. (dà la scatola a Brighella)

BRIGH. (Apre e conta piano li zecchini) (No gh’è mal). (da sé)

OTT. Quest’anno dove ballate?

OLIV. Ancora non lo so.

BRIGH. Avemo molti trattati; ma nissun ne comoda. La mia creatura no balla né per dusento, né per tresento zecchini. Grazie al cielo, no ghe ne avemo bisogno.

OTT. Ehi?

SCENA DICIASSETTESIMA

Il CAMERIEREe detti.

CAM. La comandi.

OTT. Al mio cameriere, che mi porti la veste da camera e la berretta.

CAM. Sarà servita. (parte)

OLIV. (Non credo mai, che si spoglierà qui). (da sé)

BRIGH. Feghe véder mo a sto cavalier quella bella corniola.

OLIV. Osservi. (gli mostra un anello)

OTT. È troppo sporca.

BRIGH. Giusto per questo, védela, perché la figura è un poco lascivetta, mia fia, che xe modesta, la no la porta volentiera; la se ne vorria desfar.

OTT. La volete vendere? (a Olivetta)

BRIGH. La la vol metter al lotto.

OTT. (Che birbe! Non si contentano mai). (da sé)

BRIGH. Un zecchin al bollettin; se trovessimo diese bollettini soli, la cavaressimo subito. (La val do zecchini). (da sé)

OTT. Bene. Oggi si caverà.

BRIGH. Dove, signor?

OTT. Dalla mia sposa.

OLIV. Si fa sposo? Me ne rallegro.

OTT. (Dieci zecchini!) (da sé)

BRIGH. Chi èla, se è lecito, la sua sposa?

OTT. (Guarda Brighella in faccia, poi dice da sé) (La sanno lunga).

BRIGH. (Faremo sto lotto). (piano a Olivetta)

OLIV. (È un cavalier generoso).

BRIGH. (El se marida presto).

OLIV. (Si ammoglierà per usanza).

OTT. È la signora Rosaura Bisognosi. (a Brighella, guardandolo)

BRIGH. Chi, signor?

OTT. La mia sposa.

BRIGH. (Oe, adesso el responde).

OLIV. La signora Rosaura?

OTT. La conoscete?

OLIV. È mia amica.

BRIGH. Se conossemo che è un pezzo. (No vorria che i ghe disesse, che mi era el so servidor). (da sé)

OTT. Se oggi verrete da lei, tireremo il lotto.

OLIV. Che dite, papà?

BRIGH. Anderemo, cara, anderemo. Ne favorirala la gondola?

OTT. (Anche la gondola?) (da sé) Sì, la gondola.

SCENA DICIOTTESIMA

Il cameriere di Ottavio colla vesta da camera e la berretta; e detti.

OTT. (S’alza, e si cava la parrucca)

OLIV. (Oibò). (s’alza)

BRIGH. (Poco rispetto a mia fia). (da sé)

OTT. (Si vuol cavar l’abito)

OLIV. Con sua licenza.

OTT. Andate via?

OLIV. Se mi permette. Ho un affar di premura.

OTT. Venite a pranzo con me.

OLIV. Perdoni...

BRIGH. Riceveremo le sue grazie.

OLIV. (Questi uomini, che hanno poca creanza, non li posso soffrire). (da sé, parte)

OTT. (si fa cavar l’abito)

BRIGH. Gran bel abito, signor!

OTT. (Lo prende e lo getta in faccia a Brighella)

BRIGH. Come! Perché me fala sto affronto?

OTT. Ve lo dono.

BRIGH. La me lo dona?

OTT. Sì, schiavo. (parte)

BRIGH. No so cossa dir. L’è un affronto, ma el se pol sopportar. Sto abito mo cussì ricco, lo possio portar? Sior sì. Son padre de una vertuosa. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada con casa.

Florindo solo.

FLOR. Misero me! Sarà vero ciò che dagli amici mi viene avvertito? Rosaura sposa del conte Ottavio? Ma come, se poche ore sono mi accolse con tanto giubbilo? Potrebbe darsi ch’ella non lo sapesse... Ma il signor Pantalone medesimo non me lo avrebbe egli detto? È però vero che ripensando ora al modo suo di parlare, alla poca premura di aprir la lettera, mi entra qualche sospetto. È necessario ch’io mi chiarisca del vero. In casa sua non ho coraggio d’andare. L’attenderò sulla strada. Se questo è vero, non so a qual eccesso mi trasporterà la disperazione.

SCENA SECONDA

Beatrice in zendale, di casa di Pantalone, con un servitore, e detto.

BEAT. Presto, presto; a casa, che mio marito mi aspetterà. (al Servitore)

FLOR. Riverisco la signora Beatrice.

BEAT. Oh! signor Florindo. Da queste parti?

FLOR. Appunto, signora, premevami di riverirvi.

BEAT. (Povero giovane!) (da sé) Comandatemi.

FLOR. Vi supplico, in grazia: vi è qualche novità rispetto alla signora Rosaura?

BEAT. Caro signor Florindo, non so che dire. Delle novità ce ne sono, e non si possono tener nascoste.

FLOR. Dunque è vero ch’ella è promessa sposa del conte Ottavio?

BEAT. Chi ve l’ha detto?

FLOR. Persone che professano di saperlo.

BEAT. Sentite, amico: io sono una donna sincera, che non sa dir che la verità. Vi dico in confidenza, che il signor Pantalone ha promessa sua figlia al conte Ottavio.

FLOR. Ma quando?

BEAT. Questa mattina. Due ore prima della vostra venuta.

FLOR. E la signora Rosaura non lo sapeva?

BEAT. Non lo sapeva.

FLOR. E ora che lo sa, che cosa dice?

BEAT. Che cosa volete ch’ella dica? Quando il padre comanda, bisogna obbedire.

FLOR. E con tanta facilità si scorderà dell’amor mio? Possibile che voglia anteporre quello del conte Ottavio?

BEAT. Le ha fatto un regalo di gioje, che val mille doppie.

FLOR. Ah! signora Beatrice, son disperato.

BEAT. Povero giovine! Se sapeste quanto me ne dispiace!

FLOR. Per amor del cielo, raccontatemi come la cosa è andata.

BEAT. Mi dispiace, che è tardi. Mio marito mi aspetta.

FLOR. Credeva Rosaura che meco le fossero mancate gioje? Non sa ch’io sono figlio unico di un padre ricco?

BEAT. Le ha fatto il conte anche diecimila ducati di contraddote.

FLOR. Che contraddote? Sarebbe ella stata padrona di tutto il mio.

BEAT. Già se ne pentiranno. Giuoco questa scatola d’oro, che se ne pentiranno.

FLOR. Il loro pentimento non medicherà le mie piaghe. Ah! signora Beatrice, voi sapete quanto ho amato Rosaura.

BEAT. Lo so, lo so. Mi ha confidato ogni cosa.

FLOR. Apposta per lei sono andato a Livorno, son ritornato a Venezia.

BEAT. Spesa, incomodi, patimenti: tutto per lei.

FLOR. Quante lagrime ho sparse a’piedi del mio genitore, per ottenerla!

BEAT. Lo credo in verità.

FLOR. In venti giorni ch’io manco, non credo aver dormito due notti.

BEAT. Quando si vuol bene, si fa così.

FLOR. Pazienza! Se l’ho da perdere, pazienza; ma che ella medesima si scordi di me con tanta facilità, non lo posso soffrire; sento che mi si spezza il cuore nel petto.

BEAT. (Mi fa compassione davvero). (da sé)

FLOR. Barbara! Ingrata! Tante promesse, tanti giuramenti, tante belle speranze! Oh cielo! Non posso più.

BEAT. Or ora fate piangere ancora me. (piange)

FLOR. E non vi è più rimedio? Ho da essere disperato? Pietà, signora Beatrice, pietà.

BEAT. Povero giovine!... Se potessi... Orsù, venite con me.

FLOR. Dove?

BEAT. Andiamo da Rosaura.

FLOR. Dalla signora Rosaura?

BEAT. Sì, venite con me, e non pensate altro.

FLOR. Ma... suo padre...

BEAT. Suo padre credo non sia in casa. Andiamo.

FLOR. Ah! Signora, non mi ponete in cimento...

BEAT. Che debolezza! Risoluzione vi vuole.

FLOR. Che cosa pensereste di fare?

BEAT. Andiamo da Rosaura, e qualche cosa sarà. Due che si vogliono bene... Una buona amica di mezzo... Qualche cosa sarà.

FLOR. Ma non vi aspetta vostro consorte?

BEAT. Quando si tratta di queste cose, non m’importa né men del marito. Andiamo. (lo prende per mano, e lo conduce in casa)

FLOR. Cielo, aiutami.

BEAT. Son così fatta, non posso veder penare. (entrano in casa di Pantalone)

SCENA TERZA

Camera di Rosaura con tavolino.

Rosaura sola.

ROS. Ecco come un solo momento divide il bene dal male, il piacer dal dolore. Due ore prima era io la più contenta donna del mondo; ora sono la più dolente, la più sventurata. Come mai Florindo riceverà la funesta notizia della risoluzion di mio padre? Chi sa, s’egli ancora ne sia consapevole? Come apprenderà il di lui cuore la necessità in cui sono di dover obbedire e sagrificarmi? La crederà egli incostanza, infedeltà? Oh cielo! Sarebbe il maggiore de’miei tormenti, che Florindo mi riputasse un’ingrata, un’infida! Qualunque abbia ad essere il mio destino, vorrei almeno disingannarlo, assicurarlo almeno, che obbedirà al mio genitore la mano, sopra di cui ha egli l’autorità e l’arbitrio; ma non il mio cuore, il quale non è più in istato di obbedire né a lui, né alla mia ragione, né alla mia volontà. Sì, è tuo questo cuore, caro il mio adorato Florindo. Lo sarà sempre ad onta d’ogni legame; ma lo sarà in segreto, ma lo saprò io sola. Ah! che di questi miei sentimenti Florindo potrebbe essere mal persuaso; e ad onta di tutta la mia passione, potrebbe credermi o lieta, o indifferente per le odiate nozze che mi sovrastano. È necessario che mi giustifichi in qualche modo. Lo farò con un foglio, in cui misurando i termini fra il dovere di figlia onesta, e la tenerezza d’amante infelice, spieghisi il mio cordoglio, senza porre in pericolo la mia onestà. Cosa malagevole a farsi, ma necessaria a un animo forte, che in mezzo alle passioni più tenere sa distinguere e preservare il dovere, la virtù, il merito dell’obbedienza e quello d’una cieca rassegnazione. (siede, e si pone a scrivere) Sì, questi termini sono adattati. (dopo avere scritto qualche riga) Oh cielo! Posso lasciar correre questa parola? Sì, moderandola. (scrive) No, pensiamoci... questo sentimento è meglio adattato. (scrive) Una povera figlia, un’amante dolente avrebbe bisogno di chi le desse consiglio. Ma chi è in oggi, che dar sappia i consigli con sincerità e giustizia? (scrive) Ah! Beatrice, Beatrice... Non so che pensare della tua amicizia: mi sembra interessata, volubile, lusinghiera. Farò senza di lei. (scrive) Alfine, ciò ch’io scrivo non può cagionarmi né rossor, né rimorso... Il conte istesso non potrebbe offendersi di tai sentimenti. Mio padre molto meno... Sento gente... Chi sarà mai? Beatrice? Venga; quantunque siami sospetta, la consulterò per prudenza, ma ascolterò con cautela.

SCENA QUARTA

Beatrice e detta.

BEAT. Rosaura, siete sola?

ROS. Sì, lo vedete.

BEAT. Scrivete?

ROS. Scrivo.

BEAT. A chi?

ROS. Oh cielo! Al signor Florindo.

BEAT. Volete fargli capitar la lettera presto?

ROS. Sentitela, e ditemi il parer vostro.

BEAT. Non vi è tempo da perdere. Se volete fargliela avere, l’occasione è opportuna.

ROS. Come?

BEAT. Piegatela subito. Ora vi troverò chi gliela porterà senza dubbio.

ROS. Subito?...

BEAT. Sì, subito, in un momento. (parte)

ROS. Sia come esser si voglia. Parmi non aver errato, così scrivendo. La manderò... (va piegando la lettera)

SCENA QUINTA

Beatrice, Florindo e detta.

BEAT. Ecco chi gli porterà la lettera. (conducendo per mano Florindo)

ROS. Oh cielo! (lascia la lettera sul tavolino, e s’alza)

FLOR. (Ingrata!) (da sé)

ROS. Voi qui?

FLOR. Sì, barbara, io qui a rimproverarvi della vostra incostanza...

BEAT. Oh! Io non vi ho qui condotto per far il bravo. Parlate con civiltà; Rosaura è ragazza da darvi soddisfazione.

ROS. Già fra me stessa ne dubitai, che voi mi credeste a parte della risoluzion di mio padre. Ah! Florindo, non mi fate così gran torto...

BEAT. Poverina! Ella non ci ha colpa.

FLOR. Ma voi non mi diceste?... (a Beatrice)

BEAT. Che suo padre, vi dissi, l’ha promessa al conte.

FLOR. Ed ella...

BEAT. Io l’ho veduta piangere per amor vostro.

FLOR. Non so che cosa credere. Rosaura, per amor del cielo, svelatemi sinceramente la verità. M’amate voi? Siete voi fedele a chi v’ama? Se foste in necessità di lasciarmi, penereste a farlo?

BEAT. Che domande! Guardatela.

ROS. In questo foglio, dubitando di non vedervi, a voi io manifestava il mio cuore. Leggetelo, e comprendete da questo... (vuol dargli la lettera)

BEAT. Che bisogno vi è di una lettera, quando potete parlare a bocca? Ditegli i vostri sentimenti con libertà. Non vi prendiate soggezione di me. Son vostra amica, vi compatisco, e dove posso aiutar l’uno e l’altro, lo farò volentieri.

FLOR. Sì, cara, ditemi se mi amate.

ROS. Oh cielo! Vi amo, ma...

BEAT. Questo ma lasciatelo nella penna. Ella vi ama; e voi l’amate?

FLOR. Sapete ch’ella è l’anima mia.

BEAT. Pensiamo al rimedio.

ROS. Qual rimedio, Beatrice? Voi sapete pure...

BEAT. So tutto; ma il mondo è pieno di questi casi. Anche Livia si è maritata sei mesi sono contro il voler di suo padre, ed ora tutte le cose sono accomodate. Non ho tanti capelli in capo, quante ne conosco io che hanno fatto l’istesso.

ROS. L’esempio delle femmine pazze non dee regolare le savie. Livia si è maritata contro il voler di suo padre; ma che disse il mondo di lei? Come si parlava nei circoli della sua imprudenza, della sua ardita risoluzione? Dopo sei mesi si acquietò, è vero, il di lei genitore, persuaso dall’amore paterno e dalla necessità, che dopo il fatto consiglia; ma ha ella pertanto riacquistato il decoro? No certamente. Ella non si affaccerà ad una conversazione, che di lei non si mormori dalle medesime amiche sue. Ad ogni sua lode si contrapporrà la passata sua debolezza, si ricorrerà ad una tale memoria, qualunque volta vorrassi discreditarla. Lo sposo istesso, e molto più i di lui congiunti, la pungeranno talora su questo passo, e sarà ella portata per esempio delle pazze risoluzioni, come una femmina che non si deve imitare.

BEAT. Belle parole, ma non vagliono un fico.

FLOR. Signora Rosaura, capisco benissimo, e lodo il savio modo con cui pensate. Non ardirei né meno io di proporvi una risoluzione, che offendesse il vostro decoro. Udite ciò che mi pare accordabile dall’amor vostro...

BEAT. Se vi tratterrete in chiacchiere, perderete il tempo.

FLOR. Signora Beatrice, permettetemi ch’io parli.

ROS. Cara amica, in queste contingenze non si precipitano le risoluzioni.

BEAT. A quest’ora io avrei risoluto.

FLOR. Come?

BEAT. Una bellissima promissione fra voi altri due: una toccatina di mano, alla mia presenza e del mio servitore, manda a spasso il signor conte Ottavio.

ROS. Questo è quello ch’io non intendo di voler fare.

FLOR. Almeno promettetemi di non acconsentire alle nozze del conte.

ROS. Vi posso promettere di non accordargli il mio cuore; ma della mia mano vuol disporre miopadre.

BEAT. Ad uno la mano, e ad un altro il cuore; anche questo potrebbe passare per un matrimonio alla moda.

ROS. Ma questo cuore, ch’io forse sarò costretta di concedere a Florindo, non mi consiglierà né meno a vederlo, non che trattarlo.

BEAT. Consolatevi, signor Florindo, che starete allegro. (con ironia)

FLOR. Ah! Rosaura, voi mascherate la mia sventura.

ROS. Vi parlo col cuor sulle labbra.

FLOR. Voi date una soverchia estensione all’autorità del padre.

ROS. Sono avvezza a obbedirlo.

FLOR. Mi avete pure amato.

ROS. Sì, ed egli si compiacea ch’io vi amassi.

BEAT. E adesso, perché si mutò egli tutto ad un tratto, può pretendere che vi cangiate anche voi?

FLOR. Dice bene la signora Beatrice; se è uomo ragionevole, non vi vorrà costringere a sì duro passo.

ROS. Può darsi ch’ei lo conosca; che trovi il mezzo termine per disimpegnarsi. L’ho sentito io stessa dar degl’impulsi al conte per lo scioglimento di sua parola.

FLOR. Speriamo dunque.

ROS. Speriamo.

BEAT. Ma assicuriamoci intanto.

SCENA SESTA

Pantalone e detti.

All’arrivo di Pantalone che li sorprende, tutti restano ammutoliti. Rosaura abbassa gli occhi;Florindo si cava il cappello, e rimane confuso; Beatrice va dimenando il capo; stanno qualche momento in tali atteggiamenti, senza parlare; finalmente Pantalone fissa gli occhi a Rosaura, e dice:

PANT. Andè via de qua.

ROS. (Si mortifica; e parte senza parlare, e senza mirar nessuno)

BEAT. (Seguita a dimenar il capo)

PANT. Patroni, xe ora de disnar. (con cera brusca)

BEAT. Mio marito avrà pranzato.

PANT. No, la veda. L’ho visto andar a casa giusto adesso.

FLOR. Andiamo, signora Beatrice.

BEAT. Diavolo! Avete paura che vi mangi la parte vostra? Me n’anderò. (agitandosi per la scena)

PANT. La compatissa, patrona. Mi son un galantomo, e alla mia tola no ricuso nissun. Da mi la xe restada delle altre volte, e se la vol, no la cazzo via.

BEAT. Un’amica di tanti anni! sarebbe bella. (si leva il zendale, ed entra per dove è entrata Rosaura)

PANT. (Tolè, la vol restar a disnar). (da sé)

FLOR. (Beatrice resta, ma io partirò). (da sé) Signor Pantalone, gli son servo.

PANT. Patron mio reverito.

FLOR. Non voglio incomodarla, perché è ora di pranzo.

PANT. No so cossa dir: la fazza ella. Ma in casa mia, specialmente co no ghe son mi, la prego de no ghe vegnir.

FLOR. Parleremo con comodo. (alterato)

PANT. Co la comanda.

FLOR. E parleremo in un modo, che forse vi dispiacerà.

PANT. Come, patron? Cossa voravela dir?

FLOR. Con comodo, con comodo. (andando)

PANT. La se spiega.

FLOR. Vi porto rispetto...

PANT. La me lo perda, se ghe basta l’anemo.

FLOR. Lo scriverò a mio padre.

PANT. La ghe lo scriva anca a so sior nonno.

FLOR. Farmi andar a Livorno? Farmi tornar a Venezia?

PANT. Chi gh’ha dito che la vaga, chi gh’ha dito che la torna?

FLOR. Ma voi sapevate il motivo della partenza; vi era noto l’imminente mio arrivo.

PANT. Bisognava scriver.

FLOR. Dovevate aspettare.

PANT. La ghe ne sa pochetto, patron. Vago a disnar. (incamminandosi)

FLOR. Ve ne pentirete.

PANT. Me pentirò? Come? (torna indietro)

FLOR. Parleremo con comodo. Servitor suo. (vuol partire)

PANT. Se gh’avessi giudizio, no parleressi cussì. Se avessi scritto, v’averave aspettà. Se fussi vegnù un zorno avanti, la saria stada vostra.

FLOR. Ma, caro signor Pantalone, possibile che non vi sia rimedio? (dolcemente)

PANT. Sto remedio mi no ghe lo so véder. Ho dà parola, ho sottoscritto el contratto. Cossa voleu che fazza?

FLOR. Discorriamola un poco. Vediamo, se si può trovar qualche mezzo termine.

PANT. Xe tardi. Bisogna che vaga a tola. Con so bona grazia. (s’incammina)

FLOR. So io quel che farò. (forte)

PANT. Cossa farala patron? (torna indietro)

FLOR. Niente.

PANT. La diga, cossa farala?

FLOR. Niente, dico. La riverisco. (vuol partire)

PANT. Mi, mi ghe farò far giudizio.

FLOR. Che giudizio? Che cosa intendereste di fare? (torna indietro)

PANT. Sior sì, ghe farò far giudizio. De mia fia mi son patron, e no gh’ho bisogno delle so bulae, e qua se fa far giudizio ai matti.

FLOR. Parleremo meglio.

PANT. La diga.

FLOR. Parleremo meglio. (parte)

SCENA SETTIMA

Pantalone solo.

PANT. Sì ben, parleremo. Vardè che canapiolo1[1]! el crede farme paura. Giusto adesso mo son in pontiglio de no ghe la dar. Nassa quel che sa nasser; anca che sior Ottavio no la volesse, Florindo no la gh’averà più, casca el mondo. E quella temeraria de mia fia, se l’averà più ardir de parlar, de vardar, e gnanca de pensar a Florindo, la saverò castigar. Tolè! i giera qua tutti do, con quella cara siora Beatrice de mezzo. Oh che cara siora Rosaura! tutta modestia, tutta obbedienza, tutta rassegnazion; ma se no capitava qua, sa el cielo cossa se macchinava. Chi è de là? In tola. (siede al tavolino, e scrive) Quattro fia sie e otto 32; batter quattro, resta 28; do de provision... Eh! no so gnanca cossa che fazza; sto conto no me vien ben. Che carta xe questa? Una lettera? El xe carattere de mia fia. A sior Florindo? Brava! Una lettera a sior Florindo? Sentimo, mo.

Signor Florindo,

Quanto io v’abbia amato, voi lo sapete; e dopo un sì grande amore, sarete ben persuaso, che senza pena non potrò da voi distaccarmi. La mia fede ve l’ho serbata, finché ho potuto; ma se mio padre vuol disporre di me altrimenti, sono in necessità di obbedirlo. Il mio cuore, che ho in voi collocato, durerà fatica a ritornarmi nel seno, né io farò gran forza per ritirarlo; ma ad onta ancora di viver senza cuore, la mia mano sottoscriverà il decreto del padre, e morirò obbediente, prima che sopravvivere ingrata. Rassegnatevi anche voi colla vostra virtù ai voleri del cielo; e se questo non muovesi per noi a pietà, scordatevi di me, se potete, quantunque io non mi possa scordar di voi.

Rosaura Bisognosi.

Cossa séntio? Rosaura ubbidiente a sto segno? Ella stessa licenzia una persona che l’ama tanto? Poveretto mi! Cossa mai oggio fatto? Un’unica fia, che ghe vôi tanto ben, la sagrifico miseramente, la rendo infelice per tutto el tempo de vita soa? Ma come mai possio far? Come possio liberarme da sior conte Ottavio? No ghe xe remedio. Co ghe n’ho dà un motivo, el m’ha cazzà la scrittura in tel muso. Son un omo d’onor. Gh’ho promesso, ho sottoscritto. No trovo cao da cavarme[2]. Orsù, l’è fatta. Rosaura xe una putta prudente; e quella virtù che la fa esser con mi ubbidiente, la farà deventar amorosa per el novo consorte, e rassegnada al destin. (parte)

SCENA OTTAVA

Camera di locanda.

Arlecchino ed il cameriere di locanda.

ARL. Disim, caro amigo, se poderia saludar missier Brighella?

CAM. Chi è questo messer Brighella?

ARL. Un bergamasco me paesan, che avemo servido insieme in casa de sior Pantalon. I m’ha dito, che l’è allozà in sta locanda.

CAM. È forse padre d’una ballerina?

ARL. Giusto; el padre de Olivetta.

CAM. Olivetta! Parlate con rispetto. Il suo servitore le dà dell’illustrissima.

ARL. Eh! donca no la sarà quella.

CAM. Suo padre non è un uomo alto, nero di faccia, gran parlatore?

ARL. Giusto cussì. L’è Brighella senz’altro.

CAM. Bene, sono questi, e sono qui alloggiati.

ARL. Li vorria saludar.

CAM. Sono a pranzo.

ARL. Cossa importa? Ho domandà licenza al patron. Disnerò con lori.

CAM. Sono a pranzo con un cavalier forestiere.

ARL. Diseghelo, che son qua.

CAM. Or ora hanno finito; aspettate un poco.

ARL. No vedo l’ora de véder el me caro Brighella; s’avemo sempre voludo ben.

CAM. Mi pare impossibile, perché ha una superbiaccia terribile.

ARL. Eh! con mi nol averà superbia. Semo sempre stadi come fradelli; caro vu, fem el servizi; diseghe che el vegna qua, che ghe vôi parlar.

CAM. Glielo dirò; ma non verrà.

ARL. Perché?

CAM. Non vorrà lasciare la figlia sola con quel forestiere in camera.

ARL. Provè a dirghelo. Fem sto servizio. Ma no ghe disi chi sia. Ghe vôi far un’improvvisata.

CAM. Ora glielo dico. (Pensate se monsieur Brighella si degnerà di costui). (da sé, parte)

ARL. Oh che caro Brighella! No ved l’ora de véderlo. Vôi retirarm un tantin, per arrivarghe all’improvviso. (si ritira)

SCENA NONA

Brighella ben vestito, e detto.

BRIGH. Restate, restate, figlia. Giuocate alle carte col signor conte. (verso la porta)

ARL. (Cappari! L’è vestì da siorazzo[3]!) (da sé)

BRIGH. Chi è che me domanda?

ARL. Son mi, paesan. Ben vegnudo. Ho savù che ti è vegnù a Venezia; te son vegnudo a trovar.

BRIGH. Sì, te vedo volentiera. Ma a mi sto tu el se poderia sparagnar.

ARL. No semio amici? No semio camerade?

BRIGH. Altri tempi, altre cure. Ti, poverazzo, ti è ancora un povero servitor; mi son qualcossa de

più. ARL. Coss’et, caro ti?

BRIGH. No ti vedi in che figura che son?

ARL. Vedo; me ne consolo: ma caro ti...

BRIGH. A monte sto ti. Parla con un poco più de respetto.

ARL. Caro signor Brighella, la compatissa.

BRIGH. Cosa fate? State bene?

ARL. Mi stago ben, e ti?...

BRIGH. Son stufo de sto ti.

ARL. Mo se no me posso tegnir. Com’ela? Me ne consolo. Ti... Vossignoria ha fatto fortuna.

BRIGH. Se ti vedessi mia fia!

ARL. Stala ben Olivetta?

BRIGH. Coss’è sta Olivetta?

ARL. Domando umilissimo perdon. Cossa fa l’illustrissima to fia?

BRIGH. Se vede ben, che ti gh’ha dell’omo ordenario. La sta ben.

ARL. Me ne consolo.

BRIGH. Cossa fa sior Pantalon?

ARL. El nostro patron? El sta ben.

BRIGH. E so fia?

ARL. La se fa novizza.

BRIGH. Lo so. Col conte Ottavio, n’è vero?

ARL. Sì, con ello. Se ti savessi che cavalier generoso!

BRIGH. Eh! lo so. Semo amici.

ARL. Amici?

BRIGH. Sì. Avemo disnà insieme anca sta mattina. Se pratichemo con confidenza.

ARL. Mo se l’è un siorazzo grando e ricco.

BRIGH. E mi, cossa credistu che sia?

ARL. Coss’estu deventà? Cónteme, caro ti.

BRIGH. Arlecchin, co sto darme del ti, ti la passerà mal.

ARL. Cara ella, la me conta.

BRIGH. No ti sa, che siora Olivetta xe la prima ballarina d’Europa?

ARL. Cossa mo vol dir?

BRIGH. Vol dir che gh’avemo un mondo de roba, un mondo de bezzi, un mondo de zoggie. Oe! fina l’orinal d’arzento.

ARL. Prego el cielo che la possia aver el cantaro d’oro.

BRIGH. Oh! Arlecchin, se ti vedessi che figura che fa le mie vissere sul teatro! Oh che roba! I omeni i casca morti co i la vede; i se butta fora dei palchi. Un sora l’altro; casca el teatro, el precipita. No se pol star saldi.

ARL. Prego el cielo de no la véder mai.

BRIGH. Perché mo?

ARL. Se casca el teatro, no me vorave copar.

BRIGH. Eh! va via, buffon. Se ti avessi sentio a Vienna cossa che i diseva in todesco, co la ballava!

ARL. Cossa diseveli, caro ti?

BRIGH. Caro ti!

ARL. Cossa diseveli, cara ella?

BRIGH. Brig, luch, nix, fauch, mi intendo tutto el todesco.

ARL. Sì? Cossa vol dir?

BRIGH. Co la ballava, co la fava quelle capriole, i diseva: Oh cara! oh benedetta quella madre che l’ha fatta! Responde un altro: e gnente a quel povero padre che l’ha arlevada? Me cascava le lagreme dalla consolazion.

ARL. Mo che bella cossa! Me vôi maridar anca mi.

BRIGH. Per cossa mo te vustu maridar?

ARL. Per aver una fia; per non servir più. Perché la zente no me daga del ti.

BRIGH. Poverazzo! Ghe vol altro a arrivar al merito della mia creatura! Vedistu quante ballarine che ghe xe? Gnente: val più una piroletta della mia, de cento capriole d’un’altra.

ARL. Coss’ela mo una piroletta?

BRIGH. Una piroletta? Eccola. Ah! (fa la spaccata) Vedistu?

ARL. Ti sa ballar anca lei?

BRIGH. Gh’ho insegnà mi a mia fia.

ARL. Ma dove ti astu ella imparà?

BRIGH. Mi sono sempre dilettato del ballo.

ARL. Parla toscano lei?

BRIGH. Vedete bene; quando si viaggia, si parla... Ecco mia figlia.

ARL. Col conte Ottavio.

BRIGH. Sì. Il conte Ottavio la serve.

SCENA DECIMA

Ottavio dando il braccio a Olivetta.

OLIV. Dopo che avrò riposato, sarò da Rosaura a tirare il lotto.

ARL. Signora...

BRIGH. Vardè, fia, sto poveromo che ve vol saludar.

OLIV. Addio. (ad Arlecchino)

ARL. Me consolo infinitamente...

OLIV. Conte, non v’incomodate d’avvantaggio, mi ritiro nella mia camera.

OTT. Non mi volete?

OLIV. No, vado a dormire.

OTT. Non mi volete?

OLIV. No, vi dico.

OTT. Un’altra volta. (la lascia con qualche disprezzo)

OLIV. (Lo soffro, so io perché). (da sé)

ARL. Ela contenta, signora...

OLIV. Non ho tempo.

ARL. Mo, cara lustrissima...

OLIV. Mi par di conoscervi.

ARL. Son Arlecchin Battocchio.

OLIV. Sì sì, mi ricordo. Addio. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Il conte Ottavio, Brighella, Arlecchino, poi il cameriere.

ARL. L’è una signora veramente compita. (a Brighella)

BRIGH. Ah! La t’ha dito: addio.

OTT. Ehi!

CAM. La comandi.

OTT. La pipa. (passeggiando indietro)

CAM. La servo. (parte)

BRIGH. Sior conte, no la va a dormir?

OTT. Non dormo.

BRIGH. Anderò mi.

OTT. Dormite fin che vi chiamo.

BRIGH. Quando me chiamerala?

OTT. Mai.

BRIGH. La vorria che morisse?

OTT. Una bestia di più, una di meno...

ARL. El la onora segondo el merito. (a Brighella)

BRIGH. Eh! tra de nu se disemo de le burle. Schiavo, sior conte. (con aria)

OTT. Meno confidenza. (a Brighella)

BRIGH. (È meio che vada via). (da sé, parte)

SCENA DODICESIMA

Ottavio, Arlecchino, e poi il Cameriere.

OTT. Arlecchino.

ARL. Signor.

OTT. Che fa Rosaura?

ARL. Mi credo che la staga ben.

OTT. Oggi sarò da lei.

CAM. Eccola servita. Acciò non s’incomodi, l’ho accesa.

OTT. Bene. (gli dà una moneta)

CAM. Grazie a vossignoria illustrissima. (Eh! lo conosco il tempo). (da sé; parte, poi torna)

OTT. Arlecchino.

ARL. Signor.

OTT. Senti.

ARL. La comandi. (s’accosta)

OTT. (Gli getta una boccata di fumo nel viso)

ARL. Ai altri la ghe dà dei denari, e a mi la me fa sti affronti? Cossa sognia mi, una bestia?

OTT. (Tira fuori la borsa)

ARL. (El vien). (da sé)

OTT. Va in collera.

ARL. Corponon, sanguenon.

OTT. Va in collera.

ARL. Me maraveio, sangue de mi!

OTT. Va in collera.

ARL. Son in furia, son in bestia.

OTT. Non sai andare in collera. (vuol riporre la borsa)

ARL. L’aspetta... A mi sti affronti? Razza maledetta. Fiol d’un becco cornù.

OTT. (Ride, e gli dà una moneta)

ARL. Porco, aseno, carogna.

OTT. (Gli dà un’altra moneta)

ARL. Ladro, spion.

OTT. (Gli rompe la pipa sulla faccia)

ARL. No vagh altr in collera. Basta cussì.

OTT. Ehi!

CAM. Comandi.

OTT. Un’altra pipa.

CAM. Subito. (Un altro filippo). (da sé; parte, poi torna con la pipa accesa)

ARL. Comandela altro?

OTT. Vien qui.

ARL. Signor... (ha paura)

OTT. Accostati. (con collera)

ARL. Son qua. (s’accosta)

OTT. (Gli dà un calcio, e lo fa saltare)

ARL. Grazie.

OTT. (Gli dà una moneta) Un’altra volta.

ARL. Un’altra volta.

OTT. (Gli fa il simile, e lo fa saltare)

CAM. Servita. (gli porta la pipa accesa)

OTT. (Prende la pipa, e fuma)

CAM. L’ho accesa per minorargli l’incomodo.

OTT. (Mette mano alla borsa)

CAM. (Un altro filippo). (da sé)

OTT. (Dà una moneta ad Arlecchino)

ARL. Un’altra volta.

OTT. Un’altra volta. (gli dà il calcio, come sopra, e ripone la borsa)

CAM. Lustrissimo...

ARL. Un’altra volta.

OTT. Un’altra volta. (gli dà un altro calcio)

ARL. No gh’è niente.

OTT. Un’altra volta.

ARL. Basta cussì. (parte)

CAM. (Sta volta l’è andada sbusa). (da sé) Lustrissimo.

OTT. Non c’è altro. (adirato)

CAM. Gh’è un che la domanda.

OTT. (Passeggia un pezzo, e poi dice) Chi è?

CAM. Un certo signor Florindo, livornese.

OTT. (Passeggia un pezzo, e poi dice) Passi.

CAM. Oh che uomo curioso! (parte)

OTT. Bricconi! Dono quando voglio. (passeggiando e fumando)

SCENA TREDICESIMA

Florindo e detto.

FLOR. Servitor umilissimo del signor conte.

OTT. Schiavo suo.

FLOR. Perdoni, se vengo ad incomodarla.

OTT. Chi è vossignoria?

FLOR. Florindo Aretusi, per obbedirla.

OTT. Non la conosco.

FLOR. Son venuto a pregarla...

OTT. Non la conosco.

FLOR. Favorisca d’ascoltarmi.

OTT. Non parlo con chi non conosco. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Florindo solo.

FLOR. Che maniera è codesta? Così si tratta co’galantuomini? Perché non mi conosce, non mi vuole ascoltare? Ma mi conoscerà. Saprà ch’io voleva parlargli intorno al suo matrimonio, e sfuggirà di venir meco a parole. Giuro al cielo, gli parlerò in luogo dove sarà forzato ad ascoltarmi; e se non vorrà udir le mie voci, lo farò rispondere alla mia spada.

SCENA QUINDICESIMA

Il conte Ottavio e detto; poi il cameriere.

OTT. M’ha detto il locandiere chi siete. Parlate, che vi ascolterò.

FLOR. Che difficoltà avevate voi di trattar meco?

OTT. Il mondo è pieno di bricconi. Sedete.

FLOR. (Mi son note le sue stravaganze). (da sé; siedono) Signore, mi è stato supposto, che voi vogliate accasarvi colla signora Rosaura Bisognosi; è egli vero?

OTT. I fatti miei non li dico a nessuno.

FLOR. Se voi non mi volete dire i fatti vostri, vi dirò io i miei...

OTT. Non mi curo saperli.

FLOR. Vi curerete saperli, se vi dirò che la signora Rosaura è meco impegnata.

OTT. Da quando in qua?

FLOR. Son anni, che noi ci amiamo.

OTT. Pantalone è uomo d’onore.

FLOR. Ma se la figlia non vi acconsente?

OTT. Vi acconsente.

FLOR. Forzatamente, forse per obbedienza al padre; non per genio, non per amore di voi.

OTT. Il cuor non si vede.

FLOR. Il cuor di Rosaura è mio.

OTT. Siete pazzo.

FLOR. Giuro al cielo. A me pazzo? (s’alza furioso)

OTT. (Mostra qualche paura)

FLOR. Colla spada mi renderete conto di tale ingiuria.

OTT. Ehi!

CAM. Comandi.

OTT. (S’avvia verso la camera con qualche timore)

FLOR. Se non mi lascerete Rosaura, perderete la vita.

OTT. (Tirandosi su li calzoni e sbuffando parte)

CAM. Signore, in questa locanda non si fanno bravate. (a Florindo)

FLOR. Lo troverò per istrada. Ditegli che si guardi da un disperato. (parte)

CAM. Che diavolo è stato? Anderò io con due o tre compagni a guardar la vita del signor conte. Di quando in quando butta filippi, che consolano il cuore. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Camera di Pantalone.

Pantalone e Beatrice

PANT. Mia fia xe la più bona creatura de sto mondo, e se nissun la mettesse su, la farave tutto a mio modo, senza una minima difficoltà.

BEAT. In quanto a me, signor Pantalone, non vi potete dolere; vi ricorderete che questa mattina, in vostra presenza, la consigliava a prendere il conte Ottavio.

PANT. Ma po dopo, siora, l’avè fatta parlar co sior Florindo.

BEAT. Io? Che importa a me di Florindo? Sono amica di casa Bisognosi; voglio bene a Rosaura, desidero vederla star bene, e non m’impaccio dove non mi tocca.

PANT. Ve par che col conte Ottavio Rosaura no starà ben?

BEAT. Anzi benissimo. Questa mattina le ho pur detto dieci volte, che dicesse di sì.

PANT. El xe nobile.

BEAT. La farà diventar contessa.

PANT. El xe ricco.

BEAT. E come! Basta veder quelle gioje.

PANT. Nol gh’ha altro mal, che el xe un poco lunatico.

BEAT. Tutti voi altri uomini avete qualche difetto.

PANT. Florindo finalmente xe fio de fameggia.

BEAT. E suo padre lo tien corto.

PANT. So padre no vol morir per adesso. Sa el cielo, che vita i ghe farave far a mia fia.

BEAT. Figuratevi! Gente avara!

PANT. E po quel sporco el xe un boccon de temerario.

BEAT. Ragazzi che non hanno giudizio.

PANT. Cara siora Beatrice, vu che sè una donna de proposito, che intende la rason, e che volè ben a mia fia, conseggiela anca vu a quietarse, a sposar volentiera sior conte, a desmentegarse Florindo. Xe vero che la xe bona, che la xe ubbidiente, ma vorria che la fusse contenta, che la lo fasse de cuor; e vu colle vostre parole podè farghe cognosser la verità, e farla esser de bon umor.

BEAT. Non dubitate, signor Pantalone, che farò di tutto per illuminarla, per darle animo; vado in questo momento a ritrovarla nella sua camera, e vorrei che foste presente a sentirmi, che son certa rimarreste contento.

PANT. Andemo, vegnirò anca mi.

BEAT. Oh! no. È meglio ch’io vada sola; parlerò con libertà.

PANT. Via, fe pulito. Ma... fermeve. No ghe xe bisogno d’andarla a trovar. La xe qua che la vien.

BEAT. (Ora son nell’imbroglio). (da sé)

SCENA DICIASSETTESIMA

Rosaura e detti.

ROS. Signore, ho ricevuto questo viglietto. Lo pongo nelle vostre mani.

PANT. Chi scrive?

ROS. Il signor conte Ottavio.

PANT. El vostro novizzo.

ROS. (Ma!) (da sé)

BEAT. Cosa scrive di bello il signor conte?

PANT. Adessadesso la ’l saverà anca ella. (legge piano)

BEAT. Scrive bene? Ha bel carattere? (osservando sulla carta)

PANT. La toga; vorla lezerla? La se serva.

BEAT. Sì, leggerò io. (prende la lettera)

PANT. Cussì la sarà contenta.

BEAT. Signora sposa. (legge) Sentite? Signora sposa. Oggi verrò da voi. Verrà una ballerina, tireremo un lotto. Badate bene che non vi sia il Livornese. Sono vostro sposo e servitore Ottavio del Bagno. Avete sentito? (a Rosaura)

PANT. Cossa salo del Livornese?

BEAT. Gli sarà stato detto.

PANT. Orsù, che Florindo no vegna più in casa mia. Vu no lo stè a ricever; no ghe dè speranze, e finimo sto pettegolezzo.

ROS. (Si asciuga gli occhi, mostrando di piangere)

PANT. Via, coss’è sto fiffar[4]? Sè una putta prudente, pensè al vostro ben. Sentì cossa che dise siora  Beatrice: una fortuna de sta sorte no la s’ha da lassar andar. Cossa disela? (a Beatrice)

BEAT. Chi mai sarà questa ballerina?

ROS. Credo sarà Olivetta: per quello che mi ha detto Arlecchino, è alloggiata alla locanda col conte Ottavio, e so che questo gentilissimo cavaliere l’ha tenuta a pranzo con lui.

PANT. No saveu, cara fia? Alle locande se fa tavola rotonda. I forastieri i magna tutti insieme. Sior conte xe un omo de proposito; el xe ricco, e vu sarè una prencipessa. Siora Beatrice, la ghefazza rilevar a mia fia sto boccon de fortuna.

BEAT. Pensava adesso a quel che scrive il signor conte Ottavio. Tireremo un lotto. Sapete voi che lotto egli sia? (a Rosaura)

ROS. Io non so nulla.

PANT. No parlemo de lotti. El più bel lotto per mia fia xe sto matrimonio. Siora Beatrice, quel che la m’ha dito a mi, la ghe lo diga a Rosaura.

BEAT. Caro signor Pantalone, compatite. Ho curiosità di rileggere questo viglietto.

PANT. No ala sentio? Velo qua. Oggi verrò da voi. Verrà una ballerina. Tireremo un lotto. Badate bene che non vi sia il Livornese. Questo xe quel che importa. Florindo ha fatto qualche pettegolezzo. Sto Florindo no gh’ha giudizio. La ghe diga ella a mia fia, che bel cambio la farave lassando un conte, per tor una frasca.

BEAT. Certo. Il signor Florindo avrà parlato.

ROS. Ora, signor padre, lo maltrattate. Una volta non dicevate così.

PANT. Una volta giera una volta. Adesso no posso più dir cussì. El m’ha perso el respetto.

BEAT. Vi ha perso il rispetto? Oh, signora Rosaura!

PANT. La ghe diga le parole. (a Beatrice)

BEAT. (Abbiate pazienza). (piano a Rosaura)

PANT. Forte, che senta.

BEAT. In verità direi di quelle cose, che non sono da dire.

PANT. Qua no bisogna grattar le recchie a nissun, parlemo con libertà.

SCENA DICIOTTESIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Signori, l’è qua Brighella colla lustrissima siora Olivetta so fia, che vol onorarli de una visita.

PANT. Adesso no gh’avemo tempo...

BEAT. Oh! sì, sì, signor Pantalone, che vengano. (È bene di tener divertita la signora Rosaura; meno che ci pensa, è meglio). (a Pantalone)

PANT. Vorria che destrighessimo quel che preme più.

ARL. Cossa disela? Se i femo aspettar, i va in collera.

BEAT. Vengano, vengano. È vero, signor Pantalone?

PANT. Che i vegna. (Sta donna vol tutto a so modo). (da sé)

ARL. Ghe dago un avvertimento. A Brighella no le ghe daga del ti, per amor del cielo. (parte)

BEAT. Rosaura, state allegra, divertitevi, non dubitate che sarete contenta.

ROS. Sarei contenta, se avessi un cuor come il vostro.

BEAT. Oh! ecco la ballerina.

SCENA DICIANNOVESIMA

Brighella ed Olivetta.

OLIV. Serva di lor signore.

ROS. Olivetta, vi riverisco. Ben ritornata.

OLIV. (Olivetta! Crede ch’io sia ancora una serva). (da sé)

BRIGH. (L’ha magnà el manego della scoa)[5]. (da sé)

PANT. Me rallegro. Ben venuti. Caspita! Semo in aria[6].

BRIGH. Cossa vorla? Povera zente: ma gh’avemo el nostro bisogno.

BEAT. Venite qui, signora Olivetta, lasciatevi vedere. Siete molto sfarzosa.

OLIV. Oh! cara signora, siamo da viaggio. Con questo straccio di abito mi vergogno.

BEAT. Capperi! Da viaggio? Avete delle belle gioje.

BRIGH. Bagattelle, védela, bagattelle. La vederà po’col tempo. Deme una presa de tabacco. (ad Olivetta)

PANT. Chi eli quei signori? (i ballerini s’inchinano)

OLIV. Sono due ballerini, che ho condotto con me di Germania. (dà la scatola d’oro a Brighella)

BRIGH. Do poveri putti, che gh’avemo pagà el viazo per vegnir in Italia. La favorissa. La se degna. No l’è miga princisbech, sala? (dando tabacco)

PANT. Avè fatto dei gran bezzi.

BRIGH. No l’ha sentio le nove? La mia putta xe nominada per tutto el mondo.

PANT. Vi vedremo a ballare? (ad Olivetta)

OLIV. Può essere.

BRIGH. Eh! Sarà difficile. No i vol spender in sti paesi.

PANT. No i vol spender? Se i paga più un ballerin de un poeta!

BEAT. Se voleste, vi sarebbe ora un’occasione bellissima.

OLIV. Chi sa! Per farmi vedere, forse forse, ballerei.

BRIGH. Se fa opera?

BEAT. Sì. Vi è un’opera buffa; se volete, parlerò all’impresario.

BRIGH. Oe! Un’opera buffa! (ad Olivetta, ridendo)

OLIV. Oh! signora mia, non mi avvilisco tanto.

BRIGH. Un’opera buffa! Oh via! Semo vegnui in Italia a acquistar qualcossa.

BEAT. Ma in oggi nelle opere buffe ballano i primi soggetti.

BRIGH. Una donna de sta sorte che ha fatto la prima figura su tutti i teatri regi, imperiali, ducali e monarcali? (tutti ridono)

OLIV. (Povera gente!) (da sé)

ROS. (Se avessi voglia di ridere, costoro mi farebbero smascellare). (da sé)

BEAT. (Che dite? Quanta superbia!) (a Pantalone)

PANT. (I gh’ha rason. È xe el so secolo). (a Beatrice)

BRIGH. Gh’aveu el relogio d’oro? Vardè mo, che ora fa.

OLIV. Signore mie, non istieno a disagio per causa mia. Sono 23 ore. Seggano, se comandano.

BEAT. Grazie alla sua gentilezza. Accomodiamoci, giacché la signora Olivetta ce lo permette.

PANT. Oh! che cara siora Beatrice! (tutti siedono)

OLIV. La signora Rosaura è sposa, non è vero?

ROS. Lo sapete anche voi?

OLIV. Me l’ha detto il conte!

ROS. Il conte? Avete della gran confidenza con lui.

OLIV. Oh, non mi prendo gran soggezione.

BRIGH. Semo avvezzi a praticar prencipi, marascialli, plenipotenziari.

PANT. (Oh! Co bello che xe costù!) (da sé)

OLIV. So anche che il signor Florindo è sulle furie, e ha minacciato il signor conte.

BRIGH. E sior conte el gh’ha una paura, che el trema da tutte le bande.

BEAT. Eccolo il signor conte.

PANT. Rosaura, abbiè giudizio.

ROS. (Che giornata è questa per me!) (da sé)

SCENA VENTESIMA

Il conte Ottavio e detti; poi Arlecchino

OTT. (Saluta senza parlare; tutti s’alzano, fuor che Olivetta e Brighella. Ottavio guarda d’intorno con attenzione e paura).

PANT. Cossa vardela, sior conte?

OTT. Vi è il Livornese?

PANT. No la se dubita, nol gh’è, e nol ghe vegnirà.

OTT. Schiavo, signora sposa.

ROS. Serva sua.

OTT. Schiavo, ballerina. Schiavo, grassotta. (a Beatrice)

BEAT. Il signor conte mi burla.

OTT. Sempre i guanti. (a Rosaura)

ROS. Ma, signore...

OTT. Ve li caverete questa sera. Ballerina, avete dormito?

OLIV. Ballerina! Che cos’è questa confidenza?

BRIGH. Gran bel trattar via de qua: sempre madama.

OTT. Avete portato il lotto?

OLIV. La corniola è qui. I viglietti si fanno presto.

BRIGH. Se le vol, mi li fazzo in t’un momento.

OTT. Da scrivere.

PANT. Oe, portè da scriver.

ARL. (Porta un tavolino da scrivere, vicino ad Ottavio e Brighella)

OTT. Un’altra volta. (ad Arlecchino)

ARL. Un felippo alla volta; vado drio fin doman. (parte, poi torna)

OTT. Scrivete. (a Brighella)

BRIGH. Son qua. Numero uno.

OTT. La signora Rosaura. (e dà un zecchino a Olivetta)

BRIGH. Numero do. (scrivendo)

OTT. La grassotta (dà un zecchino)

BEAT. Obbligatissima.

BRIGH. Numero tre.

OTT. Signor Pantalone. (dà un zecchino)

PANT. Anca per mi? Grazie.

BRIGH. Numero quattro.

OTT. La ballerina. (dà un zecchino)

OLIV. Troppo gentile.

BRIGH. La signora Olivetta, virtuosa de Sua Maestà, ecc. Numero cinque.

OTT. Brighella. (dà un zecchino)

BRIGH. Il signor Brighella. Numero sei.

OTT. Conte Ottavio. (dà un zecchino)

BRIGH. Numero sette.

OTT. (Guarda li due ballerini) Chi sono coloro?

BRIGH. Do galantomeni nostri amici.

OTT. Mettete. (alli due ballerini, quali si guardano fra di loro) Ho inteso, non ne hanno. Scrivete: due spiantati. (dà due zecchini)

BRIGH. Numero sette. Monsù Bilanzè. Numero otto. Monsù Sassè. Numero nove. (guardando Ottavio)

OTT. Arlecchino. (chiama)

ARL. Signor?

OTT. Scrivete: Arlecchino.

BRIGH. Un servitor?

OTT. È stato vostro camerata. Scrivete. (dà un zecchino)

BRIGH. Basta, lo metteremo.

ARL. Cossa se venze?

OLIV. Una corniola.

ARL. Corniola? Sta roba se mette al lotto? Se ghe n’è da cargar una nave.

BRIGH. Numero dieci.

OTT. (Guarda d’intorno, non vede alcuno)

BRIGH. Numero dieci.

OTT. Non v’è altri.

BRIGH. Se no i gh’è tutti, no se pol cavar.

OTT. Uh! (con disprezzo a Brighella) Scrivete.

BRIGH. Scrivo.

OTT. Un ladro.

BRIGH. Un ladro?

OTT. Sì, un ladro. Ecco il zecchino. (dà un zecchino)

BRIGH. Chi elo sto ladro?

OTT. Lo conosco io.

BRIGH. Un ladro. Ecco finido.

BEAT. Questo ladro sarà il signor conte.

OTT. Come?

BEAT. Sì, perché ha rubato il cuore alla signora Rosaura.

OTT. Brava, grassotta. Ah! Che dite? (a Rosaura)

ROS. (Beatrice tien da chi vince). (da sé)

PANT. Via, allegramente. (a Rosaura)

BRIGH. Adesso bisogna far i bollettini.

OTT. Li ho portati io fatti. Eccoli.

BRIGH. Mettemoli in due cappelli. (offre il suo cappello)

OTT. Sporco. (tira fuori due fazzoletti puliti: mette i viglietti in uno e nell’altro. Ne dà uno a Rosaura, e l’altro a Beatrice)

BRIGH. Chi caverà i viglietti?

OTT. Vi vorrebbe un innocente.

BEAT. Io.

OTT. Grassotta, galeotta!

PANT. Vorla che fazza vegnir el mio puttelo de mezzà?

OTT. Sì.

PANT. Chiamè Tonin. (ad Arlecchino)

ARL. (Parte)

OTT. Qui sono i numeri. Qui la grazia. E chi non ha la grazia, avrà qualche cosa.

OLIV. Che cosa?

OTT. Una sentenza. Un motto. Una bizzarria. Sentirete.

BRIGH. Eli questi i numeri? (ne spiega alcuni, trova il numero quattro, e lo nasconde con arte)  (Questo l’è el numero quattro, el numero de mia fia. Se posso, vôi cuccar[7] anca la corniola). (da sé)

SCENA VENTUNESIMA

Tonino e detti.

TON. Cossa comandela? (a Pantalone)

PANT. Senti, cossa dise sior conte.

OTT. Cavate un viglietto qui, uno qui; uno qui, uno qui; uno qui, uno qui.

TON. Ho inteso.

BRIGH. Vegnì qua: ve insegnerò mi. (Co vien la grazia, tirè fora questo. Scondèlo: ve darò un ducato). (piano a Tonino)

TON. (Ho inteso). (va a cavare)

BEAT. (Vorrei che toccasse a me). (da sé)

PANT. Rosaura, ancuo per vu se cava do lotti. Uno ve tocca seguro.

ROS. E quale, signore?

PANT. Velo là: sior Ottavio.

OTT. Bravo suocero.

TON. (Cava un viglietto)

OTT. Leggete. (a Tonino)

TON. (Legge)Metto per forza, e mai mi tocca grazia;

Getto il denaro, e niuno mi ringrazia.

BEAT. Oh bello! Che numero è?

TON. Numero due.

BEAT. Maledetto! Il mio, date qui. (si fa dare il viglietto da Tonino)

OLIV. Chi ha scritto questa bella cosa?

OTT. Zitto. Cavate. (a Tonino)

TON. (Cava e legge)

Con buona grazia di vossignoria,

I lotti sono una birbanteria.

BEAT. È vero, date qui. (come sopra)

OLIV. La corniola val più di dieci zecchini.

BRIGH. L’avemo comprada a Petervaradino.

OTT. Il numero. (a Tonino)

TON. Numero nove.

BRIGH. Arlecchin. (leggendo)

ARL. Za delle corniole no ghe ne manca. (parte)

TON. (Cava e legge)Oh! razza bella e buona,

Sto a vedere che tocchi alla padrona.

BEAT. (Oh! toccherà a lei senz’altro). (da sé)

OLIV. Ci sono anch’io, mi può toccare.

OTT. Zitto. Il numero. (a Tonino)

TON. Numero tre.

PANT. Son mi. Za al mio solito. Mai ghe n’ho vadagnà uno.

TON. (Cava e legge)Arte e industria ci vuole,

Perché a scialar non bastan le capriole.

OLIV. Questo poi è troppo.

BRIGH. L’è un’insolenza! La scriveremo ai nostri protettori.

BEAT. Date qui, date qui. (come sopra)

OLIV. Non mi è mai stato perduto il rispetto.

OTT. Zitto.

BRIGH. Animo, cavè. (a Tonino)

TON. (Cava e legge) Ecco, la grazia è questa:

A chi toccò, possa cascar la testa.

OTT. Il numero. (a Tonino)

TON. Numero quattro.

OTT. La ballerina.

BEAT. (Legge) Ecco, la grazia è questa:

A chi toccò, possa cascar la testa.

OLIV. Mi è toccata legittimamente. Io non ne ho colpa.

BRIGH. I parla per invidia.

BEAT. (Legge) Oh! razza bella e buona,

Sto a vedere che tocchi alla padrona.

OLIV. E così? Che vorreste dire? È il primo caso questo, che il lotto tocchi a chi lo fa?

BEAT. (Legge) Arte e industria ci vuole,

Perché a scialar non bastan le capriole.

OLIV. Oh! questa poi non la posso soffrire. (s’alza)

BRIGH. L’è un insolenza.

OLIV. Andiamo via.

BRIGH. Schiavo, siori.

OLIV. Il signor conte me la pagherà. (parte)

BRIGH. (Se troveremo fora d’Italia). (parte coi ballerini)

OTT. (Ride)

TON. (Vado a prendere il mio ducato). (da sé, parte)

ROS. Mi dispiacciono assai queste scene.

PANT. Ve tolè suggizion de uno che xe stà nostro servitor?

BEAT. Con noi viene a far le grandezze? Ha fatto bene il signor conte a mortificarli.

OTT. (Ride)

BEAT. Ma intanto ha portato via dieci zecchini e la corniola.

OTT. (Ride)

PANT. Orsù, sior conte, discorremo dei fatti nostri. Quando vorla che destrighemo sto negozio?

OTT. Questa sera.

PANT. Donca bisognerà...

OTT. A tre ore.

PANT. Bisognerà mandar a chiamar...

OTT. Verrò a tre ore.

PANT. Ho inteso: darò i ordeni...

OTT. Sposa.

PANT. Via, respondeghe. (a Rosaura)

ROS. Signore.

OTT. A tre ore... Grassotta, a tre ore. Suocero, a tre ore. Mi vado a metter all’ordine. (parte)

PANT. Aveu sentio? A tre ore. (a Rosaura, e parte)

ROS. La mia sentenza l’ho intesa. A tre ore sarò sagrificata. (parte)

BEAT. A un tal sagrificio vi sono andata una volta, e vi anderei la seconda. (parte)

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Strada.

Florindo solo.

FLOR. Ah conte pusillanimo e vile! Egli va accompagnato dagli sgherri, per timore di me. L’ha indovinata. L’avrei disteso sulla porta di Pantalone, se da quattro non foss’ei stato difeso. Contro quattro non posso solo azzardarmi; però, o non sarà sempre da cotal gente scortato, o lo assalirò con forze eguali per atterrarlo. Lo voglio estinto. Voglio levarmi dagli occhi un rivale, a costo di dover perder la vita. Eccolo; il mio sdegno non sa frenarsi. Se non temessi di essere soverchiato... Basta; tratterrò a più potere la collera, ma gli parlerò.

SCENA SECONDA

Il conte Ottavio, il cameriere di locanda e altri tre uomini; e detto.

OTT. (Viene avanti, e gli uomini lo seguono; quando vede Florindo, si ferma; fa passare due uomini avanti, e si mette nel mezzo per esser difeso)

FLOR. Signor conte, avrei necessità di parlarvi.

OTT. Ehi! (agli uomini, che stieno attenti, e li va disponendo per sua difesa)

CAM. Non dubiti. Siamo con lei.

FLOR. Di che avete timore? Io non son qui per offendervi. Bramo solo di ragionarvi, ed il mio ragionamento sarà brevissimo. Signore, sono tre anni ch’io amo la signora Rosaura, e che sono da lei amato.

OTT. (Colla mano al mento fa segno che non gl’importa)

FLOR. Io non posso vivere senza di lei, e giacché devo morire, sono disposto a intraprendere qualunque pazza risoluzione.

OTT. (Ammazzatelo). (agli uomini)

CAM. (Per difenderla, siamo qui; ma per altro...) (piano al conte)

FLOR. Mi maraviglio, come un uomo d’onore possa aspirare ad un simile matrimonio. La signora Rosaura vi aborrirà in eterno; e sin ch’io viva, non isperate mai d’aver pace.

OTT. (Dà delle monete al Cameriere di locanda)

CAM. Obbligatissimo alle sue grazie.

OTT. (Ammazzatelo). (piano al Cameriere)

CAM. (Chi fosse pazzo!) (da sé)

FLOR. Voi non mi rispondete? Che modo di pensare è il vostro? Mi maraviglio di voi.

CAM. Signore, non si riscaldi tanto. (a Florindo)

FLOR. Difendetelo finché potete. Ma giuro al cielo, sarà vana la vostra scorta. Troverò io la maniera di deludere voi e lui. Voi siete schiavi dell’interesse; egli è uno stolido che non sa vivere, e non viverà lungo tempo. (parte)

OTT. (Sta alquanto immobile, va per seguire Florindo; poi si pente. Torna indietro, e parte dalla banda opposta)

CAM. Grande spirito! Gran bravura! (lo segue coi compagni)

SCENA TERZA

Camera di Pantalone con tavolino, lumi e sedie.

Beatrice, poi Pantalone.

BEAT. Io sono imbrogliatissima tra Rosaura, Pantalone, Florindo ed il conte Ottavio. Con tutta la mia franchezza, qualche volta mi perdo. Ma finalmente che cosa può accadere? Che Rosaura sposi l’uno, o sposi l’altro, per me è lo stesso.

PANT. Ah pazenzia!

BEAT. Che c’è, signor Pantalone?

PANT. Siora Beatrice, mi son l’omo più appassionà de sto mondo.

BEAT. Ma perché? La signora Rosaura non si è rassegnata al vostro volere? Non ha detto chesposerà il conte Ottavio? Non fa ella tutto quel che volete?

PANT. Siora sì, xe vero; ma la lo fa per forza.

BEAT. E per questo?

PANT. E per questo, considero e penso che vago a rischio de volerla precipitada.

BEAT. Adesso ci pensate?

PANT. Ghe penso adesso, che no ghe xe più remedio. Adesso ghe penso, che la vedo pianzer con tanto de lagreme, che la vedo tremar da capo a piè, ogni volta che sona le ore, perché se avvicina quella delle so nozze. La m’ha dito diese parole che m’ha serrà el cuor. La m’ha dito cosse che me cava le lagreme, e me farà suspirar per tutto el tempo de vita mia.

BEAT. Non vi tormentate, signor Pantalone. Vi è ancora tempo. Il matrimonio non è ancora fatto. Troviamo un mezzo termine per non farlo.

PANT. Che mezzo termine? Semio putteli? Quanto ghe manca a tre ore? Adessadesso xe qua sior conte. Cossa voravela che ghe disesse? Son galantomo, son omo d’onor, e non son capaze de usar una mala azion.

BEAT. Dunque seguiranno le nozze.

PANT. Le seguirà.

BEAT. Se han da seguire, acquietatevi. Non occorre pensarci più.

PANT. Ah! se Rosaura se quietasse, se Rosaura se desponesse a torlo con un poco più de dolcezza, spereria col tempo de véderla contenta, e me consolerave anca mi.

BEAT. Volete che le parli?

PANT. Parleghe. Diseghe che a tre ore ghe ne manca do; che ella xe orbada da un altro amor, e cheel so povero pare xe desperà.

BEAT. (Oggi mi tocca a fare la confortatrice. Con un poco di sì, e un poco di no, contento tutti). (parte)

SCENA QUARTA

Pantalone, poi Rosaura.

PANT. Florindo xe causa de tutto. Florindo xe vegnù a tentarla... Ma poverazzo! Anca lu gh’ha rason. Ghe l’aveva quasi promessa. L’ha fatto sto viazo co sta speranza, co sto amor... Confesso el vero, m’ha orbà l’interesse. Ah maledetto interesse! Ecco el bel frutto che son per cavar dalle to lusinghe! Povera putta sagrificada! Povera reputazion in pericolo! Povero Pantalon travaggià! (siede al tavolino, sostenendo la fronte colle mani; in questo)

ROS. (Povero padre! So che mi ama, ed è forzato a tormentarmi per solo punto d’onore. Merita di essere consolato). (da sé)

PANT. Ah, morissio avanti tre ore!

ROS. Signor padre.

PANT. Ah! son desperà.

ROS. Perché, signore? Consolatevi, per amor del cielo.

PANT. Che motivo gh’oggio de consolazion?

ROS. Non vi basta una figlia umile e rassegnata?

PANT. No, no me basta.

ROS. Che volete di più?

PANT. Vorave aver una fia contenta.

ROS. L’avrete, signore, subito che sarete rasserenato.

PANT. Ti me par un pochetto più allegra. Gh’è qualche novità?

ROS. Volete che io pianga sempre? Il mio dolor l’ho sfogato. Ora non penso ad altro che a voi. Comandatemi, signor padre, vi obbedirò senza pena.

PANT. Distu da senno, anema mia?

ROS. Non mentirei per tutto l’oro del mondo.

PANT. Ti sposerà sior conte?

ROS. Lo sposerò.

PANT. Ma perché lo sposerastu?

ROS. Perché voi me lo comandate.

PANT. Ma ti lo sposerà contra genio, ti lo sposerà per forza, e te vederò tormentada, piena de lagreme e de dolor.

ROS. No, signor padre, non dubitate. Fino che me lo avete comandato con austerità, vi ho obbedito con pena; ora che me lo incaricate con tenerezza, farò il possibile per obbedirvi con giubbilo e con prontezza.

PANT. Oh Dio! muoro dalla consolazion. Rosaura, no te tradir.

ROS. Non è possibile ch’io mi tradisca, seguendo le disposizioni del genitore. Il vostro amore non può che disporre di me con profitto, ed io ciecamente mi sottoscrivo.

PANT. Cara Rosaura, vederastu de bon occhio el novizzo?

ROS. Farò il mio dovere.

PANT. Ghe vorrastu ben?

ROS. Non lascerò di dargli testimonianze d’affetto.

PANT. Penserastu più a sior Florindo?

ROS. Come c’entra Florindo in questo ragionamento? Da che voi me lo avete vietato, i labbri miei non lo hanno più nominato. Anche il mio cuore ha preso impegno di non rammentarlo, e voi siete il primo che me lo ha suggerito... (con calore)

PANT. Tasi, fia mia, che no te lo nomino mai più.

ROS. (Che violenze son queste! Che angustie ad un povero cuore afflitto! Come si può resistere a tanta pena?) (da sé)

PANT. Coss’è fia? Cossa gh’astu? Tornistu da capo?

ROS. Non mi crediate così volubile. Quel che ho detto, l’ho detto per mantenerlo.

PANT. Tre ore no le xe tanto lontane.

ROS. Bene.

PANT. Tremistu?

ROS. Perché ho da tremare?

PANT. Co no ti tremi più, xe bon segno.

ROS. (Tremo, ma non si vede). (da sé)

PANT. Adessadesso vegnirà el novizzo.

ROS. Venga, col nome del cielo.

PANT. Ti ghe darà la man?

ROS. Certamente.

PANT. Senza pianto?

ROS. Ci s’intende.

PANT. Ti sarà so muggier?

ROS. Così spero.

PANT. Ti speri, cara, ti speri? Siestu benedetta! Te vedo el cuor: ti lo fa per mi. El mio dolor t’ha mosso; la mia desperazion t’ha fatto mover a compassion. Ah! sangue mio, ti me fa panzer dalla consolazion. (piange)

ROS. (Povero il mio cuore!) (da sé; piange)

PANT. Ti pianzi?

ROS. Piangete voi, non volete che pianga ancor io?

PANT. Ti gh’ha rason; no pianzemo più. Cara la mia fia: allegramente. Rassegnate al voler del

cielo, e assicurate che la carità che ti gh’ha per to pare, sarà dal cielo recompensada.

SCENA QUINTA

Beatrice e detti.

BEAT. Come va, signor Pantalone?

PANT. Ah! siora Beatrice, son in t’un mar d’allegrezza. Rosaura xe rassegnada de cuor. La sposerà sior Ottavio, la lo farà volentiera. No la me vol véder a morir desperà... BEAT. Brava Rosaura, me ne rallegro.

ROS. Sì, rallegratevi che ne avete ragione.

BEAT. Come! Non è forse vero?...

PANT. Siora sì, che xe vero. Cossa diseu?

ROS. Vero, verissimo. Caro signor padre non vi tormentate. Son allegra, son contenta, brillo, giubbilo. Son fuor di me stessa. (Oh Dio! Se non vado a piangere mi sento soffogar dal dolore). (da sé; parte)

PANT. Vegnì qua, dove andeu?

BEAT. Lasciatela andare, poverina; datele un poco di libertà.

PANT. Mo la gran bona putta! Mo la gran creatura ubbidiente!

BEAT. Vedete s’io sono una donna di garbo? Io l’ho ridotta a questa bella rassegnazione.

PANT. Ella l’ha ridotta?

BEAT. Sì, io le ho detto che, per amor di suo padre, si sforzi almeno a mostrarsi allegra e contenta.

PANT. Donca la s’ha sforzà? No la l’ha fatto de cuor? Adesso mo... (vuol andar da Rosaura)

BEAT. Fermatevi, farete qualche sproposito.

PANT. Vôi saver se la finze, o se la parla da senno.

BEAT. Non finge assolutamente, dice davvero.

PANT. Mo se la dise ella, che la l’ha conseggiada a sforzarse.

BEAT. Sì, a sforzarsi a superar la passione. L’ha superata; cosa volete di più? È rassegnata, è contenta; se anderete a stuzzicarla, farete peggio.

PANT. Cara siora Beatrice, xe un pezzo che ve cognosso, e gnancora no ve capisso.

BEAT. E pur son facile a farmi capire. Quel che ho in cuore, ho in bocca.

PANT. Sarò mi un allocco, che no la intende. Non ghe vôi più pensar; l’ora se va avanzando. Vago a dar i mi ordeni, e sta sera se farà tutto. Oh! Giove, Giove, dame grazia che mia fia sia contenta, che la diga la verità. (parte)

BEAT. Il signor Pantalone vorrebbe che Rosaura fosse contenta. Non è facile che sia contenta, quando perde un amante. (parte)

SCENA SESTA

Camera di locanda con lumi.

Il cameriere di locanda ed Arlecchino.

ARL. Se poderia parlar co sior Brighella?

CAM. Il signor Brighella non è in casa. È andato alla barca di Padova a fermare il posto, perché vuol partir questa sera.

ARL. Così presto el vol andar via?

CAM. È tornato a casa tutto arrabbiato; ha fatto i bauli in fretta, e dice che vuol partir questa sera, e non so perché.

ARL. Gh’è stà qualche radego in casa dei me patroni, per causa de una corniola.

CAM. Ho piacere che vadano via: sono superbi insoffribili.

ARL. Me maraveggio, che signori de quella sorte se degna de andar in barca de Padova.

CAM. Finalmente operano da quel che sono. Basta dire che il signor Brighella, con la parrucca inanellata, mette da sé colle sue mani le candele di sevo sui candelieri.

ARL. Siora Olivetta dov’ela? Voi saludarla, avanti che la vada via.

CAM. La signora Olivetta è in camera del conte Ottavio, che fa i complimenti della partenza.

ARL. Col conte Ottavio? Se i era in collera.

CAM. Sì, erano in collera, e hanno fatto la pace.

ARL. Bravi; i se giusta presto.

CAM. Eccolo qui il signor Brighella, vestito da viaggio.

ARL. Me despiase solamente no poderghe dar del ti.

SCENA SETTIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Diseghe al mio staffier, che adessadesso anderemo via. (al Cameriere)

CAM. Sarà servita.

BRIGH. Siora Olivetta dov’ela?

CAM. È dal signor conte. Comanda ch’io la chiami?

BRIGH. No no, no l’incomodè. Avvisè el staffier.

CAM. Subito. (E poi mi darà di mancia due soldi). (da sé, parte)

ARL. Sior Brighella la reverisco.

BRIGH. Schiavo.

ARL. La vol andar via cussì presto?

BRIGH. Cossa voleu che fazza in sti paesi? Io sono avvezzo a star alle corti.

ARL. E la vol andar in barca de Padova?

BRIGH. Chi v’ha dito sta cossa?

ARL. El camerier.

BRIGH. Ho preso un bucintoro.

ARL. Un bucintoro? El l’averà fatto far a posta.

BRIGH. Un bucintoro, siorsì; via de qua ai burchielli se ghe dis bucintori. Cosa savì voi altri papagalli?

ARL. Ma perché sta ressoluzion cussì serpentina[8]?

BRIGH. In sti paesi no se stima la virtù, no se respetta le persone de merito. Aveu visto el bel accoglimento, che avemo recevudo da quella canaglia? Poveri peocchiosi! I vede una putta civil; vestia con tanta proprietà; con un zoggiello al collo che li compra quanti che i xè, e i la tratta in quella maniera?

ARL. Certo che i ha mancà al so dover.

BRIGH. Appena i la saluda?

ARL. No i sa le creanze.

BRIGH. E mi cossa songio? Cussì se parla con un omo, che è stado in conversazion con tanti sovrani?

ARL. Caro Brighella, ti gh’ha rason.

BRIGH. Bisogna véder via de qua, quando parla mia figlia. Tutti stanno colla bocca aperta a sentirla. E qua i la strapazza? I ghe perde el respetto? No i è degni de zolarghe le scarpe allamia creatura.

ARL. Crédime... la me creda, che me despiase.

BRIGH. Lumaga no se vede? Che diavolo ha costui?

ARL. Ti parli toscano?

BRIGH. E tu parli da villano, quale sei originato.

SCENA OTTAVA

Olivetta, il conte Ottavio e detti.

OLIV. Tant’è, conte, voglio partire.

OTT. Partirete poi.

ARL. Siora Olivetta, ghe son servitor.

OLIV. Va, di’ alla tua padrona, e a quell’altra sudicia di Beatrice, che quando sarò in Germania, scriverò loro i miei sentimenti. (ad Arlecchino)

BRIGH. E la nostra lettera la faremo stampare.

ARL. Non dubiti: ghe lo dirò in stampa di rame.

OTT. Partirete poi.

BRIGH. il bucintoro è fermato.

OTT. Pagherò io.

BRIGH. E po, per dirghela, su sta locanda se spende troppo. I vole un felippo al zorno.

OTT. Pagherò io.

OLIV. Che dite voi, papà?

BRIGH. Cossa voleu che diga, cara fia? Sior conte l’è tanto zentil, che no saverave dirghe de no.

OLIV. Via, per compiacervi, resterò qualche giorno.

BRIGH. Arlecchin, feme un servizio. Andè da parte mia a licenziar la barca.

ARL. El bucintoro dov’elo?

BRIGH. Disìlo a quei della barca da Padova, che tanto basta, loro intenderanno.

ARL. (Ho inteso anca mi. El bucintoro! La va via, la va via, la va via) [9]. (parte)

OLIV. Ma, signore, non vorrei che la sua sposa avesse di me gelosia.

OTT. Andate a disfar i bauli.

BRIGH. Andè, fia, tirè fora le vostre zoggie, che mi po tirerò fora l’arzentaria.

OLIV. (Sì, voglio restare per far disperare Rosaura). (da sé, parte)

OTT. (Quel Livornese mi fa paura). (da sé)

BRIGH. Alo po risolto de far ste nozze?

OTT. Ci penso.

BRIGH. La me compatissa, sior conte: quella no l’è zente da par suo.

OTT. (Tira fuori la tabacchiera, e prende tabacco)

BRIGH. Una fia d’un mercante mezzo fallio. (vuol prender tabacco dal conte)

OTT. (Ripone la tabacchiera)

BRIGH. No gh’ho miga la rogna. Ho tolto tabacco in te la scatola del gran Marascalco di Sua Maestà...

SCENA NONA

Olivetta e detti; poi il cameriere.

OLIV. Papà, dove sono i bauli?

BRIGH. Oh bella! In camera.

OLIV. Io non li vedo.

BRIGH. Seu orba? (va in camera, e torna)

OTT. Voglio vedervi ballare.

OLIV. Sarà difficile.

OTT. Farò un’opera io.

OLIV. Se sarà un’opera eroica, ballerò.

BRIGH. Dov’eli i bauli?

OLIV. Dove sono?

BRIGH. Lumaga dov’elo?

OLIV. Io non l’ho veduto.

BRIGH. Oh, poveretto mi! Camerier.

CAM. Comandi.

BRIGH. Dov’è Lumaga?

CAM. Il suo staffiere?

BRIGH. Sì.

CAM. Ha messi i bauli in gondola, ed è andato via.

BRIGH. In che gondola?

CAM. In una gondola a quattro remi.

BRIGH. A quattro remi? Poveretti nu! Presto, mandeghe drio.

CAM. Subito. (parte)

OLIV. Che è stato?

BRIGH. I bauli... la roba... l’arzentaria... Poveretti nu!

OLIV. Ma come?

BRIGH. Ho paura che Lumaga ne l’abbia fatta.

OLIV. Sarà andato alla barca.

BRIGH. Con una gondola a quattro remi? Perché no seu stada in camera?

OLIV. Sono stata dal signor conte.

BRIGH. Sia maledetto el sior conte! Se no trovo i bauli, semo rovinai. (parte)

OTT. (Guarda dietro a Brighelia con ammirazione)

OLIV. Povera me! Avete sentito?

OTT. (Prende tabacco, e non risponde)

OLIV. Possibile che Lumaca mi abbia assassinata?

OTT. (Seguita a prender tabacco)

OLIV. Povera me! La mia roba!

SCENA DECIMA

Arlecchino e detti; poi il cameriere.

ARL. El bucintoro dai trenta soldi l’è licenzià.

OLIV. E la roba?

ARL. Che roba?

OLIV. E Lumaca? Oimè! Lumaca?... Non ha portati i bauli?

ARL. Niente affatto.

OLIV. Signor conte, aiutatemi. E così? (al Cameriere)

CAM. La roba è andata.

OLIV. Come?

CAM. Lumaca con la gondola a quattro remi è andato verso Fusina.

OLIV. Oimè! sono rovinata.

OTT. (Passeggia senza parlare)

ARL. (Quel che vien de tinche tanche, se ne va de ninche nanche[10]). (da sé)

OLIV. Signor conte.

OTT. (Passeggia come sopra)

SCENA UNDICESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Semo assassinadi.

OLIV. Oimè! Mi sento mancare.

BRIGH. Presto l’acqua de melissa.

OLIV. Non l’ho.

BRIGH. La bozzetta d’oro.

OLIV. L’ho messa nel baule.

BRIGH. Anca i relogi, anca le scatole?

OLIV. Tutto.

BRIGH. Deme quei diese zecchini del lotto, che ghe manda drio.

OLIV. Anche la borsa l’ho messa nel baule.

BRIGH. Oh poveretti nu! Sior conte, per carità.

OLIV. Aiutateci. Prestateci un poco di denaro.

BRIGH. Per mandarghe drio.

OTT. (Va verso la camera)

BRIGH. Sior conte...

OTT. Sia maledetto il conte. (entra, e gli serra la porta in faccia)

BRIGH. Amigo, cossa avemio da far? (al Cameriere)

CAM. Pensare a pagarmi, e andare a buon viaggio. (parte)

BRIGH. Arlecchin, son desperà.

ARL. Caro sior Brighella, la se consola.

BRIGH. Caro camerada, aiuteme.

ARL. Oh camerada! la me onora troppo.

OLIV. Soccorreteci, per amor del cielo.

ARL. Lustrissima, no la se confonda.

BRIGH. Cossa avemio da far?

OLIV. Cosa sarà di noi?

ARL. Una parola in grazia. (a Brighella)

BRIGH. Disè, camerada.

ARL. La senta. (a Olivetta, andando in mezzo)

OLIV. Dite, amico.

ARL. Baroni, come prima. (parte)

BRIGH. Ti gh’ha rason.

OLIV. Non ho camicia da mutarmi.

BRIGH. Sè una donna senza giudizio.

OLIV. Causa voi. Colla vostra maledetta superbia. Volere andar via a precipizio.

BRIGH. Causa vu, colle vostre frascherie. Far pase col sior conte.

OLIV. Voi tornerete a far il servitore.

BRIGH. E voi tornerete a filar.

OLIV. Io mi guadagnerò il pane colle mie gambe. (partono)

SCENA DODICESIMA

Camera in casa di Pantalone, senza lumi.

Florindo ed il servitore di Beatrice.

FLOR. Dov’è la signora Beatrice?

SERV. La mia padrona è di sopra col signor Pantalone e colla signora Rosaura.

FLOR. Caro amico, fatemi il piacere: andate su dalla vostra padrona, tiratela in disparte, ditele ch’io son qui per una premura grandissima di parlarle, che la supplico di ascoltare una sola parola, che anderò via subito, s’ella viene, ma che, aspettandola soverchiamente, potrei venire scoperto. M’avete capito?

SERV. Sì, signore, ho capito e la servirò. Ma la prego di non dire alla mia padrona, che io ho introdotto a quest’ora vossignoria all’oscuro.

FLOR. Non dubitate; dirò che ho ritrovato l’uscio di strada aperto. Anzi tenete intanto questo zecchino, e poi domani ci rivedremo.

SERV. Obbligatissimo. (parte)

FLOR. Sì, voglio assicurarmi, se questa sera hanno a seguir le nozze; se ciò fia vero, intraprenderò la più violenta risoluzione per impedirle. Io sono un disperato, che cerca la vendetta o la morte. Morirà il mio rivale; e tutti quei pericoli e quei disagi, ai quali mi soggetterà forse il mio disperato amore, saranno effetti della crudeltà di Rosaura, mascherata sotto il titolo dell’obbedienza.

SCENA TREDICESIMA

Beatrice ed il servitore col lume, e detto.

BEAT. Che diavolo fate qui? (correndo verso Florindo)

FLOR. Permettetemi, signora...

BEAT. Andate via, che ora viene il signor Pantalone.

FLOR. È vero che questa sera si abbiano a concludere le nozze col conte Ottavio?

BEAT. È verissimo. Andate via, che non vi è più rimedio.

FLOR. Possibile che Rosaura...

BEAT. Presto, che il signor Pantalone scende le scale.

FLOR. Deh! nascondetemi...

BEAT. Siete pazzo? Andate via. Presto, fagli lume. (al Servitore)

SERV. Signora, in sala vi è gente. (guardando alla scena)

BEAT. E chi sarà mai?

SERV. È Brighella, il padre della ballerina. (guardando bene)

BEAT. Maledetto quando siete venuto qui. (a Florindo)

FLOR. Nascondetemi.

BEAT. Venite qui in questo camerino. (apre una porta)

FLOR. (Sarò a portata di sentir tutto, e di vendicarmi sul fatto). (da sé; entra nel camerino)

BEAT. (Parte col Servitore)

SCENA QUATTORDICESIMA

Pantalone e Rosaura col lume; poi Beatrice.

PANT. Perché fia mia, no t’astu messo le zoggie che t’ha mandà sior conte? Ti gh’averessi fatta una finezza a comparirghe davanti col so bel regalo.

ROS. Non mancherà tempo.

PANT. Col vien, vaghe incontra. Faghe véder che ti ghe vol ben. No ti gh’ha mai dà un segno d’amor.

ROS. Sì, signore, farò tutto quel che volete.

PANT. Càvete quei vanti.

ROS. Me li caverò, quando sarà tempo.

PANT. Ti sa che nol li pol véder quei vanti.

ROS. Veramente è pieno di stravaganze.

PANT. Ma el xe pien de bezzi.

BEAT. Signor Pantalone, signora Rosaura, ridete.

PANT. Coss’è stà?

BEAT. Monsù Brighella è in sala, che si dispera. Il suo servitore gli ha portato via ogni cosa. È restato miserabile, ed è là che fa rider tutti.

PANT. Chi è che ride del male dei altri? Ste cosse no le posso soffrir: semo tutti soggetti a delle desgrazie, e no bisogna metter in redicolo chi le prova. Povero Brighella, vôi sentir come che la xe. Rosaura, adesso torno. Cara fia, quanto che ti me consoli, vedendote allegra e contenta. (parte)

ROS. (Se mai la finzione è stata virtù, credo certamente che la sia questa volta). (da sé)

BEAT. Ehi! Sapete chi è in quel camerino?

ROS. Chi?

BEAT. Zitto. Quel pazzo di Florindo.

ROS. Oh Dio! Come?

SCENA QUINDICESIMA

Florindo sulla porta, e dette; poi Pantalone e Brighella.

FLOR. Sì che ci sono, ingrata.

ROS. Che temerità è la vostra?

BEAT. Presto. Torna il signor Pantalone. (a Florindo)

FLOR. Perfida! Mi vendicherò. (entra e chiude)

ROS. Voi siete una traditrice.

BEAT. Io?

ROS. Sì, me n’anderò. (s’avvia per partire)

BEAT. Io faccio per far bene, e mi strapazzano.

PANT. Dove andeu? (a Rosaura)

ROS. Nella mia camera, signore.

PANT. Stè qua, cara fia.

ROS. Permettetemi.

PANT. Via, voggio che stè qua.

ROS. Obbedisco.

PANT. (Poverazza! La xe quacchia co fa un polesin[11]). E cussì, contème la vostra desgrazia. (a Brighella)

BRIGH. Ma! Cossa vorla che ghe diga? I m’averà portà via el valsente de vinti o trenta mille ducati.

BEAT. Cala, cala.

BRIGH. Cala, cala? Ghe giera diamanti de sta posta[12].

BEAT. Ma come diavolo li ha fatti questi diamanti?

BRIGH. Come? Col so ballar, colla so virtù. Care le mie vissere! Ogni volta che la faceva el ballo della pellegrina, la gente a gara ghe buttava dai palchi zecchini, diamanti, scatole, relogi, de tutto. BEAT. Gli orologi si saranno rotti.

BRIGH. Cara ella, la tasa, che no la sa gnente.

PANT. Basta... Adesso, come sarala?

BRIGH. Adesso... No so cossa dir; caro sior patron, me raccomando alla so protezion.

BEAT. Eh! a vostra figlia non mancheranno protettori.

BRIGH. Oh! no la ghe ne vol, patrona. Fora del teatro no la tratta nissun.

BEAT. Ha pur pranzato col signor conte alla locanda.

BRIGH. Gh’avemo fatto sta finezza de tegnirlo a tola con nu.

BEAT. E i dieci zecchini della corniola, si può dire che il signor conte glieli ha donati.

BRIGH. Veramente una gran cossa! Cossa xe diese zecchini? Nu tanto li stimemo, come diese soldi.

PANT. Ma perché no ghe mandeu drio a sto ladro?

BRIGH. Ghe dirò, signor, voleva mandar, ma senza bezzi, no gh’è nissun che se voggia mover.

PANT. Mo se i zecchini li stimè co fa i soldi, sarè pien de bezzi.

BRIGH. Tutto in baul, signor. Lisbonine grande co fa piatti da tola.

PANT. Ma cossa possio far per vu?

BRIGH. Voggio mi andarghe drio a sto baron, e intanto, fin che torno, la supplico de recever in casa

e de custodirme la mia creatura.

PANT. Volentiera.

BEAT. Oibò, oibò.

PANT. Cossa gh’ìntrela ella? Vu cossa diseu, Rosaura?

ROS. Siete voi il padrone, io mi rimetto.

PANT. Fela vegnir; ma diseghe che la sia un pochetto più umile.

BRIGH. Mia fia no i pol dir che la sia superba. La saluda tutti con cortesia. La se ferma a parlar colla povera zente. Basta dir, che co vien la lavandara, la la fa sentar.

BEAT. Capperi! È degnevole davvero!

BRIGH. Un’altra che gh’avesse quel boccon de vertù, che la gh’ha ella, no se degneria de nissun. Mia fia fa finezze a tutti.

PANT. Via, andela a tor e no perdè tempo, se volè trovar la vostra roba.

BRIGH. Vago subito. E no la se toga suggizion, sala? Mia fia xe avvezza a star al ben e al mal.

PANT. La starà come che la poderà. Se el letto sarà duretto, la gh’averà pazenzia.

BRIGH. La farà conto d’esser per viazo. No se pol aver sempre le trabacche de damasco. A Vienna la gh’aveva le coverte de recamo. E a Berlin l’è stada in t’un letto de ganzo d’oro. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Pantalone, Rosaura, Beatrice, poi Arlecchino, poi il cameriere.

PANT. Oh che matto glorioso!

BEAT. Anche nelle miserie conserva la sua albagia.

PANT. E vu no ridè de ste cosse? (a Rosaura)

ROS. Le scioccherie non mi fanno ridere.

PANT. No vorria che ve tornasse la malinconia.

ROS. Non vi è pericolo.

ARL. L’è qua el camerier della locanda, che vorria vegnir avanti.

PANT. Che el vegna.

ARL. No la sa, sior patron?

PANT. Cossa?

ARL. A Brighella gh’ho dà del ti, e no l’è andà in collera.

PANT. Cossa vustu dir per questo?

ARL. Vôi dir, che quando cresse la fame, cala la superbia. (parte)

BEAT. Dovrebbe esser così; ma colui ha la testa ancora piena di grandezze.

PANT. Se nol trova la roba, ghe calerà tutto el fumo.

CAM. Signore, mi manda il signor conte Ottavio.

PANT. Oh bravo! Xe debotto tre ore.  El xe pontual. Presto, zente, parecchiè luse, caffè, careghe. Aveu sentio? (a Rosaura)

ROS. (Ah! mi sento morire!) (da sé)

CAM. Mi manda il signor conte...

PANT. Dove xelo?

CAM. In gondola.

PANT. Sentiu! El xe in gondola, l’è qua che el vien. Rosaura, adesso xe el tempo de portarse ben. Cara fia, no me fe restar in vergogna.

CAM. Favorisca...

PANT. Aspettè. (al Cameriere) Lo tiostu volentiera? (a Rosaura)

ROS. Ma se v’ho detto di sì.

PANT. Ti me par malinconica.

ROS. Non è vero.

PANT. Ridi, novizzetta, ridi.

ROS. Sì, rido.

PANT. Siestu benedetta, ti me consoli. E cussì? Cossa me diseu? (al Cameriere)

CAM. Lo dirò una volta. Il signor conte mi manda a riverirla, e darle questo viglietto.

PANT. Un biglietto? Perché no vienlo ello?

CAM. Io non so altro. Devo andare, perché son aspettato. Servitore di lor signori. (parte)

BEAT. (Qualche novità). (da sé)

ROS. (Mi palpita il cuore). (da sé)

PANT. Sentimo cossa che el scrive. Signor Pantalone de’ Bisognosi. Per donne non voglio impegni. Se ammazzo, è male; se vengo ammazzato, è peggio. (Cossa diavolo vorlo dir?) So quel che dico. Vi mando la scrittura matrimoniale. (Come? xelo matto?) Non voglio più maritarmi. Coss’è sta cossa?

BEAT. Oh bella!

ROS. (Respiro). (da sé)

PANT. Dono le gioje. (Fin qua no gh’è mal). Darò li dieci mila ducati, se Rosaura non si marita per causa mia. (El xe un gran cavalier). Se prende Florindo, niente. (Adesso intendo, el la gh’ha con Florindo). Vado a Roma. Son galantuomo. Addio. Vado a Roma? Son galantomo? Non voglio più maritarmi? El scrive laconico, come che el parla. Cossa diseu? Questa xe la polizza, che avè sentio. (a Rosaura)

ROS. Non so che dire: io sto alle disposizioni del cielo.

PANT. Sta novità ve dala gusto, o desgusto?

BEAT. Io credo le darà piacere.

PANT. La lassa parlar a ella. Respondeme. (a Rosaura)

ROS. Il mio piacere vien regolato dal vostro. Voi, signor padre, come la ricevete?

PANT. Dirò la verità. Sul dubbio che no fussi abbastanza contenta, gh’ho squasi gusto de véderme sciolto con reputazion da sto impegno; ma me rincresce che abbiè da perder una fortuna, che difficilmente se pol trovar.

BEAT. Non vi sarebbe altro caso per ricompensare un tal danno, se non che la sposasse il signor Florindo. Egli è ricco niente meno forse del signor conte.

PANT. No séntela, che se la sposa Florindo, nol ghe dà i diesemille ducati?

BEAT. Glieli darebbe il signor Florindo.

ROS. Caro signor padre, i diecimila ducati che mi esibisce il signor conte, mi fanno ingiuria. Ho io perduta la riputazione, per temere di non maritarmi?

PANT. Donca, cossa penseu de far?

ROS. Ci penseremo.

BEAT. Giacché siamo preparati a far nozze, nel luogo del conte Ottavio, mettiamoci il signor Florindo.

PANT. Dove xelo sior Florindo?

BEAT. Lo troverò io. (andando verso lo stanzino)

ROS. Fermatevi.

PANT. No ti lo tioressi sior Florindo?

ROS. Caro signor padre, per ora lasciatemi in pace, per carità.

BEAT. Basterebbe ch’egli fosse qui, e vedreste s’ella direbbe di sì.

PANT. Se el ghe fusse, magari!

BEAT. Aspettate. (va verso lo stanzino, e apre)

ROS. Oh cielo! (vuol partire)

PANT. Dove vastu?

ROS. Lasciatemi andare.

PANT. Vien qua, digo. (la tira per un braccio)

ROS. Deh! lasciatemi.

PANT. Coss’è sta cossa? (tirandola)

SCENA DICIASSETTESIMA

Beatrice tirando per un braccio Florindo.

BEAT. Eh! venite qui.

FLOR. No, vi dico. (si lascia tirare)

PANT. Estu matta? Vien qua. (tirando Rosaura)

BEAT. Accostatevi. (tirando Florindo)

PANT. Olà! (s’avvede di Florindo) Qua sior Florindo? Come?

FLOR. Ah! La disperazione qui mi condusse...

BEAT. Poverino! Voleva cacciarsi dalla finestra, ed io l’ho serrato in quello stanzino. Orsù, tutti sanno che vi volete bene, ed il signor Pantalone sarà contentissimo che segua un tal matrimonio.

PANT. No so cossa dir. Sto sconderse in casa...

SCENA DICIOTTESIMA

Brighella, Olivetta e detti.

BRIGH. Signori, ecco qua la mia putta, che li vuol riverire. Via, feghe una bella reverenza a ste zentildonne.

OLIV. M’inchino a lor signore; permetta ch’io le baci la mano. (a Rosaura)

ROS. No, no, non v’incomodate.

BRIGH. Cossa disele? Xela umile mia fia? Gh’ala gnente della vertuosa? Gnente affatto.

BEAT. (È umiliata la signora virtuosa). (da sé)

PANT. Poverazza! Pol esser che recuperè.

OLIV. Il cielo lo voglia.

BRIGH. Me despiase della porzellana, che in Italia no se ne trova.

BEAT. Se volesse ballare nell’opera buffa, parlerei all’impresario.

OLIV. Che dite, papà?

BRIGH. Cara fia, lasso far a vu.

OLIV. Accetterò, per non istar in ozio.

BRIGH. Intanto ve farè cognosser anca in sti paesi. I poderà dir anca qua, che i v’ha visto a ballar.

BEAT. E se non vi fosse altro posto che di figurante?

OLIV. Oh! questo poi...

BRIGH. Eh! che mia fia l’è umile, la farà de tutto. Io intanto anderò a Padova, anderò drio de stofurbazzo. Caro signor Pantalon, me impresteravela do zecchini?

PANT. Per rendermeli quando?

BRIGH. Quando mia fia ballerà.

PANT. Pol esser anca che no i se giusta, e che no la balla.

BRIGH. E po credela che mia fia da qua do o tre zorni no la gh’averà dei bezzi? L’aspetta che se sappia che l’è in Venezia, e la vederà.

BEAT. Via, signor Pantalone, giacché la sorte è propizia, consolate questi poveri innamorati.

PANT. Sì, sposeve, che el cielo ve benediga.

FLOR. Cara signora Rosaura, abbiate pietà di me.

BEAT. Via, che farebbe muovere i sassi. (a Rosaura)

ROS. Non vorrei si credesse...

BRIGH. Povera signora, l’è modesta e ritrosa giusto come mia fia.

PANT. Animo, fia mia. Deghe la man, che ve lo comando.

ROS. Ah! lo farò per obbedirvi.

FLOR. Solamente per obbedire il padre?

ROS. Sì: lo faccio per obbedirlo. Bastivi però di sapere, che in tutte le circostanze della mia obbedienza, a niun comando mi sono con maggior piacere rassegnata.

BEAT. Brava! Oh che belle parole!

FLOR. Mi consolano le vostre voci, ed accettando la vostra mano...

SCENA DICIANNOVESIMA

Arlecchino e detti, poi il cameriere.

.

ARL. Siori...

PANT. Cossa gh’è?

ARL. L’è qua el conte Ottavio.

PANT. Oh diavolo!

ROS. Me infelice!

FLOR. Cosa vuole costui?

PANT. Cossa vorlo?

ARL. Brighella, siora Olivetta, allegramente.

BRIGH. Coss’è stà?

ARL. I ha fermà el lader. La roba l’è trovada.

OLIV. Davvero?

BRIGH. Eh! che no ve credo.

ARL. L’è così da galantomo.

BRIGH. Vôi andar a sentir... (volendo partire, incontra il Cameriere)

CAM. Signor Brighella, me ne rallegro.

BRIGH. È la verità?

CAM. Sì, signore, hanno fermato il ladro.

OLIV. Oh cielo! Dove?

CAM. Nella laguna, prima che arrivasse a Fusina.

BRIGH. Com’ela stada? Chi gh’è andà drio?

CAM. Il signor conte Ottavio ha dato alcuni denari; ha mandato dietro al ladro e l’hanno fermato.

BRIGH. Bravo conte, da galantomo. (con aria)

CAM. Mi dà la mancia?

BRIGH. Se vederemo. (con aria)

CAM. Si ricordi.

BRIGH. Andè, vecchio. Se vederemo.

CAM. È tornato in superbia. (parte)

PANT. Sto sior Ottavio no se vede. Bisogna che no sia vero.

FLOR. Giuro al cielo, lo ammazzerò.

ROS. Ah! no, Florindo.

PANT. No femo susurri.

BEAT. Signora Olivetta, me ne consolo. Ora respirerete.

OLIV. Eh! né anche per questo mi sarei ammalata.

BEAT. Ballerete più nell’opera buffa?

OLIV. Signora no, e mi vergogno d’averci ancora pensato.

BRIGH. Eh! le xe cosse che le se dise, ma po se ghe pensa a farle. Figurarse, una donna de sta sorte!

SCENA ULTIMA

Il conte Ottavio e detti.

PANT. Eccolo.

FLOR. Fremo in vederlo.

PANT. Cossa comandela, patron?

OTT. Avete letto?

PANT. Ho letto.

OTT. E bene?

PANT. Ella xe in libertà, e Rosaura sposerà sior Florindo.

OTT. Non occorr’altro. Vado a Roma; schiavo.

OLIV. Caro signor conte, mi avete voi favorito?

OTT. Zitto.

BRIGH. Ghe saremo obbligadi...

OTT. Zitto. L’ho fatto, perché hanno rubato, essendo costei in camera mia. Son cavaliere. Son galantuomo.

OLIV. Ed io...

OTT. Siete... una superba.

BRIGH. Ma come?

OTT. E voi un birbante. (parte)

BRIGH. Oh, che caro sior conte! Sempre el gh’ha in bocca delle barzellette.

BEAT. Presto; avanti che torni, datevi la mano.

FLOR. Sì, cara, eccola. (si dànno la mano)

BEAT. Bravi, bravi.

BRIGH. Se le comanda, co le fa el disnar, co le fa l’invido, ghe impresteremo la nostra arzentaria.

OLIV. Andiamo; sono stanca; sempre in piedi? In questa casa non ci vengo mai più.

BEAT. Signora Olivetta, potete ringraziare il conte Ottavio.

FLOR. Uomo veramente stravagantissimo.

PANT. Tanto stravagante lu, quanto ubbidiente mia fia.

ROS. Ecco, signori miei, l’effetto della obbedienza. Ho conseguito dal cielo per mezzo di questa quel bene che per altra via o non avrei ottenuto, o costato mi sarebbe mille rimorsi. Perciò non falla mai chi obbedisce; e siccome fra tutte le virtù dell’animo, è la più lodevole l’umiltà, così fra le figliuole adorabili di questa madre feconda, la più pregievole è l’obbedienza.

Fine della Commedia.

60


[1] Sguaiato.

[2] Non trovo la via d'uscirne.

[3] Da gran signore.

[4] Miagolare.

[5] Vuol dire, che Rosaura non si degna d'inchinarsi per salutarla.

[6] In grandezze.

[7] Guadagnare con artificio.

[8] Sproposito: vuol dire repentina.

[9] Così si grida, quando parte la barca che conduce a Padova tutti quelli che vogliono spender poco.

[10]  Proverbio che significa: La roba male acquistata, malamente si perde.

[11] Si mette a terra, come un pulcino.

[12] Di questa grandezza, di questa foggia.