La finta ammalata

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LA FINTA AMMALATA

LA FINTA AMMALATA

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia

il Carnovale dell’anno 1751.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR CONTE

ANNIBALE GAMBARA

PATRIZIO VENETO E SENATORE AMPLISSIMO,

BARONE DEL S. R. I., SIGNORE DI AJELLO,

FEUDATARIO DI VIROLA, ALGHISE,

PRALBOINO, MILZANO ecc.

Allora quando, Eccellentissimo Signore, seguirono le felicissime Nozze fra la Nobilissima Dama, la Signora Contessa Paola, di Lei Sorella, e Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Luigi Pisani, Procurator di San Marco, io era per mio distino in Toscana. Colà giunse lo strepito delle acclamazioni del giubbilo di tutti gli ordini della Città e dello Stato della Repubblica Serenissima di Venezia, esultante per cotal maritaggio, e dalle Rime de’ valorosi Poeti cantar s’udirono con ammirazione le lodi di due Famiglie sì rinomate e sì illustri.

Io più d’ogni altro forse eccitare mi sentii a tesser inni di giubbilo in una sì fortunata occasione, poiché, oltre il piacere che io ne provava, comune a tutti i Concittadini della mia Patria, mi credea in debito di manifestare l’umilissima servitù mia verso ambedue l’Eccellentissime Case, e la somma benignità con cui dall’una e dall’altra veniva io fortunatamente protetto. Le mie vessazioni, pur troppo al Mondo tutto palesi, m’hanno vietato poterlo fare, poiché un animo angustiato ed afflitto non può cantare carmi di gioia, e mal si convenivano a liete nozze i tristi omei, che andava tra le sofferte persecuzioni spargendo. Uscì nel tempo medesimo dai torchi di Venezia un quinto Tomo delle povere Commedie mie scontraffatte e scorrette, e a queste fu posto in fronte il nome grande suddetto della Nobilissima Dama, il che colmarmi doveva di consolazione, ma tutto in que’ giorni calamitosi mi si convertiva in veleno, rammaricandomi sopra di ciò aspramente che altri usurpato mi avesse l’onore di procurare da me medesimo una sì magnanima Protettrice alle Opere mie, e che le fossero queste senza la correzione mia dedicate. Io non ardisco presentarmi alla Dama con altra offerta, poiché sperando ch’ella abbia voluto onorare coll’alta sua protezione le Opere di un miserabile Autore, quantunque da straniera mano esibite, abusarmi non deggio della clemenza sua, ma renderle quelle grazie ch’io posso per un benefizio che giovami considerare a me soltanto concesso.

Altro non mancami per compimento del mio giubbilo e dell’onor mio, che della protezione benignissima dell’E. V. Potermi in faccia al Mondo gloriare. Ella è naturalmente inclinata a proteggere e a beneficare, avendo ereditato dagli Avi dell’antichissima Prosapia sua le più belle, le più eroiche Virtù, che vagliano a costituire un Cavaliere degno d’ammirazione e di lode.

Fino nell’anno CCCLXXIX che vale a dire quattordici secoli prima de’ nostri correnti giorni, principiò l’Italia a essere onorata dal sangue illustre de’ Gambara, allora quando la Madre d’Ibore ed Agione, Duci de’ Longobardi; si rese per le sublimi doti sue venerabile agl’Italiani; indi nell’anno CM Ancislao, condottiere di valorosa Armata, diè prove ammirabili del suo valore, e Ugone, suo primogenito, meritò essere da Ottone Imperadore della Prefettura d’Italia insignito, mentre un altro Ancislao godeva il Principato assoluto di Norlinghen nella Svevia. Un Francesco ebbe da Ferdinando Imperadore sette villaggi nel Friuli col titolo di Conte e Barone del S. R. I. Un Galeazzo fu Consigliere di Stato dell’Imperador Carlo IV, ed un Alberto per l’Imperadore Lottario ha governato la Lombardia. Uberto, Vescovo di Fortuna, poi Cardinale di Santa Chiesa, carissimo fu per la rara dottrina sua a Clemente VII, lo consigliava negli ardui mari di quei tempi calamitosi e dopo averlo impiegato nelle Nunziature di Portogallo, di Francia e d’Inghilterra, lo spedì a Carlo V, affinché lo sollecitasse a celebrare il Concilio, siccome felicemente gli riuscì di condurre a fine; e altri tre Cardinali, Gianfrancesco, Gerardo e Alberto, furono lo splendore del Vaticano, il primo de’ quali, fra le altre virtù, avea quella ancora di una esquisitissima poesia. Di questa fu ammirabile posseditore un Lorenzo nel cinquecento, contemporaneo al Giraldi, e Veronica, moglie di Gilberto VII signor di Correggio; e Ginevra e Giulia furono Poetesse rinomatissime, dall’Ariosto lodate al Canto quarantesimo sesto con questi versi:

«Veronica de’ Gambara è con loro,

«Sì grata a Febo ed all’Aonio Coro.

«Veggio un’altra Ginevra, pur uscita

«Dal medesimo sangue, e Giulia seco

Una Deidamia fu lo splendore de’ Letterati di quell’età, ed una Paola si venera sugli Altari, il di cui corpo si conserva incorrotto in Bene, nel Piemonte; e Fantina, e Maddalena, e Domitilla per santità rinomate, furono santificatrici di tre Chiostri della Carità in Brescia e di Santa Chiara, ed in Cremona di San Benedetto. Potrei rammemorare un Lanfranco, che col Re Ferdinando fu all’Impresa di Terra Santa, ed un Manfredi, che nella Lega intervenne contro Ezzelino in Milano conchiusa, e cent’altri Eroi d’una sì illustre rinomata Famiglia, ma sol di Brunoro farò memoria, tanto per le doti sue a Carlo V diletto, che volle si dipignesse a cavallo, con questi caratteri sulla tela: Brunorus Gambara Carolo V individuus. E di Domenico Michele ancora, il quale andò parimente all’impresa di Terra Santa, acquistò la città di Tiro, e molte ne soggettò alla Repubblica Veneziana.

Passati di padre in figlio i meriti e le virtù di tanti Eroi, di tante Eroine, ecco nell’E. V., siccome negli amabilissimi Fratelli suoi, conservato quello spirito di magnificenza, che ha sempre fatto risplendere una sì rinomata Famiglia, ed ecco moltiplicate ed abbellite quelle Virtù, che sono state 1’ammirazione de’ secoli trascorsi, e sono tuttavia la delizia de’nostri tempi.

Si uniscono nell’E. V. tante peregrine doti, che ciascheduno aspira sollecito all’onor di conoscerla e di ammirarla. Io certamente, benché il più immeritevole di chicchessia, ho coraggio d’aspirare egualmente all’onore altissimo della sia protezione, ed offerendole umilmente una delle imperfette Opere mie, intendo di offerirle con essa il mio cuore, la mia servitù, la mia vita medesima, per tutto il corso della quale, bramo di essere con profondissimo ossequio

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Molier celeberrimo Autor Francese, nella picciola Commedia sua, intitolata l’Amour médecin, ha toccato quell’argomento su cui la presente Commedia mia è lavorata; se non che la sua Lucinda è per amore ammalata, e la mia Rosaura finge per amore di esserlo: quella ama un giovane, che per averla si finge medico, questa ama un medico, che senza saperlo l’ha innamorata. L’azione tanto dell’una, quanto dell’altra delle due Commedie, è semplicissima, senza intreccio, cosicché prevedendosi da principio che l’Ammalata sarà guarita col matrimonio, manca la sospensione, che forma la miglior parte dell’opera.

Quel che può rendere la Commedia grata e piacevole, è la critica; ma questa cade sopra alcuni Medici impostori, ignoranti, e sopra uno Speziale balordo, e non vorrei, che per rispetto soltanto della professione, anche i buoni se ne offendessero e lo avessero per male.

La satira di Molier contro i Medici è sanguinosa; li mette in ridicolo, per dir vero, con troppa caricatura, e formando di tutti un fascio, fra cinque medici che mette in iscena, non ve n’è uno che ami la verità, ed operi con dottrina. È vero che la di lui moglie fu disgustata da quella di un medico, sua pigionale, e pretese il valoroso Poeta di vendicarsi, ma siccome per l’onte d’un solo si vendicò contro tutti, meritò che alla di lui morte niuno volesse assisterlo, e morì il pover’uomo senza soccorso, fra le braccia di alcune Terziarie da lui alloggiate per carità. Io non ho avuto che dir co’ Medici, e non sono in collera con alcuno di loro. Uno ve n’è curiosissimo, che va dicendo che nelle opere mie non vi è la Syntaxis, ma siccome a cotesto appena si può dare il nome di Medico, non merita che mi sfoghi né con lui, né con altri. Molti Medici ho l’onor di conoscere dotti, onesti, sinceri, nemicissimi dell’impostura, fra’ quali il mio amatissimo Dottore Matteo Foresti, che onora la casa mia coll’attuale medica sua assistenza, e della di cui virtù e saviezza ho avuto rimarchevoli prove.

I Medici di tal natura spero che non si dorranno di me, avendoli io con decoro rappresentati nel carattere del Dottore Onesti, dotto, disinteressato e sincero. Poco o nulla mi cale, che di me si lagnino gl’impostori e gl’ignoranti, raffigurati nel Dottor Buonatesta e nel Dottore Merlino, anzi desidero che mi stieno lontani, e averò forse dalla mia Commedia quest’avvantaggio, che se difficilmente gl’impostori si scuoprono, li conoscerò in avvenire per la inimicizia che avranno meco. Se ho posto in ridicolo i loro grecismi, parmi di averlo fatto con un po’ di ragione, mentre non è che per abbagliare gli stolidi, ch’essi fanno uso di termini strani, ampollosi e sonori, per dir quelle cose medesime, le quali hanno il loro nome italiano, facile e conosciuto.

Circa agli Speziali, Agapito non sarà forse il solo, che innamorato delle novità, o di qualche altro simile divertimento, abbandoni l’interesse importantissimo dell’altrui salute alle mani di un giovane, poco pratico ancora, o poco attento al difficilissimo suo mestiere.

Questi tali, se vi sono, meritano di essere conosciuti e sfuggiti; ed anche per questa parte mi saran grati i buoni, e forse si ravvederanno i trascurati. I Chirurghi poi non avranno niente che dire. Non vi sarà di loro chi neghi essere una cavata di sangue a tempo la medicina universale. Con quanti ho parlato, tutti mi hanno la stessa cosa asserito, facendo a proposito loro la critica di Molier medesimo nella Commedia stessa dell’Amor Medico, allorché per rallegrare la figlia di Sganarello, il tappezziere suggerisce l’uso di belle tappezzerie, e l’orefice un fornimento di gioje.

Sopra il titolo di questa Commedia mia, deggio dirti, Lettor carissimo, qualche cosetta, se per avventura diversamente s’intitolasse da chi medita di stamparla, come tante altre, imperfetta.

Quando fu esposta sulle Scene la prima volta, s’intitolò Lo Speziale, o sia la Finta Ammalata. Poiché avendo preso impegno col pubblico in una certa diceria stampata di far la Commedia dello Speziale, ho dovuto mostrar almeno di adempire la promessa, quantunque per episodio lo avessi nella Commedia introdotto.

Noi altri Compositori, o vogliam dire Teatrali Poeti, abbiamo anche noi le nostre ciarlatanerie, ma non però tanto frequenti e sonore come quelle de’ Medici impostori, i quali non si possono nemmeno onorare per la necessità.

Personaggi

PANTALONE.

ROSAURA figlia di Pantalone;

BEATRICE amica di Rosaura;

LELIO amante di Rosaura;

Il DOTTORE ANSELMO degli ONESTI medico;

Il DOTTORE ONOFRIO BUONATESTA medico;

Il DOTTORE MERLINO MALFATTI medico;

AGAPITO speziale sordastro;

TARQUINIO chirurgo;

COLOMBINA serva di Rosaura;

FABRIZIO servitore.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Bottega di speziale.

Agapito sedendo e leggendo i foglietti. Tiburzio dentro al banco. Dottor Merlino e Tarquinio, che giuocano a sbaraglino.

AGAP. Oh, chi l’avesse mai detto, che l’imperator della China avesse a sposare la figlia del re del Mogol!

TARQ. Il signor Agapito non pensa altro che alle novità, e lascia la spezieria in mano de’ suoi garzoni. (giuocando)

AGAP. Buono, buono: faranno lega offensiva e difensiva. Signor dottore. (forte verso Merlino)

MERL. Che cosa c’è? (giuocando)

AGAP. Signor dottore. (più forte)

MERL. Che cosa volete?

AGAP. Signor dottore. (più forte)

TARQ. Non sapete che è sordo? Dite forte. (a Merlino)

MERL. Che cosa volete? (forte)

AGAP. Sentite questa bella novità. L’imperator della China sposerà la figlia del re del Mogol.

MERL. Non me n’importa un fico.

AGAP. Ah?

MERL. Non m’importa.

AGAP. Che?

MERL. (Oh sordo maledetto!) Vi dico che non ci penso. (forte)

AGAP. Ho inteso, ho inteso. Siete di buon gusto. (È un dottor ignorante, che non sa niente; non sa nemmeno scrivere le ricette). (da sé)

SCENA SECONDA

Fabrizio e detti.

FABR. Signore.

AGAP. Che domandate?

FABR. È ella il padrone?

AGAP. Come?

FABR. Il padrone chi è?

AGAP. Io. Che cosa volete?

FABR. Mi manda l’illustrissimo signor marchese Asdrubale, mio padrone.

AGAP. Chi?

FABR. Il signor marchese Asdrubale. (forte)

AGAP. Oh, l’illustrissimo signor Marchese... Son qui, son qui; che cosa comanda? (s’alza)

FABR. La prega di mandargli un medico.

AGAP. Che? Un medico? Dite un poco più forte.

FABR. Sì signore, la prega di mandargli un medico.

AGAP. Chi ha male? Il signor Marchese?

FABR. Signor no; un suo garzone di stalla.

AGAP. Stalla? Avete detto stalla?

FABR. Sì, signore, un garzone di stalla.

AGAP. Uh! gran premura per un garzone di stalla! (siede)

FABR. È pregata mandargli questo medico. (forte)

AGAP. Ecco lì, prendete il signor dottore Merlino.

FABR. È buono veramente? Perché l’ammalato è mio fratello.

AGAP. Sì, sì, per un garzone di stalla è buono.

FABR. Signore, la vita di un garzone di stalla val quanto quella del suo padrone.

AGAP. Vi manda il padrone; ho capito. Signor dottore Merlino, andate a visitare questo garzone di stalla.

MERL. (S’alza) Andiamo pure. (Se questa fosse una buona cura, non mi manderebbe al certo; ma convien pigliare quello che viene). (da sé)

TARQ. Galantuomo, se vi è bisogno del chirurgo, son qua io.

FABR. Non lo so. Gli è venuta la febbre con uno svenimento.

TARQ. Svenimento? Vi vuol sangue; è vero, signor dottore? Vi vuol sangue.

MERL. Andiamo, e lo vedremo.

TARQ. Tutto il male vien dal sangue.

MERL. Se vi sente il signor Agapito, state fresco! Manco male ch’è sordo.

TARQ. Sì, egli vorrebbe che, invece di cavar sangue, si caricassero gli ammalati di pillole e di sciroppi. (parte)

MERL. Ognuno procura tirar l’acqua al suo mulino. (parte)

FABR. Il cielo me la mandi buona. (parte)

SCENA TERZA

Agapito solo, leggendo.

AGAP. Si prevede che il Gran Can de’ Tartari, posto in gelosia di un tal matrimonio, si armerà alle frontiere del suo paese... Non vedo l’ora che venga il dottor Buonatesta. Questo foglietto non l’avrà avuto, non ha egli le corrispondenze che ho io. Oh, ecco qui il dottor Onesti. Questo è un galantuomo che sa, ma scrive poco; non è buono per una spezieria...

SCENA QUARTA

Il dottore Onesti e detto.

ONES. Riverisco il signor Agapito.

AGAP. Servitor suo.

ONES. È stato nessuno a cercar di me?

AGAP. Che dice?

ONES. (Che pena con questo sordo!) (da sé) Nessuno ha domandato di me? (forte)

AGAP. Signor no, nessuno.

ONES. Ditemi, si è veduto il signor Pantalone de’ Bisognosi?

AGAP. Bisognosi, di che?

ONES. Si è veduto il signor Pantalone? (forte)

AGAP. Ah, il signor Pantalone de’ Bisognosi? Ho inteso. Signor no, non si è veduto.

ONES. Porterà o manderà una ricetta mia per la signora Rosaura sua figlia. Voi avete a fingere di dargli un medicamento, e gli avete a dare una boccia d’acqua del vostro pozzo. (forte e vicino)

AGAP. Perché una boccia d’acqua, e non altro?

ONES. Perché il male di quella giovane è ideale; crede aver male e non è vero. Per contentarla, qualche volta le accordo apparentemente un qualche medicamento che non le possa far male; le do l’acqua pura, per non imbarazzarle lo stomaco con altri inutili medicamenti. (forte)

AGAP. Ma se le do l’acqua, che cosa metterò in conto nel libro?

ONES. Niente. (come sopra)

AGAP. Niente?

ONES. Volete farvi pagare l’acqua pura del vostro pozzo? (come sopra)

AGAP. Ma se la do per medicamento!

ONES. È un finto rimedio, per secondare l’immaginazione della ragazza. Quando l’avrà bevuta, probabilmente le parrà star meglio, loderà il medicamento ed io allora svelando la verità, assicurandola che la bevanda non era che acqua di pozzo, può essere che mi riesca disingannarla, e distruggere a poco a poco i suoi pregiudizi e le sue malinconie. (forte)

AGAP. Andate là, che siete un bravo medico. (con ironia)

ONES. Fate voi il vostro mestiere, e lasciate a me fare il mio. (forte)

AGAP. Se medicate coll’acqua fresca, distruggete il mio mestiere ed il vostro.

ONES. Io non ordino i medicamenti per beneficar lo speziale. (forte)

AGAP. Sì, voi ordinate l’acqua fresca per incomodarlo.

ONES. Il signor Pantalone è uomo ricco e proprio; non dubitate, vi riconoscerà. (allontanandosi)

AGAP. Che cosa conoscerà?

ONES. Dico che vi riconoscerà.

AGAP. Chi?

ONES. Il signor Pantalone.

AGAP. A chi?

ONES. A voi.

AGAP. Come a me?

ONES. Riconoscerà voi.

AGAP. Perché?

ONES. (Oh sordo maledetto!) (da sé)

AGAP. Il Gran Can de’ Tartari fortificherà le piazze di frontiera. (legge)

SCENA QUINTA

Lelio e detti.

LEL. Signor dottore, appunto di voi andava in traccia.

ONES. In che vi posso servire? Che cosa avete da comandarmi?

LEL. Vorrei pregarvi di sapermi dire, come sta la signora Rosaura.

ONES. Siete voi parente della signora Rosaura?

LEL. Parente no, sono amico.

ONES. Amico di suo padre, o di lei?

LEL. Veramente più di lei che di suo padre. Vi dirò, la desidero per moglie e l’ho fatta chiedere al signor Pantalone. Egli, col pretesto che la figlia è ammalata, non la vuol maritare, onde per questo desidero sapere come sta di salute.

ONES. Vi dirò, signore, ella sta bene e crede di star male.

LEL. Caro signor dottore, ve la raccomando.

ONES. Assicuratevi ch’io farò il mio dovere.

LEL. Vorrei pregarvi d’una grazia.

ONES. Dove posso, comandatemi.

LEL. Quando andate a visitarla, favoritemi salutarla da parte mia.

ONES. Mi maraviglio di voi; di questa sorta d’uffizi non s’incaricano i pari miei. Io faccio il medico, e pratico nelle case unicamente per esercitare la mia professione. Io non m’introduco negli affari domestici; non fo il consigliere, non fo l’economo, e molto meno il mezzano. (parte)

SCENA SESTA

Lelio ed Agapito.

LEL. Capperi! questo signor dottore porta alta la sua professione. Il dottore Merlino non avrebbe avuto tante difficoltà. Bisognerà assolutamente che io mi serva di qualche mezzo per coltivar la signora Rosaura. Una figlia unica di un padre ricco merita tutta l’attenzione di un uomo che brama fare la sua fortuna. (parte)

AGAP. (S’avanza) Sia ringraziato il cielo! Il signor dottore dell’acqua pura se n’è andato; se tutti facessero così starei fresco. Acqua pura? Almeno avesse ordinato che gli mettessi dentro quattro semi di zucca, che avrei messo a libro: Per emulsionem quattuor seminum frigidorum maiorum, paoli tre.

SCENA SETTIMA

Pantalone e detto.

PANT. Sior Agapito riverito.

AGAP. Oh signor Pantalone riveritissimo, padron mio stimatissimo, servitor suo umilissimo.

PANT. Come steu? Steu ben?

AGAP. Sta bene? Me ne rallegro.

PANT. Digo se vu stè ben. (forte)

AGAP. Io sto bene, se sono in grazia del mio veneratissimo signor Pantalone.

PANT. Grazie alla vostra bontà.

AGAP. Ha nulla da comandarmi?

PANT. Gh’ho qua sta ricettina, se volè far grazia.

AGAP. Favorisca, lasci vedere. L’ha fatta il dottor Onesti?

PANT. Giusto ello.

AGAP. (Il signor dottore dell’acqua pura). (da sé) Sentiamo che cosa dice: Recipe aquam putei recenter extractam, ponatur in vase vitreo, deinde offeratur puellae, ut bibat ad satietatem. (Oh bella ricetta!) Signor Pantalone, ha veramente male la signora Rosaura?

PANT. Poverazza! Xe tanto tempo che la gh’ha mal, e nissun ghe trova remedio. (forte)

AGAP. Non faremo nulla.

PANT. No? mo perché? (forte)

AGAP. Con queste ricette non si guariscono le malattie.

PANT. Tutti me dise che sto dottor Onesti xe un omo de garbo.

AGAP. Se fosse un uomo di garbo, lo vedreste frequentare la mia spezieria.

PANT. Caro sior Agapito, vu me mettè in agitazion.

AGAP. Come?

PANT. Me mettè in agitazion. (più forte)

AGAP. Io vi parlo da amico. Il dottor Onesti va per le lunghe, non la finisce mai. Vi parlo contro il mio interesse, ma vi parlo da galantuomo.

PANT. Ve son obbligà, bisognerà muarlo. (forte)

AGAP. Volete che io vi dia un bravo medico? Un uomo grande? Un uomo celebre? Galantuomo, bravo teorico, bravo pratico?

PANT. Magari; ve sarò ben obbligà.

AGAP. Con chi siete obbligato? Coll’Onesti?

PANT. A vu sarò obbligà. Chi elo sto bravo miedego?

AGAP. Conoscete voi il dottor Buonatesta?

PANT. Non lo cognosso.

AGAP. Ho piacere che lo conosciate. Quello è il primo uomo del mondo.

PANT. Come poderavio far a poderlo aver? (forte)

AGAP. Poco può stare a capitar qui.

PANT. Vienlo qua? (forte)

AGAP. Oh, qui praticano tutti gli uomini grandi, e quelli specialmente che si dilettano di novità. Voi siete amante di nuove? Leggete i foglietti?

PANT. Mi no me ne diletto.

AGAP. Dunque se vi dilettate di nuove, sentite questa.

PANT. Mi vorria che vegnisse sto miedego.

AGAP. Sì, tanto che viene il medico. L’imperator della China sposerà la figlia del re del Mogol.

PANT. A mi no me ne importa.

AGAP. La Porta? Come c’entra la Porta? Il Turco non ha che fare colla China e col Mogol; sino che diceste il Gran Can de’ Tartari, direste bene; perché sentite: Si prevede che il Gran Can de’ Tartari, posto in gelosia di un tal matrimonio, si armerà alle frontiere della Tartaria. Ah, ah, che ne dite? È una bella nuova?

PANT. Vorria che vegnisse sto miedego.

AGAP. Oh eccolo ch’egli viene; osservate che gravità. Ah, che vi pare? All’aspetto solo non si ha da dire che è un uomo grande?

PANT. Certo l’è un omo de bella apparenza.

AGAP. Che apparenza? È un uomo di sostanza.

SCENA OTTAVA

Il dottore Buonatesta e detti.

BUON. (Con gravità saluta, senza parlare)

AGAP. Servo di V.S. illustrissima.

BUON. Riverisco.

PANT. Strissima([1]).

BUON. Schiavo suo.

AGAP. Signore, è qui il signor Pantalone de’ Bisognosi che ha bisogno di lei per una sua figlia ammalata.

BUON. Ho troppe visite. Non so se potrò.

AGAP. È un mercante assai ricco, de’ primi della città.

BUON. Servitor suo. Che male ha la sua figliuola? (a Pantalone)

PANT. No so gnanca mi. Un mal grando, che nissun lo cognosse.

BUON. Nessun lo conosce? Oh povera medicina! Nessun lo conosce?

PANT. De tanti miedeghi nissun gnancora l’ha cognossù.

BUON. Lo conoscerò io. Signor Agapito: (forte) i medici non conoscono il male della figlia di questo signore: povera medicina! Lo conoscerò io.

PANT. Spero che la so virtù farà quello che non ha fatto tanti altri.

BUON. Chi la medica?

PANT. Il dottor Onesti.

BUON. Il dottor Onesti? (chiama Agapito) Il dottor Onesti? (forte)

AGAP. Sì, il dottor dell’acqua fresca.

BUON. Quai sono gli effetti di questo gran male che non si conosce?

PANT. El ghe fa mille stravaganze. Ora la ride, ora la pianze, no la gh’ha appetito, la se destruze che la fa compassion.

BUON. (È ipocondriaca!) (da sé) Ehi. (chiama Agapito) (È ipocondriaca?) (all’orecchio)

AGAP. (Sì, e il dottor Onesti le ha ordinato una boccia d’acqua pura). (piano a Buonatesta)

PANT. Caro sior illustrissimo, la prego, la vegna a visitarla, e la veda se la pol arrivar a capir cossa che xe el so mal.

BUON. Se posso arrivare a capirlo? Venite qua, e stupite. Mi avete detto: ora ride, ora piange, non mangia e si distrugge. A me. Qualche volta le verranno delle mancanze di respiro.

PANT. È vero.

BUON. Le tremeranno le gambe.

PANT. Certo.

BUON. Le parrà di cadere.

PANT. È verissimo.

BUON. La notte non potrà dormire.

PANT. No la serra mai occhio.

BUON. Niente la divertirà.

PANT. Gnente affatto.

BUON. Le verrà voglia d’una cosa, e poi non la vorrà più.

PANT. Vero, vero; sior illustrissimo, la sa tutto senza véderla.

BUON. Ah? lo conosco io il suo male?

PANT. La lo cognosse senza véderla.

BUON. Sì, senza vederla, sulle vostre relazioni. Lasciate poi che la veda, e vi farò stupire.

PANT. Oh che omo! Oh che gran virtuoso! El cielo me l’ha mandà. Sior Agapito. (s’accosta) Oh che omo! Ve son tanto obbligà.

AGAP. Ah, vi piace?

PANT. El m’ha fatto un consulto in piè, in piè, senza véder l’ammalada. (all’orecchio)

AGAP. (Gli avete dato nulla?)

PANT. (Cussì presto?)

AGAP. (Agli uomini di questa sorta si pagano le parole un tanto l’una).

PANT. (Adessadesso). Sior illustrissimo, comandela de favorir de vegnir con mi a véder sta mia putta?

BUON. Ora non posso. Ho troppe visite.

PANT. Ma quando poderala vegnir?

BUON. Lasciate ch’io veda il mio taccuino. A ore sedici dal conte Anselmo. A sedici e mezza dal marchese Ruggiero. A sedici e tre quarti dalla contessa Olimpia. A diciassette dal cavaliere Roberto. A diciassette e un quarto dal principe Casimiro. Alle diciotto dal conte...

PANT. Dal sior prencipe la ghe sta tre quarti d’ora?

BUON. Ha piacere di divertirsi; sagrifica volentieri tre zecchini per parlar meco tre quarti d’ora.

PANT. (Un zecchin ogni quarto d’ora! Ma cossa s’ha da far? Per varir sta putta bisogna spender). (da sé)

BUON. Vedete? Per questa mattina non potrò venire.

PANT. Se la podesse levar do quarti d’ora al sior prencipe e darmeli a mi, supplirave anca mi al mio debito... senza pregiudizio de vusustrissima.

BUON. Caro signor Pantalone, siete tanto proprio e civile, che non posso ricusare di compiacervi. Alle ore... Aspettate. (osserva il taccuino) Alle ore diciassette e mezza sarò da voi, e ci sarò sino alle diciotto.

PANT. E mi farò el mio dover. Vago intanto a consolar mia fia e dirghe che la staga allegra, che ho trovà un miedego che cognosse el so mal.

BUON. Non lo conoscevano?

PANT. No i lo cognosseva.

BUON. Povera medicina strapazzata!

PANT. Ma la prego, per grazia. Za ch’ella a st’ora lo cognosse sto mal, cossa se ghe dise?

BUON. Il male di vostra figlia vocatur flatulenta affectio mirachialis.

PANT. Oh bravo! Cara ella, la torna a dir.

BUON. Flatulenta affectio mirachialis.

PANT. Cossa vuol dir mo sto mirachiale?

BUON. Mirach, idest abdomen, scilicet mesenterium.

PANT. (Oh che omo!) Sior illustrissimo, no la voggio più tediar. Vago da mia fia, e a disisette ore e mezza l’aspetto. (Oh che omo de garbo! Se mia fia no varisse sta volta, no la varisse mai più). (da sé, parte)

SCENA NONA

Agapito e il dottor Buonatesta.

AGAP. Signor dottore, avete veduto il foglietto della China?

BUON. Non l’ho veduto ancora. Avete sentito? Questo buon vecchio ama molto sua figlia.

AGAP. Sì, la figlia del re del Mogol sposerà l’imperator della China.

BUON. Badate a me. Credete voi che possa spendere?

AGAP. Se può spendere? Se il re del Mogol può spendere? Sentite. Si preparano per il bagaglio reale venti elefanti, trecento camelli...

BUON. Ora non è tempo di novità. Avete de’ cordiali? (forte)

AGAP. Oh, signor sì.

BUON. Perle ne avete?

AGAP. Che?

BUON. Avete perle? (forte)

AGAP. Perle? per che farne?

BUON. Da macinare ne’ cordiali. (forte)

AGAP. Signor sì, ho delle perle, ordinatele pure. (Scorza d’ostrica fa lo stesso). (da sé)

BUON. Preparate quattro dramme di sal di tartaro.

AGAP. Oh, i Tartari si difenderanno.

BUON. Signor Agapito, voi patite d’ipocofosi.

AGAP. Come?

BUON. D’ipocofosi. (forte)

AGAP. Che cosa vuol dire?

BUON. Di sordità. (forte)

AGAP. Io sordo? Non è vero.

BUON. Voi avete offeso il timpano. (forte, e parte)

AGAP. E voi m’avete rotto il tamburo. (parte)

SCENA DECIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura e Colombina.

COL. Via, signora padrona, state allegra, non abbadate a tutto. Più che si pensa, più il male cresce. Finalmente non avete febbre, non avete verun cattivo accidente.

ROS. Oimè, Colombina, dammi la mano, che mi par di cadere.

COL. Tenete; sedete qui. Che cosa vi sentite?

ROS. Mi gira il capo.

COL. Non avete mangiato da ieri in qua. Vi girerà il capo per la debolezza. Eh via, mangiate qualche cosa.

ROS. Ma se non posso.

COL. Il medico ha detto che, se non mangerete, vi ammalerete davvero.

ROS. Qual medico ha detto questo?

COL. Il dottor Onesti.

ROS. Il dottor Onesti? (ridendo)

COL. Capperi! Il dottor Onesti è un bravo medico.

ROS. Perché?

COL. Perché vi rallegra sentendolo nominare.

ROS. Oh, sei pure sguaiata!

COL. Dite quel che volete, ma io assolutamente voglio credere a modo mio.

ROS. Via, che cosa hai nel capo? Che cosa credi?

COL. Credo che tutto il vostro male sia mal d’amore.

ROS. Oh, oh, mal d’amore! Mi fai ridere senza voglia.

COL. E credo che, per guarirvi, più delle medicine vi gioverebbe il medico.

ROS. Oh, che ti venga la rabbia; che diavolo vai dicendo? Oh, oh, questa è da ridere. (ridendo)

COL. Ma se la cosa è così, non vi state a tormentare inutilmente; ditelo a vostro padre.

ROS. Via, via, che sei pazza. In verità, mi fai crepare di ridere.

COL. Ora mi date piacere. Vi vedo pure una volta ridere.

ROS. Ma se tu di’ cose...

COL. Dite a me: siete innamorata?

ROS. No. (ridendo)

COL. Ed io dico di sì.

ROS. No, ti dico di no.

COL. Avete male?

ROS. Sì.

COL. Verrà il medichetto e vi guarirà.

ROS. Ah, ah, ah, pazza maledetta! Ah, ah, ah. (ridendo)

SCENA UNDICESIMA

Beatrice e dette.

BEAT. Chi è qui? Si può venire? (di dentro)

COL. La signora Beatrice.

ROS. Le voglio bene, ma ora non vorrei nessuno.

COL. Bisogna farla passare. Venga, signora Beatrice.

BEAT. Buon giorno, signora Rosaura, come state?

ROS. Ah! male assai. (malinconica)

COL. (Ha finito di ridere). (da sé)

BEAT. Ma che cosa vi sentite?

ROS. Non posso respirare; ho una malinconia che mi uccide.

COL. (E ora rideva come una pazza). (da sé)

BEAT. Avete febbre?

ROS. Oh, credo d’averne sempre.

BEAT. Eppure non avete cattiva cera.

ROS. Accomodatevi; datele da sedere.

COL. Subito, vi servo. Cara signora Beatrice, procurate farla stare allegra, divertitela da questa sua malinconia.

BEAT. Farò il possibile per divertirla.

COL. Signora padrona, volete che vada a farvi un poco di zuppa?

ROS. No, no, mi solleva lo stomaco solamente a sentirla nominare.

COL. L’ha detto il dottor Onesti.

ROS. L’ha detto? (alquanto ridente)

COL. Sì, l’ha detto. La volete?

ROS. Via, mi sforzerò.

COL. (Oh, assolutamente il dottor Onesti è il suo male, il suo medico e la sua medicina). (da sé, parte)

SCENA DODICESIMA

Rosaura e Beatrice.

BEAT. Questa notte avete dormito?

ROS. Non ho mai chiuso occhio. (mesta)

BEAT. Ma da che è derivato questo vostro male?

ROS. Io non lo so; so che mi sento sfinita, che non ho forza di stare in piedi, e mi consumo ogni giorno più. (con affanno)

BEAT. Avete ostruzioni?

ROS. Ho dieci mali, uno peggio dell’altro.

BEAT. Prendete medicamenti?

ROS. Ho presa, posso dire, una spezieria intera, e niente mi giova.

BEAT. Eh, Rosaura, sapete qual sarebbe il medicamento buono per voi?

ROS. E quale?

BEAT. Un bel marito.

ROS. Oh, mi fate ridere! (ridendo)

BEAT. Ah, ah, il marito vi fa ridere.

ROS. Non rido del marito, rido di voi che lo dite con quella grazia.

BEAT. Volete ch’io vi trovi questo medicamento?

ROS. Oh, siete pur curiosa! (ridendo)

BEAT. Ditemi in confidenza, avete nessuno che vi vada a genio?

ROS. Oh via, non mi dite queste cose.

BEAT. Se avete soggezione a dirlo a vostro padre, confidatelo a me, e vi prometto che farò le cose con buona grazia.

ROS. Ah, ah, che cara signora Beatrice! Un poco della vostra allegria mi farebbe tanto bene! (ridendo)

BEAT. Mi consolate, quando vi vedo ridere.

ROS. Voi fareste ridere i sassi.

SCENA TREDICESIMA

Pantalone e dette.

PANT. Coss’è, fia mia, steu meggio?

ROS. Ahi il mio cuore! Oh dio! Che dolor di cuore! (sospirando)

PANT. Poverazza! Sempre cussì, siora Beatrice, sempre cussì.

BEAT. (Suo padre le ha fatto venire il male di cuore). (da sé)

PANT. Astu magnà gnente?

ROS. Niente affatto... non posso mangiare. (con affanno)

PANT. Cara fia, magna qualcossa, se ti me vol ben, magna per amor de to pare.

ROS. Ma se non posso.

BEAT. Via, mangiate, ve l’ha ordinato il dottor Onesti.

ROS. Ah! mi sforzerò. (un poco ridendo)

PANT. Ti fa bocca da rider, cara? Ti ridi, le mie raìse([2])? Via, per amor de to pare magna do bocconcini de panadella. Colombina, porta qua la panada, Rosaura la magnerà per amor de so pare.

BEAT. Signor Pantalone, bisogna pensare alla salute della signora Rosaura.

PANT. Ho speso tanti bezzi per ella, e son pronto a spender tutto quello che gh’ho a sto mondo, perché la varissa.

BEAT. Eh, vi vuol altro che medicamenti!

PANT. Cossa ghe vol?

BEAT. Ehi, sentite. (Un marito). (piano a Pantalone)

PANT. Eh siora, compatime, no savè cossa che ve disè. Subito che una putta gh’ha mal, ghe vol el mario? Poverazza! maridarla co sto boccon de mal, acciò che la mora? Se la va via da so pare, la mor subito. N’è vero, vita mia, ti vol star co to pare?

ROS. Ahi, ahi, mi sento morire!

PANT. Presto, presto, fia mia, tiò, nasa([3]). Vedeu, se no la gh’avesse so pare? Un mario no starave miga là a farghe la guardia, co ghe vien mal. Poverazza! la gh’ha bisogno del so povero pare.

BEAT. (Oh quanto è buono questo vecchio!) (da sé)

SCENA QUATTORDICESIMA

Colombina colla zuppa, e detti.

COL. Ecco la zuppa.

ROS. Non la voglio, non la voglio.

PANT. Via, per to pare.

BEAT. L’ha detto il medico.

ROS. Mi sforzerò.

PANT. Vedeu? Per so pare la se sforzerà.

COL. Mangiatela, che è preziosa.

ROS. Ma se non posso.

COL. Il medico dirà che non volete fare a suo modo.

ROS. La mangerò. (mangia)

PANT. Vardè, se la me vol ben, vardè.

COL. Il dottor Onesti si consolerà.

ROS. (Ride).

PANT. Cara quella bocchetta che ride. Senti, fia mia, vedo che sto dottor Onesti no te varisse, ho pensà de muar miedego, e ho trovà un vertuoso...

ROS. Oimè! mi vien male, non posso più. (getta via la zuppa, e balza dalla sedia)

PANT. Fia mia, cossa fastu?

ROS. Andate via di qua, non voglio nessuno.

PANT. Fermete, per amor de to pare.

ROS. Lasciatemi stare.

PANT. Se ti vol ben a to pare.

ROS. Non so di padre, non so di madre, non so s’io viva, non so s’io mora. Son fuor di me, tremo tutta.

PANT. Son qua mi, son qua mi. Nasa. (le sporge una boccetta al naso)

ROS. Andate via, andate via. Colombina, aiutami; signora Beatrice, per carità. (s’appoggia alle due suddette)

PANT. No ti vol to pare?

ROS. No.

COL. Non ha bisogno di voi, ha bisogno del dottor Onesti.

ROS. Il diavolo che ti porti. (dà una spinta a Colombina, e parte)

PANT. Poverazza! el mal ghe va alla testa. Presto, vôi chiamar i miedeghi, vôi far consulto. Vegnirà el dottor Onesti, vegnirà el dottor Bonatesta, chiamerò qualcun altro, vôi far consulto. Povera la mia putta! No gh’ho altro al mondo che questa.

COL. Signor padrone, volete guarirla?

PANT. Oh magari!

COL. Maritatela.

PANT. Sì ben: maritatela. Par che el matrimonio sia la medesina de tutti i mali. Povera frasconazza([4]), domandè a tante che s’ha maridà, e me savarè dir che bon medicamento per una donna xe el matrimonio. (parte)

COL. Se il matrimonio fosse una medicina cattiva, tante vedove non tornerebbero a medicarsi. (parte)

BEAT. Io ho sempre sentito dire, che quei medicamenti che hanno dell’amaro, fanno bene allo stomaco. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Bottega di speziale.

Agapito solo, leggendo i foglietti e ponendosi a sedere.

AGAP. Sono seguite le nozze fra la Principessa, figlia del re del Mogol, col Principe ereditario della China. Capperi! hanno fatto presto a far questo matrimonio. Io scommetto che in Italia sono il primo a saperlo. L’imperator della China ha spedito un’ambasciata al Gran Can de’ Tartari, assicurandolo della sua buona amicizia, ma si prevede che il Tartaro non l’accetterà. Come! non l’accetterà? Perché? Con qual ragione? Signor sì che l’accetterà, signor sì. Il re del Mogol avanzerà alla Persia le sue proposizioni. Oh bravo! Il re del Mogol sarà il mediatore. Si aggiusteranno, si aggiusteranno. (segue a legger piano)

SCENA SECONDA

Il dottor Merlino, Tarquinio e detto.

MERL. Caro signor Tarquinio, l’avete fatta bella. Per fare a modo vostro, ho fatto cavar sangue a quel poveruomo, e dopo la cavata di sangue ha peggiorato.

TARQ. Vi vuol pazienza; sono accidenti che accadono. Anch’io l’altro giorno, per eseguire un vostro ordine, cavai sangue a quel mercante, tuttoché non ne avesse bisogno.

MERL. E se quel povero garzone di stalla morisse per cagion vostra?

TARQ. Nessuno dirà che sia morto per questo.

MERL. Pur troppo, quando un ammalato muore, si dice ch’è stato il medico che l’ha cacciato sotterra; e se guarisce, ch’è risanato non per cagione del medico, ma per la gioventù, per la buona complessione, per qualche stella, per qualche favorevole pianeta che l’ha soccorso.

TARQ. Ma con tutto questo, tutti quelli che si ammalano, chiamano il medico.

MERL. È vero. Ma in oggi il medico non è più nella estimazione di prima. Non si obbedisce e non se gli crede.

TARQ. Si paga? Se si paga, basta.

AGAP. Come! Il Can de’ Tartari (s’alza) vuole che il principe della China ripudi la sposa? Ah cane, veramente cane! Povera principessa! Ripudiarla? Perché sposi una tua figlia? una tua bastarda? No. Giuro al cielo, non la ripudierà; non la ripudierà. (passeggia)

MERL. Signor Agapito...

AGAP. Non la ripudierà...

TARQ. Che cosa avete, signor Agapito?

AGAP. Non la ripudierà.

MERL. Che cosa vi è di nuovo?

AGAP. Sposar la figlia del Cane!

MERL. La figlia di un cane?

AGAP. Signor sì, del Cane, signor sì.

MERL. Ma chi è questa figlia del cane?

AGAP. Avete letto i foglietti?

MERL. Io non leggo foglietti.

AGAP. Sì? Li avete letti?

MERL. No, no, vi dico. (forte)

AGAP. Via, via, non gridate, non son sordo. Se non li avete letti, non parlate; non sapete niente. E voi li avete letti? (a Tarquinio)

TARQ. Signor no. (forte)

AGAP. Povera gente! Non sapete niente. Maledetto Cane! Disfar un matrimonio? Orsù, sinora sono stato neutrale, ma in oggi mi dichiaro. Son China, son China, son Mogol, son China. Sì, contro il Cane. Ho tanta rabbia contro il Cane de’ Tartari, che non voglio più veder cani.

SCENA TERZA

Pantalone e detti.

PANT. Sior Agapito. (forte)

AGAP. Padron mio.

PANT. S’ha visto el dottor Bonatesta? (forte)

AGAP. Signor no; l’aspetto ancor io.

PANT. Mia fia sta pezo che mai.

AGAP. Come?

PANT. Mia fia sta pezo. (forte)

AGAP. Volete farla guarire?

PANT. El ciel volesse.

AGAP. Come, se volesse?

PANT. (Oh poveretto mi!) Magari. (forte)

AGAP. Datele la china.

PANT. La china?

AGAP. In oggi la china è il medicamento dominante. La china si adopera per tutti i mali.

PANT. La china farala ben a mia fia? (forte)

AGAP. Farà benissimo.

PANT. Podemo provar.

AGAP. Grand’obbligazione abbiamo alla China! Viva la China! E il Can de’ Tartari vorrebbe che il principe della China ripudiasse la sposa? Non la ripudierà, non la ripudierà.

PANT. Cossa gh’intra el Can de’ Tartari colla china? (forte)

AGAP. Avete letto i foglietti?

PANT. Sior no.

AGAP. Se non avete letto i foglietti, non parlate.

PANT. Orsù, se vien el dottor Bonatesta, mandèlo da mi, che voggio far consulto per mia fia.

MERL. (Il signor Pantalone dice di voler far consulto. Potrebbe chiamar anche me). (a Tarquinio)

TARQ. (Se bisognasse sangue, son qua io). (a Merlino)

PANT. Aveu inteso del consulto? (forte ad Agapito)

AGAP. Che consulto?

PANT. Voggio far consulto per mia fia. (forte)

AGAP. Datele la china.

PANT. Voi sentir el consulto dei miedeghi.

AGAP. Verrà il dottor Buonatesta.

PANT. Sì, col vien, mandèlo subito. Avanti le disisette, se el pol.

AGAP. Vi sarà il dottor dell’acqua fresca?

PANT. Chi?

AGAP. Il dottor Onesti.

PANT. Sior sì, el ghe sarà. Ma vorria che ghe fusse un altro miedego.

AGAP. Come?

PANT. Vorria che i fusse tre. (forte)

AGAP. Verrò io, verrò io.

PANT. Vu no sè miedego.

AGAP. Che? Non son medico?

PANT. Sè spizier.

AGAP. Me n’intendo più dei medici. Io ho più pratica di loro. Ho dei segreti particolari. Medico alla moderna; verrò io, verrò io, e porterò meco la china, e vedrete che il dottor Buonatesta l’approverà. (parte)

SCENA QUARTA

Il dottor Merlino, Tarquinioe Pantalone

MERL. (Sentite? Questo speziale vuol far da medico, e leva le visite e le cure ai professori). (a Tarquinio)

TARQ. (Sì, fa anche da chirurgo. Porta con sé gli unguenti, e medica le ferite e le piaghe). (a Merlino)

MERL. (Questa cosa va male. Ognuno ha da esercitare la sua professione. Anche voi, che siete chirurgo vi dilettate di tastare il polso ed ordinare i medicamenti per le febbri). (come sopra)

TARQ. (E voi pure avete insegnato tante volte a fare il decotto di salsapariglia). (come sopra)

MERL. Signor Pantalone, servitor umilissimo.

PANT. Patron mio riverito.

MERL. Come sta la sua signora figlia?

PANT. Mal assae, patron. Ma chi ela ella?

MERL. Non mi conosce?

PANT. Mi no in verità.

MERL. E pure, per grazia del cielo, son noto assai in questo paese, né vi è cavaliere, e pochi sono i mercanti che da me non sieno serviti.

PANT. In verità, mi no la cognosso.

MERL. Non conosce il dottor Merlino Malfatti, che ha fatto tante cure e tanti prodigi in questa città?

PANT. Certo, me par assae de no averla mai vista e mai sentia a nominar, perché in casa mia credo che ghe sia stà tutti i miedeghi, tutti i cerusichi e tutti i spizieri de sto paese.

MERL. Vi dirò, signor Pantalone, non sono io di quelli che facciano maneggi per ottenere delle cure, e che entrino, come si suol dire, per forza nelle case. Io non fo negozi con gli speziali per essere introdotto. Fo onestamente la professione mia, vado ove sono chiamato, e per grazia del cielo posso vantarmi che, dove ho avuto sinora l’occasione d’andare, sono riuscito nelle mie cure, con tutta la gloria e soddisfazione di quelli che mi hanno chiamato.

PANT. (Cancaro! El xe un omo grando!) (da sé)

MERL. Se il signor Pantalone brama di me informazione, può dimandar qui al signor Tarquinio.

PANT. Chi elo sto sior?

TARQ. Non conosce Tarquinio Cristieri? Il primo chirurgo di questa città?

MERL. Oh, il signor Tarquinio è un uomo esperimentato.

TARQ. Il signor dottor Merlino è un uomo celebre.

MERL. Per cavar sangue non vi è l’eguale.

TARQ. Per mali incurabili è un prodigio.

PANT. Mo gh’ho ben a caro aver cognossù do persone de tanto merito e de tanta vertù. Mi gh’ho una fia che xe sempre ammalada.

MERL. Se V.S. comanda, la visiterò.

TARQ. Se ha bisogno del chirurgo, son qua io.

PANT. Vorria far un poco de consulto; se la vol restar servida, la me farà favor. (a Merlino)

MERL. Volentieri la servirò.

TARQ. Verrò ancor io, per servirla.

PANT. Ma no so, se del chirurgo ghe sia bisogno.

MERL. Può venire, e potrà dire la sua opinione.

PANT. Benissimo, ch’el vegna pur. (Manco mal, el cielo provvede). (da sé, parte)

MERL. Ricordatevi di approvare tutto quello che dirò io. (a Tarquinio, e parte)

TARQ. Se non ordina sangue, non approvo niente. (parte)

SCENA QUINTA

Camera di Rosaura.

Rosaura sola.

ROS. Oimè! Quel pezzo di vitello arrosto col pane mi ha toccato il cuore. Veduto il mio caro medico dalla finestra, subito mi ha fatto venire appetito. Ora ho sete e non so come fare. Oh, vien gente. Presto, presto nascondiamo il resto del pane; non voglio che mi vedano mangiare.

SCENA SESTA

Beatrice, Colombinae detta.

BEAT. Cara Rosaura, non volete mangiare?

ROS. Non posso, non ho appetito.

COL. Ma senza mangiare e senza bere non si può vivere.

ROS. Via, per farvi servizio, beverò.

COL. Volete acqua?

ROS. Non mi piace.

BEAT. Volete vino?

ROS. Mi fa male.

COL. Volete il tè?

ROS. Ne sono stufa.

BEAT. Volete il caffè?

ROS. Non mi conferisce.

COL. Volete brodo?

ROS. Mi fa nausea.

BEAT. Volete del vino di Cipro?

ROS. Oh sì, sì, vin di Cipro. (ridendo)

COL. Ora lo vado a prendere. (parte, e poi torna)

BEAT. Ditemi, quando viene il dottor Onesti, volete che io gli parli segretamente?

ROS. Signora no, che non voglio che gli parliate segretamente.

BEAT. Intendo per voi.

ROS. Per me? (ridendo)

BEAT. Sì, per voi. Vi contentate?

ROS. Acciò mi guarisca presto? (ridendo)

BEAT. Acciò vi guarisca presto. Vi contentate?

ROS. Fate voi.

BEAT. (Eh ragazza, l’ho conosciuto il tuo male). (da sé)

COL. Ecco il vin di Cipro. (porta un bicchiere col vino)

BEAT. Via, bevetelo.

ROS. Ho paura.

BEAT. Eh via!

ROS. Mi farà male.

BEAT. Via, alla salute del medichino.

ROS. Sì, alla sua salute. (prende il bicchiere)

SCENA SETTIMA

Pantalone e dette.

PANT. Coss’è? Cossa ghe deu? Cossa bévela?

BEAT. Per ristorarsi beve il vino di Cipro.

PANT. Per restorarse? Coss’è, siora, me la volè mazzar mia fia? (a Beatrice) E ti, frasconazza, ti ghe porti el vin de Cipro? (a Colombina) Qua sto gotto. Povera putta! I te voleva far morir. (leva il bicchiere di mano a Rosaura)

COL. È stato battuto.

PANT. Andè a veder chi xe. Tutta sta roba a una povera ammalada! (Colombina parte, e poi torna)

ROS. (Questa volta mi colpisce nella gola). (da sé)

COL. Ecco il signor dottor Onesti.

ROS. (Oimè! respiro). (da sé)

PANT. Coss’è, fia mia, ti te mui de color a sentir el miedego? Astu paura? No te dubitar, che faremo consulto.

SCENA OTTAVA

Il dottor Onesti e detti.

ONES. Servo di lor signori.

PANT. Sior dottor, andemo de mal in pezo.

ONES. Signora, che cosa avete?

ROS. Non so... mi sento... Oimè!... ho una sete crudele.

ONES. Se ha sete, datele da bere.

PANT. No se sa cossa darghe; tutto ghe fa mal.

BEAT. (Signor dottore, fra voi e me vi dirò il suo male). (piano all’Onesti)

ONES. (Già me l’immagino, vorrà marito). (da sé) Colombina, fatevi dare quella boccia d’acqua cordiale, che ha portato ora il garzone dello speziale: prendete un bicchiere, e venite qui.

COL. Subito. (parte, poi ritorna)

PANT. La varda che no femo pezo. (al dottore)

ONES. Fidatevi di me.

PANT. Ho paura che no la la torrà.

ONES. Signora Rosaura, la prenderete.

ROS. La prenderò.

ONES. Mi credete?

ROS. Vi credo.

ONES. Quando l’ammalato crede al medico, guarisce più facilmente.

COL. Eccomi. (con una boccia d’acqua ed un bicchiere)

ONES. Date qui. (getta l’acqua nel bicchiere)

PANT. Via, cara, per amor de to pare.

ONES. Caro signor Pantalone, lasciate fare a me.

BEAT. Lasciate fare a lui, che ha più grazia di voi. (a Pantalone)

PANT. Se no ghe la dago mi, no la la vorrà.

ONES. Signora Rosaura, se ve la darò io, la beverete?

ROS. Signor sì.

PANT. Vustu che te la daga mi?

ROS. Signor no.

PANT. Via, la ghe la daga ella. Za no la ghe farà niente.

ONES. (Cara signora Rosaura, è peccato che una giovine come voi, si lasci opprimere dalla malinconia. Via, bevete quest’acqua cordiale). (piano)

ROS. (Beve, guardando con attenzione il medico, e poi sospira)

ONES. (Siete sul fior della gioventù; pensate a maritarvi). (piano)

ROS. (Beve e ride)

ONES. (Quando si saprà che siete sana, sarete subito desiderata in isposa). (piano)

ROS. Oimè, quell’acqua mi ha data la vita.

PANT. Distu dasseno?

ROS. Sì certamente; sto meglio assai.

ONES. Vedete, se quest’acqua è prodigiosa?

PANT. Son fora de mi dalla contentezza.

BEAT. (Oh, più dell’acqua, hanno operato le parole del medico). (da sé)

PANT. Cara ella, cossa xe quell’acqua?

ONES. È un mio segreto particolare. (A suo tempo saprà essere acqua di pozzo). (da sé)

PANT. Te sentistu più gnente? (a Rosaura)

ROS. Oh, signor dottore, mi ha dato la vita.

ONES. (Signor Pantalone, volete ch’io vi dia un consiglio da galantuomo, per far che vostra figlia stia sempre bene?) (piano)

PANT. (Via mo, cara ella, la diga).

ONES. (Datele marito).

PANT. (Disela dasseno?)

ONES. (Fate a mio modo, e vi troverete contento).

PANT. (Me l’ha dito dei altri, e no gh’ho badà; co lo dise el miedego, sarà cussì. Bisognerà maridarla). (da sé) Fia mia, stastu ben?

ROS. Parmi di star bene.

PANT. Dimme, cara ti; se vegnisse occasion de maridarte, tioresistu mario volentiera?

ROS. (Ride e si vergogna)

PANT. Te torna mal?

ROS. Oh, signor no.

PANT. Dimme, tioresistu mario?

ROS. Perché no?

PANT. Ben; se ti sarà sana, te mariderò.

ROS. Adesso parmi di essere risanata.

PANT. Col’è cussì, sappi, fia mia, che un certo sior Lelio Ardenti t’ha fatto domandar; gh’ho dito de no, perché ti gieri poco sana; ma adesso che ti sta ben, ghe dirò de sì, e te mariderò.

ROS. Oimè! Mi vien male, non posso più.

PANT. Sior dottor, presto, ghe torna mal. Vedeu? Gnanca el mario la farà guarir.

ONES. (Costei è innamorata di qualcheduno). (da sé) Volete un altro bicchiere d’acqua cordiale?

ROS. No, non ne voglio.

PANT. Vustu che te la daga mi?

ROS. Signor no.

ONES. La volete da me?

ROS. Ah, non giova. (sospirando e guardandolo)

ONES. Via, signora Rosaura, fatevi animo.

ROS. Non posso.

PANT. Mo cossa gh’astu?

ROS. Non lo so.

ONES. Via, che cosa vi sentite?

ROS. Non lo so. (piangendo)

PANT. Ti pianzi? Ti me par matta.

ROS. Se son pazza, lasciatemi stare da pazza. Non mi abbadate, non mi tormentate. (parte)

PANT. Povera putta! Andè là, creature, agiutèla.

COL. (Oh, il medico non la guarirà mai, sino che suo padre sarà presente alla cura). (parte e poi ritorna)

BEAT. (Signor dottore, fra voi e me parleremo). (piano al dottore) Amore fa proprio impazzire le povere donne. (parte)

PANT. Mi resto incantà. L’è un mal che no se capisse.

ONES. Eppure io lo capisco perfettamente.

COL. Signor padrone, vi sono delle persone che vi domandano.

PANT. Chi eli?

COL. Mi paiono medici.

PANT. Sì, sì, va là, dighe che vegno.

COL. Questa casa è divenuta uno spedale. (parte)

SCENA NONA

Il dottor Onesti e Pantalone

PANT. Sior dottor caro, sta putta no xe varìa. Par che un medicamento ghe fazza ben, ma la torna pezo che mai. Se la se contenta, vôi che femo un pochetto de consulto.

ONES. Signor Pantalone, voi gettate via il vostro denaro; il male di vostra figlia non ha bisogno di consulti.

PANT. Oh, me maraveggio, patron, se tratta del mio sangue; vaga la casa e i coppi([5]), ma vôi sentir l’opinion de altri miedeghi; a ella no fazzo torto; la xe el miedego della cura, e no intendo de licenziarla.

ONES. Caro amico, i consulti sono spesse volte la rovina degli ammalati. La moltitudine dei medici produce della confusione. O sono tutti d’accordo ed è superfluo il moltiplicarli, o sono discordi, e l’ammalato si fa morire più presto.

PANT. Ma cara ella, perché me vorla impedir che me toga sta soddisfazion?

ONES. O vi fidate di me, o non vi fidate. Se vi fidate, lasciatemi operare; se non vi fidate, prendete un altro medico, e contentatevi di uno solo.

PANT. Mi de ella me fido. Ma gnancora la m’ha savesto dir che mal che gh’abbia mia fia?

ONES. Sapete che male ha vostra figlia?

PANT. Via, che mal gh’ala?

ONES. Niente affatto. Sta meglio di voi e di me.

PANT. Come gnente? La ghe dise gnente a quei mali che ghe chiappa([6])?

ONES. Vi parlo da galantuomo, da uomo onesto; non ha niente: non gettate denari in medici e in medicine, perché vi replico, non ha niente.

PANT. Ma pur anca ella la gh’ha ordenà l’acqua cordial e la gh’ha fatto ben.

ONES. Sapete che cordiale è? Acqua di pozzo pura.

PANT. Eh via, fandonie. Se la l’ha fatta revegnir.

ONES. È opinione; non ha niente.

PANT. Orsù, se la me dà licenza, vôi sentir l’opinion dei altri. Se i dirà che no sia gnente, no sarà gnente. Ma vôi sentir.

ONES. Troverete di quelli che diranno che ha un gran male, e non sarà vero.

PANT. Questi che ho trovà, i xe do galantomeni.

ONES. Chi sono?

PANT. El dottor Bonatesta e el dottor Merlin Malfatti.

ONES. (Buono! Un impostore e un ignorante). (da sé)

PANT. No i xe do virtuosi de garbo?

ONES. Io non dico male di nessuno.

PANT. Xeli so amici?

ONES. Io sono amico di tutti.

PANT. Ala difficoltà de unirse con lori?

ONES. Io parlo con chicchessia.

PANT. Donca la vegna via, e andemo a far sto consulto. (parte)

SCENA DECIMA

Il dottor Onesti solo.

ONES. Pover’uomo! Mi fa pietà. Getta via il suo denaro, e certamente la sua figliuola non ha verun male. Ella è innamorata, e se mi riuscisse scoprire chi sia il suo amante avrei trovata la medicina sicura per guarirla. Spero che saprò tutto dalla signora Beatrice. A me suol dare delle occhiate languide e appassionate, ma le considero come di una supposta inferma, che al medico si raccomanda. Non credo mai ch’ella sia innamorata di me. Se ciò potessi suppormi, lascerei subito di visitarla, perché non s’avesse a dire che, col pretesto della mia professione avessi io sedotta la figlia d’un galantuomo. Son un uomo d’onore, che antepone il proprio decoro a qualunque interesse di questo mondo. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Camera con varie sedie.

Pantalone dando mano a Rosaura, li tre medici e Tarquinio chirurgo.

PANT. Via, fia mia, séntete qua, e abbi un poco de pazenzia; sentimo cossa sa dir sti medici; se tratta della to salute.

ROS. Sì, sì, ascoltiamo tre medici; acciò, se mi fanno morire, non si sappia a chi dar la colpa.

PANT. No i xe qua per farte morir, ma per farte varir.

ROS. (Caro il mio medichetto! quello mi farebbe guarire!) (da sé)

PANT. Le resta servide, le se comoda. (tutti siedono)

ONES. Signor Tarquinio, qui non abbiamo caso di chirurgia.

TARQ. Può darsi che vi sia bisogno di sangue.

ONES. Se vi sarà bisogno di sangue, sarete chiamato.

TARQ. Come! Non posso star a sedere fra lor signori? Sono addottorato ancor io.

PANT. Signori, quella xe la mia povera putta ammalada. Le supplico de intender la qualità del so mal, e dir la so savia opinion.

ONES. Signori colleghi e padroni miei veneratissimi, a me, come medico attuale della signora, toccherebbe a far l’istoria del male, se quello che la molesta fosse mal fisico, e non piuttosto ideale. Tre sono gli effetti perniciosi prodotti dalla sua immaginazione: vigilia, inappetenza, oppression di cuore. Ella non può dormire, perché avendo impegnata la fantasia a pensare, escono continuamente dalla glandola pineale una quantità di spiriti, dai quali si mantengono dilatati i ventricoli del cervello; onde tutte le filature de’ nervi, che da essi derivano, sono tesi e agitati, e la macchina, pronta a ubbidire alle operazioni degli spiriti, si mantien vigilante. Ella non ha appetito, perché l’agitazione degli spiriti diffondendosi per tutta la diramazione dei nervi, agita violentemente la fibra, e ne produce un’imperfetta chilificazione, onde rimanendo aggravato il ventricolo da materie indigeste e viscose, ne proviene l’inappetenza. Ella patisce delle oppressioni di cuore, ma queste non sono certamente prodotte né dall’abbondanza del sangue, né da coaguli, né da vene anguste e molto meno da vene dilatate, poiché il polso regolare ci assicura non esservi alterazioni nei fluidi, né disordine alcuno nei solidi; onde convien dire, che la stessa forte immaginazione accrescendo il vigore a quelli spiriti che formano la virtù elastica delle arterie e del cuore, faccia sentir con violenza le pressioni che si formano alle parti vitali, e impediscono per alcun poco il respiro. Ciò mi conferma a credere la facilità con cui ella passa dal riso al pianto, effetti appunto prodotti dai moti diversi delle viscere superiori, cioè dalla restrizione e dalla dilatazione de’ polmoni. Conchiudo pertanto, giudicando io il male di questa signora essere meramente ideale e non fisico, dipendente unicamente dalla immaginazione, non esservi nell’arte medica rimedio opportuno a rischiararle la fantasia; ma ciò doversi fare colla cognizione del motivo della sua fissazione, secondando le di lei brame, se sono oneste, o correggendole, se tali non sono. Rimettendomi al savio parere della loro esperimentata virtù.

ROS. (Caro il mio dottorino, ha conosciuto il mio male). (da sé)

PANT. (Sto sior dottor Onesti vuol che mia fia sia matta). (da sé)

BUON. Signor Malfatti, dica ella la sua opinione.

MERL. Per me, mi rimetto in tutto e per tutto al savio parere del dottor Onesti.

BUON. Se vi rimettete voi, non mi rimetto io.

TARQ. Badi bene, signor dottore, che l’oppression di cuore proverrà da sangue grosso, abbondante, coagulato.

BUON. Favorisca il polso. Ah! (fa cenni che va male) Signor dottor Merlino, sentite questo polso.

MERL. (Lo tasta) Ah! (dimena il capo)

BUON. Vi par che questo sia polso giusto? (toccando il polso a Rosaura)

MERL. Non mi pare. (toccando l’altro)

BUON. Vi par che sia polso uguale?

MERL. Oh, signor no.

BUON. Di polso stiamo male.

MERL. Malissimo.

ONES. (Diamine! Che abbia in un momento cambiati i polsi?) (da sé) Favorisca, signora Rosaura, che lo senta ancor io. (lo tasta) (Va bene, che non può andar meglio). (da sé) Signor dottor Merlino, senta meglio questo polso. Va benissimo.

MERL. È vero. Ora va benissimo.

ONES. Può essere più uguale?

MERL. Ugualissimo.

ONES. Senta, signor dottor Buonatesta.

BUON. L’ho sentito, e va male. Orsù, permettano, signori miei, che colle metodiche osservazioni possa io formare l’agnostico ed il prognostico di questo male. Dice Ippocrate: Si sufficerit medicus ad cognoscendum, sufficiet etiam ad curandum.

PANT. Oh bravo!

BUON. Signora mia, che nome avete?

ROS. Il mio nome non ha che fare col mio male.

BUON. Interim medicis nominum inquisitio omnino necessaria.

ONES. Perdoni, signor dottore. Intelligitur de nominibus rerum, non personarum.

MERL.  Sì, rerum, non personarum.

BUON. Siamo qui non per questionare, ma per medicare.

ONES. (E per dire degli spropositi). (da sé)

BUON. Quanti anni avete? (a Rosaura)

ROS. (Vuol sapere anche gli anni). (da sé)Ne ho venti.

PANT. No, fia mia, ti falli, i xe vintiquattro.

BUON. Siete allegra o malinconica?

ROS. Secondo le occasioni.

PANT. Ora la pianze, ora la ride.

BUON. Risus est species convulsionis, vel spasmi convulsivi. Proviene il riso involontario e smoderato a praecordium inflammatione. Bisogna rimediarvi; tutti quei mali che possono dinotare impegno di coagulo, sono nella categoria dei mortali. Bisogna rimediarvi.

MERL. Conviene rimediarvi.

TARQ. Se vi è impegno di coagulo, vi vuol sangue.

MERL. Certissimo. Vi vuol sangue.

ONES. Piano con questo sangue. La signora Rosaura non ha ingoiata l’erba sardonica, onde possa dirsi che il riso in essa sia prodotto da convulsione.

TARQ. Ora ride, ora piange.

BUON. Le lacrime, dette dai Greci dacrya, sono effetti patematici, provenienti dall’agitazione degli spiriti animali e dal sangue.

TARQ. Sangue, sangue.

MERL. Sì, sangue.

ONES. Le lacrime non sono che un umore escrementizio, sieroso e linfatico, ex oculorum glandulis prorumpens, per occasione di qualche tristezza o di qualche dolore; onde consolata che sia la persona, cessan le lacrime, giusta il trito assioma: remota causa, removetur effectus.

MERL. È vero: removetur effectus.

PANT. (Sto sior dottor Merlin accorda tutto). (da sé)

BUON. Avete appetito? (a Rosaura)

ROS. Signor no.

BUON. Conosco dalle vibrazioni del vostro polso esservi un’abbondanza di sangue, che altera la digestione. Bisogna rimediarvi.

MERL. Senza dubbio.

ONES. Mi perdonino; se si pretende arguire l’abbondanza del sangue dal polso, io dico e sostengo che il polso della signora Rosaura è naturale, giusto e sano, senza un minimo accidente che lo possa denotare alterato.

BUON. Questa è questione di fatto. Io dico esservi della effervescenza. (tasta il polso)Signor Malfatti, sentite.

MERL. Certo, vi è dell’effervescenza. (tastando)

ONES. Io dico che questo polso non può essere più naturale, e non so come il signor dottor Malfatti possa sostenere il contrario. Favorisca dirmi per mia istruzione, quali sono gli accidenti che denotano il polso effervescente?

MERL. Eh, che il polso è naturale, naturalissimo. (tastando)

ROS. (S’alza) Signori miei, sono annoiata di farmi toccare il polso. L’avete sentito tanto che basta; io non ne voglio più. Discorrete, consultate, ordinate quanto volete, non vi abbado e non vi credo.

ONES. (Come? non abbadate a nessuno?) (piano a Rosaura)

ROS. (Sì, abbado a voi, e se voi foste in caso di abbadare a me, forse forse staremmo bene tutti due). (piano all’Onesti, e parte)

SCENA DODICESIMA

I tre medici, Tarquinio e Pantalone

PANT.  Tolè, la s’ha stufà, la xe andada via.

ONES. (Che diavolo ha ella detto? Credo di non averla bene capita). (da sé)

BUON. Orsù, non potendoci noi accordare nella qualità del polso, non possiamo accordarci nella qualità della cura. Io dico che il male di vostra figlia è gravissimo. Ricordatevi dell’aforismo d’Ippocrate: Principiis obsta, sero medicina paratur. (cava l’orologio) Signor Pantalone, sono passati i due quarti d’ora, il conte mi aspetta, e non posso più trattenermi.

PANT. Ma cossa ale concluso?

ONES. Si è concluso quello che vi ho predetto che si doveva concludere.

BUON. Signor Pantalone, vi riverisco.

PANT. Servitor suo.

BUON. (Guarda l’orologio e guarda Pantalone)

ONES. (Via, date la paga al signor dottor Buonatesta, e dategliela generosa). (a Pantalone)

PANT. (Co sto sugo l’ho da pagar?) (all’Onesti)

ONES. (Vostro danno). (a Pantalone)

BUON. Signor Pantalone, comanda altro da me?

PANT. La favorissa. (gli dà denari)

BUON. Obbligatissimo. (prende il denaro)

PANT. Ma insomma cossa sarà de mia fia?

BUON. Ora non posso trattenermi, tornerò e parleremo. La signora Rosaura guarirà, ma vi vuol per lei una cura lunga. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Il dottore Onesti, il dottore Merlino, Tarquinioe Pantalone.

MERL. Signor Pantalone, vi son servitore.

PANT. Patron mio reverito.

MERL. Se non comanda altro, vado per i fatti miei.

ONES. (Via, pagate anche lui). (a Pantalone)

PANT. (Per aver dito quello che diseva i altri?)

ONES. (L’avete chiamato, convien pagarlo).

PANT. La perdona, la riceva sto piccolo regaletto per la cioccolata.

MERL. Obbligatissimo. (A me meno degli altri?) (da sé)

PANT. Cossa me disela de mia fia?

MERL. Faccia a modo del signor dottor Onesti, e non potrà errare.

TARQ. Ma il sangue è necessario.

MERL. Certamente il sangue vi vorrà senz’altro. (parte)

PANT. (Oh che caro dottor panchiana([7])! Sior sì, sior no, de qua, de là, co fa le banderiole([8])). (da sé)

TARQ. Signor Pantalone, gli son servo.

PANT. Anca mi a ella.

TARQ. Mi comanda?

PANT. La so cara grazia.

ONES. (Ehi, vuol la paga egli pure). (piano a Pantalone)

PANT. (Anca elo? per cossa?)

ONES. (Non avete sentito quante volte ha detto sangue, sangue; bisogna pagarlo).

PANT. Co ghe vorrà sangue, me prevalerò de ella.

TARQ. Signore, io ho detto la mia opinione.

PANT. E mi la mia.

ONES. E convien pagarlo.

PANT. Co l’è cussì, besogna pagarlo. Questo xe un filippo: xela contenta?

TARQ. Contentissimo. Anzi, per farvi vedere che vi sono grato, voglio darvi un altro ricordo.

PANT. La me farà grazia.

TARQ. Se la signora Rosaura non volesse il sangue, se le potrebbero applicar le ventose. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Il dottore Onesti e Pantalone.

PANT. Grazie de sto bel recordo. In verità son contento. Oh, adesso son qua da ella. La lassa che anca co ella fazza el mio debito, e ghe paga sto consulto.

ONES. Mi meraviglio: di questo consulto non voglio nulla.

PANT. Mo perché?

ONES. Perché non voglio profittare della vostra troppa credulità.

PANT. La m’ha pur dito ella che daga la paga ai altri miedeghi.

ONES. A quelli si conveniva una tal paga, perché vivono d’impostura, non a me che mi compiaccio unicamente degli onesti profitti. Vi ripeto ciò che vi ho detto a principio: vostra figlia ha un’infermità, a cui non giovano né i rimedi, né i medici. Ella non vuol consulti, ma vuol marito. Io ho rilevato il suo male; tocca a voi a scoprire qual abbia a essere la sua medicina. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Pantalone solo.

PANT. Pussibile che mia fia senta tanti incomodi per voggia de mario? Ma se quando ho parlà de maridarla la s’ha sconvolto, e l’è squasi andada in accidente? Oh, sto sior dottor Onesti xe troppo zovene, nol gh’ha altro in testa che frascherie([9]); nol fava altro che contradir a quel gran omo del dottor Bonatesta, e sì credo che ghe ne sappia più elo col dorme, che sto sior dottor quando el veggia. No se sente che l’è un omo grando? El parla squasi sempre latin. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Strada con la casa di Pantalone.

Lelio solo.

LEL. Muoio di voglia di sapere che cosa abbiano concluso i medici nel consulto sopra il male della signora Rosaura. Il dottor Merlino Malfatti mi ha assicurato che a quest’ora il consulto doveva farsi. Qualcheduno uscirà da questa casa, e ne potrò domandare. Oh, ecco il dottor Buonatesta.

SCENA DICIASSETTESIMA

Il dottor Buonatesta e detto.

LEL. Signor dottore, favorisca in grazia, come sta la Signora Rosaura? (al dottor Buonatesta, che esce dalla casa di Pantalone)

BUON. Male assai, male assai. (parte)

LEL. Oh povera giovane! mi rincresce per lei, e mi rincresce per me.

SCENA DICIOTTESIMA

Tarquinio dalla casa di Pantalone, e detto.

LEL. Signor Tarquinio, come sta la signora Rosaura?

TARQ. Non vi è gran male! Con una cavata di sangue guarisce perfettamente. (parte)

LEL. Oh via, sia ringraziato il cielo! Non v’è quel male che diceva il dottor Buonatesta.

SCENA DICIANNOVESIMA

Il dottor Merlino dalla casa di Pantalone, e detto.

LEL. Oh, signor dottor Malfatti, favorisca come sta la signora Rosaura?

MERL. Poverina! ha un gran male.

LEL. Ma sarà un male sanabile?

MERL. Ho paura di no.

LEL. Ha un male incurabile?

MERL. Ho paura di sì. (parte)

LEL. Dunque il chirurgo non sa quello che si dica; due medici dicono che il male è grave, ed ei pretende guarirlo con una cavata di sangue? Ecco il dottor Onesti.

SCENA VENTESIMA

Il dottor Onesti dalla casa di Pantalone, e detto.

LEL. Signor dottore, perdoni la mia curiosità. Sta male assai la povera signora Rosaura?

ONES. Anzi sta benissimo.

LEL. Come! se gli altri medici hanno detto che sta assai male?

ONES. Ed io vi dico che sta perfettamente bene. (parte)

LEL. Oh, andate a credere a questi medici. Uno dice male assai. L’altro male incurabile. Il chirurgo: guarirà con una cavata di sangue. Quest’altro medico sostiene che sta benissimo. Posso dunque concludere, che nessuno di tutti quattro sa quel che si dica. Disse bene Ippocrate ne’ suoi aforismi: Ars longa, vita brevis. Ma io quest’aforismo lo interpreto a modo mio: Ars longa, rispetto a quei medici che non l’imparano mai. Vita brevis, rispetto a noi altri poveri disgraziati, che per credere ai medici ci abbreviamo la vita. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Pantalone.

Beatrice da una parte, il dottor Onesti dall’altra.

BEAT. Oh signor dottore, quanto volentieri vi vedo! Appunto desiderava estremamente di parlarvi da solo a sola. Il signor Pantalone non è in casa, onde il tempo è opportuno.

ONES. Sono qui ritornato, per la pietà ch’io sento della signora Rosaura e del signor Pantalone: quei medici hanno loro imbarazzata la testa: hanno fatto creder quel che non è; e l’apprensione può far ammalar davvero la figlia, e far disperare il povero padre: son venuto per disingannarli.

BEAT. Prima di parlare con loro, è necessario che parliate meco; apposta mi son qui trattenuta; non ho cuore di ritornarmene a casa, se a voi non comunico questo arcano.

ONES. Eccomi ad ascoltarlo: qui nessuno ci sente.

BEAT. Sappiate, signor dottore, che Rosaura è innamorata.

ONES. Me ne sono avveduto ancor io.

BEAT. Ma sapete di chi sia innamorata?

ONES. Quest’è quello ch’io non so.

BEAT. Ella è innamorata di voi.

ONES. Di me?

BEAT. Sì, di voi.

ONES. Con qual fondamento potete dirlo?

BEAT. Credetemi, che me ne sono assicurata.

ONES. Ve lo ha ella confidato?

BEAT. No, ma l’ho rilevato da varie circostanze, le qual tutte mi hanno manifestato quello che la buona ragazza non ha coraggio di palesare.

ONES. È lodabile il suo contegno, assoggettandosi ad una specie di malattia per non palesare la sua passione.

BEAT. Io credo ch’ella coltivi espressamente il suo male pel desiderio di avere le vostre visite.

ONES. E le mie visite saranno quelle che daranno fomento alla sua passione.

BEAT. Dunque che risolvete di fare?

ONES. Risolvo di non visitarla mai più.

BEAT. Odiate forse la signora Rosaura?

ONES. Io non sono in caso né di odiarla, né di amarla.

BEAT. Sprezzerete un’eredità doviziosa, come quella del signor Pantalone?

ONES. Certamente ella non è cosa da disprezzarsi, ma io sono stato da lui chiamato per curargli la figlia, e non per esibirgli un genero.

BEAT. Potete far l’uno e l’altro nel medesimo tempo.

ONES. No, signora Beatrice, non posso farlo. La mia onestà non lo vuole.

BEAT. Siete voi nemico del matrimonio?

ONES. No certamente; anzi per gl’interessi della mia casa essendo io solo, mi converrà prender moglie.

BEAT. E questo non vi pare un partito buono per voi?

ONES. Sarebbe ottimo, se fossimo in altre circostanze.

BEAT. Come sarebbe a dire?

ONES. Se io fossi stato in grado di far chiedere la figlia al signor Pantalone, e di potermi lusingare ch’egli non me la dovesse negare.

BEAT. Per qual ragione temete ch’egli ve la neghi?

ONES. Perché non sono ricco quanto lui, perché ha qualche impegno con certo signor Lelio, e poi perché, essendomi io introdotto come medico, crederà ch’io abbia con cattivo artifizio innamorata la figlia, si chiamerà da me offeso, e non me la vorrà assolutamente concedere.

BEAT. Signor dottore, siete troppo scrupoloso.

ONES. Conosco il mio dovere, e non mi lascio acciecare dall’interesse.

BEAT. Voi volete veder morire la povera Rosaura.

ONES. Eh, che per amor non si muore. Ella sarà agitata intanto che si lusingherà di poter essere da me corrisposta. S’io lascio di visitarla, se mi ritiro da questa casa, in capo a otto giorni non si ricorda più di me, guarisce dell’amorosa sua malattia, e si dispone ad accettar per marito il primo che da suo padre le viene offerto.

BEAT. Dunque volete licenziarvi?

ONES. Sì assolutamente.

BEAT. Almeno visitatela un’altra volta.

ONES. Oh, questo poi no; fintanto ch’io non lo credeva, dava innocentemente degl’incrementi al suo male; ora sarei colpevole se, in vece di curarla, cercassi precipitarla. Signora Beatrice, vi ringrazio; riverite il signor Pantalone, assicurandolo che sua figlia non ha alcun male; procurerò illuminarlo, acciò non creda né agl’ignoranti, né agl’impostori. Io non rinunzio pazzamente ad una fortuna; ma garantisco l’onor mio a fronte di un bene incerto. Se vedrò col tempo che mi si apra la strada a poter aspirare alle nozze della signora Rosaura, farò conto e della sua bellezza e della sua ricchezza, i quali sono beni, se si acquistano direttamente, sono mali, se si procacciano ingiustamente. (parte)

SCENA SECONDA

Beatrice sola.

BEAT. Ora sì che la povera Rosaura sta fresca! Credeva di far bene, e ho fatto male. Povera ragazza! Quando sa che il dottor Onesti l’abbandona, ha da dar nei deliri, ha da fare delle pazzie.

SCENA TERZA

Pantalone e detta.

PANT. Siora Beatrice, cossa fa mia fia?

BEAT. Al solito. Avete incontrato il dottor Onesti?

PANT. Siora no; son vegnù su per la scaletta, no l’ho incontrà. Cossa diselo de mia fia?

BEAT. Credo non voglia più venire a visitarla.

PANT. Ch’el lassa star. No ghe penso né de lu, né d’altri miedeghi. No voio altri miedeghi.

BEAT. Farete bene. La signora Rosaura non ha male.

PANT. No la gh’ha mal? Pur troppo la gh’ha mal; ma i miedeghi fin adesso no i l’ha savesto cognosser. Finalmente, grazie al cielo, spero d’aver trovà chi darà la salute alla mia povera fia.

BEAT. E chi mai?

PANT. Do persone me xe stà suggerìo. Mio compare m’ha dito che ghe xe una donna, muier d’un zavatter([10]), che sa far certo unguento, che onzendo le donne sotto le siòle del piè, le guarisse seguro.

BEAT. Oh, voi credete a queste donnicciuole ignoranti! Costoro meriterebbero essere bastonate; s’introducono per le case, danno ad intendere aver dei segreti, e rovinano chi loro crede.

PANT. Se pol provar.

BEAT. Io non vi consiglio fidarvi.

PANT. Me xe stà po insegnà un spargirico, che gh’ha dei segreti spaventosi.

BEAT. Cos’è questo spargirico?

PANT. Un omo che fa dei medicamenti che no se trova alle speziarie; un omo che ha varìo più zente, che no gh’ho cavei in testa. Son stà a casa soa. Oh se vedessi! El gh’ha dei libri pieni de attestati de zente che l’ha guarìo.

BEAT. Sarà qualche ciarlatano.

PANT. Oh, oh, giusto, un zaratan! Nol monta miga in banco. Chi lo vuol, bisogna o andar a casa soa, o mandarlo a levar. Sentì che boccon de omo che l’è: lu no vuol gnente, se la cura no xe fenìa. El fa elo i medicamenti, e ghe basta tre o quattro zecchini, per comprar la roba che ghe va drento.

BEAT. E con quei tre o quattro zecchini è pagato e strapagato, e se la cura va male, non perde niente.

PANT. Mo za, vualtre donne pensè sempre al mal.

BEAT. Io parlo per vostro bene, e per quello di vostra figlia.

PANT. Ve ringrazio del ben che volè a mia fia; ma in casa mia comando mi, e so quel che fazzo.

SCENA QUARTA

Colombina e detti.

COL. Signora Beatrice, la mia padrona vi prega di venire da lei.

PANT. Cossa vorla? Cossa xe stà? Gh’ha chiappà mal? Son qua mi, vegno mi.

COL. Ora non ha bisogno di voi, vuole la signora Beatrice.

PANT. Son so pare, posso andar.

COL. Suo padre non può andar sempre, signor no.

PANT. Mo cossa ghe xe?

COL. Via; ha bisogno della signora Beatrice, e non di voi.

PANT. Cara siora, andè là; vardè cossa la vuol.

BEAT. Poverina! Vado subito.

COL. (Ha saputo che avete parlato col medichino, ed è curiosa di sapere che cosa gli avete detto). (piano a Beatrice, e parte)

BEAT. (Povera ragazza! Se sa la cosa com’è, muore dalla passione). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Pantalone, poi Agapito.

PANT. Vorria provar l’unguento de sta donna; el costa poco, e se poderia dar che con poco la varisse; ghe n’ho buttà via tanti, no vôi vardar spesa: chiamerò sto spargirico, so ch’el gh’ha un balsamo, che varisse trenta o quaranta mali; possibile che nol varissa anca quello de mia fia?

AGAP. Signor Pantalone, con sua licenza.

PANT. Oh sior Agapito, la reverisso.

AGAP. Che dice?

PANT. La reverisso. (forte)

AGAP. Oh, obbligato. Sta bene la signora Rosaura?

PANT. La sta malissimo.

AGAP. Sì? Me ne rallegro.

PANT. Ve ne rallegrè? (forte)

AGAP. Sì signore, ho gusto che stia bene.

PANT. Ve digo che la sta malissimo, malissimo. (forte)

AGAP. Ah, ho inteso; me ne spiace.

PANT. (Co sto sordo se fa fadighe da bestie). (da sé)

AGAP. Come è andato il consulto?

PANT. No i ha concluso gnente affatto.

AGAP. Sì? L’hanno fatto?

PANT. I l’ha fatto. (forte)

AGAP. Che cosa hanno concluso?

PANT. Gnente, gnente. (forte assai)

AGAP. Non dite tanto forte, che mi offendete l’orecchio.

PANT. Mo se sè sordo. (forte)

AGAP. Io sordo? Mi maraviglio di voi: sento ronzar le mosche. Voi mi offendete.

PANT. Compatime, no dirò più.

AGAP. Io sordo? Mi fate un bel credito.

PANT. Caro vu, ho fallà, no dirò più.

AGAP. Vendo l’olio per la sordità, e volete ch’io sia sordo?

PANT. Cossa vuol dir, che qualche volta no ghe sentì?

AGAP. Con quest’olio ho fatto prodigi.

PANT. Xe vero che qualche volta no ghe sentì?

AGAP. E se voi l’adoprerete, non patirete di sordità.

PANT. Adesso ghe sentìu?

AGAP. Che?

PANT. Ghe sentìu? (un poco più forte)

AGAP. Come?

PANT. Ghe sentìu? (assai forte)

AGAP. Sì, ci sento, ci sento.

PANT. (Siestu maledetto, l’è sordo, e nol vuol esser). (da sé)

AGAP. Sicché dunque i medici non hanno concluso niente?

PANT. Gnente. (forte)

AGAP. Ma piano, che ci sento. Che cosa pensate fare di vostra figlia?

PANT. No so gnanca mi.

AGAP. Che?

PANT. No so gnanca mi. (forte)

AGAP. Ho inteso: volete fare a mio modo?

PANT. Perché no?

AGAP. No? Avete detto di no?

PANT. Ho dito perché no? (forte)

AGAP. Sì, v’ho capito. Perché no, vuol dire di sì. V’ho capito. Se volete fare a modo mio, datele due o tre prese di china.

PANT. La china a mia fia no ghe passa.

AGAP. Come passa?

PANT. La china no ghe passa. (forte)

AGAP. Bene; l’aiuteremo con un purgante.

PANT. Con un poco de cremor de tartaro. (forte)

AGAP. No, col cremor di tartaro no. La china col cremor di tartaro non va bene, non si unisce bene. China e cremor di tartaro sono due medicamenti contrari. Avete capito? Son due medicamenti contrari, che combattono fra di loro. Intendete? Due medicamenti nemici, appunto come sono nemici l’imperator della China e il Can de’ Tartari. Avete capito?

PANT. Aspetto un spargirico.

AGAP. Come? Un panegirico?

PANT. Un spargirico. (forte assai)

AGAP. Un spargirico? Ho inteso. Maledetti questi spargirici! Rovinano le spezierie. Tutti impostori, tutti ciarlatani. Non vi fidate, non credete loro. Ciarlatani, ciarlatani.

PANT. L’è un omo grando. (forte)

AGAP. Come si chiama?

PANT. Asdrubale.

AGAP. Chi? Annibale?

PANT. Asdrubale.

AGAP. Lo conosco, lo conosco; è venuto da me a comprar la genziana, e poi la dà per un suo segreto particolare per la febbre. Con dieci soldi busca trenta scudi. Avete inteso? (forte)

PANT. Ho capìo.

AGAP. Io con sette paoli gli ho fatto una boccia di spirito aromatico, ed egli guadagnerà dei zecchini. Avete capito? (forte)

PANT. Sior sì, ho capìo. (forte)

AGAP. Ma non gridate sì forte.

PANT. Criè anca vu. (forte)

AGAP. Lo fo per farmi sentire.

PANT. Cossa concludemo de mia fia?

AGAP. Come?

PANT. (Oh poveretto mi!) Per mia fia cossa ghe vol?

AGAP. Mogol?

PANT. Ghe vol china?

AGAP. Mogol e China?

PANT. Son desperà.

AGAP. Vi dirò: il principe del Mogol ha dato la sua figlia per moglie al principe della China. Avete capito? E il matrimonio è fatto, e non si può più disfare. Avete inteso? Oh, vi è il gran Can dei Tartari...

SCENA SESTA

Colombina e detti.

COL. Signor padrone, alla povera signora Rosaura è venuto un accidente. (parte)

PANT. Oh poveretto mi! Presto.

AGAP. Che cosa è stato?

PANT. Mia fia xe in accidente.

AGAP. Non sapete niente?

PANT. Aveu gnente?

AGAP. Via, non sarà niente.

PANT. Aveu qualche spirito?

AGAP. Se ho spirito?

PANT. No me intendè? (forte)

AGAP. Sì, v’intendo.

PANT. Mia fia xe in accidente. (forte)

AGAP. Accidente?

PANT. Mia fia gh’ha mal. (forte)

AGAP. China, china.

PANT. Presto, presto. (parte)

AGAP. China, china. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura svenuta, Beatrice e colombina.

BEAT. Povera Rosaura! Non vi è rimedio che voglia tornare in sé.

COL. Cara signora Beatrice, perdonatemi, avete fatto male a dirle che il dottor Onesti l’abbandona.

BEAT. Ma che? Aveva da lusingarla?

COL. Si poteva lusingare e tirar innanzi.

BEAT. Son donna, ma non ho il vizio di dir bugie.

COL. Avete quell’altro di non poter tacere.

SCENA OTTAVA

Pantalone, Agapitoe dette.

PANT. Coss’è? Come xela?

BEAT. Eccola qui; ancora svenuta.

PANT. Oh poveretto mi! Sior Agapito, sior Agapito. (forte)

AGAP. Ih, ih! Siete spiritato? Son qui.

PANT. Mia fia xe in accidente. (forte)

AGAP. Ho inteso.

PANT. No la puol revegnir. (forte)

AGAP. Ho inteso.

PANT. Aiutèla, me raccomando a vu. (forte)

AGAP. Se potesse prender la china...

PANT. No vedeu? No la pol.

AGAP. Lasciate ch’io senta il polso.

PANT. Caro vu, me raccomando. (forte)

AGAP. Presto, presto, non ha polso.

PANT. Come? (forte)

AGAP. Siete sordo? Non ha polso.

PANT. Cossa vuol dir? (forte)

AGAP. Il sangue non circola.

PANT. Presto el chirurgo, femoghe cavar sangue.

AGAP. Che?

PANT. Sangue, sangue. (forte)

AGAP. Oibò! Lasciate fare a me. (vuol partire)

PANT. Dove andeu?

AGAP. Vado alla speziaria e torno.

PANT. Cossa andeu a tor? (forte)

AGAP. Le voglio mettere i vescicanti.

PANT. Cossa diavolo diseu? (forte)

AGAP. So quel che dico. So quel che fo. Vado e vengo. Se non le metto i vescicanti, è spedita.

PANT. Presto donca, presto. (forte)

AGAP. Subito, subito. (parte)

SCENA NONA

Pantalone, Rosaura, Beatricee Colombina.

BEAT. Animo, animo; principia a rinvenire.

COL. Via, via, non è nulla.

PANT. Fia mia, fia mia.

ROS. Oimè! Dove sono?

PANT. Care le mie raìse? Cossa te sentistu, vita mia?

ROS. Ahi, il mio povero cuore!

PANT. Via, sollevete un pochetto. Levete suso, chiappa un poco de aria. Agiutela, creature, agiutela.

ROS. (S’alza) Oimè! Non posso star in piedi.

PANT. Tiremola più avanti, che l’aria da quel balcon no ghe fazza mal. (tira avanti una sedia, e Rosaura, sostenuta da Beatrice e Colombina, va a sedere)

ROS. Il medico; dov’è il medico?

PANT. Vustu el miedego? Adesso subito lo anderò a cercar.

ROS. Voglio il dottor Onesti.

PANT. Sì, lo cercherò, ma se no lo trovo, manderò qualcun altro. Senza miedego no vôi che la staga. Se vien i miedeghi, lassè che i scriva; se vien sior Agapito, diseghe che el se ferma. Se el la trova in accidente, che el ghe metta i vessiganti; se vien el chirurgo, che el ghe cava sangue; se vien el spargirico, che el ghe daga qualcossa per bocca. (va e torna) Oe, se vien la zavattera, che la ghe onza le siòle dei piè. (parte)

SCENA DECIMA

Rosaura, Beatricee Colombina.

BEAT. Povero vecchio! il dolore lo fa impazzare.

COL. Con tanti medici, con tanti imbrogli, vuol rovinare questa povera giovane.

ROS. Signora Beatrice, il dottor Onesti non verrà più a visitarmi?

BEAT. Così ha egli detto.

ROS. Oimè! (in atto di svenire)

COL. Eh, che verrà. Ha detto a me che verrà.

ROS. Ha detto che verrà? (respirando)

COL. Sì, in verità; l’ha detto.

ROS. Quando?

COL. Poco fa, che l’ho incontrato per la strada.

ROS. Dopo che ha parlato colla signora Beatrice?

COL. Sì, dopo, dopo.

ROS. Sentite, signora Beatrice? Il dottor Onesti verrà.

COL. (Dite di sì). (piano a Beatrice)

BEAT. Sì, sì, verrà.

ROS. Par che lo diciate per forza: verrà o non verrà?

COL. Se vi dico che verrà.

ROS. E voi che dite? (a Beatrice)

BEAT. Dico anch’io che verrà.

ROS. Oimè! respiro.

SCENA UNDICESIMA

Lelio e dette.

LEL. Signore mie, con loro permissione. Il signor Pantalone mi ha detto ch’io venga, e perciò preso mi sono la libertà di venire.

ROS. Che cosa vuole? Che cosa comanda?

LEL. Signora, la stima che ho di voi, non merita che mi trattiate con tanta asprezza.

BEAT. Compatitela, è oppressa dal male.

LEL. Appunto per questo son qui venuto. Incontrai il signor Pantalone, e vicino a questa casa mi narrò piangendo lo stato miserabile di sua figlia. Gli dissi avere con me le gocce mirabili d’Inghilterra, le quali sogliono operare prodigi. Mi raccomandò di venire a offerirle alla signora Rosaura, ed io non ho tardato di farlo. Eccole, signora; se voi le prenderete, credetemi, vi troverete contenta.

ROS. Obbligatissima, non le voglio.

LEL. Eh signora Rosaura, so io che rimedio ci vorrebbe pel vostro male.

ROS. Voi non sapete niente.

LEL. Vi vorrebbe uno sposo.

ROS. Mi maraviglio di voi. Con le fanciulle civili non si parla così. Mio padre ha fatto uno sproposito a permettervi che mi venghiate a inquietare col pretesto delle gocce d’Inghilterra. Ma io correggerò l’error suo con non rispondervi, con non abbadarvi, con darvi quella retta che meritate.

LEL. (La signora ammalata ha parlato con dello spirito). (da sé)

BEAT. (Capperi! quando occorre, sa dir bene la sua ragione). (da sé)

COL. (È una malattia, che non le impedisce d’adoperar la lingua). (da sé)

LEL. Basta, in qualunque maniera voi mi trattiate, soffrirò tutto, attribuendolo al male che v’infastidisce. Io devo attendere il signor Pantalone, per rendergli conto di non aver mancato al debito di servirlo.

ROS. Eh, non importa. Farò io con mio padre le vostre scuse.

LEL. Perdonatemi; so il mio dovere.

ROS. Oh Dio! Mi sento venir male.

LEL. Volete le gocce d’Inghilterra?

ROS. Signor no. Lasciatemi in libertà.

LEL. (Costei sa aver male quando vuole; non le credo e non voglio partire). (da sé)

COL. Ma caro signore, quando una donna dice ad un uomo che vuole restar in libertà, la civiltà vorrebbe che se ne andasse.

LEL. La civiltà non ho da impararla da voi.

BEAT. Ecco il medico.

ROS. Il dottor Onesti? (s’alza con allegria)

BEAT. No, è il dottor Buonatesta.

ROS. Vada al diavolo. (siede)

SCENA DODICESIMA

Il dottore Buonatesta e detti.

BUON. Buon giorno a loro signore. Che cosa c’è? Disgrazie? Il signor Pantalone per fortuna mi ha ritrovato. Eccomi qui. Vi aiuterò io, vi soccorrerò io; non morirete no, non morirete. Ditemi, che cosa vi sentite? Avete febbre? Ah? Avete febbre?

ROS. (Non gli voglio rispondere, non voglio parlare). (da sé)

BUON. Non rispondete? Avete perduta la parola? Che? Mi vedete? Mi conoscete? Non risponde; ha gli occhi incantati. Signora Beatrice, questa ragazza è quasi morta, ha perduta la parola, non vede, non sente. Io l’aveva detto che il male era grande. Ho conosciuto dal polso che doveva peggiorare; e quel caro dottor Onesti diceva che il polso era giusto, che non era alterato. Che bravo medico! Non sa niente.

BEAT. Eppure poco fa parlava, e non era in questo stato. Che dice il signor eccellentissimo?

BUON. Oh gran caso! Gli accidenti vengono da un momento all’altro; sentiamo il polso. Oh che polso! Dov’è il polso? Non si trova, non si sente. Balza, s’incanta. Presto a me. Carta, penna e calamaio.

COL. (Che le sia venuto male davvero?) (a Beatrice)

BEAT. (Ho paura di sì. Il dottore al polso lo deve conoscere). (a Colombina)

BUON. Presto. Carta, calamaio; a me.

LEL. Signor dottore, le gocce d’Inghilterra sarebbero buone?

BUON. Oh pensate! tutte ciarlatanerie. Tutto quello che non viene ordinato dal medico, è veleno.

COL. Ecco la carta e il calamaio.

BUON. Presto, presto. Recipe margaritarum praeparatarum dracmas duas. Coraliorum et perlarum ana dracmas tres. Succinorum praeparatorum dracmam unam. Saccari albi uncias tres. Solve in aqua melissae quantum suffcit, et fiat potio cordialis.

ROS. (Scrivi, scrivi; già non prendo niente). (da sé)

SCENA TREDICESIMA

Il dottor Merlino Malfattie detti.

MERL. Che cosa vi è di nuovo? È venuto il signor Pantalone alla spezieria a ritrovarmi, e son venuto immediate. Che è accaduto?

BUON. Dottor Malfatti, non ve l’ho detto io che la povera signora Rosaura doveva precipitare? Ah, non ve l’ho detto?

MERL. Ed io che cosa ho detto? Si ricorda signor Lelio, quando gli ho detto che il male di questa signora era quasi incurabile?

LEL. Certamente; me l’avete detto, e il signor dottor Onesti diceva che stava bene.

BUON. Che cosa sa il dottor Onesti? La signora Rosaura ha perso la parola.

MERL. Ha perso la parola? Signora Rosaura, come va? Che cosa si sente? È vero; ha perduto la favella.

BUON. Tastatele il polso.

MERL. Adesso. Oh che polso!

BUON. Non è incantato?

MERL. Certamente.

BUON. Non balza?

MERL. E come!

BUON. Non è sintomatico?

MERL. Lo volevo dire ancor io; è sintomatico.

BUON. Venite qui. Le ho ordinato un cordiale. Osservate; so che l’approverete.

MERL. Margaritarum, coraliorum, perlarum, succinorum. Va benissimo, non può andar meglio.

BUON. Presto, signore, mandate alla spezieria. (alle donne)

COL. Ora non vi è nessuno.

BUON. Signor Lelio, vada ella.

LEL. Tanto io credo al vostro cordiale, quanto voi credete alle mie gocce d’Inghilterra.

SCENA QUATTORDICESIMA

Tarquinio e detti.

TARQ. Eccomi, eccomi.

BEAT. Che cosa comanda?

TARQ. Il signor Pantalone mi ha mandato a vedere, se la signora Rosaura ha bisogno di me.

BEAT. Poverina, è in accidente, ha perso la parola.

TARQ. Sangue, sangue. Signora Rosaura, come sta? Non parla? Non risponde? Presto, presto; accendete questo cerino. Presto.

BUON. Non si cava sangue senza l’ordinazione del medico.

TARQ. E in un caso simile lor signori non ordinan sangue?

BUON. Voi fate il vostro mestiere, e noi facciamo il nostro. Unusquisque in provincia sua.

MERL. Signor sì, in provincia sua.

LEL. E intanto l’ammalata non si medica.

SCENA QUINDICESIMA

Pantalone, il dottor Onesti e detti.

PANT. Mo via, caro sior dottor Onesti, cossa ala recevesto da casa mia? Che difficoltà gh’ala de vegnir a visitar mia fia? Son galantomo, e recognosso le persone che merita.

ONES. Che bisogno avete di me, se vostra figlia è assistita da tanti virtuosi signori?

BUON. (Ehi, il dottor Onesti vede il caso disperato e si vuol cavare). (a Merlino)

MERL. (Sì, si vuol cavare). (a Buonatesta)

ONES. (La pietà m’ha indotto a ritornare. Povera giovine! La vogliono assassinare). (da sé)

PANT. Coss’è? Coss’ala mia fia? Cussì incantada la xe?

BUON. Ha perduta la parola.

PANT. Come?

MERL. Non parla più.

BUON. Il polso balza.

MERL. Il polso è sintomatico.

TARQ. Sangue, sangue.

ONES. Ha perduta la parola? (a Beatrice)

BEAT. Osservatela.

ONES. Non parla più? (a Merlino)

MERL. È sintomatica.

ONES. Io resto attonito! Signora Rosaura.

ROS. Che mi comanda, signor dottore?

ONES. Come state?

ROS. Così, così.

PANT. Oe, la parla.

ONES. Che dite ch’ella non parla? (ai due medici)

BUON. Cessato il parossismo, si è fatta dalla natura una benigna crisi: quae in casu nostro vocatur subita morbi in melius mutatio.

MERL. Sì signore. Crisis in melius mutatio.

PANT. Sia ringrazià el cielo, respiro. Se m’aveva serrà el cuor.

LEL. (Io credo che avesse perduta la parola, perché non voleva parlare. Oh, queste donne la sanno lunga). (da sé)

BEAT. (La crisi che ha mutato il male di Rosaura, è stata la venuta del dottor Onesti). (a Colombina)

COL. (Quei due medici non sanno che cosa si peschino).

BEAT. (Poveri ammalati!)

BUON. Cambiata l’indole del morbo, converrà passare a un’altra provincia di rimedi.

MERL. Sicuramente, converrà uniformarsi al morbo.

TARQ. Il sangue è necessario, propter reparationem.

PANT. Mo via, cari siori, per amor del cielo femo qualcossa. Medichemo, reparemo, resolvemo.

BUON. Carta e calamaio.

MERL. Carta, penna e calamaio.

SCENA SEDICESIMA

Agapito e detti.

PANT. Sior Agapito, cossa gh’aveu per mia fia? (forte)

AGAP. La pasta per i vescicanti.

PANT. E ella, sior dottor Onesti, no la fa gnente?

ONES. Uno ordina, quello sangue, questo vescicatori: che cosa dice la signora Rosaura? Prima di dire la mia opinione, ho piacere di sentir la sua.

BEAT. Signora Rosaura, mi date licenza che parli io per voi?

ROS. Sì, parlate voi; io non ho coraggio di farlo.

BEAT. Quand’è così, signori dottori, signori eccellentissimi, stracciate le vostre ricette. Rosaura non ha altro male che quello che ha detto il dottor Onesti. Un’amorosa passione l’opprime, la tormenta, l’affligge. Via, signora Rosaura fatevi animo, e confermate a vostro padre una tal verità.

ROS. Oh Dio! sono forzata a dirlo; mi conviene superare il rossore, per liberarmi non solo dal male che mi tormenta, ma dai medici che mi vanno perseguitando. Amo, sì, amo il dottor Onesti. Vederlo, amarlo e non ardir di spiegarmi, formava tutto il mio male. Che dite voi altri di polso, di crisi, di parossismi? Uno inventa, l’altro seconda. Voi che pretendete di fare col vostro sangue? Signor padre, ho scoperto il mio male, ecco il mio rimedio; avete promesso di non negarmelo. Se mi amate, se la mia salute vi preme, attendetemi la promessa.

LEL. (Ho inteso; getto via le gocciole d’Inghilterra). (da sé)

AGAP. Che cosa ha detto? (a Tarquinio)

TARQ. Son confuso.

AGAP. Che?

TARQ. Eh, non mi seccate.

PANT. Cossa séntio? Sior dottor Onesti, mia fia xe innamorada de ello?

ONES. Se questo è vero, persuadetevi che io non ne ho colpa veruna.

PANT. No pol esser, l’averè lusingada.

ONES. Signora Rosaura, parlate voi per la mia riputazione.

ROS. Giuro che mai gliel’ho detto, né mai gli ho dato indizi, dai quali immaginarselo egli potesse.

BEAT. Io me ne sono accorta. Oggi l’ho confidato al dottor Onesti, ed egli per fare un’azione da suo pari, non voleva venire mai più.

ONES. Ecco la ragione, per cui mi son fatto pregare a venir ora a vederla.

PANT. (L’è un omo savio e prudente). (da sé)

AGAP. Che cosa dicono? (a Merlino)

MERL. (Son incantato!) (da sé)

AGAP. Come?

MERL. Non mi rompete il capo.

PANT. Le ringrazio infinitamente delle so visite. Le ha sentìo el mal de mia fia; onde no gh’è più bisogno de lori. (ai medici)

BUON. Se vostra figlia è pazza, pazzi non siamo noi. Il polso non falla; il polso era intermittente, balzante e sintomatico. Ciò dinotava ristagno, coagulo, fissazione, la qual fissazione poteva essere prodotta o da una lipothimia, o da una sincope, idest solutio naturae. Ma sarà stata prodotta dall’orgasmo del cuore, dall’arresto del moto ai precordi, per l’impazienza del preconizzato connubio; onde si verifica l’aforismo d’Ippocrate: Experimentum fallax, et judicium vero difficile; ed è verissimo che i mali delle donne saepe saepius vocantur opprobrium medicorum. (parte)

MERL.  Opprobrium medicorum. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Rosaura, Beatrice, Pantalone, Lelio, Colombina, dottor Onesti, Agapito e Tarquinio.

AGAP. Che cosa hanno detto? (a Lelio)

LEL. Siete sordo? (forte)

AGAP. Sordo un corno.

LEL. Se non siete sordo, avrete inteso.

AGAP. Che?

LEL. Schiavo vostro. (va dall’altra parte)

AGAP. Padron mio. (Che diavolo sarà? Io non intendo niente). (da sé)

PANT. Sior dottor Onesti, za che vedo che mia fia ghe vol ben, che l’era ammalada per causa soa, e che solamente le so nozze la pol varir, son qua con tutto el cuor a offerirghela, se el la vol.

ONES. Sarei troppo ingrato e incivile, se ricusassi la generosa offerta che voi mi fate. Prima però d’accettarla, pregovi assicurarmi che non vi resti verun sospetto ch’io l’abbia nel visitarla sedotta.

PANT. Me maraveggio. So el vostro carattere, e po mia fia e siora Beatrice m’ha dito tanto che basta.

ONES. Quand’è così, accetto da voi il prezioso dono che mi esibite; e volgendomi alla signora Rosaura, la supplico a non isdegnar la mia mano.

ROS. Voi mi offerite la vita nell’esibirmi la vostra mano; l’accetterò con giubbilo, e terminato avrò di penare.

COL. E terminato avrete di tormentarci e di far impazzire quanti noi siamo.

AGAP. Ehi, che cosa dicono? (a Tarquinio)

TARQ. Signori, dunque me ne posso andar via.

PANT. La vaga pur a bon viazo.

TARQ. Se la signora Rosaura sta bene, se la signora Rosaura si marita, non ha bisogno d’altra cavata di sangue. (parte)

LEL. Signor Pantalone, ho inteso tutto. La signora Rosaura è guarita, ma non è per me. Prima me l’avete negata per causa della malattia, ora non me la potete dare per causa del medicamento. Riverisco lor signori. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Il dottor Onesti, Rosaura, Beatrice, Pantalone, Colombinae Agapito.

PANT. Patron mio reverito.

AGAP. Signor Pantalone, come sta la signora Rosaura. Che hanno detto i medici? Ha più bisogno de’ vescicanti?

PANT. Séntela, sior dottor Onesti? Qua el sior Agapito, pien de bontà e pien de zelo, vedendo che mia fia giera in accidente, l’aveva portà la pasta de’ vessiganti per farla revegnir.

ONES. A una donna svenuta mettere i vescicatori?

AGAP. Se io li so mettere? Sì signore.

ONES. Orsù, non è più da tollerarsi un uomo tale in questa città, con pericolo della salute e della vita de’ poveri sventurati che incappassero nelle vostre mani. Dovrete chiudere la bottega, e non farete più lo speziale. (forte)

AGAP. Non farò più lo speziale?

ONES. No, il collegio non vi può più tollerare.

PANT. Anderè via de sto paese. (forte)

ONES. Chiuderete la spezieria. (forte)

AGAP. Ho piacere; i medici non verranno a disturbarmi, quando leggo i foglietti. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Rosaura, Beatrice, il dottor Onesti, Pantalonee Colombina.

PANT. Adesso me n’accorzo che l’è matto.

ONES. E voi vi siete per tanto tempo fidato di lui.

PANT. Fia mia, gh’astu più mal?

ROS. Non sono ancora risanata del tutto.

PANT. Via, via, el sior dottor finirà la cura.

BEAT. Cara signora Rosaura, ora che vi vedo lieta e contenta, torno a casa mia, consolandomi delle vostre felicità.

ROS. Sono molto tenuta all’amore che voi avete per me.

COL. Ho imparato anch’io a prender marito a forza di svenimenti.

ONES. Sì, queste cose da voi altre donne s’imparano facilmente. Vorrei piuttosto che tutti voi dagli accidenti di questo giorno imparaste che molti mali provengono dall’opinione, che vi sono degl’impostori e degl’ignoranti; ma che senza paragone è maggiore il numero de’ medici dotti, sinceri ed onesti.


([1]) È un'abbreviazione di illustrissimo, titolo che si dà a' medici in Venezia.

([2]) Raìse non vuol dire che radice, ma si usa in questa frase, come se si dicesse vita mia, radice, sostegno della mia vita.

([3]) Le da' qualche cosa da odorare.

([4]) Sciocca.

([5]) Vada tutto, si spenda tutto.

([6]) A quei mali che l'assalgono?

([7]) Ciarlona.

([8]) Come le girandole.

([9]) Che barzellette.

([10]) Moglie di un ciabattino.