La gabbia vuota

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LA GABBIA VUOTA

Processo in tre udienze

di NICOLA MANZARI

PERSONAGGI

JEANNE

ALTETTE

GISELLE

L'ACCUSATORE

L'AVVOCATO

IL PRESI­DENTE

BERNARD

THOMAS

IL COADIUTORE

IL PRIMO GIURATO

IL CANCELLIERE

L'USCIERE

DONNE, UOMINI

GUARDIE (CHE NON PARLANO)

A Nancy, nella Lorena molti anni fa» La scena, fissa per i tre atti, rappresenta un'aula di Corte d'Assise. L'azione si svolge nei tre giorni di udienza del processo.


ATTO PRIMO

25 gennaio 1913. Ore nove del mattino, nell'aula della Corte d'Assise di Nancy. Scranni per il giudice, il pubblico accusatore, gli avvocati, la barra dei testimoni, eccetera. Una grande gab­bia di ferro per l'imputato domina la scena. A lato, in fondo, la porticina che conduce nella sala di consiglio e dalla quale entreranno la corte, il cancelliere, l'accusatore. La giuria si immagina in platea, fra il pubblico, una sca­letta dal palcoscenico conduce in platea. Quando gli spettatori entrano in teatro trovano il sipario già alzato e il palcoscenico raffigurante appunto l'aula della corte deserta. Quasi subito entra l'usciere che porta dei fascicoli. Poco dopo entrano le guardie che si dispongono ai lati della gabbia vuota. L'usciere lentamente indossa un mantello nero che, entrando, aveva deposto su una sedia. Dalla platea sale l'avvocato in toga con una borsa di pelle dalla quale estrae delle carte che dispone innanzi a sé. Il silenzio d'attesa è rotto da un orologio esterno che scan­disce nove ore. E' una mattina fredda e grigia. Si sente che fuori c'è la neve. Uno squillo di campanello interno. L'usciere e le guardie si irrigidiscono sull'attenti. L'avvocato si alza. En­tra la corte formata dal presidente, il pubblico accusatore e il cancelliere. Sono tutti in toga e tocco neri, come l'avvocato, meno l'accusatore che ha una toga rosso-fiamma. Tutti sono in piedi.

Il Cancelliere                 - Dodicesima sezione della Corte d'Assise ordinaria. Procedimento contro Guy Lemonnier. Anno del Signore, 1913, il 25 di gennaio.

Il Presidente                  - In nome del popolo dichiaro aperta l'udienza. (Tutti seggono) La Pubblica Accusa? (L'accusatore si alza e si inchina alla Corte) La difesa? (L'avvocato si alza e si inchina alla Corte) Signori giurati. (Fa un cenno di saluto verso i giurati. Poi rivolto al pubblico) Stante la particolare risonanza avuta da questo processo, avverto che qualsiasi manifesta­zione di intolleranza sarà severamente repressa. (Indicando la gabbia vuota) L'imputato?

L’Usciere                       - L'imputato è rimasto al carcere.

L’Avvocato                    - Signor Presidente, l'imputato non è in condizioni di venire in aula.

Il Presidente                   - Avvocato, cosa significa « non è in condizioni? ». E' forse malato?

L’Avvocato                    - Sì e no.

L'Accusatore                 - Sì « o » no. Tertium non datur.

L’Avvocato                    - L'imputato fa istanza di non assi­stere al dibattimento.

Il Presidente                  - Per quale motivo?

L’Avvocato                    - L'imputato non è in condizioni di partecipare al processo. Ed insisto perché si dia atto della sua rinunzia.

L’Accusatore                  - (sbrigativo) E' diritto dell'im­putato di non partecipare al dibattimento.

L’Avvocato                    - E' un diritto che l'imputato in questo caso esercita « non spontaneamente ».

Il Presidente                   - Un momento. Avvocato, sia chiaro: cosa ha inteso dire con le parole « non spontaneamente? ».

L’Avvocato                   - Precisamente quello che ho detto.

L’Accusatore                  - Protesto. L'imputato non ha subito violenze fisiche o morali.

L’Avvocato                    - Fisiche, forse no. Morali, sì. La sorveglianza eccezionale di cui è oggetto in carcere, non è forse una violenza morale poiché tende ad accrescere il suo senso di colpa?

Il Presidente                   - Se è un'accusa, la specifichi. Questa Corte agirà contro chiunque. Senza ri­guardi. Anche contro la Polizia. Se è questo che intende.

L’Avvocato                   - Agireste anche contro delle om­bre?

Il Presidente                  - Ombre?

L’Avvocato                   - Sì. Quando poco fa il mio difeso si accingeva a varcare la soglia del carcere per salire sul furgone cellulare che doveva portarlo dinanzi a voi, ha creduto di scorgere, nella neb­bia grigia e gelida della piazza, centinaia di ombre che lo ricacciavano indietro, giù, in fondo alla sua cella.

L’Accusatore                  - Non siamo qui per processare delle ombre.

Il Presidente                  - Avvocato, la Corte giudica i vivi e non i morti.

L’Avvocato                   - C'è un vivo che qui si vuole morto. A qualsiasi costo.

L’Accusatore                  - Non prima di un regolare pro­cesso. Del resto, siamo tranquilli sul trattamento usato all'imputato.

Il Presidente                   - (troncando) Cancelliere, legga il capo d'imputazione.

Il Cancelliere                  - (legge) Guy Lemonnier, di anni 27, imputato di omicidio premeditato, per avere, il 3 dicembre 1911, uccisa la diciannoven­ne Claudine Regis con l'aggravante dei motivi abietti.

L’Avvocato                   - Chiedo che dal capo d'imputa­zione vengano cancellate le parole... « per motivi abietti ».

L’Accusatore                  - E' la verità.

L’Avvocato                    - E' un'opinione. E le opinioni non rientrano in un capo di accusa.

-L’Accusatore                 - Perché dunque l'imputato avrebbe ucciso?

L’Avvocato                   - Proprio per saperlo siamo qui riu­niti. (Un tempo) Signor Presidente, insisto per la cancellazione di quelle parole. E attendo che la Corte deliberi in merito. (Siede in attesa).

Il Presidente                   - La Pubblica Accusa si oppone ancora?

L’Accusatore                  - No.

Il Presidente                  - Ordiniamo la cancellazione del­le parole « per motivi abietti ».

L’Accusatore                  - Non saranno quelle parole a sottrarre l'imputato alla ghigliottina.

Il Presidente                   - L'Accusa non è autorizzata a vincolare il verdetto della giuria.

L’Avvocato                    - Comprendo l'irritazione del Pub­blico Accusatore. Egli ha fatto l'impossibile per­ché la madre della vittima si costituisse parte civile.

L’Accusatore                  - Anche se sono solo a sostenere le ragioni dell'accusa, non lascerò che la difesa trasformi il processo a un assassino in un fatto di coscienza. E' proprio per questo che io, Pro­curatore Generale della Corte di Nancy, ho de­ciso di pronunciare personalmente la requisito­ria e di venire a chiedervi la testa dell'accusato.

L’Avvocato                    - Sì. Ma a suo tempo.

Il Presidente                   - Signori, non dimentichiamo, vi prego, che tutto il mondo oggi guarda a questa aula.

L’Avvocato                   - Esatto. Tutti. Laici e cattolici.

Il Presidente                   - Noi qui giudichiamo in Guy Lemonnier, l'uomo. Non il prete. L'Avvocato        - (con un grido) Ecco. Il prete! Siamo giunti al nodo drammatico di questo processo. Da qualunque lato si considerino ì fatti, arriviamo sempre a un punto: lo stato sacerdotale del mio difeso. E' una realtà da cui non possiamo mai prescindere. Tant'è vero che è la sua condizione di prete che i par­rocchiani hanno voluto ricordare quando hanno scritto sulla tomba della vittima: « ... uccisa dal curato della Parrocchia ». Curato. Non dimenti­chiamocene.

Il Presidente                  - Cancelliere, non metta a ver­bale.

L’Avvocato                   - Forse che a non scriverlo, Guy Lemonnier cessa d'essere un prete? Il fatto che l'imputato lo sia, ha caratterizzato il comporta-mente di chiunque s'è giudizialmente occupato di lui.

Il Presidente                  - Si spieghi meglio.

L’Avvocato                    - Anche oggi in carcere, Guy Lemon­nier è iscritto sotto falso nome, le lettere che gli inviano vengono aperte, vive in una cella isolata e sorvegliata notte e giorno, perché il direttore del carcere è ossessionato dall'idea che il dete­nuto venga linciato o sia aiutato a fuggire. Nes­suno dunque dimentica che egli è un prete. Dob­biamo dimenticarcene proprio noi?

Il Presidente                   - A tal proposito, rendo noto due istanze. Con la prima mi si chiede di procedere a porte chiuse perché la pubblicità a un tale processo sarebbe immorale.

L’Accusatore                  - Perché nascondere la verità?

Il Presidente                   - D'accordo. L'amministrazione della Giustizia nel nostro paese, per fortuna, è pubblica. Seconda istanza: alcuni deputati so­stengono che un certo riguardo sarebbe stato usato in istruttoria all'imputato in quanto prete,

L’Accusatore                  - (con una punta di disprezzo) Indaghino pure i signori parlamentari. Noi ab­biamo coscienza di aver respinto ogni indebita ingerenza da chiunque provenisse. Anche dalla Chiesa.

Il Coadiutore                  - (dalla platea) Signor Presiden­te. (E' in giacchetta nera, solino bianco e pettina nera come i preti anglosassoni) Signor Presi­dente, prima che si proceda, vorrei precisare che la Chiesa si è tenuta rigorosamente estranea al processo. (Si inchina alla Corte) Sono il coa­diutore del Vescovo della Diocesi. E sono qui come semplice osservatore. (Sale sul palcosce­nico).

L’Accusatore                  - Non per contraddirla ma a noi risulta che il Vescovo proprio in coincidenza con l'inizio di questo processo ha indetto in tutte le chiese della Diocesi preghiere e cerimonie reli­giose; e che da stamani da tutti i pulpiti i sacer­doti rievocano il caso Lemonnier il cui peccato...  (legge un foglio)... « umilia il nostro sacerdo­zio ». Sono parole dell'intimatio dell'Arcivescovo al clero. (Dà il foglio al Presidente).

Il Presidente                   - (respinge il foglio senza leggerlo) La Chiesa è libera di pregare. E noi di giu­dicare.

Il Coadiutore                 - Esatto. Questa Corte giudica solo l'uomo. Ma per noi egli è un prete. E in quanto tale la responsabilità dei suoi atti appar­tiene alla Chiesa che è tenuta a risponderne ai suoi fedeli.

L’Accusatore                  - Comoda e sottile la vostra tesi! Ecco perché la Chiesa non ha soffocato lo scan­dalo ma lo ha assunto su di sé, prevenendo ogni attacco. In questa maniera, sia pure indiretta­mente, non rinuncia a interferire nel processo. Attenzione, signori giurati, essi stanno cercando di ricordarvi che voi giudicate un prete!

Il Coadiutore                  - Non sono motivi di opportu­nità giuridica che mi hanno spinto a parlare. Il verdetto di questa Corte, con tutto il rispetto, non ci interessa perché Guy Lemonnier è ormai affidato alla Giustizia di Dio! (Si inchina e ridi­scende in platea).

Il Presidente                  - Avanti il primo testimone.

L’Usciere                        - (chiama) Jeanne Regis. (Jeanne, una donna sui quarant'anni, agile e vigorosa, vestita in costume regionale pittoresco, attra­versa la platea).

Il Presidente                  - Perché siete vestita così?

Jeanne                            - E' l'abito di festa.

L’Accusatore                  - E vi sembra un giorno di festa questo in cui si processa l'assassino di vostra figlia? (Jeanne che è salita sul palcoscenico, non risponde chiudendosi in un atteggiamento pro­tervo, quasi di sfida).

L’Avvocato                   - Allora dovremmo domandarci per­ché anche noi siamo parati così. (Indica le toghe) Purtroppo la giustizia umana ha bisogno di ve­stirsi per incutere rispetto. Solo la verità è nuda.

Il Presidente                   - Avvocato, non divaghiamo. In­nanzi tutto la teste conferma l'uccisione della figlia ad opera di Guy Lemonnier? (Jeanne non risponde).

L’Accusatore                  - (subito violento) Jeanne Regis, non chiudetevi nel vostro solito mutismo. Siete qui per collaborare con la giustizia. Tacere non serve. I fatti sono noti.

Jeanne                            - Se li conoscete, cosa volete sapere an­cora da me?

Il Presidente                  - Voi dovete solo rispondere. (Legge) Dunque, vi chiamate Jeanne Regis, di anni quarantuno, vedova e proprietaria terriera. Vero?

Jeanne                                       - Sì.

Il Presidente                  - Claudine era la vostra unica figlia. Perché non vi siete costituita parte civile contro chi ve l'ha uccisa?

Jeanne                            - Perché avrei dovuto farlo? Tanto mia figlia non torna in vita.

Il Presidente                  - Avevate anche delle ragioni per­sonali per farlo. Difendere la memoria di vostra figlia. O qualcuno ve l'ha impedito? Parlate senza timori. Siamo qui per proteggervi.

Jeanne                             - (con forza) Nessuno può farmi fare ciò che non voglio. (Un tempo. A voce più bassa) Ed io non ho nulla contro il signor curato. Egli non ha colpa di tutto quello che è accaduto.

L’Accusatore                  - Non vorrete raccontarci, spero, che vostra figlia s'è ammazzata da sé. ,

Jeanne                            - Oh no, certo. E' stato il curato ad uc­ciderla.

Il Presidente                  - Signori, una sentenza si con­creta nelle prove. E le prove poggiano sui fatti. Vogliamo dunque tornare ai fatti del processo? Jeanne Regis, raccontateci come scopriste il cor­po di vostra figlia.

Jeanne                            - Non fui io a scoprirlo. Ma il curato.

Il Presidente                   - (stupito) Guy Lemonnier?

Jeanne                            - Sì.

Il Presidente                  - Badate che se anche non avete giurato, siete tenuta a dire la verità.

L’Accusatore                  - E' la verità. Risulta dagli atti.

Jeanne                            - Io dico sempre la verità.

L’Accusatore                  - (legge) E' provato che fu lo stes­so assassino ad assumere l'iniziativa delle ricer­che quando la madre della vittima cominciò ad essere inquieta per la prolungata assenza della ragazza quella notte del 3 dicembre 1911. E fu l'imputato a trovare per primo il cadavere ab­bandonato sulla neve in fondo a un burrone. Vero, Jeanne?

Jeanne                            - Sì, è vero. Quando, dopo tante ore di attesa, cominciai ad essere preoccupata, per pri­ma cosa andai in chiesa. Che altro potevo fare? Ma Claudine in chiesa non c'era. Allora tutti si mossero con le fiaccole verso il bosco. Ma chi la trovò fu lui.

L’Accusatore                  - Tipico comportamento del cri­minale che vuole crearsi un alibi psicologico e distogliere i sospetti da sé.

L’Avvocato                    - Mi pare molto ingenuo un cri­minale il quale conduce la gente sul luogo dove egli solo sa trovarsi il cadavere della vittima. E così facendo si autodenuncia.

L’Accusatore                  - Al contrario. È il gioco d'una intelligenza diabolica proprio perché condotto sul filo del rischio. Infatti l'assassino riesce nel suo intento. Chi già sospettava, ora dubita. Tant'è vero che per tre giorni le indagini pren­dono un altro corso, si interrogano centinaia di persone, ma l'imputato viene lasciato tran­quillo. E non basta. Il suo cinismo giunge fino al punto di impartire l'assoluzione alla sua vit­tima, lì, sulla neve, dinanzi alla folla ammuto­lita dall'orrore! Cercate, signori, di immaginare la scena di quest'assassino che osa levare la mano a benedire, quella stessa mano che meno di due ore prima ha ucciso! Ma l'acqua lustrale non può cancellare il sangue di cui quella mano s'è macchiata. No, Jeanne, Lemonnier, assas­sino, merita la morte.

-Jeanne                            - (ha cominciato a parlare per proprio conto in tono sommesso e dolce come una nenia) No. Non è vero. Non dovete credere a lui... (indica l'accusatore) ma a me, perché io ero lì quella notte... e io ho visto bene lui mentre levava la mano a benedirla... e ho visto come piangeva mentre diceva: « Ego te absolvo, Claudine... ». E ho visto lei che a quelle parole s'è fatta più serena... Il volto s'è come disteso... e il capo è affondato più giù nella neve come quando cerchiamo il punto più soffice del cu­scino prima di addormentarci... Allora ho ca­pito che Claudine era in pace. E mi sono ingi­nocchiata accanto a lei, e le ho chiuso gli occhi perché nessuno lo aveva ancora fatto. Ed è stato in quel momento che le pupille prima di spegnersi hanno avuto un fremito, come un balenìo, come se volesse dirmi: « Grazie, mamma »... Gli uomini poi hanno piantato le fiaccole tutto intorno, e noi abbiamo comin­ciato a vegliarla, secondo l'uso. Poi... (brusca, come svegliandosi)... poi sono arrivati i gen­darmi e se la sono portata via. (Una lunga pausa. Si è fatto un profondo silenzio).

L’Accusatore                  - Ed è proprio lì, nel punto dove fu consumato il delitto che il popolo ha mu­rato una lapide: « Claudine Regis, uccisa dal curato della Parrocchia ». Come vedete, signori giurati, il popolo nel suo infallibile istinto ha già emesso la sentenza. Riflettete sulle parole di quell'epigrafe quando sarete riuniti per giudicare.

Jeanne                             - (calma) Le parole non sono più quelle.

Il Presidente                  - Che intendete dire?

Jeanne                            - Quello che ho detto. Le parole della lapide sono state cambiate. Questa notte. (Mormorii).

Il Presidente                  - Questa notte?

Jeanne                            - Sì. Prima che cominciasse il processo.

L’Accusatore                  - (terribile) Siete stata voi, vero?

Jeanne                            - Io? E perché io? Sono stati gli altri. Essi hanno cambiato le parole.

Il Presidente                   - Quali sono queste parole, ora?

Jeanne                             - (come ispirata) « Qui giace Claudine Regis, assolta dai suoi peccati dal curato della Parrocchia ».

L’Avvocato                   - Come vede, Pubblico Accusatore, quella lapide non voleva essere un'accusa a Guy Lemonnier. Queste nuove parole non la­sciano più dubbi.

L’Accusatore                  - Non permetterò che per sal­vare un uomo, si accusi un intero paese.

L’Avvocato                    - Non un uomo. Ma un prete. Sempre il prete, come vi dicevo. Osanna o cru-cifìge. Pro o contro, mai un imputato è stato così condizionato dall'abito. Guy Lemonnier è prigioniero di quell'abito.

Il Presidente                   - (troncando) Jeanne, eravamo rimasti a Lemonnier che trova il cadavere...

L’Accusatore                  - Per stornare i sospetti, non di­mentichiamolo.

L’Avvocato                   - No. Vedremo dopo perché il cu­rato agì così. La risposta a quel « perché » è questo processo.

Il Presidente                  - Signori, non siamo alle con­clusioni purtroppo. Jeanne, dicevate che la veglia funebre fu interrotta dall'arrivo dei gendarmi.

Jeanne                            - Sì.

Il Presidente                  - Da quel momento vedeste più l'imputato?

Jeanne                            - Sì. Una volta.

Il Presidente                   - Dove?

Jeanne                            - In chiesa.

Il Presidente                  - E come si comportò? Vi disse qualcosa?

Jeanne                             - (un tempo) Mi chiese di pregare per lui. (Una lunga pausa).

Il Presidente                   - Adesso raccontateci i fatti.

Jeanne                            - Tutto cominciò la domenica delle Palme. Era tanto tempo che Claudine non an­dava più in chiesa. Perciò fui sorpresa quella mattina che mi torna di corsa, mi butta le braccia al collo e piangendo e ridendo di gioia, prende a gridare: « Mamma, il nuovo curato mi ha assolta in confessione e non mi ha ne­gato la comunione. Così tutte hanno visto che posso accostarmi di nuovo all'altare. Tutte. Nicole, Alyette, Francoise, Michele, Janine, Su-zette, Giselle »... Erano le amiche che avevano malignato il giorno in cui il vecchio parroco aveva scacciato mia figlia dal confessionale.

L’Accusatore                  - Perché non dite il motivo di quel rifiuto? La condotta troppo libera di vostra figlia.

Jeanne                            - No, Claudine non andava con gli uomini per vizio. Dalla morte del padre crebbe irrequieta, ribelle... ma non cattiva... al con­trario, generosa, candida era... Sì, è inutile che sorridete... in tutto quello che faceva lei non ci metteva malizia e si faceva perdonare tutto... Allegra, viva, impulsiva, sincera sempre... E negli uomini cercava quel senso di protezione che le era venuto a mancare con suo padre... debole ero io con lei, perché le volevo troppo bène ed era tutto per me...

Il Presidente                   - Quello che dite contrasta con i fatti e rende ancora più enigmatica la figura di vostra figlia.

Jeanne                            - I fatti. Sempre i fatti. Anche voi. Ma perché non le guardate dal di dentro le cose? Claudine era sfrenata, non capiva la gravità degli atti, quello che voleva prendeva, ma era buona, onesta, sana...

Alyette                            - (dalla platea) Jeanne, perché non parli della sorgente?

Il Presidente                   - Chi ha parlato?

Alyette                           - Io, signore. (È giovane e graziosa. Anch'essa è vestita in modo pittoresco) Voglio dire tutto.

Il Presidente                  - Vi chiamate?

Alyette                           - Alyette Blanchard.

L’Avvocato                    - (consultando le carte processuali) Alyette Blanchard. Questo nome non figura nella lista dei testi.

Il Presidente                  - Venite qui. (Alyette sale sul palcoscenico).

Alyette                            - (indica Jeanne) È stata lei la colpa di tutto quello che è accaduto. Il curato è innocente.

Jeanne                             - (in un soffio) Sgualdrina.

Alyette                           - Sgualdrina a me? Tua figlia, sì. E tu che le tenevi mano.

Il Presidente                  - (troncando) Alyette, tu all'inizio hai pronunciato una strana parola: « sor­gente ». Cosa intendevi dire?

Alyette                           - Sì. Sorgente. Jeanne sa bene a cosa alludo. Perché tutto cominciò quel giorno. E non la domenica delle Palme. Fatevelo raccon­tare da lei.

Jeanne                            - Già che hai cominciato a sputare veleno, perché non continui tu? Vuoi trasci­narci tutti nel fango.

Alyette                            - (scatta come in preda a un furore iste­rico sin qui a stento contenuto) Ebbene, sì, fango! Perché, cos'altro era il tuo lurido gioco con il curato? « Reverendo, Claudine mi fa così disperare! Anche stanotte non è tornata a casa. Ha dormito chissà dove. Io non la tengo più. S'è sfrenata, fa quello che vuole, non ubbidisce più, abusa del mio affetto... Solo voi potete fermarla, mettetele paura, parlatele dell'in­ferno, ditele che si dannerà... ». E lui, paziente: « Pregherò il Signore che le tocchi il cuore ». « No, non basta, dovete aiutarmi, scacciare i demoni che la divorano, prima che sia troppo tardi ».

Jeanne                            - Sentitela, sentitela, come ripete bene tutte le parole, nessuna ne dimentica. Era sempre a spiarci dietro il muro della fattoria. Verme!

Alyette                            - (imperterrita) « Va bene, conduce­tela in chiesa, vedremo ». « No, reverendo, Clau­dine in chiesa non viene. È convinta che nessun prete l'assolve più ».

Jeanne                            - È la verità. Terrorizzata era mia figlia dalla paura che anche il nuovo curato potesse scacciarla dal confessionale di fronte a tutti. Infatti fu da quella volta che le venne negata l'assoluzione, che diventò così inquieta, ribelle, agitata, quasi a sfida.

Alyette                            - (e. s.) E allora, visto che il curato non andava da lei, cosa non va ad escogitare quella ruffiana? (Un movimento minaccioso di Jeanne. Una guardia la blocca) Nuda gliela mostra. Nuda!

Jeanne                            - Vipera maledetta, non è vero.

Alyette                           - Sì. Nuda. Nella sorgente che sca­turisce dalla roggia proprio sul limite della sua fattoria e poi, più in là, diventa ruscello. Nuda, col pretesto del bagno.

Jeanne                            - Vipera, vipera, sei capace di distor­cere tutto. (Alla Corte) No, non credetele. Il bagno non fu un pretesto. Eravamo d'agosto, la terra era ridotta una fornace e Claudine d'improvviso - uno dei suoi colpi di testa -si spoglia tutta e si butta in acqua. Subito io gridai. E vergogna avevo per lei che non ne aveva...

Alyette                           - Sì, ma gridasti per attrarre l'atten­zione su di lei.

Jeanne                            - Gridai sì, ma contro Claudine... contro i suoi gesti incontrollati...

Alyette                           - No. Tu gridasti perché il curato sentisse.

Jeanne                            - Come potevo immaginare che lui fosse lì?

Alyette                            - (implacabile) Lo sapevi che era ve­nuto a trovarci. Sempre ci spiavi. E infatti alle grida lui si affacciò ignaro e vide il bello spet­tacolo di quella puttana in mostra... E poiché lui si tirò subito indietro, tu a gridare: « Sver­gognata! Svergognata! Esorcizzatela, padre. Li­beratemela dal demonio ».

Il Presidente                   - E l'imputato?

Alyette                           - Trascolorò tutto, prese a tremare, annaspò, le mani che battevano l'aria come uno che anneghi, poi imboccò il cancello e fuggì via. Vedo ancora le sue grosse scarpe chiodate cor­rere correre, sempre più bianche della polvere della strada...

Jeanne                            - In quel momento volevo davvero che l'esorcizzasse. Sincera ero. È costei che mente.

Il Presidente                   - Da questo sfogo capisco che l'odio che vi divide ha radici profonde.

L’Avvocato                    - In paese tutti si odiano. Si spiano. E litigano. Forse anche l'odio è un modo di sentirsi vivi.

L’Accusatore                  - Qui si fa il processo a un as­sassino. Non ad un paese.

L’Avvocato                   - Ma senza il quadro in cui vive ed opera Guy Lemonnier, rischiamo di non capir nulla di questo processo.

Il Presidente                  - L'avvocato ha ragione. Ma in questo momento conviene seguire i fatti.

L’Accusatore                  - Jeanne, dopo l'episodio della... sorgente, cosa successe fra vostra figlia e l'imputato?

Jeanne                            - Più che mai Claudine non avrebbe osato varcare la soglia della chiesa.

Alyette                           - Ci pensasti tu a trascinarlo da lei.

Jeanne                            - Ma ci andai all'insaputa di Claudine... e dovetti insistere molto col curato che non voleva saperne... Era suo compito salvarla, no? Nostro Signore non disse: « Lascia il tuo gregge e cerca la pecorella smarrita? ».

Alyette                           - Già, così riuscisti a tirartelo in casa.

Jeanne                            - Sì. Venne qualche volta ma per in­durla a riaccostarsi ai sacramenti... Finché la Domenica delle Palme si confessò.

Alyette                           - Così vinse lei.

Jeanne                            - No. Fu il curato che le fece credito e l'assolse... perché lui non si fermava ai fatti e sapeva leggere nei cuori... E Claudine sentì questo. Perciò è importante la domenica delle Palme. Da quel giorno si attaccò a lui come non si era mai attaccata a nessuno prima di allora, perché in lui finalmente trovò quella prote­zione che invano cercava in tutti.

Alyette                           - Sì, si attaccò a lui come una piovra, ossessionandolo con la sua presenza, tentandolo con la sua passione, intralciando l'opera di re­denzione che si era proposto nei nostri confronti.

Jeanne                            - È stata l'unica che lo abbia com­preso, che si sia messa incondizionatamente dalla sua parte, senza riserve.

Giselle                             - (dalla platea) No, non da voi poteva avere aiuto.

Il Presidente                  - Silenzio!

Giselle                             - (è una contadinella piuttosto primi­tiva) No. Non voglio star zitta. È colpa loro. Solo loro.

Il Presidente                  - Se hai qualcosa da dire, puoi venire a dircela qua. (Giselle sale sul palco­scenico) Come ti chiami?

Giselle                            - Giselle Dubois. (Affannosamente) No, noi soli, i poveri, potevamo aiutarlo. Guar­dateli, i ricchi. Egoisti, avidi, ingrati. Trent'anni mio padre li ha serviti nel bene e nel male finché non ci ha rimesso la vita e sin l'ultima zolla di terra. Eh, sì, sono uomini di Dio, i Blanchard. In chiesa hanno uno scranno tutto per loro, col nome bene in vista che nessuno ci si possa sedere. Alla processione del Corpus spetta ad essi reggere il baldacchino del San­tissimo. E perfino da morti le loro ossa non marciscono nella terra comune dove è finito mio padre. No. Da secoli i Blanchard hanno il privilegio di essere sepolti nel sagrato della chiesa. Così anche i vermi che li mangiano sono vermi. Ma benedetti.

Alyette                           - Pezzente, vomita il tuo odio per tutto il tempo che ti abbiamo sfamata.

Jeanne                            - È vero. I Blanchard li hanno tenuti come coloni anche quando il vecchio era ormai buono solo a far ombra col suo corpo.

Giselle                             - Le sentite come diventano solidali appena si tratta di schiacciare noi, i poveri? Oh, come vorrei farvi capire di che farina sono impastati i Blanchard e tutti gli altri ricchi del paese. Col curato, dapprima han cercato d'igno­rarlo, d'isolarlo, poi... d'imbrigliarlo, d'impe­dirgli ogni movimento... Egli ha creduto di convertirli, di strapparli a Mammona, e per essi ha trascurato noi, i poveri. « I poveri sono già di Dio! » ci gridava dal pulpito. (Afferrandosi alle sbarre della gabbia e scuotendole) Ecco come ti hanno ridotto i figli di Mammona! (Indica Jeanne e Alyette) Come Cristo sei an­dato incontro ad essi. E come Cristo essi ti hanno crocefisso. (Con furia isterica) Noi, i' poveri, mai ti avremmo tradito! Ora che è troppo tardi sai chi era nel giusto e chi no. E sai l'amore che ti abbiamo sempre portato.

L’Avvocato                    - (si alza e legge sullo stesso tono di Giselle) ... « l'amore che ti abbiamo portato era puro come acqua di fonte ma tu hai prefe­rito bere alla sorgente inquinata... ».

Giselle                             - (è rimasta come folgorata. Poi corre verso l'Avvocato, le braccia levate minacciose. Ma le guardie la bloccano. Giselle si dibatte) No. Non voglio. È mia. Come avete quella lettera? Ridatemela.

-L’Avvocato                   - (ai giurati) È una delle lettere di Giselle al detenuto.

Il Presidente                  - L'Amministrazione l'ha se­questrata.

Giselle                             - (gridando) Con quale diritto? Non voglio.

L’Accusatore                  - È il regolamento. Solo i fami­liari possono scrivere ai detenuti.

Giselle                             - (sghignazza) La famiglia d'un prete! Ma « noi » siamo la sua famiglia. Noi. I fedeli.

L’Accusatore                  - (sollevando delle lettere che poi lascia ricadere) Le lettere di Giselle al pri­gioniero sono molte. Eccole.

Giselle                             - (c. s.) Vili! Vili! Non una gliene avete data. Anche questo conforto gli avete tolto, di sapere che io gli sono rimasta vicina ora che tutti l'abbandonano.

L’Accusatore                  - Non sei stata sola a scrivergli. (Mostra altre lettere) Signori giurati, centinaia e centinaia sono le lettere giunte al carcere. E tutte di donne.

Giselle                             - Non è vero. Non può essere vero.

L’Accusatore                  - E altre continuano a giun­gergli ogni giorno.

L’Avvocato                   - Sì. Sarebbe facile fare il processo alla comunità, sulla scorta di quelle confes­sioni sconcertanti. Perché io le ho lette. Ebbene, signori, il ritratto di quelle donne che si ricava da quelle carte grondanti sospiri, confessioni, lacrime, è talmente ripugnante nel suo mono­tono squallore di vizi che sembra di precipi­tare a ritroso nelle epoche più buie della nostra storia quando anche il suolo della Lo­rena pare fosse calpestato da demoni, spiriti e streghe. Pazze od ossesse, si direbbe che quelle donne siano l'ultima incarnazione delle streghe. Ma nessun proposito scandalistico è in noi. Perciò la difesa rinunzia alla pubblica lettura di quelle lettere.

Giselle                             - (scattando) E perché avete letta la mia? Io, sì. E le altre, no? Forse siamo diverse? Dillo tu, Alyette. (Alla platea) E tu, Nicole. E tu, Francoise. E tu, Janine, Michèle, Brigitte, Gabrielle, Laure, Louise... Vi vedo, sapete, anche se cercate di nascondervi. (Con una stridula risata) Ci .siete anche voi nel mucchio, vero? (Indica le lettere) Ora non vi serve più coprirvi la faccia. Tutti dovranno sapere. Tutti. Perché siamo uguali noi altre. E stiamo tutte insieme giù, nel fuoco della dannazione eterna. E lui non è più qui a salvarci. Non c'è più. Non c'è più. (È squassata da un riso frenetico che poi si muta in singhiozzo. Subito come eccitate da quella invocazione, Jeanne e Alyette fanno eco a Giselle lamentandosi sul tono alterno di una salmodia fra lo sbigottito silenzio dei presenti).

Jeanne                            - È un anno che ci hai lasciato...

-Alyette                          - Tu che ti preoccupavi solo del nostro bene... (Adesso anche Giselle si unisce al coro).

Giselle                             - Il tuo destino è nelle mani di Dio!

Le tre Donne                  - Non in quello degli uomini.

—Tuttavia siamo qui per rendere testimo­nianza a te.

—Tu, nostro parroco.

—Tu, nostro intercessore.

—Tu, nostro protettore.

                                        - (Mentre l'attenzione di tutti è rivolta alle tre donne, l'avvocato, quasi di sorpresa, legge con tono sommesso ma ispirato).

L’Avvocato                    - « Finalmente il gran giorno è ve­nuto. Eccoli i miei fratelli fra i quali il buon Dio ha voluto che venissi a vivere. Essi mi appartengono e io appartengo loro. Da questo momento siamo l'uno dell'altro... ».

L’Accusatore                  - (urtato) È lecito domandare di chi sono quelle parole?

Alyette                            - (con un grido) È lui.

Giselle                             - (agitatissima) Sì. È lui.

Jeanne                             - (anch'essa fremente benché più calma)

                                        - Sì. È il curato.

L’Avvocato                   - Sì. È Guy Lemonnier che parla. Le donne lo hanno « sentito » pur senza cono­scere quelle parole. Sono le parole che il cu­rato scrisse il primo giorno in cui venne in paese. (Riprende a leggere) « Eccola, la mia parrocchia. Esiste realmente questa cellula vi­vente della Chiesa imperitura. Da oggi è affi­data a me. Andrò incontro ad essa con tutto l'amore di cui il mio povero cuore è capace. Prometto di essere umile, tenace, paziente. Ma essi, i miei fedeli, sapranno rispondere al mio slancio d'amore? ».

Alyette                            - (ormai frenetica) Sì. Siamo il tuo gregge. (Piangente, leva le braccia verso la gabbia).

Giselle                             - Sì. Siamo con te.

Jeanne                            - Noi, le povere donne che t'atten­devano. (Le tre donne sono intorno alla gabbia dove fanno gruppo pregando sommesse).

L’Avvocato                   - (legge) « Perché ci sono solo donne in Parrocchia? Perché premono alle porte della tua casa, o Signore? Io lo so: esse chiedono soltanto benestare alla loro dissolu­tezza. Ma non è così che io intendevo la mia opera, o Signore. Aiutami, aiutami mio Dio, a fare di questa parrocchia di donne ipocrita­mente devote che assediano la tua casa e disper­dono la mia opera, un luogo santo che viva secondo i tuoi comandamenti ».

Le tre Donne                  - Siamo tutte cambiate.

—Non c'è più peccato in noi.

—Sì, siamo degne di te.

—Padre nostro...

—... che sei nei cieli...

Jeanne                            - ...venga il Regno tuo... (Un lungo silenzio testimonia il clima di pro­fonda suggestione diffuso dalle donne).

L’Accusatore                  - (scattando) Chiedo al Presidente di interrompere questo spettacolo in­decoroso.

Il Presidente                  - (scuotendosi con uno sforzo dall'atmosfera che ha contagiato anche gli altri)

                                        - Smettetela. Non siete in Chiesa.

Le Donne                        - (non tacciono come non l'avessero udito. Continuano a pregare).

Il Presidente                  - Silenzio! (Fa un cenno alle guardie che vanno verso le donne che adesso si stringono intorno alla gabbia come volessero difendere il prete o farsi partecipi della sua sorte).

L’Accusatore                  - Posso chiedere alla difesa di risparmiarci questi colpi di scena il cui ridi­colo minaccia tutti noi?

L’Avvocato                    - (per la prima volta aggressivo) L'imputato è assente. Non può deporre. Non possiamo interrogarlo. Vogliamo anche impe­dirgli di difendersi attraverso i suoi scritti? In tal caso la difesa depone la toga. (Siede in disparte).

Il Presidente                  - Avvocato, sono certo che la Pubblica Accusa non vuole limitare i diritti della difesa.

L’Avvocato                   - In tal caso... (Torna sul pretorio).

L’Accusatore                  - Potrei conoscere a chi è diretta la lettera citata dalla difesa?

L’Avvocato                    - Non è una lettera. Ma un diario dell'imputato. Ne sono venuto in possesso a sua insaputa.

L’Accusatore                  - Chi gliel'ha dato?

L’Avvocato                    - Ho promesso di non dirlo.

L’Accusatore                  - Chiedo che ne sia proibita la lettura, a meno che il consegnatario ne attesti l'autenticità.

Il Presidente                  - D'accordo. Quel nome, av­vocato.

L’Avvocato                   - Non posso rinunziare al diario. Perciò dirò quel nome. Bernard Gallien, abate.

L’Accusatore                  - (trionfante) Un prete! Questa è una messinscena sapientemente organizzata. Perché la difesa non ha citato l'abate come teste a discarico?

L’Avvocato                   - L'abate è troppo vecchio. E ma­lato. E poi egli, come sacerdote, non può te­stimoniare senza il permesso della Curia.

Il Coadiutore                  - (dalla platea sale per la scaletta)

                                        - Signor Presidente, chiedo che quel diario ci venga consegnato perché evidentemente de­stinato a rimanere segreto.

L’Accusatore                  - Se mai è stato l'abate a violare questa volontà. Non noi.

Il Coadiutore                 - Sul comportamento dell'abate c'è da avanzare una... riserva. Purtroppo non solo è malato e molto avanti negli anni, ma anche - come dire? - un po' indebolito di mente. Infatti è ricoverato in una casa di ri­poso per vecchi sacerdoti. E sospeso a divinis.

L’Accusatore                  - Qui non è questione dell'abate. Ma di Guy Lemonnier.

Il Presidente                  - (troncando) Ordiniamo che il diario sia acquisito al processo.

Le tre Donne                  - (lungo grido) Sì.

Il Coadiutore                  - Formulo ogni riserva sul con­tenuto del diario.

L’Accusatore                  - Pare che la chiesa si preoccupi molto della condotta dell'assassino... dopo il delitto. Perché non se ne preoccupò con lo ; stesso zelo « prima del delitto? ». Eppure ci risulta che sulla condotta dell'imputato giun­sero alla Curia delle voci.

Il Coadiutore                  - Anonime e generiche. Ma nes­suna accusa specifica.

L’Accusatore                  - E provvedeste?

Il Coadiutore                  - Certo. Ordinammo un'inchiesta.

L’Accusatore                  - Condotta da voi, naturalmente.

Il Coadiutore                  - Avremmo forse dovuto affi­darla a voi? Ma l'inchiesta non approdò a nulla,: Tuttavia il Vescovo non si accontentò. Capì che  l'intransigenza del curato suscitava le reazioni della comunità e andò personalmente a fargli i visita. Nella sacrestia della Chiesa, in ginocchio dinanzi al Crocefisso, Lemonnier piangendo con­fessò il suo orrore per queste donne peccatrici che sollecitavano il suo perdono solo per essere in pace con se stesse. Il Vescovo lo ammoni a sopportare e a mutare la sua condotta.

L’Accusatore                  - E provvedeste contro Lemonnier?

Il Coadiutore                 - Noi dobbiamo procedere cauti. Anche adesso se la Chiesa non si occupa di Guy Lemonnier, si dice che abbiamo abbando­nato il prete al suo destino. Se si ha la sensa­zione che ce ne occupiamo, si grida contro l'indebita ingerenza.

L’Accusatore                  - Ho qui una lettera dell'Arci­vescovo a Lemonnier, in carcere. (La mostra) Una lettera cautelosa, scritta con quell'arte mirabile di dire e non dire in cui la Chiesa è maestra. Cito solo una frase: « Il vostro attivismo vi ha fatto perdere l'intimità con Dio! ». (Con forza) Signori, un omicidio premeditato. Una donna uccisa da un prete!... e solo una! frase di condanna: « Il vostro attivismo vi ha fatto perdere l'intimità con Dio! ». E non basta. Ascoltate la chiusa. « Vi abbraccio e prego ». Un poema. « Vi abbraccio e prego ». Incredibile. Enorme.

Il Presidente                  - Che data porta?

L’Accusatore                  - Otto dicembre. Un giorno dopo l'arresto dell'accusato. Quando lo scandalo era dilagato e la Chiesa non poteva più ignorarlo. Il Coadiutore  - (freddo, sicuro) La lettera è senza data.

L’Accusatore                  - Che importa? C'è il timbro postale d'arrivo. 8 dicembre. Il Coadiutore   - (sottile) Dev'esserci il timbro di spedizione.

L’Accusatore                  - Sì. 8 dicembre. Lo stesso giorno.

Il Coadiutore                  - L'8 del timbro di spedizione non potrebbe essere un 6 che sembri un 8 a un esame frettoloso?

L’Accusatore                  - (interdetto) Effettivamente forse l'altro timbro è un 6. 6 dicembre. (Passa la lettera al Presidente),

Il Presidente                  - Sì. È un 6. (Subito colpito) 6? Ma Guy Lemonnier non è stato arrestato il 7, cancelliere?

Il Cancelliere                  - (consultando le carte) Sì, signor Presidente. Delitto avvenuto il 3 di­cembre. Scoperto il 3 notte. Arresto dell'impu­tato il 7.

Il Presidente                  - (per la prima volta emozionato) Ma allora vuol dire... (Mormorii. Si fa un gran silenzio in cui cadono lente le parole del coadiutore).

Il Coadiutore                 - Sì, signor Presidente. Proprio quello che lei pensa. .

Il Presidente                   - (cauto) Vuol dire che voi... sapevate?

Il Coadiutore                 - Certo. Prima di costituirsi a voi, Lemonnier aveva già chiesto perdono a noi.

Alyette                            - (con un grido di trionfo) Sì, essi non ti hanno preso. Sei stato tu a denunciarti quando hai deciso di farlo!

Giselle                             - (come una eco) Prete, sempre prete sei stato...

Jeanne                             - (stesso tono) E prete resti. Fino alla fine. (In sala quasi un tumulto).

Il Presidente                   - (scampanella) Silenzio. (Un tempo) È uno strano processo.

L’Avvocato                    - (ironico) Mi spiace che il mira­bile castello delle deduzioni logiche della Pub­blica Accusa crolli per una questione di date.

L’Accusatore                  - Tutto questo cosa cambia? L'as­sassino s'è costituito quando ha sentito d'es­sere comunque scoperto.

Il Coadiutore                 - Non siamo stati noi a... sco­prire Guy Lemonnier. Ma Guy Lemonnier a venire da noi ad accusarsi. Egli sapeva d'essere, innanzi tutto, un sacerdote. E come tale ha agito.

Il Presidente                  - Se Lemonnier è venuto da voi il giorno 6, mentre è stato arrestato il 7, come ha impiegato il giorno intermedio?

Il Coadiutore                 - Non spetta a me dirlo.

L’Accusatore                  - (tono burocratico) Nel giorno d'intervallo l'assassino ha atteso alle sue fun­zioni di parroco. Tutti l'hanno visto. Il che prova ancora una volta il suo cinismo. A meno che... (Si smarrisce).

Il Presidente                  - A meno che... (Anch'egli è in ansia).

L’Accusatore                  - (frugando febbrilmente fra le carte) Sì. Dev'essere così. (Sventola un foglio) Ecco l'elenco degli oggetti sequestratigli, all'atto dell'arresto. Meno gli effetti personali, e i documenti strettamente parrocchiali, non s'è trovato nulla che comunque avesse atti­nenza col delitto.

L’Avvocato                   - E questo cosa prova?

L’Accusatore                  - Che Lemonnier ha impiegato quel giorno a far sparire carte, lettere e quant'altro potesse comprometterlo di fronte a noi. (Al coadiutore) Come quel diario di cui, vostro malgrado, siamo venuti in possesso.

Il Presidente                   - (rivolto al coadiutore) Nella lettera del Vescovo si dice: « Il vostro attivismo vi ha fatto perdere l'intimità con Dio! ». Che significa? Forse lo spiegarne il significato po­trebbe aiutarci a meglio capire la figura dell'accusato.

Il Coadiutore                 - Sua Eccellenza ha inteso dire...

Il Presidente                   - (interrompendolo) Mi scusi, non vorrei un'interpretazione ufficiale. Ma una interpretazione « autentica ». Cioè, non legata - come dire? - a esigenze di governo spirituale.

Il Coadiutore                  - (piccato) Gli atti della Ge­rarchia non si prestano a interpretazioni mol­teplici perché si ispirano alla Verità che è una sola. Il Vescovo ha voluto condannare in Guy Lemonnier certa intransigenza personale che espone il prete al rischio di dimenticare che egli innanzi tutto appartiene alla Chiesa e non è libero di agire se non dietro i consigli della nostra secolare esperienza.

Il Presidente                   - In parole povere, gli rimpro­verate il suo eccesso di zelo.

Il Coadiutore                  - (duro) Condanniamo in lui quella deformazione del concetto di santità di cui oggi si abusa e che lo ha portato all'osses­sione della sua opera di apostolato senza tener conto che ogni azione di bene deve essere un'azione soppesata e vagliata dall'intelligenza, se non vuole essere sterile.

L’Avvocato                    - Ma Guy Lemonnier non è un politico o un diplomatico che pesa il prò e il contro d'ogni atto prima d'impegnarsi. Egli è un povero prete di campagna, figlio di contadini che ha troppo sofferto della miseria in cui è cresciuto, della mancanza d'ogni affetto. Abbandonato dai genitori, Lemonnier ha co­nosciuto nell'infanzia solo volti estranei. Finché un giorno incontra un uomo che non lo scaccia, non lo picchia o sfrutta come tutti quelli in cui s'era imbattuto. No, quest'uomo - strano! - gli sorride, s'interessa a lui, gli insegna a leggere e scrivere. È il primo segno d'affetto che riceve il bimbo Guy. È naturale che egli si leghi d'affetto a quell'uomo. (Un tempo) Si­gnori, l'uomo che raccolse quel piccino dalla strada... è un prete! Così nasce la vocazione di Guy Lemonnier. Si fa prete perché ha identifi­cato nel sacerdote il difensore degli oppressi, il patrono dei miseri, il portatore della parola di Cristo, che è bontà, onestà, amore. Una vio­lenza inappagata d'amore, ecco ciò che dilata il cuore di Lemonnier. Egli entra in seminario perché vuol restituire centuplicato il bene che ha ricevuto. Studia, lotta, prega, soffre, nell'at­tesa del momento in cui sarà ordinato sacer­dote e potrà tradurre in azione quella violenza d'amore. Finalmente il gran giorno! L'incontro tanto atteso. Lemonnier e il paese. Il parroco e i suoi fedeli. L'uomo che, ingenuo, vuole evan­gelizzare il mondo e i falsi cristiani solidali nel respingere il messaggio di Cristo. Il risul­tato? Eccolo lì nelle carte di questo processo.

L’Accusatore                  - Signori giurati, attenzione! L'abilità dialettica della difesa tende a far pe­sare sul processo la condotta dell'imputato « prima del delitto». Ma voi non dovete dimen­ticare che noi qui giudichiamo l'assassino nel momento in cui delinque e che il codice non tiene conto delle intenzioni. La legge vi do­manda solo se egli al momento del fatto era cosciente di quello che faceva e se voleva farlo. Coscienza e volontà.

L’Avvocato                   - E allora non vorremo far credito dunque ad un diario che in epoca non sospetta, giorno per giorno, riceve le confidenze di una anima sola, ad un quaderno destinato a rima­nere segreto? E in un'analisi spietata sincera minuta, confessa debolezze, viltà, insufficienze, smarrimenti della sua vita più intima? Signori, quest'uomo dice di sé quello che nessuno potrà mai scrivere. Ascoltiamolo. (Legge) « 12 marzo 1911. Oggi mi vedo quale sono. Igno­rante, senza coraggio, prigioniero d'una devo­zione grama e malfida, chiuso in me stesso, senza contatto con le anime, sterile d'intel­letto e di cuore, incapace degli eccessi nel bene, dei grandi perdoni, di pazienza, di compren­sione. Un seme guasto che non darà più germoglio... Eppure sento ancora sulla mia fronte il segno che un giorno la tua mano mi pose, o Gesù... e per esso mi riconosco tuo servo, tuo ministro... Perché non sono capace di compren­dere? Sono qui per ricondurre a te, mio Dio, le anime che ti hanno dimenticato e posso farlo solo accogliendole nella tua casa. Non scaccian­dole. Ma perché, perché tante donne intorno alla sottana di un prete? ».

Le tre Donne                  - Sì. Siamo state noi.

—Noi ti abbiamo perduto.

—Ma non volevamo. Non volevamo.

L’Accusatore                  - Signor Presidente, chiedo che quelle donne siano definitivamente allontanate dall'aula.

L’Avvocato                    - (con uno scoppio di voce) Signor Presidente, siamo giunti a una svolta del pro­cesso. Perciò ritengo che la presenza delle donne non solo sia utile ma necessaria. Ho in­dossato la toga per difendere un cittadino di­nanzi la giustizia del mio paese. Non sono qui per sottrarre al rogo un uomo accusato di stre­goneria o di commercio col diavolo. Tuttavia per la prima volta comincio a dubitare che le streghe non siano del tutto morte nel mondo d'oggi se Lemonnier non ha saputo sottrarsi alle malignità, alla superstizione, al feticismo con cui lo hanno irretito queste donne.

L’Accusatore                  - Vittima, Guy Lemonnier? Ma chi se non lui con la sua intransigenza da santo poteva meglio dominare la comunità? Carità di patria mi sconsiglia di leggere queste lettere dirette a lui... (Le mostra) Ma in quanto a prodigi, esse ne sono zeppe. Ce n'è per tutti i gusti. Mancano solo malati che guariscono, storpi che camminano, ciechi che vedono e morti che risuscitano, miracoli concreti, visi­bili, diciamo... Ma per il resto, se vi acconten­tate di restare in una sfera, diciamo psichica, oh, allora non avete che da scegliere. Spose che perdonano ai mariti infedeli, giovanette che si redimono, comari litigiose che si riappacifi­cano, eccetera eccetera... ira accidia lussuria maldicenza, tutto il sottobosco della flora del vizio... E in tutto questo come un ruscello de­tergente e vivificante ecco, a ogni passo, l'in ri­sibile presenza di Guy Lemonnier.

Alyette                            - (in tono sommesso appena percettibile questa volta) Sì.

Giselle                             - (stesso tono) È così.

Jeanne                             - (c. 5.) Amen.

Il Coadiutore                 - Signor Procuratore, noi con­cordiamo pienamente con lei nel non ricono­scere alcun valore di autenticità ai fatti straor­dinari, non chiamiamoli per carità « miracoli », di cui si mormora a proposito del curato Lemonnier. Non c'è bisogno di scomodare il cielo per quanto può essere accaduto dopo... Si tratta delle reazioni tipiche di una collettività suggestionabile perché... sprovveduta.

L’Accusatore                  - Non sarà in ogni caso la sua pseudo aureola di santo che ora gli affibbiano a salvare l'assassino dalla giusta condanna. La sentenza per Lemonnier non può essere che una. Morte. Fui io un anno fa a firmare il suo man­dato di cattura. Sono io che ho condotto la istruttoria. Sarò io - lo giuro - che andrò a svegliarlo nella cella all'alba del suo ultimo giorno e l'accompagnerò fino al patibolo perché la sua testa, prima di cadere, veda come ultima cosa quaggiù la mia toga rossa, simbolo della legalità repubblicana e della giustizia degli uomini. (Siede).

L’Avvocato                    - (con impeto) Sì, rossa come il sangue, come la collera, come il fanatismo, come la superstizione. Rossa come il peccato, come il male che voleva combattere e che lo ha per­duto. Ebbene, morte. Ma Lemonnier la invoca, l'attende, la spera. Egli prega nella sua cella da mattina a sera perché nulla gli sia rispar­miato. Signori giurati, se voi condannate a morte Guy Lemonnier, egli sarà pronto. Potrà così presentarsi al suo unico vero Giudice.

Il Presidente                   - (si alza) L'udienza è rinviata. Guardie, fate sgomberare.

(In scena si fa buio mentre in sala si fa luce. Il sipario non scende).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Sul palcoscenico vuoto il primo ad apparire, al solito, è l'usciere con una caraffa d'acqua e un bicchiere che va a deporre al posto del Pre­sidente. Poi riassetta piegandole le toghe dell'accusatore e dell'avvocato. Subito dopo le guardie salgono sul palcosce­nico disponendosi intorno alla gabbia. Il Can­celliere riprende il suo posto. I giurati tornano nel settore che occupano in platea. L'usciere infine indossa il manto e resta in attesa. Dalla platea sale l'avvocato. L'usciere gli porge la toga che l'altro indossa. Dalla porticina che immette nella Camera di Consiglio entra il pub­blico accusatore. L'usciere l'aiuta a indossare la toga e il tocco. L'accusatore va al suo scranno e si immerge nella lettura dei fascicoli. Si sente squillare un campanello interno.

L’Usciere                        - (solenne) La Corte! (Entra il Pre­sidente in toga e tocco. Tutti si alzano).

Il Presidente                  - (sale sulla pedana e resta in piedi dietro il suo scranno come tutti. Ma non fa a tempo ad annunciare l'apertura dell'udienza, che nel silenzio che grava sulla scena, irrompe improvviso scatenato aggressivo vicinissimo un assordante scampanio. Si direbbe che la Chiesa, esclusa dal processo, voglia far sentire la sua presenza ammonitrice. Finalmente, inaspettato, com'è cominciato, lo scampanìo cessa. Il Presi­dente che era rimasto in piedi con evidente disa­gio, come tutti del resto, può finalmente parlare) L'udienza è aperta. (Tutti seggono. Il Presi­dente indicando il posto vuoto nella gabbia) E l'imputato?

L’Avvocato                   - Ahimé, persiste nel suo rifiuto.

L’Accusatore                  - (con uno scatto) Smettiamola con questa commedia. Sono certo che è proprio l'avvocato che gli impedisce di intervenire al dibattimento.

Il Presidente                  - Chiarisca il suo pensiero.

L’Accusatore                  - Ho l'impressione che difesa e imputato si siano divise le parti sul piano pro­cessuale... « Io ti difendo a patto che tu non ti fai vivo! ». E l'imputato sta al gioco perché sa che è l'unica carta che gli resta.

L’Avvocato                    - La giuria non si lascerà influen­zare dall'assenza di Guy Lemonnier.

L’Accusatore                  - Ne sono convinto. Tuttavia l'idea che, a mio parere, muove la difesa è che fino a quando l'imputato è assente, egli resta per tutti un'idea astratta: il sacerdote. (Incal­zante) « Un prete sulla ghigliottina? Un prete. Un prete. Un prete ». Ma se egli si fa vedere, e la gente si accorge che è un uomo come gli altri, che respira, parla, e si agita per difendersi, l'avvocato non può più far leva sul sentimento. (Con forza) Inoltre io ravviso nel persistente rifiuto dell'assassino non solo disprezzo per questa Corte ma il tentativo di affermare un principio: la nostra incompetenza a giudicarlo. Perciò riduco la contumacia dell'imputato a mero espediente processuale senza alcuna con­seguenza sul piano giuridico e... politico... L'as­sassino può respingere finché vuole la giustizia degli uomini con lo specioso pretesto di rimet­tersi a quella di Dio, ma non impedirà al po­polo sovrano di mandarlo sulla ghigliottina.

L’Avvocato                    - L'insinuazione della pubblica ac­cusa offende me prima che l'imputato. Mai la difesa accetterebbe di rendersi complice di una manovra « politica » tendente a svalutare il giu­dizio di quella Corte. Io ho fatto quello che ho potuto per trascinare Lemonnier in aula. Ma egli desidera evitare che la sua presenza qui, rinfocolando passioni di parte, arrechi maggior danno alla Chiesa, che ha già tanto sofferto a causa sua.

L’Accusatore                  - Ecco l'unica preoccupazione dell'imputato. La Chiesa.

L’Avvocato                   - è un prete. Perché mera­vigliarcene?

L’Accusatore                  - E tale preoccupazione non è forse una considerazione « politica »? Ambiguo come sempre, ecco cos'è l'imputato.

Il Presidente                   - (troncando) Cancelliere, pro­cediamo.

L’Avvocato                   - Un momento. Sollevo incidente formale.

Il Presidente                  - (sorpreso) Incidente di pro­cedura?

L’Avvocato                   - Sì. Chiedo la sostituzione di due giurati. (Sensazione. Commenti).

L’Accusatore                  - Per quale motivo?

L’Avvocato                    - Il codice mi dà facoltà dì ricu­sare sino a quattro giurati. E a lei, tre, pub­blico accusatore.

L’Accusatore                  - Io accetto la giuria così com'è risultata in ballottaggio.

L’Avvocato                    - Io, no. Rifiuto due giurati.

L’Accusatore                  - Perché non ha sollevato l'ec­cezione all'inizio del dibattimento? Ormai il processo è quasi istruito.

L’Avvocato                   - Perché solo adesso s'è verificata la suspicione nei loro confronti.

Il Presidente                   - I nomi?

L’Avvocato                    - Droué e Fusard. (Nuovi com­menti. Il Presidente scampanella).

Il Presidente                   - Di che li accusa?

L’Avvocato                    - A norma di legge non sono tenuto a motivare la mia richiesta. Comunque imputo loro di aver espresso opinioni sul processo. Sia pure nell'ambito familiare.

L’Accusatore                  - (che ha frugato nel fascicolo) Pretesti. Solo pretesti. La verità è un'altra. Mi risulta che Droué e Fusard sono gli unici giu­rati non cattolici. Perciò la difesa se ne libera.

L’Avvocato                    - E se fosse? Perché a giudicare un prete dovrebbero essere degli atei? Quando l'ambiente, la vittima, la stessa popolazione in cui il crimine maturò è composto dì cattolici?

L’Accusatore                  - No. Lei vuole una giuria sen­sibile ai suoi argomenti spirituali perché non ha più fiducia negli argomenti giuridici.

L’Avvocato                    - Non m'importa quello che lei crede. Il mio dovere è di salvare la testa di Guy Lemonnier. E lo farò, l'avverto, avvalen­domi di qualunque espediente offertomi dalla procedura. Primo, perché ritengo la collettività complice del delitto. Secondo, perché sono contrario per principio alla pena di morte. (Alla platea dove seggono i giurati) Solo Dio è il padrone della vita.

L’Accusatore                  - Io farò in modo che Dio resti fuori da questo processo. Perciò non tollero che lo si invochi.

L’Avvocato                   - Ma nessuna legge può bandire Dio da quest'aula. (Ai giurati) Persino la for­mula del vostro giuramento, signori giurati, è: « Giuro e prometto davanti a Dio »...

Il Presidente                   - (troncando) La Corte accoglie l'istanza e ordina che i giurati Droué e Fusard siano sostituiti. (Due persone cambiano posto in platea).

Il Cancelliere                  - (si alza e rivolto alla platea in tono solenne levando un codice su cui posa l'altra mano) « Giuro e prometto davanti a Dio di assolvere i miei doveri di giurato in. piena coscienza e libertà...» .

Due Voci                        - (come un'eco dalla platea) In piena coscienza e libertà...

L’Avvocato                    - (apre le braccia trionfante come a dire che Dio scacciato dalla porta... rientra dalla finestra).

Il Presidente                  - (in fretta come a prevenire altre obiezioni) Procediamo.

L’Accusatore                  - Chiedo che venga riascoltata Jeanne Regis.

Jeanne                             - (sale sul palcoscenico. Questa volta è in lutto stretto).

L’Accusatore                  - (ironico, all'avvocato) Oggi la giustizia non esige più l'abito di gala? (L'avvo­cato non risponde).

Il Presidente                  - Accusatore, proceda all'inter­rogatorio.

L’Accusatore                  - (scende dallo scranno e si avvi­cina a Jeanne come a meglio dominarla. La studia a lungo in silenzio. Jeanne sostiene il suo sguardo senza turbarsi) Jeanne, avete detto che fu dalla domenica delle Palme che vostra figlia prese a frequentare assiduamente l'im­putato.

Jeanne                            - Non il curato. Ma la chiesa. Questo ho detto.

L’Accusatore                  - Comunque, considerato che Guy Lemonnier era l'unico prete non solo della parrocchia ma per un raggio di trenta miglia, è con lui che vostra figlia s'incontrava andando in chiesa. Vero?

Jeanne                            - Sì.

L’Accusatore                  - Avete anche detto che dal giorno in cui il vecchio curato la scacciò dal confessionale vostra figlia non mise più piede in chiesa.

Jeanne                            - Sì.

L’Accusatore                  - Dunque fu Guy Lemonnier l'elemento determinante il ritorno di vostra figlia in chiesa. C'è quindi un rapporto personale.

Jeanne                            - No. Claudine tornò in chiesa perché il curato era stato l'unico ad assolverla.

L’Accusatore                  - L'imputato sapeva della con­dotta di vostra figlia?

Jeanne                             - (un tempo) Sì.

L’Accusatore                  - Conosceva dunque le molte re­lazioni che le si attribuivano. (Jeanne tace) Comunque non si può negare che l'imputato avesse avuto una chiara rivelazione del tempera­mento di vostra figlia il famoso giorno della sorgente. E come mai, nonostante tutto questo, egli l'assolse?

Jeanne                            - Furono proprio tutti questi fatti a fargli capire di quanto aiuto avesse bisogno Claudine. Perciò lui le fece credito. Per sal­varla. L'ho già detto.

L’Accusatore                  - Agì insomma proprio all'op­posto di come farebbe qualsiasi giudice nor­male: non tenne in nessun conto il passato di lei per badare solo al futuro.

Jeanne                            - Certo. È un prete, lui! Perciò cre­dette in Claudine. Intuì che in lei restava an­cora qualcosa d'incorrotto come brace sotto la cenere del peccato. E soffiò sulla scintilla divina che non s'era spenta in lei. E subito Claudine arse a quel fuoco. Da quel giorno cambiò. Cessò d'essere inquieta, nervosa... di­ventò docile, dimenticò tutti, non uscì più di casa se non per andare in chiesa.

L’Accusatore                  - Dove l'imputato l'attendeva.

Jeanne                             - (uno scatto) In chiesa cercava Dio. Non il curato.

L’Accusatore                  - Ma Dio parla per bocca dei suoi ministri... Andiamo avanti. Come mai il curato di prima, il quale si presume dovesse conoscere molto meglio vostra figlia, non fu mai tenero con lei e giunse al punto dì negarle l'assoluzione in maniera così clamorosa?

Jeanne                            - Troppa fatica occorreva per capire Claudine. E lui non aveva più tempo di sca­vare nelle anime. Troppo stanco era dei nostri peccati. E troppo vecchio.

L’Accusatore                  - Ecco. Vecchio. Mentre Guy Lemonnier era giovane. Molto giovane.

Jeanne                           - Voglio dire che il curato di prima -pace all'anima sua - ormai non si attendeva molto da noi. Da quarant'anni era il nostro parroco. Diceva di conoscerci troppo a fondo. Perciò s'era ridotto ad amministrarci i sacra­menti come un impiegato frettoloso. Tutti i sacramenti. Anche quello della penitenza che è il lievito della buona cristiana.

L’Accusatore                  - Capisco. (Ironico) L'imputato invece sapeva « scavare nelle anime ».

Jeanne                            - Oh, sì. Bastava che piegassimo le ginocchia dietro la fragile barriera del confes­sionale e subito lo sentivamo lì, nell'ombra e nel silenzio, in agguato, pronto e deciso a non dar tregua al Maligno che aveva osato accom­pagnarci fino da lui... Perché dovete sapere che il Nemico giungeva ad inginocchiarsi al nostro fianco per tenerci col suo artiglio di fuoco, come bestie alla tagliola... e si faceva umile, pentito, discreto per parlare con la voce del nostro rimorso, della nostra ambiguità, dell'inganno dei peccati veniali... Ma l'altro, l'uomo di Dio, non si lasciava giocare, oh no!, e gli teneva testa, stringendolo sempre più dappresso, non gli dava requie, lo incalzava, l'aggrediva da tutte le parti, fino a quando, sotto la furia di quegli assalti, lo costringeva a barcollare, a cedere, a fuggire... Sì, ognuna di noi può dirvi di averlo visto dileguarsi, con la sua scia di zolfo che invano contrastava il profumo dell'in­censo... e qui, sulla nostra carne, a ricordo di quel possesso, tutte possiamo mostrarvi la ci­catrice lasciataci dalla sua unghia forcuta... guardate, guardate... (si denuda una spalla)... eccolo il segno aguzzo del Maligno... e adesso chi ci salverà da lui?... Chi ci ridarà quella spossatezza ineffabile che alla fine ci teneva come svuotate sui gradini del confessionale?... Chi, la gioia piena, distesa del perdono che le parole dell'« ego te absolvo » facevano scivo­lare su noi fra le grate che ci dividevano da lui?... Sulla nostra anima arsa, sui nostri corpi profanati, che riverserà più il lavacro della Grazia di Dio?... Oh, me misera, me sola, me perduta!... (Si accascia a terra lamentandosi come una bestia ferita. Nel silenzio pauroso che sgomenta tutti l'avvocato si alza a parlare).

L’Avvocato                    - (legge il diario) « Stretto come in una prigione di legno mi sento a volte... assediato da queste donne che rovesciano su me il flusso inarrestabile dei loro pettegolezzi, delle ciarle, dei meschini compromessi che esse scambiano per peccati... oh, non questo so­gnavo, Signore, quando scelsi di servirti... non questa sterile battaglia quotidiana in cui l'anima mia rischia di inaridirsi, le mie forze migliori di disperdersi... Fuori di qui, di quest'abitacolo senza luce in cui mi costringono da mattina a sera, vedo gli uomini persi in traffici loschi, imbrattati di vizi, intenti con furia tenace a soffocare la voce che tu, mio Dio, ogni minuto susciti nei loro cuori... so che essi mi aspettano, mi chiamano, anche se non se ne rendono conto... ed io non posso rispondere a quell'appello, non posso correre a salvarli, non posso far niente per essi... a volte mi sento così triste stanco inutile che temo finirò per odiare queste donne che bru­ciano la mia giornata terrena, ahimé così breve, distogliendomi dalle altre anime che mi hai affidato... (Con un grido) ... No, no, abbi pietà di me, Signore, perdona quest'orrendo pen­siero, disperdi l'astio che sento crescere in me... quelle derelitte null'altra colpa hanno fuorché d'amarti troppo... perdono, mio Dio, perdono... ».

Jeanne                             - (sempre accasciata) Sì... sì... per­dono... perdono...

L’Accusatore                  - Jeanne Regis, non ho finito d'interrogarvi. Perciò alzatevi e rispondete. (Jeanne lentamente si alza) Dal mirabile squarcio lirico che ci avete testé offerto, si desume che la conoscenza delle penitenti da parte dell'imputato fosse tale da non farlo cadere in errore quando vi assolveva. È così?

Jeanne                             - (sempre chiusa in sé) Sì.

L’Accusatore                  - Dobbiamo dunque concludere che l'assoluzione impartita a vostra figlia fosse, in un certo senso, definitiva, tant'è vero che sancì una rigenerazione di lei. L'avete detto voi stessa.

Jeanne                            - Sì.

L’Accusatore                  - Altrimenti egli non l'avrebbe assolta.

Jeanne                            - Oh, no.

L’Accusatore                  - Allora volete spiegarci: come ha potuto uccidere colei che egli stesso aveva mandata assolta e per la quale era diventato addirittura il salvatore della sua anima? (Jeanne tace. L'accusatore trionfante) Il vostro silenzio è la più eloquente delle risposte. (Alla platea) Evidentemente le cose non stanno come vo­gliono farci credere. (Alla Corte) Per ora non ho altre domande. (Torna al suo scranno).

L’Avvocato                    - (si avvicina a Jeanne) Jeanne, mi dispiace dover tormentarvi ancora... Ma qui non si tratta solo di vostra figlia...

Jeanne                            - Oh, lei è in pace adesso... Interro­gatemi pure...

L’Avvocato                   - Grazie. Comincerò anch'io dalla famosa domenica delle Palme. Avete detto che da quel giorno Glaudine prese a frequentare la chiesa.

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                    - Tutti i giorni?

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                   - Mattina e sera?

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                   - Insomma, non mancava mai a una funzione?

Jeanne                            - No.

L’Avvocato                   - Ma le accadeva di andare anche quando non c'erano funzioni?

Jeanne                            - , Anche.

L’Avvocato                    - Perché?

Jeanne                            - Perché solo lì, diceva, si trovava bene.

L’Avvocato                   - Andava forse a pregare?

Jeanne                            - Anche.

L’Avvocato                    - E per cos'altro?

Jeanne                            - Per aiutare il parroco.

L’Avvocato                    - In che modo?

Jeanne                            - C'è sempre tanto da fare in chiesa. I paramenti, i fiori, gli altari, le pulizie... e il parroco era solo. Solo e povero.

L’Avvocato                    - Intendete dire che non poteva pagarsi nessuno che l'aiutasse?

Jeanne                            - È così.

-L’Avvocato                  - E vostra figlia cercava di rendersi utile.

Jeanne                            - Tutte cercavamo di dargli una mano.

L’Avvocato                    - Tutte voi, le donne. Vero?

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                   - E gli uomini?

Jeanne                            - Oh, gli uomini da noi in chiesa non ci vengono. Salvo la messa della domenica. E; non tutti.

L’Avvocato                   - Perché? Non sono cristiani?

Jeanne                            - Per credere, credono... Ma hanno sempre tanto da fare... La terra, il commercio, gli affari, i guadagni... Insomma sono troppo impegnati tutto il giorno e... poi non gli va di perdere tempo... Così la religione la lasciano a noi.

L’Avvocato                   - Capisco. Sono troppo occupati dalle cose pratiche, per tener dietro a quelle spirituali... Così essi prendono cura del corpo. E voi, dell’anima.

Jeanne                            - Noi preghiamo anche per loro.

L’Avvocato                    - Perfetto. La religione ridotta a una faccenda privata di donne. È stato sempre così?

Jeanne                            - Oh, no... Col parroco di prima veni­vano di più in chiesa... forse perché erano più in confidenza... lo sentivano più vicino, come della stessa razza, voglio dire... infatti era nato qui...

L’Avvocato                    - Torniamo a Claudine. Avete detto che eravate voi donne ad aiutare Guy Lemonnier in chiesa. Ma vostra figlia non era la più ze­lante fra tutte voi?

Jeanne                            - Sì. Era la più attiva. Ma si capisce perché: lei aveva il debito più grosso col curato.

L’Avvocato                   - Debito?

Jeanne                            - Era stata salvata.

L’Avvocato                   - Già. Salvata. Ma vi risulta che il parroco avesse sollecitato l'aiuto di Claudine?

Jeanne                            - Oh, no. Né di lei. Né delle altre. Non chiedeva mai niente a nessuno, lui. Al di fuori delle preghiere, beninteso.

L’Avvocato                   - Lui non le chiedeva d'aiutarlo... ma lei ci andava lo stesso.

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                   - E il curato apprezzava lo zelo di Claudine?

Jeanne                             - (un tempo) In principio, sì... Poi, un po' meno.

L’Avvocato                   - Perché?

Jeanne                            - Non lo so.

L’Avvocato                   - Claudine vi fece qualche con­fidenza?

Jeanne                            - No.

L’Avvocato                   - E voi come lo sapete? (Jeanne tace) Parlate.

Jeanne                             - (un tempo) Me lo disse il curato.

L’Avvocato                    - Cosa vi disse di preciso? Cercate di ricordare.

Jeanne                            - Che Claudine cominciava ad ossessio­narlo con la sua presenza.  

L’Avvocato                    - E voi lo diceste a Claudine?

Jeanne                            - Sì.

L’Avvocato                   - E cosa vi rispose?

Jeanne                            - Che era l'invidia delle amiche a metter su il curato contro di lei.

L’Avvocato                    - Invidia? Di che?

Jeanne                            - D'esser lei la preferita.

L’Avvocato                    - Preferita in che?

Jeanne                            - Nelle opere di carità. Infatti lì nes­suno poteva tenerle testa... dato che io sono tra le più ricche del paese.

L’Avvocato                    - (alla Corte) Ecco. Il danaro. Il demone che brucia tutti i parrocchiani.

Jeanne                            - Credete che una parrocchia si regga solo con le benedizioni di Nostro Signore? Sia­mo noi, i ricchi, i pilastri della chiesa.

L’Avvocato                    - Già. Dimenticavo. Il danaro. E' col danaro che speravate di comprarvi il vostro angolino in Paradiso?

Jeanne                            - Purtroppo il nostro danaro, il curato lo disprezzava. Direi che l'odiasse tant'era la fu­ria che metteva nel distribuirlo ai poveri. Per sé non teneva nulla. Come se gli bruciasse le dita. In due anni l'abbiamo visto sempre, estate e inverno, con la stessa sottana frusta e rabber­ciata. Si nutriva poco e male coi prodotti dell'orticello dietro la chiesa che egli stesso zap­pava. E rifiutava di farsi pagare per i matrimoni e i funerali. Anzi più la gente era povera, più pareva prendesse gusto a far loro festa. Così che i più ricchi s'erano disgustati. E molti pre­ferivano chiedere la dispensa al Vescovo e anda­vano a sposarsi altrove.

L’Accusatore                  - (ironico) Anche a morire?

Jeanne                            - Morire, no, perché il Signore ci chia­ma quando vuole. Ma certo non era un bello spettacolo il funerale di un ricco, da noi. Pareva che il curato avesse atteso quel momento per far sentire a noi che siamo tutti uguali di fronte all'eternità.

L’Avvocato                   - Basta così, Jeanne. Signor Presi­dente, chiedo d'interrogare Alyette Blanchard.

Il Presidente                   - Concesso.

L’Usciere                        - (chiama) Alyette Blanchard. (Jean-ne si trae in disparte ma resta sul palcoscenico. Alyette sale sul palcoscenico. E' anch'essa in lutto stretto).

L’Avvocato                   - Alyette, tu sei molto religiosa, vero?

L’Accusatore                  - Protesto. La domanda è cap­ziosa.

Il Presidente                  - Avvocato, la formuli sempli­cemente.

L’Avvocato                   - Alyette, tu sei religiosa? (Alyette, guardinga, fa segno di sì).

Il Presidente                   - Rispondi sì o no.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Manchi mai a nessuna funzione in chiesa?

Alyette                           - No.

L’Avvocato                   - Ti confessi e comunichi spesso?

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Ogni quanto tempo? (Alyette tace imbarazzata).

Il Presidente                   - Rispondi.

Alyette                           - Ogni giorno.

L’Avvocato                    - Anche adesso?

Alyette                            - (un tempo) No. Ora non più.

L’Avvocato                    - Perché no?

Alyette                            - (vaga) Non lo so.

L’Avvocato                    - Non c'è un nuovo parroco in pae­se ora?

Alyette                            - (stentatamente) Sì. C'è.

L’Avvocato                    - Ma tu non ti senti più attratta in chiesa. E' così?

Alyette                           - E' così.

L’Avvocato                   - Prima però, quand'era curato Guy Lemonnier, tu frequentavi molto la chiesa. Vero?

Alyette                           - Oh, allora sì.

L’Avvocato                   - Dall'interrogatorio di Jeanne è risultato che eravate tutte molto assidue nell'an­dare in chiesa.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Tutte voi, compresa Claudine.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Cos'era di particolare ad attirarvi in chiesa?

L’Accusatore                  - Mi oppongo. Sono problemi di coscienza che non ci riguardano.

L’Avvocato                    - Signor Presidente, se ogni volta che ci avviciniamo alla verità, dobbiamo ritrarcene spauriti...

Il Presidente                  - La domanda è ammessa. Alyet­te, rispondi.

L’Avvocato                   - Ti ho chiesto, cos'era ad attirarvi in chiesa allora?

Alyette                           - La fede.

L’Avvocato                   - D'accordo. Ma non ti sembra un po' strana una fede che vi spinge in chiesa a periodi? Perché non mi risulta che col parroco prima di Lemonnier frequentavate molto la chie­sa, voi tutte.

Alyette                           - Oh, no... Non molto, per lo meno.

L’Avvocato                    - E perché?

Alyette                           - Perché...

Il Presidente                   - Avanti. Parla.

Alyette                           - Perché... (candida) ... ci annoiavamo.

L’Avvocato                    - Noia?... Strano... Cosa intendi per « noia »?

Alyette                           - Padre Caras, il vecchio curato, non sapeva predicare, diceva messa come se l'inse­guissero, non sonava mai l'armonium e se into­nava i salmi, la sua voce chioccia metteva i bri­vidi... Insomma stare in chiesa era diventata una sofferenza: anche i riti più belli, quelli della Set­timana Santa, erano come svuotati d'ogni senso... perciò non ci andavamo.

L’Avvocato                    - E con Guy Lemonnier?

Alyette                            - (illuminandosi) Oh, era tutt'altra co­sa. Sapeva bene lui come si rende lode a Nostro Signore. (Rievocando felice) I riti tornarono so­lenni, la messa durava un'ora, paramenti da per tutto, piante, luci, incenso, e il curato che ci ac­compagna con l'armonium mentre cantiamo... Andare in chiesa adesso era come andare a una festa tutta per noi... Ci si sentiva importanti, ec­co cosa voglio dire.

L’Avvocato                   - Dunque, a sentir te, quello che vi spingeva in chiesa era la solennità dei riti... Ma se vi foste limitate a frequentare le sacre fun­zioni, il parroco non ne sarebbe stato infastidito. Invece risulta che più d'una volta egli si lamentò con voi perché gli facevate perdere tempo. E di tempo egli ne aveva poco a disposizione.

Alyette                           - Più che con tutte noi, egli ce l'aveva con Claudine che gli stava così dappresso sem­pre, da togliergli il respiro.

L’Avvocato                    - Vuoi dire che Claudine l'ossessio­nava col suo zelo?

Alyette                           - No. Con la sua presenza. Non solo in chiesa ma fuori non riusciva più a liberarsi di lei.

L’Avvocato                   - Fuori? Intendi che lo seguiva an­che fuori della chiesa?

Alyette                           - Sì. Dovunque andasse, se la trovava sempre fra i piedi. Nelle visite ai malati, quando portava il Viatico ai moribondi, persino nella benedizione delle case a Pasqua...

Jeanne                            - Claudine voleva rendersi utile, ecco tutto.

Alyette                           - No. Voleva il curato tutto per sé, o me se non ci fossimo anche noi.

L’Accusatore                  - « Per sé », in che senso? Ecco i punto.

Il Presidente                  - Signori, lasciamo che l'avvo­cato completi il suo interrogatorio. E voi, Jean­ne, non intervenite più.

L’Avvocato                    - Alyette, eravamo rimasti a Clau­dine che ossessiona Guy Lemonnier con la sua presenza.

Alyette                           - Sì. Era diventata un incubo per lui, S'era ridotto persino a mutare l'itinerario della passeggiata che faceva al vespro per i campi, leggendo il breviario. Macché! D'improvviso se la vedeva sbucare in fondo a un sentiero o dietro una siepe. Appariva, spariva, per riapparire j più in là.

Jeanne                            - E tu come lo sai? E' segno che la I spiavi.

Il Presidente                  - Un'altra parola, Jeanne e vi I allontano dall'aula.

L’Avvocato                   - Lasciamo andare... Alyette, poco fa I hai detto che Guy Lemonnier predicava spesso, i

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Il suo linguaggio era conciliante I o aggressivo? Voglio dire, era comprensivo verso E i... peccati? O duro nel condannarli?

L’Accusatore                  - Mi oppongo.

Il Presidente                   - Rispondi, Alyette.

Alyette                           - Oh, ci trattava malissimo. Più d'una  volta dal pulpito ci chiamò leggere, e civette e... I peggio.

L’Avvocato                   - Insomma non esitava a condannare pubblicamente la vostra condotta.

Alyette                           - Sì. Ma non rimproverava solo noi. Tuonava contro tutti, lui! A ognuno gridava in I faccia la sua colpa. Senza riguardi. Ai vecchi  come ai giovani. Ai ricchi come ai poveri. La domenica, al Vangelo, non pareva più d'essere in chiesa ma in Tribunale. Eravamo sempre tutti sotto accusa. E non si sapeva mai a chi capi­tasse.

L’Avvocato                   - Vi trattava male. Ma voi conti­nuavate ad andare in chiesa.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Anzi più infieriva, più vi sentivate attratte.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                    - E gli uomini? Venivano in chiesa?

Alyette                           - Nei primi tempi, sì. Forse per curio­sità del nuovo curato. Poi smisero di venirci.

L’Avvocato                    - Perché?

Alyette                           - Non so. Ma credo che si seccassero a esser presi di petto di fronte a tutti. Con nomi, cognomi e... fatti. Così preferirono evitarlo.

L’Avvocato                    - E Lemonnier si rassegnò a non vederli in chiesa?

Alyette                           - Oh, no. Prese ad andare lui da loro.

L’Avvocato                    - In che modo?

Alyette                           - Cominciò a stanarli, casa per casa, come un cane che non molli la selvaggina. E con ognuno era la stessa storia: « Tu, qua... tu, là... e vergognati... e pentiti... e ripara... ». In breve, diventò un incubo per molti. Finì che alcuni al solo vederlo apparire sullo stradone, se la svi­gnavano. E sì che è gente abituata a non aver paura.

L’Avvocato                   - Nessuno reagì mai contro di lui?

Alyette                           - No, che io sappia.

L’Avvocato                    - Perché?

Alyette                           - Perché diceva la verità. E poi... poi era sempre il curato.

L’Avvocato                   - Vuoi dire che per quanto non os­servanti, nessuno giungeva a rinnegare la fede?

Alyette                           - E' così. Siamo molto cattolici, noi. Quelli che lo sono, s'intende.

L’Avvocato                    - Un'altra domanda. Con padre Caras gli uomini come si comportavano? Sfuggi­vano anche lui?

Alyette                           - No. Con lui andavano d'accordo.

L’Avvocato                    - Come mai?

Alyette                           - Perché padre Caras era tutt'altro tipo. Intanto era molto tollerante. E poi teneva ad essere amico di tutti. Diceva sempre che il pastore deve farsi amare dal gregge, se vuole venirne a capo. E così tutti gli volevano bene-anche se poi facevano il proprio comodo. O for­se gli volevano bene, proprio perché li lasciava fare il proprio comodo.

L’Avvocato                   - Insomma, Guy Lemonnier non faceva niente per essere amato.

Alyette                           - Al contrario. Pareva facesse di tutto per riuscire antipatico.

-L’Avvocato                  - In che senso?

Alyette                           - Era troppo severo, ecco. Ma non solo con gli altri. Anche con se stesso. Sì, era troppo virtuoso.

L’Accusatore                  - (alzandosi con uno scoppio di col­lera) Virtuoso? Siamo a questo, dunque, a permettere che si chiami virtuoso un assassino? Chiedo l'incriminazione della teste.

L’Avvocato                    - La teste ha espresso un'opinione.

L’Accusatore                  - Un'opinione in contrasto coi fatti.

L’Avvocato                   - Questo lo vedremo... Alyette, una ultima domanda. Il curato di prima invitò te e le altre, ad andare in chiesa, a frequentare i sa­cramenti?

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                    - Molte volte?

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Ma voi non gli ubbidiste.

Alyette                           - No.

L’Avvocato                   - Bene. Guy Lemonnier fece altret­tanto? Insistette perché frequentaste la chiesa?

Alyette                           - No.

L’Avvocato                   - Ma voi ci andaste ugualmente.

Alyette                           - Sì.

L’Avvocato                   - Ho finito, signor Presidente.

Il Presidente                   - Accusatore, domande alla teste?

L’Accusatore                  - Una sola. Alyette, vorresti che Guy Lemonnier tornasse libero?

Alyette                            - (con fervore, come pregando) Che Dio vi ascolti, signore.

L’Accusatore                  - Nonostante il suo delitto?

Alyette                           - Sì.

L’Accusatore                  - E saresti disposta a tutto per questo?

Alyette                            - (un tempo) Sì.

-L’Accusatore                 - Non ho altre domande da porre. (Torna al suo scranno. Alyette resta sul pal­coscenico traendosi anch'essa in disparte).

L’Avvocato                    - (dapprima sorpreso, poi riprenden­dosi) E poi, si rimprovera noi di tentate dei colpi di scena!

L’Accusatore                  - Signori, la difesa tenta di riac­creditare la tesi della colpa delle donne nella provocazione del delitto. Il mio compito è di riportare la vostra attenzione sul come è avve­nuto il delitto che ancora non è stato chiarito abbastanza. Chiedo pertanto d'interrogare la terza teste.

Il Presidente                  - Concesso.

L’Usciere                        - (chiamando) Giselle Dubois. (Giselle sale sul palcoscenico. E' anch'essa in lutto).

L’Accusatore                  - (ironico) Vedo che portate il lutto collettivo.

Giselle                             - (semplice) Sì. Il parroco ci ha la­sciato.

L’Accusatore                  - (c.s.) Ma vi aveva lasciato anche ieri.

Giselle                             - Ieri non ci aveva ancora parlato.

L’Accusatore                  - Parlato? Come?

Giselle                             - Col diario.

L’Accusatore                  - Capisco. Torniamo al processo. Sai tu com'è avvenuto il delitto?

Giselle                             - No. Ma posso immaginarlo.

L’Accusatore                  - Ah, l'immagini! Bene. Poiché la tua versione poggia sulla fantasia mentre la mia è suffragata dai fatti, se permetti, ti espongo prima la mia. Dunque, ascolta. Io voglio, per ora, ignorare deliberatamente i rapporti che correvano fra Claudine e Lemonnier. Abietti o meno, in questo momento non m'interessano. Costituiranno se mai, dopo, i motivi delle aggra­vanti che mi riservo di chiedere ai giurati. Tu mi dovrai rispondere solo sulle circostanze che man mano ti illustrerò. Intesi?... E cominciamo. Ore 18 del 3 dicembre 1911. L'imputato imparti­sce, come ogni sera, la benedizione alle fedeli raccolte in chiesa. C'eri anche tu, vero?

Giselle                             - Sì. Ma c'era anche Claudine. Tutte l'abbiamo vista.

L’Accusatore                  - D'accordo. Ma Claudine esce qualche minuto prima che l'imputato intoni il « Dio sia benedetto! ». Scivola via dalla porti­cina laterale che passa per la sacrestia come avesse fretta di andare e temesse d'esser tratte­nuta da qualcuna di voi.

Giselle                             - Era il suo modo di fare. Ci evitava perché si riteneva migliore di noi.

L’Accusatore                  - Ammettiamolo. Ma qualche mi­nuto dopo anche Guy Lemonnier abbandona la chiesa. Sono le 18,10. Si direbbe che anche egli abbia fretta.

Giselle                             - La funzione era finita.

L’Accusatore                  - Ma quella sera, strano, non vi tiene il solito fervorino catechistico.

Giselle                             - Era molto stanco. Le notti avanti aveva vegliato al letto d'un malato al quale aveva portato l'estrema unzione.

L’Accusatore                  - Ma come faceva Claudine a sapere che quella sera la funzione sarebbe finita prima? Perché poco dopo, sono le 18,30, Claudine, si trova proprio sulla strada di lui. Li hanno visti.

Giselle                             - Era sempre sulla sua strada, più o meno. Lo faceva apposta.

L’Accusatore                  - Sì, ma quella sera l'imputato non prende il solito sentiero delle altre volte. No. S'inerpica per un viottolo impervio, poco battuto, a dispetto della molta neve caduta. E Claudine non lo segue, le impronte mancano, ma si fa trovare al bivio che conduce al burrone. Come poteva sapere che egli sarebbe passato di lì? Ma c'è di più. In venti minuti non si arriva dalla chiesa al bivio se non correndo. Bisogna dedurne che l'imputato avesse fretta di raggiun­gere Claudine.

Giselle                             - O di sfuggirle.

L’Accusatore                  - Cosa ti fa pensare che volesse fuggirla?

Giselle                             - Negli ultimi tempi la sua presenza l'innervosiva.

L’Accusatore                  - (con un sorriso) Infatti. Ma perché?

Giselle                             - Perché Claudine tendeva a mettersi troppo in evidenza. E a dare l'impressione che fosse lei la prediletta del curato.

L’Accusatore                  - (ironico) E invece non lo era?

Giselle                             - (uno scatto, come solo adesso si renda conto di dove l'accusatore vuol condurla) Co­sa tentate d'insinuare? Il curato ci trattava tutte uguali. Per lui non eravamo nemmeno donne, se è questo che volete dire. Sì. Ci guardava senza vederci. Come fossimo alberi rocce case. Oh, magari si fosse accorto di noi, Claudine noni sarebbe morta e noi non saremmo rimaste sole. Ma il curato era un santo!

L’Accusatore                  - (terribile) Un santo? (Prende un pacchetto sigillato che ha innanzi a sé sullo scranno, scende dalla pedana e si precipita verso Giselle. Giuntole vicino, estrae dal pacco uri sasso e l'impugna levandolo come volesse colpire Giselle. La ragazza arretra con un grido d'orrore. Tutti sono in piedi, compreso il Presidente, in un silenzio esterrefatto. L'accusatore sempre brandendo il sasso, minaccioso) Guarda tu che lo chiami santo! Guarda. Sai cos'è questo? E' il sasso con cui il curato ha fracassato il cranio della tua amica.

Giselle                             - (dibattendosi come una bestia presa alla tagliola e cercando scampo dall'accusatore che la stringe da vicino contro la barra dei testi)

                                        - Non era mia amica. No!

L’Accusatore                  - (obbligandola a guardare il sasso)

                                        - Vedi queste macchie? Sono il sangue di Clau­dine. Guardale.

Giselle                             - (con un grido acutissimo) No!

L’Accusatore                  - L'ha raggiunta sul sentiero dove lei l'attendeva. E poiché lei insisteva nel chie­dergli qualcosa che lui non poteva più rifiutarle, l'ha colpita una, due volte, finché non l'ha vista piombar giù lungo il burrone. Ed egli è andato apposta in quel luogo deserto perché sapeva che di lì sarebbe passata Claudine. Dunque, delitto premeditato. Deliberato proposito di uccidere un testimone del suo fallo. Un testimone ormai im­portuno. Ecco cos'è il tuo curato! E adesso chia­malo ancora santo se ne hai il coraggio. (Di colpo le volta le spalle e, freddissimo, quasi distaccato, toma lentamente al suo scranno. Giselle è rima­ sta come paralizzata, aggrappata alla barra. Adesso comincia a mugolare e tremare tutta come una bestiola ferita. Sembra che stia per crollare giù. In sala il silenzio si è fatto ancora più teso e drammatico. Poi, a poco a poco, come una marea a stento trattenuta, comincia un vocìo che presto si muta in clamore. Alcuni dalla pla­tea fanno gruppo contro la scaletta come voles­sero invadere il palcoscenico. Le guardie si di­spongono a riparo dei giudici. Il Presidente scampanella. Ma il tumulto non si placa).

Il Presidente                   - L'udienza è sospesa. E voi, donne, andate. (Jeanne e Alyette scendono la scala). 

L’Avvocato                    - (con un grido) Giselle! (E corre a sostenere la ragazza giusto in tempo prima che cada a terra svenuta. Due guardie accorrono, sollevano Giselle che non dà segni di vita e la portano in quinta, seguiti dall'avvocato. Nessun altro s'è mosso. Nella confusione nessuno ha badato a un vecchietto leggermente claudicante che ha attraversato la platea e giunto ai piedi della ribalta fa cenni verso il Presidente. Il vec­chio indossa un vestito nero striminzito e lustro e porta al collo una sciarpetta frusta di cui non si libererà mai. I capelli, una gran chioma can­dida, gli formano un'aureola d'argento intorno alla testa diafana, d'avorio).

Il Presidente                   - (finalmente s'è accorto di luì) Chi siete?

Il Vecchio                       - (umile) Vorrei deporre sul delitto. (Ogni tanto si guarderà intorno, come temesse d'essere inseguito).

Il Presidente                  - Date il vostro nome al cancel­liere. Provvederemo a convocarvi.

Il Vecchio                       - (semplice) Ma io non posso aspet­tare.

Il Presidente                  - Tutti aspettiamo. (Indica intor­no a sé) La giustizia è lenta. Ma certa.

Il Vecchio                       - (un tempo) Io ho ucciso Claudine Regis. (Sensazione generale).

Il Presidente                   - Volete burlarvi della Corte?

Il Vecchio                       - E' la verità, signore. Sono venuto a costituirmi. (Sale la scaletta faticosamente puntellandosi al bastone).

L’Usciere                        - (fa l'atto di attraversargli la strada ma si ferma intimidito dalla maestà che spira dal volto del vecchio) Ehi, dove andate?

Il Vecchio                       - (che è giunto sul palcoscenico) A prendere il mio posto nella gabbia vuota. (Tutti si guardano convinti che sia pazzo).

L’Accusatore                  - (al Presidente) E' uno dei soliti mitomani. Purtroppo per tutto il tempo della istruttoria la Procura Generale è stata perse­guitata da esaltati che si autoaccusavano, dimen­ticando che l'imputato è reo confesso.

Il Vecchio                       - Vi concedo che Guy Lemonnier possa essere materialmente l'assassino. Ma il mandante? Vi siete preoccupati di cercare il mandante del delitto?

L’Accusatore                  - Non ci sono mandanti, per for­tuna. E' un delitto che si esaurisce come volontà e come azione nell'imputato.

Il Vecchio                       - No. Se indagate bene, un mandan­te c'è. E sono io. Arrestatemi prima che « essi » Lo sappiano. (Si guarda intorno spaurito).

Il Presidente                   - (con pietà) Credo che sarà me­glio torniate di dove venite. Evitatemi dei prov­vedimenti spiacevoli.

Il Vecchio                       - Signore, non me ne andrò. Dovrete incriminarmi. Ma fate presto perché a quest'ora la mia fuga è stata certo scoperta. (Il Presidente fa un cenno alle guardie che, sia pure con rilut­tanza, vanno a prendere per le braccia il vecchio e cominciano a trascinarlo via. Il vecchio resi­stendo) No. Lasciatemi. Dovete ascoltarmi. Mi chiamo Bernard Gallien.

Il Presidente                  - (colpito) Guardie, aspettate. Bernard Gallien, l'abate del diario?

Il Vecchio                       - (affranto) Abate? Non lo son più, signore. Ne sono indegno.

L’Accusatore                  - Volete dire che non siete più prete?

Il Vecchio                       - (fiero) Oh, no. Prete sempre. Fino alla morte. Qualunque cosa si faccia. Come Guy Lemonnier. « Sacerdos es in aeternum! ». Per l'eternità, signore.

Il Presidente                  - Va bene, va bene. Ma non diva­ghiamo. Conoscete circostanze atte ad illuminare la Corte?

Il Vecchio                       - Circostanze? Conosco chi ha ar­mato la mano di Guy Lemonnier. Non vi basta? (Il Presidente e l'accusatore si guardano per­plessi).

Il Presidente                  - E chi sarebbe?

Il Vecchio                       - (dolce) lo, signore. (Un tempo) E so anche perché Guy Lemonnier ha ucciso.

Il Presidente                   - Beato voi, che lo sapete. Noi da due giorni siamo qui riuniti per scoprirlo. E ancora non ne veniamo a capo. Andate, andate.

Il Vecchio                       - (sconvolto) Non volete ascoltarmi?

L’Accusatore                  - (si alza dì scatto) Chiedo alla Corte che si accolga la deposizione di Bernard Gallien.

Il Vecchio                       - Oh, grazie, grazie, signore. Ma non deposizione. Confessione. Io sono colpevole quanto Guy. E forse di più. (Muove verso la gabbia),

Il Presidente                  - Dove andate?

Il Vecchio                       - (indica la gabbia) Solo lì dentro mi sentirò protetto. (Sì spia intorno tremante).

Il Presidente                   - Da questo momento siete sotto la protezione della Giustizia. Nessuno potrà toc­carvi. Ve lo garantisco io.

Il Vecchio                       - Oh, non siate così sicuro! Forse essi sono già qui. Vedrete che riusciranno a por­tarmi via prima che dica tutto.

Il Presidente                   - Ma insomma di « chi » avete paura?

Il Vecchio                       - Mi meraviglio che lo chiediate proprio a me. Sarebbe ingenuo da parte mia... (Spaventato, tace).

L’Accusatore                  - Per carità, lasciamo le inda­gini... metafisiche e torniamo a terra. Innanzi tutto, confermate l'autenticità del diario dell'imputato? Cancelliere, glielo mostri.

Il Presidente                   - Un momento. Non possiamo procedere in assenza della difesa.

L’Avvocato                    - (che era entrato silenziosamente dalla porticina di fondo) La difesa non si oppone, benché delusa più che contrariata... (Ha uno sguardo di rimprovero verso il vecchio).

Il Vecchio                       - (all'avvocato) Mi perdoni se non le ho ubbidito. Ma sono venuto perché non sopportavo più che continuassero a calpestare il cuore di un bambino...

Il Presidente                   - Quale bambino?

Il Vecchio                       - Guy. Per me è rimasto il bimbo che un giorno raccolsi lacero, sporco, spa­ventato...

L’Accusatore                  - Come? Siete voi che avviaste al sacerdozio l'imputato?

Il Vecchio                       - Io. Sì. Ah, già, avrei dovuto co­minciare di lì. Scusatemi. Ma c'è tanta confu­sione nella mia povera testa... (Un tempo. Sembra smarrirsi. Poi, di colpo) I suoi occhi, signori. Cercate d'immaginarli, così limpidi, az­zurri, spalancati. Un pezzo di cielo caduto nel fango della strada. « Sinite parvulos ad me venire! ». Perché i fanciulli debbono soffrire? Tesi la mano in una carezza. E lui levò il braccio a ripararsi il volto mentre l'azzurro di quegli occhi subito si appannò nel ricordo certo delle molte percosse subite... E se ne stava lì, tutto raggrumato in sé, a spiare fra le dita socchiuse quella percossa che tardava a venire. E poiché io non lo colpivo, ecco lo stupore cominciò a tralucere nel buio del suo sguardo. Simile a un raggio di sole che fatichi a farsi strada fra le nubi. Poi, alla mia carezza, gli occhi gli si accesero di un fulgore che non avevo mai scorto in una creatura umana. No. Solo gli angeli in cielo possono sorridere così.] E, inattesi, insospettati, da tutto quel brillio ecco scendere adesso due rivoli di lacrime come neve che si sciolga sotto un sole troppo forte... Quel derelitto, signori, aveva scoperto... l'amore. Potevo lasciarlo lì? Tentai sulle prime... Ma le sue piccole dita esangui si tenevano disperata­mente aggrappati alla mia sottana con una forza così cieca istintiva fiduciosa... Fu in quel momento che capii che non sarei più riuscito a scrollarmelo di dosso. Né allora. Né mai. E così è stato. Fino ad oggi. Ecco perché sono qui. Davanti a voi.

Il Presidente                  - Tutto questo sarà bello, nobile, non dico di no. Ma non ci interessa. Quello che vogliamo sapere è: perché Guy Lemonnier ha ucciso. Se voi potete dircelo, la Corte è di­sposta ad ascoltarvi.

Il Vecchio                       - Satana, signore.

Il Presidente                   - Come avete detto?

Il Vecchio                       - (ripete, paziente, come spiegasse) -j Satana ci tenta con la voce del nostro orgoglio per perderci.

Il Presidente                  - Orgoglio? Quale?

Il Vecchio                       - (c. s.) L'ambizione della santità. « Non c'è gloria terrena che non sia povertà a paragone della celeste grandezza! ». Ecco il filo sottile insidioso con il quale il Nemico tesse la rete in cui lentamente ci avvolge. « Ti hai le chiavi del cielo e della terra », egli mormora al nostro orecchio. « Il potere di legare e di sciogliere... Ebbene, lega prete, lega, avvolgi il bandolo eterno della vita e della morte, tu che lo puoi! ».

L’Accusatore                  - Non credo che Satana sia attendibile come teste a discarico.

Il Vecchio                       - Fate male, signore, perché io sono qui proprio a testimoniare la lotta continua inesausta tenace che Guy condusse, giorno per giorno, ora per ora, contro il Nemico. E sei egli è temporaneamente caduto, è solo perché sognava una società cristiana libera dal dominio di Satana. Per questo si fece prete. Non per essere un prete come tanti. Ma un portatore di fuoco.

Il Presidente                   - (che cerca di capire) Fuoco?.., Volete dire l'inferno?

Il Vecchio                       - No. Il fuoco di Dio. Son lei parole che dissi a Guy il giorno in cui gli imposi queste mie mani sulla fronte per consacrarlo sacerdote. «Ricorda, Guy, che spetta a noi e non ad altri, dar fuoco al mondo, an­cora una volta, come duemila anni fa. I cri­stiani si son fatti tepidi, indifferenti, quieti, persino saggi. Perciò tutto è gelo, solitudine, silenzio fra gli uomini. Ma noi preti siamo i padroni della materia. È più difficile disinte­grare un atomo o mutare in carne divina della semplice pasta di farina? Certo mutare in carne divina la farina. Ebbene d'ora in poi, degno o indegno che tu sia, hai il potere di farlo per sempre. Per sempre. Non dimenticarlo mai, Guy ». Ed egli si inginocchiò, chinò il capo e mi rispose: « Sì, padre, so quello che vi at­tendete da me. Perciò non sarò un prete gra­devole, cordiale, indulgente, simpatico alla gente. Noi siamo il sale del mondo. E il sapore del sale è aspro, sgradevole, difficile a reggersi. Sarò la fiamma che divampa fra gli uomini, arde brucia consuma ma purifica. Per questo Dio mi mise sulla vostra strada un giorno. Non lo dimenticherò mai, padre! ».

Il Presidente                  - D'accordo, d'accordo. Ma perché ha ucciso?

Il Vecchio                       - Perché finì col sentirsi chiuso come in un bozzolo, stretto, ogni giorno dì più, nei fili che tutte quelle donne andavano tes­sendogli d'intorno. Ebbe per un attimo paura che tutto s'organizzasse intorno a lui, al di fuori di lui. E fedele all'intransigenza che io gli avevo ispirato, reagì.

Il Presidente                  - Per favore, volete usare un lin­guaggio più accessibile ai giurati?

Il Vecchio                       - Ma è così semplice, signore. Più d'una volta Guy mi confidò che le donne lo limi­tavano, distogliendolo dalla sua missione. Una fra tutte lo perseguitava: quella Claudine.

L’Accusatore                  - Parlateci di lei, finalmente.

Il Vecchio                       - Certo. Son qui per questo. Ebbene le donne non solo l'immiserivano con la loro assiduità ma lo esasperavano per l'atmosfera taumaturgica che si ostinavano a creargli in­torno. Ogni suo gesto, ogni sua parola, persino ì suoi sguardi, erano ormai distorti, volti a fini soprannaturali! Finì con l'esserne ossessionato. Una notte, io ero ancora libero allora, me lo vedo piombare in convento, sconvolto tremante pian­gente. Mi si butta ai piedi, implorante: « Padre, perché la gente si ostina a vedere in noi dei santi? Perché non deve poter bastare il lavoro che ogni giorno facciamo per loro? Più cerco d'essere semplice, umile, " pratico " nell'assolvere il mio ministero e più essi cercano in ogni mia azione significati reconditi' misteriosi sublimi. Perché? Perché? ». Cercavo di consolarlo, ma non mi ascoltava. « Ho paura, padre, ho paura-Temo di cedere, di dannarmi... Oh, la sottile perfidia del Nemico, la suprema tentazione, la santità! E' come un veleno sottile che s'insinua in me, m'invade, mi sfibra, m'annulla... Padre, accoglietemi qui, in clausura. Lontano dal mio gregge che m'insegue, m'incalza, mi stringe... Trappa o Certosa, ma che finalmente sia pace, silenzio, solitudine intorno a me e in me! ... ». Lo sollevai, gli ingiunsi di restare fra il suo gregge, di condurselo dietro fino al luogo della sua penitenza per viverne o morirne, se neces­sario! Da quella terribile notte non lo vidi più. Se non il giorno dopo... il delitto.

Il Presidente                   - Volete dire che sapete come av­venne?

Il Vecchio                       - Certo. Guy me lo disse. Non in confessione, oh no. Proprio perché un giorno si sapesse la verità. Ma non per trarne profitto.

L’Accusatore                  - Mi oppongo. La versione dell'imputato, qualunque essa sia, non costituisce prova.

Il Vecchio                       - Perché, signore? Pensate che Guy mentisse? E proprio a me?

Il Presidente                   - Raccontate. La Corte saprà va­lutare la deposizione.

Il Vecchio                       - Grazie. (Un tempo) Quel giorno Guy era particolarmente stanco, depresso, dopo dieci ore di confessionale... Gli sembrava d'es­sere contaminato, insozzato dal lezzo di quella umanità corrotta, dal contatto di tante colpe, dei segreti disgustosi e immondi che le sue orec­chie avevano udito... Sfiducia, smarrimento era­no in lui... La sua volontà, sempre eroica e tena­ce, per la prima volta era minata dal dubbio che tutte quelle penitenti l'indomani sarebbero tor­nate, sia pure inconsciamente, a peccare, per chiedere poi di nuovo a lui dì mandarle assolte... Gli pareva d'esser ormai preso in un vortice senza fine, stretto per sempre ad una ruota che girasse girasse sgretolando lentamente irrime­diabilmente inutilmente le sue ore, i giorni, gli anni... Perciò subito dopo i vespri corse via dalla chiesa. Per disperdere nell'aria, nel vento, nel freddo della notte l'angoscia che gli pesava ad­dosso come un sudario... Ma quando credette d'essere finalmente al sicuro perché aveva per­corso un sentiero mai battuto, ecco ai limiti del viottolo apparirgli d'improvviso davanti Clau­dine, come sorta dalla terra, dalla notte... Do­vette fermarsi. La ragazza non pareva disposta a cedergli il passo... A destra, a sinistra, alberi che lo stringevano... Non gli restava che una via di scampo: tornare indietro... Ma non volle o non potè... era come ammettere la sua disfatta... Andò avanti... Fino all'ultimo sperò che quella macchia d'ombra nell'ombra svanisse. Ma non fu così. E quella sagoma scura parlò: « Perché mi evita, padre? ». E poiché lui non le rispon­deva, l'altra continuò: « Non sono più degna forse? »... E non c'era umiltà in quella voce, ma protervia, come una sfida. Egli avanzò ancora e l'ombra non si ritrasse. Ma, d'impeto, si gettò fremente ai suoi piedi, gli si aggrappò alla tonaca in una furia selvaggia, gridando: « L'assoluzione, Padre, l'assoluzione! ». Egli tentò un ultimo scampo. Levò il braccio, le tracciò col pollice sulla testa china una doppia croce. Ma ella non si placò. La sua voce si fece aspra brutale avida: « No. Non così. Dovete ascoltarmi. Mea culpa. Mea culpa. Mea culpa ». E un riso violento scos­se quel corpo mentre le unghie presero a scal­firgli la tonaca... Fu allora che zampillò in lui una collera cieca, un impulso folle di calpestare, umiliare, disperdere quella bestiola torbida e feroce, simbolo e immagine di tutte le donne che tenevano prigioniera la sua anima... Il rancore a lungo covato gli esplose dentro di colpo e la respinse da sé con estrema disperata energia... E quella barcollò, batté l'aria con le mani, infine precipitò all'indietro con un lungo grido di libe­razione... Fu nella caduta che il capo di lei batté sulla pietra... Quando Guy corse da lei, era già morta. Egli scappò via. (Una pausa. Nel silenzio generale, Jeanne risale, lenta ieratica ispirata, la scaletta, e giunta sul palcoscenico, mormora):

Jeanne                            - No. Mea culpa. Mea culpa. Mea culpa. (E va verso la gabbia dove rimane immobile).

Alyette                            - (quasi contemporaneamente sale dalla platea nell'identico atteggiamento di Jeanne) Mea culpa. Mea culpa. Mea culpa.

Giselle                             - (sale anch'essa) Mea culpa. Mea culpa. Mea culpa. (Adesso è una processione di donne in nero che salgono dalla platea, tutte ripetendo l'invocazione: « Mea culpa. Mea culpa ». Le don­ne vanno a prendere posto intorno alla gabbia. Il vecchio ha levato il braccio al passaggio delle donne e in silenzio traccia dei segni di croce a benedirle).

Le Donne                        - (passando) Mea culpa. Mea culpa. Mea culpa. (Il vecchio di colpo si arresta; il braccio ancora levato in aria. Ha scorto qual­cuno. Infatti dalla platea sta avvicinandosi si­lenzioso il coadiutore che giunto ai piedi della scaletta si ferma a fissare imperioso l'abate).

Il Vecchio                       - (confuso, subito umile, al coadiutore) Sì, vengo. (Non completa il segno di croce e nasconde il braccio come gli pesasse. Va alla scaletta e scende, sembra più piccino, un povero vecchio davvero, adesso. Il coadiutore lo attende sempre ai piedi della scala. E quando l'abate gli giunge vicino, gli pone il braccio sulla spalla non in un gesto di protezione, ma di presa di pos­sesso. E così se lo porta via).

Le Donne                        - (sempre intorno alla gabbia comincia­no l'una dopo l'altra a inginocchiarsi salmodian­do, rivolte alla gabbia vuota che circondano) . Signore, abbi pietà di noi. - Cristo abbi pietà di noi. - Gesù abbi pietà di noi. - Beato Guy, prega per noi.

Tutte                               - (in coro) Beato Guy, prega per noi. -Beato - Beato - Beato. (L'accusatore indignato si toglie con rabbia la toga).

Il Presidente                   - L'udienza è aggiornata. (In pal­coscenico si fa d'improvviso buio mentre la gab­bia si illumina di una luce irreale).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Quando si illumina la scena che è la stessa dei due atti precedenti, il Presidente, l'accusatore, l'avvocato, il cancelliere, eccetera, meno le don­ne, sono tutti ai loro posti, in piedi. Hanno una espressione grave come sotto lo choc di un avve­nimento impreveduto. Una lunga pausa in cui il Presidente si guarda in giro.

Il Presidente                   - L'udienza è aperta. (Tutti seg­gono ma il Presidente resta in piedi) Purtroppo s'è verificato un incidente spiacevole. (L'atten­zione nell'aula si fa spasmodica) Degli sconside­rati hanno tentato di assalire la prigione ove è rinchiuso Lemonnier. L'attacco è stato respinto ma ci sono dei feriti. ( Un tempo) Qualunque fos­se l'intenzione che animava gli assalitori, questa Corte non si lascerà fuorviare dal suo compito. Pertanto il dibattito prosegue. (Siede. Una pausa) Ha chiesto di deporre il sindaco del pae­se. L'accusa si oppone?

L’Accusatore                  - No.

Il Presidente                   - La difesa?

L’Avvocato                    - Nessuna eccezione.

Il Presidente                   - Il teste è ammesso.

L’Usciere                        - (chiamando) Thomas Gouffre.

Il Sindaco                       - (sui quarant'anni, aspetto civile, elegante, sale dalla platea).

Il Presidente                   - Voi siete il sindaco?

Il Sindaco                       - Lo ero.

Il Presidente                  - (stupito) Non lo siete più?

Il Sindaco                       - Stamani ho dato le dimissioni.

Il Presidente                   - Perché?

Il Sindaco                       - (vago) Diciamo, che non mi ritengo più... idoneo a rappresentare questo paese. Ma le ragioni sono più profonde come mi riservo di chiarire.

Il Presidente                  - Mi auguro che il vostro gesto sia meditato.

Il Sindaco                      - Certo. Io sono un « politico » e non ubbidisco mai ai sentimenti ma alla ragione. Anzi alla « ragion di Stato », per usare un'espres­sione un po' logora. E poiché un politico è in­nanzi tutto un uomo d'ordine, io fui subito con­tro Lemonnier. Non potevo infatti tollerare i fermenti di rivolta che la sua presenza suscitava in paese.

Il Presidente                  - Lo descrivete come un sedi­zioso.

Il Sindaco                      - Lo era. Dal mio punto di vista, si intende. Proprio perché era un mistico. O, se preferite, un asceta.

L’Avvocato                   - Non è una colpa, che io sappia.

Il Sindaco                       - Bisogna diffidare dei puri. Con la loro intransigenza si rivelano i più pericolosi per l'ordine sociale. Io sono convinto che una sag­gia divisione dell'amministrazione temporale dalla spirituale sia l'unico modo di governare una comunità. E a tale norma mi sono sempre attenuto per tutto il tempo che il vecchio curato, uomo tranquillo, resse la parrocchia. Ma con l'arrivo di Lemonnier le cose cambiarono.

Il Presidente                   - Cosa fece, di preciso?

Il Sindaco                       - Indirettamente interferì nella mia sfera di potere costringendomi ad occuparmi di faccende che non dovevano interessarmi.

Il Presidente                   - Spiegatevi.

Il Sindaco                       - Gli bastarono pochi giorni per met­tersi in urto con tutti. Il mio paese non è né migliore né peggiore di tanti altri. Ma Lemon­nier s'era messo in mente di farne... una provin­cia del Paradiso. Ripeto parole sue. Il risultato fu che fece il deserto intorno a sé e gli uomini si rivolsero a me perché intervenissi presso le autorità centrali per allontanarlo.

Il Presidente                   - E le donne? Erano anch'esse contro il prete?

Il Sindaco                      - Le donne? Oh no. Per esse Lemon­nier era il curato ideale. Ma furono proprio le donne l'elemento primo del disordine che si determinò in paese. Esse difendevano il prete contro i mariti, i padri, i fratelli. In breve, non ci fu nucleo familiare che non prese partito prò o contro. Con quali conseguenze vi lascio im­maginare.

Il Presidente                  - Ci è stato riferito che gli uo­mini non avevano l'abitudine di frequentare mol­to la chiesa. Perché si preoccupavano dunque?

Il Sindaco                       - Infatti. Ma se essi non andavano in chiesa, era Lemonnier ad andare da loro. Sui campi, nelle botteghe, al mercato, non c'era mo­mento che li lasciasse un po' in pace.

Il Presidente                  - Cosa voleva?

Il Sindaco                       - Niente. Ma parlava, parlava, par­lava. Ed erano tutti discorsi sediziosi. Per esem­pio, che il lavoro non è una merce sottoposta alla legge dell'offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uo­mini come sul grano o sullo zucchero, eccetera eccetera. Tutte cose giuste, non dico di no, ma che da un socialista o da un agitatore sindacale le accettate, ma non stanno bene in bocca ad un prete che dev'essere innanzi tutto un uomo pru­dente. La prudenza, ecco la virtù che gli faceva difetto. E la diplomazia, perché prendeva di petto gli argomenti invece di aggirarli. Figura­tevi che una volta su un sacchetto di scudi che un mercante teneva in bottega, di soppiatto scrisse: « Pericolo di morte » come sui piloni dei trasformatori elettrici. E potrei citarvi cento episodi analoghi. Insomma era un uomo impre­vedibile. E molto pericoloso perché sovvertiva le coscienze e metteva su i poveri. Quando la gente cominciò a lamentarsene con me, io pre­ferii andare direttamente a parlargli. Non per difendere i miei amministrati. So bene quanto essi valgono. Ed io per primo non ne ho molta stima. Andai per metterlo in guardia contro le reazioni che la sua condotta rischiava di susci­tare. Fu un senso di simpatia, nonostante tutto, a spingermi da lui. Allora pensavo ancora che la sua esuberanza fosse dovuta alla gioventù e all'inesperienza.

Il Presidente                  - Come vi accolse?

Il Sindaco                       - Molto bene, lo ammetto. Mi fece quasi festa, dapprima. Ma dopo poche frasi for­mali, subito lo sentii ostile. E cominciò a sfug­girmi di mano. Alla fine capii che era un uomo col quale era impossibile avviare un qualsiasi dialogo.

Il Presidente                  - Ricordate quello che vi disse?

Il Sindaco                       - Perfettamente. Innanzi tutto mi domandò in nome di chi fossi venuto. E quando gli spiegai che come sindaco mi preoccupavo di mantenere l'ordine che in tanti anni ero riuscito a stabilire in paese, diventò immediatamente offensivo. Affermò che il potere che io rappre­sentavo, egli lo disconosceva in nome di un po­tere più alto che egli serviva. E concluse invitan­domi a collaborare con lui per sostituire in paese la legge di Cristo a quella degli uomini. Dal col­loquio riportai l'impressione che fosse un esal­tato irresponsabile. Fu da quel momento che mi schierai definitivamente con i miei amministrati.

Il Presidente                   - In che modo?

Il Sindaco                       - Incoraggiai pubblicamente la resi­stenza di quella parte del paese che s'era chiusa in sé e rifiutava il ministero di Guy Lemonnier. E poiché, come sindaco, non potevo limitarmi a un ruolo passivo, mi adoperai perché fosse tra­sferito. Purtroppo non giunsi in tempo. Il delitto mi prevenne.

L’Avvocato                   - Adesso i vostri amministrati sono finalmente... tranquilli?

-Il Sindaco                     - No. Ed ecco perché sono qui. Stra­no, ma la gente non ha reagito all'arresto di lui, come mi aspettavo. Non s'è sentita finalmente libera da un incubo. No. Se dovessi definire il sentimento dei miei concittadini nei. suoi con­fronti, non potrei usare che una parola... Amore!

L’Accusatore                  - Volete dire... pietà?

Il Sindaco                       - No. Amore. Badate che essi non lo giudicano colpevole. Lo ammirano. Anzi, am­mirazione non è l'espressione esatta. Lo vene­rano. Ecco la parola. E si comportano come orfani che d'improvviso perdono un padre che amavano profondamente senza averne coscienza.

L’Accusatore                  - (ironico) Sì, abbiamo sentito le donne.

Il Sindaco                      - Non parlo delle donne. Ma di tutti. C'è qualcosa che mi sfugge nella loro condotta. Qualcosa d'irrazionale, d'assurdo, come un senso di colpa collettiva per l'omicidio di Claudine. Forse per questo si rifiutano di accettare un nuovo curato.

L’Accusatore                  - Cosa dite? Ma se la parrocchia è già retta da un nuovo curato!

Il Sindaco                       - Non lo ritengono il loro curato. Lo considerano, per così dire... provvisorio. Infatti anche se son tornati ad essere osservanti e fre­quentano la chiesa, essi, tutti, attendono il ri­torno di Guy Lemonnier, il loro unico e vero parroco.

L’Accusatore                  - Ci penserà la giustizia a rendere vana quest'attesa.

Il Sindaco                      - Lo so che è una speranza assurda. Ma proprio per questo è pericolosa. Ne avete avuto una prova clamorosa con l'episodio dell'assalto alle carceri. Essi intendevano liberare Guy Lemonnier, lo sapete bene, anche se pre­ferite che non si sappia. E i feriti che io vengo ora dall'aver visitato, non gemono o imprecano ma sorridono e si gloriano come dei martiri. E tutto questo, signori, è veramente insidioso per le fondamenta stesse di quell'ordine senza il quale non c'è stabile amministrazione. Ma non mi sono dimesso soltanto per questo. Ma per ragioni più complesse che adesso tenterò di esporvi. (Un tempo) Da ieri, signori, anch'io sono in crisi. Intanto mi vado chiedendo se l'impu­tato non avesse il diritto di uccidere Claudine Regis.

Il Presidente                  - Questo lasciatelo stabilire a noi.

Il Sindaco                       - Non è un problema di giustizia che mi pongo. Lascio quel campo a voi che siete degli esperti. Ma è un problema di opportunità poli­tica. Sfortunatamente vi sono circostanze nelle quali la violenza è l'unico modo di poter raggiun­gere certi fini. Nessuno meglio di me lo sa. Non mi riferisco al fatto se l'imputato avesse o no altra via per difendere la sua purezza minacciata da quella Claudine, perché a questo credo si riduca il motivo immediato del crimine. No. Io considero gli effetti del delitto sulla comunità. Sono i risultati che m'interessano, l'ho detto. E io mi domando se il fine remoto, che inconscia­mente il curato si proponeva non fosse lo choc che il suo gesto ha determinato sulla comunità. Perché è un profondo radicale capovolgimento di giudizio quello cui assistiamo. Ed è su quest'ultimo punto che vorrei mettervi in guardia. Voi condannerete, com'è giusto, Guy Lemonnier. Ma fate attenzione: la comunità l'ha già man­dato assolto perché lo reputa innocente. Ora si sa come queste cose vanno a finire. Quando sarà passato molto tempo e il ricordo del fatto in sé sarà disperso, per noi tutti, voi ed io, non ci sarà scampo. Voi sarete ricordati unicamente come i giudici che condannarono Guy Lemonnier ed io come il sindaco del paese dove egli fu parroco. Qualunque cosa di bello, di buono, di utile noi si sia fatto, sarà dimenticato. E la memoria di noi vivrà nella gente in quanto legata a questo processo. La storia ce l'insegna. Pensate a Pilato, a Barabba, ai giudici di Giovanna d'Orléans. E vi assicuro che di gloria per noi non ce ne sarà punta. I nostri nomi saranno esecrati, odiati. Ora se voi, come giudici, potrete sempre invocare gli articoli del codice per difendervi, io non avrò molto cui appigliarmi. Perciò, finché sono in tempo, mi tiro indietro per quanto posso. Ma mi dimetto anche per un altro motivo. Io sono ateo. Almeno lo ero fino a poco fa. Ma da qualche tempo l'immagine di Guy, le parole che egli mi disse nei nostri incontri, i suoi occhi m'inse-guono dovunque, non mi danno requie. Perciò lascio una carica che mi vincola e m'impedisce di... pensare. Sì. Voglio esser libero di pensare a lui e... a me. Che Dio vi assista. (Si inchina alla Corte e se ne va).

Il Coadiutore                  - (dalla platea) Signor Presi­dente.

Il Presidente                  - Ha dichiarazioni da fare?

Il Coadiutore                  - Sì. (Sale in palcoscenico) Non avrei voluto toccare un argomento che può pre­starsi a interpretazioni equivoche. Ma visto che il sindaco vi ha indirettamente accennato, credoopportuno sottomettere alla Corte un rapporto riservato della Curia. (Porge delle carte).

Il Presidente                  - (le sfoglia e legge) Comunioni millesettecentocinquantuno. Cresime duecento­ventuno. Matrimoni religiosi diciannove. (Chiude il fascicolo irritato) Ma cosa vuole che c'inte­ressi tutto questo? La Corte prende in esame solo i « fatti ».

Il Coadiutore                 - E cosa sono quei numeri se non fatti? Stanno a documentare una verità incon­trovertibile: il risveglio religioso del paese dal giorno del delitto. Una religiosità che ricorda il fervore con il quale in altre epoche si innalza­rono le stupende cattedrali di cui tutta la nostra bella Lorena è così ricca.

L’Accusatore                  - In quanto a chiese, voi non per­dete tempo. Ne state costruendo una proprio a fianco di quella in cui Lemonnier fu parroco. (Ironico) E naturalmente è tre volte più grande di quella.

Il Coadiutore                 - Quella di prima non basta più a contenere i devoti che hanno preso a frequen­tarla. Se vi deste la pena di leggere questo rap­porto... (Batte sui fogli).

L’Accusatore                  - (con feroce sarcasmo) Insomma la conclusione è sempre la stessa. Finisca o no, un criminale sulla ghigliottina, il bilancio si chiude in attivo solo per voi che avrete una chiesa grande quanto uno stadio e l'aumento della religiosità espressa in cifre come l'incre­mento di un reddito aziendale.

Il Coadiutore                  - (contrariamente all'attesa, rispon­de in tono umile) E' stato sempre così nei secoli.

Il Presidente                  - Basta. Procediamo. E voi riti­ratevi. (Il coadiutore se ne va) Altre deposizioni prima che dichiari chiusa l'istruttoria?

Jeanne                             - (dalla platea) Signore.

Il Presidente                   - Ancora voi?

Jeanne                             - (sale sul palcoscenico, è sempre in lutto stretto) Vorrei dire solo una cosa. A propo­sito di tutte quelle comunioni, cresime, eccetera dì cui ha parlato il Vescovo. E' vero che adesso noi andiamo in chiesa, anche quelli che primi se ne tenevano lontani. Ma non si tratta di quan­tità, ma di qualità, per così dire. E' dentro di noi che qualcosa è cambiato. In tutti. Ed è questo che Guy Lemonnier voleva da noi. Finalmente lo sappiamo. Perciò egli s'è sacrificato, ha patito e patisce ancora... E a noi ora non resta che essere degni di lui. Ogni giorno, ogni minuto. E pregare. E attendere.

Il Presidente                  - Aspettate. Ma che cosa?

Jeanne                            - Il suo ritorno. Noi siamo il suo gregge.E lui è il nostro pastore. Perché dovrebbe ab­bandonarci? No. Un giorno tornerà fra noi.

L’Accusatore                  - Insomma, siete ottimiste.

Jeanne                            - No. Crediamo. Per questo siamo certe del suo ritorno. In questa vita. O nell'altra. E' lo stesso. Voi potete tenerlo in ceppi finché volete, potete mandarlo a morte. Ma noi attendiamo. Attendiamo. Perché il destino non è nelle mani degli uomini ma in quelle di Dio. E un gior­no egli tornerà. Perché noi siamo tornati a lui. (Un tempo) Era questo che volevo dire.

Alyette                            - (anch'essa in nero è salita dalla scala)Vorrei aggiungere solo una parola, se me lo consentite. Per quanto mi riguarda, il curato, io non ho bisogno di attenderlo. Perché tutte le volte che voglio trovarlo, non ho che da cercarlo sui luoghi del suo viaggio in terra fra noi. La strada, i casolari sperduti, i sentieri, la tomba di Claudine, dovunque egli ha sostato, pregato, benedetto, lì egli è. Oggi e sempre. E così sia.

Giselle                             - (anch'essa in lutto, sale dalle scaletta) Sì. Alyette ha ragione. Ma egli non è soltanto là. E' anche presso i nostri focolari spenti, nel poco grano che mietiamo, nella fatica che ci piega, nel dolore che ci consuma, nella miseria che ci avvilisce. Perché è dentro di noi. Come i Santi, come i Martiri che l'hanno preceduto e un giorno gli faranno corona in cielo. (Le tre donne si appartano e si raccolgono intorno alla gabbia).

Il Presidente                  - (si alza. Una certa emozione gli vibra nella voce) L'istruttoria è chiusa. Prima di dare la parola ai rappresentanti dell'accusa e della difesa, vorrei invitare entrambi a conside­rare l'eccezionalità di questo processo. E' proba­bile che un giorno, che ci auguriamo comunque il più lontano, i verbali di questo dibattito di­ventino oggetto di indagine storica, di polemica e siano volti a fini di parte. Noi ci siamo sfor­zati di mantenerci il più possibile imparziali e di cercare la verità con dignità e coscienza. Vorrei che le conclusioni fossero ispirate a tali concetti e restassero nei limiti di una ragionevole ani­mosità. Null'altro. La parola è all'accusa.

L’Accusatore                  - (si alza) Signori giurati, l'appel­lo del Presidente mi trova consenziente. Cer­cherò pertanto di assolvere il mio compito con animo sgombro da passioni e pregiudizi. Ma voi non dimenticate che la mia voce è l'unica che s'è levata in quest'aula ad accusare Guy Lemonnier. Vogliate quindi perdonarmi se l'indignazione mi travolge. La madre della vittima non solo non s'è costituita parte civile come ne aveva il dovere più che il diritto, ma s'è ben guardata dal pro­nunciare una sola parola contro l'imputato. Anzi ha tentato di giustificarne il crimine. Gli altri -li avete sentiti - sono giunti a chiamarlo santo lo stesso, lo ammetto, non son riuscito a trovare un solo testimone a carico. Se ne avessi trovati non avrei esitato, lo giuro, a condurli anche in ceppi di fronte a voi. Ma tutti i miei sforzi si sono infranti contro un muro di omertà e di silenzio. Il Sindaco infine, che si dichiara uomo d'ordine, è venuto qui a seminare il dubbio, rivelandosi piuttosto uomo della sovversione e della rivolta. Sono rimasto dunque solo io a difendere la Legge violata e la società offesa. Il mio compito è perciò più difficile ma non più ingrato. Perché, in questo momento, più che mai, ho la certezza di ubbidire a una legge morale che non mutua la sua forza dalla superstizione e dal fanatismo ma dalla nostra coscienza di citta­dini e di uomini. Ho detto meditatamente « fa­natismo ». Come chiamare altrimenti una reli­gione che conduce tutto un paese a considerare un omicidio, del quale conosciamo il colpevole, commesso invece da un'intera comunità? A far sì che una madre accetti la corresponsabilità nell'assassinio della propria figlia? All'inizio del dibattito dichiarai che non farò il processo al paese. Manterrò tale impegno. Non contro la comunità dunque parlerò ma solo contro Guy Lemonnier. La difesa sostiene che non possiamo dimenticare che l'imputato è un prete. E sia. Ma questa, se mai, è un aggravante. Lo ringra­ziamo di avercela offerta. Infatti l'imputato s'è servito dell'abito talare per meglio delinquere. Egli è un cinico, un calcolatore freddo e astuto che approfitta della fiducia che l'abito ispira per raggiungere i suoi fini licenziosi. Così come costruisce ad arte, giorno per giorno, la sua fa­ma di taumaturgo per creare un clima di sugge­stione, diciamo pure di magia, che togliesse ogni potere critico alle sue penitenti. Donne, badate bene, mai uomini. Gli uomini, l'imputato li al­lontana dalla Chiesa e fa di tutto per non ricon-durveli con i suoi modi offensivi e provocatori. Finché resta solo con le « sue » donne. Quelle donne che col vecchio curato non frequentavano quasi più la chiesa. Sapete quanti anni aveva il curato di prima? Circa ottanta. Mentre Lemon­nier ne ha ventisei. Ventisei. Non dimenticate mai questa differenza enorme di età se volete trovare la causale del delitto. Dunque, Lemon­nier e le donne. Una donna, fra tutte. Claudine Regis. Diciannove anni. Bella, aggressiva, libera nei rapporti con gli uomini. Il processo è tutto qui. Certo se mi chiedete delle prove specifiche, io vi mostro le mie mani vuote. Ma nemmeno testi a carico abbiamo trovato. E con ciò? Forseche per l'assenza dei testi e delle prove, Lemon­nier cessa d'essere un assassino? Dunque, non ci sono prove. Come non ci sono testi. Ma c'è il delitto. E il delitto parla. Più forte d'ogni prova. Più alto d'ogni testimonianza. Altrimenti perché mai un prete avrebbe ucciso? La difesa probabil­mente vi dirà che ha ucciso per salvare la pro­pria purezza. Ma cosa possiamo pensare noi di una religione che sopravvaluta una virtù al punto da indurre un suo ministro ad uccidere? No. La verità è un'altra. E' molto più semplice. Guy Lemonnier non aveva più alcuna virtù da sal­vare. E se ha ucciso, l'ha fatto perché stanco di una relazione che minacciava ormai di sfo­ciare in uno scandalo. Scandalo che l'avrebbe compromesso di fronte ai suoi superiori, non certo di fronte a quel Dio che diceva di servire ma che aveva tradito con la sua condotta pecca­minosa. Infatti, contrariamente a quanto vo­gliono farci credere, l'imputato è dotato di una intelligenza esclusivamente concreta che non gli consente di trasferirsi in una vita spirituale intensa ma lo porta a sfruttare tutti i vantaggi che lo stato sacerdotale gli offre. Tra la-fedeltà all'ideale divino e l'ubbidienza formale alle leggi della chiesa, Lemonnier non esita. Fra la subli­mazione degli affetti, indispensabile in ogni sacerdote, e l'apparenza dell'ortodossia morale di fronte all'unico uomo che avesse il potere di punirlo, il suo Vescovo, egli d'istinto sceglie questa via. E giunge a piangere ai piedi dell'Arcivescovo che va a trovarlo per chiedergli conto delle voci che circolano su di lui. Così riesce a convincere il suo superiore e ottiene di restare in parrocchia. Perché solo di una cosa si preoccupa l'imputato. Sfuggire a una puni­zione che lo privi dell'abito, quell'abito che gli consente libertà clandestine senza limiti. Anche l'episodio della visita all'abate aderisce alla sua personalità di simulatore. Infatti egli va dall’abate per dirgli che vuole entrare in clausura perché stanco delle donne che lo ossessionano, ma appena l'abate gli risponde di non abban­donare la cura delle anime affidategli, si affretta ad obbedire. Qual è dunque il vero scopo di quella visita? E' chiaro. Precostituirsi un alibi. Egli sa di poter contare in ogni caso sull'affetto incondizionato dell'abate e, diciamolo pure, sul­la sua ingenuità. E se ne serve. E' per questo che gli affida anche il diario in cui traccia di sé un ritratto ideale. E l'abate, quel povero vecchio che tutti qui abbiamo udito, si presta involonta­riamente al gioco di Guy Lemonnier e viene a dirci che ancora oggi bisogna credere alla buona fede dell'imputato. Ma quanto poco sia attendibile l'abate, ve l'ha detto inequivocabilmente il Coadiutore. Signori della giuria, il luogo in cui è rinchiuso l'abate e che i preti, con la consueta ipocrisia chiamano « casa di riposo » è in realtà un manicomio. Quindi la sua deposizione è giu­ridicamente irrilevante. Restano le donne. Anch'esse giurano sull'innocenza di Lemonnier. Perché? Perché ammettere la sua colpa, signi­fica ammettere la propria, dato che tutte, più o meno, subivano il fascino sinistro dell'impu­tato. La prova? Se non bastasse il loro compor­tamento in quest'aula, ci sono le lettere ad atte­starlo. Quelle lettere che persino la difesa s'è rifiutata di leggere pubblicamente. E, del resto, che i loro rapporti con l'imputato non fossero normali, si desume dall'atteggiamento che esse hanno verso il nuovo curato. Se fossero quelle sincere osservanti che dicono di essere, ricono­scerebbero il nuovo curato come il loro vero pastore, poiché la sua autorità deriva dalla gerar­chia ecclesiastica che l'ha eletto e i fedeli non possono discuterla ma solo accettarla. Invece esse lo considerano come... provvisorio - hanno l'impudenza di dircelo - e pensano a Guy Lemon­nier. E lo attendono, lo invocano. Perché? Evi­dentemente per queste strane praticanti non è il ministero che conta anche se legittimo, ma l'uomo, Guy. Volendo così giovargli, in definitiva lo accusano. E non voglio aggiungere altro su questo argomento per restare nei limiti che mi sono imposto e perché considero, nonostante i fatti, quelle donnette come delle sprovvedute sulle quali le male arti dell'imputato hanno avuto facile presa. Ora non mi resta che parlare degli uomini. Anch'essi, di punto in bianco, di­ventano solidali con le mogli, le figlie, le sorelle e difendono il prete che prima tenacemente com­batterono. Sino a tentare l'assalto alle carceri per liberarlo. Perché? Ma gli uomini non pos­sono ammettere di aver tollerato in paese per due lunghi anni un prete come Lemonnier. E' una questione di prestigio, di dignità e anche di coerenza. Perché se il vostro verdetto am­mette i rapporti fra le donne e il prete, non c'è alternativa: o gli uomini sapevano e sapendo hanno taciuto. O ignoravano. In entrambi i casi non fanno una bella figura. Il loro onore o la loro intelligenza ne escono macchiati. Quindi rifiutano in toto l'alternativa e tentano clamoro­samente con l'assedio alla prigione di accredi­tare l'estraneità del prete ai fatti contestatigli. Perché, se è fuori causa il prete, fuori causa sono anche le donne. E il buon nome del paese, la rispettabilità dei padri e dei mariti, sono salvi. E' umano, è comprensibile, oserei dire che è giusto, tanta è l'eco suscitata in tutta la nazione da questo processo. E adesso dalle premesse generiche non mi resta che passare alle conclu­sioni specifiche. Omicidio premeditato con l'ag­gravante dei motivi abbietti. Questi i capi di im­putazione. Queste le motivazioni che mantengo ferme per l'affermazione della colpevolezza di Lemonnier. Nel formulare la sua richiesta medi­tata e cosciente, la pubblica accusa sa di ren­dere un servigio non solo alla società e alla legalità repubblicana che rappresenta, ma alla stessa Chiesa che non può tollerare nel suo seno un ministro che la disonora, e di difendere nel contempo tutti gli altri preti degni di tal nome. La difesa vuol suggestionarvi avvertendovi che state giudicando un prete. Ma Guy Lemonnier non è più un prete. Forse non lo è stato mai. E' un ramo fradicio sul tronco millenario di quella istituzione che noi rispettiamo pur non amandola. E i rami secchi si tagliano. Per questi motivi, per l'efferatezza del crimine, per le ag­gravanti di cui innanzi, io vi chiedo, signori giu­rati, di voler, in piena coscienza e tutta libertà, condannare Guy Lemonnier, ex curato, alla pena di morte mediante ghigliottina. (Siede).

Una Voce                       - (con un lungo grido straziante) No! (Quasi un tumulto in sala. Il Presidente scampa­nella a lungo finché torna il silenzio). L'Avvocato r(si alza) Signori giurati, una pre­messa. Io non sono l'avvocato di Guy Lemonnier. (Sensazione. Commenti) Mi spiego. Sì. Non è stato l'imputato a scegliermi come suo difensore. Lemonnier, benché insistentemente sollecitato, s'è sempre rifiutato di farsi difendere. Infatti egli è, con tutto il rispetto per questa Corte, in­differente al giudizio degli uomini e alla sua sorte terrena. Io non sono nemmeno l'avvocato della Chiesa, perché le gerarchie del clero hanno abbandonato l'uomo Lemonnier a voi. Essi si riservano di fare, al di fuori e al di sopra di questo dibattito, il processo canonico al prete che Guy era e, io sono convinto, continua ad es­sere. E allora perché sono qui? Perché questa Corte mi ha conferito mandato di difenderlo. Per le nostre leggi nessuno può essere trascinato in giudizio senza possibilità di difesa. Dunque, io sono l'avvocato d'ufficio di Guy Lemonnier. Non di parte. Ma non per questo assolverò il mio compito con minor vigore. E sapete perché? Perché credo nell'innocenza di Lemonnier. Sì. Ora ci credo. Quando mi giunse la nomina, considerai l'incarico un ingrato dovere al quale non potevo sottrarmi. Mi accostai alle carte del pro­cesso con fastidio e repulsione. Un prete assas­sino e fornicatore! Qualunque sia l'uomo che difendiamo, c'è sempre un vuoto fra esso e il suo destino, e quel vuoto si chiama appunto pro­cesso. Ma quando l'uomo è un prete, il vuoto si fa pauroso ed è con orrore che ci chiniamo su quell'abisso, alla ricerca di uno spiraglio di luce. Oggi, dopo un anno di istruttoria, dopo aver parlato tante volte col detenuto Lemonnier, dopo avergli udito ripetere nella cella dove prega giorno e notte: « Io sono prete, resto prete, ed espierò da prete! », ebbene, signori, oggi io non cerco più quel po' di luce; per me s'è fatto gior­no pieno e il sole della verità m'ha illuminato come spero illumini voi quando sarete riuniti per emettere il verdetto. (Un tempo) Dunque, il pubblico accusatore sostiene di difendere la società offesa. Ma quale società?, do­mando io. Una società ideale, immagino. Non certo quella rappresentata dalla comunità del paese. Perché quella non è certo degna d'essere difesa. Chi esprime bene la particolare società che ha perduto Lemonnier è Thomas Gouffre, il sindaco. L'avete sentito. Nessuno meglio di lui la conosce e la rappresenta globalmente nelle sue incoerenze, contraddizioni, risentimenti, odi. Thomas Gouffre è un uomo del mondo mentre Guy è un uomo di Dio. Il primo accetta la so­cietà quale essa è; il secondo vuol modellarla sullo stampo divino. Il contrasto insanabile è tutto qui. Gouffre, il prototipo della comunità, non ha fede negli uomini perché ritiene il male una delle componenti insopprimibili della con­dizione umana, e poiché, come politico, antepone l'utile al bene, si preoccupa solo di mantenere un ordine formale. Lemonnier invece ha fiducia nell'uomo perché lo sa fratello in Cristo e crede nella redenzione del peccato con l'aiuto della Grazia. Perciò parte, lancia in resta, contro quell'ordine che ritiene figlio del male. Per lui il be­ne, la salvezza eterna, è essenziale e preminente, Il paese è un paese come tanti altri. Da tempo immemorabile sonnecchia avvolto nei suoi pec­cati come in una calda coperta che gli dà l'illu­sione d'essere vivo. Per il resto, inganna i rimor­si con il compromesso. Va in chiesa quel tanto che ritiene sufficiente a prendere un passaporto per l'aldilà, così come va in municipio quando ha bisogno di un certificato civile. Ma un giorno arriva il nuovo curato. Eccolo che avanza col suo passo da guastatore, e dove quel piede si posa non c'è più quiete per i dormienti tanto è il rumore che fa. E' come se pestasse un formicaio, anzi un groviglio di vipere: alcuni fuggono, altri gli si rivoltano contro, altri infine lo seguono; ma sarebbe meglio ne ignorassero la presenza, dacché vogliono solo legarlo a sé. Ecco il quadro dell'ambiente, le premesse del delitto. Guy non disarma, accetta la lotta, ma - ingenuo giovane inesperto - si lascia invischiare in un cerchio sempre più stretto dal quale non potrà più usci­re. Il giorno in cui tenterà di riaffermare la pro­pria libertà, sarà troppo tardi. Il suo gesto di difesa sarà eccessivo e sproporzionato come tutte le reazioni della sua natura impulsiva e generosa. Sì, egli uccide Claudine Regis su quel sentiero di montagna, facendola precipitare all'indietro. Mi sarebbe facile sostenere la tesi dell'omicidio preterintenzionale per invocare le at­tenuanti e chiedervi il minimo della pena. Ma io rifiuto le circostanze attenuanti perché una tale ipotesi prima che alla mia coscienza giuridica ripugna al mio senso morale. No. Nessuna atte­nuante per Guy Lemonnier. Perciò non sosterrò nemmeno che al momento del fatto la sua re­sponsabilità non fosse integrale perché vittima di un raptus che gli tolse o diminuì la facoltà d'intendere e di volere. No. Io affermo che Guy Lemonnier uccise per legittima difesa. Quindi non è né colpevole né punibile. Le legge ammet­te che in stato di necessità, per difendere la propria vita minacciata, si può reagire anche uccidendo. Ebbene se la legge contempla il caso che si può uccidere per salvare il proprio corpo, non dev'essere lecito uccidere per salvare la propria anima? L'anima sarebbe dunque meno importante del corpo? La vita futura meno di questa che ci trasciniamo appresso? Qualcuno, non voi, spero, potrebbe rispondermi: « E chi non crede in quell'altra vita? ». Ma io vi dico: « Guy credeva. Guy crede nella vita futura! ». Anzi egli può dire di sé, come il suo Maestro: « Io sono la Via, la Verità, la Vita! ». Ammetto che la distorsione dei fatti tentata dalla Pub­blica Accusa è stata di un'abilità estrema, vor­rei dire... diabolica. E nel termine non c'è offesa. Se mai, elogio. Sì. Perché io mi rifiuto di pensare che un uomo possa piegare i fatti del processo a un'interpretazione così disumana, possa dare di tutte le azioni dell'imputato una versione così equivoca. Anche nei peggiori delinquenti, nei mostri del crimine, se sappiamo cercare, se non ci rendiamo ciechi, scopriamo sempre un indizio, un segno, una speranza, un brivido di luce, per non dubitare della nostra condizione umana. L'accusatore invece ha negato tutto, ha voluto distruggere tutto, integralmente, defini­tivamente. E non s'è reso conto che se le cose stessero come egli vuol farci credere, se Guy fosse quale l'ha descritto, non ci sarebbe più speranza per me, per voi, per lui stesso. No, signori. Per quella dignità che ci fa uomini, io, voi, tutti, nonostante le nostre colpe, io vi dico che non è stata la voce di un uomo che qui ha infierito contro Guy Lemonnier. Io vi dico: di­menticate quelle parole. Ed egli, ne sono certo, quando si spoglierà della toga dell'accusatore e si ritroverà solo con se stesso, dovrà rico­noscere, proprio in nome dell'umanità che è stato chiamato a difendere, d'essere andato oltre il mandato conferitogli e respingerà come non sue le terribili parole che ha pronunciato. Questo almeno è quanto io spero per lui. E adesso non mi resta che concludere. Signori giurati, io non invoco alcuna attenuante per Guy Lemonnier. Ma vi chiedo semplicemente la sua assoluzione. Per aver ucciso in stato di legittima necessità. (Un tempo) Che se poi l'ombra di un dubbio sfiorasse le vostre co­scienze, ebbene io non esito a dirvi, poiché il mio dovere è di usare tutti i mezzi offertimi per il fine che mi propongo: « Voi non avete, di fronte a quel Dio al quale vi rivolgete col vostro giuramento, il diritto comunque di con­dannare un prete di Cristo, un uomo che il Signore un giorno scelse per la salvezza degli altri uomini ». (Siede).

L’Accusatore                  - Protesto. L'ultimo argomento della difesa non è giuridico e tende a creare un insanabile problema di coscienza nei giu­rati. Invito pertanto la giuria a non tenerne conto.

Il Presidente                  - Accusatore, non le ho con­cesso il diritto di replica. Passiamo al verdetto. Venga il capo dei giurati.

Il Primo Giurato             - (un uomo di mezza età sale dalla platea).

Il Presidente                  - Signor primo giurato, mentre vi accingete ad emettere il verdetto, vorrei riassumere le richieste emerse dalle conclusioni perché solo ad esse dovrete attenervi. Le ri­chieste si riducono a due. Pena di morte per omicidio premeditato con le aggravanti. Asso­luzione perché il fatto non costituisce reato. Altra alternativa non è stata prospettata. Dunque, ghigliottina o libertà. A voi giudicare. E adesso ritiratevi per consultarvi con gli altri giurati.

Il Primo Giurato             - (resta fermo, immobile, come non avesse udito).

Il Presidente                  - (sorpreso) Non avete udito? Ho detto di ritirarvi. Se però volete altri chia­rimenti dalla Corte prima di decidere, parlate pure.

Il Primo Giurato             - (sempre in silenzio, scuote il capo poi lentamente, solennemente si segna con un gran segno di croce).

L’Accusatore                  - (uno scatto) Protesto. S'è segnato.

Il Presidente                  - (severo, al capo dei giurati) Perché avete fatto il segno di croce? Non sapete che vi è proibito esprimere anche con i gesti una qualsiasi opinione? E quel segno è una dichia­razione di fede.

Il Primo Giurato             - (calmo) Infatti. Io sono cattolico.

Il Presidente                  - Voi qui siete soltanto un cittadino.

L’Accusatore                  - (in piedi, indicando la platea) Anche gli altri. Tutti i giurati si stanno se­gnando. Guardate. Guardateli.

Il Primo Giurato             - (sempre volgendo le spalle alla platea) Sì. Lo so. Tutti.

Il Presidente                   - Volete dire che è un gesto meditato e concordato fra voi?

Il Primo Giurato             - È così, signore. Meditato e concordato.

Il Presidente                  - Attenzione. Probabilmente voi ignorate le conseguenze giuridiche alle quali andate incontro.

Il Primo Giurato             - No, signore. Non le igno­riamo. Ed io sono incaricato di comunicare alla Corte che ci rifiutiamo di emettere il ver­detto contro Guy Lemonnier.

L’Accusatore                  - Poiché tale rifiuto costituisce reato, chiedo l'incriminazione dei giurati per oltraggio alla Corte.

Il Primo Giurato             - È giusto. E proprio quello che ci aspettavamo.

Il Presidente                  - Un momento. Prima di pro­cedere nei vostri confronti, la Corte vi invita a considerare l'estrema gravità di un rifiuto che non ha precedenti nella storia giudiziaria del nostro paese. Se avete dei motivi che in qualche modo attenuino la vostra colpa, la Corte è disposta ad ascoltarvi.

L’Accusatore                  - E il risultato della perorazione dell'avvocato e del suo invito a non giudicare un prete perché unto da Dio!

L’Avvocato                    - No. Io ho chiesto di non condannare Guy Lemonnier. Ma di giudicarlo, sì. lo volevo, voglio una sentenza, una conclusione al dibattito, una certezza per lo meno giuridica. E se i giurati malauguratamente persistono nel loro rifiuto, io sono deluso quanto voi, perché non ne esco vittorioso.

L’Accusatore                  - Il processo si rifarà prima o poi. Ne prendo impegno formale. Naturalmente con un'altra giuria.

Il Presidente                   - Di fronte all'eventualità di un rinvio del processo, la Corte invita la giuria a ritrattare la sua dichiarazione. Il dubbio non giova alla Giustizia. E questo processo è di­ventato un fatto nazionale, direi storico. Con­ danna o assoluzione, ma il popolo vuole almeno da noi la verità. Una verità. Guai se la gente perde fiducia anche in noi Giudici. Dunque, per l'ultima volta, vi dico: « Giudicate Guy Lemonnier. Dateci una sentenza. Una sentenza qualsiasi. Ecco quello che vi chiediamo! ».

Il Primo Giurato             - Vorrei chiarire, signor Pre­sidente, che l'avvocato non ha avuto alcuna in­fluenza nella nostra decisione. Abbiamo accet­tato il nostro compito di giudicare senza nes­suna prevenzione, lo giuro. E speravamo proprio di andare fino in fondo e darvi il verdetto. Ma sono successe tante cose in questi tre giorni... Tante!

Il Presidente                  - In ogni processo ne accadono. Per questo si istruisce una causa.

Il Primo Giurato             - Lo sappiamo. Non è la prima volta questa che siamo chiamati a far da giurati. Ma noi siamo uomini semplici, pra­tici, piuttosto ignoranti... Perciò eravamo pre­parati a giudicare dei fatti: colpevole, inno­cente, eccetera... D'improvviso ci domandate di dire il nostro pensiero su cose alle quali non abbiamo mai avuto molto tempo di riflettere... per esempio, se è più importante salvare una vita o un'anima... e cose del genere... Ora non si può chiedere a un uomo più di quanto un uomo può dare. E qui non si tratta più di assolvere o condannare un imputato, come altre volte, sulle prove o meno... Roba, in fondo, che ci riguardava fino a un certo punto e ci im­pegnava né tanto né quanto... Chi non giudica ogni giorno le azioni degli altri?... Ma qui è diverso. Abbiamo capito che non del prete si tratta ma di noi stessi. E francamente non ce la sentiamo di vederci dentro come siamo. Non siamo pronti, ecco tutto. Col tempo, forse… Ma non adesso, subito. È troppo presto. Lasciateci un po' di tempo. Non chiediamo altro. Un po' di tempo.

Il Presidente                  - Non possiamo aspettare. La sentenza dev'essere emessa subito. I fatti della causa sono abbastanza chiari.

Il Primo Giurato             - Abbastanza. Ecco il punto. Ma non sufficientemente. Almeno per noi. E c'è una grande confusione nelle nostre teste. Perciò abbiamo bisogno di tempo. Molto tempo.

Il Presidente                   - La sentenza. Presto.

Il Primo Giurato             - Mi spiace.

L’Accusatore                  - Non avete capito che è tutta una commedia? Essi non mirano ad altro che a farsi incriminare per prendere il posto dell'imputato nella gabbia vuota.

Il Primo Giurato             - Può darsi. Ma non sap­piamo bene nemmeno noi quello che vogliamo. Non lo sappiamo, credeteci.

Jeanne                             - (scuotendosi dalla lunga immobilità) No. Quel posto spetta a noi! Siamo noi che dobbiamo entrare nella gabbia vuota. Noi, le donne.

Alyette                           - Sì. Siamo noi colpevoli. Giudicate noi. Condannate noi. Presto.

Giselle                             - Sì. Lui è innocente. Non potrete condannarlo. Nessuno lo condannerà. Mai.

L’Accusatore                  - (raccogliendo le sue carte ormai inutili) Siete riusciti a salvare la sua testa. Ma per quanto? (Si toglie la toga).

Alyette                           - Per sempre.

Giselle                             - Per sempre.

Jeanne                            - Amen.

(Dall'esterno un canto religioso, solenne ma pau­roso invade la scena. È il « Dies trae »).

Jeanne                            - Dies irae.

Alyette                           - Dies irae.

Giselle                             - Dies irae.

(le donne del finale del secondo atto, sempre in lutto, salgono dalla scaletta come in proces­sione. Ad esse questa volta seguono gli uomini Tutti mormorano singolarmente prima rit­mando, poi in coro).

Le Voci                          - Dies irae.

—Dies irae.

—Dies irae.

(Il coro adesso diventa canto unendosi a quello esterno. Tutti, compresi i giurati, entrano nella gabbia che si è misteriosamente e silenziosa­mente aperta. Nella gabbia man mano tutti si inginocchiano cantando.

FINE