La gelosia di Lindoro

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Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

LA GELOSIA DI LINDORO

COMMEDIA

seguito degli AMORI DI ZELINDA E LINDORO

PERSONAGGI

DON ROBERTO.

DONNA ELEONORA, moglie in seconde nozze di Don Roberto.

DON FLAMINIO, figlio di Don Roberto del primo letto.

ZELINDA, moglie di Lindoro.

LINDORO, segretario di Don Roberto.

BARBARA, cantatrice, amante di Don Flaminio

DON FILIBERTO, amico di Donna Eleonora.

FABRIZIO, mastro di casa di Don Roberto.

TOGNINA, cameriera di Barbara.

MINGONE, contadino.

La scena si rappresenta in Pavia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera con grand'armadio nel fondo. – Da una parte tavolino da scrivere ad uso di segretario, dall'altra un altro tavolino con sopra della biancheria, cioè sei o sette camicie proprie e pulite, ed una cestella col bisogno per lavorare di bianco, ed una sedia a ciaschedun tavolino.

Zelinda a sedere lavorando, Lindoro a sedere scrivendo.

ZEL. Lindoro. (chiamandolo, dopo essere stati un poco senza dir niente)

LIN. (scrivendo) Cosa volete?

ZEL. (lavorando) Avete molto da lavorare questa mattina?

LIN. Sì, molto.

ZEL. Caro marito, non vorrei che il troppo applicare vi facesse del male.

LIN. (scrivendo) Quando bisogna, non mi risparmio.

ZEL. Ma sollevatevi un poco: respirate un momento, parlate un poco con me.

LIN. Lasciatemi scrivere, non ho volontà di parlare.

ZEL. In verità, Lindoro, voi mi date non poca pena. È qualche giorno che vi vedo taciturno, inquieto. Cos'avete mai che vi turba, che vi molesta? In un mese che siamo marito e moglie, pare che la vostra tenerezza per me si sia raffreddata.

LIN. No, Zelinda, v'ingannate, vi amo sempre più, e non cesso di ringraziare il cielo che siate mia.

ZEL. Ma da che proviene questa vostra tristezza?

LIN. Non so; ho qualche cosa che mi dà pena... Vedete bene, mio padre non ha voluto approvare il mio matrimonio. Malgrado le lettere e le preghiere del signor Don Roberto, non ha voluto riconoscervi ancora per nuora, non mi ha ancora assegnato niente per vivere, e siamo tuttavia obbligati a servire.

ZEL. Sì, è vero; ma la servitù è sì dolce, e per voi, e per me! Questo nostro padrone amabile, che ci ha sempre dolcemente trattati, ora che siamo sposati ci ama sempre più, e ci tiene in casa come figliuoli. Ringraziamo la provvidenza, e non ci affliggiamo fuor di proposito.

LIN. Ah Zelinda mia, voi non mi parlate che delle rose ed io sento al cuore le spine.

ZEL. Oh si sa che non si possono aver le rose senza le spine. Ma vi sono degli sfortunati che hanno le spine senza le rose.

LIN. (S'ella sapesse il tormento ch'io provo, non parlerebbe così.) (scrive)

ZEL. Vi assicuro ch'io non posso desiderarmi maggior contentezza. Vi ricordate quanto abbiamo sofferto, quante lacrime abbiamo sparse? Finalmente siamo arrivati al colmo della nostra felicità. Che bel piacere per me l'essere qui con voi, senza timor, senza soggezione, e lavorare con voi, e lavorare per voi; ecco qui, mirate le belle camicie ch'io sto facendo. Sono per il mio caro marito.

LIN. Vi ringrazio, la mia Zelinda, vi ringrazio di cuore, ma sarei più contento se ci fosse permesso di vivere altrove, e di poter uscire di questa casa.

ZEL. Scusatemi, Lindoro mio, io non capisco come possiate odiare una casa in cui abbiamo avuto tanto bene, e dalla quale ne possiamo sperare d'avvantaggio. Il signor Don Roberto ci ha promesso beneficarci col suo testamento, ed è uomo da farlo, e son sicura che lo farà.

LIN. (da sè scrivendo) (Tutto il bene ch'egli può farmi non vale l'inquietudine ch'io soffro. Quanto amo il padre, odio altrettanto il di lui figliuolo.)

ZEL. Questa è veramente una casa adorabile: è vero che la padrona è al solito un poco inquieta, che non mi vede ancor di buon occhio, ma non mi tormenta più come faceva una volta: Don Flaminio poi ha per me una bontà, e posso dire un rispetto, che non si può desiderar d'avvantaggio.

LIN. (Ah, questo è quello che mi tormenta.) Vi pare dunque che Don Flaminio abbia della bontà per voi?

ZEL. Sì, certo, moltissima.

LIN. (con un po' d'ironia) Aveva per voi la stessa bontà prima che diveniste mia moglie.

ZEL. Oh sì, è vero. Ma la cosa è assai differente. Allora mi amava con un'altra intenzione. Ora è totalmente cangiato. È veramente un giovane savio, civile, onorato. Si unisce al padre nel desiderio di farmi del bene, e dopo ch'io son maritata, tutto l'amore ch'aveva per me, l'ha cangiato in vera e perfetta stima.

LIN. (Questo è quello ch'io non credo.) (scrive)

ZEL. Io vi conosco assai ragionevole, e son certa che non vi resterà alcun sospetto sopra di lui.

LIN. (Ah pur troppo ho dei sospetti che mi tormentano!) (scrive)

ZEL. Tanto più che quest'è un torto che fareste a me.

LIN. (È vero, ma non me ne posso ancor liberare!) (scrive)

ZEL. Non dite niente? non rispondete? Sareste mai per avventura dubbioso?...

LIN. Sono occupato a scrivere, quest'è la ragione per cui non parlo.

ZEL. Non credo mai che il mio caro Lindoro...

LIN. Lasciatemi terminar questa lettera.

ZEL. Fate pure, non vi voglio sturbar d'avvantaggio. (No, no, non v'è pericolo. Lindoro mi ama, mi conosce perfettamente, non può sospettare di me.)

SCENA II

Fabrizio e detti.

FAB. Lindoro, il padrone vi domanda.

LIN. Qual padrone?

FAB. Il signor Don Roberto. Non sapete che il signor Don Flaminio è in campagna? Che il padre lo ha mandato a vendere il grano ed il vino della raccolta?

LIN. Sì, è vero, non me ne ricordava.

FAB. Andate dunque...

LIN. Non mi mancano che due righe a terminar questa lettera. (scrive)

FAB. Finitela, e andate. Il padrone ha bisogno di voi.

LIN. (scrivendo) (Ho gran sospetto sopra costui.)

FAB. (piano a Zelinda) (Ho un affar di premura da comunicarvi.)

ZEL. (piano a Fabrizio) (Ditelo...)

FAB. (piano a Zelinda)(Ora non posso.) Bellissima questa tela. Sono camicie per il padrone?

ZEL. No, sono per mio marito.

FAB. Brava. Gran donnetta di garbo! Gran buona moglie! In verità, Lindoro, non posso cessare di consolarmi con voi. Non si può dare un matrimonio meglio assortito di questo.

LIN. (da sè) (Così parlava costui anche quando m'insidiava Zelinda.)

ZEL. (da sè) (Son curiosa d'intendere che cosa ha da comunicarmi.)

FAB. Ma via, Lindoro, spicciatevi. Sapete che il padrone è buono, ma l'aspettare l'inquieta.

LIN. Vi preme molto ch'io vada. Ci avete voi qualche parte in questa premura?

FAB. Io non ho altra parte, che quella del desiderio che vi facciate sempre più ben volere.

LIN. (Se non lo conoscessi, forse, forse mi fiderei.)

FAB. Via, vedo che la lettera è finita.

LIN. È finita. Ma il padrone mi ha ordinato di fare un conto, e vorrei portarglielo fatto.

FAB. Che conto è? Andate, lo farò io, e ve lo porterò.

LIN. (Sempre più mi mette in sospetto.)

ZEL. Ma via, caro Lindoro, andate. Se il padrone vi domanda, non è dovere che lo facciate aspettare.

LIN. (con forza) Ma se deggio far questo conto...

ZEL. (con vivacità) Ma se Fabrizio s'esibisce farlo per voi...

FAB. Sì, col maggior piacere del mondo. (s'accosta al tavolino) Date qui, ve lo porto immediatamente.

LIN. Dirà il padrone ch'io non sono capace...

ZEL. (con del calore) Ma quante difficoltà inutili per non andare! Io non so... In verità, Lindoro, voi mi fareste pensar delle cose...

LIN. (s'alza) Via via, non v'inquietate. Vi preme ch'io vada? anderò.

ZEL. Mi preme che facciate il vostro debito.

LIN. (si stacca dal tavolino) Il mio debito? lo farò.

FAB. Dov'è questo conto?

LIN. Eccolo qui.

FAB. Volete ch'io lo faccia?

LIN. Tutto quel che vi piace. (Convien dissimulare fino ch'io giunga ad assicurarmi di qualche cosa.) (parte)

SCENA III

Zelinda sempre a sedere e lavorando, e Fabrizio

FAB. Che ha Lindoro che mi pare confuso e agitato?

ZEL. Poverino! lo compatisco. Gli sta sul cuore suo padre... Ma dite, che cos'avete da comunicarmi?

FAB. Un affare di conseguenza.

ZEL. Che riguarda me, o mio marito?

FAB. No, che riguarda il signor Don Flaminio, e tutta questa famiglia.

ZEL. Credeva, in verità, fosse qualche cosa che c'interessasse, e che voleste avvertirmi segretamente prima di farlo sapere a Lindoro. Ma se la cosa è diversa, perchè non dirmela alla presenza di mio marito?

FAB. Vi dirò. Io ho tutta la stima per lui, ma trattandosi d'una cosa importante che dimanda rigorosamente il segreto, scusatemi, io non mi voglio fidar che di voi.

ZEL. Lindoro non è capace...

FAB. Lo so benissimo, ma alle volte... Per accidente... Si parla...

ZEL. Bene, ch'è dunque questo grand'affare?

FAB. Datemi parola di non parlare.

ZEL. Credo che mi conosciate abbastanza...

FAB. Sì, ma datemi la vostra parola d'onore.

ZEL. In parola d'onore, non parlerò.

FAB. Ora sono contento. Voi sapete, Zelinda, che la signora donna Eleonora ama pochissimo il signor Don Flaminio.

ZEL. L'ama, come le matrigne sogliono amare i figliastri.

FAB. Sapete ancora, che per allontanarselo dagli occhi ha proposto un matrimonio per lui d'una vedova ricca, e che sposandola, andrà egli ad abitare in casa della consorte.

ZEL. (con un po' di caricatura) Lo so benissimo, e so che questo trattato è passato per le mani di Don Filiberto, antico amico di Donna Eleonora.

FAB. E il padron v'acconsente...

ZEL. Per l'importunità della moglie.

FAB. Ora sappiate che il signor Don Flaminio ha un amore segreto che non lo lascerà aderir certamente al matrimonio che gli propongono.

ZEL. È naturale. Un giovane non può non avere qualche amoretto, e non vorrà sposare una vecchia.

FAB. Ma il male si è, che quest'amore non è degno di noi, e guai se il padre lo venisse a scoprire.

ZEL. Tanto peggio, me ne dispiace infinitamente.

FAB. Non potreste mai immaginarvi di chi egli si sia innamorato.

ZEL. Di chi mai? La conosco io?

FAB. La conoscete sicuro.

ZEL. E chi è?

FAB. La signora Barbara.

ZEL. La Virtuosa di musica?

FAB. Quella appunto.

ZEL. Come mai? non si è ella chiamata affrontata, allora quando io era da lei in figura di cameriera, e Don Flaminio è venuto per me, fingendo venire per lei?

FAB. È verissimo, ma appunto da quest'accidente...

ZEL. E non l'ha ella licenziato di casa sua con rimproveri e villanie?

FAB. Appunto da quest'accidente, vi dico, è derivata la loro amicizia, e dall'amicizia l'amore. In somma le cose sono arrivate a segno ch'io credo assolutamente ch'ei la voglia sposare.

ZEL. Oh! questa è una cosa che mi dispiace infinitamente. Se lo sa Don Roberto, se lo penetra donna Eleonora, io prevedo tutta la famiglia in disordine, in iscompiglio.

FAB. Vedete, se la cosa merita il segreto!

ZEL. Io l'osserverò certo gelosamente. Ma con qual fondamento credete voi ch'ei la voglia sposare?

FAB. Lo credo perchè lo conosco, e so che quando ama, lo fa con tutt'i sentimenti del corpo, e poi... mi ha scritto una lettera di campagna, con una inclusa per consegnare alla cantatrice.

ZEL. Gliel'avete portata?

FAB. No; ma spinto dalla curiosità, da una curiosità per altro onestissima, perchè prodotta da zelo di buon servitore, ho aperto la lettera...

ZEL. Bravissimo, e che cosa dice?

FAB. Non l'ho capita perfettamente, perchè è scritta in francese.

ZEL. Datela a me, datela a me, che capisco bene il francese.

FAB. Lo so, e per questo ho voluto comunicarvela. Eccola qui, questa è la lettera che scrive a me, e questa è l'inclusa che doveva consegnare...

ZEL. E che avete aperto.

FAB. Sì, se il padrone lo sapesse, povero me; ecco un altro motivo per cui mi preme che non si sappia.

ZEL. Avete ragione. Il padrone per lo meno vi licenzierebbe dal suo servigio.

FAB. Vedete un poco s'io m'inganno, se vi sono nella lettera delle cose forti che dimostrano la loro intenzione.

ZEL. La lettera non ha soprascritta.

FAB. L'ho levata io quando l'ho dissigillata. Eccola qui nella mia. (la fa vedere)

ZEL. Osservo che non l'ha nemmen sottoscritta.

FAB. In questo ha fatto bene, se la lettera si perdesse...

ZEL. E non mi pare nemmeno il di lui carattere.

FAB. No, certamente, non è il suo. O l'ha alterato, o ha fatto scrivere da un altro.

ZEL. E non potrebbe la signora Barbara avere qualch'altro amante?...

FAB. Lo potrebbe avere; ma la lettera che scrive a me, parla chiaro. «V'incarico, e vi prego di portare subito questa mia lettera inclusa alla signora Barbara, e consegnarla in proprie sue mani». (leggendo la sua lettera)Questo è carattere suo. (la fa vedere)

ZEL. È verissimo. Vediamo un poco che cosa scrive. Guardate che non venisse qualcuno a sorprendermi.

FAB. Sì, avete ragione. (guarda da diverse parti, e intanto Zelinda legge piano, e mostra qualche maraviglia)(Se il padrone lo sapesse... eppure io lo faccio per bene. Ma il bene, se non comoda, non si gradisce.) (forte a Zelinda) Non vi è nessuno.

ZEL. Ho letto. Avete ragione. Si conosce che l'amore è molto avanzato, e conoscendo il carattere onesto della Virtuosa, non si può credere che il disegno d'un matrimonio.

FAB. Come mai si potrebbe fare per rimediarvi?

ZEL. Lasciate operare a me; lasciate a me questa lettera. Parlerò io a Don Flaminio. (la mette sul tavolino sotto la cestella)

FAB. Mi pare, se male non ho capito, ch'egli prometta alla cantatrice di venire segretamente in città.

ZEL. Sì, è vero; quando avete ricevuto la lettera?

FAB. Jeri sera.

ZEL. Promette di venir oggi.

FAB. E se viene, e se va da lei...

ZEL. State attento, e avvisatemi. Non avrò alcun riguardo di andar io stessa a trovarlo, a sorprenderlo, a parlare a lui, a parlare a lei, a disingannarli, a convincerli. Sono troppo interessata per questa famiglia. Lasciatemi operare, e ne vedrete l'effetto.

SCENA IV

Lindoro e detti.

LIN. (da sè) (Eccoli qui in conferenza ancora. Cospetto, hanno de' gran segreti.) (resta in disparte)

FAB. Non ci vuol meno della vostra condotta, della vostra politica, per condurre questa faccenda.

ZEL. Spero che all'ultimo il signor Don Flaminio sarà contento di me.

LIN. (Sarà contento di lei?)

FAB. Ma sopra tutto che Don Roberto non sappia niente.

ZEL. Non saprà niente.

FAB. E che non sappia niente Lindoro.

ZEL. Vi ho data la parola d'onore, non lo saprà.

LIN. (Oh cieli! sono in un mare di confusioni.) (si ritira)

ZEL. Orsù, andate, prima che arrivi qualcheduno.

FAB. Vado, e mi raccomando alla vostra prudenza... Ma io aveva promesso a Lindoro di far per lui questo conto. Presto, presto, mi spiccerò. (va a sedere al tavolino)

LIN. (La conferenza è finita, o per amore o per forza, Zelinda me ne dirà il risultato.) (s'avanza)

FAB. (da sè, scrivendo e mostrando di non vederlo) (Eccolo qui, abbiamo finito a tempo.)

ZEL. (da sè, mostrando di non vederlo (Manco male che non è venuto a sorprenderci nel calor del discorso.)

LIN. (da sè)(Avrei bisogno anch'io di politica in quest'incontro, ma non ne sono troppo capace.) (a Fabrizio seriamente) Ebbene, avete finito il conto?

FAB. Ci sono dietro. (scrivendo e conteggiando presto)

ZEL. (a Lindoro lavorando) Cosa voleva il signor Don Roberto?

LIN. (a Zelinda con serietà)Aveva una lettera da mostrarmi. (a Fabrizio un poco forte) Come, un uomo d'affari come voi, in tanto tempo che siete qui, non avete ancora finito un conto di nulla?

FAB. L'ho fatto; ma non va bene.

LIN. (con dispetto) Ho capito, lasciate, lasciate, lo farò io.

FAB. Or ora ve lo do terminato.

LIN. (bruscamente) Vi dico che lo voglio far io.

FAB. (s'alza) Ebbene, fatelo, se volete. Io non credo di meritarmi per questo...

LIN. (pacificamente)Scusatemi; ma in materia di conti, ci ho anch'io la mia pretensione. (da sè) (Mi sforzo a dissimulare; ma non ci riesco.)

FAB. So che siete abile in tutto. Io lo faceva solamente per sollevarvi...

LIN. (siede ed osserva) Sì, vi sono obbligato. (da sè)(Indegno non l'ha nemmen principiato.)

FAB. (È sospettoso all'eccesso. Manco male che non sa niente.) (parte)

SCENA V

Lindoro al tavolino che conteggia, Zelinda lavora.

ZEL. Che lettera vi ha fatto vedere il signor Don Roberto?

LIN. Voi volete sapere che cos'ha voluto il signor Don Roberto; mi domandate che lettera m'ha egli dato ed io all'incontro non vi domando cosa voleva da voi Fabrizio, e quali discorsi v'ha tenuti mentre io non c'era.

ZEL. Fabrizio?... da me non voleva niente. Non mi ha tenuto alcun discorso che meriti d'essere riportato.

LIN. (s'alza) Zelinda mia, non mi fate mistero di quelle cose che mi possono dar sospetto.

ZEL. (mette giù il lavoro) Mistero? di che? di che potete voi sospettare?

LIN. (avanzandosi) Non crediate ch'io parli a caso; sono arrivato in tempo che Fabrizio vi parlava segretamente e, grazie al cielo, ho buon orecchio per intendere qualche cosa.

ZEL. (s'alza) Voi non potete aver inteso alcuna cosa che vaglia ad offendervi, e nemmeno a porvi in sospetto.

LIN. Ditemi un poco, signora mia, qual è quell'affare che non dee esser saputo nè da me, nè dal signor Don Roberto?

ZEL. Lindoro, credo che voi mi conosciate abbastanza.

LIN. Sì, ma vi domando...

ZEL. Credo che vi possiate fidare di me.

LIN. Rispondetemi a tuono. Cosa sono questi segreti?

ZEL. Non v'è niente che v'interessi, non v'è niente che vi appartenga. Sono una donna d'onore, e mi fate torto se dubitate.

LIN. Sarà vero tutto quello che voi mi dite, ma non mi potrete negare che Fabrizio non v'abbia confidato qualche segreto.

ZEL. Sì, è vero, non ve lo nego.

LIN. E perchè la moglie non lo può confidare al marito?

ZEL. Perchè ho dato la mia parola d'onore di non parlare con chi che sia.

LIN. E nemmeno con me?

ZEL. Con chi che sia.

LIN. Orsù, questa non è la maniera di procedere d'una moglie saggia ed onesta.

ZEL. Lindoro, voi m'offendete.

LIN. È maggiore di molto l'offesa che mi fate voi.

ZEL. Che offesa? che parlate d'offesa? Non sarebbe niente se non aveste contro di me del sospetto; e il vostro sospetto è parte di poco amore, e sono parecchi giorni che m'accorgo della vostra freddezza. Povera me! chi l'avrebbe mai preveduto? Dopo un mese di matrimonio...

LIN. Non v'è bisogno di tante smanie. Con due parole voi mi potete render tranquillo.

ZEL. Che non farei per il mio caro marito?

LIN. Ditemi quel che vi ha detto Fabrizio.

ZEL. Credete voi che sia una donna d'onore?

LIN. Lo credo.

ZEL. Credete voi che una donna d'onore possa mancare alla sua parola?

LIN. Queste sono delicatezze...

ZEL. Sì, sono delicatezze, necessarie, immancabili a chi ha stima di sè e della propria riputazione. Son sicura di non offendervi, son sicura dell'onesto modo mio di pensare e di agire, e non parlerò. Voi m'insultate; ma pazienza! Un giorno verrete in chiaro della verità, e vi pentirete d'avermi insultata.

LIN. Quanto più vi difendete, tanto più mi date adito di dubitare.

ZEL. Dubitare di me?

LIN. Dubitare di voi.

ZEL. Ingrato.

LIN. E non crediate di mettermi in soggezione perchè siete protetta dal padrone di questa casa... (scaldandosi)

ZEL. Lindoro, voi eccedete ne' termini.

LIN. Non ho bisogno nè di voi, nè di lui. (si scalda ancora più)

ZEL. Per amor del cielo, Lindoro...

LIN. E voglio ad ogni costo di qua sortire. (più caldo)

ZEL. Quietatevi, che maniera è questa?

LIN. Son padrone di dirlo, di farlo, e non ci starò.

SCENA VI

Don Roberto e detti

ROB. Cos'è questo strepito? Cosa sono questi gridori?

ZEL. Niente, signore, niente.

LIN. Niente, ella dice; ed io dicovi che v'è qualche cosa e qualche cosa di conseguenza.

ROB. (con agitazione) Ed in qual proposito?

ZEL. Signore, son disperata. Lindoro non ha più per me nè amore, nè stima, nè carità.

ROB. Vostro danno: l'avete voluto a forza. L'ho preveduto che ve ne sareste pentita.

ZEL. (con tenerezza) Ah! non signore, non sono pentita; se non l'avessi sposato, lo sposerei.

ROB. (a Lindoro) Sentite, ingrato, sentite?

LIN. Ella non ha motivo d'essere di me scontenta.

ROB. E voi qual ragione avete per essere malcontento di lei?

LIN. Ne ho più di quello che voi pensate.

ROB. Zelinda non è capace...

LIN. Di che non è ella capace? Signore, voi non la conoscete.

ZEL. Ah Lindoro, volete voi farmi perdere la grazia e la protezione di quest'amabile mio padrone?

LIN. Voglio uscire di questa casa.

ZEL. Povera me!

ROB. Uscire di questa casa? Per qual motivo?

LIN. Perchè Zelinda e Fabrizio hanno de' segreti fra loro che non devono penetrarsi nè da voi, nè da me.

ROB. (a Zelinda) Nè da lui, nè da me?

ZEL. Signore...

LIN. (a Don Roberto) E siamo entrambi traditi.

ROB. (a Lindoro) Da chi?

LIN. Da questa femmina che voi credete sì virtuosa.

ROB. Zelinda... (voltandosi verso di lei)

ZEL. Ah signore, sono innocente, ve l'assicuro.

LIN. (a Don Roberto) Domandatele se ha de' segreti con l'amico Fabrizio.

ROB. Zelinda... (verso di lei, con affanno)

LIN. (a Don Roberto) Domandatele per qual ragione non si hanno a sapere questi segreti nè da voi, nè da me?

ROB. Ah Zelinda, è tutto vero quello ch'ei dice?

ZEL. Sì signore, è la verità. Fabrizio mi ha confidato qualche cosa, e m'ha raccomandato il segreto, ed io ho giurato di non parlare. Volete voi ch'io manchi al mio giuramento? Che io tradisca la parola di onore? Mi consigliate voi ch'io lo faccia? Mi assolverete voi da una taccia villana, indegna, condannabile in chi che sia? Sareste voi per avventura di que' che dicono che le donne non son in obbligo di mantener la parola? Non vi credo di ciò capace, ma quando mai la curiosità o la passione vi facesse così pensare a riguardo mio, permettetemi ch'io vi dica, che l'onore è comune a tutti; che chi manca, manca per debolezza, per viltà, per difetto, e che le donne di spirito non sono meno secrete, e meno delicate degli uomini.

ROB. Sentite le sue ragioni?

LIN. Ne siete voi persuaso?

ROB. Io sì.

LIN. Ed io no. I segreti si devono custodire quando non recano danno, o pregiudizio, o inquietudine alle persone, alle quali siamo attaccati per debito e per giustizia. Zelinda non poteva impegnarsi alla segretezza per una terza persona, in pregiudizio del suo padrone, e di suo marito.

ROB. (a Zelinda) Lindoro in questo non dice male.

ZEL. (a Don Roberto) Vi dico, vi giuro, e vi protesto, che ciò non reca alcun danno nè a voi, nè a lui.

LIN. (a Don Roberto) Ella lo dice, ed io nol credo; e voi non dovete crederlo, e dovete obbligarla a parlare.

ROB. Via Zelinda, vostro marito lo vuole; il vostro padrone vi prega. Siamo due persone discrete, promettiamo a voi la medesima segretezza che voi prometteste a Fabrizio. Diffiderete voi di due persone che vi amano?

ZEL. (da sè) (Oh cieli, se parlo, semino la discordia in questa famiglia. Se taccio sono in pericolo d'essere maltrattata. Non so che fare, non so che risolvere... Sì, il ripiego non è cattivo.) Fate così, signore, parlatene voi con Fabrizio; s'ei mi dispensa, s'egli l'accorda, sono pronta a dirvi la verità. (da sè) (Son sicura che Fabrizio non parlerà.)

ROB. (a Lindoro) Dice bene Zelinda, dice benissimo. Fabrizio è fuori di casa, subito ch'ei sarà ritornato, gli parlerò.

LIN. Una moglie non ha da dipendere da chi che sia per obbedire al marito.

ZEL. Nè un marito può obbligare la moglie a mancare alle leggi dell'onore, dell'urbanità, della convenienza.

LIN. Eccola l'ostinata, la perfida, la menzognera.

ROB. (a Lindoro) Portatele rispetto. La conosco, e non son persuaso che ella sia capace di pensar male.

LIN. Io sono persuaso diversamente, e la farò parlar suo malgrado.

ROB. Come! ardireste minacciarla?

LIN. Ella è mia moglie, ed io solo ho sopra di lei l'autorità ed il potere.

ROB. Mi maraviglio di voi...

ZEL. Ah, signore, per questa parte Lindoro ha tutte le ragioni del mondo. Egli è mio marito, egli è padrone di mortificarmi.

ROB. Povera sfortunata!

LIN. Sono io più sfortunato di lei. Io che ho rinunziato alla casa paterna, che mi sono assoggettato alla dipendenza per una perfida, per un'indegna...

ZEL. Ah Lindoro, per carità...

ROB. (a Zelinda prendendola per la mano) Non posso più tollerarlo. Venite meco.

LIN. Servitevi come vi piace; non mi userete più lungamente simili soverchierie.

ROB. Temerario! (tira a sè Zelinda) Andiamo.

ZEL. (fa forza per non andare) Ah no, signore...

ROB. (tirandola) Andiamo, vi dico.

LIN. Andate, andate. Ci parleremo.

ZEL. (a Don Roberto tentando di liberarsi) Un momento di tempo.

ROB. No, non vi lascio in balia d'un furioso. Andiamo.

ZEL. (Oh Dio! Vorrei ricuperare la lettera.) (tenta di liberarsi) Permettetemi. Sono con voi.

ROB. Eh, non mi fate perdere la pazienza. (la tira con forza, e parte con Zelinda)

SCENA VII

Lindoro solo.

Ecco qui, in questa casa non son padrone di comandare a mia moglie: a poco a poco ella mi perderà il rispetto e l'amore. Ma che dico io dell'amore? Questo me l'ha perduto del tutto. S'ella m'amasse, non tratterebbe meco così. Ha dei segreti con uno ch'è stato il mio più fiero nemico, con uno che doppiamente mi ha offeso, tentando di levarmela per farla sua, e secondando apparentemente l'inclinazione di Don Flaminio! Ah sì, nessuno mi leverà dalla testa, che Don Flaminio non l'ami ancora, ch'egli non seguiti ad insidiarla come faceva, e che Fabrizio non sia il mezzano di questa tresca. Ed io resterò in questa casa a fronte di due nemici dell'onor mio? Soggetto ad un padrone che si burla di me, e mi vieta d'usare quell'autorità ch'ogni legge m'accorda? No, assolutamente, non lo vo' più soffrire. Voglio sortire di questa casa, Zelinda è mia: mi dovrà seguitare. L'amo ancora questa perfida, questa ingrata; sì, l'amo ancora, e l'amo sempre a dispetto mio. Ma sia di me quel che piace al destino, voglio andarmene immediatamente. Son giovane, non manco d'abilità; mio padre non mi potrà negar gli alimenti. La Provvidenza non manca a nessuno: nasca quel che sa nascere, si ha da partire. Unirò le mie poche robe... Ha detto che queste camicie sono mie, non le lascerò. (va mettendo la biancheria nella cesta)Con quanto amore mostrava ella di lavorare per me! quanta tenerezza pareva ch'ell'avesse per suo marito! Ecco cosa sono le donne! Sanno fingere a questo segno. (levando l'ultima camicia, trova la lettera)Che cos'è questa carta? Pare una lettera: ma non v'è soprascritta, e non ci vedo sottoscrizione. Vediamo. Non la capisco. Pare scritta in francese. Sfortunatamente per me, non capisco il francese. Ma chere a mie. (legge all'italiana)Non comprendo cosa voglia dire questo ma chere. Oh quanto pagherei di poter capire! Scommetto che in questa carta si contiene il segreto che le ha comunicato Fabrizio. Scommetto ch'è una lettera di don Flaminio. Zelinda intende il francese perfettamente, sa ch'io non l'intendo, e si fida di potermi meglio deludere ed ingannare, altrimenti non l'avrebbe lasciata qui. Ma non potrei io ingannarmi? Non potrebbe essere una carta semplice ed indifferente? Che mai vuol dire? Ma chere a mie? cercherò un dizionario. Verrò in chiaro della verità. Sono in sospetto, ho ragione di esserlo, e vo' tentar di chiarirmi. (continua a mettere nella cesta, e si mette la lettera in saccoccia)

SCENA VIII

Don Filiberto ed il suddetto.

FIL. Oh, signor Lindoro, buon giorno a vossignoria.

LIN. (badandogli poco) La riverisco divotamente.

FIL. State ben di salute?

LIN. (come sopra) Per servirla.

FIL. Come sta la vostra sposa?

LIN. (come sopra) Per obbedirla.

FIL. (da sè) (Ha qualche cosa per il capo.)

LIN. (da sè) (Non posso più soffrire nessuno.)

FIL. Scusatemi. La signora donna Eleonora è in casa?

LIN. (come sopra) Non lo so, signore; so ch'ell'era sortita. Non so se sia ritornata.

FIL. Avrei bisogno di vederla. Se ci fosse qualcheduno che mi sapesse dire se c'è...

LIN. (da sè) (Mi viene in mente una cosa. Se il signor Filiberto intendesse il francese, gli potrei far leggere questa carta... Ma se vi fossero cose che m'offendessero...)

FIL. Ditemi almeno dove posso trovare un servitore, o una serva.

LIN. (da sè) (Sia quello ch'esser si voglia, la mia curiosità supera ogni altro riguardo.)

FIL. (da sè, in atto di partire) (Ha più del villano che del galantuomo).

LIN. Signore.

FIL. Vedo che non mi badate.

LIN. Vi domando perdono. Scusate la mia distrazione. Ho qualche cosa che mi molesta.

FIL. Me ne sono avveduto. Vorrei solamente sapere se la signora donna Eleonora sia ritornata. Non vorrei andare inutilmente al suo appartamento.

LIN. Andrò io medesimo a vedere se c'è.

FIL. Vi sarò obbligato.

LIN. Ma vorrei supplicarvi d'una finezza.

FIL. Comandatemi. In quello ch'io posso, vi servirò.

LIN. Scusatemi. Sapete legger francese?

FIL. Sì, certo; un negoziante ha bisogno di conoscere questa lingua.

LIN. Mi fareste la grazia di leggermi una carta scritta in francese?

FIL. Volentieri.

LIN. Ma di leggerla in italiano!

FIL. Voi non lo capite il francese?

LIN. No, signore, non lo capisco.

FIL. Quest'è male, figliuolo mio. Un giovane come voi, che esercita l'impiego di segretario...

LIN. Signore, io non sono fatto per tale impiego: spero di liberarmi quanto prima.

FIL. Non importa. Sapete che in oggi la lingua francese è la lingua del mondo, la lingua delle grazie, delle bellezze. Imparatela, che vi farà onore, e ne sarete contento.

LIN. Sì, signore, l'imparerò, ma intanto vi prego di leggermi questa carta. (gliela dà)

FIL. È una lettera?

LIN. Mi pare di sì.

FIL. Ma chere amie. (pronunzia il c e l' h alla francese)

LIN. Dice ma scer'amie?

FIL. (come sopra) Ma chere amie.

LIN. Io leggeva diversamente.

FIL. Il ch in francese si pronuncia sce.

LIN. E in italiano vuol dire?

FIL. Mia cara amica.

LIN. (con maraviglia) Mia cara amica!

FIL. Sapete voi a chi è diretta la lettera?

LIN. (da sè) (Mia cara amica!)

FIL. (scorre la lettera coll'occhio leggendo piano qualche parola.)

LIN. Se dice mia cara amica, sarà diretta a qualche donna.

FIL. Non v'è dubbio nessuno.

LIN. E... sarà probabilmente una donna quella che scrive.

FIL. Vi dirò, ho scorso coll'occhio per rilevare il contesto, e capisco ch'è un uomo che scrive, e che la lettera è tenera ed amorosa.

LIN. (con ansietà) È un uomo che scrive? E la lettera è tenera ed amorosa? Favorite di leggere, vi prego, ma di leggerla in italiano.

FIL. Non vorrei che mi faceste fare una mal'opera.

LIN. Signore, son galantuomo, e non son capace di compromettervi in cosa alcuna.

FIL. Io non so di che si tratti. Non so chi scrive, sono indifferente, e vi servirò. (legge) «Non posso vivere da voi lontano...»

LIN. È lontano chi scrive?

FIL. Così dice.

LIN. (Ecco il segreto). Leggete. (Ah è Don Flaminio senz'altro.)

FIL. «Verrò domani segretamente per abbracciarvi...»

LIN. Verrà domani? quando è datata la lettera?

FIL. Vediamo: il giorno dieci di questo mese.

LIN. (da sè) (Oggi ne abbiamo undici; oggi è la giornata appuntata. Ecco il segreto, ecco l'infedeltà, ecco verificato il sospetto.)

FIL. Volete altro?

LIN. C'è altro?

FIL. Ce n'è ancora.

LIN. (agitato) Favorite di seguitare.

FIL. «Vi prego di concertare col portator di questa lettera il modo di trovarsi insieme in luogo sicuro per non dar sospetto...»

LIN. (Ecco se il mio sospetto è ragionevole e giusto. Fabrizio è il portator della lettera, questo è il segreto, ne son sicuro. Povero me! L'onor mio, l'amor mio, la mia pace... tutto è finito, tutto è perduto.)

FIL. Amico, vedo che questa lettera v'inquieta infinitamente. Saprete chi la scrive, ed a chi è diretta.

LIN. Signore... Vi supplico di terminarla.

FIL. Ci siamo: finiamo. «V'assicuro del costante amor mio...»

LIN. (ironicamente) Benissimo.

FIL. «Son pronto a darvene le prove le più convincenti...»

LIN. A maraviglia.

FIL. «Voi siete l'unica mia speranza, e da voi dipende la mia felicità e la mia vita.»

LIN. Ah! perfidi, me la pagherete.

FIL. Ma questa lettera a chi è diretta?

LIN. A chi è diretta? Sì, lo dirò. Chi non ha cura dell'onor suo, non merita che si risparmi. Questa lettera è diretta a mia moglie. (con sdegno, e strappa di mano la lettera a Don Filiberto)

FIL. A vostra moglie? (con maraviglia)

LIN. A mia moglie. (sospirando)

FIL. Ma ne siete sicuro?

LIN. Ah! pur troppo, tutte le combinazioni, tutte le circostanze me ne assicurano.

FIL. Questa è una cosa che mi sorprende. E chi pensate voi che le scriva?

LIN. Non può essere che Don Flaminio.

FIL. Oh, non posso crederlo.

LIN. Ed io lo credo, e ne sono quasi sicuro.

FIL. Don Flaminio è in contratto di sposare una vedova.

LIN. Che importa questo? Chi è capace di amare una femmina maritata...

FIL. Via, via, Lindoro, non parlate così, non pensate sì male, non vi lasciate trasportare dalla passione, dalla gelosia. Vostra moglie, per quello che dicono, è stata sempre una giovine saggia ed onesta. Don Flaminio è un uomo d'onore.

LIN. Tant'è, signore, penso così, ho fissato così, e senza una dimostrazione in contrario, senza una chiara e convincente prova che mi disinganni, non lascierò di credere che Zelinda m'inganna, che Don Flaminio m'insulta, che Fabrizio n'è il mediatore, e ch'io sono il più infelice degli uomini, il più tradito, il più offeso, il più disgraziato marito.

FIL. Non so che dire; mi dispiace infinitamente di vedervi in tali inquietudini. Volete voi ch'io ne parli? Volete ch'io m'interessi per voi?

LIN. Quando volete graziarmi, di questo solo vi prego. Fatemi ottenere la mia licenza. Non voglio più restare in una casa, ove pericola l'onor mio.

FIL. Bene, parlerò, e ci rivedremo. Vorrei vedere donna Eleonora.

LIN. Scusatemi, signore, s'io non monto le scale; sono sì agitato, sì afflitto...

FIL. Restate, restate, se non troverò nessuno, salirò io. Povero giovane! vi compatisco. (Ecco quanto durano le gioje e le consolazioni del matrimonio.) (parte)

SCENA IX

Lindoro solo.

Ah sì, merito bene d'essere compatito e compianto. Chi l'avrebbe mai detto? Una giovane ch'ho amato, posso dir, dall'infanzia. Obbligata dalle disgrazie della sua casa ad abbandonare la patria, la lascio io pure, e l'abbandono per lei. Costretta ella a servire, mi assoggetto io medesimo alla servitù. Sono per sua cagione villanamente scacciato, m'espongo a de' nuovi insulti, soffro per lei l'indigenza, il rossore, i pericoli. Arrischio la vita, sono posto in prigione, tutto soffro pazientemente, e finalmente la sposo, e finalmente mi credo al colmo della contentezza, del piacere, della felicità. Misera condizion de' mortali! Sparì la mia contentezza come il chiaro d'un lampo, perì il piacere come un fiore di primavera. La mia felicità non fu che un'ombra fugace, che un'illusione, un fantasma, un sogno. Zelinda infedele? Oh cielo, in quale abisso di pene mi getta un'immagine sì dolorosa? Ecco, ecco le spine senza rose. Le rose sono sparite, e le spine mi trafiggono il core.

Fine dell'Atto primo.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Don Filiberto solo.

Ecco fatte inutilmente le scale, ecco perduto il tempo senza poter vedere donna Eleonora. Non è ritornata, e sa il cielo quando ritornerà. Parmi di veder qualcuno. Sì, è il mastro di casa. (chiamandolo) Signor Fabrizio!

SCENA II

Fabrizio e detto.

FAB. Mi comandi.

FIL. Scusatemi se vi do un incomodo.

FAB. Mi maraviglio: sono a servirla. (da sè) (Bisogna trattarlo bene per non essere mal veduto dalla padrona.)

FIL. La signora non è in casa; io non ho il tempo per aspettarla; vorrei pregarvi di dirle ch'io sono stato per riverirla, e per darle la risposta definitiva dell'affare che m'ha fatto l'onore di raccomandarmi.

FAB. Perdoni, signore, non è ch'io voglia mischiarmi negl'interessi de' miei padroni, ma se la dimanda è lecita, di qual affare si tratta? Scusi, ho le mie ragioni per dimandarglielo.

FIL. Non so s'ella voglia che ciò si sappia da tutto il mondo. Ditele dell'affare della vedova, e questo basta.

FAB. Della vedova? Le dimando umilmente perdono. È forse la vedova ch'hanno proposto in moglie al signor Don Flaminio?

FIL. Oh siete dunque di ciò instruito?

FAB. Oh, sì, signore, li miei padroni hanno della bontà per me.

FIL. Bene dunque, si tratta di questo; e direte alla signora donna Eleonora che la vedova ha accettate tutte le proposizioni; che riceverà in casa lo sposo, che gli fa donazione d'una parte de' suoi beni, e che l'affare è concluso per parte sua.

FAB. Signore, glie lo dirò, ma, vedendo Vossignoria impegnato in questo affare..

FIL. Io ci sono impegnato in grazia di donna Eleonora.

FAB. Lo so benissimo; ma temo che non riescirà con onore.

FIL. Credete voi, che Don Flaminio ricuserà di prestarvi l'assenso?

FAB. Ne dubito fortemente. Vede bene, un giovane come lui, sposare una vecchia di sessanta e più anni...

FIL. Sì, ma è ricca, e gli farà donazione...

FAB. E che bisogno ha il signor Don Flaminio de' suoi beni, e della sua donazione? Un figlio unico d'una ricca famiglia...

FIL. Non sapete che, più che si ha, più si vorrebbe avere?

FAB. Non pensano tutti nella stessa maniera. Credetemi, signore, conosco il padrone, e so quel che dico.

FIL. Sento una carrozza fermarsi alla porta, mi pare...

FAB. Sì certo; è la padrona che torna.

FIL. (in atto di partire) Andrò a darle braccio, e le parlerò.

FAB. Non le dica niente, signore...

FIL. Eh lasciate operare a me. (parte)

SCENA III

Fabrizio, poi Zelinda

FAB. Mi pareva impossibile che questi amori non avessero da traspirare. Basta, se si sa, tanto meglio. Son contento che non si sappia per parte mia, che il padrone non s'abbia a dolere di me... Ma ecco Zelinda, è necessario ch'io l'avvertisca.

ZEL. Ricuperiamo la lettera... (vuol correre al tavolino)

FAB. (la trattiene) Zelinda...

ZEL. (affannata) Andate via.

FAB. Sappiate che or ora...

ZEL. (spingendolo) Andate via, che se ci vedono insieme...

FAB. Una parola, e vado; sappiate...

ZEL. (come sopra) Ma andate via, non mi fate più disperare.

FAB. Vado, vado. (Glie lo dirò un'altra volta). (parte)

SCENA IV

Zelinda sola.

(Corre al tavolino, e resta sorpresa vedendo la biancheria scomposta)Come! La biancheria non è più come l'ho lasciata! Le camicie... (alza la cestella)Oh cieli! dov'è la lettera? Qualcheduno l'ha presa. Ma chi? Lindoro non credo mai. Che sia caduta per terra? Mi trema il core. (cerca per terra)

SCENA V

Don Roberto e detta.

ROB. Zelinda.

ZEL. (cercando in terra senza voltarsi) Signore.

ROB. La padrona è ritornata.

ZEL. (cerca sul tavolino) Lo so.

ROB. Avrà bisogno di voi.

ZEL. Sì signore. (Dove mai può essere questa lettera?) (cerca fra le camicie)

ROB. Ma chi volete che l'aiuti a spogliare?

ZEL. Vado subito. (torna a cercar per terra)

ROB. Che cosa cercate? Che cos'avete perduto?

ZEL. Niente. (Povera me!) (seguita a cercare)

ROB. Ma voi cercate qualche cosa sicuramente.

ZEL. (da sè) (Che l'avesse presa Fabrizio? Oh sì, senz'altro, sarà egli che l'avrà presa. Voleva dirmelo, e non l'ho lasciato parlare.)

ROB. Ma che diamine avete? non mi rispondete nemmeno?

ZEL. Scusate, signore, eccomi qui. La padrona è venuta? Vado a servirla immediatamente. (in atto di partire)

ROB. Si può sapere che cosa avete perduto?

ZEL. Niente, signore, una cosa da niente.

ROB. E per una cosa da niente v'affannate così?

ZEL. Eh, signore, un animo agitato come il mio, si altera, s'inquieta per ogni picciola cosa. Son fuor di me, non so quel che mi faccia; se il cielo non m'ajuta, io sono all'ultima disperazione. (parte)

SCENA VI

Don Roberto solo.

Povera giovane! La compatisco. S'ella è innocente, come sicuramente lo credo, è cosa dura sentirsi trattar male senza ragione.

SCENA VII

Lindoro e detto.

LIN. (da sè vedendo Don Roberto) (Eccolo qui per l'appunto.) (con serietà) Servitor umilissimo, mio signore.

ROB. (con ironia) Oh, oh, la riverisco divotamente.

LIN. (come sopra) La supplico, in grazia, aver la bontà di concedermi il mio congedo.

ROB. (con ironia) Davvero?

LIN. Sì signore: il congedo per me e per Zelinda.

ROB. (come sopra) Il congedo per tutti due?

LIN. Spero ch'ella me l'accorderà di buona voglia, e non vorrà obbligarmi a partire con mala grazia.

ROB. (con ironia) Oh, so che Vossignoria è un giovane proprio e civile, che non è capace di far male grazie; so ch'è un giovane serio e prudente, che ci penserà sopra, e non partirà.

LIN. Signore, voi la prendete in ischerzo, ed io vi dico seriamente che intendo d'andarmene, e di condur meco mia moglie.

ROB. E tutto questo per un sospetto vano, mal fondato, ingiurioso...

LIN. Perdonatemi, ho delle ragioni fortissime... accordatemi la grazia che vi domando, e non mi fate parlar d'avvantaggio.

ROB. No, non v'accorderò mai che partiate, se non mi dite quali siano queste ragioni fortissime, che voi vantate d'avere.

LIN. Signore, quando m'avete licenziato di casa vostra, io sono stato costretto a sortire, e come voi eravate padrone di licenziarmi, io son padrone d'andarmene quanto m'aggrada.

ROB. V'è qualche differenza da voi a me.

LIN. In questo, scusatemi, non vi deve essere differenza alcuna. Le volontà sono libere, e i servitori, di qualunque grado si sieno, non sono schiavi venduti.

ROB. Voi prendete la cosa su un tuono un poco troppo serio. Io non sono capace di usarvi nè violenze, nè ostilità. Se cerco di trattenervi, non è che l'amore che m'obbliga a persuadervi. Sapete quel che ho fatto per voi. Non posso dispensarmi dal dirvi, che siete un ingrato; ma se volete andare, andate, che il cielo vi benedica.

LIN. E Zelinda ha da venire con me.

ROB. Mi dispiace per lei, mi piange il cuore per voi, ma non lo posso impedire.

LIN. (da sè) (Quanto il figliuolo è indegno, altrettanto è il padre amoroso.)

ROB. Andate, figliuolo mio, andate, poichè il vostro cattivo destino vi porta a procurarvi forse de' nuovi disastri, delle nuove calamità; ma spero che prima di partire non mi negherete una grazia.

LIN. Ah signore, che dite mai! L'obbligo mio... la vostra bontà... Comandate.

ROB. Svelarmi la ragione per cui partite.

LIN. (da sè) (Non ho cuore di dirgliela; so che gli farà una pena infinita.)

ROB. Voi conoscete l'animo mio per voi, e mi negherete una sì giusta soddisfazione?

LIN. Ah non vorrei dirvela per non inquietarvi. Ma poichè lo volete assolutamente, sono obbligato ad obbedirvi. Parto, signore, per la salvezza dell'onor mio.

ROB. E in casa mia l'onor vostro non è sicuro?

LIN. Anzi è in pericolo più che mai.

ROB. Qual fondamento avete per dirlo e per sostenerlo?

LIN. (dà la lettera a Don Roberto) Leggete questa lettera. So che intendete il francese, leggetela, e giudicatene da voi stesso.

ROB. Date qui. Oh cielo! Sono in un mare di agitazioni. (legge piano)

LIN. La lettera, signore, è del signor Don Flaminio.

ROB. (con sorpresa) Di mio figlio?

LIN. Sì, signore, è di lui.

ROB. Eh andate, che siete pazzo. Credete voi ch'io non conosca il carattere di mio figlio? Dovreste conoscerlo ancora voi. No, la lettera non è scritta da lui.

LIN. Vi accordo che non pare scritta da lui, ma si vede che il carattere è alterato, è affettato. Esaminatelo bene e ci troverete dei tratti della sua mano.

ROB. (osserva bene la lettera)(Ah sì, pare anche a me... Se fosse mai vero?... Se foss'egli capace d'una simile iniquità!) Questa non è ragione che basti per accusare mio figlio; e voi gli fate un torto ch'egli forse non merita.

LIN. Oltre il carattere che si manifesta, esaminate le circostanze. Chi scrive è lontano dalla persona...

ROB. Che scioccherie! quelli che scrivono son lontani sicuramente.

LIN. Sapete quanto il signor Don Flaminio ha amato un tempo Zelinda?

ROB. Lo so, ma dopo ch'è maritata...

LIN. Sapete che Fabrizio è stato sempre il suo consigliere?

ROB. (Pur troppo.)

LIN. Vi è nota la conferenza fra lui e Zelinda, il segreto, il giuramento, la parola d'onore? In somma questa lettera trovata su quel tavolino...

ROB. Non so che dire. Non so più in qual mondo mi sia. Aspettate. (verso la scena) Chi è di là? Servitori, mandatemi qui Zelinda, mandatemi qui Fabrizio se c'è.

LIN. Siete ancor persuaso?

ROB. No, non sono ancor persuaso, e si ha da venir in chiaro della verità.

SCENA VIII

Zelinda e detti.

ZEL. (a Don Roberto un poco confusa) Signore... che cosa mi comandate?

LIN. (a Zelinda con sdegno) Favorisca, signora mia...

ROB. Tacete, lasciate parlare a me.

ZEL. (da sè) (Prevedo quello che vogliono, e ci vuol coraggio.)

ROB. (placidamente) E bene, Zelinda... avete voi trovato ciò ch'avevate perduto?

ZEL. (Eccolo.) (con franchezza) Non signore, non l'ho trovato.

ROB. Si può sapere che cosa voi cercavate?

ZEL. Signore... (pensa un poco, e poi lo dice con franchezza) io cercava una lettera.

LIN. (a Don Roberto con calore) Sentite? Una lettera.

ROB. Lasciate parlare a me. (a Zelinda placidamente) Questa lettera a chi era scritta? ed a chi andava diretta?

ZEL. Signore, capisco benissimo che quella lettera è stata da qualchedun ritrovata, e può darsi ch'io sia così disgraziata, che qualcheduno abbia l'ardire di credere ch'ella sia a me diretta. (verso Lindoro con un poco di sdegno)(a Don Roberto) Non posso giustificarmi su quest'articolo che colla semplice negativa. Non ho altre prove in contrario che quelle che ho date della mia onestà, dell'attaccamento a mio marito, e d'una condotta che voi conoscete meglio d'ogn'altro. Tutto questo dovrebbe bastare a difendere l'onor mio, e disingannare chi pensa male di me. Se ciò non basta, chiamo il cielo in testimonio della mia innocenza, giuro per quanto v'è di più sacro che la lettera non m'appartiene, ma dopo questo sono risoluta e costante a non dir chi l'ha scritta, a non isvelare a chi fu diretta.

LIN. (a Don Roberto) Segno ch'ella è colpevole, e che l'affettata sua ipocrisia...

ZEL. Mi maraviglio di voi che così parlate. Voi mi conoscete che è molto tempo, voi m'avete seguitata per tutto, voi conoscete quanto me stessa il mio cuore, il mio animo, i miei pensieri. Sapete ch'io mai v'ho negato piacere alcuno, che mai v'ho nascosto i segreti dell'animo mio, e se ora non parlo, potete esser sicuro che una forte ragione m'obbliga a non parlare. Ho promesso, ho giurato, ma questo non basta ancora. Se io parlo son certa d'offendere e di pregiudicare, e sono disposta a soffrir tutto prima di recare altrui pregiudizio. Ditemi ora se è ipocrisia, o se è virtù.

LIN. Non sarà nè l'uno, nè l'altro. Sarà menzogna.

ZEL. Ah, questa vostra insistenza è una marca crudele d'ingratitudine, di perfidia, di poco amore.

LIN. Sì, chiamatela come volete.

ZEL. (con tenerezza) Signor Don Roberto, siate voi il mio protettore, il mio difensore.

ROB. Zelinda carissima, io vi conosco: so che siete onestissima, comprendo tutto quello che dite, lo credo, sarà così; ma a fronte di tutto, a costo d'ogni pericolo e d'ogni riguardo, si tratta dell'onor vostro, si tratta della quiete di vostro marito, e credo che siate in debito di parlare.

SCENA IX

Fabrizio e detti.

FAB. (resta in disparte e ascolta)

ZEL. Possibile, signore, che un uomo saggio come voi siete...

LIN. (a Don Roberto) Ella avrà l'ardire di condannarvi...

ROB. (a Zelinda) Mi pare la resistenza un po' troppo forte...

FAB. (a Don Roberto con qualche agitazione) Con permissione. M'hanno detto ch'ella mi cercava.

ROB. (verso Fabrizio) Oh appunto...

LIN. Ecco lì l'interprete, il confidente...

ROB. (a Lindoro) Lasciate parlare a me.

ZEL. Voi vedete, Fabrizio...

ROB. (a Fabrizio, tirando fuori la lettera)Badate a me. Siete voi informato di questa lettera che fu trovata sul tavolino di Zelinda?

FAB. Sì signore, la conosco benissimo, e Zelinda l'ha avuta dalle mie mani.

LIN. Ecco s'io diceva la verità...

ROB. (a Lindoro) Tacete!

ZEL. Fabrizio, io ho mantenuta la mia parola a costo di mille ingiurie. Ci vogliono obbligar a parlare. Voi sapete di che si tratta, tocca a voi a decidere se s'ha da parlare, o tacere.

FAB. Io ho molto più interesse di voi in quest'affare. V'è noto se mi gioverebbe a tacere; ma trattandosi dell'onor nostro, per giustificare anche la vostra condotta, sono costretto a confessare la verità.

ZEL. (da sè) (Don Flaminio è sacrificato.)

LIN. (a Don Roberto) Vedete, signore, se i miei sospetti...

ROB. (a Lindoro)Ma tacete una volta. (accennando Fabrizio) Lasciate parlare a lui...

FAB. (a Don Roberto) Signore, voi sapete che le colpe d'amore son colpe umane...

LIN. Amori simili sono delitti, sono iniquità...

ROB. (a Lindoro) Voi mi fareste venir la rabbia.

FAB. Ma voi, Lindoro, per che cosa vi riscaldate?

LIN. Corpo di bacco! non ho motivo di riscaldarmi?

ROB. (a Lindoro)Perderò la pazienza. (a Fabrizio) Seguitate il vostro discorso.

FAB. Amor m'ha acciecato, amor m'ha consigliato.

ROB. Siete voi quello ch'ha scritto questa lettera?

FAB. Sì signore, l'ho scritta io.

LIN. Siete voi che ama, e che seduce Zelinda?

FAB. Che parlate voi di Zelinda?

ROB. Questa lettera fu trovata su quel tavolino.

LIN. Questa lettera parla chiaro... ma no, non siete voi che l'avete scritta. Chi l'ha formata è lontano, voi siete qui: siete un impostore, un bugiardo.

FAB. Adagio un poco: se mi darete tempo a parlare, saprete tutta la verità. (da sè) (Prego il cielo di non imbrogliarmi.)

ZEL. (da sè) (Non capisco niente. Dove mai va a battere la sua finzione?)

LIN. (a Don Roberto) V'assicuro...

ROB. (a Lindoro con impazienza) Sentiamo.

FAB. Voi conoscete, signore, la figlia dello speziale del vostro castello.

ROB. La conosco benissimo.

FAB. Figlia unica d'un padre ricco...

ROB. È bella, è giovane, ma un po' fraschetta.

FAB. Confesso la verità, signore, mi è riuscito d'innamorarla, sarebbe per me il miglior affare del mondo, prevedo che suo padre non ne sarebbe contento, coltivo il di lei amore, e le scriveva la lettera che voi vedete.

ZEL. (con spirito, e con franchezza) Sì, signore, Fabrizio è innamorato della figlia dello speziale, me ne ha fatto la confidenza, mi ha mostrato la lettera; ecco il segreto, ecco la ragione della mia parola, e del mio silenzio.

ROB. Ah? cosa dite? (a Lindoro)

LIN. Non credo niente. Dov'è la soprascritta che provi la verità?

FAB. (a Lindoro) La soprascritta non era fatta, e la lettera non fu spedita.

LIN. E per qual ragione quella lettera era in man di Zelinda?

FAB. Lindoro mio, vi domando scusa. Conoscendo il talento e la probità della vostra sposa, prima di spedire la lettera, ho voluto prendere il suo consiglio. Ella m'ha fatto comprendere il torto ch'io aveva di subornare la figlia d'un galantuomo. Mi sono arreso alle sue ragioni, ho trattenuto la lettera, ed è rimasta sul tavolino.

ZEL. Ecco la pura e semplice verità.

ROB. (a Lindoro) Ebbene, che ve ne pare?

LIN. Non ne sono ancor persuaso. Perchè questa gran segretezza? Perchè insistere a non parlare? Perchè esporsi piuttosto?...

ZEL. Perchè Fabrizio m'avea domandato il segreto...

FAB. Perchè poteva essere di pregiudizio a me, e di pregiudizio alla figlia.

ZEL. Ed io non ho cuore di recar pregiudizio a nessuno.

FAB. E l'ho pregata di non parlare.

ZEL. Ed io gli ho data la mia parola d'onore.

ROB. Lindoro, la cosa è tanto semplice e naturale, che non si può sospettare in contrario.

LIN. (a Fabrizio) Eh, signore, signore... a proposito, mi sovviene una cosa. La lettera è scritta ieri, l'appuntamento d'essere insieme è per il giorno d'oggi; come potete voi... Voi che siete obbligato al servizio; come potevate impegnarvi d'esser oggi al castello segretamente?

FAB. Se la lettera fosse partita, avrei pregato il padrone... Confesso la verità, avrei trovato un pretesto d'affari, d'interessi, con qualche mercante di grano, con qualche fattor di campagna. Il padrone non me l'avrebbe negato.

ROB. Oh, no certamente. Il mastro di casa poteva facilmente credere che gliel'avrei accordato.

FAB. Nè la colpa sarebbe stata sì grave... Tutto il male ch'io ho fatto si è d'avermi confidato a Zelinda senza la permission di Lindoro.

LIN. (con sdegno) Anzi, obbligata Zelinda a non dir niente a Lindoro.

ROB. (a Lindoro) Via, non è poi un delitto.

LIN. E Zelinda preferisce gl'interessi altrui alla quiete ed alla tranquillità del marito.

ZEL. Vi domando perdono. So che ho fatto male, ma ho creduto far bene.

FAB. E il bene ch'ha fatto è grandissimo, poichè in grazia dei suoi buoni consigli ho abbandonato l'idea ch'aveva sopra la giovane, ed ho conosciuto il torto ch'io faceva a suo padre.

ROB. Lodo la vostra risoluzione. (a Zelinda e Lindoro) Ma vorrei veder qualche segno fra voi di vera, perfetta riconciliazione.

ZEL. (in atto di accostarsi a lui) Se il mio caro marito me lo permette...

LIN. (s'avanza verso Zelinda) Scusate, l'amore, la gelosia...

SCENA X

Donna Eleonora e detti.

ELE. Signor marito, vi ho da parlare. (Zelinda e Lindoro s'arrestano)

ROB. Eccomi qui, parlate. (a Zelinda, Lindoro e Fabrizio) Via, andate; e che la pace duri, e che non ci siano mai più gridori.

ELE. No, no, che restino. Ci è qualche cosa per loro.

ZEL. (da sè) (Oh cieli! mi fa sempre tremare).

ELE. (con aria brusca) È venuto a parlarmi Don Filiberto; mi ha recato la risposta della vedova, ella accorda tutto, e accorda fino la donazione.

ROB. Questa è una buonissima nuova; e voi me la date sì bruscamente e col fiel sulle labbra.

ELE. Se sono alterata, ho giusta ragione d'esserlo. Io sono nell'impegno che voi sapete. Don Filiberto si è interessato ad istanza mia, e son sicura che tutti due ci farà restar svergognati.

ROB. Chi?

ELE. Don Flaminio...

ROB. Per qual ragione?

ELE. Perchè è innamorato.

ROB. Di chi?

ELE. (accenna Zelinda) Di quella frasca, di quell'indegna...

ZEL. Come, signora?

LIN. (agitato) Ah! pur troppo sarò tradito...

ROB. (ad Eleonora) Come potete voi asserirlo?

ELE. Io lo so da Don Filiberto.

FAB. (da sè) (Come va quest'imbroglio?)

ZEL. (ad Eleonora) Sono una donna d'onore, son conosciuta per tale e il signor Don Filiberto non sa quel che si dica.

ELE. (a Zelinda) E voi ardirete con tanta temerità...

LIN. (placidamente) Scusatemi, signora mia. Con qual fondamento Don Filiberto lo dice?

ELE. Ha veduto una lettera...

LIN. (placidamente) Ah! questa lettera la conosco. Don Filiberto parla per bocca mia.

FAB. Sì signora, ei non sa che la lettera è mia, ch'io l'ho scritta, che la giovane in questione è la figlia d'uno speziale, ch'io sono il reo, ch'io sono l'innamorato...

ELE. Che andate ora inventando che la lettera è vostra? che siete voi il galante di cui si tratta? Siete un mentitore, un bugiardo. Poichè voi stesso avete accordato a Don Filiberto, che Don Flaminio fa l'amor con Zelinda, e non è sulla lettera ch'ei si fonda, ma sul fondamento delle vostre parole.

LIN. (a Fabrizio) Ah son tradito senz'altro.

ZEL. (da sè) (Misera me! non so in che mondo mi sia.)

ROB. (a Fabrizio) Sarebbe dunque possibile?...

FAB. Signore, sono un galantuomo, incapace di mentire e di commettere delle bricconate. Quello di Don Filiberto è un equivoco, e so da dove proviene. Lo troverò, gli parlerò, gli farò toccar con mano la verità. Conoscerete la mia innocenza, e quella di questa povera sfortunata. (parte)

SCENA XI

Don Roberto, Donna Eleonora, Zelinda e Lindoro

ELE. (a Don Roberto) Non credete a quell'impostore.

LIN. (a Don Roberto) No, non si può credere a quel ribaldo.

ZEL. (a Don Roberto) Sospetterete dunque di me?

ROB. Non so che dire. Sono incerto... sono confuso... Per dirvi la verità... principio a dubitare anch'io. (a Zelinda)

ZEL. Povera me! a qual miserabile condizione son io ridotta? Sospettare di me? dubitar della mia innocenza? E chi? Il mio padrone, il mio sposo. Della padrona non parlo: so che non mi ama, e che non perde l'occasion di mortificarmi. Ma il mio buon padrone, ma il mio caro marito! È possibile che io mi sia meritata una sì poca fede, un così indegno concetto? Mi potrei giustificar d'avvantaggio. Potrei convincere chi mi accusa, chi mi perseguita, ma non voglio farlo. La persecuzione cadrebbe allora sopra d'un altro, e sarebbe meglio fondata. La mia posso soffrirla, perchè ha da finire, perchè s'ha da scoprire la verità. Vedrete allora chi sono, si pentirà chi m'insulta, sarà convinto chi non mi crede. Amabile padron mio, sospendete, vi supplico, un giudizio che m'offende e mi disonora. Caro sposo, s'io v'amo, s'io son fedele, domandatelo al vostro cuore. Ah signora mia, meno astio, e un poco più di giustizia. (parte)

SCENA XII

Don Roberto, Donna Eleonora e Lindoro

ROB. Mi pare ancora impossibile ch'ella sia rea, e che possa fingere a questo segno.

ELE. Vi pare impossibile? Frutto dell'antica passione vostra per lei, e temo che non ne siano estirpate le radici.

ROB. Voi siete nata per pensar male.

LIN. Signore, avete troppa parzialità, troppa condiscendenza per lei.

ROB. Voi siete uno stolido... un temerario.

ELE. Voi preferite Zelinda a tutta la vostra famiglia. Avete più riguardo per lei che per vostra moglie medesima, e la poca pena che vi prendete di mortificare una serva, e di correggere un figlio...

ROB. (sdegnato) E che ardireste di dire?

ELE. È inutile che mi spieghi. Ma se Don Flaminio mi farà scomparire con questa vedova se voi non l'obbligherete a sposarla... Sì, non avrò alcun riguardo a precipitarmi. (parte)

SCENA XIII

Don Roberto e Lindoro

ROB. (Che moglie! Oh cieli! Che moglie m'è mai toccata!)

LIN. Signore, accordatemi il mio congedo.

ROB. Eh, seccatemi voi pur col congedo. (Tutte le ore del giorno, tutt'i momenti, burbera, minacciosa, inquieta!)

LIN. Signore...

ROB. (non gli bada, e passa dall'altra parte)(Sospetta di tutto, tormenta tutti.)

LIN. Signore, datemi il mio congedo.

ROB. Eh andate al diavolo ancora voi, Zelinda, mia moglie e tutto il mondo: sono stanco, sono annojato, non posso più. (parte)

SCENA XIV

Lindoro solo.

Sì, anderò, anderò al diavolo, giacchè andar non posso colla buona avventura. Voglio andarmene di questa casa. E Zelinda ci verrà a suo dispetto, e avrà che fare con me, e saranno finite le cabale, le superchierie, le menzogne. Finchè si resta qui, non son padrone, non posso reggerla a modo mio. (grida e batte i piedi) Fuori, fuori di questa casa.

SCENA XV

Zelinda e detto.

ZEL. (con sdegno, e con voce alta) Cosa sono questi strepiti? cosa sono queste disperazioni?

LIN. Meno ciarle, e più obbedienza e rispetto. Fuori di questa casa.

ZEL. (rabbiosamente) Fuori di questa casa?

LIN. Sì, lo comando, lo voglio, e sarò capace di farmi rispettare e obbedire.

ZEL. (alterata) Non mi volete credere? volete ancor sospettare?

LIN. Fuori di qui, e poscia ne parleremo.

ZEL. Volete ch'io manchi alla mia parola? Volete ch'io commetta una mal'azione? ch'io parli? ch'io dica? ch'io vi soddisfi? (rabbiosamente) Animo, eccomi qui, son pronta, parlerò, vi soddisferò.

LIN. Tutte cabale; tutte invenzioni...

ZEL. Sì, cabale, invenzioni, per far del bene, per evitar degli scandali, delle turbolenze. Sappiate che il signor Don Flaminio... Ma no, non è giusto, non vo' mancare. Caschi il mondo, non parlerò.

LIN. Non mi curo di saper altro. Fuori subito di questa casa!

ZEL. Volete uscire di questa casa?

LIN. E voi dovete venir con me.

ZEL. E dove volete andare?

LIN. Ove mi pare e piace. Seguitemi, e non ci pensate, e non mi fate scaldar maggiormente il sangue.

ZEL. (con sdegno) Avete risolto?

LIN. (con sdegno) Ho risolto.

ZEL. S'ha da partire?

LIN. S'ha da partire.

ZEL. Subito?

LIN. (con sdegno) Immediatamente.

ZEL. (con sdegno)Aspettatemi, che saprò soddisfarvi. (parte)

SCENA XVI

Lindoro, poi Zelinda

LIN. (con forza) Son marito, son padrone, posso comandare, e a suo dispetto mi dee obbedire.

ZEL. (tutta sdegno e collera, strascinando il baule che s'è veduto nella prima Commedia, e lo tira in mezzo la scena)Eccomi qui, andiamo, partiamo. Ecco il mio maladetto baule. Animo, via. Fuori di questa casa. (apre il baule con forza)Così sarete contento. Ci penserete voi a mantenermi, a darmi da vivere, a sostenermi. (getta nel baule con dispetto tutta la biancheria ch'era sul tavolino)Sono una moglie indegna, una moglie infedele, bisogna strapazzarmi, mortificarmi, farmi morir di fame, di sete, cacciarmi un stile nel cuore. (corre all'armadio, lo apre, tira fuori una cesta lunga dove vi sono tutti i suoi abiti, e qualche cosa di suo marito, e strascina la cesta vicino al baule; poi leva la roba dalla cesta, e la getta nel baule con collera e dispetto)

LIN. (resta ammutolito, sorpreso, e non parla)

ZEL. Andiamo, sì, andiamo a cercar l'elemosina, a cantar canzonette, a vendere, a impegnare, a mangiarci tutto... (caccia il resto nel baule, e vi pesta dentro con un piede)

LIN. (un poco raddolcito, e mostra dispiacere che guasti la roba) Ih, ih, fermatevi. Non è roba rubata.

ZEL. (con tutta la forza)Sì, è roba che m'ho guadagnato co' miei sudori. Ma non serve niente. Tutto ha d'andare al diavolo, tutto ha d'andare in rovina. Eccola lì, andiamo fuori di questa casa, sì, fuori di questa casa. (si getta sopra una sedia)

LIN. Ma che diavolo è questo? Siete ora più imbestialita di me.

ZEL. Oh quanto volentieri mi andrei a gettar nel Ticino!

LIN. Che bisogno c'è di rovinar tutta questa roba? (tira fuori qualche abito, e lo mette nella cesta)

ZEL. Che cosa fate? Si ha d'andar via, e voglio andar via.

LIN. Sì, si ha d'andare, e vi voglio andare; ma si potrebbero far le cose con un poco meno di caldo.

ZEL. (con ironia) Veramente voi siete fatto di ghiaccio.

LIN. Questi abiti si potrebbero piegare un poco meglio. (mette un altro abito nella cesta)

ZEL. (un poco pacificata) Lasciateli lì, che li piegherò.

LIN. (cercando nel baule trova un ventaglio, e lo tira fuori)Che cosa è questo?

ZEL. Non lo vedete? È un ventaglio.

LIN. Io non ve l'ho mai veduto questo ventaglio.

ZEL. È necessario che voi vediate tutt'i miei stracci?

LIN. (scaldandosi a poco a poco) Ma questo è un ventaglio ricco. Costerà tre zecchini almeno.

ZEL. (scaldandosi un poco) E se costasse anche sei?

LIN. Chi v'ha dato questo ventaglio?

ZEL. L'ho comprato.

LIN. (con sdegno) No, non è vero niente.

ZEL. Non è vero niente?

LIN. Ci scommetto la testa. Questo è un ventaglio nuovo; questo è un ventaglio che vi è stato donato.

ZEL. Donato! e da chi?

LIN. Sarà un presente di Don Flaminio.

ZEL. (con sdegno) Di Don Flaminio?

LIN. Sì, di lui.

ZEL. (con tutta la collera) Sì, bravo, è di lui, è un presente di Don Flaminio.

LIN. È un presente di Don Flaminio? (straccia il ventaglio per mezzo)

ZEL. (fremendo e battendo i piedi) È un presente di Don Flaminio.

LIN. (lo straccia in pezzi) Di Don Flaminio?

ZEL. (come sopra) Di Don Flaminio.

LIN. (getta via il ventaglio) Fuori di questa casa.

ZEL. (corre alla cesta, e torna a gettar gli abiti nel baule) Fuori di questa casa.

SCENA XVII

Mingone contadino, con un cesto di peri, e detti.

MIN. Signora Zelinda.

ZEL. (arrabbiata) Cosa c'è?

MIN. Tenete questo cesto di peri che manda dalla campagna il signor Don Flaminio...

LIN. Come! Come! Vieni qui. Chi manda questi peri?

MIN. Il signor Don Flaminio.

LIN. A chi li manda?

MIN. M'ha detto di consegnarli alla signora Zelinda.

LIN. Regali di campagna? Finezze ancora dalla campagna? (leva il cesto al contadino con forza)

ZEL. Che bestialità! Che furore!

LIN. (minaccia il contadino) E tu, briccone, sei il portatore de' suoi presenti?

MIN. Io non so nulla, signore. (fugge via)

LIN. Scellerato, indegno, ti arriverò. (prende i peri dal cesto, e li getta dietro a Mingone)

ZEL. Fermatevi, pazzo, stravagante, furioso!

SCENA XVIII

Don Roberto e detti.

ROB. (entra dalla parte medesima per dove fugge Mingone, e corre pericolo d'essere colpito)Cos'è quest'impertinenza? (a Lindoro)

ZEL. (amorosamente a Don Roberto, e Lindoro resta mortifcato) Ah signore, scusatelo per amor del cielo!

ROB. (a Zelinda) Cosa fate voi qui? A che serve questo baule?

ZEL. (piangendo) Sono costretta a partire, sono costretta a distaccarmi da voi.

ROB. Chi lo dice?

ZEL. Lindoro.

ROB. (a Zelinda) Andate nella vostra camera.

ZEL. (agitata) Ma non vorrei che dicesse...

ROB. (con forza) Andate nella vostra camera.

ZEL. V'obbedisco. (Stelle, abbiate pietà di me.) (parte)

SCENA XIX

Don Roberto e Lindoro

LIN. (battendo i piedi) Giuro al cielo...

ROB. (a Lindoro, placidamente) Venite con me.

LIN. Come, signore...

ROB. (con forza) Venite meco, vi dico.

LIN. Non vi è più rimedio, signore; son risoluto, voglio partire assolutamente.

ROB. Sì, partirete; ma venite con me.

LIN. (con sdegno) Dove? perchè? Qual intenzione avete sopra di me?

ROB. (sdegnoso) Ho ricevuto una lettera di vostro padre.

LIN. Di mio padre? (si addolcisce un poco)

ROB. Sì, l'ho ricevuta in questo momento.

LIN. (placidamente, ma con ansietà) Oh cielo! buone nuove, signore?

ROB. Migliori di quelle che meritate.

LIN. Ah! vi domando scusa, vi domando perdono!

ROB. Ragazzaccio imprudente! Venite dunque con me. (parte)

LIN. Ah sì, sono diventato una bestia, una furia, un demonio. In qual misero stato riduce la gelosia!

Fine dell'Atto secondo.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Don Roberto e Lindoro

LIN. Come sperate, signor padrone, di poter scoprire la verità in mezzo a tante menzogne, a tante cabale, a tanti artifizj?

ROB. Fin'ora non abbiamo pensato alla cosa più necessaria, e dalla quale si doveva principiare. Non abbiamo pensato a sentire, ad interrogare, a costituire mio figlio.

LIN. Non dirà niente, o mentirà come gli altri.

ROB. Vi è una maniera assai facile per iscoprire, o dubitare almeno della segreta sua inclinazione. S'ei ricusa di maritarsi, si può temere; s'egli sposa la vedova, non v'è niente che dire.

LIN. Un uomo ch'ama una femmina maritata, può ben anche maritarsi e conservare la sua passione.

ROB. Oh! questo è troppo. Il vostro sospetto, la vostra malizia eccede i limiti dell'onestà. Se siete capace di pensar sì male degli altri, fate sospettare di voi stesso.

LIN. Orsù, signore, voglio arrendermi ancora per questa volta, ed attendere questa nuova scoperta. Come pensate voi di condurvi col signor Don Flaminio?

ROB. Gli ho scritto una lettera, l'ho consegnata al contadino ch'ha portato il cesto di peri... A proposito, guardate se la gelosia vi accieca, se la passion vi trasporta! Mio figlio manda i peri per la famiglia, e voi lo prendete per un presente particolare a Zelinda, insultate quell'uomo, perdete il rispetto a me, alla mia casa, ed io ho ancora tanto amore per voi?

LIN. È vero, avete ragione, sono acciecato, son fuori di me stesso. Vi domando perdono... E così, signore, che cosa gli dite nella vostra lettera?

ROB. Gli ordino di ritornare immediatamente in città.

LIN. Ma! se la lettera scritta in francese è scritta dal signor Don Flaminio, oggi sarà segretamente in Pavia, e il contadino non lo ritroverà più.

ROB. Ecco quello che mi fa credere maggiormente che quella lettera non è sua. Mingone m'assicura che l'ha lasciato al castello, e che l'aspetta innanzi sera con un abito e della biancheria che ha mandato a prendere.

LIN. Bisognerebbe mandarlo subito.

ROB. Subito. In due ore di tempo sarà arrivato.

LIN. Oh, ce ne vorranno ben quattro.

ROB. No, perchè è qui colla sedia.

LIN. Colla sedia? Un contadino avea bisogno di venir in sedia?

ROB. Ne ha bisogno per portar l'abito e la biancheria.

LIN. (da sè) (Scommetto che, colla stessa sedia, è venuto alla città Don Flaminio).

ROB. Vado a spedirlo immediatamente.

LIN. Signore, vi vorrei pregar d'una grazia.

ROB. Dite, dite; ma fate presto.

LIN. Permettetemi che vada anch'io colla sedia...

ROB. No, no, non vorrei che faceste peggio. Il vostro caldo... I vostri sospetti...

LIN. Vi giuro sull'onor mio che non parlerò.

ROB. Ma che premura avete d'andar voi stesso?

LIN. Vi dirò... La premura è giustissima. Voi gli scrivete ch'ei venga, ma egli potrebbe aver delle ragioni per non venire. Se vado io in persona per ordine vostro, crederà che la cosa sia molto più premurosa, e non mancherà di venire.

ROB. Se potessi compromettermi della vostra prudenza...

LIN. Non dubitate. Vi do la mia parola d'onore.

ROB. Quand'è così, andate. Vi mando qui il contadino, partirete con lui.

LIN. Sì, signore, e partiremo immediatamente.

ROB. Andate, che il cielo vi benedica... Ma non volete prima veder vostra moglie?

LIN. Sì, signore, la vedrò, le dirò addio.

ROB. Poverina! è serrata nella sua camera. Piange, si dispera, si lamenta di voi, la chiamerò, e la farò venire. Consolatela, poverina! Amatela... Sì, lo spero, vedrete ch'ella lo merita. (da sè)(L'amo come s'ella fosse del sangue mio. Quest'è effetto della bontà, del merito, e della virtù.) (parte)

SCENA II

Lindoro, poi Mingone

LIN. Nessuno mi leverà dalla testa che Don Flaminio non sia in Pavia, ch'egli non sia venuto con questa sedia, e che non sia d'accordo con Zelinda e Fabrizio. Ma ecco Mingone, scoprirò io bene da lui...

MIN. (da sè) (Io sono in un imbarazzo del diavolo.)

LIN. Galantuomo, dove avete la sedia?

MIN. Signore... Il padrone può dir quel che vuole... Con voi in sedia io non ci voglio venire.

LIN. E perchè non ci volete venire?

MIN. Perchè... Perchè... Sono pover'uomo, ma son galantuomo, e non voglio essere strapazzato.

LIN. Scusatemi, caro amico. Ero in collera con mia moglie... Siete voi maritato?

MIN. Così non lo fossi!

LIN. Griderete anche voi qualche volta.

MIN. Qualche volta? Dalla mattina alla sera.

LIN. E non vi nascono mai di questi accidenti?

MIN. Signor no, mai. Quando sono in collera, bastono mia moglie, e non insulto nessuno.

LIN. Oh! se sapeste quante volte sono stato in procinto... Ma la convenienza non lo permette.

MIN. Oh! voi altri signori mariti, colle vostre convenienze, ne sopportate di belle!

LIN. Sì, avete ragione. Ma la vostra sedia dov'è?

MIN. Io sono obbligato a ritornare a piedi.

LIN. Perchè ritornare a piedi, se siete venuto in sedia?

MIN. Perchè il cavallo s'è fatto male, e bisogna ch'io lo conduca dal maniscalco.

LIN. Voi non l'avete detto al padrone.

MIN. No, perchè non dica ch'io l'ho storpiato, e che non mi gridi.

LIN. E come farete voi a portare l'abito e la biancheria?

MIN. Non è che un fagotto, lo porterò sulla testa.

LIN. Andiamo a vedere il cavallo che male ha. Non sarà forse gran cosa; lo faremo visitare in passando.

MIN. (scaldandosi) Se non può camminare!

LIN. Ne prenderemo un altro.

MIN. Io non ci voglio venire.

LIN. Amico, ci conosciamo.

MIN. (confuso) Di che?

LIN. Oh via.

MIN. Non capisco.

LIN. Vi capisco io.

MIN. Di che?

LIN. Orsù, alle corte. II signor Don Flaminio è in città.

MIN. (confuso) In città?

LIN. Ed è venuto con voi.

MIN. È venuto con me?

LIN. E v'ha ordinato di non parlare.

MIN. Di non parlare?

LIN. E di fingere di portargli l'abito e la biancheria.

MIN. Come diavolo sapete voi tutto questo?

LIN. Non sapete ch'io sono il suo segretario?

MIN. Ma questa cosa non l'ha da sapere nessuno.

LIN. Nessuno fuori di me. Me l'ha scritto.

MIN. Ve l'ha scritto?

LIN. Sì, certo, e mi raccomandò di non dir niente; e v'avverto di non parlare con nessuno.

MIN. Io? Non parlo se mi dànno la corda.

LIN. Bravissimo, così mi piace.

MIN. Ma... voi volevate montar in sedia con me.

LIN. Ho fatto per provarvi.

MIN. Ah, ah, per provarmi! per vedere s'io son segreto! bravo bravo! Ah io, corpo di bacco! in materia di segretezza farei a tacere con un muto a nativitatibus.

LIN. E dov'è presentemente il signor Don Flaminio?

MIN. Non lo so.

LIN. Dov'è smontato?

MIN. Non ve l'ha scritto?

LIN. No; m'ha detto ove sarà questa sera, ma ora mi premerebbe infinitamente di vederlo.

MIN. È smontato in una casa sulla piazza del Castello, ma io non so chi ci stia.

LIN. Me la sapreste insegnar questa casa?

MIN. Non sono molto pratico della città, ma la troveremo.

LIN. Prendete il vostro fagotto, e incamminatevi, che vi terrò dietro.

MIN. V'aspetterò all'osteria del Biscione. Ho da riscuotere certo denaro, e poi qui non mi hanno dato nemmeno un bicchier di vino; ho bisogno di reficiarmi un poco.

LIN. Sì, andate e aspettatemi; vi pagherò io da bevere. Ma non parlate a nessuno.

MIN. Chi? Io? Puh! Fate conto ch'io sia una muraglia. (parte)

SCENA III

Lindoro solo.

Posso sentir di più? Può esser la cosa più chiara, più convincente? Dica ora don Roberto, se può, che la lettera non è di suo figlio, e ch'io sono un pazzo, un malizioso, un maligno. Questa volta l'artifizio m'ha servito più della collera. Seguitiamo così, finchè giunga a scoprire il gran punto, ed a far toccar con mano la verità. Mi crederanno in campagna; non avranno alcun sospetto, alcun timore di me. Farò la ronda al luogo dov'è smontato don Flaminio. Lascerò delle spie qui d'intorno. Vedrò chi va, chi viene, chi entra da una parte, e chi esce dall'altra. Ma ecco Zelinda. Facciamo de' sforzi, e continuiamo a dissimulare.

SCENA IV

Zelinda, e detto

ZEL. Andate via, Lindoro?

LIN. Sì, ve l'avrà detto il signor Don Roberto.

ZEL. Me l'ha detto. Ritornerete voi presto?

LIN. Oh sì. Domani sarò qui di ritorno.

ZEL. Domani? E perchè no questa sera?

LIN. (Finta! menzognera!) Vedete bene, l'ora è tarda. Non si può andare e tornare.

ZEL. È vero. L'aria della notte vi potrebbe far del male.

LIN. (Che finissima carità.)

ZEL. Ma come andate?

LIN. In sedia.

ZEL. Voglio dire: non vi mettete niente per ripararvi dall'aria?

LIN. Faccio conto di andar così come sono. Datemi il mio cappello.

ZEL. Mettetevi il gabbano.

LIN. No, no, non è freddo.

ZEL. Aspettate. Voglio che vi mettiate il gabbano. (va all'armadio, e tira fuori un gabbano)

LIN. (Chi mai crederebbe ch'ella sapesse fingere a questo segno!)

ZEL. (viene col gabbano) Eccolo qui, credetemi, starete meglio.

LIN. Sì, sì, come volete. Datelo qui.

ZEL. Lasciate che ve lo metta in dosso.

LIN. Me lo metterò io.

ZEL. No, no, voglio far io. Infilate il braccio.

LIN. Me lo metterò sulle spalle.

ZEL. No, caro marito, voi avete un abito buono, e la polvere lo rovinerà.

LIN. (M'insegna a fingere a mio dispetto.)(lascia fare).

ZEL. (mettendo il gabbano) Ah se potessi sperare un poco di consolazione!

LIN. (con ironia) La consolazione l'avrete fra poco.

ZEL. (termina di vestirlo) Il cielo lo voglia.

LIN. (Il cielo permetterà che la menzogna si scopra.) Il cappello.

ZEL. Il buono non ve lo do.

LIN. Datemi quel che volete.

ZEL. (va all'armadio, e torna con un cappello vecchio ed un bastone)Tenete questo. Per campagna è buonissimo. Tenete il vostro bastone.

LIN. (Tutte le pulizie immaginabili purchè io parta.)

ZEL. Andate via...

LIN. (in atto di partire) A rivederci...

ZEL. (torna all'armadio) Aspettate.

LIN. (Faccio una fatica orribile a contenermi.)

ZEL. Tenete i vostri guanti.

LIN. Vi ringrazio.

ZEL. Ah! caro marito, se conosceste il mio cuore...

LIN. Sì, sì, lo conosco... a rivederci.

ZEL. (patetica) Andate via...

LIN. Bisogna bene ch'io vada.

ZEL. E andate via... così...

LIN. Come?

ZEL. Senza... senza nemmeno abbracciarmi?

LIN. Ci rivedremo domani... ma... venite qui, abbracciamoci. (s'abbracciano)(da sè) (L'amo ancor quest'ingrata!)

ZEL. (s'asciuga gli occhi piangendo)

LIN. (Oh cielo! che lagrime son quelle?) (commosso)(Ah lagrime di rossor, di rimorso, di tradimento.) (risoluto)Addio, a rivederci.

ZEL. Sentite... (gli stende le braccia)

LIN. (Non posso più.) Non ho tempo da perdere, a rivederci. (parte senza guardarla)

SCENA V

Zelinda sola.

È partito. Ah che cova tuttavia nel cuore il sospetto e la gelosia! Ma... e non parla più di sortir di questa casa. Cosa vuol dir questa novità?

SCENA VI

Fabrizio e detta.

FAB. (guardando intorno se è veduto) Zelinda.

ZEL. Ah Fabrizio, voi m'avete messa nel grande imbarazzo!

FAB. È andato via Lindoro?

ZEL. (dolente) Sì, è partito.

FAB. V'ho da dire una novità.

ZEL. E qual novità?

FAB. Don Flaminio è venuto a Pavia.

ZEL. E dov'è?

FAB. In casa della cantatrice.

ZEL. Presto, presto, correte; mio marito non sarà partito. Fermatelo, che non parta più.

FAB. Anzi è necessario ch'ei vada.

ZEL. No, vi dico; anderò io ad arrestarlo... (in atto di partire)

FAB. Ma no, ascoltatemi. Voi volete precipitarvi.

ZEL. Per qual ragione? Che male c'è?

FAB. Se voi trattenete Lindoro, bisogna che gli diciate il perchè. Se gli dite che Don Flaminio è in città, voi autenticate la corrispondenza con lui.

ZEL. E s'ha da permettere che Lindoro vada al Castello, e che non ritrovi il padrone?

FAB. Che gran male è questo per lui? Che gran mancamento è per voi? Se non sapeste ch'egli è tornato, lo lascereste partire liberamente.

ZEL. Come avete saputo ch'egli è arrivato?

FAB. M'ha scritto una lettera per Mingone.

ZEL. Il contadino lo sa che Don Flaminio è venuto?

FAB. Sì, ma non l'ha detto a nessuno. Mi ha dato la lettera, ed io ho mostrato di non saperlo.

ZEL. Ma voi dicevate che, non avendo risposto alla lettera ch'ei v'ha scritto coll'inclusa per la signora Barbara, non sarebbe venuto.

FAB. Io credeva così, perchè domandava alla sua bella un abboccamento concertato con me, e non vedendo questo concerto, io credeva che non venisse. Ma si vede che è innamorato davvero, e che l'impazienza l'ha fatto venire e smontare alla di lei porta.

ZEL. Eccolo precipitato.

FAB. Giacchè Lindoro è in campagna, che mal sarebbe che voi andaste dalla Virtuosa, che vi conosce, e procuraste di parlare con Don Flaminio, e che vedeste di ricondurlo per la strada del suo dovere e del suo interesse? Se non vi riuscite, non perdete niente, e avrete almeno adempito al dovere, alla gratitudine. alla cordialità.

ZEL. E se si accrescono i sospetti contro di me?

FAB. Prima di tutto, nessuno saprà dove voi andate, e poi, quand'anche si venisse a sapere, allora tutte le cose si pongono in chiaro, e voi avrete il merito d'una sì buona azione.

ZEL. Non so che dire. Mi dite tante buone ragioni che son forzata ad arrendermi, ed a tentare.

FAB. Voi siete la più virtuosa donna di questo mondo.

ZEL. Non vaglio niente, ma son certa di aver buon core. Sì, ho buon core per tutti, ma la sorte fin or m'ha perseguitata. Voglia il cielo che sieno secondate le oneste mire della mia leale e perfetta riconoscenza. (parte)

SCENA VII

Fabrizio solo.

Donna savia, onesta, amorosa! Donna veramente di garbo! Eh davvero, davvero non si può negare la dovuta stima alle donne; hanno dello spirito, del talento e del cuore. Ve ne sono moltissime che fanno arrossire gli uomini. Il loro sesso è adorabile per le attrattive della bellezza, e per la delicatezza dei sentimenti. (parte)

SCENA VIII

Camera in casa di Barbara, colla spinetta.

Tognina sola.

(Accomoda la spinetta, le carte di musica e le sedie)In verità, sono ormai annojata di dover far io sola tutte le faccende di casa. La padrona mi va sempre dicendo che prenderà un servitore, e in quindici giorni che sono qui, non l'ha ancora preso. Ho paura che le cose sue non vadano troppo bene. Dice ch'è nata bene, che fa il mestiere per necessità; ma la necessità combatte colla miseria. Sarebbe meglio per lei che si maritasse. Se questo signor Don Flaminio dicesse davvero, sarebbe una fortuna per lei. Ma è venuto a posta dalla campagna, è venuto segretamente. Sono nel giardino che parlano seriosamente; tutto questo mi par buon segno, e mi dà buona speranza. Avrei piacer che si maritasse. È una buona giovane, una buona padrona. In quel caso, avrebbe in casa dell'altra gente, ed io la servirei col maggior piacere del mondo.

SCENA IX

Don Filiberto e detta.

FIL. Si può venire?

TOG. Venga, venga.

FIL. Vi riverisco, quella giovane.

TOG. Serva sua. Che cosa comanda?

FIL. Sta qui la signora Barbara?

TOG. Sì signore.

FIL. È in casa?

TOG. Sì signore; è in casa, ma presentemente è impedita. Se ha qualche cosa da dirle...

FIL. Non si potrebbe riverirla un momento? In due parole mi spiccio, e la lascio in tutta la sua libertà.

TOG. Signore, scusatemi, io non andrò a sturbarla presentemente, perchè so ch'ella ha per le mani un affare di gran premura.

FIL. (Vorrei pure assicurarmi se Fabrizio mi ha detto la verità.) Quello ch'io devo dire alla signora Barbara, non è forse meno interessante per lei, e può essere ch'ella ci trovi il suo conto, meglio dell'affare ch'ha per le mani.

TOG. Oh mi pare difficile che vi sia di meglio per lei. Ma, se è lecito, signore, qual è l'affare che le dovete comunicare? Se veramente preme, anderò ad avvertirla.

FIL. Andate immediatamente. Ditele ch'io sono un mercante assai conosciuto in questa città, ch'ho da farle vedere una lettera di un mio corrispondente di Genova, e ch'ho ordine di trattarla per quel teatro.

TOG. Se non è altro che questo, dispensatemi per ora dall'incomodarla.

FIL. Ma ella potrebbe perdere l'occasione...

TOG. Non serve a niente. Credo che la mia padrona non sia più in caso di accettar questa recita.

FIL. Perchè? È forse impegnata per qualch'altro teatro?

TOG. No, signore, ma vi dirò. Sappiate ch'ella fa il mestiere mal volentieri.

FIL. Non lo so, ma non importa. E così?

TOG. E così, è in trattato di maritarsi.

FIL. Veramente di maritarsi?

TOG. Veramente di maritarsi! Che dimanda curiosa! Se si marita, non si ha da maritar veramente?

FIL. Vi dirò, vi sono qualche volta de' matrimoni...

TOG. Sì, v'ho capito. Ma la mia padrona non è di quelle.

FIL. Tanto meglio per lei. E credete voi che il marito le impedirà di cantare?

TOG. Oh, se prende questo, v'assicuro che non avrà più bisogno di montar sulle scene. E poi un uomo della sua condizione!... È anche assai che la sposi dopo di aver cantato.

FIL. (Pare che sia tutto vero, ma non posso ancor persuadermi.) Ditemi, quella giovane, in confidenza, si potrebbe sapere chi è questa persona che la vorrebbe sposare?

TOG. Siete venuto qui per proporle una recita, o per proporle qualch'altra cosa?

FIL. No, sono un galantuomo, e m'interesso per il bene di tutti. Mi dite che la vostra padrona è buona, di buon carattere, e potrebb'essere facilmente ingannata. Vi sono dei discoli, vi sono degl'impostori, non sarebbe gran fatto che qualcuno tentasse di rovinarla. Se sapessi chi è la persona, potrei illuminar voi, e voi farvi merito illuminando lei.

TOG. In verità, voi mi mettete in grande apprensione. Il partito è buonissimo. Ma appunto il troppo bene mi potrebbe far dubitare...

FIL. Eh, eh, figliuola mia. I giovinotti la sanno lunga. Se trovano il terreno debole, non mancano di profittare.

TOG. Se questo fosse, mi darei alla disperazione per conto suo.

FIL. Conoscete voi la persona?

TOG. La conosco sicuramente.

FIL. Come si chiama?

TOG. È un gentiluomo di questo paese...

FIL. Un gentiluomo?

TOG. È figlio unico...

FIL. Figlio unico?

TOG. Alle corte, è un certo signor Don Flaminio...

FIL. Figliuolo del signor Don Roberto?

TOG. Per l'appunto. Lo conoscete?

FIL. Oh non conosco altri che lui.

TOG. Vi pare che sia cattivo partito?

FIL. Sarebbe ottimo.

TOG. Lo credete capace d'ingannare la mia padrona?

FIL. No, ma mi pare impossibile ch'egli si sia impegnato, come voi dite.

TOG. Oh per impegnato lo è, ne son certa. L'ama teneramente. È qui tutto il giorno da lei. È andato per affari in campagna, non ha potuto resistere, è venuto segretamente a vederla, ed ora sono tutti due nel giardino, che parlano, che trattano, e credo… credo che concluderanno l'affare.

FIL. (da sè) (Ho sentito tanto che basta. Non l'avrei mai creduto.)

TOG. Sento gente. (guardando verso la porta)Oh ecco la mia padrona. La conferenza è finita. Se volete, l'avviserò.

FIL. Ma è inutile dopo quel che m'avete detto.

TOG. Non serve, io non posso sapere come siano restati. Può ancora aver bisogno di recita, e poi quel che ho detto ve l'ho detto in confidenza, e dovete considerarlo come non detto; se ho parlato, ho parlato per bene, e credo aver parlato con un galantuomo. (Non so chi sia, ma non preme. Ho parlato, perchè ho parlato; e ho parlato perchè non posso tacere). (parte)

SCENA X

Don Filiberto solo.

Ecco come si è male interpretata la lettera che mi ha fatto legger Lindoro, e come io ho male interpretato quel che mi aveva detto Fabrizio. Quest'equivoco mi ha ingannato, e mi duole infinitamente di averne parlato a donna Eleonora, e di essere stato cagione dei disordini che ne son derivati. Ma tutto si porrà in chiaro, e quest'imbroglio sarà finito. Ecco la cantatrice. Non ho più bisogno del pretesto della recita, ma per convenienza convien ch'io resti.

SCENA XI

Barbara e detto.

BAR. Serva umilissima. È ella, signore, che mi domanda?

FIL. Sono io che ho l'onore di riverirla e di supplicarla…

BAR. In che cosa la posso servire?

FIL. Un amico mio di Genova mi dà la piacevole commissione di provveder una seconda donna per quel teatro; sapendo io il di lei merito e la di lei virtù...

BAR. (con una riverenza) Mi fa troppo onore.

FIL. S'ella fosse in grado d'accettare l'offerta...

BAR. Dirò, signore... Non la ricuso affatto, ma non posso sul momento accettarla. Ho un mezzo impegno per un altro teatro.

FIL. (da sè) (Col teatro d'amore, e Don Flaminio sarà l'impresario.)

BAR. Aspetto a momenti la risoluzione, e se vi darete l'incomodo di ripassare da me...

FIL. Signora, l'offerta che faccio è poca cosa per voi. Desidero che l'altra recita vi consoli, ch'abbiate una bella parte, e che facciate sempre da prima donna. (fa una riverenza, e parte)

SCENA XII

Barbara, poi Don Flaminio

BAR. Che complimento ridicolo! Crede ch'io mi sia piccata perchè m'ha offerto una parte di seconda donna. Non sa egli la recita alla quale aspiro.

FLA. (ironico e con sdegno) Signora, mi consolo con lei.

BAR. Di che? cosa ho fatto di male? Che cosa avete con me?

FLA. In ogni caso, s'io sono un impostore, s'io le mancherò di parola, ella avrà una recita in pronto per continuar la sua professione.

BAR. Ma, caro Don Flaminio, scusatemi, voi prendete le cose sinistramente. Volevate voi ch'io dicessi a quel signore, che non mi curo di recite, perchè spero di maritarmi?

FLA. Ah! sperate? non ne siete ancora sicura?

BAR. Sì, per voi ne son sicurissima. So che m'amate, so che siete un uomo d'onore, incapace di mancarmi di fede, ma vi replico costantemente quel che v'ho detto: a costo di tutto, a costo d'essere una miserabile come sono stata finora, non acconsentirò mai a sposarvi, senza l'assenso di vostro padre.

FLA. Ma v'ho detto e ridetto, e vi replico nuovamente, che conosco bastantemente mio padre, che è docile, che è amoroso, che sono il suo unico e il suo caro figlio, che non lascia in tutto di contentarmi, e mi contenterà in questo ancora, e v'abbraccierà qual nuora, e v'amerà come figlia.

BAR. Ed io, quando sarò assicurata di questo?...

FLA. Ma ancora non lo credete?

BAR. Scusatemi. Ho ragione di dubitarne.

FLA. Voi mi fareste dire e fare degli spropositi, delle risoluzioni, delle bestialità...

BAR. Ma compatitemi. Esaminate bene lo stato vostro; la mia condizione presente...

SCENA XIII

Tognina e detti.

TOG. Signora, è una giovane che vi domanda.

BAR. E chi è?

TOG. Non so, non l'ho mai veduta.

BAR. Cosa vuole?

TOG. Dice che v'ha da parlare.

BAR. Fatela entrare.

TOG. Signora, se mai fosse una cameriera, io non credo d'avermi demeritato...

BAR. No, no, non v'inquietate per questo.

TOG. (In oggi v'è tanta carestia di pane, che tutti cercano di levarlo al compagno.) (parte)

FLA. Vedete cosa vuole, ch'io mi ritirerò.

BAR. Perchè ritirarvi? Io non ho segreti. È una donna, non vi può dar soggezione.

FLA. (osservando fra le scene) Cosa vedo? Zelinda?

BAR. (voltandosi) Zelinda?

SCENA XIV

Zelinda e detti.

ZEL. Serva umilissima di lor signori.

FLA. Che fate qui?

BAR. Qual nuova avventura vi conduce da me?

ZEL. Vi domando perdono...

BAR. (con caldo) Venite in traccia di Don Flaminio?

ZEL. Sì signora, vengo in traccia di lui, ma per ragione onesta e decente.

FLA. E chi v'ha detto ch'io sono qui?

ZEL. Me l'ha detto Fabrizio.

FLA. Ah! m'ha tradito l'indegno.

ZEL. Non signore, non vi ha offeso, non vi ha tradito; non è capace d'offendervi, di tradirvi. È un servitore onorato, interessato per il bene del suo padrone, come lo sono io; e mi manda qui con quel zelo che conduce me stessa, per arrestare, se siamo a tempo, il fulmine che vi sovrasta.

BAR. Qual fulmine? Qual novità?

FLA. Capisco il zelo, o la macchina, o la scioccheria. Voi venite senza proposito ad inquietarmi.

ZEL. (a Don Flaminio)Eh signore, guai a voi se sa vostro padre che siete qui, e se penetra... (a Barbara)Scusatemi, signora, s'io parlo con libertà. (a Don Flaminio) E se penetra l'attacco vostro…

FLA. E che finalmente? Non sono io il padrone della mia libertà? Non posso maritarmi a mia fantasia?

ZEL. Non signore, non lo potete, senza perdere il rispetto a vostro padre, perdere l'amor suo, e forse forse la sua eredità.

BAR. (da sè) (Povera me! Il core me lo diceva).

ZEL. E molto meno lo potete presentemente, sapendo l'impegno fatto per voi colla vedova che voi dovrete sposare.

BAR. (da sè) (Ancora di più?)

FLA. Questo è un matrimonio immaginato da mia matrigna.

ZEL. Ma approvato, voluto, e concluso da vostro padre.

FLA. Ci ha da essere l'assenso mio, ed io non mancherò mai di fede a questa giovane onorata e civile... (accennando Barbara)

BAR. Questa giovane onorata e civile si maraviglia di voi che ardite d'ingannarla e di lusingarla. Questa è la seconda volta che vi burlate di me. Non ci venite la terza...

FLA. Ah! vi giuro sull'onor mio...

BAR. Credo all'onor vostro, ma mi cale del mio. Non son capace di tentare la mia fortuna a costo della rovina d'una famiglia. Soffro in pace la povertà, non soffrirei i rimproveri, le male grazie, gl'insulti. Ho per voi della stima; dirò anche la verità, ho per voi dell'amore; ma non a segno d'obliare me stessa, e la mia nascita, e il mio dovere. Conoscetemi meglio; e in casa mia favorite di non venire mai più. (parte)

SCENA XV

Don Flaminio e Zelinda

ZEL. (da sè) (Son contenta. Ho fatto il colpo. Son fortunata.)

FLA. Ah! voi mi avete assassinato, m'avete tradito, m'avete precipitato.

ZEL. Io tradirvi? Io assassinarvi? Voi non mi conoscete e però parlate così. Sì, si è veduta la lettera che avete scritta in francese. Una parola ch'io avessi detta, voi eravate precipitato; ed ho sofferto di essere maltrattata per non iscoprirvi, per non esporvi all'ira di vostro padre; e per salvare me stessa non ho altro mezzo che pubblicare la vostra debolezza, l'attacco vostro per la Virtuosa.

FLA. Ah! Zelinda, vi chiedo scusa, compatitemi per carità. Vi ringrazio di tutto quello che avete fatto per me, non vi stancate d'essermi favorevole. Non m'abbandonate, vi supplico, non m'abbandonate.

ZEL. Credete voi ch'io voglia seguitare ad esservi amica, per farvi condurre a fine il disegno vostro colla signora Barbara?

FLA. È tanto amabile, e l'amo tanto...

ZEL. Sì, è vero, ella è amabile, ma ha più giudizio di voi. Profittate de' suoi sentimenti, e fate il vostro dovere.

FLA. Se mi fosse possibile, lo farei.

ZEL. Bene dunque, senza nessuno scrupolo ne parlerò al signor Don Roberto.

FLA. No, vi supplico per amor del cielo.

ZEL. Promettetemi d'abbandonare la cantatrice, se non volete ch'io parli.

FLA. E dovrò sacrificarmi a sposare una vedova ch'io detesto?

ZEL. Io non vi dico che sposiate la vedova, mi basta che non sposiate la cantatrice.

FLA. Se voi avete della bontà per me...

ZEL. O datemi questa parola, o vado subito da vostro padre. (in atto di partire)

FLA. Non so che dire. Voi mi prendete in un punto...

SCENA XVI

Tognina e detti, poi Lindoro da viaggio.

TOG. Dov'è la padrona? V'è qui un giovane che la domanda.

ZEL. È andata via, già un momento.

LIN. (entra furioso)Ah ah, v'ho sentita alla voce. V'ho trovati sul fatto, e più non servono le menzogne, i raggiri, le macchine, le imposture.

TOG. (da sè) (Cos'è questo negozio?)

ZEL. Ah! Lindoro, se voi vi siete mai ingannato, questa è la volta, ve l'assicuro.

LIN. No, mi sono solamente ingannato quando ho creduto, quando ho prestato fede ad una perfida, ad un'indegna.

TOG. (a Lindoro) Ehi, parlate bene in casa della mia padrona.

FLA. (a Lindoro) Voi siete uno sciocco, e non sapete quel che vi dite.

TOG. (a Don Flaminio) Ehi, ehi, signore.

LIN. Voi siete un perturbator della pace, un seduttor dell'onestà.

TOG. (a Lindoro) Che parole? Che bestialità son queste?

ZEL. Ah! marito mio, cosa dite?

TOG. (da sè) (È sua moglie, ora ho capito.)

LIN. Andate, che siete una perfida, un'ingannatrice. Oh donne, donne; chi si può fidar delle donne?

TOG. (a Lindoro) Ehi, ehi, parlate ben delle donne, che cospetto!...

FLA. Vostra moglie è l'esempio della prudenza e dell'onestà.

LIN. Lo era, ma non l'è più.

ZEL. Siete in inganno, ascoltatemi, ora posso dir tutto, ora saprete la verità...

LIN. Non vo' sentir altro. Ne ho sentito abbastanza. Siete una perfida, e v'abbandono per sempre.

ZEL. Abbandonarmi? Oh cieli! no, non lo merito. Ascoltatemi per carità.

LIN. Non vo' sentire altro, vi dico.

TOG. (da sè) (Gli spaccherei la testa colle mie mani.)

FLA. Venite qui, acchetatevi. Consento che Zelinda vi dica tutto.

LIN. Non vo' sentir altro.

TOG. (a Lindoro) Ma ascoltateli, che vi venga la rabbia.

ZEL. (a Lindoro) Il signor Don Flaminio...

LIN. È un cavaliere indegno.

FLA. Ah temerario! se non rispettassi Zelinda!!!

TOG. (a Flaminio) Fermatevi! (a Lindoro) Andate via!

LIN. Non crediate di spaventarmi... Ma saprò farmi conoscere. (parte)

TOG. Va, che il diavolo ti trascini. (dolcemente e politamente a Don Flaminio e Zelinda) Finite placidamente il vostro discorso.

SCENA XVII

DonFlaminio e Zelinda

ZEL. Eccomi precipitata per sempre. (parte)

FLA. Ah! il pericolo di Zelinda è urgente! Preferiscasi la giustizia all'amore. (parte)

SCENA XVIII

Camera in casa di Don Roberto.

Don Roberto e Donna Eleonora

ELE. Signor marito, dov'è la vostra dilettissima cameriera?

ROB. Che parlare ridicolo! Ella non è più mia che vostra.

ELE. Anzi non è mia niente affatto, poichè io non me ne posso servire.

ROB. Io credo che quando le comandate, non ricusi di far il suo debito.

ELE. Ecco qui; ora aveva bisogno di lei, e non c'è, e non si trova. Sarebbe per avventura nel vostro appartamento?

ROB. Voi siete una mala lingua. Avete sempre perseguitato quella ragazza, ed io dico e sostengo ch'ella non lo merita...

ELE. (ironicamente) E ch'è savia, e dabbene...

ROB. Sì, savia, dabbene, virtuosa e morigerata.

SCENA XIX

Lindoro e detti.

LIN. (entra agitato, e non fa che cavarsi il cappello)

ROB. (a Lindoro) Come? siete già ritornato?

LIN. Sì, signore, sono ritornato senza esser partito. Così fossi partito, senza esser ritornato.

ROB. Cosa c'è, cos'è stato? Avete voi veduto mio figlio?

LIN. L'ho veduto, sì, l'ho veduto. In Pavia, in un terzo luogo, in una camera con Zelinda.

ROB. Con Zelinda?

ELE. (ironica) Colla giovane savia, dabbene, morigerata?

ROB. Oh cieli! Li avete ritrovati insieme?

LIN. Soli, in conferenza, in colloquio... Eh giuro al cielo, la mia riputazione non è in sicuro.

ELE. (a Lindoro con ironia, guardando Don Roberto) Eh via, che siete una mala lingua! non perseguitate una giovane sì virtuosa!

ROB. Son fuor di me. Non so.

SCENA XX

Zelinda e detti.

ZEL. (con franchezza correndo verso di Don Roberto) Signore, sarà finalmente conosciuta la mia innocenza.

ROB. Che innocenza? Che parlate voi d'innocenza? Siete indegna dell'amor mio.

ZEL. Ascoltatemi per carità...

ROB. No, levatevi dagli occhi miei...

ZEL. (a Don Roberto piangendo e gittandosi in ginocchio e tenendo la faccia coperta col fazzoletto) Signore, movetevi a compassione di me.

ROB. Mi son lasciato ingannare abbastanza.

ELE. (a Zelinda) Per voi sono stata imputata di mala lingua.

LIN. (a Zelinda) Donna senza amor, senza fede, senza riconoscenza.

ZEL. (resta in ginocchio colla faccia coperta)

SCENA XXI

Don Flaminio,e detti.

FLA. Ah, padre mio amorosissimo, vi domando perdono.

ROB. Indegno! persisti ancora nell'amare Zelinda?

FLA. Io amar Zelinda?

ROB. E di che mi chiedi perdono?

FLA. D'un altro amore che potria dispiacervi. Zelinda è donna onorata, ed io non son capace di fiamme indegne.

ROB. (a Don Flaminio) Come! Non è dunque vero?... (con ansietà a Zelinda, che si alza piangendo)Alzatevi. (a Lindoro) E voi che m'andate dicendo?

LIN. Non gli credete. Li ho trovati da solo a solo.

SCENA XXII

Don Filiberto e detti.

FIL. Con buona grazia di lor signori. Signora donna Eleonora, datemi la permissione di ritirare la mia parola colla vedova di cui si tratta.

ELE. Sì, avete ragione; perchè Don Flaminio ama perdutamente Zelinda.

FIL. No, signora mia, v'ingannate. Scusatemi, amico, s'io son costretto a svelare la verità; egli ama perdutamente una virtuosa di musica.

FLA. È vero, non so negarlo, e di questo io vi domandava perdono.

LIN. (a Don Filiberto) Sono cabale, siete tutti d'accordo.

FIL. (a Lindoro, con sdegno) Mi maraviglio di voi. Siete un impertinente a parlare così.

ZEL. (a Don Filiberto, accennando Lindoro) Ah, signore, scusatelo per amor del cielo.

ROB. Ah, Lindoro, guardate s'ella v'ama, s'ella merita di essere amata!

LIN. (a Don Flaminio) Che facevate voi con mia moglie?

FLA. Dirò la verità. Amore mi ha condotto segretamente, era in casa di Barbara, ch'è l'amor mio. Venuta è Zelinda a sorprendermi, a correggermi, a illuminarmi, ed è opra sua il sagrifizio che fo della mia passione, ed il perdono ch'io imploro dal genitore.

ROB. (giubilante) Oh cielo! (a Donna Eleonora) Ah, che ne dite? È una femmina virtuosa?

ELE. (a Don Flaminio) Sposerà la vedova il signor Don Flaminio?

FLA. Farò tutto quello che mi comanderà il genitore.

ROB. Sì, caro figlio, che tu sia benedetto. Ti perdono, ti abbraccio. Sono pien di consolazione. (a Lindoro, con ansietà) E voi siete ancor persuaso?

LIN. Ma quella lettera verificata a puntino? Quella lettera trovata in man di Zelinda?

ROB. Non era scritta da Fabrizio alla figlia dello speziale?

SCENA ULTIMA

Fabrizio e detti.

FAB. Non signore, vi domando perdono. (fa vedere tutto a Roberto) Ecco la soprascritta, ecco il nome a cui era diretta, ed ecco la lettera scritta a me dal padrone, per recapitarla alla cantatrice.

ROB. Leggete, se sapete leggere. (a Lindoro) Ah, che ne dite?

LIN. (Son confuso, non so che dire.)

ROB. Conoscete ora qual moglie avete? Conoscete ora il merito suo, la sua innocenza, la sua bontà?

LIN. (addolorato) (Arrossisco di me medesimo. Non ho cuore di mirarla in faccia.)

ROB. Zelinda, vostro marito è confuso, è pentito, non ha coraggio. Eccitatelo voi; fategli animo voi.

ZEL. Ah, non mi guarda nemmeno. Mio marito ancor mi crede... Mio marito non m'ama più. (piangendo)

LIN. (voltandosi pateticamente) Sì, anima mia, che t'adoro.

ZEL. (gli corre vicino e s'abbracciano)

ROB. Mi fanno piangere dall'allegrezza. (a Donna Eleonora) Che diavolo fate voi? Che cuore avete che non piangete?

ELE. Perchè volete ch'io pianga? Non piangerei nemmeno...

ROB. Nemmeno s'io crepassi; ne son sicuro.

ELE. Signor Don Filiberto, potete continuare l'impegno colla vedova. Don Flaminio la sposerà.

FLA. (a Donna Eleonora) Signora, io dipenderò da mio padre.

ROB. Abbiamo tempo, e ne parleremo. Mi basta per ora la vostra rassegnazione; opera delle insinuazioni di Zelinda. Tutto merito della virtù di Zelinda. (a Lindoro) E voi avete avuto cuore di tormentarla, e di sospettare di lei?

LIN. Signore, vi domando perdono...

ROB. Domandatelo a lei, e non vi vergognate di farlo; una moglie simile merita amore, umiliazione, e rispetto.

LIN. Sì, perdonatemi, o cara, v'ho tormentato, egli è vero, ma considerate che tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per eccesso d'amore.

ZEL. (dolcemente a Lindoro) Per eccesso d'amore?

LIN. Sì, per amore.

ZEL. Oh, una colpa sì bella merita bene che si perdoni. (si abbracciano)Son fuor di me stessa dal piacere, dalla consolazione. Chi conosce la gelosia, saprà il tormento che ci ha recato. Chi conosce il piacere di far la pace, saprà la consolazione che noi proviamo. E chi s'investe della passion dell'autore e di quella dei recitanti, saprà la gioja che può recarci il loro benignissimo aggradimento.

Fine della Commedia.