La giostra

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LA GIOSTRA

Commedia in un atto

di GIOVANNI MOSCA

                                                          

PERSONAGGI

DOMENICA

UN SIGNORE

MADDALENA

LA ZINGARA

UN GIOVANOTTO

UNA RAGAZZA

UN FOTOGRAFO

I GARZONI

LE DOME­STICHE

I SOLDATI

 (Un viale dei bastioni. Inverno; ma ci son già presagi di primavera nell'aria e nelle voci. Panchine, alberi nudi. Nello sfondo, la cancellata dei giardini pubblici. L'ul­ timo sole illumina il via vai domenicale delle dome­ stiche, dei soldati, dei garzoni di bottega. A sinistra si indovina la giostra per il suono di valzer che manda, e per i visi delle domestiche e dei loro accompagnatori, che si fanno sorridenti allorché guardano da quella parte. Al levarsi della tela, la giostra, prossima a fermarsi, man­ da le ultime note del valzer. La scena è quasi deserta. Su una panchina sono seduti un giovanotto tarchiato, dalla fronte bassa, i capelli a spazzola, le braccia corte, ve­ stito di scuro, a doppio petto, un panciotto di lana verde, le scarpe gialle, e una domestica coi cappelli raccolti a cercine, un corto soprabito verde, vestito giallo, calze bianche, scarpe nere: si tengono per mano, senza par­ lare, come incantati. Presso la cancellata dei giardini sta, in attesa, un fotografo ambulante, con la macchina a tre piedi e un tabellone con la mostra delle fotografie. La giostra si ferma, la musica finisce, ed ecco, ancora stor­ diti ed eccitati dai vorticosi giri, le domestiche e i gar­zoni: un gruppetto di tre domestiche, altre due che si tengono per mano, due o tre coppie di fidanzati, un croc­chio di soldati che osservano, ridono, azzardano paroline al passaggio delle domestiche, ma non osano presentarsi. Due domestiche si siedono su una panchina, e subito due giovanotti s'avvicinano, accendono le sigarette, cercano d'intavolar discorso, e il più ardito si siede sulla pan­ china: le ragazze vorrebbero far le contegnose, ma ri­ dono e si scambiano parole all'orecchio. Intorno al foto­ grafo si sono raccolti soldati e domestiche. Un soldato si fa fotografare in fiera posa: testa alta, piede sinistro avanzato, la mano sinistra dietro la schiena, la destra al fianco, e durante la lunga posa, serietà e silenzio da parte dei circostanti. Poi si fanno fotografare un giova­ notto e una ragazza: la ragazza appoggia il capo sulla spalla del giovanotto che con la mano destra le cinge la vita. Entra da destra una zingara con la gabbietta del pappagallo che al becco prende le pianete ov'è scritta la sorte: soldati e domestiche abbandonano il fotografo per stringersi intorno alla zingara. Appartate, tre dome­ stiche leggono in uno di quei grandi fogli colorati che contengono le parole delle canzoni in voga, e ne cantic­ chiano una in coro, sommessamente. Le ragazze e i gio­ vani raccolti presso la zingara leggono le pianete, e se le scambiano, ridendo. Poi la zingara si accinge a legger la mano e prende quella d'una domestica, la più giovane, che, tra impacciata e intimorita, la ritrae; ma le compagne, divertite ed eccitate, la persuadono a porger la mano alla zingara).

La Zingara                  - (con grande serietà) Vita lunga e fe­lice. Una malattia, ma a sessantanni. Dio, com'è Innga la linea dell'amore! (Osserva con attenzione, poi) Voi amate un militare, signorina.

Le Domestiche           - (ridendo) E' vero, è vero!

La Zingara                  - Un militare ch'è qui presente.

I Soldati                      - (ridono, e indicano uno di loro, che nega e si schermisce, così come, attorniata dalle compagne, nega « si schermisce la domestica. Ma è felice e, quasi senza resistenza, si fa sospingere verso il soldato, so­ spinto a sua volta dai commilitoni. Pur impacciato, il soldato le tende la mano).

Una Domestica           - Dagli la mano, Maddalena.

Maddalena                  - (non osa. La più ardita delle compagne prende la mano di Maddalena e la pone in quella del soldato. Poi tutti, come d'accordo, <si scostano, e Madda­lena e il soldato rimangono soli, tenendosi per mano, guardandosi negli occhi. Intanto il giovane che s'è seduto sulla panchina presso le due domestiche, azzarda una proposta alla più vicina).

II primo Giovanotto   - Signorina, possiamo invitarvi al Castello delle Streghe?

La prima Domestica   - Troppo buio. 'E poi c'è la Morte.

La seconda Domestica - Ti ricordi? Che spavento, l'altr'anno, a veder la morte che si rizzava sul letto e agitava la falce! (Si stringe presso la compagna, come avesse ancora paura).

Il secondo giovanotto            - Ma l'altr'anno eravate sole.

La prima Domestica   - (provocante) E quest'anno?

Il primo Giovanotto    - Quest'anno ci siamo noi.

Il secondo Giovanotto - Per difendervi dalla Morte.

La seconda Domestica - O per baciarci?

Il secondo Giovanotto - Vi dis-piacerebbe, signorina?

La seconda Domestica - Io non mi faccio baciare che dal mio fidanzato.

Il primo Giovanotto    - E dov'è?

La seconda Domestica (ridendo) Non ce l'ho.

Il secondo Giovanotto (alla prima domestica)E voi, signorina?

La prima Domestica   - (triste) Io non voglio più averne.

Il secondo Giovanotto - Nemmeno per una sera?

La pbima Domestica   - Fino alle sette. Alle sette dob­biamo rientrare.

La seconda Domestica - Altrimenti, la signora... (La giostra riprende a girare. Ricomincia il valzer. Tutti vanno verso la giostra, come verso la felicità: il soldato e Maddalena si tengono per mano. I due giovanotti prendono a braccetto le due non riluttanti domestiche e s'avviano anch'essi a sinistra, verso il Castello delle Streghe. Anche la zingara esce di scena. Rimangono il fotografo, che torna ad appoggiarsi alla cancellata, e il giovanotto e la ragazza seduti sulla panchina).

La Ragazza                 - (senza levare il capo che tiene chino) E il bambino? Tra poco la signora se ne accorgerà.

Il Giovanotto              - Fasciati stretta stretta.

(La Ragazza                - Mi sono fasciata. Ma se stringo di più, il bambino muore. (Lungo silenzio. Entra in scena, inos­servato dai due, un uomo di signorile aspetto. Passeg­giava, ed è capitato sui bastioni. Guarda incuriosito verso la giostra, osserva il cartellone del fotografo, poi si siede sulla panchina prossima a quella del giovanotto e della ragazza).

Il Giovanotto              - Ti conduco alla «Maternità».

La Ragazza                 - Ho paura.

Il Giovanotto              - (con finta allegria) Paura di che? (Le cinge con un braccio la vita) Ti voglio bene, sai? Andiamo sulla giostra?

La Racazza                 - Sulla giostra ci vanno le ragazze. (Guar­da verso la giostra, come a una 'felicità che le è negata) Io non sono più una ragazza. (Si leva in piedi. Ha freddo. Si stringe nel corto e leggero cappottino).

Il Giovanotto              - (seccato di non poter andare sulla gio­stra) T'accompagno a casa. (Segue la ragazza che s'avvia verso destra. Mentre escono, entra Domenica: in­dossa un soprabitino dalle maniche un po' corte, un vestito violetto con un collettino bianco, calze da poche lire, scarpe nuove ma economiche e di cattiva fattura; i capelli sono ingenuamente raccolti e fermati con un fermaglio di vetrini, a forma di stella; porta stretta sotto il braccio una borsetta di lucida tela cerata rossa, non molto più grande di 'quelle che si regalano, come giocat­tolo, alle bambine; ha circa trent'anni, e più ancora che giovane e fresca è gentile e aggraziata; gli ingenui moti e gl'impeti fanciulleschi propri del suo animo, sono temperati e, direi, velati da una dolce mestizia soprav­venuta con gli anni. Entra in scena correndo, un istante dopo che, essendo sparito il sole, la giostra ha acceso d'improvviso tutte le sue luci. Dovrebbe far pensare, que­sto suo correr verso le luci, alle farfalle attirate dal lume. Passa correndo dinanzi al signore seduto, lo urta in malo modo e rischia di cadere, ma il signore la sorregge. Nello stesso istante, cessa la musica della giostra. Le luci, però, rimangono accese e da queste, per tutto l'atto, la scena, che per il sopravvenir della notte si farebbe sempre più buia, rimane illuminata).

Domenica                   - (dopo aver fissato con un certo stupore un uomo di così diverso aspetto da quello degli abituali frequentatori dei bastioni) Scusate, signore. Correvo...

Il Signore                    - (seccato) Non è la maniera, ragazza mia. (Ma dopo averla guardata in volto, cambia di tono) Cor­revate dove?

Domenica                   - (indica la giostra, e nella sua voce trema una lieta ansia) Là, verso la giostra.

Il Signore                    - (stupito) Anche voi? Tutti corrono verso la giostra come verso il paradiso. (Ironico) Quanti anni avete, dieci?

Domenica                   - (aspra) Che cosa volete da me?

Il Signore                    - (gaiamente) Niente. (Torna a sedersi, senza più interessarsi alla ragazza. Ma vedendo poi che essa rimane presso di lui) Vi domandavo se avevate dieci anni, perchè solo le bambine e bambini corrono verso la giostra come vi correvate voi. Vi piace tanto?

 Domenica                  - (tra diffidente e attirata) Tanto. (En­trano le ragazze e i giovanotti, ma si tengono nel fondo, facendo scena muta. Le tre ragazze che, leggendo nel gran foglio colorato, cantavano una canzonetta di moda, attra­versano da sinistra a destra la scena sommessamente can­ticchiandone un'altra. Maddalena, vedendo Domenica, lascia il soldato che la tiene per mano e muove alcuni passi verso l'amica; ma la presenza del signore la inti­midisce: si ferma a distanza, ritoccandosi i capelli e ag­giustandosi il vestito).

Maddalena                  - Non vieni con noi, Domenica? Ci siamo tutte. Ed è venuto Alberto.

Due o tre Compagne  - (con furbesca intenzione) Ed è venuto per te.

Il Signore                    - Sono le vostre compagne?

Domenica                   - (senza rispondergli, e rivolgendosi a Mad­dalena) Rimango. (Fa spallucce come per dire che di Alberto non le importa niente. Poi, al signore) Si. (Indicando Maddalena allontanantesi col gruppo che guarda incuriosito) Quella si chiama Maddalena: si fi­danza tutte le domeniche. (Pausa) Perchè è giovane, e crede ancora a quello che dicono gli uomini.

Il Signore                    - (sorridendo, e prendendo interesse) E voi non ci credete più?

Domenica                   - Io no. Ho trent'anni, sapete. (Pausa) Però, mi fidanzo ugualmente.

Il Signore                    - Si chiama Alberto il vostro fidanzato?

Domenica                   - (ridendo) No! Quello vorrebbe fidanzarsi.

Il Signore                    - E come si chiama allora?

Domenica                   - (con naturalezza, come fosse cosa normale) Non ne ho uno solo, ne ho tanti.

Il Signore                    - (meravigliato) Quanti?

Domenica                   - (dopo aver pensato un poco) Forse cin­que. (Contando con le dita della mano) Giulio... Um­berto... Mario... Carletto... Simone... (Vantandosi, come ci si vanta d'una gloria trascorsa) Ma l'anno passato ne avevo nove. (Attraversano la scena, abbracciate e mor­morandosi dolci parole, le due coppie reduci dal Castello delle Streghe).

Il Signore                    - E volevate bene a tutti?

Domenica                   - A tutti. (Guarda con invidia le due cop­pie che passano) Voler bene a uno o a nove è la stessa cosa. (Facendosi ardita) Voi non siete stato mai fidan­zato?

Il Sicnore                    - Sì, ma la mia voleva bene a me soltanto.

Domenica                   - Sapete perchè? Perchè era una signorina vera, e non una donna di servizio. (Prevenendo la stupita interrogazione del signore) Le signorine vere possono fare all'amore quando vogliono, nessuno le rimprovera, nessuno le disprezza per questo. Ma noi, donne di servizio, possiamo fare all'amore soltanto la domenica, durante le tre ore di permesse. Guai se lo facciamo nei giorni fe­ riali: la signora ci licenzia. (Scimmiottando la signora) «Faceva all'amore nei giorni feriali! Svergognata!». (Tristemente) Le signorine vere possono voler bene tutti i giorni: noi solo la domenica; e allora vogliamo bene rapidamente, intensamente, consumando in tre ore tutto il bene d'una settimana. (Chinando il capo) Ecco perchè ho cinque fidanzati, e l'altr'anno ne avevo nove. 

Il Signore                    - Quale sposerai... Domenica? Ti chiami Domenica, vero?

Domenica                   - Si, l'avete sentito da Maddalena, quando m'ha chiamato. (Prevenendo Ui parole del signore) Oh, non mi dite oh'è un bel nome. E' un nome da donna di servizio, ecco tutto.

Il Signore                    - E quale sposerai dei cinque fidanzati?

Domenica                   - Nessuno.

Il Signore                    - Ti fidanzi così! Senza pensare al ma­trimonio?

Domenica                   - Il matrimonio è bello col velo bianco, i fiori d'arancio, le musiche, e i paggetti che reggono lo strascico della sposa... Ma noi queste cose non possiamo averle. (Pausa) E poi, chi sposa le donne di servizio? Chi mantiene le promesse fatte alle donne di servizio? Che siamo noi? Niente. Da bambina ci consideravamo donne; da donne, bambine. (Quasi cattiva) E' per questo che facciamo mille dispetti, è per questo che siamo bu­giarde...

Il Signore                    - (con mite ironia) E qualche volta.

Domenica                   - (amara) Ladre, volete dire? (Scattando) Perchè rubiamo un paio di calze? Un tubetto di car­minio? Una spilletta con una perlina da mettere, la do­menica, sulla camicetta? Ma a noi sapete che cosa ru­bano? Tutto. Gli anni migliori... Voi, da ragazzo avevate una sorellina?

Il Signore                    - (sorridendo) Avevo una sorellina.

Domenica                   - Giocava, vero?

Il Signore                    - Giocava. Con le bambole.

JDomenica                  - Correva, con le compagne, ai giardini. (Si esprime ora con la tenerezza e il rimpianto di chi accenna a gioie mai godute, con Vintensità di chi, par­landone, s'illude quasi di vivere ciò che non ha mai vissuto) E al tramonto, quando mancava poco all'ora di tornare a casa, si prendevano per mano, e cantavano «Giro, giro tondo, cavallo imperatondo... ». (Pausa) Io non ho mai potuto cantare, io non ho mai potuto correre in cerchio «on le mie compagne, perchè avevo dieci anni quando diventai una donna di servizio, e i giochi dei ragazzi, ai giardini, li vedevo, e giravano in cerchio, ma io non potevo entrarvi, perchè d'età ero bambina, ma di mestiere donna, e dovevo sorvegliare il figliolo della padrona, un bambinone più alto di me, e dirgli, assen­nata e giudiziosa: « Quando sei sudato, bagnati i polsi prima di bere », e mettergli d'inverno la sciarpa di lana, e badare, d'estate, che non prendesse troppo sole, come una nonna, capite, io che avevo solo dieci anni e avrei preso tanto sole, avrei buttato via le sciarpe di lana, avrei bevuto, sudata, senza davvero pensare a bagnarmi i polsi. E un giorno scappai. Lasciai il bambino ai giardi­ni, e per tutto il giorno e per tutta la notte lo cercarono, e lo trovarono addormentato presso il laghetto dei cigni. Nel taschino gli avevo messo un biglietto: «Vado a gio­care ». Sì, al mio paese, a rivedere le mie compagne che tutte le sere, quando volano le rondini, giocavano nella piazzetta della chiesa. Tornai, ma feci appena in tempo a vederle. «Domenica! Domenica! ». Mi corsero incontro, volevano prendermi nel cerchio, ma più lesta a raggiun­germi fu mia madre, che mi picchiò.

 Il Signore                   - (la fa sedere sulla panchina, e le prende una mano).

Domenica                   - (amara) Le mie mani. (Si sottrae al te­nero gesto e nasconde le mani dietro la schiena) Sono rosse e gonfie di geloni. Voi non potete carezzarle. (Pre­venendo una cortese protesta del signore) Voi potete ca­rezzare solo le mani delle signorine: mani bianche, sor­tili e leggere. Le mie pesano.

Il Signore                    - Ma se lasciaste il servizio diventerebbero bianche...

Domenica                   - (scuotendo il capo) Sempre così. Si nasce" con le mani da donna di servizio, e si diventa donne di servizio, che non possono giocare, non possono fare al­l'amore, non possono avere un figlio. Avere un figlio è vergogna per noi; per le signore no. Noi abbiamo un figlio e non possiamo tenerlo con noi, perchè siamo donne di servizio; abbiamo un figlio e non possiamo an­darlo a trovare, altrimenti la signora ci licenzia. Ogni tanto viene una donna dalla campagna, e ci dice che 6ta bene, che cresce, ma a bassa voce, perchè non senta la signora; e ci porta una fotografia che nascondiamo eotto il materasso, o dentro una scarpa, e la possiamo guardare solo di notte, al lume d'un fiammifero, perchè se accendiamo la luce la signora grida dalla sua stanza.

Il Signore                    - Anche tu, Domenica, hai un figlio?

Domenica                   - (fra triste e ironica) Tutte ne abbiamo uno, almeno uno, in campagna, e i signori si lamentano perchè chiediamo salari alti: ma bisogna mantenerli, i figli.

Il Signore                    - Dovrebbe mantenerli il padre.

Domenica                   - (ride amara) Chi è il padre? O se sap­piamo chi è, è peggio, perchè un bel giorno sparisce, e come si fa a cercarlo con le tre ore di libertà che ab­biamo alla settimana? (Alza le spalle) Perciò non lo cerchiamo, e veniamo alla giostra, dove ci sono tante luci, e si gira intorno, forte forte, e la testa gira, e si sentono le musiche, come in paradiso, o come ai giar­dini, nei giochi da cui fummo escluse.

Il Signore                    - E tuo figlio è in campagna?

Domenica                   - Nascosto. (Pausa) Volete vederlo? Ho una fotografia.

Il Signore                    - (indicando la borsetta rossa di tela cerata) Nella borsetta? (Prende la borsetta, la osserva, e, come parlando a se stesso) La fotografia d'un figlio, e sembra la borsetta d'una bambina, di quelle che si rega­lano come giocattolo.

Domenica                   - Oh, non iqui, non qui. La signora mi fruga sempre nella borsetta. (Introduce una mano nel seno e ne estrae la fotografia del bimbo. La porge al si­gnore che la osserva).

Il Signore                    - Un bel bambino. Quanti anni ha?

Domenica                   - Cinque. Tutto suo padre.

Il Signore                    - Gliene volete?

Domenica                   - (Oh, no. '(Pensierosa) Basterebbe che una volta, almeno, venisse a vederlo.

Il Signore                    - (E l'avete rivisto il vostro...?

Domenica                   - Sempre, tutte le domeniche. (Guardan­dosi intorno) Forse è qui anche stasera. Andiamo insieme sulla giostra. (Pausa) Io vorrei ehe la giostra, una sera, mi portasse via. Dove, non so. Insieme alle musiche. (Pausa) Oh, non proprio, ch'io voglia morire, ma vorrei, una sera, non dover tornare a casa alle sette, alle sette precise, con la signora che aspetta presso l'orologio, e se ho tardato un minuto mi guarda cattiva, feroce. (Pausa. Poi, come parlando a se stessa) Portata via dalla giostra, e passare volando davanti alla finestra, e vedere la si­gnora che aspetta, e farle le boccacce, così. (Fa una comica smorfia). Il Signore        - (sorridendo) Bambina.

Domenica                   - Vorrei esserlo. Ma, con un figlio nascosto in campagna... E sempre fin dal primo giorno, fin dal momento in cui m'accorsi... ho dovuto nasconderlo. Al quarto mese cominciai a fasciarmi stretta stretta. Non potevo respirare. Ed ero combattuta tra la paura che la «ignora capisse e quella, più terribile, che nemmeno il figlio mio potesse respirare. Ogni tanto, non vista, allargavo le fasce, e gli dicevo piano: « Respira, amore ». E respirava buono buono, e quel po' d'aria gli bastava. (Pausa) La notte, oh, la notte sì ch'eravamo felici: mi toglievo le fasce, e mettendo una mano snl ventre sentivo muoversi le manine, i piedini: era come un frullo d'ali ohe subito svaniva, e allora mi dispiaceva che non ci fosse suo padre, perchè i piedini che si muovono bi­sogna essere in due a sentirli. Quel figlio è stato mio fino a che non potevo vederlo; poi, subito, l'ho dovuto nascondere. (Riprende la fotografia, la guarda, se la ri­pone in seno) Qui, dentro di me, come prima che na­scesse.

Il Signore                    - Che cosa gli farai fare da grande?

Domenica                   - (alza le spalle, senza rispondere. La giostra ricomincia a girare. Riprende U solito valzer. Domenica, attirata, si alza e fa per correre verso la giostra, sorrìden­do, improvvisamente dimentica di tutto. Ma il signore, dolcemente, la trattiene. Domenica, rassegnata, torna a sedere, nuovamente triste. Poi) Una volta, una mia compagna morì sulla giostra. Diceva sempre: « Un giorno la .giostra volerà su, su, e mi porterà in pa­radiso ». Le chiedevamo scherzando: « Com'è fatto il para­diso? ». Rispondeva: «Anche lassù suona la (giostra, e anche lassù dobbiamo servire, ma con padroni più buoni che ci fanno lucidare le stelle ». (Pausa) Avete visto, si­gnore, quelle stelle che improvvisamente mandano più luce delle altre, e sembrano più grandi? Vuol dire, diceva la mia compagna, che c'è una donna di servizio che le strofina forte forte con uno straccio, come le maniglie d'ottone. (Pausa. Guarda verso la giostra che sta girando) E' pericolosa, sapete, la igiostra. Se si rompe una delle Catenelle dei sedili che volano così in fuori, si può mo­rire; e la mia compagna morì così. Uno schianto, un grido, e la sera, quando guardammo in alto, fosse sugge­stione o no, vedemmo una stella, più grande delle altre, che mandava tanta luce. (Il cielo, nel frattempo, s'è fatto pieno di stelle; e vivissima è la luce della giostra. Ora questa torna a fermarsi, e la musica tace. Silenzio).

Il Signore                    - (si cava di tasca il portasigarette, prende una sigaretta, poi, come chiedendo scusa di non aver offerto) Sigaretta?

Domenica                   - (la prende, la guarda, la annusa) E' di quelle belle. (Apre la borsetta e ve la ripone dentro, religiosamente).

Il Signore                    - Non fumi?

Domenica                   - Io no. Il Signore       - A che ti serve?

Domenica                   - (riaprendo la borsetta) Ne ho altre, qui dentro; ma «nazionali». Le regalo ai fidanzati.

Il Signore                    - (incuriosito mette la mano nella borsetta) Posso guardare?

Domenica                   - Oh, sì.

Il Signore                    - (prenderà uno per uno gli oggetti, e li de­porrà sulla panchina) Un pettine. Un fermaglietto a cuore. (Guarda i capelli di Domenica, ornati dal ferma­glietto a stella).

Domenica                   - Pare di brillanti. Ma stasera mi son messo quello a stella. (Ingenuamente) Vi piace?

Il Signore                    - (commosso) Sta bene. Le sigarette. Uno specchietto rotto. Un rossetto per le labbra.

Domenica                   - Rubato alla signora. Ma quando mi ba­ciano me lo tolgo.

Il Signore                    - Un biglietto del Castello delle Streghe... Un altro biglietto. Ci sei stata con una compagna?

Domenica                   - No, con un...

Il Signore                    - Hai pagato tu?

Domenica                   - (alzando le spalle) E’ la stessa cosa.

Il Signore                    - (la guarda tra stupito e intenerito. Poi) Un fazzolettino ricamato.

Domenica                   - Devo regalarlo.

Il Signore                    - (prendendo delle fotografie) I tuoi fi­danzati, vero? Questo chi è? Mario?

Domenica                   - Giulio. Mario è questo. Questo è.-

Il Signore                    - (interrompendola) Scusa, che cosa fanno questi giovanotti? A vederli, garzoni di bottega, fattorini»

Domenica                   - Ebbene?

Il Signore                    - E tu non potresti aspirare a qualche cosa di meglio? Forse non lo sai, ma tu, ragazza mia, sei di­versa dalle altre. Un giovanotto di miglior condizione» (Estrae dalla borsetta un ultimo oggetto) Un portamo-netino (lo scuote, lo apre) con niente identro. E quando prendi il... la...?

Domenica                   - (ridendo) Mesata? Fra dieci giorni.

Il Signore                    - E nel frattempo? (Garbatamente accen­nando ad offrirle danaro) Senti, senza complimenti.

Domenica                   - (rifiutando con fermezza) No, grazie, si­gnore. Rubo sulla spesa.

Il Signore                    - (rimproverando) Ma...

Domenica                   - Brutto, vero?

Il Signore                    - (non risponde, ed evita di guardarla).

Domenica                   - (prende di sulla panchina le fotografie dei fidanzati, e le guarda una per una) Non (fanno per me, vero? (Ironica) Mi ci vorrebbe un principe, a me. (Ride).

Il Signore                    - (dispiaciuto) Non dico un principe, ma...

Domenica                   - (gettando una per una le fotografie sulla panchina, e accompagnando ciascuna di esse col nome della professione del fidanzato) Ma chi volete che faccia per me se non un fattorino, un garzone di bot­tega, un facchino...

Il Signore                    - (con un cenno la prega di tacere).

Domenica                   - Vi fanno paura queste parole? (Pausa. Poi, ironica) Ah, già, vorreste che mi mettessi con un giovanotto di buona condizione. Con uno come voi, per esempio (quasi gli tocca Vabito per indicarne l'eleganza). Per farmi canzonare.

Il Signore                    - Perchè canzonare?

Domenica                   - Perchè i signori ridono di noi. Noi non veniamo considerate donne, siamo una categoria a parte, il nostro amore fa ridere: l'amore d'una ragazza dalle mani gonfie, che sa di risciacquatura di piatti! Le lettere ch'io ricevo sono un divertimento per i miei padroni. La sera, quando le donne di servizio vanno a prendere il latte, i padroni leggono sempre le loro lettere, e come ri­dono agli sbagli di grammatica dei nostri fidanzati, come li diverte la calligrafia da ignoranti! E tutto, di noi, fa ridere, anche il dolore: quando morì la mia sorellina e mia madre me lo annunciò, i miei padroni risero molto agli sbagli. Mia madre aveva scritto: « E' morta alle otto preccise » con due «e». (Amara) Quante risate! (Pausa) E s'arrabbiavano perchè piangevo: dicevano che trascu­ravo il servizio. Sembra che niente, di noi, sia serio, tutto un gioco: la famiglia, l'amore... donne di servizio, è detto tutto. (Prende di sulla panchina i ritratti dei fidanzati, e, dopo averli guardati) E voi vorreste che la­sciassi i miei garzoni di bottega per un signore come voi? Ma se sono le uniche persone al mondo che ci prendono sul serio, che ci vogliono bene veramente! (Pausa) Oh, lo so: li considerate esseri inferiori, poveri stupidi inca­paci di sentimenti. Vi sbagliate. Guardate la mia mano. Prendetela fra le vostre. (Il signore, stupito, prende fra le sue la mano di Domenica) Pesante, eh? Fra carne, ossa e geloni, almeno due chili. Potreste, senza mentire, dire ch'è leggera, ch'è bianca, ch'è sottile? Ebbene, solo i garzoni di bottega, solo i fattorini dei droghieri sono capaci, la domenica, ai bastioni, di dirlo senza mentire, o a primavera, quando lasciamo la giostra per la cam­pagna, e facciamo all'amore sotto gli alberi o presso i pagliai. Solo i garzoni di bottega che, non sembra, ma hanno il cuore pieno d'amore e di poesia, sono capaci di sentire leggera la nostra mano pesante, di vedere in un fermaglietto di vetrini un diadema di brillanti, di dire ch'è delizioso di nostro povero profumo di violetta da una lira... Una volta un garzone mi disse « Regina » per­chè avevo le fibbie d'ottone alle scarpe, e me le baciò, e io gli carezzai i capelli ch'erano unti di cattiva brillan­tina, e mi pareva un principe. E se non sempre ci dicono « Regina », ci chiamano sempre signorina, e ci danno del voi, non del tu, pieni di rispetto. «Signorina, venite al ballo?»; «Signorina, posso invitarvi al Castello delle Streghe?»; «Signorina, quand'eravate sulla giostra, mi sembravate il sole che girava »... (Scattando) E dovrei sposarmi, io? Dovrei sposare un signore come voi e rinun­ciare a tutto questo, ai (voli sulla giostra, all'amore sui prati, alle parole dei garzoni? (Triste) Chi mi direbbe più «Regina»? Chi mi direbbe più, prendendo la mia mano: « Com'è leggera, sembra l'ala d'una farfalla »? Questa è la nostra vita, signore, una vita breve, che dura le tre ore di un pomeriggio di festa, ma ci basta per tutta la settimana, e se non piangiamo durante il nostro lavoro, e se cantiamo quando laviamo i piatti o mettiamo i materassi al sole è perchè dal lunedì mattina comin­ciamo a vivere nella speranza della domenica. Tre ore, ma si va sulla giostra, non si pensa più a niente. (Triste) Ma le sette arrivano subito: si sente come una voce, come un richiamo: «Torna a casa», la voce dura della pa­drona, e bisogna lasciare tutto, le musiche e le luci della giostra, il mondo che c'eravamo creato, tutto per noi, che sembrava non dovesse finir più, e invece basta una voce, un richiamo... Manca poco, vero, alle sette?

Il Signore                    - Pochi minuti.

Domenica                   - (guarda verso la giostra) L'ultimo giro di giostra. Io vado. E ivorrei, stasera, che cominciasse e non finisse più. Che scoccassero le sette, e la giostra non mi deponesse a terra, e ini portasse via, lassù, come la mia compagna, a sentir la musica del paradiso, ch'è poi la stessa. (Si leva in piedi) Buonasera, signore, e scusate se vi ho detto cose che a voi saranno sembrate ridicole. (Pausa. Il signore, senza parlare, le fa intendere che no, non gli sono sembrate ridicole) Ma non mi canzonate, vero? Buonasera, signore, e ricordatevi di me. Grazie della sigaretta. Ricordatevi di me, e se la catena della giostra si spezzasse, (ai cenni di protesta del signore, ride), non correte laggiù (indica la giostra) a raccoglier­mi: guardate in alto, verso le stelle, e vi saluterò. (La musica della giostra riprende a suonare. La scena viene attraversata da destra a sinistra da giovanotti e ragazze che accorrono, come in estasi, verso l’ultimo giro di giostra. Anche Domenica corre, e il signore rimane a lungo in atto di saluto, commosso, ed è come un saluto a persona che vada lontano, molto lontano. In scena, mentre la giostra gira e suona, non rimane che il signore. Anche il fotografo, raccolti i suoi arnesi, se n'è andato. Prima di uscire, Domenica si ferma a salutare per l'ultima volta il signore. In cielo, le stelle brillano fortemente. Il si­gnore torna a sedersi sulla panchina, pensieroso. Intanto la giostra gira e suona e manda luce. Improvvisamente uno schianto, un grido, la musica cessa di colpo, e di colpo si spegne ogni luce. Scena buia. Solo il brillare, ancor più intenso, delle stelle. Tanto buia, la scena, che il signore è invisibile, o quasi. Silenzio. Lungo silenzio. Ed ecco che una stella s'ingrandisce e diviene lumino­sissima, da vincere con evidenza le altre).

Il Signore                    - (guardando in alto) Domenica, sei lassù?

Voce di Domenica      - (proveniente dall’alto) Mi vedete, signore?

Il Signore                    - Non vedo te, ina una gran luce.

Voce di Domenica      - Come la mia compagna, signore. Anche quassù donna di servizio. Lucidiamo le stelle. (E si sente venire dall'alto, attenuata, la stessa musica, lo stesso valzer della giostra. La stella di Domenica risplen-de sempre più. Pochi istanti, e cala la tela).

FINE