La governante

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Dramma in tre atti

di Vitaliano Brancati

Bompiani Editore - Milano

PERSONAGGI

CATERINA LEHER, 25 anni

LEOPOLDO PLATANIA, 60 anni

ENRICO figlio di Leopoldo, 31 anni

ELENA moglie di Enrico, 33 anni

JANA, 18 anni

FRANCESCA, 20 anni

Portiere

ATTO PRIMO

QUADRO PRIMO

SCENA I

(Stanza di soggiorno dei Platania a Roma. Due porte. Una finestra da cui si vede la cupola di San Pietro. Una scrivania col telefono. Sedie, poltrone. Un tavolo ribal­tabile. Uno specchio).

Leopoldo (al telefono) - No, Alfio mio, non sono più don Leopoldo di venticinque anni fa, quando vivevo a Caltanissetta... Mia figlia si avvelenò perché nella terrazza di Saro Masumarra... Ah, te lo ricordi... Ma adesso sono un altro, un altro... Il mondo è cambiato, e voglio cambiare pure io, perché se no muoio pri­ma... Non dico che così non muoio, ma muoio più tardi... E tu, se continui a mangiarti il fegato per stu­pidaggini... (alzando la voce) perché sono stupidag­gini !... (con tono normale) presto ti stampano il nome sul giornale, con una croce sopra...

X -.....

Leopoldo - Ma che vuol dire?... (ripetendo le parole del­l'altro). «L'hanno vista ballare» ?... E va bene... X -.....

Leopoldo (c. s.) - «Nuda sul palcoscenico» ?... E va bene. È onesta ora?... (gridando spazientito) dico ora... (ripetendo le parole dell'altro). «È onesta»... Gli vuol bene a tuo figlio?... e dunque?... (c. s.). «Diventa rossa quando lo vede avvicinarsi»... «Se gli tocca la mano diventa pallida»... Sai che cosa vuol dire questo?... che si sentono... (grida spazientito) si sen-to-no... la carne di lei sente quella di lui... E allora?... Se vanno d'accordo, e le carni si sentono l'una con l'altra... falli sposare! Si ricreeranno a... sì... (con altro tono) Mia nuora è continentale... romana... ma anche tu avrai saputo che è una donna molto perbene... La gover­nante dei bambini?... la nuova?... né romana né mila­nese: straniera! francese! (gridando) fran-ce-se... Ma stai diventando sordo?... È arrivata tre giorni fa... (rat­tristandosi). Che ti devo dire? Non ne sono completa­mente soddisfatto... No, non è cattolica... no, non è come noi... no, non ci crede al Papa... (gridando). Non ci cre-de... al Pa-pa!...

Voce di Caterina Leher - Permesso?

Leopoldo (scostando il ricevitore dall'orecchio) - Avanti.

(Entra Caterina Leher).

SCENA II

Leopoldo (al telefono) - No. Dicevo «avanti» alla go­vernante... Bene... (ripete in fretta le ultime raccoman­dazioni). Falli sposare immediatamente... Hai capito?... immediatamente! (chiude il telefono).

Caterina - La signora dorme e non posso disturbarla. Volevo chiedere a lei il permesso di...

Leopoldo (interrompendola) - Mi scusi. Prima di par­lare di altri argomenti, desidero chiarire con lei un punto che mi preme molto. È la prima volta che ci troviamo a quattrocchi da quando lei è arrivata. (si mette a passeggiare su e giù davanti a Caterina che lo guarda con simpatia. Questo vecchio rude è oppresso dalla timidezza. Aspetta inutilmente che parli Caterina. Poi dice). Sì o no?

Caterina - Sì o no, che cosa?

Leopoldo (fermandosi) - Che è la prima volta che ci troviamo a quattr'occhi.

Caterina - Sì.

Leopoldo - Posso parlare liberamente?

Caterina - Prego. Mi fa piacere.

Leopoldo (riprende a passeggiare; di nuovo non sa da che parte incominciare il discorso; poi bruscamente) -In questa casa — lei se ne accorgerà — non ci sono pregiudizi. Io sono siciliano e mio figlio è nato in Sicilia, ma nessuno somiglia così poco a un siciliano quanto me e mio figlio. Si vive secondo i propri gusti, sempre, naturalmente, dentro i limiti dell'onestà, che sono più larghi di quanto io non credessi... (prendendo improvvisamente un tono malinconico). Perché lei deve sapere che una sera di vent'anni fa, a Caltanissetta, nella terrazza di Sarò Musumarra... (cambiando tono). Ma lasciamo stare. Dicevo che nella mia casa c'è li­bertà per tutti. Però fino a un certo punto... (si ferma come aspettando una risposta).

Caterina (perplessa) - Non capisco perché lei mi dice questo.

Leopoldo - Noi siamo tutti battezzati e cresimati. Come avrà visto, nella mia camera è appeso il quadro della Sacra Famiglia e, sulla spalliera del letto, c'è la pal­ma del giovedì santo... La sera, prima di andare a letto, mi faccio la croce... (guarda di traverso Caterina, aspettando ch'essa parli; poi, stanco della propria timidezza, dice bruscamente). Insomma, una bestem­mia, mi dispiacerebbe sentirla. Qui il solo che può be­stemmiare sono io, prima di tutto perché bestemmio di rado, e poi perché sono un rimbambito, e Domined­dio mi perdona. Gli altri non devono bestemmiare.

Caterina - Continuo a non capire. Chi altri dovrebbe bestemmiare?

Leopoldo - Noi non siamo bigotti, ma siamo cattolici... (c. s.). Insomma mi dispiacerebbe che lei dicesse una frase poco rispettosa.

Caterina - Nei riguardi di chi?

Leopoldo (tira fuori dal portafoglio un'immagine gual­cita, e battendovi sopra il dito) - Nei riguardi di Questo! Noi, Cristo, lo rispettiamo.

Caterina - Ma signor Leopoldo, sono cristiana anch'io.

(Pausa).

Leopoldo (la guarda stupito) - E allora perché mi ha detto che non è cattolica?

Caterina - Non sono cattolica, ma sono cristiana.

Leopoldo - Si può essere cristiani e non cattolici?

Caterina - Sicuro.

Leopoldo (perplesso e diffidente) - Forse non mi hanno spiegato bene questa faccenda. In ogni modo, se vo­gliamo essere amici, lei faccia quello che vuole. Abbia pure un fidanzato, un amante...

Caterina - Non ho nessun amante, e non sono fidanzata.

Leopoldo - La cosa non m'interessa. Se vuole, può ave­re anche due amanti... purché naturalmente non li fac­cia dormire nei letti della mia casa.

Caterina (con molta vivacità) - Mi dispiace che lei parli così!

Leopoldo - Io parlo senza peli sulla lingua. E lei mi deve lasciar parlare così, perché altrimenti non so par­lare. Non c'è nulla di male ad avere un amante...

Caterina (è evidente che fa uno sforzo penoso per do­minarsi) - Ma io non ce l'ho... La prego! Perché vuole insistere?

Leopoldo - Si calmi. Mica le sto dicendo che ha ru­bato. Lei non è sposata e non deve rendere conto a nessuno. È padronissima di avere un amante...

Caterina (al limite della pazienza) - Ma io non ce l'ho!...

Leopoldo - Tanto meglio. Vengo alla conclusione. Lei può fare quello che vuole, anche non avere un amante, se le fa piacere. Io non mi scandalizzo di nulla, perché non ho pregiudizi. Ma si ricordi che la mia massima è che un po' di religione nella vita ci vuole. Siamo d'accordo?

Caterina (tornando calma) - Molto d'accordo.

Leopoldo - Très bien. Non parliamo più di questo. Lei voleva chiedermi qualche cosa?

Caterina - Sì, il permesso di uscire.

Leopoldo - Coi bambini? Sono ancora le sette.

Caterina - Non coi bambini. I bambini sono a letto. Ci bada Jana. Vorrei uscire sola per andare in chiesa.

Leopoldo (stupito) - Come come, lei va in chiesa?

Caterina - Perché si stupisce?

Leopoldo - Nella nostra chiesa?

Caterina - No, nella mia. C'è una chiesa calvinista a duecento metri da qui.

Leopoldo - E cosa fa, nella chiesa calvinista?

Caterina - Assisto all'uffizio.

Leopoldo (calcando sul non) - Ma non alla Messa?

Caterina - Nella nostra chiesa, la Messa non si celebra.

Leopoldo (rassicurato) - Ah, dicevo! (con altro tono) Vada, vada pure.

Caterina - Grazie. (si avvia, poi si ferma). E lei non esce?

Leopoldo - No. Perché dovrei uscire?

Caterina - È domenica. I  cattolici, la domenica, non vanno a Messa?

Leopoldo - Sì... In Sicilia ci andavo, e spesso. Ma qui... le chiese sono lontane... Io, da quando abito in questa città umida, soffro di reumi al calcagno e cammino mostrando i denti come un cane di macellaio... Degli autobus, meglio non parlarne... Quando ci salgo, non faccio che litigare... E poi, le dico la verità (con riso­lutezza), penso che una persona può pregare anche a casa sua.

Caterina (è tornata indietro lentamente) - E lei è cattolico?

Leopoldo - Si, certamente.

Caterina - Ma per i cattolici non andare a Messa la domenica è un peccato grave.

Leopoldo - Non ci credo. Sono cose che dicono i preti. Ne inventano di tutti i colori... Andiamo! Non andare a Messa è un peccato grave come rubare o ammazzare?... no, amica mia, non mi va giù...

Caterina - Lei non è cattolico!

Leopoldo (la guarda rannuvolato) - Signorina, mi vuole insultare? Cosa sono io, turco?

Caterina - Non dico turco...

Leopoldo - Oh, dunque!

Caterina - Però non è cattolico...

Leopoldo - E insiste!

Caterina - Se io fossi cattolica, sarei felice di praticare la religione qui, a Roma, nella chiesa stessa del Vicario di Dio. Lei, a questo, ci crede?

Leopoldo - A che cosa?

Caterina - Che il Pontefice è il Vicario di Dio?

Leopoldo - Certamente. (con collera). Le ho detto che sono cattolico! Oh sangue di!... (si mette una mano sulla bocca). Mi fa anche bestemmiare. Sono cattolico!

Caterina - E allora perché non va a Messa? Le cose bisogna farle seriamente. Se io fossi cattolica, lo sarei seriamente, e andrei a Messa ogni domenica.

Leopoldo (la guarda; vorrebbe protestare; si pente; dice come conclusione) - Già.

Caterina - Mi scusi, se mi sono permessa di dire certe cose... e arrivederci. (esce).

SCENA III

Leopoldo (rimane perplesso; poi corre alla porta che dà nella camera dei figli; bussa) - Sveglia, sveglia! sono le otto. Si va a Messa.

Voce di Enrico - Cos'è questa novità?

Leopoldo - È una novità, purtroppo. Ma dovrebbe essere una vecchia abitudine.

(Entra Elena in vestaglia, aggiustandosi i capelli in disordine).

SCENA IV

Elena - Babbo, desidera qualche cosa?

Leopoldo - Vorrei andare a Messa con voi due.

Elena - Perché?

Leopoldo - Perché oggi è domenica.

Elena (perplessa) - Ma...

Leopoldo - So cosa vuoi dire: «Ma noi non ci andia­mo mai, a  Messa». Ebbene, male, malissimo! Dovremmo andarci tutti i giorni! anche se i preti mi sono antipatici. Che importa se sono antipatici? (cercando di convincere se stesso). Io sono cattolico, e devo an­dare in Chiesa lo stesso... (assorto). Però quanto sono antipatici!... (con voce di dubbio). Ma forse non sono cattolico?... forse sono protestante, senza saperlo... Tu cosa sei?...

Elena (con leggerezza) - Non lo so... Cattolica... Ma chi le ha messo in testa queste cose, oggi?

Leopoldo - La tua governante! (sbuffa). La tua governante!

(Entra, in slip e camiciola bianca a mezze maniche, Enrico).

SCENA V

Enrico (scherzando) - Caterina Leher ha fatto il primo scandalo?  (al padre). L'hai vista nuda?

Leopoldo - Nudo vedo sempre te. La governante è una donna seria... E non credere che, facendoti vedere in giro per la casa con queste gambette di pollo, le farai girare la testa! È una testa che non gira, quella della signorina Leher. L'ho già capito.

Enrico (alla moglie) - Non riesce a perdonarmi di aver­gli tolto il primato delle gambe in tutta la famiglia Platania.

Leopoldo - Cretino! Le chiami gambe quei due baston­cini? (guardando sardonico). E poi mi sbaglio o vedo delle varici?

Enrico - Ma guarda che faccia di bronzo! Dove le vedi, le varici? dove sono? E se anche ci fossero, non sa­resti tu il padre di questo vecchio varicoso? Se io fossi così, immagina come saresti tu!    .

Leopoldo - Cosa vuoi, che mi alzi i pantaloni davanti a tua moglie?

Enrico - Non sono geloso di un vecchio settantenne.

Leopoldo - Tu non sei geloso di nessuno.

Elena - Può dirlo veramente. Ieri sera ha permesso all'uomo più spiritoso di Roma di farmi una corte terribile.

Leopoldo (facendole il verso) Terr-ibile... Cosa c'era di terribile nella corte di quest'uomo spiritoso?

Elena - Prima di tutto la sincerità: una sincerità...

Leopoldo - ... Terribile.

Elena - Terribile. E poi un numero...

Leopoldo - ... Terribile...

Elena - ... Straordinario di parole indecenti. Diceva sin­ceramente tutti i suoi desideri — tutti — e chiamava col loro nome le cose che desiderava — tutte!

Leopoldo - E che cosa desiderava?

Enrico (con finta serietà) - Ma papà! Le cose che desiderava, è molto probabile che appartengano a Elena.

Leopoldo - Dovrebbero appartenere anche a te, pezzo di minchione, se è vero che sei suo marito!

Elena - Bravo, babbo. Le dò un bacio. (Lo bacia).

Leopoldo (nell'orecchio della nuora) - Ehi, Elena, que­st'uomo spiritoso dica quello che vuole, ma tu... ehm... Non voglio essere padre di un... (fa le corna con una mano).

Elena (sorridendo) - Stia tranquillo.

Leopoldo - E come si chiama quest'uomo spiritoso?

Enrico - Cesare Assunto.

Leopoldo - È romano?

Elena - Sì.

Leopoldo - E allora si chiama (con tono romanesco) Cè... (con astio). Mi figuro quanto sarà spiritoso. C'è...

(Entra la cameriera Jana portando un vassoio con tre tazze dì caffè).

SCENA VI

Leopoldo (prendendo una tazza dal vassoio, a Jana) - Ma perché cammini a piedi nudi?

Elena - La lasci stare. Tanto, è inutile. Con le scarpe si stanca.

Leopoldo (a Jana spazientito) - Ma è possibile che, dopo cinque anni che ti abbiamo sradicato dal tuo paese, sei sempre la stessa selvaggia? Se qui viene un estraneo, cosa pensa, che ti teniamo a piedi scalzi?

Jana - Ma io, quando sento suonare alla porta, mi metto le scarpe.

Leopoldo - Sicilia, Sicilia!... Che errore prendere una siciliana! (a Jana). Sei nata mendicante e rimani mendicante! Pezzente! 'ddumannera.

Enrico (al padre) - Lei, in cinque anni, non è cambiata, ma tu da cinque anni ripeti sempre le stesse cose.

Elena (indicando il suocero) - E chi vuole più bene a Jana, in questa casa, è lui.

Leopoldo (a Jana che guarda Enrico con espressione rapita) - Perché ti sei incantata adesso? Cos'hai visto? Sono due gambe, e brutte per giunta!

Jana (con un sorriso leggermente stupido) - No, signore, non sono brutte.

Enrico (ridendo, al padre) - Hai capito?

Leopoldo (a Jana) - Ma vattene... vattene via!

(Jana fugge).

SCENA VII

(Elena ed Enrico ridono).

Leopoldo - Perché ridete? Non è una donna, quella... è un cane con la parola... con qualche parola.

Enrico - Ma è tanto affezionata ai bambini.

Leopoldo - Pure i cani sono affezionati.

Elena - Non saprebbe rubare una spilla.

Leopoldo - Nemmeno i cani sanno rubare.

Elena - Incapace di dire una parola cattiva.

Leopoldo - E i cani, ne dicono parole cattive?

Enrico - Allora, la licenziamo? La rimandiamo in Sicilia?

Leopoldo (energico) - Non ho detto questo!

Elena (guardando fissa davanti a sé, contrae dolorosa­mente la faccia ed esclama col tono di chi vede una cosa orribile e vorrebbe e non può impedirla) - Ah, ah, ah!

Leopoldo - Che c'è?

Elena - Oh, Dio mio! Perché, queste cose?

Leopoldo - Quali cose?

Elena (al marito) - Ho pensato che eravamo in un pae­se del Trentino. Mi dici: «Vado dal barbiere, quello laggiù in fondo. Fra mezz'ora, quando avrai finito di fare i tuoi acquisti, vieni a prendermi!». Io entro in quattro negozi e compro un orologio a cucù, una col­lana di coralli e un mazzo di carte di nylon...

Leopoldo (fra i denti) - Tutte cose utili!

Elena - E dopo mezz'ora, vengo dal barbiere. C'è molta folla. Mi faccio largo... Cerco di te; non ci sei. Do­mando... Allora un barbiere in camice bianco, treman­do coi pugni stretti, mi dice: «L'hanno portato via poco fa... Mentre gli radevo la barba (quasi piangen­do) mi ha preso il rasoio dalla mano e si è tagliata la gola!».

Enrico - Dio, che orrore!

Leopoldo - Ma quando l'hai pensate tutte queste stupidaggini? Se un minuto prima parlavi con me?

Elena - E in un minuto ho visto tutto. Ed è durato mezz'ora.

Leopoldo (si avvicina alla nuora e le picchia la fronte con la punta delle dita) - In questa testa, c'è crusca!

Enrico (al padre) - Ringrazia Iddio che non ha sognato il portinaio che la violentava per le scale.

(Entra Caterina Leher che ha sentito le ultime parole)

SCENA VIII

Caterina - Mi scusino. (a Elena). Buongiorno, signora. Buongiorno, signor Enrico.

Leopoldo - Ma lei non era andata in chiesa?

Caterina - Ho pensato che ci andrò a mezzogiorno, se loro permettono.

Elena - Certamente, Caterina.

(Enrico passa e ripassa davanti a Caterina, esibendo le gambe nude e aprendosi la camicia sul petto, ma la ragazza, senz'alcun sforzo, riesce sempre a non guardarlo).

Leopoldo (a bassa voce al figlio) - Sta fermo, tanto non ti guarda.

Enrico (a bassa voce, fra serio e scherzoso) - Invece si è turbata... profondamente...

Elena - Quanto siete stupidi, tutti e due!

Leopoldo - Senta, Caterina, nella famiglia francese, presso la quale lavorava prima di venire qui, ha visto mai delle persone andare in slip per la casa?... Insom-ma, lei approva che un uomo mostri le gambe come una ballerina?

Caterina (guarda Enrico, non sa dominare il suo disagio) - Mi perdoni... (esce)

SCENA IX

Enrico - Papà, uno di questi giorni ti cucirò la bocca.

Leopoldo - Cosa ho detto di grave?

Elena (come facendo una scoperta) - È timida.

Leopoldo - Mi avete detto che le francesi sono di co­stumi liberi. Mi sarei spogliato anch'io per non fare la figura del siciliano arretrato... La verità è che non dovrei mai ascoltarvi... (va alla porta, chiama). Cate­rina!... Senta!... Venga un po' qui...

Enrico - Io taglio la corda.

Elena - Io vado a fare il bagno.

(Enrico ed Elena escono. Poco dopo entra Caterina)

SCENA X

Leopoldo - Avanti, avanti... (è confuso, passeggia ner­vosamente). Ho commesso una gaffe... (passeggia). Ma la colpa non è mia... (si ferma). Mi tolga una curiosità: è vero che lei ha esitato a venire da noi perché cre­deva che fossimo dei siciliani pieni di pregiudizi?

Caterina - La verità è tutta al contrario. Io ho avuto tre offerte: una da una famiglia francese, una da una famiglia milanese e una da loro. Ho preferito venire qui perché credevo...

Leopoldo - Credeva, che cosa? Parli francamente.

Caterina - Che questa fosse una famiglia all'antica, un po' patriarcale.

Leopoldo - Ed è rimasta delusa?

Caterina - Non vorrei dire adesso più di quello che penso. So che tutti loro sono delle persone molto per­bene. So che la signora è nota per la sua onestà, anche se...

Leopoldo - Anche se?... Dica! Non si fermi!

Caterina - Nulla.

Leopoldo - Come, nulla? Ha detto «anche se...». Continui!

Caterina - Non volevo dire «anche se».

Leopoldo - No, lei ha detto «anche se...», e deve continuare!

Caterina - Ebbene, anche se la signora ha un modo di parlare e di fare abbastanza spregiudicato... (con altro tono). Mi perdoni. Mi ha costretto lei a dire queste cose. Forse sarebbe stato meglio non dirle. E poi sono prive d'importanza.

Leopoldo - No, non sono affatto prive d'importanza! Lei sbaglia... (passeggia). E mi dica un'altra cosa: è vero che in Francia c'è tanta libertà di costumi?

Caterina - Secondo. Non si possono fare regole gene­rali. C'è gente che vive molto liberamente, e altra in­vece che ha costumi rigidissimi. Conosco famiglie che sembrano  famiglie siciliane.

Leopoldo - Ma cosa mi dice? In Francia!..

Caterina - Si trovano quasi tutte nella provincia, ma qualcuna anche a Parigi.

Leopoldo - A Parigi, eh!... (mette nella parola Parigi tutta la collera che prova contro chi sosteneva il con­trario) a Parigi!... Qui i miei figli, invece, mi hanno riempito la testa di sciocchezze. Mi hanno detto che in Francia si parla della Sicilia come di un paese africa­no; che nelle famiglie c'è una libertà assoluta...

Caterina - Senza dubbio, c'è molta libertà. Ma io personalmente preferisco le famiglie all'antica.

Leopoldo (una pausa, poi sbotta) - E io no forse? Chi sono io, un modernista, un futurista, un esistenzialista, un naturista? Cosa crede, che mi piace vedere i primi arrivati mettere le mani sul seno di mia nuora con la scusa di guardarle la spilla? ovvero infilarle il brac­cio sotto il braccio nudo, addirittura dentro l'ascella, per accompagnarla da una stanza all'altra? ovvero sentirle dare del tu a Gigetto, a Franz, a Enrichetto, gente che ha conosciuto il giorno avanti e di cui non ricorda nemmeno il cognome? o vederle alzare la veste sopra il ginocchio per mostrare che s'è fatto un graf­fio? o vederle toccare i mariti di altre per aggiustargli la cravatta o levargli un peletto dalla faccia? Dicono che noi siciliani siamo sporchi e abbiamo le cimici in casa... Ma in quali case?... E poi voglio anche ammet­terlo: in certe case coi muri vecchi ci sono le cimici. Ma nelle loro c'è la spirocheta pallida! Forse che una signora con la spirocheta pallida è più pulita di una signora che ha una piccola cimice nella spalliera del letto e l'indomani la brucia con la fiamma della can­dela? Forse che le cimici sono più ributtanti della sifi­lide? (si accorge che Caterina è a disagio). Mi perdo­ni... Lei arrossisce... La bacio, per questo rossore che le fa onore (la bacia), in fronte, come una figlia.

Caterina - Grazie. Com'è gentile! La conosco da tre giorni, ma le voglio tanto bene. Ieri mi son permessa di sfogliare il volume rilegato che lei legge ogni sera.

Leopoldo - È una collezione di riviste di... aspetti (fa il calcolo)... di sessant'anni fa.

Caterina - Mi piacciono molto.

Leopoldo - Davvero le piacciono?

Caterina - Più di quanto lei può immaginare. Gliele leggerò io a voce alta quando i bambini si saranno addormentati.

Leopoldo - Che brava! (le stringe una mano con tutt'e le sue) brava! (cambiando tono). Lei deve sapere che a Caltanissetta ero conosciuto per la mia severità e per la mia, perché non dirlo? gelosia. I giovanotti, quan­do si avvicinavano alla mia casa, facevano il giro largo, come i colombi — li ha visti mai? — quando sul cornicione di una chiesa vedono un altro colombo morto... (con grande tristezza). Una sera di vent'anni fa... du­rante un ballo sulla terrazza di Sarò Musumarra... perdetti il lume degli occhi e gridai a mia figlia Agatina di ballare più scostata... Mia figlia aveva quindici anni e si avvelenò. Ma io non lo volevo gridare a lei; vole­vo gridarlo a quel mascalzone che le ballava incollato come se volesse succhiarle il sangue, tutto addosso come una mignatta... Che disgrazia!... Poi venni a Roma con mio figlio e mia nuora... E sono cambiato.... cioè, mi comporto come se fossi cambiato, e mi sforzo di pensare che sono cambiato... Ma il mio cuore è sempre là, a Caltanissetta, nella casa con le persiane verdi, perché le case devono avere le persiane e non questa porcheria di saracinesche... In quella casa sgri­davo tutti, e li facevo tremare, ma tutti quelli che sgri­davo, li adoravo, ed essi adoravano me. A Jana, a quel­l'idiota, le voglio bene perché si lava i capelli col pe­trolio come mia madre, e quando mi passa vicino, quasi la picchierei, perché non voglio ricordarmi che sono vecchio e non sono più come avrei voluto essere... Ma lei, quella povera idiota, mi ha dato aria... l'aria che mi mancava.

(Entra Elena in slip, con le mani divaricate per far asciugare lo smalto spalmato sulle unghie).

SCENA XI

Leopoldo (la guarda, fuori di sé) - Anche tu! (esce).

SCENA XII

Elena - Cos'ha, è arrabbiato?

Caterina (con tono poco convinto) - No, non mi pare.

(Squilla il telefono).

Elena (mostrando le unghie umide) - Vuole rispondere lei, per favore?

Caterina (va al telefono, alza il ricevitore) - Pronto... (come assalita da una valanga di parole che non le la­sciano il tempo di rispondere). Ma vede... Ma io... Ma si, bene, ascolto, ma... (ascolta con viso lungo e rassegnato)... Ho capito, la moglie... Ma io... (ascolta forza­tamente). Del marito... ma... Il mendicante, si... Ho capito, la moglie... ma...

Elena - Chi è, Caterina?

Caterina - Non so. Mi ha scambiato per lei evidente­mente... (al telefono, energica). Chi parla?... (a Elena). L'ingegnere Assunto... (al telefono). No, sono la go­vernante... (in fretta). Ma la signora è qui... pronto... è qui, aspetti... Pronto... (a Elena) ... Non m'ha sentito... Ha chiuso.

Elena - Oh, peccato! Ma cosa le ha detto, tutto questo tempo?

Caterina (con tono di calmo compatimento) - Mi ha raccontato una storia.

Elena - Chi sa com'era divertente! Che peccato!... E lei non ha riso?

Caterina - Ma non so... Non ho riso?

Elena - No, non l'ho vista ridere. E cos'era, questa storia?

Caterina (c. s.) - Si trattava di un mendicante che chie­deva a una signora di dargli quello che il marito non usava più...

Elena - Oh, bello! E la signora, cosa gli dava?

Caterina - Ma non ricordo.

Elena - Che peccato! Come fa ad averlo dimenticato così presto? Cerchi di ricordarsi!

Caterina - Proprio non ricordo.

Elena - Chi sa com'era divertente! Che peccato!... (con altro tono). Come la trova la voce di Cesare?

Caterina - Chi è Cesare?

Elena - L'ingegnere Assunto.

Caterina - Buona.

Elena - Lo dice poco convinta.

Caterina - Sì, buona... fuorché nei momenti in cui ride.

Elena - Come sarebbe? Non le piace la risata di Cesare?

Caterina - Sì, mi piace. Però gli si chiude troppo la gola. La risata gli diventa sempre più sottile e ingolata e finisce col somigliare a una tossettina... Si ha l'impressione... Posso dirlo?

Elena - Deve dirlo.

Caterina - Che questo signore stringa anche le spalle e alzi i gomiti come...

Elena - Come, che cosa?

Caterina - Questo non vorrei dirlo davvero.

Elena - No, la prego di dirlo. (sorridendo). Glielo ordino.

Caterina - Come un burattino.

Elena (dopo aver pensato) - È vero. Ha qualcosa del burattino. Però è molto intelligente e colto. Sa che conosce le vitamine meglio di un dottore? E poi è un psicanalista bravissimo... Per me è un uomo benefico. Avrei bisogno sempre dei suoi consigli. Io ho molte inibizioni, sa? e vorrei tanto guarirne.

Caterina - Ho studiato psicanalisi in Francia...

Elena (interrompendola felice) - Ah si? Che bellezza!

Caterina - E mi sono convinta che le inibizioni, in mas­sima parte, sono cose di cui non bisogna guarire, spe­cialmente se il soggetto è una donna.

Elena - Ma che dice?

Caterina - La vita, con le inibizioni, è più ricca, creda a me. E l'espressione di una donna inibita è molto interessante.

Elena (istintivamente sì guarda allo specchio) - Dav­vero? (continuando a guardarsi, si alza ì capelli in modo da scoprire il profilo)

Caterina (le si avvicina di spalla e fissandola nello specchio) - Signora!

Elena (sì volta di soprassalto) - Che succede? Perché è così addolorata? Una cattiva notizia?... Guardi! (mo­stra le mani). Ho le mani senza una goccia di sangue... Poi dice che non devo curarmi delle mie inibizioni... Ho già visto uno dei miei bambini investito da un tram e stritolato... (si calma). Mi scusi. Di che si tratta?

Caterina (è in imbarazzo, non sa più se deve parlare).

Elena (ansiosa) - Ma di che si tratta?

(Pausa)

Caterina - Lei, signora, conosce bene Jana?

Elena - Perché mi fa questa domanda?

Caterina (già pentita) - Oh, per nulla... Nulla...

Elena - Come nulla? Parli...

Caterina (stringendosi le tempie con le dita) - Appena ne parlo a voce alta, mi convinco che è una pazzia... un brutto sogno a occhi aperti... Mi perdoni... Se permette, anzi, torno di là.

Elena (trattenendola) - No, scusi. Lei doveva parlarmi di Jana?

Caterina - Sì.

Elena - E che cosa voleva dirmi?

Caterina - Una cosa che, appena comincio a dirla, mi sembra completamente aberrata.

Elena - Si è accorta che Jana fa la cresta nella spesa?

Caterina - Oh, no. Ho capito invece che è una ragazza onestissima. Si farebbe ammazzare per loro. Bisogna vederla come difende i loro interessi coi rivenditori. Quando si tratta di questa casa, diventa feroce come un cane da guardia.

Elena - E allora?

Caterina - La cosa riguarda me.

Elena - Lei?

Caterina - Sì.

(Pausa)

Elena - Ma cos'è? lo dica!

(Pausa)

Caterina - Mi trovo in un grande imbarazzo.

Elena - Si spieghi, la prego!

Caterina - Non è facile, signora.

Elena - Ma si è comportata male con lei? Le manca di rispetto?

Caterina - No... (pausa; poi si fa coraggio e comincia a raccontare). Mi guarda... (si ferma pentita).

Elena - La guarda?

Caterina - Si, ma in che modo! Ieri ho voluto osservarla. È rimasta a guardarmi per quattro minuti... dico quattro minuti di orologio. Aveva in una mano una stoviglia da asciugare e nell'altra lo strofinaccio... È rimasta per quattro minuti immobile, così (tiene sol­levate e immobili le braccia con le mani chiuse), a guardarmi. Quattro minuti sono lunghi, sa?

Elena - Oh, lo credo. Dev'essere un gran fastidio sen­tirsi dietro una povera idiota che ti guarda con gli occhi sbarrati. Glielo dirò io di non stare più a guar­darla e di lavorare. (cercando di spiegare). Dev'essere rimasta impressionata dal fatto che lei è straniera. Chi sa che cosa crede? (cambiando tono). Sfido però che sentirsi guardata come un animale raro dev'essere mol­to noioso. Ma vedrà che accomodo tutto.

Caterina - No, signora. Non le dica nulla. È così buona, così semplice...

Elena - Questa è una sacrosanta verità: Jana è la più semplice e buona ragazza che io abbia conosciuto. Ve­drà che col tempo si abituerà a lei e non starà più a guardarla.

Caterina - Ieri sera però...

Elena (alza gli occhi sul viso della governante; il sor­riso di chi ha accomodato le cose è scomparso dal suo volto).

Caterina - Ero nella mia camera e dicevo le mie pre­ghiere... D'un tratto sento aprirsi la porta piano piano.

Elena - Dio mio.

Caterina - Non mi sono voltata, ma dal rumore dei pie­di scalzi ho capito ch'era lei. Ho continuato a pregare, nonostante che lo sguardo di quella poveretta, così fisso, continuo... e poi quel respiro un po' affannoso che ha lei quando guarda attentamente... mi desse un tale disagio...

Elena - Lo credo bene. Ma perché non si è voltata e le ha detto chiaramente di smetterla?

Caterina - Speravo che se ne andasse da sola e richiu­desse la porta. Pregavo con tutte le forze Dio perché la convincesse a fare così. Avrei dato non so che cosa pur di ottenere questo. E invece tutt'a un tratto mi ha detto...

Elena - Le ha parlato

Caterina - Sì.

Elena - E cosa le ha detto?

Caterina - Mi ha detto: «Signorina, se lei è molto stanca, posso aiutarla io a spogliarsi».

Elena - Jana le ha detto questo? E... (d'un tratto capisce). Oh...  Signore Iddio... Jana?

Caterina - Perché, lei signora?... (vorrebbe dire: s'era accorta di qualcosa?).

Elena - Ma di nulla!... (di nuovo con tono di grande stupore). Jana!

Caterina - La prego, signora! Non dica niente alla ra­gazza. E poi aspetti! In queste cose, è così facile in­gannarsi... Io mi son confidata con lei perché credevo... Ma se lei non si è accorta mai di nulla...

Elena (assorta, sempre col solito tono) - Jana!

Caterina - Può darsi che io abbia detto la cosa più in­giusta e cattiva... in buona fede naturalmente. Ma che vuoi dire? Sarebbe lo stesso la cosa più ingiusta e cattiva... Mi promette che non farà nulla, prima che io provi ancora per qualche giorno? Me lo promette? La supplico, signora!

Elena - Glielo prometto.

Voce di Leopoldo - Elena, dove sei? Elena!

Caterina - Le vado a prendere la vestaglia. (esce).

SCENA XIII

Elena (sempre con lo stesso tono) - Jana!

(Entra Leopoldo).

SCENA XIV

Leopoldo - Da oggi qui le cose cambiano. (passeggia davanti alla nuora che è assorta nel suo pensiero fisso). Chiamatemi pure vecchio arretrato, africano, selvag­gio... Chiamatemi come volete! Ma qui bisogna tor­nare indietro. Siamo andati troppo avanti!...

(Entra Caterina recando la vestaglia di Elena).

SCENA XV

Caterina (si avvicina a Elena e le poggia la vestaglia sulle spalle)

Leopoldo - Brava! Era tempo! (Caterina, rimanendo dietro le spalle di Elena, le passa le braccia sui fianchi e le chiude piano piano la vestaglia davanti, le annoda la cintura: sembra che ella pensi ad altro, i suoi gesti sono lenti e sbadati). In questa famiglia, c'era una sola persona che si comportava come una vera donna, col rossore sulla faccia... Non dico che gli altri fossero di­sonesti... Ma non si arrossiva più, in questa casa... Si dicevano parole da taverna, si andava nudi, si tocca­va... si toccava il primo venuto come se fosse stato un fratello o il marito... e ci si lasciava toccare, non dico con secondi fini... ma si toccava troppo... Le persone, non si toccano! Abbiamo la parola: la parola va bene... non c'è bisogno di toccare... (calcando sulla prima pa­rola e isolandola). Una non si comportava così... E quest'una, questa ragazza, la sola che somigliasse a mia figlia Agatina, l'abbiamo trattata come una scim­mia... Ma da oggi le cose cambiano. Questa persona sarà portata in palma di mano.

Elena - E chi è questa persona?

Leopoldo (quasi con rabbia) - Jana!

Elena - Jana? (si volta di scatto, liberandosi delle mani che la governante le tratteneva ancora sulla cintura; fa un piccolo passo indietro per scostarsi da lei, e ri­pete). Jana.

Caterina (guarda Elena, alzando con un gesto di pazienza le sopracciglia).

Leopoldo - Perché vi guardate?... Cosa c'è? (le due donne lo guardano in silenzio, poi tornano a guardarsi). Che diavolo c'è?


QUADRO SECONDO

SCENA I

(La stessa scena del primo quadro. Leopoldo, Enrico, Elena e Caterina finiscono di jar colazione intorno a un tavolo ovale e ribaltabile).

Leopoldo (respingendo il piatto) - Tutto quello che man­gio mi va in veleno. Divento pazzo... Una siciliana!... una ragazza di paese!...

Elena - Ma babbo, non è ancora detto che sia vero quel­lo che sospettiamo. Caterina stessa non è sicura della sua... (s'interrompe)

(Entra Jana recando un vassoio con la frutta).

SCENA II

(Jana si avvicina col suo solito sorriso, camminando impacciata dalle scarpe col tacco alto. Serve per primo il signor Leopoldo che, spingendosi indietro con la sedia, si volta per osservarla col cipiglio di chi non crede ai suoi occhi. Jana risponde a quello sguardo allargando il sorriso incosciente che le sta sempre sulla bocca).

Enrico (tocca il braccio di Leopoldo) - Papà vuoi una pesca o una pera?... o uva?

Leopoldo (con un leggero soprassalto) - Eh?... Una pe­sca... No, una pera... O meglio, niente.

Jana (a Leopoldo) - Ho comprato per lei l'uva siciliana.

Leopoldo (amareggiato e brusco) - Va... va... (cerca di mitigarsi) servi la signora Elena.

Jana (serve la signora Elena che la fissa anche lei; la ragazza risponde col solito sorriso) - Prenda la pesca di sotto, signora: è la migliore.

Elena (col tono con cui si educa una bambina) - Sì, è la migliore, diamola alla nostra ospite. (indica Caterina).

Jana (a Caterina) - Oh, mi perdoni, signorina. Credevo che a lei le pesche non piacessero... Se no, si figuri! Lo sa quanto le voglio bene...

Enrico - Ma sta' zitta!

Elena (c. s.) - Ti ho detto che quando servi a tavola, non devi parlare.

Jana (si avvicina col vassoio a Caterina e glielo porge voltandolo da tutte le parti: poiché non deve parlare, cerca di esprimersi col sorriso e coi gesti; infine, ve­dendo che Caterina ha preso soltanto qualche chicco d'uva, non riesce a frenarsi) - Ma lei non mangia niente! così, vedrà, diventa un asparagio; perde tutta la bella carne che il Signore le ha dato...

Enrico (secco) - Jana... (con tono più dolce). Vieni qui. Dammi una pesca. (dopo averla guardata). Cos'hai sul naso?

Jana - Niente... Ho sbattuto.

Enrico (diffidente) - Dove hai sbattuto?

Jana - Sulla... Non ricordo... Sulla...

Enrico - Non hai sbattuto. Cos'hai fatto?

Jana (cercando di alleggerire le parole con gesti vaghi) Enrichetto, giocando, mi ha fatto così col piede...

Enrico - Così col piede... Ti ha dato un calcio sul naso!

Jana (spaventata) - Adesso lei non lo picchi. Perché lei gioca pesante con la mano.

Elena (severa) - Jana! (cambiando tono). Hai lasciato il caffè sul fuoco?

Jana - Oh, sì, signora. (senza capire bene quello che fa, mette il vassoio nelle mani di Elena e corre via)

SCENA III

Caterina (con voce ferma, a Elena) - Signora, purtrop­po quello che sospettavo è vero. Non mi domandi, per favore, perché lo dico con tanta sicurezza. Ma è vero.

(Tutti rimangono colpiti).

Leopoldo (dando una manata sulla tavola) - Se ne andrà...

(Rientra Jana sorridendo).

SCENA IV

Jana - Posso prendere il vassoio con la frutta? (nessuno le risponde; si avvicina alla tavola, evidentemente lu­singata di essere guardata da tutti con tanto stupore, prende il vassoio ed esce).

SCENA V

Leopoldo - La licenzio immediatamente! Non la posso vedere...

(Rientra Jana).

SCENA VI

Jana - Devo sparecchiare?

Leopoldo (gridando) - No!

Elena (con voce quasi normale, come a correggere il tono del suocero) - No, portaci prima il caffè.

Jana - Signorina, lei vuole caffè o l'acqua bollita con la buccia di limone?

Caterina - Grazie. Caffè.

Jana - Non faccia complimenti, signorina. Se desidera l'acqua bollita, a me non costa nulla. Ci vuol poco a prepararla. (a Elena). La signorina fa complimenti. Glielo dica che non deve farne...

Elena (interrompendola) - Jana, la signorina vuole il caffè. Portale il caffè.

Jana - Lei, signora, non la conosce bene. È molto gentile e si priva delle cose per non dare disturbo.

Leopoldo (urlando) - Porta il caffè!

(Jana esce).

SCENA VII

Enrico - Papà, calmati, per favore. Non è poi la prima volta che succede una cosa di questo genere.

Leopoldo - In Sicilia, è la prima volta.

Enrico - Ma che ne sai?

Leopoldo - Lo so.

Enrico - In ogni modo, qui siamo a Roma. Non siamo in Sicilia.

Leopoldo - Ma Jana è siciliana. (si alza, va alla finestra). Santo Iddio, in Sicilia, in quel suo paese ove non c'era che un canonico, si comportava come un angelo - e qui, a pochi passi da San Pietro... la sera, quando la stanza è al buio, arriva la luce della finestra del Papa, che sembriamo abitare nella stessa casa... — questa piccola canaglia mi fa... mi fa... (non può continuare).

Elena - Alziamoci.

(Caterina, Elena ed Enrico si alzano da tavola e vanno a sedersi nelle poltrone).

Leopoldo - Ma adesso, quando torna col caffè, le dò i soldi per un biglietto di terza classe, ripiglia i suoi cenci e se ne torna subito al suo paese. Questa notte non deve dormire qui.

Caterina - Signor Leopoldo, posso dire una parola?

Leopoldo - Lei ne dovrebbe dire più di una. Perché almeno dovrebbe spiegarci...

Caterina (interrompendo) - No, signor Leopoldo, non è possibile spiegare queste cose. E poi lei ha già ca­pito, mi sembra. Chi si sente peggio di tutti, qui, sono io.

Leopoldo - Ma dopo di lei, io. Chi sa cosa pensa lei della Sicilia, di noi? Che vergogna! Viene una francese da noi, e cosa trova? quello che nemmeno a Parigi...

Caterina - Ma signor Leopoldo, non sono una sciocca. Cosa c'entra lei, cosa c'entra la Sicilia in tutto questo? E se vuole saperlo, mi fa pena anche quella poveretta. Sono disgrazie che...

Leopoldo - Non le chiami disgrazie. Lasci stare!

Caterina - Sono disgrazie, signor Leopoldo, creda a me:  sono disgrazie.

Leopoldo (poco convinto e sempre irritato) - Va bene. Ma quando una disgraziata ha una... disgrazia come quella, a casa mia, nella casa di mio figlio, nella casa di mia nuora, nella casa dei miei nipoti, nella casa in cui vive lei, signorina, non ci rimane. Deve filare immediatamente.

Caterina - Mi perdoni, se insisto. Ma Jana, nella sua disgrazia, o colpa se vuole chiamarla così, conserva una tale innocenza!

Leopoldo - Quale innocenza? Stiamo diventando tutti innocenti. Le carceri sono piene d'innocenti. Le case di tolleranza sono piene d'innocenti. Io, in Sicilia, ho conosciuto un innocente che, per addormentarsi, dove­va sprofondare la mano dentro un paniere che teneva sotto il letto. Ho saputo dopo che, nel paniere, quel­l'innocente nascondeva la testa che aveva strappato a sua moglie con un'accetta.

Enrico - Ma Jana non ha strappato la testa a nessuno.

Caterina - A me fa tanta pena, quella ragazza.

Leopoldo - A me no.

Elena (a Leopoldo) - Lei lo dice, ma non è vero.

Leopoldo - È verissimo. Mi fa solo schifo. E deve an­darsene. Perché se questa notte rimane qui, io vado a dormire all'albergo.

Enrico - Andarsene dove? A Roma non conosce nessuno.

Leopoldo - Non me ne importa. Dorme alla stazione. Può darsi che la scambino per una prostituta, e così la mettono sulla giusta via, se non dell'onestà, della na­tura. Domani, all'alba, col primo treno, parte per la Sicilia.

Caterina - Non si potrebbe farla assumere in un'altra casa di qui?

Leopoldo - Signorina, che discorsi fa? Io, con questa bocca, dovrei raccomandare a una persona perbene di prendere nella sua casa un sudicio animale come quel­lo? E dove può impiegarsi? in una caserma di soldati, così lascia in pace tutti?

Caterina - No, signor Leopoldo, lei cede troppo alla sua natura di siciliano.

Leopoldo (permaloso) - Perché, è una natura che non va?

Caterina - Va benissimo. Ma in certi casi, ripugna trop­po a capire, a compatire... Io ho l'impressione che Jana sia, più che altro, una maniaca. Scommetterei qualun­que cosa che solo a me è affidata (con un sorriso ama­ro) la triste incombenza di renderla anormale. È un bel rimorso per me.

Leopoldo - Per lei? Sta a vedere che adesso la colpevole è lei.

Caterina - Ma vuole che non mi senta un po' colpevole se solo io sia pure non volendolo, non facendo nulla di male, anzi sorvegliando i miei gesti, e perfino il mio modo di guardare — ma in fin dei conti solo io... metto questa povera ragazza...

Leopoldo - Lei è molto buona e cerca sempre di scusare gli altri. Ma creda a me, quando un cervello è storto, è sempre storto. Che ne sa lei di come Jana si comporta con gli altri? Dico gli altri perché non mi va di usare il femminile.

Caterina - Si sarebbe saputo... si sarebbe capito... (indicando Elena) la signora si sarebbe accorta...

Elena - Ma io ormai capisco solo una cosa: che non mi rendo conto di niente.

Leopoldo (a Elena) - Tu ti sei messa in testa di essere una cretina e finirai col diventarlo.

Elena - Non è che mi son messa in testa di essere una cretina. È che...

Enrico (interrompendola) - Parliamo di Jana.

Caterina - Io avrei una proposta da fare.

Enrico - Dovrei anch'io dire...

Leopoldo - Lascia parlare prima la signorina Leher. È la persona più seria di questa casa. Parli, Caterina. Purché sia obbiettiva. Lei ha un solo difetto: quello di cercar troppo di capire gli altri e compatirli. In certe cose, c'è poco da capire: sono quelle che sono.

Caterina - Io avrei questa proposta da fare: me ne vado io e resta Jana.

Leopoldo, Elena, Enrico - No!

Leopoldo - Non lo dica nemmeno per ischerzo.

Elena - Noi ci siamo affezionati a lei in tal modo e così presto che evidentemente prima che lei venisse qui ci mancava qualcosa a tutti. I bambini poi sono impaz­ziti... (con altro tono). Ma sa che Enrico mi dà molte preoccupazioni? A dieci anni, è già così poco bambino, in certe cose.

Leopoldo - Fermati! Parliamo di Jana. (a Caterina). Lei, signorina, resta con noi. Sarebbe il colmo che buttassimo la pera per conservare la buccia. Anche se lei se ne andasse, Jana non rimarrebbe qui un solo minuto.

Elena - Io non ho il coraggio di licenziarla.

Leopoldo - Ce l'ho io. Il solo coraggio che mi manca è quello di cacciarla via senza prenderla a calci. Per­ché ciò che più mi tormenta è che questa delinquente ha fatto quello che ha fatto quando io avevo deciso di portarla in palma di mano e la sera, mentre mi posava il bicchiere con l'acqua sul comodino, la guardavo a bocca aperta perché mi pareva che somigliasse a mia figlia Agatina.

Enrico - Forse è meglio che la licenzi io.

Caterina (con un improvviso inaspettato singhiozzo che soffoca completamente premendosi un fazzoletto sulla bocca) - È così affezionata a loro. Ama i bambini come una madre. (a Enrico). È innamorata di lei. Ama il signor Leopoldo come una figlia. Ama questa casa co­me una gatta...

Leopoldo (severo e amaro) - E lei, come la ama, signorina?

Caterina (con tono fermo) - È indispensabile che loro mi facciano un favore, perché altrimenti Jana se ne andrà, ma io non potrò rimanere.

Enrico - Prego!

Caterina - Non dicano a Jana la vera ragione per cui viene licenziata. Una discussione con lei su quest'ar­gomento sarebbe superiore alle mie forze.

Leopoldo - Non occorre dirla. Quando una ha la coscien­za sporca e viene licenziata, capisce subito perché viene licenziata.

Caterina - Ma non Jana. (con pietà). È così stupida, po­veretta! (a E lena). I conti di Jana con Dio saranno sempre alla pari. Perché quando le sarà chiesto qual­cosa per le colpe che ha commesso, lei avrà qualcosa da chiedere per l'intelligenza che non ha avuto. Le pare, signora?

Elena (dopo un attimo) - Non ho capito quello che ha detto.

Leopoldo - Io l'ho capito. (a Caterina). Ma le rispondo che nessuno è stupido nel momento in cui fa il male.

Caterina - Le invidio codesta sicurezza, signor Leopoldo. Anche lei, in fondo, è innocente.

Leopoldo - Cosa vuol dire, che sono rimbambito?

Caterina - No, signor Leopoldo, voglio dire che lei, nel condannare le colpe degli altri, è innocente come Jana nel commetterle. La sua sicurezza, la sua mancanza di rimorsi è uguale a quella di Jana.

Leopoldo - Può darsi. Siamo siciliani tutti e due. Però lei una siciliana che fa ribrezzo e io (passando lo sguar­do su tutti i presenti) un siciliano che rompe le ossa a chiunque esce dalla strada giusta.

Caterina (a Leopoldo) - La sua severità di giudizio non sarà forse giudicata severamente. Ma quando lei li­cenzia Jana, io desidero non essere presente. (A Enrico ed Elena) e torno a supplicarli tutti di non accennare alla ragazza la vera ragione per cui viene licenziata.

Enrico - Ho detto che parlerò io a Jana. Mio padre questa volta mi farà il piacere di ricordarsi che ho trentun'anni.

Elena - Trenta, Enrico: esattamente due più di me.

Leopoldo (a Elena, sfogando anche in questo la sua rabbia) - Trentuno! Esattamente due meno di te.

(Entra Jana recando il vassoio con le tazze di caffè)

SCENA VIII

(Jana si avvicina più impacciata del solito, sembra che da un momento all'altro il caffè debba saltare fuori dalle tazze. Leopoldo va alla finestra per non guardarla).

Jana - Si è un po' bruciato, ma è buono lo stesso. (d'un tratto perde una scarpina e, dopo aver tentato invano d'infilarla, col vassoio che le oscilla fra le mani, si ferma come un uccello preso nella tagliola). Signorina Cate­rina, per favore, mi aiuti lei a mettere questa scarpa.

Elena - Posa il vassoio, e te la metti da te.

Jana (guardando attorno) - E dove lo poso? Signorina, per favore, mi aiuti.

Elena (alzandosi) - Ti aiuto io.

Jana - No, la signorina Caterina, la signorina Caterina!

Leopoldo (non sapendosi più frenare, dà una manata sul davanzale e si volta gridando) - Sei licenziata! (tutti rimangono interdetti, Leopoldo se ne accorge). È inutile che facciate quella faccia... (a Jana). Sei li­cenziata!

Jana (comincia a tremare; guarda tutti fra il timore che il vecchio dica la verità e la speranza che sia uno scher­zo) - Perché?

(Elena le toglie il vassoio dì mano; Jana rimane in mezzo alla stanza con un piede nella scarpina dal tacco alto, l'altro posato a terra).

Leopoldo - Stasera stessa, fili!

Jana - Perché, signor Leopoldo? Non ho... non ho... non ho... (non riesce a parlare, come incantata dalla inca­pacità di capire) non ho rotto nessuna tazzina... Mi sono fermata appunto per non romperle... (si leva l'altra scarpa e rimane a piedi nudi).

Leopoldo - Sei licenziata lo stesso!

Jana - È vero, signora Elena? Signor Enrico, è vero? sono licenziata?

(Caterina esce sconvolta).

SCENA IX

Jana - Devo tornare al paese?

Elena - Sì, Jana, è forse meglio che torni al tuo paese.

Jana - Ma perché?

Leopoldo - Perdio, perché? mi domandi anche perché?

Jana - Perché?

Leopoldo (con gli occhi fuori delle orbite e levando la mano) - Non dire perché!

Jana (rimane a guardare atterrita la mano levata di Leopoldo; poi inghiotte e dice) - E quando devo partire?

Leopoldo - Questa sera.

Jana (cerca di respirare profondamente per non svenire, e casca a sedere su una sedia).

Enrico - Non questa sera: domani mattina.

Jana (rimane col viso pallido e chino, masticando la saliva amara che le sale in bocca e guardando per terra come se stesse per addormentarsi).

Elena - Al tuo paese, ti troverai meglio. La città non è per te.

Jana (a bassa voce) - Enrichetto e Rosa!

Elena - Non sei nemmeno riuscita a prendere l'abitudine di camminare con le scarpe.

Jana (più forte, disperata) - Enrichetto e Rosa!

Elena - Ti ricordi che non volevi venire a Roma? che tua madre per farti salire con noi sulla macchina ti dovette picchiare?

Jana (urlando) - Enrichetto e Rosa! (con le dita divaricate e tremanti). Bambini miei! bambini miei!

Elena (un po' infastidita) - Ma andiamo, non sono tuoi figli. Troverai altri bambini...

Jana (fuori di sé, con gli occhi sbarrati) - Figli miei, figli miei, si! Lei li lascia per mesi interi... Io muoio, se non li vedo un giorno, muoio!... Sono figli miei!

Elena (le dà uno schiaffo) - Stupida!

Jana - Mi schiaffeggi... mi ammazzi... Ecco qua il col­tello... (prende un coltello dalla tavola e lo porge ad Elena). Mi ammazzi!

Enrico (le toglie di mano il coltello) - Sei veramente stupida!

Jana - Lei, signor Enrico? pure lei vuole che me ne vada? (piange). Io le voglio tanto bene... Me lo sogno la notte... (a Elena). E anche lei, signora, me la sogno la notte. Quando lei era a Viareggio, baciavo sempre il suo ritratto...

Elena - Al tuo paese, ti sposerai.

Jana (sempre fuori di sé) - No, non mi sposo!

Enrico - Perché?

Jana - Non mi piacciono gli uomini, non mi piacciono!

Leopoldo (sbotta di nuovo) - Via, via, via! Basta! Parti questa sera stessa! Dormi alla stazione e domani, alle cinque, prendi il treno che va in Sicilia!

Jana - Allora è fatta? Nessuno mi vuole!... Lei, signora Elena? (Elena abbassa il capo). No, niente... E lei signor Enrico?

Enrico (spazientito e addolorato) - Ah, Dio mio!

Jana (a Enrico) - Nemmeno lei!... Lei ce l'ha con me perché non le ho aperto la porta...

Elena (a Enrico) - Quale porta non ti ha aperto?

Jana - La mia... Bussava... Lei, signora, era a Viareg­gio... Bussava, diceva che stava male, ma io già c'ero andata nello studio, quando mi chiamò la prima vol­ta... e non era vero che stava male... A me quelle cose non piacciono... (indicando Enrico). Io me lo sogno la notte, ma non a quel modo... e poi voglio bene alla signora (con trasporto violento che mette Elena a disagio), voglio tanto bene a lei, signora!

Leopoldo - Esci subito di qui!

Jana - Nossignore, non esco!

Leopoldo (spingendola) - Subito via di qui, via!

Jana (si afferra ai mobili, punta i piedi, poi si butta per terra in preda a un attacco isterico) - Non esco, non esco!... Non me ne vado!

(Tutti si scostano).

Jana (si alza in ginocchio, cerca con gli occhi, poi grida verso la porta) - Signorina, lei che è buona come un angelo... dov'è? perché non mi aiuta? perché non la dice lei una parola?... Lei, bella signorina... signorina cara... amorosa... (istericamente). Signorina, signorina mia...

Leopoldo - Andiamo...  Se no le vomito addosso!  (a Jana). Ti farò cacciare dai carabinieri.

(Leopoldo, Enrico ed Elena si avviano).

Elena (si ferma sulla porta e prende il suocero per il bavero della giacca) - Babbo, mi tolga una spina dal cuore... No, voglio sapere soltanto se ho capito le pa­role di Jana... (a Enrico che cerca di svignarsela stri­sciando dietro di lei). Passa, farabutto.

(Enrico esce).

Leopoldo (a Elena) - Hai capito! (esce seguito da Elena che respira di sollievo per aver capito).

SCENA X

(Continuano i singhiozzi di Jana. Cala rapidamente la sera. La stanza si fa buia. Roma s'illumina del rettangolo della finestra. — Sulla porta appare Caterina).

SCENA XI

Caterina - Jana!

Jana (si trascina ginocchioni verso la governante, con le mani protese in avanti) - Signorina, signorina!

Caterina (con voce dolce e grave) - Senti, Jana cara...

Jana (l'afferra per le ginocchio) - Signorina mia...

Caterina (levandole le mani dalle ginocchia e scostan­dola) - Lasciami, prima, non mi toccare... Ecco, così... (siede su un divano). Vieni, ascoltami... (Jana le si av­vicina e rimane in ginocchio davanti a lei). Alzati.

Jana - No, no... voglio stare così davanti a lei che è tanto buona! (fa per afferrarle le mani che Caterina sottrae in tempo).

Caterina - Va bene. Sta così. Ma non mi toccare. Ascoltami: io voglio fare per te qualche cosa...

Jana - Lei è una santa! (vuole baciarle le ginocchia).

Caterina (esasperata) - Ma non mi toccare.

TELA


ATTO SECONDO

SCENA I

(La stessa scena del primo atto. Elena e lo scrittore Alessandro Bonivaglia sono seduti l'uno di fronte all'al­tra. Lo scrittore è un uomo di quarant'anni, che si di­rebbe contemporaneamente allegro e annoiato, felice di lavorare e stanco, sicuro di sé e pieno di oscuri presenti­menti, a giudicare dal modo con cui sbadiglia, fa scroc­chiare le dita, si diverte, impallidisce, si rivolta sul divano come un malato sul letto, ride bruscamente, dice tutto d'un fiato: «Ah, vorrei morire!». Qualcosa d'infantile e di gaio è nell'atto con cui egli comprende le cose, ma invariabilmente il risultato di ogni suo sforzo mentale è una cognizione lugubre).

Elena - Lei, Alessandro... (cambiando tono). Posso chiamarla Alessandro?

Alessandro (rivoltandosi di scatto per prendere da un tavolo una pasta che ingoia in un boccone) - Mi chiami come vuole.

Elena - Lei, Alessandro, che è un grande scrittore... (di nuovo cambiando tono). Sa che ho visto il suo ritratto in una rivista americana?

Alessandro (interessato) - Quando?

Elena - Ieri l'altro.

Alessandro - Che rivista era?

Elena - Non ricordo. Mi sembra Life.

Alessandro - Non è possibile. Non ho dato nessuna fotografia a Life.

Elena - Eppure a me sembra che fosse Life.

Alessandro - Ce l'ha qui?

Elena - No. L'ho sfogliata dal parrucchiere.

Alessandro - Non sarà stata per caso Time?

Elena - No, mi pare Life.

Alessandro - Strano. Non sapevo che Life avesse pub­blicato la mia fotografia. (sbadiglia nervosamente, col­pendosi tre volte la bocca con la mano; poi dice con la rapidità di uno starnuto). Ah, vorrei morire!

Elena (riprendendo il suo discorso) - Senta, lei che è un grande scrittore, mi dica sinceramente: cosa pensa di me?

Alessandro - Anche lei!

Elena - Perché anche io?

Alessandro - È la frase di tutte le donne italiane: chi sa cosa pensa di me? C'è pure una storiella in proposito.

Elena - Ma io non ho detto: chi sa cosa pensa di me. Ho detto semplicemente: Cosa pensa di me? (cercan­do di essere spregiudicata e spiritosa). «Chi sa cosa pensa di me» si dice quando fra un uomo e una don­na è accaduto qualche fatto prima del previsto. (riden­do). E fra di noi, mi pare, non è accaduto niente.

Alessandro (La guarda incuriosito grattandosi la nuca; poi si guarda l'orlo delle unghie, ed evidentemente si è distratto).

Elena (si accorge che Alessandro sta pensando ad altro) Dunque, cosa pensa di me?

Alessandro - Che gliene importa? Io non m'interesso mai di che cosa pensa la gente di me.

Elena - Ma lei è un romanziere, e le basta leggere le critiche che scrivono sui suoi libri per sapere cosa si pensa di lei.

Alessandro - I critici!... (sbadiglia). A lei, che è una donna normale... (s'accorge che Elena si è adombrata). Normale non è un'offesa... A lei che è una donna che non scrive, può capitare di meglio: di finire per esem­pio in un racconto. È meglio essere capita da un arti­sta che da un critico. (cambiando tono). Non si po­trebbe telefonare al suo parrucchiere?

Elena - Sì, ma perché?

Alessandro - Per domandargli se la rivista in cui c'è la mia fotografia è Life o Time. (aspira l'aria per sbadi­gliare e la espira in forma dì parole che paiono prive di significato, talmente hanno il suono stesso dello sba­diglio). Ah, com'è triste la vita!

Elena (si alza e va verso il tavolo) - Il telefono è di là. Starà parlando mio suocero. Gli telefoneremo dopo. (torna a sedersi). Allora lei dice che io posso finire nel racconto di uno scrittore? Lei sta scrivendo qualcosa su di me?

Alessandro (dopo essersi mordicchiato una dopo l'altra tutte le dita della mano destra chiusa) - No... E poi non è detto che debba scriverlo io, questo racconto. Lei conosce tanti scrittori.

Elena - Ma lei è il più celebre di tutti. Quello che mi piace di più. Lo scriverà un racconto su di me? Dica la verità: lo ha già scritto.

Alessandro - No, le assicuro, no.

Elena (con tono grave) - Senta, posso parlare seriamente?

Alessandro - Ma stiamo parlando seriamente.

Elena - No, lei non parla con me come parla coi suoi amici.

Alessandro - Come parlo coi miei amici?

Elena - Come si parla fra eguali.

Alessandro - E con lei?

Elena - In un modo completamente diverso. È un altro, lei, quando parla con me. Lei restringe il buco del suo cervello per far passare solo qualche piccolo piccolo pensiero che vada bene per il mio piccolo piccolo cervello.

Alessandro (colpito dalla verità e cercando di dissimu­larlo) - È una sua impressione sbagliata. Io parlo con lei come parlo con tutti... Mi creda... Potrei anzi dire che con lei...

Elena (interrompendo) - Lasci stare. Ma mi spieghi una cosa: una cretina può sentire di essere cretina?

Alessandro (dopo una breve pausa) - No.

Elena - Ma una cretina intuitiva?

Alessandro - Cosa vuol dire, intuitiva?

Elena - Io non so se lei s'è accordo che io sono molto nervosa.

Alessandro - Mai quanto me.

Elena - Di più.

Alessandro - Non dica stupidaggini... Mi scusi. Ma io sono veramente molto nervoso. Legga questa diagnosi. (cava un foglietto e lo porge ad Elena).

Elena (leggendo) - «Ipoacusia con stenosi labirintica». Cos'è?

Alessandro - Ho un continuo fischio nelle orecchie. Lo stesso male che aveva Swift.

Elena - Lei però non è soggetto a visioni terrificanti?

Alessandro - No, quello no. Ma non vuol dire.

Elena - Oh, sì che vuol dire... E visioni non di notte, ma in pieno giorno, mentre qualcuno mi parla, o sto mangiando, o sto lavorando. Sarà il subcosciente?

Alessandro - Non lo so. (sbadiglia, poi dice col solito tono). Ah, vorrei morire!

Elena - Ieri ho avuto l'allucinazione più terrificante della mia vita.

Alessandro (annaspando con la bocca senza riuscire a sbadigliare sino in fondo) - Cosa ha visto?

Elena - Ma lei si annoia?

Alessandro - No, è uno sbadiglio nervoso. Non ci badi. Vede che lei non s'intende di nervi?... Dunque, cosa ha visto?

Elena - Parlavo con una ragazza idiota, e naturalmente parlavo in un certo modo, come si parla con gl'idioti. Ma lei, la poveretta, non aveva il minimo sospetto che io potessi capire più di lei e considerarla un'idiota. A questo punto ho avuto la mia allucinazione, o meglio la mia intuizione. Mi son vista che parlavo con lei, Alessandro, o con un altro intelligente come lei.

Alessandro (impermalito) - Chi?

Elena - così per dire... E mentre io parlavo, lei mi ca­piva, giudicava e compativa come io capivo, giudicavo e compativo quella ragazza idiota. Ma non me ne accorgevo... Cioè a dire... Oh, com'è difficile spiegar­si!... Nella mia allucinazione io ero doppia: da una parte ero quella che non capiva e non s'accorgeva di niente e dall'altra quella che capiva che non capiva.

Alessandro (si alza, le si butta addosso e la bacia con rudezza).

Elena (scostandolo piena di collera) - Perché?... (si alza) perché ha fatto questo?

Alessandro - Perché... (s'interrompe, si alza anche lui, e va a sedersi in una poltrona discosta; è pallido e pentito). Mi scusi.

Elena (con gli occhi sgranati) - No, mi dica perché ha fatto questo!

Alessandro - Ma, mi scusi, la prego!

Elena - No, lei mi deve dire perché ha fatto questo.

Alessandro (rabbioso) - Lei mi vuole costringere a dire una frase sciocca. Ebbene, gliela dico: ho perduto la testa.

Elena - No, lei non ha perduto affatto la testa.

Alessandro - Sì, l'ho perduta, completamente perduta!

Elena - Non è vero. Lei ha fatto tutto freddamente.

Alessandro - Non l'ho fatto freddamente. Gliel'assicuro.

Elena - L'ha fatto freddamente.

Alessandro (esasperato) - No, glielo giuro, non l'ho fatto freddamente.

Elena - L'ha fatto freddissimamente.

Alessandro (urlando) - Non l'ho fatto freddissimamente, no.

Elena - Freddissimamente no, ma freddamente sì.

Alessandro - Ah, vorrei morire!

(Entra Caterina recando l'apparecchio telefonico).

SCENA II

Caterina - Mi scusi, signora, ma in camera da letto la presa s'è staccata. Deve parlare il signor Leopoldo. (riconosce Alessandro,  con voce lieta).  Buongiorno.

Alessandro - Buongiorno. Lei è qui adesso?

Caterina - Sì. Come sta? La trovo molto pallido .

Alessandro (preoccupato) - Sono pallido? (va a guardarsi nello specchio). E lei ha lasciato la Francia?

Caterina - Sì. (attacca la spina del telefono, compone un numero, porta il ricevitore all'orecchio e attende).

Alessandro (a Caterina, tornando a sedersi) - Come si chiamava la famiglia parigina presso la quale l'ho conosciuta?

Caterina - De Breton. L'ammiravano tanto. (al tele­fono). Pronto, pronto... il signor Leopoldo le chiede scusa, ma nella camera da letto s'è staccata la presa... vado a chiamare subito il signor Leopoldo.

(Si avvia, ma in quel momento entra Leopoldo che va al telefono senza salutare nessuno).

SCENA III

Leopoldo (siede dietro il tavolo, posa la pipa e porta il ricevitore all'orecchio) - Mi dicevi, Alfio, che tuo fi­glio... (sta ad ascoltare facendo smorfie di dubbio e qualche brontolio con la gola).

Caterina (ad Alessandro. Ciascuno dei tre cerca di par­lare a voce bassa) - E lei è sempre comunista?

Alessandro - Io non sono stato mai comunista.

Leopoldo (al telefono) - Ma cosa vuoi che ti dica? Li chiamano pregiudizi... (ironico) loro, naturalmente... (con impeto). Ma è onestà... (con voce di dubbio). Cer­to, una ballerina... ti capisco! (gridando). Ti capisco... Pensateci, pensateci bene prima di fare un passo ir­reparabile... (ripetendo le parole dell'altro). «Adesso gli vuol bene»... lo credo... «non vede che lui»... Ma domani, chi sa? (gridando). Dico, chi lo sa domani co­me le gira la testa?... E già... e già... (rimane ad ascol­tare con le solite smorfie).

Caterina - Leggendo gli articoli che pubblicò in Francia, m'era sembrato che lei fosse comunista.

Alessandro - Riconosco l'importanza del comunismo, ma non sono comunista. Certi lati del comunismo, addirittura li odio.

Leopoldo (zittisce i tre, poi al telefono) - Non ho sen­tito quello che hai detto, perché qui chiacchierano. Dunque, all'ultimo momento anche tuo figlio?... (rimane ad ascoltare).

Elena (ad Alessandro) - Ma come? Io credevo che lei difendesse la borghesia.

Alessandro - Perché dovrei difendere la borghesia ita­liana? È stata la borghesia italiana a impedirmi di scrivere per dieci anni.

Leopoldo (ripetendo le parole dell'altro) - «È colta»... Ma cosa se ne fanno della cultura?... Quando la pentola bolle, non puoi mettere giù un libro... (ascolta). E già...

Alessandro - Quali meriti ha la borghesia italiana? Cultura, no. Nessuno in Italia legge libri o va a teatro.

Caterina - Proprio nessuno?

Alessandro - Per nessuno, intendo pochi. Vada nella hall di un albergo. Tutti gli stranieri hanno un libro davanti e leggono. Poi c'è uno che sta così (allunga le gambe, socchiude gli occhi e allaccia le mani sul ventre): è un italiano.

Leopoldo - St.!

Alessandro (abbassando la voce) - Spirito di sacrificio? No. Non ho visto mai un ricco italiano proporre una legge che riduca i suoi guadagni per aumentare il be­nessere del suo Paese. Per libertà, il padrone del mio giornale intende non la mia di scrivere tutto quello che penso, ma la sua, di pagare gli articoli meno che al tempo della dittatura. «Abbiamo perduto la guer­ra!» dice ai collaboratori. Lui, però, deve averla vin­ta, se i suoi guadagni sono aumentati del cento per uno.

Caterina - Dio mio, com'è materialista.

Alessandro - Si, sono materialista. Non voglio lavorare gratis.

Leopoldo (al telefono) - Sì, sì... Parla più forte... C'è uno qui che grida.

Caterina (ad Alessandro) - Parli piano.

Alessandro - Moralità? La moralità italiana consiste tutta nell'istituire la censura. Non solo non vogliono leggere o andare a teatro, ma vogliono essere sicuri che nelle commedie che non vedono e nei libri che non leggono non ci sia nessuna delle cose che essi fanno tutto il giorno — e dicono. Chiudere la bocca agli scrittori; ecco il sogno degli italiani.

Leopoldo (che ha sentito dall'orecchia libera più che da quella su cui preme il ricevitore, ad Alessandro) - Ma lei è siciliano?

Alessandro - No.

Leopoldo - E allora perché parla male dell'Italia? Solo noi siciliani possiamo lamentarci di come ci ha trat­tato il governo italiano... (al telefono). Scusami, Alfio. Ho parlato con un tale che sta qui...

Elena (alzandosi) - Ma babbo, il signor Bonivaglia non è un tale: è un grande scrittore. Alessandro, le pre­sento mio suocero.

(Alessandro si alza e porge la mano a Leopoldo che, intento com'è a rispondere al telefono, non lo vede).

Leopoldo (a precipizio) - No, una grande fesseria... Fai una grande fesseria... Non la fare, Alfio, non la fare!... (Alessandro rimane in piedi fra il disagio delle donne). Io, quando m'accorsi che Jana non era quella che cre­devo... (gridando) Jana, si, la cameriera... la rispedii subito in Sicilia. È partita dieci giorni fa... Abbiamo un'altra cameriera... No, ce l'ha procurata la signo­rina Caterina... (gridando) la governante... Sì, la co­nosceva, perché erano state insieme presso la stessa famiglia... Si chiama Francesca... Una donna che vale più di quanto pesa... Dico di più, perché pesa poco, purtroppo... è magra... non mangia niente...

Alessandro (guarda il medaglione sul petto di Elena) - Grazioso. (fa per toccarlo).

Leopoldo (siaccorge del gesto di Alessandro, imperiosamente) - No!

Alessandro (si arresta con la mano in aria).

Leopoldo - Lei non ci vede con gli occhi?

Elena - Ma babbo?

Alessandro (abbassa la mano interdetto, cerca di sorridere) - Non capisco.

Leopoldo (posa il ricevitore accanto all'apparecchio, si alza e fa il giro del tavolo) - Glielo spiego io. (si av­vicina a Elena). Lei cosa vuole vedere, questo meda­glione? Lo guardi!... con gli occhi! Con questi! (gli tocca le palpebre). Queste (gli prende le mani e gliele accosta sui fianchi), qui!

Elena (smaniando) - Ma Caterina, glielo dica lei — dato che lei, l'ascolta — glielo dica che non è possibile comportarsi così!

Caterina (sorride e cerca di accomodare le cose) - Il signor Alessandro s'intende molto di oreficeria. Sono sicura che capirà subito da chi è stato lavorato que­sto medaglione. (a Elena). Permette, signora? (le sgan­cia da dietro la nuca la catena a cui è appeso il meda­glione e lo porge ad Alessandro). Guardi!

Leopoldo (a Elena) - Impara. Quando c'è qualcuno che vuole ammirare il tuo medaglione, levati la catena e dagliela in mano, così la potrà osservare con tutto il suo comodo. Il petto non è un tavolino.

Alessandro (guarda con collera la medaglia e la posa subito sul tavolo).

Leopoldo (ad Alessandro sarcastico) - Adesso non le piace più, eh?

Elena (con uno scatto) - Babbo, lei è diventato insopportabile! (esce).

SCENA IV

Leopoldo (verso la porta da cui è uscita Elena) - Vat-tene, torna, sbatti la porta, fa quello che vuoi! Ma qui si cambia registro!... Ora sentite! Suo marito è in campagna, all'acqua e al vento per tirare avanti la ba­racca (con altro tono) — se non è in mezzo al semi­nato con qualche figlia di zappatore — (riprende con enfasi), ma comunque all'acqua e al vento — e lei se ne sta a casa a farsi toccare il medaglione.

Alessandro (a Caterina, a bassa voce) - Io mi trovo in un disagio spaventoso.  Non so proprio cosa fare.

Caterina (a bassa voce) - Non ci faccia caso. È un brav'uomo. (solleva dal tavolo il ricevitore in cui gorgoglia la voce di Alfio, lo chiude con la mano e dice a Leopoldo). Qui c'è ancora il signor Alfio.

Leopoldo - Gli dica che vada a spezzarsi le cosce dove vuole, ma a me mi lasci stare. Se suo figlio vuole rac­cogliere tutte le corna che trova per terra e metter­sele in testa, lo faccia! Non sarà lui il primo cornuto né l'ultimo.

Caterina (al telefono) - ... No, non succede niente, il signor Leopoldo è stato chiamato di là... le telefona dopo. (chiude).

Leopoldo (più calmo, guardando Alessandro prima di traverso poi direttamente in pieno viso) - Lei non se l'abbia a male. Non ce l'ho con lei, ma con mia nuora. Perché proprio ieri, in questo preciso punto, qui (batte col piede il pavimento), un signore fece il suo gesto con Caterina, e lei, subito, da quella gran donna che è, si scostò di un passo, così, si sganciò la catena dal collo e gli mise la crocetta nelle mani.

Caterina (a bassa voce a Leopoldo) - Il signor Alessandro è un uomo molto perbene.

Leopoldo (forte) - Lo vedo. Ha una faccia simpatica... e intelligente. Ha due occhi che sembrano specchi. (si è completamente calmato; ad Alessandro). Bravo. Si segga (siede e costringe Alessandro a sedere davanti a lui), qui vicino a me. Si segga anche lei, signorina. (Caterina siede, ad Alessandro). E che cosa scrive?

Alessandro - Romanzi, racconti, saggi...

Leopoldo - Bravo. E mi dica: per pubblicare un romanzo, bisogna pagare, l'editore?

Caterina - No, è l'editore che paga il signor Alessandro — e anche bene, credo.

Alessandro - Gli editori sono tutti ladri.

Leopoldo - Ah, si? Gli editori sono ladri? E i mezzadri? cosa crede che siano, i mezzadri? Ladri anche loro. E gli avvocati? Ladri. E i medici? Ladri. E gl'ingegneri? Ladroni di passo. Qui, caro amico, se non stiamo con gli occhi aperti, ci rubano le calze senza levarci le scarpe.

(Rientra Elena furiosa).

SCENA V

Elena - Alessandro...

Caterina (si alza di scatto e le dice in fretta) - Guardi che tutto è accomodato. Son diventati amici. Venga.

(Elena si lascia condurre per mano da Caterina).

Leopoldo - Siediti, Elena. Perché non offri qualche cosa da bere al signor Alessandro?

Elena - Vuole un cocktail?

Alessandro - No, preferisco il tè — sebbene sia un po' tardi.

Caterina - Vado a ordinarlo. (Esce).

SCENA VI

Leopoldo - Elena, hai raccontato al signor Alessandro quello che ci è capitato con Jana?

Alessandro - Già, la signora mi ha detto.

Leopoldo - Ma pensi un po': una siciliana!... Lei la conosceva?

Alessandro - Sì, l'ho vista due volte.

Leopoldo - E avrebbe mai sospettato che, in quella specie di pesce abbagliato con la lampara, si nascondesse una vera fogna?

Alessandro - No. Anzi, avevo detto alla signora Elena, quando ella mi parlò dei primi sospetti che avevate sulla ragazza, che doveva sicuramente trattarsi di un errore.

Leopoldo - Che errore! (Agita le dita della mano destra chiuso a imbuto). Che va dicendo, errore? Quale errore?

Elena - È strano però. Uno scrittore dovrebbe capire subito una persona. Lei, invece, si è ingannato.

Alessandro - L'intuizione degli scrittori è di un altro genere. Vedono spesso una persona non come vera­mente è, ma come serve che sia alla loro immagina­zione in quel momento. Intuiscono in un uomo vivo un personaggio che può benissimo non corrispondere all'uomo vivo, ma riuscire lo stesso molto vero. (Pausa).

Elena - Non l'ho capito.

Alessandro - Per esempio. Io vedo Jana e intuisco in lei l'immagine di una povera bruta, sana, onesta, pri­va di sensualità e nello stesso tempo, per la sua inno­cenza assoluta, portata ad attirare su di sé tutti i sospetti...

Leopoldo - E fa uno sbaglio madornale.

Alessandro - E mi sbaglio, nel senso che non ho capito Jana quale essa è nella vita. Ma il personaggio che ho intuito in lei, se lo descrivo e lo faccio agire in un ro­manzo, può riuscire lo stesso molto vero e commovente.

Leopoldo - Ho capito. È giusto quello che dice.

Elena (guarda il suocero sgomenta che un vecchio igno­rante abbia potuto capire quello che per lei è rimasto del tutto oscuro; a Leopoldo) - Davvero, ha capito?

Leopoldo - Certo. Lo scrittore non è uno sbirro che deve sapere se una persona è un ladro o un baro o una prostituta. Conosce me, ci sediamo io qui, e lui li, mi guarda, io non dico nulla perché penso ai fatti miei e me ne infischio degli scrittori, lui non dice nulla perché pensa ai fatti suoi e se ne infischia di me, mi guarda sempre — e comincia a pensare, un po' per antipatia, un po' perché questo il cervello balzano gli comanda, che io sia un assassino, e ho avvelenato la nuora o la serva, e così mi rappresenta in un ro­manzo. E può fare anche una bella cosa (con altro tono) — ma lui si guarda bene dal farla, questa bella cosa, perché se no io gli rompo il battesimo con una verga di bue.

Alessandro - Cos'è il battesimo?

Leopoldo - Il punto in cui ti hanno sparsa l'acqua santa per battezzarli, qui. (gli tocca il mezzo della fronte; ridono).

Grido di donna - Basta! Basta! Basta! (tutti rimangono impressionati).

Leopoldo - Chi è stata?

Elena - Mi è parsa la voce di Caterina.

Leopoldo - O di Francesca?

Elena - No, di Francesca no. (si alza, va alla porta e l'apre). Caterina!

Voce di Caterina (sorridente) - Signora, il tè arriva subito.

Elena - Ma chi ha gridato?

(Entra Caterina, quasi gaia).

SCENA VII

Caterina (sorpresa) - Non so. Ha sentito gridare?

Leopoldo - Sì. Pareva la voce di Francesca.

Caterina (sempre gaia) - No, Francesca era con me. (Caterina ed Elena seggono).

Leopoldo - E non ha gridato «Basta!»?

Caterina - Ma no.

Elena - A dir la verità, non mi sembrava la voce di Francesca.

Caterina - Qualcuno avrà gridato al piano di sopra. Gridano sempre.

Elena - Mi sembrava la voce sua.

Caterina - La mia? (ride). Oh no di sicuro, certamente no.

Leopoldo - Non parliamone più. Forse ha ragione Caterina. Avrà gridato qualcuno al piano di sopra. E il tè?

Caterina - Ma non so perché non arrivi. Era tutto pronto. (Chiamando). Francesca.

Voce di Francesca (molto dolce e anch'essa sorridente) - Signorina, vengo subito! Mi sono impigliata nel­la maniglia della porta... eccomi.

(Entra Francesca. È una ragazza pallida, sottile, estremamente fine, con un sorriso stanco nelle fossette delle guance e quasi davanti agli occhi ove somiglia al barbaglio che offusca talvolta lo sguardo di un'ammalata resa felice dalla febbre).

SCENA VIII

Francesca (depone il vassoio col tè su un tavolino basso; Alessandro la osserva con molto interesse).

Caterina (scherzando) - Francesca, l'hanno sentita gridare.

Francesca (sorridendo) - Me? E quando?

Caterina - Adesso. Era lei?

Francesca - Oh, no di sicuro, certamente no.

Leopoldo - E il latte?

Francesca - Lo porto subito. (Esce).

SCENA IX

Alessandro (parlando di Francesca) - È un bellissimo tipo, quella ragazza. Di dov'è?

Elena - Non so. (a Caterina). Di dov'è Francesca?

Caterina - Mi creda, ci conosciamo da parecchi anni, ma non so di dove sia. (cambia tono; sollevando la teiera). Serviamo prima il grande scrittore?

Elena - Certamente. (ad Alessandro). Caterina è una sua ammiratrice sfegatata.

Caterina - Oh, io l'adoro, quest'uomo! E non solo per la sua arte, ma anche per la bontà e la sincerità che nasconde dietro il suo fare brusco. (Ad Alessandro,con calore). Lei è buono, profondamente buono.

Alessandro - Mi fa piacere. Grazie.

Elena - Io gli rimprovero soltanto di essere nei suoi libri un po' troppo pessimista e triste.

Alessandro - Ma vuole che sia allegro? Guardi che l'epoca in cui viviamo è orribile.

Leopoldo - Sante parole.

Alessandro - Gli uomini hanno una tale facilità ad ammazzare i loro simili o a chiuderli in prigione che si rimane a bocca aperta. Tutti i filosofi che liberano dalla responsabilità personale, Freud, Marx, sono in gran voga. La gente non vuole più rispondere dei pro-pri atti. Ho ammazzato, ho rubato? Se sono un pro­letario marxista, dirò che la colpa è del capitalismo. Se sono un borghese, dirò che la colpa è di mio padre che mi ha dato delle inibizioni. Mia, la colpa non è mai. Leopoldo - Bravo, bravo. Mi fa piacere ascoltarla. Va­do a cambiare la pipa. Questa qui non tira. Mi piace fumare bene quando sento cose interessanti. (Esce imbattendosi in Francesca che entra recando il latte).

SCENA X

Francesca (serve il latte a Elena).

Elena - Grazie, basta.

Alessandro (sbadiglia) - Ah vorrei morire!

Francesca (serve il latte ad Alessandro).

Alessandro (guarda a lungo Francesca) - Di dov'è lei?

Francesca - Toscana. Non si sente?

Alessandro - No. Manca da molto dalla Toscana?

Francesca - Oh, si. Mi portarono via di un anno e mezzo.

Alessandro (guardandola, quasi fra sé) - Molto bella.

Francesca - Come dice?

Caterina - Francesca, mi dia un po' di latte anche a me.

Francesca - Oh, scusi. (si volge verso Caterina porgendo il vassoio).

Alessandro (profittando che Francesca gli volta le spal­le e nello stesso tempo lo copre agli occhi di tutti, le fa una carezza lungo i fianchi. Ma pare che Caterina se ne accorga).

Francesca (volge di scatto la testa, così china com'è, ed esclama debolmente) - Ah! Caterina (a Francesca) - Cosa c'è?

Francesca - Nulla. (ad Alessandro). Vuole ancora un po' di latte?

Alessandro - No. Vorrei un bicchiere d'acqua. Francesca - Subito. (esce).

SCENA XI

Alessandro (cava un taccuino e scrive).

Elena - Sta scrivendo un pensiero?

Alessandro - No, tutt'altro. (strappa il foglio e lo mette in tasca insieme al taccuino.)

(Entra Leopoldo fumando).

SCENA XII

Leopoldo - Eccomi qui. (si siede; ad Alessandro). Adesso lei parla ed io l'ascolto fumando.

(Entra Francesca recando un bicchiere d'acqua. Alessandro si alza di scatto e le va incontro).

SCENA XIII

Alessandro (beve; poi di nascosto da tutti) - Devo par­larle. Mi telefoni domani a questo numero. (le dà il foglietto che Francesca, nel suo stato di confusione, prende meccanicamente. Caterina se n'è accorta  Francesca esce).

SCENA XIV

Alessandro (torna a sedersi).

Leopoldo - E mi dica: lei quante lingue conosce?

Alessandro - Tre: tedesco, francese e inglese. Il francese lo parlo meglio dell'italiano.

Leopoldo - Io non riesco a parlare bene nemmeno l'italiano. I miei nipotini mi fanno il verso quando dico Roama.

Elena (ad Alessandro) - Ma l'ha imparato da solo o dalla governante?

Alessandro - Dalla governante? Ne ho avute venticinque.

Caterina (amara) - Venticinque governanti hanno collaborato per formare questo rivoluzionario.

Alessandro (la guarda vivamente; non s'aspettava un colpo da quella parte) - Ho un'educazione borghese. Che posso farci? Bisogna vedere se sono io un borghese.

Caterina - Lei è un borghese marcio. Lo scriverei io un saggio su di lei.

Alessandro - Lo scriva. (sbadiglia). Ah, com'è triste la vita!

Elena - E cosa direbbe, Caterina?

Caterina - Che scrive intingendo la penna nel vomito.

Elena - Come sarebbe?

Caterina (ad Alessandro) - Lei descrive non le cose che ama, ma le cose che le suscitano ripugnanza. Ecco la sua vera ispirazione: la ripugnanza! Se fossi freudiana, come è lei...

Alessandro - Io non sono affatto freudiano.

Caterina - Lo è diventato adesso... (continuando). Direi che durante la fanciullezza lei non riuscì a espellere dallo stomaco il disgusto che qualcuno — non so chi — le aveva dato, e ora la sua ispirazione consiste tutta nel cercare le cose più ripugnanti che le diano quello stesso impulso che allora rimase interrotto, nella spe­ranza che questa volta lei possa sfogarlo interamente. Ecco un altro suo sentimento: la speranza.

Elena - Mi pare che sia un bel sentimento.

Caterina (secca) - La speranza di vomitare.

Alessandro - L'importante è che la mia ispirazione sia sincera.

Caterina - È sincera, non dico di no. Qualche volta, anzi, può sembrare l'ispirazione di un animo moral­mente molto elevato, perché il disgusto delle cose brut­te o cattive è proprio degli spiriti che hanno un'alta moralità. Ma lei di quel disgusto ha bisogno come del pane. Lei viaggia, osserva, legge, va annusando nella storia, nella politica, nei costumi, in cerca di qual­cosa di repellente, come un cane per la strada che sce­glie fra i cattivi odori il più cattivo, e lì si ferma.

Alessandro - Lei ha sfoderato le unghie senza che io le abbia fatto nulla.

Elena (a Caterina) - Ma perché è cambiata così improvvisamente?

Leopoldo - Lasciala dire, che mi piace...

Elena - Ma un minuto fa, ripeteva che Alessandro è un grande scrittore.

Alessandro - Ah, com'è triste la vita!

Caterina - E lo ripeto ancora. Le sue cose resteranno, come quadri tenebrosi in cui non si capisce se i colori chiari li abbia cancellati il tempo o il pittore non li abbia mai saputi dipingere. Alessandro, diciamo la ve­rità: la sua poesia è qui (gli tocca lo stomaco con la punta di un cucchiaino), nello stomaco. Un conato di vomito? L'ispirazione è cominciata. L'accusano di es­sere un artista sensuale. Oh, c'è da ridere, c'è davvero da ridere. (ride amara).

Alessandro - Ma perché ride?

Caterina (seria) - Lei è un frigido.

Alessandro - Come lo sa? (si alza, sbadiglia). Oh, Dio mio, che noia!

Elena (a Caterina) - Ma adesso lei entra in cose private.

Caterina - Non parlo della sua frigidezza d'uomo. Quel­la non la conosco e non m'interessa; Parlo della sua frigidezza d'artista. (ad Alessandro). Lei descrive con­tinuamente corpi nudi di donne e amplessi, perché fra le tante cose che la disgustano, i corpi nudi di don­ne e gli amplessi la disgustano di più.

Alessandro - Si sbaglia, si sbaglia, si sbaglia! Non ha detto una sola cosa che stia in piedi... Tutti luoghi comuni! (passeggia nervosamente) ... La storiella che da bambino io abbia visto attorno a me fatti ripugnanti, è una menzogna comoda per i critici freudiani. Per­ché la freudiana, nel senso più sciocco della parola, in questo momento non sono io, è lei!... Io ho avuto una fanciullezza felice! E se vuole saperlo, amo la fe­licità più di lei!... Sono più felice di quanto lei non creda!

Caterina (si è alzata) - Nella sua opera, non si vede.

Alessandro (agitandole l'indice sotto gli occhi) - Lei non la vede... (passeggia). Sono frigido... (alza la voce). La donna mi piace fin troppo! Sono il solo scrit­tore di fama internazionale a cui le consorterie di Parigi rimproverano di essere normale. Ha capito? normale, normalissimo!

Caterina - Ripeto che non voglio entrare nella sua vita privata. Non m'interessa, la sua vita privata!

Alessandro - I corpi di donne che ho ritratto nei miei romanzi sono pieni di vitalità.

Elena - Questo è vero.

Leopoldo - Lasciali parlare! Adesso Caterina gli risponde.  Non  sapevo che  Caterina fosse così colta.  Ma che fa?

(Caterina si è coperta gli occhi con le mani).

Alessandro (a Caterina) - Cosa fa, ride ancora?

Caterina (levandosi le mani dagli occhi) - Poveri corpi di donne! poveri corpi di donne! che figura fanno, nei suoi romanzi.

Alessandro - Mi hanno anche rimproverato di ritrarre sempre corpi di donne pieni di bellezza. «Nella vita» mi ha osservato un critico «ci sono anche le donne brutte».

Caterina - Oh, non dico di no. Lei parla sempre di ra­gazze che, a suo dire, e anche per certe caratteristi­che del tutto esteriori, sarebbero molto belle. E tut­tavia, non appena lei le descrive nude, i suoi aggettivi, io non lo so, si sparpagliano su di loro come vermi. (gridando). Sono macabre, macabre, macabre! (Alessandro va al telefono e compone un numero).

Elena (a Caterina) - Ma lei dev'essere innamorata di Alessandro. Gli sta facendo una vera scenata.

Caterina - Non dica sciocchezze, signora!... Mi perdoni.

Leopoldo - Hai detto una vera sciocchezza, Elena. (ad

Alessandro). A chi sta telefonando?

Alessandro - A mia moglie. (al telefono). Pronto, Ida... Hai preso impegni?... No, vengo a mangiare a casa.

Elena - Ma lei è invitato da noi!

Alessandro (al telefono) - No, sto male e ho bisogno di venire a casa. Arrivederci. (chiude il telefono e si avvicina ai tre per salutarli.)

(Entra Francesca recando un grande mazzo di fiori avvolto nel cellofan).

SCENA XV

Francesca - Signora, c'è di là...

Elena (interrompendo) - Chi ha portato questi fiori?

Alessandro (brusco) - Io.

Elena - Oh, come son belli, Alessandro! Rimanga, la prego! Ci faccia questo favore, rimanga!

Caterina (a parte a Francesca) - Lei ha qualcosa da restituire al signor Alessandro?

Francesca (confusa) - Niente.

Alessandro (che ascoltando Elena ha seguito con la coda dell'occhio Caterina e Francesca, diventato im­provvisamente calmo, fa un inchino a Caterina) - Mi perdoni.

Caterina (turbata) - Di che?

Alessandro - Come siamo stupidi, i romanzieri!... Tor­no a chiederle perdono... Mi dispiace di non poter rimanere a cena. Ma ormai ho telefonato a mia moglie.

Elena - Le ritelefoni!

Alessandro - Non è possibile.

Elena - Ma sì.

Leopoldo (insofferente) - Oh, Elena! Se vuole andar

via, non possiamo legarlo con le catene... Arrivederci", signor Alessandro.

Alessandro (a Leopoldo, stringendogli la mano) - Lei è un signore molto simpatico.

Leopoldo - E lei... (s'interrompe, sporge il muso). Non lo so, com'è lei.

Alessandro (ride e fa per baciare la mano a Elena) - Arrivederci, signora.

Elena (premendosi i pugni sulle guance, con la solita espressione di terrore) - Dio, Dio, Dio!

Leopoldo - Cosa c'è? Cos'hai visto?

Elena - La mia ombra su un ponte... (pausa). Un anno prima era scoppiata una bomba atomica che aveva di­strutto la città interamente. Tutti quelli che passavano dal ponte, scomparsi! Ma era rimasta la mia ombra, mezza per terra e mezza sulla spalletta. E un anno dopo, due uomini, passando, se la indicavano...

Alessandro - Dal punto di vista scientifico, il suo so­gno non fa una grinza. Qualcosa del genere è già ac­caduto. (ride, le bacia la mano). Arrivederci.

Francesca - Signora.

Elena - Cosa?

Francesca - C'è di là un uomo di Caltanissetta; dice di essere il portiere del barone Denari.

Voce del portiere - Posso entrare?

(Entra un vecchio coperto di cenci, rovinato da una lunga vita fra la sporcizia e l'umidità).

SCENA XVI

Portiere - Vostra eccellenza mi benedica. (bacia la mano a Leopoldo, poi cerca di baciarla ad Alessandro che subito la ritrae).

Alessandro (guardando il miserabile che gli sta davanti) - E lei è un portinaio?

Portiere - Eccellenza sì: del barone Denari.

Alessandro - Senta, mandi il suo padrone all'inferno. così lei, con questi occhi malati, questi cenci, queste scarpe aperte, questo bel dorso ricurvo, potrà essere il degno portiere della casa in cui degnamente abiterà il suo padrone. Arrivederci. (esce infuriato).

SCENA XVII

Leopoldo (gli grida dietro) - Lei è antipatico!

(Francesca fa per seguire Alessandro).

Caterina (a Francesca) - Dove va? L'accompagno io.

Elena  (trattenendola ambiguamente)  - No, scusi. Lo accompagno io. (esce seguita da Francesca).

SCENA XVIII

Leopoldo (al portiere) - Vi fanno viaggiare per la vergogna della Sicilia, a voi!

Portiere - Perché, eccellenza?

Leopoldo - I cenci che mettono alle canne per spaven­tare i passeri sono meglio di quelli che hanno messo a voi per mandarvi a Roma. Vero è che non avete nem­meno la forza di portare un vestito intero addosso. Ma santo cielo! Non si manda a Roma il proprio portinaio vestito come un uomo delle spelonche... E d'altro can­to, io l'ho visto il bugigattolo in cui vi fa vivere il ba­rone: è peggio di una spelonca!...

Portiere - Ma eccellenza, il barone ha avuto tante spe­se. Ha dovuto riparare il pozzo, la scala, il salone, ha dovuto piantare trentamila aranci, ha dovuto comprare tutte le proprietà limitrofe...

Leopoldo - Ha dovuto, ha dovuto... Chi l'obbligava?

Portiere - Ah, eccellenza, era volontà di Dio che tutte le terre limitrofe cascassero a una a una nelle mani del barone. Ma mi ha detto che, per l'anno venturo, l'ombrello posso regalarlo.

Leopoldo - Non pioverà più l'anno venturo?

Portiere (trionfante) - Fuori! Ma dove abiterò io no! (con altro tono). Eh, sia fatta la volontà di Dio!

Leopoldo - E qual'è la volontà di Dio?

Portiere - Questa, eccellenza.

Leopoldo - Che piova dentro casa tua?

Portiere (allarga le mani e piega la testa chiudendo gli occhi).

Leopoldo -  Ma smettila,  scemo,  idiota!...  (con altro tono). E perché sei venuto a Roma?

Portiere - La Giustizia, eccellenza.

Leopoldo - Cosa c'entra la Giustizia?

Caterina - Volete bere un latte caldo?

Portiere (con un sorriso furbo) - Eccellenza sì, ma il mio latte, sua eccellenza lo sa qual è. Leopoldo (a Caterina) - Gli porti un bicchiere di vino.

(Caterina esce).

SCENA XIX

Portiere (con orgoglio) - Eccellenza, mi hanno citato al Tribunale di Roma. Legga, eccellenza. (cava una citazione che ha chiuso religiosamente in una busta legata con lo spago). Qui ci dev'essere il mio nome. (mette il dito a caso nel foglio).

Leopoldo - E perché vi hanno citato?

Portiere - Perché devono domandarmi una cosa sul brigante Letojanni.

Leopoldo - E che ne sapete, voi, del brigante Letojanni?

Portiere (si guarda intorno, poi parla nell'orecchio di Leopoldo).

Leopoldo - E parlate forte!

Portiere (a voce bassa) - Il brigante veniva a mangiare dal barone.

Leopoldo - Ah, sì? a mangiare?... Chi sa che bell'ap­petito aveva questo brigante! E se le lavava le mani questo galantuomo, prima di sedersi a tavola? o man­giava con le mani sporche di sangue? (passeggia). E il barone, l'hanno citato?

Portiere (scandalizzato) - Che va dicendo? Il barone, lo potevano citare?... Lui non figura... figuro io...

Leopoldo - Bel tocco di minchione!

Portiere (sempre con orgoglio) - Perché ero io che gli aprivo la porta del giardino, la notte!... (a bassa voce, come chi mette a parte di una macchinazione). Ora io devo dire alla Giustizia che Letojanni veniva a dor­mire a casa mia... e il barone non l'ha mai visto, nemmeno scritto sul muro.

Leopoldo - E così vi legano mani e piedi, come a Cristo!

Portiere - Nossignori... (sì curva all'orecchio di Leopoldo e sussurra qualcosa).

Leopoldo - E se invece non è così, e vi legano come quel salame che siete diventato e vi buttano in fondo a una prigione?

Portiere - Eh, sia fatta la volontà di Dio!

Leopoldo - È pure volontà di Dio che vi leghino come quel puledro che siete?

Portiere - Eccellenza no. Ma la volontà di Dio è che i padroni non figurino, perché non è di giusto. Eh, eccellenza!... Non è da vostra eccellenza dire  certe cose. Che ne direbbe, vostra eccellenza, se le guardie venissero da vostra eccellenza e...

Leopoldo - E finiscila con quest'eccellenza! basta!

Portiere - Eccellenza sì.

(Rientra Caterina con una bottiglia di vino e un bicchiere).

SCENA XX

Leopoldo - Beviti il vino.

(Caterina mesce il vino nel bicchiere che porge al portinaio).

Portiere (beve d'un fiato e fa schioccare la lingua) - Grazie, eccellenza.

Leopoldo - E da me perché siete venuto? Dovete dirmi qualche cosa?

Portiere - Eccellenza sì. Jana, la cameriera di vostra eccellenza, abita, porta dopo porta, con la casa di mio cugino Coscelente, e la sera la sentono gridare come se la scannassero.

Caterina (vivamente interessata) - E perché?

Portiere - Eh, non la sa, la disgrazia?

Caterina - Quale disgrazia?

Portiere - Non si scontrò il treno di Girgenti con quello del continente?

Leopoldo - Sì, tre giorni fa. Ma Jana è partita dieci giorni fa.

Caterina (tra i denti, con violenza) - Oh Dio!

Portiere - Nossignori. Jana, tre giorni fa, si trovò alla stazione di Caltanissetta proprio nel treno del conti­nente... e nel vagone dei signori.

Leopoldo - Cosa vuol dire, dei signori?

Caterina (nervosa e brusca) - Di seconda classe.

Leopoldo - Come lo sa?

Caterina - Sono stata io!... Le ho dato un po' di sol­di!... Voleva trattenersi alcuni giorni a Napoli presso una parente... E le ho dato anche il biglietto di se­conda classe — io, con le mie mani! Sono stata io!

Leopoldo (sbottando) - Lei, signorina, ha una sola colpa, gliel'ho detto: di essere troppo buona! Jana aveva fatto quello che aveva fatto... Doveva andare subito in Sicilia — e in terza classe!

Portiere - Ma che aveva fatto, Jana?

Leopoldo - Statevi muto voi, non mi rompete le tasche!... (con altro tono). Aveva fatto!

(Entra Elena).

SCENA XXI

Elena - Caterina, il bambino piange.

Caterina (si è chiusa il volto con le mani) - E pure io, pure io...

Elena (impressionata) - Cosa c'è?

Leopoldo - Niente! Jana è ferita. (al portiere). Ma come sta ora?

Portiere - Meglio, eccellenza, meglio. Il medico ha detto che questa volta l'olio santo lo hanno sprecato.

Leopoldo (a Caterina) - Ha sentito? Sta meglio. La mala erba non muore mai. E comunque lei non ha nessuna colpa. (le toglie le mani dal viso). Su, la smetta... Si asciughi gli occhi.

Caterina (si asciuga gli occhi e poggia il mento sulla spalla del vecchio abbracciandolo. Entra Francesco).

SCENA XXII

Francesca - Signorina, il bambino piange.

Caterina (si volta con uno scatto violentissimo e in­spiegabile) - Cosa vuole?... Cosa vuole, lei?... (la guarda vibrando di un sentimento compresso; quello che le fulmina con gli occhi non è comprensibile; le sue mani si serrano e si aprono). Cosa vuole?

Francesca (si ritira indietro indietro, spaventata; mor­mora a voce bassa) - Ma nulla. Ho detto che il bambino piange.

TELA


ATTO TERZO

SCENA I

(La stessa scena del secondo atto. — Leopoldo è seduto in una poltrona e fuma la pipa. Caterina, in piedi da­vanti al tavolo, sfoglia con la punta di un tagliacarte al­cune riviste).

Leopoldo - E dunque rimette piede in questa casa il grande scrittore... come si chiama?

Caterina - Alessandro Bonivaglia.

Leopoldo - E quando arriva?

Caterina - La signora lo aspettava per le cinque. Devono visitare insieme una mostra di pittori neorealisti.

Leopoldo - Lei, secondo il mio parere, ha fatto male a chiedergli scusa.

Caterina - Oh, dovevo, signor Leopoldo! Mi son comportata come una selvaggia... Sa che ho fatto il mio esame di coscienza?

Leopoldo - Lei lo fa ogni volta che si lava le mani. E che cosa ha trovato?

Caterina - Che sono troppo puritana. Non posso, io, purificare il mondo. Il mondo è quello che è.

Leopoldo - Ed è brutto.

Caterina - Signor Leopoldo, è quello che è... Il mondo non ha aggettivi appunto perché li ha tutti. È brut­to, è bello, è cattivo, è buono, è crudele, è pietoso, è casto, sensuale... tutto. Naturalmente ognuno deve as­sumersi la sua parte. Ed io ho la mia. Ma non bisogna strafare. Leopoldo - Perché, lei strafà?

Caterina - Sì. Mi sono accorta che reagisco in un modo addirittura scomposto a certi fatti naturali che acca­dono fra uomini e donne... Ma, le assicuro, è più forte di me. La cosa, che più mi altera i nervi, è quell'espres­sione impudica che prendono gli uomini quando, da­vanti a tutti, cominciano a desiderare una donna. Mi pare di una sconvenienza inaudita. Eppure accade spes­so. (col tono di chi vuole convincere se stessa). E io devo imparare a lasciar correre.

Leopoldo - Ma cosa c'entra tutto questo con l'incidente fra lei e coso... il romanziere?

Caterina - Lei non s'è accorto che il signor Alessandro, quando ha visto Francesca, ha preso un'espressione... (ridendo amaramente) ma un'espressione veramente in­concepibile nella faccia di un uomo civile che siede in mezzo ad altre persone?

Leopoldo (scontento della propria disattenzione) - Non me ne sono accorto affatto.

Caterina - E subito dopo, di nascosto a tutti, le ha dato perfino un biglietto...

Leopoldo - No!

Caterina - Col numero del suo telefono.

Leopoldo - Questo sulla mia casa deve scriverci una croce. È morta per lui, la mia casa! morta e sepolta!

Caterina - No, signor Leopoldo, non faccia come me. Diventiamo ridicoli. Bisogna lasciar correre.

Leopoldo - Che correre? A casa mia? A casa mia, corrono bastonate, se non si fila diritto.

Caterina - Ma Francesca non è sua figlia né sua nuora. Alla fine, è libera di avere rapporti.

Leopoldo - Non qui.

Caterina - E posso anche dirle che i miei sospetti erano esagerati. Perché Francesca ha poi telefonato al si­gnor Bonivaglia il quale desiderava soltanto conoscere da lei, e al telefono, alcuni particolari sulla vita delle cameriere. Pare che stia scrivendo un lungo racconto che ha per protagonista...

Leopoldo - ... Francesca.

Caterina - Non Francesca: una cameriera.

Leopoldo - Come sono insipidi, questi scrittori! Devono descrivere tutto. Vedono una cameriera e devono de­scrivere una cameriera, vedono me e descrivono me, vedono lei e descrivono lei. La verità è che non hanno fantasia. Perché io dico: Omero non aveva mai visto Achille. Eppure lo descrisse. E bene, mi pare.

Caterina - Quest'arte di descrivere quello che si vede si chiama realismo .

Leopoldo - Ed è una rottura di...

Caterina (sorridendo gli chiude la bocca con la mano).

Leopoldo - Adesso si pulisca la mano.

Caterina - Perché?

Leopoldo - Perché ci ho messo dentro una brutta parola.

(Caterina ride. Entra infuriata Elena e butta sul tavolo un cappello d'uomo bucato).

SCENA II

Elena (a Leopoldo) - Ecco il cappello di suo figlio.

Leopoldo - Sentiamo! Perché tuo marito viene chiamato mio figlio? Cosa ha fatto?

Elena - La storia del cacciatore che, sparando a un albero, gli ha colpito per errore il cappello, era una storia per cretini, e naturalmente l'ha raccontata a me.

Leopoldo - L'ha raccontata pure a me, che non sono un cretino.

Elena - E allora, secondo lei, io lo sono veramente?

Leopoldo - Ma smettila! Non mi fare perdere la pazienza!

Elena (a Caterina) - Sa qual'è la verità? che il padre di una ragazza di campagna, alla quale egli aveva fatto non so che cosa, gli ha sparato, e lo ha preso nel cappello.

Leopoldo - E non sei contenta?

Elena (abbracciando Caterina, con le lacrime agli occhi) - Oh, Caterina! come sono infelice!

Leopoldo - Volevi forse che gli bucassero la testa, invece del cappello?

Caterina - Ma no, signor Leopoldo, la signora non dice questo. Avrebbe preferito che il signore, se pure è vero quello che le hanno raccontato, non si mettesse in quei pericoli.

Leopoldo - L'uomo è cacciatore.

Elena (dura, staccandosi da Caterina) - Ma questa vol­ta, l'uomo ha fatto da selvaggina. Dovrei ripagarlo con la stessa moneta.

Leopoldo - E tu fallo. E qui si strappa un piede di ta­volino, e se la testa non te la rompe lui, te la rompo io!

Elena - Che brutalità!... Siciliani!... (esce).

SCENA III

Caterina - Signor Leopoldo, deve capire che la signora non può essere contenta.

Leopoldo - Senta, Caterina: lei ha detto poco fa una frase che ricordo.

Caterina - Quale?

Leopoldo - Che la cosa più brutta per lei è l'espres­sione che prendono gli uomini quando, sotto gli occhi di altri, cominciano a desiderare una donna. Ebbene per me la cosa più brutta è quella di vedere una don­na perdere il pudore.

Caterina - La signora non può essere accusata di questo.

Leopoldo - Ma come può, una donna perbene, la madre di due bambini, dire: «Io devo ripagare mio marito con la stessa moneta»? La sappiamo qual'è la moneta di suo marito... di un marito che si comporta da vero mascalzone.

Caterina - Adesso lei è severo con suo figlio.

Leopoldo - Un farabutto è mio figlio — in queste cose, naturalmente — un farabutto.

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Caterina - Bisogna compatire suo figlio, e compatire la signora.

Leopoldo - Io, mio figlio, lo compatisco, ma la signora, se fa le stesse cose di mio figlio, le rompo la spina dorsale con un piede di tavolino... (pausa; poi con tono calmo e affettuoso). O forse ha ragione lei: mia nuora è una povera donna che chiacchiera, minaccia, magari si fa toccare il medaglione, ma rimane onesta. E poi (a bassa voce) mi creda, essa sospetta di essere una cretina, e tutti le diciamo che è fissata. Ma in verità, non è fissata: è cretina. (rientra Elena). St!

SCENA IV

Elena (continuando il discorso interrotto) - E a me, ci sono molte persone che mi fanno la corte — uomini importanti, conosciuti in tutto il mondo!

Leopoldo - Uno di questi, lo aspetti da mezz'ora. È in ritardo... E poi sembra che ti faccia qualche illu­sione sul suo conto. È vero, Caterina?

Caterina (gl'impone di tacere col gesto).

Elena - Che ne sa Caterina?

Caterina - Oh, nulla, signora.

Elena - Lei, Caterina, come si comporterebbe al mio posto?

Caterina - Esattamente come si comporta lei, signora. E perché lo sappia, quando lei è uscita, poco fa, il signor Leopoldo ha detto su di lei cose molto affettuose e lusinghiere.

Leopoldo (fra sé) - Io ho detto soltanto che è una cretina.

Caterina - Vuole un consiglio da me?

Leopoldo (a Elena) - Ascolta il consiglio di Caterina!

Caterina - Mi pare che il signor Enrico stia rientrando. Sento chiudersi la porta. Finga di credere a quello che le ha raccontato sul cappello. Certe volte è più intelligente non capire.

Elena (illuminandosi) - Davvero dice? 406

Caterina - Sì, signora. Uno scrittore italiano sostiene che la verità è il bene, non il fatto nei suoi termini esatti.

Elena (corruga la fronte in uno sforzo disperato) - Come?

Caterina - E ha citato quest'esempio... Un disgraziato fugge via da un brigante che vuole derubarlo e am­mazzarlo. Passando davanti a lei, quest'uomo spaven­tato le domanda un'informazione sulla strada; e lei gliela da. Poco dopo arriva, anch'egli di corsa, il bri­gante e le chiede se ha visto passare qualcuno. Lei risponde no. E avrà detto la verità, perché la verità, in quel caso, consiste nel salvare un innocente, non nel dare l'informazione esatta.

(Breve pausa).

Elena - Se è intelligente non capire, io sono stata questa volta intelligentissima.

Caterina (sorride) - In ogni modo, mi promette che fingerà col signor Enrico di credere alla storia del cacciatore?

Elena - Glielo prometto.

Leopoldo (con uno scatto d'ammirazione) - Io dico che se qui ci fosse il diavolo in persona, Caterina lo pren­derebbe per un corno e lo caccerebbe fuori. (entra Enrico con un fascio di giornali). Ecco il diavolo.

SCENA V

Enrico (a Elena) - Su questo giornale c'è un racconto del tuo amico Bonivaglia. Ne ho comprate due copie.

Leopoldo - Dammene una a me, che la vado a leggere nella mia camera.

Caterina - Vuole che gliela venga a leggere io?

Leopoldo - No, signorina, lei con la sua voce mi fa sem­brare tutto più bello. E io invece voglio giudicare ob-biettivamente questo scrittore che viene a casa mia (con tono allusivo) e va dando numeri! (esce).

SCENA VI

Elena (a Caterina) - Che vuol dire, che va dando numeri? che numeri dà?

Caterina - Non capisco.

Elena (felice) - Ah, le succede anche a lei?

Caterina - Più spesso di quanto non creda.

(Breve pausa).

Elena - Mi fa un piacere?

Caterina - Dica, signora.

Elena - Me la legge lei, questa novella? così io potrò darmi un po' di lucido alle unghie.

Caterina - Volentieri.

Enrico (porge a Caterina il giornale) - Ecco, signorina. La parola a lei.

Elena - Un momento. Vado a prendere la spazzola. (esce).

SCENA VII

Enrico - Qui è venuto un contadino?

Caterina - Sì.

Enrico - Ha parlato con mia moglie?

Caterina - Sì. (pausa). La signora fingerà con lei di non saper nulla. E lei finga di non sapere che essa sa. (con tono accorato). Ma perché queste cose?

Enrico (fa un gesto desolato) - È l'artiglio della Sicilia che ci portiamo dappertutto. Non possiamo farci nulla.

Caterina - Lei ha un'inclinazione molto spiccata verso le ragazze povere.

Enrico - È verissimo.

Caterina - Perché?

Enrico - Non lo so.

Caterina - Basterebbe guardarle con occhio pietoso. Si tratta di gente che soffre.

Enrico - Me ne accorgo dopo... mi capisce? Prima, la loro sofferenza è per me la bellezza stessa. E la bellezza non fa pietà, si desidera.

Caterina - Lasci da parte l'estetica! Vuol sapere cosa ne penso io?

Enrico - Certo.

Caterina - Lei è di coloro che hanno bisogno di profanare per provarci gusto.

Enrico - E che cosa profano, io?

Caterina - La sofferenza e l'ingenuità.

Enrico (scettico) - L'ingenuità di chi, di quelle?

Caterina - L'ingenuità di chi è quasi analfabeta. Un vero profanatore è contento di dormire con una don­na che per leggere deve passare il dito sulle parole. Egli sa che sull'altra parte del cuscino non ci sono né libri né riviste né giornali. E questo gli fa piacere, come se tutto si svolgesse nel buio più perfetto.

Enrico - Forse ha ragione... Ma d'altro canto... (la guarda; l'aria accorata scompare; un demonio rapi­damente ingrandisce nel suo occhio) d'altro canto, se io volessi...

Caterina (lo osserva con freddezza dominandolo) - Lei sta per alzare la mano.

Enrico - No.

Caterina - Quella... La prego di trattenerla. (Enrico si accorge di averla già alzata un poco, e la riabbassa). Così.

Enrico - Di tutte le signore, e le donne cosiddette colte, lei è la sola che mi piaccia. Perché? Le prego di spie­garmi che cosa vorrei profanare in lei. Che cosa c'è in lei d'ingenuo, di rozzo, di strano che io desidero profanare?

Caterina (come presa da un malessere, si stringe gli occhi con la mano) - Non lo so.

(Entra Elena lucidandosi le unghie con la spazzola di camoscio).

SCENA VIII

Elena - Caterina, si sente male?

Caterina - Un poco. (si siede in una poltrona). Ma è passato.

Elena - Se non vuole leggere, non faccia complimenti.

Caterina - No. È passato. Sto bene.

Enrico - Un capogiro?

Caterina - Qualcosa del genere. (apre il giornale). Dunque... (legge) «Rodolfo Mauri era seduto con le spalle alla finestra...».

Enrico - Rodolfo Mauri è lui.

Elena - Come fai a saperlo?

Enrico - Un mese addietro, siamo andati insieme al ricevimento di una francese, e tutto quello che una ra­gazza, dietro una tenda, ha fatto a lui, dopo, in un suo racconto, risultava fatto a Rodolfo Mauri.

Elena - Che vuol dire questo? Legga, Caterina.

Caterina - «Rodolfo Mauri era seduto con le spalle alla finestra, quando la signora entrò e accese la luce. Sotto il riverbero di una lampada chiusa in una per­gamena, egli rivide quel volto ovale, denso di una car­ne giovane ma leggermente tumefatta, le labbra pic­cole e rivoltate in fuori, come se fossero rimaste così in seguito a un atto profondamente irregolare, gli oc­chi tondi, penetranti e luttuosi, i capelli fini, serici, nerissimi, che segnavano fra le tempie e la guancia l'orlo di un'onda che si partiva dalla nuca...»

Elena - Ancora non ha detto se questa donna è bella o brutta.

Enrico - Devi capirlo da te, scusa.

Elena (ironica) - Tu l'hai già capito?

Enrico - Per me è bella.

Caterina - «Il collo, dopo un lampo bianco, scompa­riva in una collana nera di tre giri, dai chicchi enor­mi, che facevano pensare a una rozza corona di Rosario».

Elena - Una collana nera? Ma chi la porterebbe?

Enrico - Tu stessa l'hai portata.

Elena (con un'alzata di spalle) - Cinque anni fa... Scusi, Caterina, continui!

Caterina - «Ma quello che più piaceva, di quel volto, a Rodolfo Mauri, non era la sensualità delle labbra porcine, né gli occhi che s'intorbidivano rapidamente rimanendo fissi come quelli di una gatta privata del­l'uso delle gambe e di ogni capacità di reazione dall'odore del maschio che s'avvicina...»

Elena - Uh, che indecenza!

Enrico - Sta un po' zitta!

Caterina - «... ma l'espressione di stupidità, non più animalesca, sibbene umana, acutamente umana, quasi accompagnata dalla sensazione dolorosa di un cervello che tenta di allargarsi fuori di un cerchio d'acciaio, un'espressione insieme pietosa e rassicurante...»

Enrico - Anche questo sarebbe un profanatore, Caterina?

Caterina - Si, ma di un altro genere. La donna che qui si profana — se pure è la parola giusta — non è po­vera e ignorante, ma ricca, forse un po' colta, e stupida.

Elena - Ma cosa state dicendo?

Enrico - Zitta, ti prego.

Caterina (a Enrico) - Ecco, sento (legge): «Nulla per Rodolfo Mauri era più eccitante della stupidità, ac­compagnata dall'eleganza e da un certo estetismo. In questi casi, egli perdeva il controllo di sé e, con l'impe­to del matto che deve ad ogni costo toccare la calvizie dello sconosciuto che a teatro gli siede davanti, non appena la signora diceva una frase come: — Pensa anche lei che io sia una stupida? — le saltava addosso...».

Elena (interrompendo) - Basta, Caterina, basta! È disgustoso!

(Entra Leopoldo col giornale in mano)

SCENA IX

Leopoldo - Ma, dico io, è possibile che tutti siano così? Secondo questo signore qui... lo scrittore che dà i nu­meri... tutti sono o porci o farabutti... Vero è che un fatto come quello che ho letto nel suo racconto è suc­cesso al nostro vicino qui sopra... e un altro simile in casa del nostro amico, il direttore della banca... e un altro ancora, adesso che mi ricordo...

Enrico - Insomma, sono fatti che succedono.

Leopoldo - Sì, succedono, ma perché descriverli? Io dicevo sempre al mio amico Verga: «Giovannino, le coltellate, diamocele qui fra di noi, ma non facciamole sapere ai continentali mettendole sulla carta stampata o, peggio, sul palcoscenico»... E poi la gran bellezza! proprio gliela raccomando la bellezza di quella donna!

Caterina - Perché, signor Leopoldo?

Leopoldo - Ma come, perché? È una bellezza fatta come la mortadella. Ecco qua (inforca gli occhiali e legge nel solito giornale): «Labbra porcine... occhi tondi e luttuosi...» come dire di gufo o di gatto. Si può, con un porco, un gufo e un gatto, fare una bella donna?

(Squilla il telefono. Caterina porta il ricevitore all'o­recchio).

Elena - Chi è, Caterina?

Caterina - Non so. Sento sbadigliare.

Leopoldo - È lo scrittore.

Elena (energica) - Gli dica che non ci sono.

Leopoldo - No.

Caterina (al telefono) - Prego, prego... Alla noia non si comanda... (chiude il ricevitore con la mano). Dice che verrà fra un quarto d'ora.

Elena - Io me ne vado: non voglio vederlo. (esce).

SCENA X

Leopoldo - Lo ricevo io.

Caterina (al telefono) - Va bene, signor Alessandro: l'aspettano. Arri vederci... Sì, va bene... (riaggancia). Dice di avvertire la signora che la vernice della mostra è rimandata a domani.

Leopoldo - Glielo vada a dire. (Caterina esce).

SCENA XI

(Pausa. Al piano di sopra una ragazza canta sull'accompagnamento del pianoforte)

Enrico - Papà, a te quando è passata?

Leopoldo - Che cosa?

Enrico - La malattia dei Siciliani.

Leopoldo - Qual'è la malattia dei Siciliani?

Enrico - Lo sai bene qual'è.

Leopoldo - Ah, ho capito... Mai!... (passeggia, poi con altra voce). Non credere a quello che ti ho detto... Mi è passata presto... quando venni a Roma. Sarà stata l'aria, o l'acqua, o questo odore di creme che man­dano le donne, certo è che, da quando scesi alla sta­zione Termini, ho finito di essere un uomo.

Enrico - Io no, sfortunatamente.

Leopoldo - Tu alla stazione Termini ci vai ogni quin­dici giorni per vedere quali nuove donne arrivano in certe case... E poi cerchi, cerchi sempre, cerchi con gli occhi, cerchi col naso, cerchi con le mani...

Enrico - Ti sbagli, papà, io non cerco niente. Al con­trario. Due notti fa, in un albergo di Viterbo, dopo essermi sorpreso per la terza volta come un sonnam­bulo nel corridoio in cerca appunto... mi sono chiuso a chiave nella camera, e ho buttato la chiave nella strada.

Leopoldo - Hai fatto bene. Bisogna essere rigidi con se stessi, come dice Caterina... trattarsi a calci nel sede­re. Ma la colpa non è tutta tua. Avresti dovuto avere un'altra moglie... (passeggia). Tu non te la ricordi, tua madre!... Era bellissima... prudente... affettuosa... in­telligente... una santa... e una venere. Per nessuna ra­gione voleva darmi fastidio. La notte che si senti male, si alzò piano piano dal letto e andò ad accucciarsi su un divano. E li mori... E io me ne accorsi cinque ore dopo... (con un grido feroce). Bestia!... Aveva ventisei anni. Se è vero che moglie e marito si riuniscono in cielo, io, questo vecchio bacucco, come potrò stare ac­canto a una ragazza che mi può essere figlia?... Figlia? nipote!... (passeggia). Una moglie come tua madre, avresti dovuto avere!... O come Caterina. Come Caterina sì... quella sì... proprio sì... È una donna straor­dinaria, Caterina! (passeggia scrutando il figlio). Non sei d'accordo?

Enrico - Figurati se non sono d'accordo. Ne ho fatto esperienza in tutti i modi.

Leopoldo (fermandosi davanti al figlio, accigliato) - Che vuol dire? Che esperienza hai fatto?

Enrico - Prima di tutto, della sua intelligenza. Ci legge a tutti quello che pensiamo, quello che siamo, quello che abbiamo fatto, sino alla radice del cuore.

Leopoldo - Lo so.

Enrico - E poi della sua onestà.

Leopoldo (con un sospetto improvviso) - Ma perché? Tu hai avuto il coraggio di dare fastidio anche a Caterina?

Enrico - Sì!

Leopoldo (gridando) - Io, un giorno o l'altro, ti diseredito... Lascio tutto a Caterina!... (cambiando tono) E che cosa è accaduto fra te e lei?

Enrico - Niente.

Leopoldo - Lo so bene, niente. Ma tu, che hai fatto?

Enrico - C'è qualcosa in lei che da completamente alla testa. Tutto sta ad accorgersene. Prima, non l'avevo capito. Poi d'un tratto, poco fa, ho pensato addirittura di scappare con lei: lasciare Elena, i bambini, te...

Leopoldo (con ostinazione) - Non m'importa che cosa hai pensato. Non sei mica un pensatore... Che hai fatto?

Enrico - Niente, perché appena mi è passato per la testa di alzarela mano su di lei...

Leopoldo - Ebbene?

Enrico - Mi ha fulminato.

Leopoldo (orgoglioso e felice) - Ah, sì, eh?

Enrico - Mi ha detto: «Lei sta per alzare la mano, quella!... la trattenga!...».

Leopoldo (c. s.) - Ah, si, eh? (minaccioso). E tu?

Enrico - Me l'ha detto in modo da estirparmi per sempre qualunque velleità.

Leopoldo (incalzante) - Va bene, e tu?

Enrico - Ho trattenuto la mano.

Leopoldo - Viva Caterina, perdio! Viva Caterina...

(Entra Elena con una busta in mano).

SCENA XII

Elena (a Leopoldo) - È arrivata una lettera per lei. (a Enrico) Io esco.

Enrico - Vengo con te.

Leopoldo - Ma non aspettate Bonivaglia?

Elena - No... se posso, torno fra mezz'ora.

Leopoldo - Mi sembrate matti. (escono).

SCENA XIII

Leopoldo (inforca gli occhiali, allontana la mano con la busta e cerca di leggere) - «Signore Plattania...» Ma da dove mi scrivono, dall'asilo infantile?

(chiama). Caterina! (va alla comune e grida). Caterina! (ascolta). Nessuno risponde.

(Torna indietro; apre la busta, la rigira fra le mani, non riesce a leggere; cerca sul ta­volo un paio di lenti e le inforca insieme agli occhiali; legge).

«Mori...». Chi? Chi è morto? (volta il foglio e legge la firma). «Sua devotissima (stenta a decifra­re)... Piedimolli». Chi è Piedimolli? (rivolta il foglio, continua a leggere): «Morì stamattina che non ce ne abbiamo accorti nella confusione scappò la capra che le male genti ce la rubarono...». Ma chi diavolo mi scrive? (legge). «Così Dio ci punì dei nostri peccati. Ma l'ultima parola fu di salutare e ringraziare i sinori Plattania e speciallmente la signorina Caterina che era una santa collui... (si corregge, dopo avere aguzzato gli occhi) collei... (incerto ripete) collui, collei... che forse senza volerlo si ebbe comportato male. E questa lettera perché non posso mandarlo a dire col portiere che il barone è dispiaciuto perché lo arrestarono che non si sapeva che era un brigante. Bacio le mani a tutti devotissima Piedimolli». Ma chi è? (Sbatte il foglio; d'un tratto si accorge che sul margine qual­cuno ha scritto in buona grafia; legge). «Aggiungo di mio pugno che ieri è morta Jana...» (con voce spenta). Oh, Jana! è morta! (legge) «...per collasso dopo l'ope­razione». (si fa il segno della croce, mormora). Che Iddio la perdoni! (legge). «Il portinaio del barone Denari è stato fermato come favoreggiatore del brigante Letojanni ». È morta Jana! (rilegge) «... e spe­cialmente la signorina Caterina che era una santa...» (chiama energicamente). Signorina Caterina! Signo­rina !

(apre la comune e grida) : Caterina!

(Va alla porta di destra e, vinta una certa resistenza della maniglia, la spalanca. Rimane come paralizzato, guardando ol­tre la porta, con la mano attaccata alla maniglia, il braccio disteso. Poco dopo, entra Francesca sconvolta e correndo).

SCENA XIV

(Francesca, che stringe un asciugamano sul petto, im­bocca subito la comune e fugge via. Leopoldo se la vede passare davanti senza riuscire a spiccicare le labbra che paiono tappate dalla stessa parola violentissima che vorrebbe dire).

SCENA XV

(Finalmente Leopoldo stacca la mano dalla maniglia: il braccio gli cade giù. Col passo di chi ha subito la rot­tura di un'arteria, e non si sa se conservi l'uso della paro­la, Leopoldo si trascina verso una poltrona e vi si lascia cascare. Passa del tempo, durante il quale giunge distinta­mente, dall'appartamento di sopra, il canto accompagnato dal pianoforte. Poi, come un'ombra, addossata alla porta rimasta spalancata, è apparsa Caterina. Nel viso, che ella appoggia per la nuca contro la porta, come se il collo fosse spezzato, non c'è una goccia di sangue).

SCENA XVI

Caterina - Adesso lei... (S'interrompe, stanchissima. Leopoldo è completamente immobile). Adesso lei penserà che sono un'ipocrita.

Leopoldo (tossisce debolmente e profondamente).

Caterina - Io... (non può continuare; Leopoldo è sem­pre immobile, curvo, con gli occhi fissi sul pavimento) non ho mentito con lei, tranne in un solo punto. L'idea che si è fatta di me corrisponde a me stessa, mi creda — tranne in un punto. (con slancio). È vero che piace la gente semplice come lei, che mi piace la vita casalinga e ritirata, che mi piace l'onestà. Non le ho mentito, le giuro — fuorché in un punto... (con voce più lenta). C'è questo nella mia vita, questo. Io ho letto dei libri che mi giustificavano. Erano libri di grandi scrittori. Ma non sono riusciti a ottenere da me che io mi perdonassi. Non mi sono perdonata — mai. Ho la religione di ciò che è naturale e comune a tutti. E forse per questo il mio diavolo ha avuto tanto potere su di me. Ma stavo per scacciarlo. Ero quasi libera. Stava per finire tutto... (disperata). Perché ha aperto quella porta?

Leopoldo (si dà un morso alla mano destra) - Mi fosse cascata !

Caterina (si avvicina, gli s'inginocchia davanti) - La ringrazio. (pausa). Francesca se ne andrà stasera col fidanzato. Scapperà. Questa notte stessa si sposeran­no... Se vuole, posso andarmene subito, prima che rientrino sua nuora e suo figlio. Ma adesso mi lasci essere vile: la prego, la supplico di farmi rimanere — qui, accanto a lei, in questa casa ove stavo imparando a essere più forte di me stessa! (pausa). Ebbene? (pausa). Ebbene?

Leopoldo - Rimanga. (inghiotte). Del resto, me l'ha insegnato lei a compatire le persone.

Caterina (si curva a baciare le ginocchia del vecchio e così rimane).

Leopoldo Ma mi spieghi una cosa... una cosa che adesso mi fa tremare!

Caterina (alza il viso) - Cosa?

Leopoldo - E Jana?

Caterina - Credevo che lei m'avesse perdonato.

Leopoldo - Sì, ma dunque... quella povera ragazza?...

Caterina - Credevo che m'avesse perdonato...

Leopoldo - Sì, sì, l'ho perdonata... ma mi dica: non era vero?

Caterina (torcendosi dal dolore) - Credevo che m'avesse perdonata.

Leopoldo - Ma perché proprio quella calunnia?

Caterina - Perché il ladro non vede che furti... E dopo, perché cominciai a provare gusto, un gusto velenoso ma che mi ristorava, nel sentir condannare quella cosa, nel sentirla maledire da lei. Questi scrittori... molte persone anche... cercavano di farla passare come priva d'importanza. Mi volevano togliere il rimorso, il mio rimorso, il solo bene che avevo nella vita! Mi esaspe­ravano... — Invece lei no. Tutte le sue parole le pren­devo per me — Jana non c'entrava — erano coltelli, e la notte me le rificcavo a una a una nel cuore.

Leopoldo - Già, ma l'infamia se la prendeva Jana.

Caterina - Quando parlai la prima volta con la signora, quei libri stavano per averla vinta su di me. Conside­ravo la cosa come una disgrazia. Pensavo di presen­tare Jana come una sventurata. Poi vennero le sue parole — che mi sono tanto servite.

Leopoldo - Ma non a Jana.

Caterina - Pensavo, per lei, di dire un giorno la verità. (si alza). Vedo che non mi ha perdonata. Me ne vado. (si avvia).

Leopoldo (gridando) No! No!... (si alza, le prende una mano). Sono un vecchio allucinato. Mentre parlavo con lei, ho sentito per la prima volta che mia figlia mi per­donava di ciò che le feci venticinque anni fa... Quelli sono delitti, Caterina: il mio!... Lei è una sventurata; e se è vero che crede di essersi guarita...

Caterina - Si, lo credo.

Leopoldo - Rimanga, rimanga! per favore rimanga!

Caterina (lo abbraccia, col viso pieno di speranza) - Sono felice!

(suonano alla porta).

Vado ad aprire. In casa non c'è più nessuno. (si avvia).

Leopoldo - Caterina!

Caterina (ritorna).

Leopoldo (porgendole la lettera) - Deve leggere questa lettera.

Caterina (legge; il suo volto cambia completamente; con voce dura) - E allora le cose cambiano. (con altro tono). Vado ad aprire. (esce).

SCENA XVII

(Trilla il telefono. Leopoldo va all'apparecchio)

Leopoldo (al telefono) - Si, sono io... Non so cosa dirti, Alfio... Non so darti nessun consiglio... Da il consenso, non lo dare... fa quello che vuoi... Non si può preve­dere niente... non si può sapere niente... non capisco niente... non so niente... niente... (richiude).

Voce di Alessandro (sbadigliando) - Ah, com'è triste la vita!

(Entra Alessandro).

SCENA XVIII

Leopoldo - Ha ragione.

Alessandro (sorpreso) - In che cosa ho ragione?

Leopoldo - Quello che ha detto è giusto.

Alessandro - Ma io non ho parlato.

Leopoldo - Lei ha detto: «Com'è triste la vita!». E ha ragione, la vita è triste. E lei, se vuole saperlo, è un grande scrittore. Le sue parole sono sante. Tutte ve­rità... Fa bene a buttarci addosso fango. Che cosa ci vuole buttare, fiori? Ci deve coprire di fango, sino ai capelli. Perché siamo porci e abbiamo bisogno di stare nel fango. Con quale mano scrive?

Alessandro - Con la destra.

Leopoldo - Gliela bacio. (fa per baciargliela, ma Alessandro la ritira).

Alessandro - Ma no... cosa fa?... (con altro tono). Piuttosto chiedo scusa del ritardo. La signora è uscita?

Leopoldo - Sì, ma credo che tornerà presto.

Alessandro (lo osserva).

Leopoldo - Non mi guardi. Cerchi di non capirmi, per favore. Perché a lei basta uno sguardo per capire tutto... tutto. Mi ricordo ancora le parole che lei ha detto, in quella poltrona lì, su Jana.

Alessandro - Cosa ho detto su Jana?

Leopoldo - Quello che lei dice sempre, sia quando parla sia quando scrive: la verità.

Alessandro - Non mi ricordo più.

Leopoldo - Io sì, io sì. E si ricorda di quel disgraziato portiere che è venuto a trovarci mentre lei si licenziava?

Alessandro - Di quello, perfettamente. Uscendo di qui, nella scala, ho preso qualche appunto su di lui. Voglio descriverlo.

Leopoldo - E nella sua descrizione ci metta che era una povera bestia cieca. Il suo padrone stesso, prima di mandarlo a Roma, gli aveva cavato gli occhi — prima questo poi questo — in modo che coi suoi stessi piedi, quel povero merlo andasse a finire in carcere, e ci ri­manesse per sempre. Scriva questo!

(Entra Elena sconvolta).

SCENA XIX

Elena (casca in una sedia e si fa vento con le mani cercando di non svenire; Alessandro le si avvicina premuroso).

Leopoldo (ad Alessandro) - Non si spaventi. Avrà avuto una visione.

Elena - Ho avuto una visione...

Leopoldo - Ecco, vede?

Elena - Ero entrata per caso nella stanza qui a destra e vedevo Caterina (si chiude gli occhi con la mano) legata a una corda, coi piedi...

Leopoldo - Smettila! Le tue sciocchezze oggi sono di troppo. Ne abbiamo abbastanza di fastidi veri.

Alessandro - Si calmi, signora. Vuole un bicchiere di acqua?

Elena - No, grazie. Sto meglio. Ma perché devo essere condannata a vedere cose tanto spiacevoli?

Alessandro - Le saranno risparmiate nella realtà. Su, coraggio.

Elena (con voce normale) - Senta, lei ha scritto un racconto che non le perdonerò mai.

Alessandro - Quale? (sbadiglia). Ah, vorrei morire!

Elena - L'ultimo, sul giornale.

(Entra Enrico).

SCENA XX

Enrico - E invece è molto bello.

Elena - Al solito, io non capisco. Io sono visionaria e stupida. Creda a me, questa volta, Alessandro: il suo racconto è brutto.

Alessandro (passeggia nervoso su e giù per tutta la stanza) - Ho ricevuto cinque... anzi sei lettere, per quel racconto.

Elena - E cosa le dicevano?

Alessandro - Mi facevano molti complimenti.

Elena - Bisogna vedere chi sono gli autori di queste lettere.

Alessandro - Persone molto intelligenti.

Elena - Come lo sa, le conosce?

Alessandro - No, ma dal modo con cui scrivono si capisce che sono intelligenti.

Elena - Il modo intelligente di scrivere a lei è quello di lodarlo.

Alessandro (nervoso) - Oh, no... (Sbadigliando il suo solito: «Ah, com'è triste...» scosta un po' la porta di destra e guarda. Quando si volta, è terreo. Torna in­dietro, irrigidito dalla paura) - Signori, una cosa orrenda!

Leopoldo, Elena, Enrico - Cosa?

Alessandro - Orrenda, orrenda!

Leopoldo ed Elena - Ma dove?

Alessandro (sempre irrigidito dal bisogno di non vol­tarsi) - Dietro quella porta! Caterina...

(Un momento di terrore in tutti prima di lanciarsi verso la porta).

TELA