LA GRANDE OCCASIONE
Monologo di
Giorgio Serafini Prosperi
A Mimmo La Rana, compagno di battaglia.
Un gabinetto angusto, inospitale, quello, disadorno ed impersonale di uno
spogliatoio. Si trova nei sotterranei dello stadio dove si è appena conclusa la
finale di una importante competizione europea. Si odono ancora, in lontananza,
i tipici cori dei tifosi in festa, accompagnati, di quando in quando dal suono
acuto di una trombetta nautica. Seduto sul water un uomo in tenuta da portiere
di calcio tiene in mano un contenitore sterile. Questi si rivolge ad
interlocutori al di là della porta chiusa.
PORTIERE- No, non ho fatto. Non ancora. No. Lo so che è tardi, ma non mi
scappa, che ci posso fare? E poi io sono così, se so che c’è qualcuno nelle
vicinanze non mi concentro. Lo so che dovete andare via. Il referto, lo so, per
la federazione internazionale. Tutti ad aspettare me. Ma se non mi scappa? No.
Non mi aiutano neanche i rumori evocativi. Quelli tipo pssssss, pschhhhhh,
nemmeno lo sgorgare dell’acqua dal rubinetto. Macché. Grazie comunque per la
collaborazione. Neppure quando ero bambino. Non si può farla a comando. Bisogna
aspettare. Il tempo che ci vuole, né più né meno. Io, se sento la presenza di
estranei, mi blocco. Lo so che non potete allontanarvi. Il regolamento, sì. Io
sono un patito del regolamento. C’è sempre bisogno di un buon regolamento, dà
sicurezza. No che non ne faccio una questione personale, figuratevi. Non vorrei
che la prendeste a male. Non è per voi. Non riuscivo a farla neppure davanti a
mia madre, quando ero piccolo. E se mi scappa fuori di casa? Un dramma. Per
fortuna alcuni bar, per esempio, hanno i bagni nelle cantine, lontano dal
rumore della gente. Lì ci riesco. Qualche volta. Devo estraniarmi. Sì. Ma
nemmeno con mia moglie posso. Devo farla se lei è fuori di casa, arrivo ad
immaginare che lei lo sia e solo con lo stereo acceso. Se posso scegliere,
musica classica. Vivaldi per lo più. Mi rilassa. Anche Beethoven, la pastorale.
Ho bisogno di musiche aperte, dolci. E poi per fortuna c’è la new age…(Una
pausa di delusione) Ah, era ironico? Mi scusi, non avevo colto. In ogni caso
non conta più. Se n’è andata da pochi giorni. Mia moglie, dico. E non ha
nemmeno un altro. (cambia discorso) Posso farle una domanda? Quanti siete lì
fuori? Mamma mia! La sua presenza la capisco, ma altre due persone, perché? Il
regolamento. Ci vogliono due testimoni. La cosa si complica. Persone
fidatissime, non lo metto in dubbio, ma io, purtroppo, non faccio differenze.
Sono molto ecumenico. Il suo assistente, ho capito. L’addetto della federazione
internazionale. Effettivamente sì, è la prima volta che mi capita, per mia
fortuna. E in un’occasione così, certo. C’è di che nobilitare un’intera
carriera. Il sogno di una vita. In un certo senso. Li sente i tifosi? Stanno
ancora festeggiando. Mica capita tutti i giorni di vincere la Coppa dei
Campioni. Champions League, la chiamano adesso. E tutti si inceppano con la
pronuncia. Andranno avanti tutta la notte i tifosi, cori, gioia, confusione.
Traffico bestiale. Oltretutto il caso ha voluto che si conquistasse la coppa
proprio nella nostra città. Più unico che raro. E a noi toccherà la cena, i
brindisi, tutta quella roba lì. Che io detesto. Comunque ero molto tranquillo
quando sono entrato in campo. Nessuna emozione. Nessuna esitazione. Dritto allo
scopo, come sempre. Ho carattere, io, sa. La roccia, mi chiamano i compagni.
No, non ho toccato la palla. Ha visto benissimo. Non direttamente, almeno. Ci
sarebbe stata una rimessa dal fondo, in effetti. Ma il capitano mi ha fatto
capire che avrebbe voluto calciare lui. Io do molto peso alle gerarchie. L’ho
lasciato battere. Tra l’altro ha tirato una ciabattata invedibile. Una volta
erano molto più attenti ai fondamentali. Si calciava per ore contro il muro,
per imparare. Anche i portieri, sì. Come no. Me lo ricordo benissimo.
L’allenamento, a parte quello specifico del ruolo, era lo stesso. Io con i
piedi me la cavo meglio di moltissimi dei miei compagni, che hanno un ingaggio
dieci volte il mio. Il goal? Era in netto fuorigioco, l’arbitro ha fischiato
prima ancora che calciasse. E comunque non l’ho toccata nemmeno in quel caso.
Poi, senza neppure il tempo di battere la punizione conseguente, l’arbitro ha
fischiato. Pensare che i minuti di recupero non erano nemmeno finiti. Che
importa se già vincevamo tre a zero? Bisogna essere precisi. Io anche
l’invasione di campo l’avrei sanzionata. Che si fa così? Ci sono delle regole
da rispettare. E’ la prima presenza, sì. Nelle coppe, ma anche in stagione. Una
finale così importante, pensi. La più importante. Quella che si insegue da
quando si danno i primi calci. Certo, potrò fregiarmi anch’io di questo alloro.
Se mi sbrigo a farla, è ovvio. Anche nel decennio è l’unica presenza. Se è un
record? Lo sarebbe stato. Purtroppo si è infranto questa sera. Se non avessi
giocato questo spezzone di partita sarei stato il portiere meno utilizzato in
assoluto della storia del calcio. Roba da Guiness dei primati. Ma purtroppo c’è
stato quell’infortunio. Una fatalità. Bisogna considerare che lui non è mancato
mai, una salute di ferro. Per dieci anni: sempre presente, nemmeno un
raffreddore. Ha giocato col mal di denti, con un ascesso, perfino. Con la
febbre a 39. Perfino con un dito fratturato. E l’appendicite l’ha fatta a
luglio, durante le ferie. E poi, una cosa così banale l’ha fregato…Stiramento.
Che infortunio insulso. Mancavano una cinquantina di secondi, poco più. Attimi
che fanno la storia. Io e il mister, occhi negli occhi. Intorno, ottantamila
anime in tumulto. Quando lui mi ha chiesto se me la sentivo, mi ha detto che
ora toccava a me, non potevo che rispondere di sì, la squadra aveva bisogno di
me. Io metto il bene della squadra al di sopra di tutto. (Riflettendo) Al di
sopra di tutto. Se avessi preso goal avrei comunque ottenuto un record. Il
portiere più battuto tra i meno impiegati in assoluto. Cinquanta secondi ed un
goal incassato. Roba da non credere. Sospetto, tra l’altro, che i compagni
l’abbiano fatto passare apposta, quello là. E questo non sarebbe corretto. Ma
l’ultimo uomo, il capitano, la tattica del fuorigioco ce l’ha nel sangue. Ci è
cresciuto. Come i polli di allevamento. Ne è talmente condizionato che secondo
me, ogni tanto, mette in fuorigioco anche qualche vecchia signora al
supermercato, sulla linea della cassa. Secondo me, comunque, era in linea. Ci
si è messo quell’imbecille dell’arbitro. Di dov’era? Norvegese? Ma ce l’avranno
i campi di calcio in Norvegia? Ma dico, vai a pesca nei fiordi, vedi di
eccellere come essiccatore di stoccafissi. Ma perché l’arbitro? Cosa ci avrà
trovato? Secondo me uno che – scientemente - decide di fare l’arbitro non può
essere normale. Era in linea, comunque. E’ partito in posizione regolare. Il
guardalinee non lo aveva segnalato, infatti. Subito si era messo a correre
verso il centro del campo, ma quell’idiota, no. Ha fischiato. Un fischio secco,
da persona non incline all’umanità. Un fischio stizzoso, fastidioso. Uno di
quei fischi da fine stagione. Un fischio da so tutto io, un fischio da non
provate a fregarmi. Un fischio inutile, sprecato. Io invece ero uscito, m’ero
buttato, come un pazzo, a valanga, avevo fatto di tutto per prenderla, quella
palla. L’ho detto già che per me l’attaccamento alla maglia è qualcosa di non
eguagliabile? Ma non ci sono riuscito. Manco l’ho sfiorata. M’ha impallinato.
Bucato. Secco. Un gran goal. Il goal della bandiera. Se non ci fosse stato quel
fischio…Che uomo sei se annulli il goal della bandiera. Forse c’è un record se
uno in cinquanta secondi non tocca la palla? Dice? Grazie. Mi devo informare.
Comunque non credo. Si potrebbe proporre, però. Mica male. Lei è molto gentile.
Mi piacerebbe conoscerla meglio quando esco di qui. Ha una bella voce. Però non
mi blandisca. Non lo sopporto. Io tutto quello che ho me lo sono guadagnato.
Non mi ha regalato mai nulla nessuno a me. Vorrebbe venire alla festa della
vittoria? Con me? Mi sta chiedendo di accompagnarla? Me lo sta davvero
chiedendo? Non crede che potrebbero nascere illazioni se ci vedessero? E’
libera. Anch’io. Non è per questo che lo dico. Il suo ruolo istituzionale,
intendevo quello. Lei è pur sempre l’addetto al controllo antidoping, ed io
l’atleta sorteggiato per il controllo medesimo. Non intravvede la possibilità
che ne nascano delle chiacchiere? I due vanno insieme a festeggiare la
vittoria. Non vorrei che nuocessero alla rispettabilità del club. O alla sua.
Si figuri se volevo offenderla. Mi creda, non sto assolutamente facendo il
prezioso. Non è proprio nel mio stile. Andare ad una festa con lei mi farebbe
moltissimo piacere. Ma prima devo farle espletare questa formalità, lo so. E
poi sono io, ad onor del vero, a doverla espletare. Comunque non creda che mi
diverta a stare qui dentro. Si metta nei miei panni. Tutti che aspettano me.
Come se fossi una star. Non ci sono neppure abituato. E di fuori i tifosi,
ignari di tutto, che si godono la vittoria. No, non sono sicuro che la musica
mi aiuterebbe a questo punto. Il suo walkman? Lou Reed? No. Lo apprezzo, e
apprezzo il suo gesto, ma… Il punto è anche che ormai io so che voi siete lì.
Non è che posso ingannare me stesso a questo modo. Non quando la situazione si
è spinta così in là. Non con questa posta in gioco. Crede che non me ne renda
conto? Grazie lo stesso. (Una pausa) Va bene, riprovo. No, non dica così. Come,
la faccia per me? Come potrei farla per lei, mi sembrerebbe irriguardoso. Una
specie di dedica. Credo che mi riuscirebbe ancora più difficile. Non in quel
senso, d’accordo. Indirettamente farei un favore a lei. E non faremmo tardi
alla festa. Suona meglio. Le ho detto che verrò? Glie l’ho detto che non amo la
confusione. D’accordo ne discuteremo quando sarò uscito. E’ meglio. Qualche
secondo di silenzio mi aiuterebbe, sì. A ritrovare la concentrazione, credo. E
le motivazioni. Va bene, ora ce la metto tutta. M’impegno, davvero. Mi faccio
vivo io se succede qualcosa. Grazie.
(Si dispone spalle al pubblico, nella posizione di chi sta orinando. In realtà
non sappiamo se lo stia facendo davvero. Per qualche tempo tutto resta sospeso,
in attesa dell’evento. Dopo qualche attimo riprende a parlare, in maniera
colloquiale. Porta leggermente la voce, per farsi sentire).
Li sente quelli là, i tifosi? Come cantano? Gente gretta, ottusa, violenta.
Gente che crede di poterti possedere. Che ti confonde con la sua insana
passione. Tu gli appartieni. In virtù dei soldi che paga per venirti a vedere.
Si rende conto? Devo farlo per loro. Anche per loro. (Silenzio. Un leggero
rullo di tamburi. Poi l’uomo si volta di scatto e si scorge il contenitore
ancora desolatamente vuoto).
Niente da fare. Nulla di fatto. Tentativo fallito. Non sono pronto. Ma mi
sembra che qualcosa si sia mosso. Non è esattamente una sensazione fisica,
direi piuttosto che è un presentimento morale. Un bagliore. Forse
un’intuizione. Ha presente quando le cose sembrano chiarirsi all’improvviso e non
si sa come e perché? I cattolici la chiamano illuminazione. Io sono scettico.
Per me è qualcosa che nasce dalla fiducia e dalla consapevolezza. Ecco, dalla
consapevolezza. E dalla determinazione. Ma bisogna saper aspettare. Con
fiducia, appunto. Come ho sempre aspettato io, del resto. In attesa del momento
opportuno. Della tua grande occasione di essere qualcosa meno di zero.
Attendere senza abbassare mai la guardia. La mia stessa vita è un’attesa.
Un’attesa continua. Non un’attesa generica, comunque, un’attesa mirata,
scientifica. E, quando si attende, la fiducia è una cosa fondamentale. Bisogna
sapere che si deve essere pronti, in qualsiasi momento, per ogni evenienza. E
anche se l’evenienza non si presenta non bisogna lasciarsi distrarre mai.
Questa è la mia regola. Fare bene il proprio lavoro, di settimana in settimana,
di mese in mese, di anno in anno. E basta. E’ troppo facile darsi da fare per
un obiettivo concreto e prossimo, è roba che sanno fare tutti. Invece nel non
giocare, nel partecipare senza partecipare c’è la poesia assoluta. Anzi direi
piuttosto che la vera grandezza sta proprio nel non giocare, a patto che si sia
- viceversa - sempre prontissimi a farlo. Più ancora di chi lo fa al posto tuo.
Non è complicato. E’ logico. E’ una sottigliezza che non va sottovalutata. Io
sono sempre il primo nei test atletici, nonostante l’età, sono il primo ad
arrivare agli allenamenti, l’ultimo ad andare via. E, posso dirle una cosa? A
me il calcio non piace. Neanche un po’. Mi fa schifo. Gioco a calcio da una
vita, ma detesto il calcio. E’ anche per questo che ho scelto di fare il
portiere. Il portiere è la negazione del calcio, ma all’interno del calcio. E’
la spina nel fianco di un regolamento che non prevede che la palla possa essere
presa con le mani. Cosa fa il portiere? Lui la piglia con le mani. Apertamente,
platealmente. Lo sa perché? Non si faccia ingannare dalle apparenze. Perché
odia il calcio. Non c’è nessunissimo altro motivo. Lo sa come è nato il rugby?
Glie lo dico io. Un giorno uno qualsiasi che giocava a calcio scelse di
rischiare, decise scientemente di afferrare la palla con le mani e di correre
indisturbato verso la porta altrui. Senza che ad alcuno venisse in mente un
modo di fermarlo. Il goal che fece fu valido. Ma fu anche l’unico di quel
genere. Subito cambiarono le regole. Proprio perché quell’uomo aveva trovato il
lato debole della questione. Quell’uomo odiava il calcio, come me, ma ha avuto
la forza di manifestare fortemente questa sua opinione. Invece di dargli la
soddisfazione di accettare di fronte a lui la sconfitta, decisero di inventare
per lui addirittura uno sport diverso. Non perché ne sentivano l’esigenza: solo
per non dargli soddisfazione. Lui, questo eroe a cui mi inchino, ovviamente,
deplorò il rugby come aveva fatto per il calcio e si ritirò a vita privata.
Soddisfatto. Io invece mi accontento di posizione più defilata, ma sto in
guardia; una posizione che si esaurisce, per ora, nella mancanza di
partecipazione. Io non contesto, ma come la goccia che scava la roccia, rendo
liquido il mio disprezzo, lo diluisco giorno per giorno in un comportamento
inappuntabile che invece cela un odio profondo. Mi alleno e mentre lo faccio
sento scorrermi via, assieme ad ogni singolo secondo che passa, la vita. Ciò
nonostante non mi arrendo mai, non do mai a nessuno l’occasione di criticare il
mio lavoro. Io aspetto. L’attimo e l’occasione, la scintilla, l’interruttore. E
poi…zac! Agirò. E quando lo farò sarà un’azione così eclatante da far sfigurare
qualsiasi altra cosa. Al tempo. Anche lei, signorina, sta cercando di fare il
suo lavoro, ci mette il massimo della sua buona volontà, ma ci sono io qui a
ricordarle che non è così facile. Che non è mai facile. Se lo ricordi. Eppure,
lei, come me, è qui a rischiare, a metterci del suo. La mia carriera dura
ininterrottamente da più di venticinque anni, lo sa? Ho iniziato la mia prima
stagione agonistica che non avevo ancora quindici anni. Da allora, ogni giorno
che è nato è stato per me convivere con il gioco del calcio. Ma in questo
senso, devo dire, al calcio sono grato. Perché? Ma perché posso dire di avere
realmente vissuto la mia vita. Grazie al calcio non c’è stato un attimo della
mia esistenza in cui abbia dimenticato di esistere, fisicamente, intendo, con
dolore; e non parlo delle banalità a cui di solito ricorre chi fa il mio
mestiere. Quando mio padre è morto non c’ero, è vero. Ero in ritiro e non volli
neppure usufruire del permesso che la società mi concedeva. Era un incontro
troppo importante. Avrei minato l’umore dello spogliatoio. Impossibile. Con mia
moglie sono stato così assente da rendere naturale che si abituasse a questa
condizione al punto che, con naturalezza, ha fatto a meno di me. I miei figli –
anche se nella mia fantasia sono più che presenti – non sono semplicemente mai
nati. Per mancanza di tempo. Per non sviarmi dall’obiettivo. Ma non è questo
l’importante. La verità è che io la vita l’ho sentita passarmi addosso
soprattutto nel carico di noia e di inutilità che mi ha portato fare questo
mestiere. Io la vita l’ho sentita passare attimo dopo attimo nella fatica del
fare ciò che mi sono costretto a fare. Ma non per questo meno seriamente,
coscienziosamente, irriducibilmente. Questo è il senso. Il senso di tutto,
temo. Il senso che ho trovato. Mi ha sempre accompagnato, fin dall’infanzia, un
dubbio: ma se il senso di tutto fosse proprio che non c’è senso? Ho cominciato
dalle giovanili a capire il ruolo che si apriva per me ed ho compreso in un
attimo che sarebbe stata dura, tutta in salita. Fino alla meta finale. Seppure
fosse mai arrivata. Ci messo tutta l’applicazione e la determinazione possibile
nell’essere molto affidabile, nel non fare polemica mai, nel farmi trovare
sempre pronto ed attento al momento giusto. Così, spontaneamente, seppure con
un livello di coscienza che cresceva nel tempo, ho visto chiaramente delinearsi
la via. Dato che ero così affidabile, appunto, e così promettente – lo sa? –
sì, perché c’è stato un tempo in cui sono stato davvero molto promettente. E’
il momento che mi fa più male ricordare, mi creda. Ma c’è stato. Avrei dato
qualsiasi cosa pur di arrivare, allora. Può capirlo, adesso, che mi conosce un
po’ meglio? Ero affidabile e promettente, dicevo, e proprio per questo ho
attirato su di me l’attenzione dei dirigenti del mio club. Qualcuno deve aver
detto, come accade sempre in questi casi: “questo è un ragazzo interessante, da
noi è chiuso dal titolare, mandiamolo in provincia a farsi le ossa, così
vediamo di che pasta è fatto”. Praticamente una trappola. Ma allora non la
pensavo così. E le ossa me le sono fatte sul serio. Letteralmente. Giocavo
nelle serie inferiori. Campi infami, avversari che non ti rispettano neanche un
po’. Ci ho rimesso il setto nasale, un gomito e lo zigomo destro. Quelli non
levano il piede, affondano il tackle anche se sanno di essere in ritardo. Per
il gusto di farti male. Per farti capire che esisti. Che tu esisti e che loro
esistono in rapporto a te. Per essere sicuri di essere vivi. E’ una grande
scuola. Ora, se lei potesse vedermi, attraverso la porta chiusa, io le mostrerei
fisicamente quelle che sono le stigmate di ogni portiere. Io, ai due lati delle
anche, all’altezza del femore, ho due grossi ematomi nerastri che non vanno
via. Si sono cronicizzati. Fanno parte di me come dei tatuaggi. Solo che i
tatuaggi, dopo un po’, si dimentica di averli, questi segni no. E ne sono
felice, perché proprio guardandoli ho trovato la forza di andare avanti nei
momenti difficili. Guardandoli, mi hanno ricordato ogni volta dove stavo
andando, ciò che stavo facendo, inequivocabilmente. E ora è tutto sempre più
chiaro, mi creda. Ora, finalmente, mi sembra davvero di aver capito chi sono.
Per la prima volta (Guarda molto intensamente il contenitore che ha in mano).
Ero affidabile e promettente, dicevo. Feci il mio dovere. Tornai alla base. Ero
sempre affidabile, ma meno promettente. Un po’ meno. Nel senso che alcune
promesse le avevo mantenute. Magari non tutte, chissà. Però ero affidabile.
Così decisero di puntare su di me, sì, ma per il ruolo di secondo. Ero
affidabile. Avevano già preso un altro da fuori per fare il titolare. Non ti
aiuta il fisico, mi dissero. Ti devi potenziare. Devi darci maggiori garanzie
atletiche. Sono invecchiato in palestra, ma non si può combattere contro i
mulini a vento. Il fisico te lo dà la natura, signorina, e io questo ho. Mi
dissero che comunque ci sarebbe stata un’occasione per me, certamente, per
mettermi in mostra, per convincerli, per attirare l’attenzione su di me. Prima
o poi. L’importante era di farsi trovare pronto. Si sarebbe trattato solamente di
aspettare il momento opportuno. Il momento opportuno lo riconosci, ha un sapore
speciale. Un odore speciale. Quando meno te lo aspetti arriva e ti porta la
grande occasione. Aspettare. Bisogna aspettare. Non avere fretta. Ed io
aspetto. Aspetto. Non ho paura dell’attesa. Non più. Aspetto. (quasi
allucinato) Aspetto. (Una pausa)
Se so che ore sono? No, ovviamente. Il regolamento impedisce di indossare
oggetti che possano recare danni agli atleti in scontri fortuiti di gioco. Non
ricordo esattamente l’articolo, ma il concetto è questo. Dica al signor
delegato dell’Uefa che sono a conoscenza anche del regolamento relativo
all’antidoping. Sì. Io sono un uomo d’ordine. So benissimo a cosa posso andare
incontro. Glie lo dica. Sì. Una squalifica mi costringerebbe – di fatto – a
chiudere la carriera. E’ evidente. Sento crescere il rumore. C’è confusione.
C’è fermento. Anche i tifosi, mi sembra, si sono come acquietati. (Freddamente)
Qualcosa non va? C’è qualcun altro lì fuori, mi pare. (In tutta questa parte
finale ostenta calma, compostezza) Signor Presidente. Avevo riconosciuto la
voce. Quale onore. Non si doveva scomodare. Non per me. No, io la farò, glie lo
assicuro. Solo, a tempo debito. Lo vede, è d’accordo con me anche lei. La
pressione non aiuta. Certo. Ogni cosa a suo tempo. Mi fa piacere che lei sia
solidale. Anzi, mi inorgoglisce. Lo sa che io ho sempre avuto una stima
speciale per lei. Poi passo da lei per discutere il mio futuro da dirigente? A
disposizione. Però devo fare in fretta. Non c’è più molto tempo. Lo so, si
figuri. Ma il tempo si trova, non è vero? Anche il mister è qui? Ci siamo
tutti. I compagni aspettano schierati appena fuori dallo spogliatoio? Sono
tutti con me? Lo sanno che alla fine non li deluderò. Certo, sarà così. Però
con calma. Senza ansia. Perfino gli avversari? Un gesto carino. Sportivo,
direi. E’ lei, signor delegato? Parli piano, per favore, non così veloce perché
io con l’inglese non vado tanto d’accordo. Se poi non posso vederla in faccia
quando mi parla…Speak slow, please. Ecco. Meglio. I’m sorry. I’m sorry. Mi
scuso, glie lo dica, Presidente. L’aereo, capisco. E poi ci sarebbe il
regolamento. Hanno già fatto una eccezione per me. Ci sono dei tempi specifici,
stabiliti. Potrebbero addirittura comminarci la sconfitta a tavolino. Lo so.
Tre a zero e vittoria agli altri. La vittoria che avevamo sempre sognato…E’
scritto nel regolamento. Io lo conosco molto bene. Ne sono a conoscenza. Il
tempo sta scadendo. E le regole parlano chiaro. Ma io come faccio? Glie lo
spieghi lei. Non si può farla a comando. Il fisico tiene conto esclusivamente
delle sue necessità. Si deve aspettare. Con fiducia. “Che venga il momento
opportuno”. Che quello si riconosce, no? “Ci ha un odore particolare, un gusto
particolare”. Io non lo sento ancora. Però ci sono vicino, davvero vicino.
Signor Presidente, non faccia così. Io la capisco. No, non la metta sul
personale. Che fa, mi offende? Mister? Non tutti insieme, non capisco niente.
Cosa dite? Calma. Ci vuole calma, nelle cose. Non battete alla porta, m’innervosisce.
Se mi innervosisco va a vostro discapito. Ma che volete da me? Essere
affidabili, bisogna. E aspettare il momento opportuno. La grande occasione.
Ormai ci siamo quasi. La situazione è chiara, perfettamente sotto controllo.
Come non lo è stata mai. E io aspetto. Aspetto. Aspetto. Aspetto. (Quasi
impercettibilmente) Aspetto.
(Si va lentamente al Buio).