La grotta

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LA GROTTA

LA GROTTA

Titolo originale “La grotte”

Commedia in due atti

Di JEAN ANOUILH

Traduzione di Silvana Ottieri Mauri

PERSONAGGI

L'AUTORE

IL CONTE

LA CONTESSA

IL BARONE JULES

LA BARONESSA JULES

IL SEMINARISTA

IL COMMISSARIO

PAPA' ROMAIN, maggiordomo

MARIA GIOVANNA, cuoca

LEONE, cocchiere

MARCELLO, cameriere

HUGUELINE, cameriera

ADELE, sguattera

ALESSIO, garzone di cucina

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

La scena è doppia. In basso la cucina, oscuro antro, con uno sfiatatoio che guarda la strada attraverso il quale si vedono solo i piedi dei passanti; in alto sa­loni chiari e luminosi. Nel salone centrale, un immen­so ritratto d'una vecchia signora in abito da cerimo­nia. Nulla ha parvenza di verità nelle due scene. Nella cucina, un fornello immenso, il cui grosso tubo nero attraversa tutta la scena e passa, insolitamente, in mezzo ai saloni, nascondendo in parte il ritratto della vecchia signora in vestito di broccato.

Quando il sipario si alza tutti i personaggi sono in scena, immobili; sembrano aspettare chissà cosa. Il commissario è in basso, in mezzo ai personaggi della cucina; bombetta, collo duro troppo alto, abito nero. Vicino a lui l'autore in abito moderno un po' trasan­dato che contrasta con quello dei personaggi della commedia. A sipario alzato, dopo un attimo di esita­zione generale, l'autore, un po' imbarazzato, viene avanti verso la ribalta e si rivolge agli spettatori...

L'autore - Quella che vi rappresenteremo stasera è una commedia che non ho mai potuto scrivere. Ne ho scritte molte altre, che da trent'anni voi avete avuto l'indulgenza di applaudire... (Aspetta un po' come se lo stessero per applaudire, poi -finalmente dice) Gra­zie. (E continua un po' seccato) Ma questa non l'ho mai potuta scrivere. Cercheranno di recitarla lo stes­so. Lo so, avete pagato il vostro posto senza conosce­re questo particolare... Ma chi non ne resterà soddi­sfatto potrà farsi rimborsare all'uscita. Si. Ho potuto ottenere questo dalla direzione. Non senza fatica. I direttori di teatro, quando hanno in pugno uno spet­tatore, al giorno d'oggi, soprattutto con una comme­dia difficile, una commedia dove non si ride sempre e che non ha avuto un buon articolo sul Figaro, capi­rete che non hanno voglia di mollarlo cosi facilmente. Ma insomma, ho potuto ottenerlo. In tal modo anche quelli che non avranno capito - e ce ne saranno- quelli che si saranno annoiati, o quelli che avranno trovato il lavoro veramente ignobile - ce ne saran­no senz'altro - potranno, dopo lo spettacolo... (Non finisce la frase e soggiunge timidamente) Insomma, in teoria. Perché, nel trambusto degli ultimi giorni, per parlare con tutta franchezza, credo che la dire­zione non abbia perfezionato il procedimento esatto del rimborso. L'ultima volta che ne ho parlato, al diret­tore, la prova era andata bene... Il che a teatro non vuol dir proprio niente, c'è una prova che va bene e una che va male, un giorno su due. Si passa tra alternative di speranza e di disperazione ed è solo la prima volta che c'è il pubblico che ci si accorge se la maionese riesce. È una vecchia verità, che gli attori non mancano mai di ripeterci quando sono andati male a una prova; è il pubblico che fa la commedia. Il teatro, è una partita nella quale il pubblico riceve, una volta su due, il pallone sulla testa; se il pallone cade in un angolo della platea dove stanno degli inetti che non sanno rilanciarlo, la partita è perduta, ecco tutto. Ma noi, noi abbiamo provato, per cinque set­timane, non voi. Per conto mio, ho sempre pensato che bisognerebbe far provare anche gli spettatori e i critici. Ci sarebbero meno forni. Disgraziatamente è risultato un po' complicato realizzare un'idea simile. La commedia di stasera non è fatta, è da fare e con­tiamo particolarmente su di voi... Sento un critico che mormora nell'orecchio del suo vicino che lo ha già visto in Pirandello. Prima di tutto, si accorgerebbe che non è la stessa cosa, e inoltre, questo prova sol­tanto che anche lui, Pirandello, deve aver avuto delle noie con una commedia... Ma bando alle considerazio­ni generali o non la cominceremo mai, questa com­media. E se c'è una cosa che gli attori detestano è una "pera". La "pera", nel gergo del mestiere, è un passaggio di dialogo, in cui si è in scena e non si dice niente. Allora, in questo momento, dietro di me... (Ha un gesto) Non oso neanche voltarmi... Dun­que, l'ultima volta che ho parlato al direttore, di que­sto eventuale rimborso dei biglietti, data per scontata la singolarità della nostra impresa, lui mi ha giovial­mente battuto la mano sulla spalla (la prova era an­data bene, ve l'ho spiegato) e mi ha detto: "Mio caro maestro" .(quest'anno mi chiama maestro perché ho avuto un successo l'anno scorso; gli anni che seguo­no i miei forni, mi chiama "mio povero amico"), dun­que, mi ha detto: "Mio caro maestro, voi siete troppo modesto; quest'eventualità non si presenterà mai." Insomma io vi ho avvertito. Questa commedia, se fos­se stata una vera commedia - per un momento lo spero - doveva chiamarsi La grotta. Nella mia men­te la grotta è... Insomma, vedrete. Se vi spiego tut­to, non sarà più divertente. Anzitutto, la scena. Ho avuto molti fastidi per la scena. Non mi piacciono le scene complicate, nascondono sempre una debolezza. Il teatro, ha detto Lope de Vega, è: due assi, un pal­co e una passione. Le due assi e il palco, si rimedia­no sempre, tutti li hanno. La passione, la vera pas­sione che trasforma in un solo essere attento, invi­schiato nello stesso silenzio, cinquecento o seicento persone presenti, si ottiene più raramente, bisogna ammetterlo. Mozziconi di passioncelle, più spesso; rivoli d'acqua che l'autore, tutto solo con la sua stilo­grafica, si è immaginato fossero un torrente. Allora, come quelle cuoche, un po' incerte sulla loro carne, che rimediano con una salsa, si fa appello a un astu­to regista o a uno scenografo. Avrei desiderato che non esistesse scena, solo dei personaggi in questa com­media. Ma è stato impossibile. L'azione si svolge in un palazzetto privato del Faubourg Saint-Germain, al principio del secolo. In basso, è la cucina - nel sot­tosuolo, la grotta propriamente detta             - col suo enor­me fornello, dove vive il mondo dei domestici. Ne aveva molti a quell'epoca, la gente benestante. Quel ritratto di signora in abito da cerimonia è "la vec­chia". L'ho chiamata la Vecchia, benché non lo sia poi tanto in quel ritratto, perché nella grotta l'hanno sem­pre chiamata cosi, in contrasto con la nuova moglie del conte, che è giovanissima. È l'antica padrona di casa. La prima moglie del conte. Quando la comme­dia ha inizio, è morta da molto tempo e non avrà nessun ruolo visibile. Ma sotto la sua legge, la sua legge implacabile, che risale al tempo in cui il mondo era nettamente diviso in due, la gente della grotta mal nutrita, maltrattata, mal pagata ha tuttavia vis­suto un'era di tranquillità e di orribile calma, che oscuramente rimpiange, ora che i suoi padroni - sot­to l'influsso della seconda contessa - questa giovane donna bionda dall'aria cosi distinta, lassù, alla mia destra - sono diventati più umani. Ai tempi della vecchia incombeva una fatalità alla quale sapevano di non poter sfuggire. E questa certezza procurava loro una sorta di pace. Era quasi un bene. I poveri vogliono che la loro miseria sia una fatalità; allora soltanto si sentono in pace. Ma sto dicendovi tutto. Tutto questo lo capirete da voi. Dunque, in questa commedia non ancora fatta, ci sono personaggi che stanno in alto - non è difficile; sono precisamente i personaggi che sono in alto sulla scena - e i per­sonaggi che stanno in basso, sono effettivamente in basso. Cominciate a capire perché ho utilizzato tanti pezzi di legno? I personaggi della parte inferiore sono i domestici, più il piccolo curato. Però non è proprio un curato. È un seminarista che non ha ancora rice­vuto gli ordini. Questo dettaglio ha la sua importanza ; toglie molto scandalo alla presenza di questa sottana in questa storia. Perché un seminarista? Il direttore me l'ha ripetuto dieci volte. Non lo vedeva di buon occhio questo seminarista, già le leggeva, le critiche! Da farsi venire i brividi. Perché un seminarista? Me lo ripetevo io stesso tutte le mattine, afferrando i miei fogli. "Perché un seminarista?" "Indisporrai tutti per niente. Fanne un telegrafista, un funambolo, non im­porta che cosa, ma non un seminarista. Ce n'è già ab­bastanza di storie spinose in questa benedetta com­media." Ebbene no. È un seminarista. Dovete subirlo come l'ho subito io. Provvisoriamente mescolato ai personaggi della parte bassa, c'è anche un commissa­rio. (Gli rivolge un piccolo cenno amichevole) Ciao!

ATTO PRIMO

Il commissario                 - Ciao!

L'autore                           - Quello è una vecchia conoscenza. Uno di quei personaggi di facile effetto, che non ha niente a che vedere con la storia, che inserisco sempre nelle mie commedie per aiutarmi a cominciare, e che mi rimproverano sempre, ma mai quanto me. Una mat­tina, quando disperavo di poter mai costruire questa grotta, l'ho fatto venire, pensando che il suo interven­to avrebbe salvato la maionese. Ha contribuito piut­tosto a farla impazzire. Solo che la sua scena mi era utile per esporre una situazione molto imbrogliata e non sono riuscito a sbarazzarmi di lui. La commedia cominciava con lui, come una vera commedia, prima di quel giorno di disperazione, quando rinunciai a scri­vere. Arrivava dal conte - il signore dalle tempie gri­gie al primo piano - strano personaggio anche lui, vi spiegherò, che mi ha dato molti fastidi, pochi giorni dopo l'assassinio della cuoca... (Si ferma) Perché non ve l'ho ancora detto, ma la cuoca della casa è stata assassinata con un colpo di coltello           - credo, non ne sono certo - in circostanze che non sono mai state chiare, nemmeno a me. (Il commissario è uscito con discrezione) Un momento, è uscito, ma non rallegra­tevi troppo presto. Non crediate che ci si sbarazzi di lui con tanta facilità. Sta salendo, dietro le quinte, nella parte superiore del palcoscenico per recitare la sua scena, e la scala è un po' ripida... Sapete, a teatro, tutto quel che non si vede... (Il commissario è apparso nel salone centrale dove si trova il conte) Eccolo. Ho sempre paura che sbagli ed entri nel boudoir della contessa, sarebbe un'altra scena, che non ho affatto prevista... Si potrebbe provare là prima scena, quella che era scritta... E dopo, si vedrà. Coraggio, vecchio mio. (Si ritira in un angolo. L'illuminazione cambia. La parte bassa diventa un poco più buia. La parte al­ta s'illumina. Tutti i personaggi escono, tranne il com­missario e il conte che stanno per iniziare la loro sce­na in alto, poi la continueranno nella parte bassa, in cucina. La luce li accompagnerà)

Il commissario                 - Se volete avere la bontà di mo­strarmi il luogo, signor conte. (Il conte ha un gesto. Discendono. L'autore sparisce mentre stanno arrivan­do in basso) È qui?

Il conte                            - (con un gesto) Sì. Era distesa là. (Il commissario ispeziona gravemente il luogo, raccoglie un pezzo di filo per terra, poi lo getta via, deluso; prende in mano il suo incartamento)

Il commissario                 - (taccuino alla mano) Riassumia­mo. Prima di tutto gli abitanti di questa casa. Voi stesso, signor conte e la signora contessa. I vostri due bambini, il signor barone Jules vostro figlio di primo letto e la signora baronessa Jules e poi da basso: il signor Romain, vostro maggiordomo; la detta Erme-line Joseph, cuoca, la vittima; Leone Lacase, cocchie­re; Marcello Punais, cameriere; Hugueline Lapointe, cameriera; Adele Lepied, sguattera, il piccolo Alessio, garzone di cucina e - di passaggio- il seminarista Tommaso Joseph che sostituiva il precettore dei bam­bini.

Il conte                            - È esatto.

Il commissario                 - Comprendo, signor conte, come sia estremamente sgradevole rispondere a tutte que­ste domande. Credetemi se vi dico che in alto luo­go si ha la coscienza della delicatezza - diciamo in­finita - con la quale deve essere condotta un'inda­gine poliziesca in seno a una delle più antiche e più nobili famiglie - diciamo - del Faubourg poiché è questa, credo, l'espressione consacrata. Il signor pre­fetto, affidando a me piuttosto che a certi miei col­leghi d'opinione - diciamo progressista - l'incarico di condurre questa indagine, ha fatto di tutto, me l'ha confidato lui stesso, per evitare qualsiasi mac­chia, sia pure indiretta, su un nome che fa in qual­che modo parte del patrimonio nazionale. Sono esat­tamente le parole del signor Prefetto. La mia scelta è già un programma; sono noto per aver sempre pensato come si deve, signore.

Il conte                            - (senza ridere) Me ne rallegro, signor commissario.

Il commissario                 - Il mio comportamento spiega però, dato che sono parecchi i modi di pensare co­me si deve, seguendo i vari Governi, che, giunto al grado di commissario di divisione ho - diciamo co­si - poca speranza di salire, prima dell'età della pensione, un altro gradino.

Il conte                            - (cortese) Lo deploro con voi.

Il commissario                 - Non sono il primo, senza dover risalire fino ai santi martiri, cui le convinzioni reli­giose avranno nuociuto. Ma il dado è tratto, o, come si dice volgarmente, (la nostra professione ci mette in grado di frequentare tutti gli ambienti), la mine­stra è in tavola. Veniamo al fatto, signor conte! Noi vogliamo far saltar fuori tutta la verità per essere in grado - diciamo cosi - di non renderne pubbli­ca che una parte.

Il conte                            - (leggero) Conto d'aiutarvi per il me­glio, signore. La verità è una creatura che adoro. An­zitutto perché è nuda e - se è da credere alla mag­gior parte dei pittori - perché è giovane e ben fatta. Chi sa mai, è forse anche vergine? Cosa ne pensate?

Il commissario                 - (astuto) Signore, la polizia - che tuttavia dispone di certi mezzi di coercizione - non ha mai potuto farla confessare. La polizia si contenta delle apparenze. La verità: è un incarta­mento che regge. Il mio deve reggersi, signor conte. È tutto quel che chiedo.

Il conte                            - Faremo del nostro meglio perché si regga, signore.

Il commissario                 - Vedo che c'intendiamo, diciamo cosi, tra uomini di mondo.

Il conte                            - Siete molto gentile.

Il commissario                 - Un colpo di pugnale - è un ter­mine del mestiere, signore, inferto a una vecchia donna e verosimilmente, per quanto egli neghi, dal suo vecchio amante, è una cosa da nulla. Basta tutt'al più per mandare un buon uomo a spaccare sassi per dieci anni. Ma con un po' di leggerezza, vi man­dano due ispettori novizi - forse influenzati da una certa stampa - non faccio nomi! I miei giovinastri fanno troppe domande ed eccoci con una storia di pratiche abortive, di tratta delle bianche e di un piccolo curato misterioso che si contraddice conti­nuamente e che non si capisce bene che cosa c'entri là dentro. Tutto nero su bianco nella pratica. Se fosse accaduto a Belleville o a Batignolles, sarebbe­ro state dodici righe in ottava pagina, ecco tutto! Faubourg Saint-Germain e tutto questo riunito nella cucina d'una delle famiglie aristocratiche più in vi­sta a Parigi, voi capite che per alcuni, che non no­minerò, lo scandalo, se scandalo c'è, sarebbe una for­tuna - diciamo cosi - insperata?

Il conte                            - (infastidito) Dite pure, ma permettete di chiedervi, signore, di affrettarvi. Questa mattina vado a cavalcare con una signora e sarei desolato di farla aspettare al Pré Catalan.

Il commissario                 - (con un gesto) Sono un uomo semplice; ma senza averlo personalmente frequenta­to sono abbastanza abituato - diciamo cosi - pro­fessionalmente a un certo mondo per sapere   - (sorri­de finemente) che non si fanno aspettare le signore e che certi nomi hanno il diritto di restare senza macchia. Sono qui per fare in qualche modo... esplo­dere il silenzio. È per questa ragione, d'altra parte, che parlo tanto. Sono, come si dice, imbarazzato. Perdonatemi quel che può avere di un po' personale la mia domanda, signor Conte: siete stato l'amante della vostra cuoca?

Il conte                            - (sorride) Ormai era una vecchia.

Il commissario                 - (consultando la sua scheda) Quarantasette anni.

Il conte                            - Ma era stata la più delicata, la più affa­scinante giovane cameriera che la contessa, mia prima moglie, abbia mai snidato dal fondo della sua provin­cia, da dove le faceva venire tutte, in verità, brutte co­me pidocchi. Però non ho mai capito questo errore in una donna che non ne commetteva mai.

Il commissario                 - Devo considerare la vostra rispo­sta come affermativa, signor conte?

Il conte                            - Vi ho già detto che era affascinante, ven­ticinque anni fa.

Il commissario                 - (con delicatezza) Senza che io sia un vero e proprio uomo di mondo, vi ho già detto, signor conte, d'aver acquisito una certa vernice che mi permette di capire a volo. Non insisto. Per quan­to tempo siete stato il suo amante?

Il conte                            - Non credo che questa precisazione vi sia utile, signore...

Il commissario                 - È esatto che un figlio, per cosi dire, naturale, se il termine non vi sembra peggiorati­vo, sarebbe nato da questa unione?

Il conte                            - Tutti i figli sono naturali, signore, e la parola naturale non ha mai disgustato nessuno. Deb­bo comunque aggiungere che non ho saputo dell'esi­stenza di questo giovane che il giorno stesso del dramma.

Il commissario                 - Precisamente, arriviamo al dramma. Dai primi interrogatori fatti da miei giovani col­leghi risulta che, il 27 del mese scorso, verso le diciotto e trenta, entrando in cucina, gli altri vostri do­mestici trovarono la loro collega Ermeline Joseph, di quarantasette anni, facente funzione di cuoca, distesa nella detta cucina in un lago di sangue. Il medico del quartiere, il dottor... illeggibile, constata la perfora­zione della milza e fa trasportare la donna, Ermeline Joseph, all'ospedale dove essa muore poco dopo la sua accettazione. Le testimonianze concordano nell'affer-mare che durante l'ora che ha preceduto la scoperta della ferita da parte dei suoi colleghi, due persone sono state viste nella cucina in procinto di parlare alla detta Ermeline Joseph. Per la precisione: il signor Conte Saverio - Stanislao - Pietro - Giovanni - Timoteo di... (il conte ha un gesto) ... insomma voi, e il giovane seminarista, Tommaso Joseph, figlio naturale della sunnominata. Tuttavia, è da osservare che, secondo la pubblica opinione, la detta Ermeline Joseph aveva un amante, il cocchiere, Leone Lacase. Lo sapevate?

Il conte                            - Sono particolari di cui mi occupavo po­co, signore.

Il commissario                 - (continua a leggere) Uomo bruta­le, alcolizzato, con il quale essa aveva scene frequen­ti che finivano spesso in percosse... (Legge male) ... re­ciproche... (Ripete soddisfatto) Reciproche... L'uomo ha purtroppo, diciamo cosi, perché era il colpevole ideale, potuto fornire un alibi. Da cinque ore egli si trovava al caffè delle Pipe a bere in compagnia del padrone, certo... (Non riesce a decifrare). Andiamo avanti. Ermeline Joseph, interrogata dall'agente Si-mard, durante il suo trasporto all'ospedale, si è rifiu­tata di dire il nome del suo aggressore. È morta sen­za che sia stato possibile interrogarla più a fondo. (Consulta le sue schede) Seguono gli interrogatorii di Lacase Leone, il perfetto bruto che nega tutto, in bloc­co, ma non ci siamo ancora occupati seriamente di lui. Del seminarista Tommaso Joseph che ha ammesso di aver avuto con sua madre una scena violenta, le grida del quale sono state udite dal piccolo garzone di cucina, Alessio, cognome illeggibile, ma il detto Tom­maso Joseph si rifiuta formalmente di confessare d'es­sere stato trascinato a mettere le mani su sua madre, nel corso della loro discussione. Qual'era l'esatta posizione di questo ragazzo in casa vostra, signor conte?

Il conte                            - L'abate che insegnava il latino ai miei figli fu costretto ad assentarsi per due mesi e dietro raccomandazione d'Ermeline, abbiamo assunto questo ragazzo a sostituirlo.

Il commissario                 - Ignoravate che era suo figlio?

Il conte                            - Assolutamente.

Il commissario                 - E vostro?

Il conte                            - A maggior ragione. Credo d'avervi spie­gato che non ne ho appreso l'esistenza che il giorno del dramma.

Il commissario                 - Quando avete lasciato la donna Joseph, era ancora in uno stato normale?

Il conte                            - (dopo una esitazione) No, era già ferita.

Il commissario                 - (si ferma, confuso. Una pausa. Guar­da il conte, stupito) È un particolare estremamente importante, signor conte. E voi non avete dato l'allar­me? Non avete chiamato voi stesso la polizia, il me­dico?

Il conte                            - (con improvvisa durezza) No.

Il commissario                 - (dopo una pausa) Le istruzioni del signor prefetto sono formali e vi ho lasciato capire di non essere uomo da zeli intempestivi. Ma vi rendete conto abbastanza della gravità di questo punto? Che molto fortunatamente non è verbalizzato nel nostro primo interrogatorio... (Verifica sollevato)

Il conte                            - (chiuso) Me ne rendo perfettamente con­to. È esattamente una di quelle cose, signore, che non si può affatto spiegare alla polizia. Ce ne sono molte, anche nella vita d'un uomo onesto.

Il commissario                 - (dopo un silenzio imbarazzato) Ve l'ho già detto, signor conte. La verità, per noi, è una pratica che sta in piedi. E noi abbiamo, grazie a Dio, qualche buona carta in mano. Primo, il cocchie­re alcolizzato che era il suo amante. Ha un alibi. Ma gli alibi dei padroni di bistrot, noi sappiamo cosa val­gono. Dirò di più: noi ne vendiamo. Questo padrone anzi è uno dei nostri indicatori... Poi, un certo Marcel­lo Punais, vostro cameriere, le cui occupazioni tra le cinque e le sette di quel giorno non sono chiare... Individuo certamente losco, frequentatore di ippo­dromi colto in flagranti rapporti con un tenutario di case chiuse dell'Africa settentrionale. Il detto Pu­nais avendo d'altra parte ripetutamente tentato di far ingaggiare la vostra sguattera, la giovane Adele Lepied, in un bordello di Orano, ritenuto tale dalla po­lizia del luogo. Secondo le ultime notizie, la ragazza Lepied sarebbe attualmente pensionante di detto bor­dello.

Il conte                            - (con un gesto) Io so soltanto che ha la­sciato la casa.

Il commissario                 - L'uomo ha dunque raggiunto il suo scopo, ciò che non testimonia in suo favore. (Chie­de, raccogliendo le sue schede e la sua borsa) Mi sem­bra che non abbiate avuto molta fortuna con i vostri domestici, signor conte.

Il conte                            - (sorride) Lo vedete. Sono tutti e due sulla scala per risalire.

Il commissario                 - È sempre più difficile trovare gen­te per bene al giorno d'oggi. Sono un uomo modesto e mia moglie deve accontentarsi d'una modesta don­na di servizio tutto fare, ma ha un principio, le pren­de tutte dall'Alvernia e brutte. (Sono scomparsi per ricomparire nel salone superiore senza aver smesso di parlare)

Il conte                            - Era anche il principio della mia prima moglie, come vi ho già detto. Ma lei faceva venire i suoi pidocchi dal Perche. Ce ne sono ovunque.

Il commissario                 - Abbreviamo e diciamoci ora l'es­senziale sia pure a sottintesi, signor conte. Sarebbe in­concepibile se una polizia ben costituita - in uno Sta­to che si rispetti - andasse, diciamo, a importunare un uomo, altrettanto rispettabile, quando ha tra le mani due teste da forca che hanno già meritato in tutti i modi i loro bravi dieci anni. L'interrogatorio di questi due manigoldi sarà ripreso con metodi, diciamo cosi... moderni... E ho buone speranze che avre­mo, tra qualche giorno, le confessioni di uno dei due, se non di tutti e due.

Il conte                            - (un po' secco, all'improvviso) Ho lo stes­so qualcosa da dirvi, signore.

Il commissario                 - (ambiguo) Signor conte, tra per­sone di mondo, preferirei che non mi diceste troppo. A una pratica che sta in piedi, è necessario tuttavia, in una certa misura, poterci credere noi stessi.

Il conte                            - Beninteso. Io non ho pugnalato, come voi dite, la mia cuoca, anche se si scopre che è stata la mia amante, quasi trent'anni fa. Mi concederete che un gesto simile non avrebbe avuto alcun senso. L'ho trovata ferita. Ha rifiutato che le chiamassi un medico. Non la credevo in pericolo di morte e lei ci teneva a curarsi da sé con uno degli unguenti che fabbricava. Aveva già curato con successo molti dei nostri, qui, che si erano feriti casualmente. D'altra par­te sapevo che non desiderava rivelare il nome del col­pevole, per un concetto dell'onore che può sembrarvi (sorride), dirò... un po' singolare, ma che in alcuni esi­ste. Non ve lo insegno io, c'è gente che non ama la polizia.

Il commissario                 - (subito più delicato) Signor conte, la vostra famiglia ha dato alla Francia un numero suf­ficiente di uomini di stato gloriosi - è infatti una delle ragioni della mia presenza qui con istruzioni pre­cise - perché abbiate potuto imparare, per tradizione, che la polizia può infischiarsi dell'amore della gente onesta (è una consuetudine, diciamo... moderna, di­sprezzarla nelle alte sfere esattamente come nel ceto medio), ma che la gente onesta invece, per quanto spregiudicata, s'accorge sempre, un giorno o l'altro, che lei non può infischiarsene della polizia. È l'inno­cente vendetta dei poliziotti quando le donne di mon­do alla moda, sempre innamorate di mascalzoni, si fanno grattare - come si dice volgarmente - il loro collier di perle. Ci telefonano subito. Allora noi accor­riamo senza rancore e facciamo del nostro meglio.

Il conte                            - (scoppia gentilmente a ridere e batte sulla spalla del commissario) Tutto sommato mi siete molto simpatico, signor commissario. Fate il vostro mestiere come meglio credete. Ma, porgendo al vostro Prefetto tutti i miei ossequi, ditegli, ve ne prego, che lo dispenso da tutte le precauzioni a mio riguardo. Vi autorizzo addirittura a fargli sapere che potrebbe accadermi di trovarle, diciamo... ingiuriose. Pretendo d'essere sospettato con lo stesso diritto di tutti, o po­trei offendermene.

Il commissario                 - Bene, signor conte. Il signor Pre­fetto partiva da un buon sentimento e da un'alta con­cezione della stabilità dello Stato che... Ma abbrevia­mo! M'autorizzate nei prossimi giorni a interrogare sul posto - diciamo familiarmente - le varie persone di questa casa? L'interrogatorio, su convocazione alla Prefettura, non dà mai gli stessi risultati.

Il conte                            - Ve ne esorto, me compreso, se non ci sia­mo già detti tutto. (Si è alzato) Ora, mi scuso...

Il commissario                 - (molto uomo di mondo) So bene che non si può far aspettare le signore, signor conte!

Il conte                            - (sorride) Ecco finalmente una parola se­ria! Non vi riaccompagno, signore. Seguendo le nostre convenzioni, voi siete in casa vostra. (Saluta ed esce)

Il commissario                 - (rimasto solo, preoccupato) Ecco un affare, diciamo... spinoso, anche se ha l'aria distin­ta. Si tratta di vederci chiaro, ma di non vederci trop­po chiaro. (Hugueline attraversa il salone con un vas­soio. Il commissario le grida) Signorina.

Hugueline                        - (voltandosi) Oh, signore! Il signore mi ha fatto paura.

Il commissario                 - (s'avvicina arricciandosi i baffi) Quali sono le vostre occupazioni abituali tra le cinque e le sette, mia bella bambina?

Hugueline                        - (falsamente sbigottita) Ma signore!... (Poi chiede, sorniona) Il signore è un invitato del si­gnor barone Jules?

Il commissario                 - In un certo senso, mia bella bam­bina.

Hugueline                        - (facendo la civetta, l'occhio assassino) Allora... Se sono assegnata al servizio della camera del signore, il signore non ha che da suonare... (Esce, sculettando)

Il commissario                 - (che l'ha vista uscire prodigiosamen­te interessato) Ecco un interrogatorio da cui deve saltar fuori qualcosa... Per Dio... Diciamo... Credo pro­prio che non dirò niente. (Esce dietro a lei, trionfante. Riparerà in basso, con gli altri, dopo poco, e cosi Hugueline senza che sembrino riconoscersi. L'autore è ve­nuto avanti verso il pubblico; l'illuminazione cambia e s'accentra su di lui).

L'autore                           - Ecco. Fin qui poteva andare. Era una scena espositiva dove si capivano molte cose, l'azione sembrava incominciata... Ma provatevi a costruire la commedia con questo inizio! La cuoca era già morta quando si alza il sipario. Sarebbe stato necessario fa­re un salto indietro... che non è mai una cosa eccel­lente come uno ha la debolezza d'immaginarsela quan­do crede di scoprire questo vecchio e sfruttato trucco. Ne abbiamo potuti vedere di salti indietro, in trenta anni! Una letteratura di gamberi. Ne ho abusato anch'io, come gli altri. Ma questa è un'altra storia. Al­lora, cosa è che avreste fatto al posto mio? Niente salti indietro? Ma la cuoca, uno dei miei personaggi principali, è morta o non è morta? (Dal fondo è ap­parsa Maria Giovanna, muta, come assente, pestando una droga misteriosa in un mortaio di legno) Conti­nuare la commedia senza vederla, solo per l'inchiesta? Possibile. E anche consigliabile. Ma mi spezzava il cuo­re. Anzitutto io amavo questa donna. Nei miei appun­ti, la chiamavo "Nostra madre terra". Vedrete perché. Avevo anche annotato su di lei "Le mani di Maria Gio­vanna". Vi ricordate i primi versi del poema di Rimbaud...

Maria Giovanna ha le mani forti

scure mani che l'estate ha seccato...

Forse hanno preso le creme brune

sulle paludi della voluttà.

Si sono immerse nelle lune

presso stagni di serenità?

Mani che cacciano ditteri

mani che decantano veleni...

Mani che non hanno lavato i panni

di grossi bambini senz'occhi...

Non sono mani di cugina

né d'operaie dalle grosse fronti...

Mani che piegano schiene,

mani che non fanno mai male

più fatali di macchine

più forti della forza di un cavallo.

(Sospira) Come sono belli! A furia di rileggere i miei appunti, avevo finito per immaginarmi che fossero miei    - (Verifica i suoi appunti e sospira comicamente) Ma no. Sono di Rimbaud! (Conclude) Maria Giovan­na nel mio spirito... (Esclama all'improvviso) Toh, è un'idea! La chiameremo Maria Giovanna, è meglio di Ermeline, non vi pare? (La guarda e mormora intene­rito) Maria Giovanna... È per cercare di farla rivivere, per estrarla dal mondo vago delle idee possibili e dar­le, col mio debole potere, due soldi di realtà, che ave­vo voluto scrivere questa commedia... Dunque non po­teva esserci ragione d'ucciderla prima che il sipario si alzasse... (Mentre parlava i personaggi sono tutti entrati in silenzio. Lo circondano, muti, disseminati su tutta la scena, come inquieti di quel che lui deciderà. C'è un momento d'angoscia in cui lui si trova come accerchiato, poi esclama) Soltanto che c'era quel com­missario impertinente, e già imbarazzante, con quel suo tono sarcastico. Comprometteva tutto, l'animale! (Al commissario che l'ascolta, inquieto, vicino a lui) Dovete convenirne, vecchio mio.

Commissario                   - Può darsi. Ma comunque non sono stato io a cercarvi.

L'autore                           - (sinceramente accorato) Lo so bene... So­no solo io il responsabile, come sempre... Avrei volu­to scrivere una storia molto semplice e molto pura, ma non ci riesco mai. Eppure, il rigore non mi man­ca, tutti i miei amici ve lo diranno... Ma devo farne un'altra cosa... La letteratura, non mi è mai sembrata seria. Devo dirvi che in una prima stesura avevo co­minciato la commedia con Maria Giovanna, sola nella cucina all'alba, che riceveva suo figlio... Andava bene anche cosi. Era un inizio più realistico e più poetico nello stesso tempo. Meno brillante, ma meno artifi­ciale dell'inizio con il commissario. (Improvvisamente prende una decisione). Via! Recitiamo anche l'altro, l'altro inizio. E poi, dopo, si vedrà. Sgombrate il pal­coscenico. Si recita l'altro inizio. (/ personaggi che erano tornati timidamente in scena durante il suo mo­nologo cominciano a uscire, come dispiaciuti. L'autore grida loro) Ritornerete! Ritornerete! Tutti avete un ruolo, lo sapete bene! (Al pubblico) Questi attori, quando non tocca a loro di parlare, sono convinti che la commedia non c'è più... Ecco. Fate uno sforzo! Cer­cate di ricreare l'atmosfera. Eccovi nella cucina fresca e buia, la mattina di buon'ora... In quell'odore indefini­bile e disperante delle cucine fredde... Nella grotta oscura, la vecchia attizza i suoi fornelli misteriosamen­te, in piedi per la prima... Non è soltanto cuoca, lei la sa cosi lunga e da tanto tempo, sugli uomini e sulle cose, è un po' strega, anche... Guardatela, la vecchia madre natura, la vecchia madre terra che rimescola lentamente, non si sa che cosa, l'occhio attento. Cono­sce le formule. Da bambina, ha duramente imparato da un'altra vecchia, morta da molto tempo, il segreto di salse meravigliose e mortali. Il segreto delle salse e anche il segreto dei filtri. È quasi la stessa cosa... Filtri per farsi amare da un uomo e filtri per far passare il frutto dell'amore di quest'uomo, dopo... Non è una cuoca come le altre... Guardatela bene. È la regina della grotta. Ma regina sul serio. Possiede una grande corona dorata che conserva sotto un mucchio di stracci in fondo alla credenza. Ve la mostrerà. La mostra a tutti quando ha bevuto un bicchiere di più. Ed è stata veramente regina, a vent'anni. Regina di bellezza. Le più belle natiche di Nizza! Glielo dissero dandole il premio. Tutto questo è passato, le natiche specialmente, ma gliene è rimasta un'antica fierezza. È la nobiltà della grotta. C'è una nobiltà anche qui, più rara di quella in alto e che la equivale. Quelli ai quali la gente in alto non fa paura e che sono prin­cipi a loro volta. Che possono trattare da pari a pari, senza complessi e senza odio... (Confida al pubblico) Però è più comodo spiegarvi tutto questo tranquilla­mente, non vi pare? Ah, i romanzieri hanno la parte migliore... Loro possono parlare, al posto dei loro per­sonaggi... (Riprende) Dunque, in questo inizio, il picco­lo curato sbarca a Parigi chiamato da sua madre... (Grida all'attore che ha il ruolo del seminarista) Co­raggio, piccolo vecchio mio... (Al pubblico) Sua madre l'ha chiamato bruscamente dal seminario. Vedrete perché. Da principio non si vede che l'orlo della sua sottana attraverso lo spiraglio sulla strada grigia, poi lui appare sulla soglia della porta di sotto; le sue grandi mani di contadino che penzolano in fondo alle maniche troppo corte... È il bastardo, lui. Non sa an­cora niente, ma sente oscuramente di non appartenere né al disopra né al disotto. È il suo dramma. Per questa ragione si è rifugiato in Dio, si è nascosto sotto quell'abito. Sentiva che non poteva essere soltanto un contadino. Ma anche Dio è gelido e muto. È un ragaz­zo che ha sempre freddo, povero piccolo, e non può parlare con nessuno.

Maria Giovanna              - (avverte la presenza del seminarista in cima alla scalinata, si gira dal suo fornello e dice semplicemente) Entra... non ti mangia nessuno. Non mangiano i preti, qui. (Lui la guarda muto dall'alto dei gradini. Maria Giovanna continua) Al tempo della vecchia si doveva tornare col bollettino della Mes­sa firmato alla domenica o ti metteva alla porta! Vo­leva che le sue casseruole fossero rigovernate da buoni cattolici. (Ancora burbera indaffarata dietro qualche faccenda) Allora entra, c'è corrente. (Il seminarista è disceso. Posa ai suoi piedi la valigetta)

Il seminarista                   - Buongiorno, mamma.

Maria Giovanna              - Buongiorno, curato. Sei arrivato col treno delle sei? Hai potuto dormire?

Il seminarista                   - No, C'era molta gente. Sono stato in piedi nel corridoio e ho cambiato alle quattro, a Vienzon. Là avevo da aspettare quasi un'ora, avrei po­tuto dormire nella sala d'aspetto ma avevo paura di perdere la coincidenza.

Maria Giovanna              - (sarcastica) Hai sempre paura di tutto. Siediti. Ti dò il caffè. Il mio. Quello che non berranno mai loro, lassù. (Lo serve dopo aver pulito un angolo del tavolo, brontolona ed efficiente) Vedi però c'è una giustizia sulla terra, mica bisogna esser morti, come t'insegnano al tuo seminario. Con tutti i loro milioni, tra questa casa dove io mi do da fa­re da trent'anni e i loro alberghi di prima categoria dove ce ne sono altri del mio genere che li tengono in piedi, avranno vissuto tutta la loro vita senza sape­re che cosa sia il caffè fresco... Ci sono di questi vuoti nella vita dei ricchi... Vuoi burro? È del mio. Un pa­nello fresco. Loro devono finire il vecchio.

Il seminarista                   - (a disagio) Credo che non avrei mai dovuto accettare di venire.

Maria Giovanna              - Saresti stato un bello stupido. Avevi vacanza al seminario prima di partire per il reg­gimento e l'occasione di guadagnare quattro soldi. Sono sempre vaglia che io non ti manderei.

Il seminarista                   - Non vi ho mai chiesto denaro.

Maria Giovanna              - Per chi mi prendi? Se mio figlio ha voglia di bruciare una sigaretta nel cesso o di pa­garsi un extra, ci mancherebbe che non potesse farlo. Chi è che vi fa da mangiare laggiù? Un curato?

Il seminarista                   - No. Una santa donna.

Maria Giovanna              - (brontolona, servendolo) Mi par di vederla. Dev'essere buono! Prendi la marmellata d'arancio. Si mangia anche questa, la mattina, nella casa dei ricchi. Hanno bisogno di sostenersi. Si stan­cano di non fare niente, stanno sempre a correre da qualche parte (Apre un barattolo) No. Questa è troppo cotta. La tengo per loro. Ti farò ingrassare io qui, grosso asparago.

Il seminarista                   - Che cosa gli avete detto?

Maria Giovanna              - (lavorando mentre parla. Non si fer­ma mai). Mica che eri mio figlio, di sicuro... Non sono stupida. Il figlio della cuoca, avrebbero subito pensato che non poteva vendergli del buon latino. Quando l'abate Duthail disse che doveva andare a cu­rare suo fratello al paese, hanno cominciato a perdere la testa. Bisognava scrivere immediatamente al Vesco­vo che gli raccomandasse qualcuno di speciale. I cari piccoli, se in questi due mesi d'assenza non ingurgita­vano un latino di prima qualità... Un curato sconosciu­to che non sapesse con chi aveva a che fare e che gli insegnasse magari il latinorum. Che cosa gli sarebbe rimasto dopo, per tutta la vita, ai poveri piccoli... Era necessario prendere enormi precauzioni. Ognuno ha detto la sua... Ha promesso di scrivere a tutti gli amici. Il barone Jules aveva incontrato il nunzio a un tè, co­me vedi capitava proprio a proposito. Dopo quindici giorni ancora discutevano e non avevano deciso nien­te. Allora io una mattina, portando su i conti, ho det­to: "Se la signora contessa cerca ancora, c'è il figlio d'una grossa ereditiera del mio paese. L'ho conosciuto da piccolo, ora fa il terz'anno di seminario." Li ho li­berati da un gran peso. Non dovevano più cercare da soli, insomma! (Torna al suo fornello) Solo che è come per il caffè. Non sapranno mai che stanno per bere il mio vecchio caffè riscaldato.

Il seminarista                   - (si è alzato) È indegno! Non vo­glio restare! È una menzogna.

Maria Giovanna              - (lo scruta, gli occhi duri) Come credi che si viva, curato? Come credi che la si strappi agli altri, la propria vita? Nel tuo seminario - tutti nuovi come siete - vi dite sempre tutto? Dici sempre tutto tu? Al tuo caro compagno di dormitorio di cui mi hai parlato - che è cosi bello e ricco e che invece ha scelto Dio e la povertà - gli hai detto di me? (Il seminarista non risponde) Rispondi. Voi due sottane nere, siete la stessa cosa?

Il seminarista                   - (a bassa voce) Si.

Maria Giovanna              - I vostri due letti sono uguali? Il catino d'acqua fredda, la mattina, ce n'è uno solo per tutti e due?

Il seminarista                   - Si.

Maria Giovanna              - Allora, non fare tante storie. Ar­raffa quel che puoi arraffare qui, prima di partire sol­dato, ecco tutto. E non avere paura. Se per caso c'in­contriamo la mattina, quando salgo di sopra a portare i miei conti, ti chiamerò signor curato. (Entra Adele, la sguattera)

Maria Giovanna              - (le grida) Allora? È a quest'ora che scendi? Ai tempi della vecchia alle sei stavamo già lucidando le scarpe e alle sette suonava per racco­glierle un pezzo di carta se le cadeva fuori dal cestino sbrigando la sua corrispondenza, dopo la messa. Era una donna che sapeva insegnarti la vita. Quando è morta abbiamo rotto il collo a tre bottiglie di vecchio bordò in cucina per festeggiare l'avvenimento, ma mi levo lo stesso tanto di cappello. Con quella donna si sapeva dove si andava e si scendeva puntuali.

Adele                              - (mormora) Mi sentivo male.

Maria Giovanna              - Ai tempi della vecchia i domestici non si ammalavano. Lo sapevano e sapendolo, questo non li faceva sentir peggio. Adesso le cameriere han­no le emicranie come le signore, vogliono assolutamen­te le pillole e per una scorreggia di traverso subito il medico. Levati le scarpe e lava la cucina. Metterà a posto anche chi ti fa sentire male. È cosi che ci siamo sempre curate noialtre.

Adele                              - Io non ho chiesto niente.

Maria Giovanna              - (le mette una tazza sul tavolo) Bevi il tuo caffè. Ne hai diritto.

Adele                              - (con un singhiozzo di disgusto) Non potrei.

Maria Giovanna              - La signorina ha la nausea! La signorina vuole forse che si chiami il medico? Da quando c'è la nuova padrona ne è previsto uno anche per noi. Non quello di sopra che è troppo caro. Un altro, che è un po' veterinario. Vuoi che mandiamo il ragazzo a chiamarlo?

Adele                              - (con un grido di terrore, le mani subito sul ventre) No. Non voglio il medico.

Maria Giovanna              - (l'occhio penetrante) Tu, piccola mia... (L'attira a sé, la scruta, gli occhi duri) Va bene. Ne riparleremo quando saremo sole. Mettiti alla tua cucina. E vomita se ne hai voglia. Di quello che hai tu, le ragazze non muoiono. (Suona un campanello. Maria Giovanna va al quadro) E chi è? Sono caduti dal letto stamattina? Ah! È la Sdolcinata! Vorrà sa­pere se sei arrivato. Già quattro giorni senza latino, i tesorini. Bisogna capire, questo l'angoscia, povera don­na. Vieni. Dirai che ti ho servito il caffè nel salottino al pianterreno. D'ora in poi, lo prenderai là, signor curato. È riscaldato come gli altri. Il vero caffè di mamma Joseph al primo piano non sale mai. (Si pet­tina burberamente) Mi metto la cuffia per salire, serve a tranquillizzarli che non cadano mai capelli nella loro minestra.

Il seminarista                   - (seguendola) Come sono i bam­bini?

Maria Giovanna              - (uscendo) Coglioni. Come tutti i bambini. (Sono usciti. Il seminarista e Adele hanno appena osato guardarsi. Appena è fuori, Adele corre alla porta e la socchiude per guardarlo di lontano. Poi si mette scalza e a piedi nudi comincia a lavare la cucina a grandi secchiate d'acqua. E entrato Mar­cello, la guarda un istante mentre lava, il sedere all'aria)

Marcello                          - (dolcemente) Oh! La bella bambina! Io non vi capisco, Adele... Fare quel lavoro che è fa­ticoso e sudicio, quando potreste servire delle belle consumazioncine, in un grazioso bar pieno di luce a Orano. È vero, è da stupide.

Adele                              - (sordamente, lavando sempre a quattro zam­pe) Sono stupida.

Marcello                          - Di solito non ce ne vantiamo. E poi credete che sia gentile per quelli che si preoccupano di voi? Voi mi piacete. Ve l'ho detto. Io a voi non piaccio, bene. Non costringo nessuno. Si resta amici. Ma mi sono dato da fare per parlare di voi a un mio buon amico che è in relazione con il padrone di un grazioso bar laggiù e che appunto cercava qualcuno... Si beve un bicchiere insieme una domenica, per far conoscenza, è gentile, educato; vi dice che crede che la faccenda potrebbe andare, che scriverà ad un suo amico. E poi adesso che ha scritto, ecco che dite di no! Ho l'aria di un minchione io? Bisogna mettersi nei panni degli altri.

Adele                              - Rimborserò il francobollo. Non voglio an­dare in un paese dove non conosco nessuno.

Marcello                          - Si fa cosi presto a fare delle conoscen­ze! E poi ci sono altre ragazze che servono laggiù. Non sareste affatto sola.

Adele                              - Non mi piacciono le facce nuove.

Marcello                          - Cose che si dicono. Forse le vecchie vi sembrano allegre? Sempre papà Romain, mamma Jo­seph, Leone, Hugueline e io. Per non parlare delle scimmie! Puah! Ah, in quanto a me, m'offrissero sol­tanto un'occasione di non vedermi più! (Si guarda in uno specchietto da tasca facendo smorfie) Che faccia! Mi sono proprio distrutto questa notte. Il vecchio era al circolo. La Sdolcinata mi ha suonato due volte, con dei pretesti            - come si dice nei giornali.

Adele                              - (gli grida) Non voglio sapere le vostre storie! E poi non sono neanche vere. Se fossero vere non le raccontereste.

Marcello                          - Perché? Andare a letto col proprio ca­meriere può essere forse disonorante, ma andare a letto con la propria padrona, non lo è. (Le mostra una moneta d'oro) Se non fosse vero, da chi verrebbe que­sto? Ti devi sfiancare un mese intero per guadagnarne uno cosi, piccola mia! Al caffeuccio d'Orano di cui ti parlo, solo con le mance te ne guadagneresti uno ogni otto giorni. (Alza un dito) Se non di più quando una ci sa fare, m'hanno detto. (Una pausa. Poi soggiunge con noncuranza) Ma signora, bisogna espatriare! E ci sono persone che la patria ce l'hanno incollata alle suole delle scarpe. Nota che non li biasimo affatto. Sono per il generale, io... Anch'io sono patriota... (Esce noncurante, canticchiando "Tornando dalla rivista". Si ferma sulla porta) Ne riparleremo... Il mio amico ha detto che il suo camerata aspetterà la nostra risposta prima di ingaggiare un'altra. Ci tiene, a voi, quest'uo­mo, gliene ho talmente parlato! Una giovinetta labo­riosa, non brutta, onesta... Non bisogna poi credere che ce ne siano tante! Voi - dal punto di vista fran­cese laggiù- siete un valore-oro, come dice il signor Poincaré. (Soggiunge dolcemente, misterioso...) Ma si­gnora, bisogna espatriare! Badate che quando niente vi lega, non si sta peggio. Si dimentica quel che si è. E qualche volta è anche bene. (È uscito per la scala in fondo. Lei continua a lavare per terra, fieramente. Entra il piccolo Alessio cominciando a sbucciare i suoi legumi)

Adele                              - (al piccolo) Non comincerai a sporcarmi la cucina, tu!

Il piccolo                         - Ma io devo sbucciare!

Adele                              - Sbuccia, ma non buttare le bucce per terra o ti faccio assaggiare uno schiaffo sul faccione!

Il piccolo                         - Non pensate altro che a riempirmi di botte.

Adele                              - Sei il più piccolo. Anch'io ho cominciato cosi. A servizio, a dodici anni ho avuto più schiaffi che pezzi di carne.

Il piccolo                         - Non è vero. Voi siete buona. Quando sono stato malato mi avete curato.

Adele                              - (dura) Ora non sei più malato. E io non guadagno abbastanza per essere buona. Fa' il tuo la­voro e non sporcarmi la cucina, se ci tieni alla pelle del tuo sedere. Quando sarai grande picchierai tu uno più piccolo. Questa è la giustizia. E non saremo né io né te a cambiarla. (// piccolo sbuccia in silenzio ac­coccolato per terra. Adele spazza la cucina)

L'autore                           - (viene avanti) Cosi il lavoro non si pre­sentava neanche male... già si delineavano la vecchia, il piccolo curato e Adele. Senza contare quel bel ti-pino di Marcello... Ma lui è un personaggio facile... Le -puttane e i magnaccia oggi sono diventati i nostri pa­stori e le nostre pastorelle. Si seguono tranquillamente le convenzioni... Ma Adele e il piccolo curato rischiano di essere più difficili. Avete notato in che modo si so­no guardati, quasi vergognosi, senza osare fissarsi ve­ramente durante quella scena in cui non avevano nien­te da dirsi. Già oscuramente presentivano che tra loro sarebbe accaduto qualcosa. (La guarda lavorare con tenerezza; sussurra) Ah, Adele! È la mia tristezza e il mio rimorso. Tutto quello che sta per accaderle lo porto sulle spalle come una vergogna. Forse non avrei dovuto parlarle, forse non avrei dovuto farle capire certe cose; sarebbe stato più semplice per lei... Guardatela, a piedi nudi, grossi piedi di contadina, che lava furiosamente la sua cucina con dentro il ven­tre quella creatura, Dio sa di chi, e di cui lei si ver­gogna. Ha cominciato cosi a dodici anni. Subito dopo le botte del padre, le botte delle sue padrone, piccole borghesi da quattro soldi, le più cattive di tutti, quelle che ne hanno una sola da martirizzare. Si sono inca­ricate loro d'insegnarle che doveva pagarla in natura la sua minestra. Il salario, non è niente, è in più. L'uo­mo deve far pagare l'uomo in natura. È la legge, sotto tutti i regimi. E non cambierà mai, dura dalla notte dei tempi... È per lei, è per renderle un omaggio che non avrebbe mai conosciuto nella sua miseria, che avrei voluto scrivere questa commedia e che fosse una bella commedia... E poi non c'era soltanto lei. Tutti i personaggi erano importanti in questa storia. è per questa ragione che non riuscivo a scriverla. Ognuno di loro avrebbe meritato l'argomento di una sola commedia, con tutti i suoi sviluppi... (Il commis­sario che è entrato da qualche minuto alza un dito come un bambino a scuola quando vuol fare una do­manda. L'autore si accorge dei suoi maneggi) E il commissario che s'impazientisce, che vorrebbe parlare, continuare la sua inchiesta...

Il commissario                 - Che volete? Prima di tutto, è umano. E poi se volete permettermi d'avere un'idea...

L'autore                           - (improvvisamente un po' scoraggiato dall'andamento che prendono le cose) E va bene. Al punto in cui siamo...

Il commissario                 - Parlo del lato poliziesco: mi dire­te che sono un orefice, un orfèvre, come si dice in francese. (Scoppia a ridere) Come Quai des Orfèvres. Buona questa!

L'autore                           - (freddo) No. È con battute come queste che mi sono perduto.

Il commissario                 - (seccato) Lasciamo perdere. È un fatto, il lato poliziesco piace sempre. Mi chiedo per quale ragione voi deliberatamente vi rinunciate. Per­ché il pubblico non si annoi... Badate bene che quel che voi dite tutto il tempo, di generico, su quel che avete provato o quel che non avete provato, ha sicura­mente un certo valore; è... diciamo cosi... in un certo senso, profondo e poetico, ma quel che vuole il pub­blico è avere qualche cosa da chiedersi in ogni istante, altrimenti si annoia, è un ficcanaso il pubblico. Quel che lo eccita è farsi delle domande. La suspense. (Pro­nuncia malissimo)

L'autore                           - (con superiorità) Se sapeste come posso fregarmene, io, povero amico mio, della suspense.

Il commissario                 - (sentenzioso) Avete torto. Ce l'ha anche l'Edipo re di Eschilo; voi non potete negarlo, come collega!

L'autore                           - (molto altezzosamente) "L'Edipo re è di Sofocle. Ma dove l'avete letto voi?

Il commissario                 - (modesto) In treno. Qualcuno che l'aveva dimenticato su un sedile. (Aggiunge) Una ra­gazzina ben equipaggiata, in verità. C'è da chiedersi perché leggeva quella roba. Certamente una studentes­sa... Ma insomma, era per spiegarvi che è per questo        - per la suspense - che le commedie poliziesche so­no sempre infallibili, anche se scritte in cecoslovacco e pensate in basso bretone. Il pubblico finché non sa chi è il colpevole     - e glielo si dice soltanto alla fine, non si è cosi sciocchi - sta li con la lingua fuori. Lo si tiene in pugno, il pubblico! (Fa un gesto) Cosi! Nella vostra storia, c'è o non c'è un omicidio, per­bacco! Bisogna approfittarne. Lo conosco io il pubbli­co, in questo momento si sta chiedendo, diciamo cosi, tra sé e sé: "Mica male, mica male; ma insomma chi ha ammazzato la cuoca?"

L'autore                           - (che si è seduto in un angolo, annoiato) Boh! Non mi interessa gran che, vecchio mio. Sono sfumature.

Il commissario                 - Siete divertente! Un omicidio non è mai una sfumatura. Soprattutto per la vittima. E poi, le persone che avete fatto venir qui a passare la serata e che hanno pagato il biglietto, se è questo che gli interessa? Anzi, a proposito, detto tra noi, chi è che l'ha ammazzata quella donna?

L'autore                           - (ha deciso di disinteressarsi di tutto e ac­cende una sigaretta, sprezzante) E va bene! Suvvia, vecchio mio. Forza dunque, se è quello che vi solle­tica._ Recitatele le altre vostre scene. Fate la vostra inchiesta. Interrogate. Magari finirete per scoprirlo il colpevole e me lo direte voi.

Il commissario                 - D'accordo! Passo subito all'inter­rogatorio del ragazzo.

L'autore                           - (molto Ponzio Pilato) Se volete. Inter­rogate il ragazzo. È tempo perso, ma me ne lavo le mani. Vi dico subito che non è questa la vera comme­dia... (Al pubblico) Anche il ragazzo era simpatico. Un altro personaggio di cui sarebbe valsa la pena d'oc­cuparsi un po' di più. Vedrete a che cosa serve alla fine. Lui è il perdono della grotta. Colui che la fa risplendere, come l'inferno nel racconto indiano, quan­do il giovane principe, ricco e bello, che lo esplora, decide di prendere il posto di uno dei dannati... Si, l'avreste il vostro barlume di speranza, alla fine, ras­sicuratevi. Per il suo coraggio e il suo candore il ra­gazzo, che è il più umile e il più disarmato di tutti, giungerà a sopprimere la grotta... (Grida a Adele che continua a lavare) Volete avere la bontà di lasciarci il palcoscenico un momento, piccola mia. Il signore deve recitare la scena col ragazzo. Voi, voi siete già partita per Orano quando la scena ha luogo. Vi richiamerò. (Adele strizza con calma il suo straccio, mette da una parte secchio e scopa, raccoglie le sue scarpe ed esce, sottomessa. L'autore guardandola uscire, sussurra, in­tenerito) Non dice mai di no, vedete. Non ha mai im­parato a dire di no, poverina. Obbedisce, ecco tutto. E obbedirà fino alla fine. (Al commissario) Forza, vec­chio mio, ma concludete alla svelta in modo da arriva­re all'essenziale. (Il commissario finge di entrare in cu­cina dove l'illuminazione converge sul ragazzo che continua a sbucciare patate in un angolo)

Il commissario                 - (gioviale) Allora, che sia il lunedì o il martedì, la mattina o la sera, tu insomma continui a sbucciare sempre i tuoi legumi. Possono ammaz­zare tutti nella casa che tu te ne infischi! Tu sbucci.

Il ragazzo                        - (senz'ombra di amarezza) Da quando mi trovo qui, non ho fatto altro. Quanti ce ne vogliono per una grande casa! Sei maggiordomi, sette dome­stici, il curato, i cani e gli invitati. Mi dicono sempre: "Allora, finisci alla svelta, bugiardone?" Non sono un bugiardo. Ma una patata, se volete fare le bucce fini, prende tempo. E a me non piace sabotare il lavoro.

Il commissario                 - Be' sai, una volta puree, ragazzo mio, le patate...

Il ragazzo                        - (dolcemente) Quel che ne fanno dopo a me non riguarda. Io sbuccio come si deve sbucciare, ecco tutto. Non posso vedere un occhio in una patata ; mi fa star male.

Il commissario                 - Vedo. Lo fai da artista. Io, al reg­gimento, ci avevo preso la mano. Ti sbrigavo il mio mucchio in dieci minuti. (Tira fuori di tasca un col­tello e s'accoccola vicino al ragazzo) Via, passamene una. Ti dò una mano. Ho tempo libero stamattina.

Il ragazzo                        - (mentre sbucciano tutti e due) Che cosa fate qui voi?

Il commissario                 - Lo vedi, passeggio, chiacchiero. Indago.

Il ragazzo                        - È il vostro mestiere?

Il commissario                 - Si.

Il ragazzo                        - È un bel mestiere. Poco faticoso.

Il commissario                 - Non crederlo. Il cervello lavora. E il lavoro di cervello è il più duro.

Il ragazzo                        - Si dice! Ma il cervello non ha mai su­dato. (Esclama) Ehi, me le rovinate! Guardate un po' cosa resta della vostra patata!

Il commissario                 - Al reggimento, era il modello. Grosse o piccole, le facevano cosi.

Il ragazzo                        - (severo) Qui non siamo al reggimento. Se non siete buono di lavorare come si deve, lasciate fare a me.

Il commissario                 - D'accordo, capo. Quella là te la sbuccerò fine come carta di sigaretta. (Sbuccia con applicazione, poi domanda) Dimmi un po', l'hai cono­sciuta bene tu Adele quando stava qui?

Il ragazzo                        - Altro che.

Il commissario                 - Com'era questa ragazza?

Il ragazzo                        - Bionda, sul castano.

Il commissario                 - No. Intendo dire moralmente. Bra­va ragazza?

Il ragazzo                        - Si.

Il commissario                 - E faceva la civetta qua e là con gli altri? (Il piccolo lo guarda) Io, dico cosi, lo sai... Non so niente.

Il ragazzo                        - Se non lo sapete, allora non lo dite. O se è per dire male degli altri, lasciate stare le mie patate.

Il commissario                 - Va bene. Non t'arrabbiare. Non dici mai male degli altri, tu?

Il ragazzo                        - (chiuso) No.

Il commissario                 - Però da quanto ho capito non te li risparmiavano i cazzotti gli altri. La vecchia, quella che è morta, era buona con te?

Il ragazzo                        - Si.

Il commissario                 - È strano. Mi pareva d'aver sentito dire che tu la chiamavi la vecchia vacca. È vero che la chiamavi cosi?

IL ragazzo                       - Adesso è morta. E io non dico mai niente sui morti.

Il commissario                 - Be' sai, i morti sono i vivi di una volta. Di un mascalzone morto non se ne fa un santo. E Leone il cocchiere? Non mi dirai che quello là era buono? (Gli mostra la sua patata) Come la trovate questa qui, capo?

Il ragazzo                        - (esamina con gravità la patata) Un po' meglio. Ma voi non avete le mani pulite. E la pa­tata non sgarra. Se non ci si lava le mani prima, di­venta tutta grigia nello sbucciarla, come la vostra.

Il commissario                 - (imbarazzato) Guarda che le pa­tate si lavano dopo.

Il ragazzo                        - Tanto vale lavarsi le mani prima. È un ragionamento da ipocrita.

Il commissario                 - Va bene. Vado a lavarmi le mani, capo. (Va al lavabo a lavarsi le mani e chiede con noncuranza) La vecchia e Leone, li avevi visti dar­sele tu?

Il ragazzo                        - (in guardia) Qualche volta.

Il commissario                 - Non si amavano eh?

Il ragazzo                        - Non è perché ce le diamo che non ci si ama.

Il commissario                 - (che ritorna, asciugandosi le mani nel suo fazzoletto) È vero, in fondo. La sai più lunga di quanto sembri. E sono sicuro che se tu vo­lessi parlare... Credi che fosse capace d'un brutto col­po Leone? Non è quel che tu mi dirai che lo danneg­gerà, te lo assicuro. Prima di tutto ha un alibi. Lo sai che cosa è un alibi? Solo che a noi piace molto sapere le impressioni. È per questo che chiacchieria­mo un po' con tutti... Ma non crederai certo che noi arrestiamo la gente senza prove? Il suo coltello, lo tirava fuori qualche volta? Si divertiva a far paura agli altri, mi hanno detto. Forse sapeva solo lanciarlo, il suo coltello, quel grosso imbecille? Toh, guarda la patata, quella grossa a destra del tuo mucchio. (Lan­cia il suo coltello) Cosi!

Il ragazzo                        - (con improvvisa ammirazione) Oh! Dite, ma dove avete imparato?

Il commissario                 - (falsamente modesto) Nella po­lizia sappiamo fare un po' di tutto.

Il ragazzo                        - Allora perché arrestate gli altri? (È andato a riprendere il coltello) Prima di tutto la vo­stra lama è più lunga della mano. È proibito. E se vi volessi denunciare io, che ne direste? (Gli restituisce il coltello) Via, per questa volta passi. Cercate di farmene una bella dozzina e fini fini, intanto che porto su dalla cantina i sedani e le carote. Vediamo di che cosa siete capace, col vostro coltello illegale. (Esce, lasciando il commissario un po' confuso e che si ri­mette a sbucciare malinconicamente le sue patate. Entra improvvisamente Hugueline portando un vas­soio dal piano superiore)

Hugueline                        - Oh, scusate, signore! Non pensavo che il signore fosse qui, in cucina.

Il commissario                 - (che si è alzato, confuso) Neanch'io. Insomma, volevo dire, passavo di qui per caso. Ho visto queste patate. Adoro pelare patate. Diciamo cosi, un capriccio. Vi giuro, non ho potuto trattenermi. Che sciocco eh? (Ride scioccamente)

Hugueline                        - (minacciosa) Anche ieri non avete po­tuto trattenervi. Sapete che è molto maleducato il vo­stro modo di fare?

Il commissario                 - Ma andiamo! Avevo - diciamo cosi professionalmente - qualche domanda da porvi.

Hugueline                        - (provocante) Si... si. Si comincia col fare delle domande e dopo si mettono le mani un po' dove capita. Sapete che non mi piace affatto?

Il commissario                 - (che le si avvicina) Non riesco a crederlo, mia bella bambina. Attraverso la mondana noi facciamo l'esperienza delle donne. Il barone Jules, si frena lui? A quanto ho capito.

Hugueline                        - (incalzata da vicino) È il mio padrone, lui, non è la stessa cosa.

Il commissario                 - Ditemi, è un po'... diciamo cosi... feudale il vostro ragionamento. Allora, il diritto di "assaggio" esiste ancora nelle grandi case?

Hugueline                        - (ansimante) E poi lui è molto ge­neroso.

Il commissario                 - (un po' smontato) Si. Capisco. Questo è un ragionamento più moderno. Sapete, bella bambina, io faccio il mio mestiere in questo momento. E gli stipendi sono estremamente bassi alla Prefettura. Non dovete montarvi la testa con me... E poi non di­menticate che se volessi essere, diciamo cosi, punti­glioso, potrei dar fastidio a molti, qui: un bell'interrogatorietto alla maniera di Quai des Orfèvres con un collega un po' coscienzioso, non è mai stato molto al­legro. Mentre una chiacchierata amichevole...

Hugueline                        - (inquieta) Ehi dite! Non ho fatto niente, io.

Il commissario                 - E chi lo sa se non abbiamo fatto niente? E poi resterebbe da provarlo, bambina mia! E provare che non si è fatto niente - quando non si è fatto niente - è più difficile che quando si è fatto qualcosa.

Hugueline                        - (abbattuta) Ah questa poi...

Il commissario                 - Si, perché quando si è colpevoli, si hanno almeno dei punti di riferimento. Mentre la verità è vaga. (Si avvicina) Hai capito, bellezza mia?

Hugueline                        - (vinta) Con voi non è difficile capire. (Soggiunge) Io che vi avrei creduto più gentile...

Il commissario                 - (dolcemente ambiguo) Nella po­lizia non vuol dire niente. (La prende tra le braccia e chiede) Dimmi un po', cuore mio, il signor conte, m'hanno detto che un tempo era... diciamo cosi, in tenero con la vittima. È vero? (Hugueline scoppia a ridere. Lui chiede mortificato) Perché ridi?

Hugueline                        - La vittima! Avete certi modi di chia­mare la gente. Sapete, io, di quel che è successo a quell'epoca... Non ero ancora nata.

Il commissario                 - E dopo, mai?

Hugueline                        - Scherzate? Poteva pagarsi ben altro, il signor conte.

Il commissario                 - (astutamente) Con te?

Hugueline                        - (vagamente delusa) Oh no! Mai avuto storie in casa.

Il commissario                 - Il piccolo curato, è vero che nes­suno qui sapeva chi fosse?

Hugueline                        - Di sopra, non lo so ; ma qua giù, l'ab­biamo saputo subito. Lei lo maltrattava, ma in fondo che suo figlio fosse istruito, la vecchia ne era abba­stanza fiera.

Il commissario                 - Il piccolo curato amava molto sua madre?

Hugueline                        - Non si riusciva a capire che cosa a-masse. Sempre strano. E poi non mi sono mai occu­pata molto di lui. Per prima cosa le sottane, a me, al pensiero che sotto c'è un uomo, non per dirne male, ma non mi vanno a genio.

Il commissario                 - (tastandola sempre distrattamente) E a Adele, non andava a genio neanche a lei?

Hugueline                        - Oh! Quell'idiota. Va a sapere quello che le va a genio e quello che non le va. (Soggiunge) Ma lui non era ancora un vero prete! Ce lo aveva spiegato una volta. Non aveva ancora detto veramen­te di si.

Il commissario                 - Li avevi sentiti parlare tra loro qualche volta?

Hugueline                        - Una volta. Avevo ascoltato dietro la porta... Non si dicevano mai granché, sapete. Qualche mezza parola come quando s'incontravano nei cor­ridoi.

L'autore                           - (che li ascoltava da una quinta, balza im­provvisamente sulla scena esasperato) Fermatevi, amico mio, stiamo perdendo il nostro tempo. Non può condurci a niente il vostro modo di procedere. Mette­tevi dunque in testa una buona volta che Adele è già a Orano, che il piccolo curato è fuggito non si sa do­ve, subito dopo il dramma. Allora con i vostri inter­rogatori la commedia non andrà avanti di un passo...

Il commissario                 - (seccato) Però è un metodo che ha fatto le sue prove. Imbrigliare i testimoni in una rete di domande, uno per uno. Sovrapporre poi, Come delle inferriate, questi diversi interrogatori, e grazie al metodo di deduzione logica, arrivare...

L'autore                           - Arrivare a che?

Il commissario                 - Ad avere un colpevole. Io non mi muovo di qui. Chi ha ucciso la cuoca?

L'autore                           - (deciso) Bene. Ora farò uso della mia autorità. Chi è l'autore di questa commedia? Voi o io?

Il commissario                 - (canzonatorio) Di quale comme­dia? Se ancora non c'è.

L'autore                           - Amico mio, vi consiglio di non fare lo spiritoso o vi faccio richiamare dalla Prefettura. Un colpo di telefono e mi mandano un altro ispettore meno ingombrante.

Il commissario                 - Sarebbe contrario a tutte le re­gole della costruzione drammatica.

L'autore                           - Al punto in cui mi trovo, potete credere che le regole della costruzione drammatica sono l'ul­tima mia preoccupazione. Bisogna uscirne con altri mezzi. Quel che io voglio, ascoltatemi bene, (avrò pu­re il diritto d'avere un'idea ogni tanto) è fare incon­trare la piccola col seminarista, la prima volta che si sono detti il loro amore. Queste sono belle scene. (Va a cercarli tra le quinte) Venite fuori, voi due. Dov'è avvenuto?

Adele                              - Cosa?

L'autore                           - La vostra scena d'amore.

Adele                              - (con un grido) Ma non c'è mai stata una scena d'amore! Vi proibisco di far credere questo a tutti!

L'autore                           - Questo riguarda me. Vi chiederò dove è avvenuta la vostra prima conversazione con lui, se preferite. In cucina?

Adele                              - Si.

L'autore                           - (al seminarista) Voi eravate sceso nella speranza di incontrarla?

Il seminarista                   - (vergognoso) Si, cioè... Volevo chiedere una tisana; avevo preso freddo e mi ripu­gnava servirmi del campanello per mio uso persona­le... Ma nel segreto del mio cuore, speravo d'incon­trarla, si...

L'autore                           - (ad Adele che ha cominciato a levarsi le scarpe) Che cosa fate voi? Cominciamo la scena.

Adele                              - (dolcemente) Mi metto scalza. Anche allo­ra stavo lavando... Bisognava lavarla e rilavarla que­sta cucina. È appunto perché ero a piedi nudi mentre mi parlava che ho provato... (Esplode d'improvviso) Oh! È troppo brutto. Troppo brutto. Non avete il di­ritto di continuare a parlarne. Sono cose mie. Il mio segreto. E mi vergogno. È come se fosse un curato, capite, con la sua veste. E l'altro ancora ieri è salito in camera mia. M'ero chiusa dentro, ma lui ha smon­tato la serratura con il suo coltello e io non ho osato gridare. Preferisco accettare subito d'andarmene a O-rano! Almeno, non darò fastidio a nessuno.

L'autore                           - (disperato) Che mentalità! Che cosa vo­lete combinare con personaggi cosi? Ma non capite che è completamente idiota quel che voi dite. Non è neppure più psicologia. È un minestrone per il gatto. Ma che figura ci faccio io? (Esplode) Non accetteran­no mai un personaggio cosi a Parigi.

Adele                              - (stordita) Non capisco che cosa voi dite, ma so bene che è la decisione più semplice.

L'autore                           - (grida, irritato) Che cosa è la decisione più semplice?

Adele                              - (chiusa) Se gridate non dico niente. Grida­no sempre quando mi parlano. Quando gridano ho paura e dico subito di si. Non avete che da coman­darmi, ubbidirò. So come si fa a ubbidire, ma non va­le la pena di gridare.

L'autore                           - (addolcito) Ma non si tratta di coman­darvi, piccola mia. È una decisione che dovete pren­dere da sola... Vediamo. Rispondetemi tranquillamen­te e cercate di veder chiaro dentro di voi. Vedete be­ne che non vi voglio male, vi parlo dolcemente. Qual è la decisione più semplice, mia piccola Adele?

Adele                              - Andare dove devo andare.

L'autore                           - Ma buon Dio, voi non siete completa­mente innocente. Avete finito per capirlo voi stessa - d'altra parte gli altri ve lo hanno detto - dove voleva farvi andare Marcello.

Adele                              - (chiusa) Si.

L'autore                           - Allora il vostro ragionamento è assurdo, perché dire che è la cosa più semplice?

Adele                              - Cosi tutti saranno contenti e non mi gri­deranno dietro.

L'autore                           - (dolcemente) Chi vi grida dietro? (So­spira) Che razza di testa.

Adele                              - Tutti. Maria Giovanna che ora ha capito che suo figlio mi gira intorno (Indica il curato con un gesto triste) Lui che mi dice sempre che devo essere pura. L'altro che vuole sempre che torni con lui e mi picchia. E poi Marcello che dice d'aver fatto dei pas­si, che hanno già comprato i biglietti e che non è one­sto ora dire di no. (Aggiunge dignitosa) Sono quella che sono ma non ho mai danneggiato nessuno. Il solo biglietto è troppo caro perché io possa rimborsarlo. Mi ci vorrebbe un anno e loro dicono che non pos­sono aspettare un anno che ci vorrebbe l'interesse, e che la spesa aumenterebbe.

L'autore                           - (pieno di pazienza) Il vostro ragiona­mento è infantile. Insomma voi capite che nessuno può obbligarvi ad andare in quel caffè d'Orano se non ne avete voglia. Anche se hanno già comprato il bi­glietto.

Il commissario                 - Prima di tutto ci si fa rimborsare il biglietto dalla compagnia!

L'autore                           - (lo zittisce, irritato) Tacete! Voi non ci siete. Adele, ascoltatemi bene: la signora contessa è una donna molto buona. Dovete cercare di vederla e confidarvi con lei. Dirle cosa vi capita. Lei agirà, vi proteggerà.

Adele                              - (spaventata) Oh! No, mai.

L'autore                           - Perché?

Adele                              - Avrei troppa vergogna. Già se sapesse che sono incinta... No. No. Preferisco andare subito lag­giù. È più semplice.

Il commissario                 - (s'avvicina) Ho un'idea. Ho già una scheda su Marcello. Lei viene a lamentarsi da me. La ricevo tutto umanità e comprensione. Scena breve. Un interrogatorio serrato. Indovino tutto. La protezione della polizia.

L'autore                           - (alza le spalle irritato) Ma no! Ma no! Vi ho già detto che lei è già partita per Orano quando arrivate voi in casa.

Il commissario                 - Telegrafo immediatamente al commissario del porto, a Marsiglia.

L'autore                           - (eccitato) Vi ho detto che lei è a Orano.

Il commissario                 - Una commissione rogatoria a O-rano!

L'autore                           - Credete che si preoccuperebbero tanto di una serva che si fa rapire? Ce ne sono dieci al giorno.

Il commissario                 - Con delle raccomandazioni. Il no­me del signor conte, il vostro... Cominciate a essere molto noto, sapete, con tutto il vostro successo, negli ambienti della polizia. Non siamo più il genere di mez­ze calzette al Quai des Orfèvres!

L'autore                           - (lo prende per le braccia esasperato, e lo trascina tra le quinte) Se volete andarvi a sedere con gli altri e aspettare senza dire una parola come loro, mi farete un gran piacere, vecchio mio. (Torna borbottando) Ali! Mi chiedo perché l'ho inventato, quello li. (Agli altri due che aspettano l'uno in faccia all'altro, imbarazzati) Siamo metodici, ragazzi miei, o non ne verremo a capo. Ditemi esattamente che co­sa vi siete detti quella sera. (Grida agli elettricisti) Mettete il riflettore sulla cucina al momento del loro incontro. Era di sera, tardi. Tutti erano già saliti di sopra. Lei finiva di lavare la cucina come ogni sera. Voi, piccolo mio, siete disceso per chiederle una taz­za di tisana. Siete entrato dalla piccola scala in fon­do. Andiamo. Lava per terra, tu. Ecco. Tu lavi, prima un momento di silenzio, poi arriva lui... (Si è eclissa­to. Il seminarista appare sulla soglia della scala in­terna)

Il seminarista                   - Chiedo scusa, signorina...

Adele                              - (solleva col braccio nudo una ciocca di capel­li che le cade sugli occhi e mormora) Sto lavando... (Nota lo sguardo di lui sui suoi piedi nudi. Si vergo­gna, e li mette goffamente uno sull'altro. Tutta rossa, di colpo) Mi metto a piedi nudi. È più comodo. Ci si sporca meno. Deve sembrare strano a Parigi. Sono modi di campagna. Io vengo dalla campagna.

Il seminarista                   - (dolcemente) Anch'io. (Un silenzio imbarazzato. Finalmente dice) Ero sceso per vedere se era possibile avere una tisana calda. Credo d'aver preso freddo.

Adele                              - Dovevate suonare.

Il seminarista                   - Oh! no. Non avrei mai osato di­sturbare qualcuno per un mio bisogno personale. Poi, ho pensato che era tardi. Lavoravo per gli esami di ottobre. Il fuoco dev'essere spento a quest'ora. Non vorrei disturbare...

Adele                              - Vi farò riscaldare dell'acqua sul fornellino ad alcool.

Il seminarista                   - Lavorate fino a tardi anche voi.

Adele                              - Devo lavare tutte le sere la cucina. E per questo devo aspettare che siano saliti tutti; se no me la sporcano di nuovo. Qualche volta si fermano a par­lare; per forza, finita la giornata, fa piacere chiac­chierare.

Il seminarista                   - Eppure la mattina voi siete la pri­ma a essere qui.

Adele                              - (anche lei dolcemente, con un sorriso) De­vo accendere il fuoco.

Il seminarista                   - È duro l'inverno scendere per pri­ma?

Adele                              - Un po'. Al momento di cercare i fiammife­ri o di accendere la luce si sente freddo. Ma poi, quan­do la legna piccola comincia ad ardere sul fornello c'è un momento che si sta bene. Si ha quasi paura che gli altri si sveglino. Gli altri che scendono, è la giornata che ricomincia. (Aggiunge gentile) Al semi­nario vi faranno alzare presto anche voi.

Il seminarista                   - Si. È notte ancora.

Adele                              - Accendete il fuoco da voi?

Il seminarista                   - Non si accende. Abbiamo le pre­ghiere ma non il fuoco.

Adele                              - (gentile) Allora dev'essere ancora più triste che per me. (È al fornello, si volta con un sorriso ti­moroso) È male quel che dico?

Il seminarista                   - Perché?

Adele                              - Perché penso che a voi, siccome è per il buon Dio, sembrerà più facile...

IL seminarista                 - (sorride) Oh, non siamo degli eroi, sapete. Siamo molto seccati lo stesso d'essere in pie­di cosi presto. Finché non abbiamo avuto il nostro pezzo di pane e il nostro quartino di caffè nero.

Adele                              - (sorride) È buono almeno?

Il seminarista                   - (sorride anche lui) Una buona ac­qua nera, ecco.

Adele                              - (improvvisamente giovane e gentile, suo mal­grado) Peccato che non assumano ragazze a servi­re, verrei io a farvelo buono. (Ha fatto la tisana, por­ge la tazza e domanda, inquieta) Non è rispettoso quel che dico?

Il seminarista                   - (tutto rosso) Si. Perché?

Adele                              - (che lo guarda un po' incoraggiata) Non si è mai sicuri con un... (Si ferma e domanda) Siete molto giovane. Li prendono cosi giovani i preti?

 Il seminarista                  - (sorride) Non siamo preti. S'im­para soltanto. Non abbiamo ancora fatto i voti. Biso­gna meritarselo d'essere preti. È lungo.

Adele                              - Quando è che sarete prete?

Il seminarista                   - Se passo il mio ultimo esame, al­la fine dell'anno prossimo.

Adele                              - E ce ne sono di quelli che non arrivano fino alla fine?

Il seminarista                   - Si. Quelli che non sono sicuri.

Adele                              - Cosa fanno allora?

Il seminarista                   - Tornano a casa. Ma è difficile ri­diventare contadini. La gente non li può vedere. Il curato dice a tutti che hanno rubato il denaro della chiesa. (Aggiunge sordamente) E le ragazze li deri­dono.

Adele                              - Sapete, sono stupide, le ragazze. Forse non hanno voglia di deriderli, in fondo. E poi se loro tro­vano una che li ama... lei non ride.

Il seminarista                   - (dolcemente) Si, ma allora lei ha paura che gli altri ridano di lei e non osa mai spo­sarlo. Sapete, nei paesi piccoli... Ci vorrebbe qualcuno che avesse molto coraggio... O piuttosto che partisse­ro a lavorare insieme da qualche altra parte. Ma non è sempre facile; i genitori della ragazza non vogliono. (Restituisce la tazza) Ecco la tazza. Grazie della ti­sana.

Adele                              - (domanda affettuosamente) Vi ha riscal­dato?

Il seminarista                   - Si. (Pausa)

Adele                              - (improvvisamente imbarazzata) Ecco. Al­lora adesso spengo la cucina e ci diamo la buona­notte. Forse sarebbe meglio che saliste prima voi.

Il seminarista                   - Si. Benissimo. Scusate. Forse non avremo più l'occasione di rivederci da soli e volevo soltanto dirvi... m'accorgo che non sono molto buoni qui con voi... neppure... (Esita) ... la signora Maria Giovanna.

Adele                              - (ha un gesto) È sempre cosi quando si la­vora.

Il seminarista                   - Vi ha trattata molto male ieri e volevo dirvi che ne ho avuto vergogna. E anche ver­gogna che lei fosse... voi lo sapete, mia madre. E al­lora io, vi volevo chiedere perdono.

Adele                              - (come spaventata) Non sta bene dir cosi. (Ha spento e dice dolcemente) Ecco. Ho spento. Ora dobbiamo salire.

Il seminarista                   - (nell'ombra) Si. (Dopo una pausa, soggiunge) Voi siete infelice, lo so, e pregherò per voi... (Un'altra pausa. Poi, ancora) Solo che non sono più tanto sicuro di pregare bene. Mi sforzo. Faccio tutto quel che posso.

Adele                              - (dolcemente, quasi teneramente) Perché siete entrato là dentro, allora?

Il seminarista                   - (sordamente) Avevo paura d'esse­re un contadino. (Ancora una pausa)

Adele                              - Ora dobbiamo salire. Potrebbe venire qual­cuno.

Il seminarista                   - Si. (Sparisce come a malincuore. Mentre sale, Adele tende l'orecchio ; poi s'accorge che lui ha dimenticato la tazza. La lava, l'asciuga e la ri­mette a posto. Si mette uno scialletto nero sulle spal­le, infila le scarpe e comincia a salire. Quando lei sta per uscire con la sua lampada l'autore le chiede dol­cemente)

L'autore                           - È tutto quel che vi siete detti quella sera?

Adele                              - Si, signore.

L'autore                           - Va bene. Siete libera, mia cara. Buona notte. (Dopo che è uscita, lui torna in scena esaspera­to) È chiaro che questa scena non porta a niente! Assolutamente a niente. Si amano, è un fatto, salta agli occhi, ma non arriveranno mai a dirselo. Si ver­gognano troppo tutti e due. Sono paralizzati. Possono avere altre dieci scene come quella finita ora    - (la pri­ma), non si diranno mai di più. Questa piccola è im­pastata di vergogna da quando è bambina. E dall'al­tro grande asparago che inghiotte saliva e si asciuga le grandi mani sudate, non se ne può ricavare più niente. Sono dei personaggi impossibili! Impossibili! Deve pur esserci una scena d'amore, perbacco, in que­sta commedia! (Gli altri personaggi del piano supe­riore hanno cominciato ad apparire timidamente come se accorressero alle notizie. L'autore grida vedendoli) E gli altri, là in alto, che non hanno ancora pro­nunciato una parola! Che voi neppure conoscete! Il barone e la baronessa Jules - personaggi d'altronde affascinanti - la contessa, i bambini. (Alza le braccia al cielo) Come se avessi avuto l'obbligo d'andare a cacciare dei bambini qui dentro. I bambini che a tea­tro sono sempre una catastrofe, non si riesce mai a farli recitare... (Anche i personaggi della cucina hanno cominciato a invadere la scena) E papà Romain, il maggiordomo al quale avevo promesso una scena co­mica! E Maria Giovanna non ha quasi ancora detto nulla ; e doveva essere un personaggio enorme, un Fal­staff in gonnella. Qualcosa di shakespeariano nella mia intenzione... (Grida improvvisamente come un pazzo) No! No! Non ho nessun talento! Bisogna che mi met­ta a fare o del giornalismo o del cinema... o qualunque altra cosa. Ecco. Preferisco fare il critico. Vado a of­frirmi. "Volontario, mio direttore!" Preferisco cercare quel che non va nelle commedie altrui, ma non più nelle mie, non più nelle mie! non più nelle mie! (Tutti i personaggi seguono questa crisi, accorati. Il commis­sario che è ritornato, anche lui, abbastanza soddisfatto della piega che prendono gli avvenimenti, comincia a parlare, gettando olio sul fuoco)

Il commissario                 - (furbo) Senza contare che intanto il pubblico continua sempre a chiedersi chi è che l'ha uccisa, la cuoca... Va a finire che non si interesserà più affatto della nostra storia, il pubblico.

L'autore                           - (si accascia su una sedia, vinto, in mezzo al­la scena, circondato dai suoi personaggi, e chiede quasi umilmente) Ma allora, che cosa dobbiamo fare?

Il commissario                 - (sorridendo) Qualcosa che a teatro rimedia sempre la situazione, un intervallo.

L'autore                           - (si alza contento, ringiovanito di dieci anni) Ecco fatto! È un'idea eccellente! Un intervallo! È ancora quel che riesce più facilmente. E poi ci darà il tempo di riflettere. (S'avanza verso il pubblico e an­nuncia) Un intervallo. Dovreste sentirne il bisogno an­che voi. (Grida agli inservienti) Sipario! (Mentre il si­pario cala soggiunge) Ma non approfittatene per andar­vene.

Fine del primo tempo

ATTO SECONDO

Stessa scena. All'alzarsi del sipario, tutti i personaggi sono in scena; arbitrariamente in cucina o sulle scale. Il gruppo dei padroni è da una parte, quello dei dome­stici dall'altra. L'alzarsi del sipario sembra sorprender­li tutti, in un primo momento non dicono nulla. Si scambiano sguardi inquieti, fissando le quinte come se aspettassero qualcuno; -finalmente il maggiordomo ha un gesto fatalistico, tossicchia e comincia.

Papà Romain                   - Buoni padroni. Tutto sommato era­no dei buoni padroni. La vita assicurata. L'ordine. E poi, un giorno...

Leone                              - (torvo in un angolo, versandosi un bicchiere di vino rosso dalla bottiglia che è rimasta sulla tavola) Non esistono buoni padroni. Ricordo ai tempi della vecchia...

Papà Romain                   - Era dura, ma una gran signora. Co­me non se ne trovano più.

Leone                              - (brontola) Una signora. Fare attaccare il ti­ro a due per la messa delle sei, d'estate come d'inverno. La messa delle sei, se ci si tiene tanto, ci si va a piedi. Non si rompono le scatole al cocchiere.

Papà Romain                   - (molto dignitoso) Vi prego d'usare altre espressioni quando parlate con me, signor Leone. Dirigo questa casa e voi mi dovete, indirettamente, il rispetto che dovete ai vostri padroni.

Leone                              - (brontola) Si, il rispetto indiretto del ca­volo.

Papà Romain                   - Esiste un ordine sociale stabilito. Da parte mia, mi soddisfa poiché stimo che ciascuno vi trovi la sua vera dignità, al proprio posto.

Leone                              - La dignità del cavolo, si. Non abbiamo di­gnità noialtri e non siamo obbligati ad averne.

Papà Romain                   - Ho sempre scoperto in voi come d'altronde in quella infelice Maria Giovanna una moralità deplorevole. E se fosse dipeso da me, non ve l'ho mai nascosto...

Leone                              - (sogghigna) Invece è dipeso dalle tette di Maria Giovanna che il signore si è godute per cinque anni. Dopo, è scesa in cucina. Inamovibile.

Papà Romain                   - (punto sul vivo) Non ho mai vo­luto saperlo. Le storie dei signori sono le storie dei signori. Nella mia posizione bisogna saper chiudere gli occhi.

Leone                              - (cupo) Si deve poterli chiudere, gli occhi. Ma quando si è costretti a tenerli aperti? (Prosegue sordamente, dopo una pausa) Io sono un tipo sangui­gno. E quando mi hanno fatto qualcosa devo rifar­mela con qualcuno. Reggo vent'anni poi un bel giorno sbotto. Sulle bestie in scuderia, quando la vecchia oppure quel piccolo fottuto del barone Jules m'ave­vano fatto venire la bava, su di loro mi sono vendi­cato, una volta che le porte erano chiuse a chiave. Fino a farle sanguinare. Hai un bel nitrire o scalcia­re... Bestie a duemila luigi, che costano dieci volte più care del cocchiere... gli ho insegnato a essere di razza pura, io, a quelle sporcaccione. Ai padroni non si può ancora, bisogna aspettare... ma alle bestie...

Papà Romain                   - (alza le braccia al cielo, disperato) Però c'era un ordine. Valeva quel che valeva, ma c'era un ordine... E ora... (Mugola improvvisamente) Non ho mai accettato il disordine! Dobbiamo raddoppiare tutti il nostro zelo intorno alla signora contessa, la seconda, che è una santa, per farle dimenticare que­sti tristi avvenimenti.

Leone                              - (sogghigna) Una santa, la Sdolcinata? Di', Marcello!...

Marcello                          - (un po' confuso, ha improvvisamente un gesto vago) Oh, sai, lo facevo credere... ma non era vero. Posso pure dirlo oggi. Non vale la pena di com­plicare le cose con i poliziotti che ci stanno interro­gando. La padrona non mi ha mai chiamato quando il vecchio era al circolo. Lo raccontavo per farmi va­lere.

Leone                              - (lo guarda abbrutito, poi emette un sospiro deluso, versandosi un altro bicchiere) Ah! Pecca­to... È la sola cosa di lei che non mi disgustava trop­po      - che facesse l'amore. Le sante a me mi stanno di traverso. Mi soffocano.

Hugueline                        - Non si può dire che la signora con­tessa fosse una donna cattiva. E la sua maniera d'es­sere buona che metteva a disagio. A dire il vero, credo che fosse soprattutto una sciocca. Aver sposato il vec­chio - più di vent'anni di differenza - e non tradir­lo, ammetterete...

Papà Romain                   - (geme) La signora contessa appar­tiene a un mondo dove la virtù è una tradizione!

Hugueline                        - Preferivo la baronessa Jules. Con quel­la non era difficile intendersi. Una scarpa sulla faccia, di tanto in tanto, quando aveva le crisi di nervi, e tut­to finiva li. Ma non metteva mai i suoi vestiti più di tre volte... Peccato che il mio sedere era molto più grosso del suo. E per questo che finivo sempre per romperli... Ma una gran vita e fuori tutte le sere. E un nuovo amante a ogni stagione. Questi sono pa­droni!

Papà Romain                   - (riconosce, toccato) Anche la signo­ra baronessa Jules aveva delle tradizioni. Erano altre tradizioni, ecco tutto. Il mondo aristocratico ha tra­dizioni diverse che noi dobbiamo rispettare, senza comprenderle.

Marcello                          - (con ammirazione suo malgrado) Anche il barone Jules era qualcuno. Le donnine, la sua ta­vola riservata al Maxim's, e il suo cognac speciale, ma non era questo che contava veramente. Erano le cor­se. Uno specialista. Aveva fatto degli studi, e li por­tava avanti. Tutti i giorni, due ore di riflessioni sulla lista dei partenti del Turf, penna in mano. E mi dava tutte le sue puntate. Solo che io, quando lui giocava dieci luigi, giocavo quattro soldi; è questo che spiega che sono rimasto sempre un miserabile. Senza il ca­pitale alla base non c'è niente da fare nel mondo mo­derno. (Il barone Jules che ha un braccio al collo, si anima sulla scala dov'è seduto con noncuranza, a fianco della baronessa Jules)

Barone Jules                    - Evidentemente questa inchiesta sta diventando sgradevole... Ma insomma noi non possiamo essere responsabili di tutto quel che avviene nelle nostre cucine... Il fatto è che il giorno dopo tutti ave­vano il numero del "Gaulois" tra le mani. Devo am­mettere d'aver avuto un certo successo al circolo. "Dimmi, Jules, si sapeva che da te si mangiava bene, ma tu esageri! Fai lardellare anche la cuoca adesso?" Ho corso il rischio di diventare ridicolo. Per farla bre­ve ho dovuto schiaffeggiare des Épinglettes. E quest'imbecille che non è mai stato capace di reggere una spada ha trovato modo di pizzicarmi l'avambraccio scivolando sul terreno troppo umido, cosa sempre spiacevole la vigilia della stagione di Deauville con il golf e il tiro al piccione. Non mi resta che il baccarà, dove posso sempre tagliare con la mano destra. È una estate che mi rovinerà, positivamente!

La baronessa Jules           - E per me, credete che tutto ciò sia allegro? Una parola tira l'altra, hanno finito per spargere la voce che vi siete battuto per i begli occhi della cuoca. Non oserò più farmi vedere in giro, positivamente! (Ha detto questo esattamente come lui, è la parola di moda. Esclama d'improvviso) Di­menticate che pranziamo all'una all'Ambasciata d'Au­stria. Amico mio, non sarete mai pronto. Vi ci vuole il doppio del tempo che occorre a me.

Il barone Jules                 - Non ci vado. Ho avvisato Coco che andrete sola. Col mio braccio al collo, non posso positivamente più mangiare. E non potrei chiedere di­gnitosamente alla mia vicina, che avrebbe avuto cen­to anni e una corona chiusa - li conosco i pranzi da Coco! - di aiutarmi a tagliare la carne. Vado a pran­zare da Maxim's!

La baronessa Jules           - (leggera) E avrete qualcuno laggiù in età d'aiutarvi?

Il barone Jules                 - Certamente.

La baronessa Jules           - Perfetto! Mando il cocchiere da Zizi, che va anche lui da Coco, a dirgli di passare a prendermi. Sarà estasiato di sostituirvi.

Il barone Jules                 - (molto allegro) Ne ha l'abitudi­ne. Positivamente.

La baronessa Jules           - Non fate lo spiritoso, è anco­ra troppo presto.

La contessa                     - (s'anima a sua volta e mormora) Pe­rò era tutta brava gente! Quella piccola Adele... Io le volevo bene. La sua umiltà mi sconvolgeva. Avevo pensato di farle un gran regalo proponendole d'essere la madrina di Timoteo. Tutto quel che ci ha gridato dietro... Con parole volgari, scelte apposta. Si capiva che le gridava a ragion veduta, come sortilegi. Lei, di solito cosi riservata. Non dimenticherò mai il suo sguardo. Ero venuta per darle tutto e non ne ho ri­cevuto che odio...

Il conte                            - (dolcemente) Vi avevo detto che non bi­sognava a nessun costo scendere in cucina. Ognuno deve recitare la sua parte dove il destino l'ha posto. La sorte vi ha posto nei saloni al primo mano: quan­do avete bisogno di qualcosa, mia cara, suonate. Giu­sto o ingiusto che sia, è nocivo chiederselo. Suonate, ecco tutto. Saliranno. Ma non preoccupatevi mai di quel che accade al piano di sotto. Quando ci si china e si guarda in basso - ero sensibile anch'io alla vo­stra età - si impara che va sempre a finir male. La giustizia è affare divino. Noi d'altra parte la valutia­mo da una prospettiva non buona; è per questo che talvolta ci spaventa. Bisogna lasciare che il cielo as­suma le sue responsabilità. Dovete perdonarmi, mia cara, ma ho promesso alla signora de Merteuil di ca­valcare con lei stamane. Ha una nuova bestia di cui non è sicura e non so bene perché ha dovuto mandare il suo battistrada a Grosbois. Ci credete voi, a questa nuova moda degli anglo-arabi per cavalcare al maneg­gio? È uno snobismo. Sono persuaso che al primo ostacolo serio la marchesa avrà delle noie.

La contessa                     - Ammiro la vostra leggerezza. Io non posso pensare ad altro che a questo dramma. (Si vol­ta verso il seminarista che è al fondo, immobile, e lo guarda) Eppure era carino quel pretino là, il primo giorno che è arrivato.

Il conte                            - (che si è voltato anche lui) Molto carino. Il mio ritratto a vent'anni. Tranne che ha le mani più forti...

La contessa                     - (con un accorato rimprovero) Amico mio...

 

Il conte                            - Mia cara, a che scopo farne dei misteri? Entro otto giorni sarà su tutti i giornali.

La contessa                     - Non scherzate. Voi scherzate su tut­to. Voi l'avete amata, questa... (Esita)

Il conte                            - (si volta verso di lei) Questa...

La contessa                     - Non so esattamente quale parola di­re...

Il conte                            - (di colpo, glaciale) Ce ne sono molte nel­la terminologia consacrata. Questa donna, questa ra­gazza, questa serva?...

La contessa                     - (dolcemente) Non voglio dire nessu­na parola offensiva, Timoteo.

Il conte                            - (quasi aggressivo) È difficile. Lo sono tutte. Credetemi, è meglio che non ne parliamo più, mia cara. È un argomento ai limiti del grottesco e dell'odioso. E in tutti i casi di pessimo gusto. E per di più è un argomento sul quale mi scopro molto su­scettibile. Avrete molto garbo a non parlarmene più.

La contessa                     - (dolcemente) Dunque voi siete di­sceso?

Il conte                            - (che non vuol capire) Disceso dove?

La contessa                     - In basso.

Il conte                            - (ha un gesto) Da tanto tempo. E ciò ri­guarda soltanto quella signora bruna in abito da se­ra nel suo quadro, che ha il buon gusto, in questo mo­mento, d'essere morta.

La contessa                     - (dopo una pausa) Come potete esse­re duro, Timoteo, voi che siete cosi buono?

Il conte                            - (dopo un'altra pausa) Posso essere mol­te cose, come tutti. Ma ho scelto. Ho scelto anzitutto d'essere un uomo ben educato, amabile, tollerante, divertente, sempre nei limiti delle mie mediocri qua­lità, dal momento che mi sono assunto il terribile onore di avere una moglie di vent'anni più giovane. La vita non è cosi allegra, bisogna aiutarsi un po'. D'altra parte l'ha capito solo la nostra classe. Evangelina, vi ho già delusa, con dei difetti che si avrebbe il diritto dì aspettarsi da un uomo della mia età? Pas­sata la quarantina agli uomini insieme alla pancia vie­ne un inesplicabile desiderio di serietà.

La contessa                     - (dolcemente) Con dei difetti da gio­vanotto, piuttosto.

Il conte                            - Io sono un vecchio giovanotto. Per quan­to curioso possa sembrare, con tanto strepito non ho vissuto affatto.

La contessa                     - Vorrei soltanto sentirvi qualche vol­ta gettare un grido...

Il conte                            - (netto) Non ci contate. Tra le altre cose ho deciso una volta per tutte che non getterò mai gri­da. Lascio questo al mondo animale e ai furiosi pas­sionali, che, tra le altre cose, s'assomigliano. L'uomo ha la fortuna di possedere un linguaggio articolato e un codice, che gli permette d'esprimere decentemente le sfumature del suo spirito       - e se assolutamente ci tiene       - del suo cuore. Non ha bisogno di gettare gri­da... (Ci si accorge all'improvviso che la sua gentilezza è messa a dura prova, e che comincia a spazientirsi) Avete semplicemente concepito il piano di costringer­mi a far aspettare la signora de Merteuil, amica mia?

La contessa                     - (sorride, a sua volta, leggera) Lungi da me un cosi nero disegno! Cercavo semplicemente di approfittare di questo fortunato tète-à-tète, per comprendere un marito a volte incomprensibile.

Il Più grand. dei bambini       - (s'anima improvvisa­mente e domanda) Mamma, chi ci proverà la le­zione di latino?

La contessa                     - Ma io, senz'altro. Avete con voi i li­bri?

Il Più grandicello             - Si, mamma. Ma tu lo sai il latino?

La contessa                     - Perfettamente.

Il Più grandicello             - Allora perché non ce lo inse­gnavi tu? Sei molto più bella del curato. Hai un buon profumo.

La contessa                     - (mascherando un leggero imbarazzo) Ma perché in questa casa ho altri doveri che non me ne avrebbero lasciato il tempo.

Il Più piccolo                   - Avremo un altro curato?

La contessa                     - Certamente.

Il più grandicello             - Anche questo aveva il fratello maggiore malato?

La contessa                     - No. È stato richiamato bruscamente per un'altra ragione.

Il più piccolo                   - Quale, mamma?

La contessa                     - Siete troppo curiosi. Un telegramma.

Il più piccolo                   - è vero che la cuoca è morta?

Il più grandicello             - Marcello ci ha detto che è stata ammazzata, è vero?

La contessa                     - Marcello è uno stupido. E vi ho sem­pre proibito di parlare ai domestici. (Si è voltata ver­so Maria Giovanna, immobile in mezzo agli altri dell'inizio, come assente. Tutti la guardano) Maria Gio­vanna è stata molto malata e l'hanno portata all'o­spedale. Ma certamente guarirà e se il buon Dio non vuole che guarisca, andrà in cielo.

Il più piccolo                   - E cucinerà in cielo?

Il Più grandicello             - (domanda a sua volta) E Adele, è vero mamma, che è andata dai negri? E che laggiù fa talmente caldo che lavorerà in camicia?

La contessa                     - (che in un primo momento non capisce, chiede) Perché in camicia?

Il più piccolo                   - (ripete) Perché in camicia, mamma?

La contessa                     - (capisce di colpo ed esclama) Dio mio, che domande, per dei bambini cosi piccoli. Se almeno me le faceste in latino... Su, andiamo, dove so­no i vostri libri? Imparate una buona volta a non far domande su cose che non vi riguardano e a non ascoltare le brutte storie della cucina. Non c'è niente di più maleducato. (L'autore che è entrato in basso col commissario, sussulta alle ultime parole della con­tessa)

L'autore                           - Quali brutte storie? Chi è che è maledu­cato? Cosa va raccontando quella là? (L'apostrofa) Che cosa state raccontando, signora? E poi chi vi ha dato il permesso di parlare? È insensato. Vado a bere un caffè durante l'intervallo, torno... e loro parlano...

Papà Romain                   - (che è apparso in basso) Mi scuso col signore. Il signore non deve volercene. Soprattut­to alla signora contessa che ha solo fatto del suo me­glio, come tutti. Sono stato io che ho cominciato a parlare del mio padrone, signore. Si è alzato il sipario - certo per errore - e bisognava pure far qualcosa. Allora ci siamo presi la libertà di continuare la com­media del signore.

L'autore                           - (spaventato) Da soli?

Papà Romain                   - (modesto) Si, signore, con i mezzi a disposizione. Ma che il signore si rassicuri, non abbia­mo detto niente di essenziale. Semplici chiacchiere. Non ci saremmo mai permessi, signore.

L'autore                           - (inquieto, più sommesso) E... ascolta­vano?

Papà Romain                   - Abbastanza bene, signore.

L'autore                           - Senza tossire?

Papà Romain                   - Non troppo. (Aggiunge) Soltanto un po'.

L'autore                           - Bene. Vedo che non è stato poi tanto importante. (S'avanza verso il pubblico) Scusatemi, signore e signori. Spero che non siate rimasti troppo delusi. Tutta questa parte di testo non era mia. Ri­prenderemo la vera commedia... (Richiama papà Ro­main che si è allontanato con discrezione) Ditemi, a-mico mio...

Papà Romain                   - Signore?

L'autore                           - Una parola, prima di continuare. Voi che siete per me un personaggio familiare...

Papà Romain                   - Il signore è ben gentile a ricordar­sene. In verità ho servito più volte il signore. Il viag­giatore senza bagaglio, 1937; Léocadia, 1940; Appun­tamento a Senlis, 1941; Invito al castello, 1947; il si­gnore è stato sempre molto soddisfatto dei miei ser­vigi. Una volta il signore mi ha persino prestato al signor Oscar Wilde, in occasione di un adattamento a cui il signore aveva collaborato.

L'autore                           - (modesto) A dire il vero credo che sia stato il signor Oscar Wilde a prestarvi a me, origi­nariamente. Ma andiamo avanti. Vorrei farvi una do­manda, amico mio. Una domanda che ha una certa im­portanza per il signore e per me. E una buona casa questa?

Papà Romain                   - Perfetta, signore.

L'autore                           - E il personale?

Papà Romain                   - (con un gesto) Signore, c'è sempre da ridire. Ma nell'insieme le persone qui assunte sono di un livello morale e professionale soddisfacente.

L'autore                           - La direzione di tutto questo piccolo mondo deve comunque procurarvi diverse preoccu­pazioni.

Papà Romain                   - Dal momento che il signore mi fa l'onore di interrogarmi, mi prenderò la libertà di con­fessare al signore che non tutto è sempre come avrei desiderato. La cameriera, per esempio, è una ragazza molto seducente d'aspetto, ma i suoi vassoi non sono sempre come dovrebbero. Le manca il senso del to­vagliolo. Le sue fettine di limone per il tè sono spes­so disposte senza grazia. Un giorno le è persino capi­tato di dimenticare le pinzette per lo zucchero. Va det­to, è vero, che era un vassoio per il signor barone Jules che prende sempre lo zucchero con le mani, ma... tut­tavia... È un errore professionale che con la signora Duchessa avrebbe avuto le più gravi conseguenze... Ora la tendenza è di chiudere un occhio... Se posso permettermi d'avere un'opinione, signore, la signora contessa è troppo buona.

L'autore                           - M'hanno detto che si preoccupava molto della sorte dei suoi domestici. È esatto che avrebbe addirittura concepito il progetto d'offrire d'essere la madrina del suo ultimo nato alla più umile tra loro: la sguattera, quella che è scomparsa?

Papà Romain                   - (subito chiuso, ha un gesto) Signore, è un disgraziato incidente che ha rischiato di spezzare la mia carriera e di cui preferisco non riparlare. Ma è vero che adesso la moda tira a una certa "socialità", come dicono loro, della quale d'altra parte "la cucina" non serba nessuna gratitudine ai signori e che conduce al rilassamento.

L'autore                           - L'avete notato?

Papà Romain                   - Con molta pena, signore. I giorni che i signori uscivano, ai tempi miei, una parte del personale aspettava di notte tanto quanto occorreva. Poteva accadere che il signore avesse talvolta bisogno ; che la signora dovesse farsi svestire. In ogni modo c'e­rano gli ultimi ordini da prendere. Poteva essere ne­cessario annotare una decisione per il giorno dopo. Ora, un _ bigliettino messo in evidenza nell'office, lo trova chi lo trova. Succede persino che il signor ba­rone e la signora baronessa scendano a frugare in cu­cina quando hanno fame, tornando da teatro, e per caso non hanno cenato. Testoline senza giudizio, se il signore mi permette d'essere franco. Il signore ca­pirà, lui che mi ha sempre adoperato per servire le grandi tradizioni nelle sue commedie. Questi piccoli rilassamenti disorientano il personale.

L'autore                           - Ma anche il personale può desiderare la sua parte di sonno come gli altri, no?

Papà Romain                   - Un po' più di riposo e di conforto, ma è secondario, signore... anche se sotto questa nuova influenza dei sindacati certi agitati rappresentanti del nostro mestiere lo-mettono nel numero delle loro ri­vendicazioni. Ciò che importa è la fede e la intangibi­lità delle convenzioni. È un gioco da giocare secondo certe regole e valido per tutti, altrimenti ogni cosa si sfascia... Se i signori, a disagio qualche volta per i loro stessi agi, non tengono più il loro ruolo esatto nel gioco, il baco entra nel frutto. Prendete Luigi XV... su un fascicolo di volgarizzazione storica ho letto che ave­va fatto costruire una botola dalla quale saliva, dal sottosuolo del Trianon, una tavola imbandita, per po­tervi cenare tranquillamente con la signora contessa Du Barry e i suoi familiari, senza i camerieri. La rivo­luzione era alle porte. Da quell'istante, signore, avrei scommesso sulla sconfitta della regalità. Il risultato di quest'innovazione non si è d'altronde fatto aspettare. Il re ha avuto il piacere di trinciarsi il pollo da solo, e diciassette anni più tardi hanno tagliato la testa di suo nipote.

L'autore                           - Vedo che avete un gran senso politico. Vi ringrazio, amico mio.

Papà Romain                   - Sono agli ordini del signore. (Esce)

Il commissario                 - È spaventoso, quel vecchio fossile. Sapete l'idea che mi viene? Che forse è lui che ha am­mazzato la vecchia perché aveva tagliato male il tac­chino.

L'autore                           - Amico mio, dovete capire una volta per tutte che i vostri scherzi puerili non sono più di stagione. In principio li ho tollerati perché bisognava a-descare il pubblico, a qualunque costo, in questa av­ventura un po' rischiosa. Adesso il pubblico ne ha ab­bastanza di antipasti. Ha voglia di veder arrivare il piatto forte, ha voglia di sapere perché l'ho fatto venire.

Il commissario                 - (sogghigna, ha perso ogni rispetto) Anche voi, m'immagino.

L'autore                           - Smettetela d'essere insolente. So benis­simo che cosa ho voluto dire con questa Grotta. An­che se non sono riuscito a scrivere la commedia. Di solito è proprio nelle commedie che non si riesce a scrivere che si hanno più cose da dire. Con più di tre sentimenti, a teatro, ci s'imbroglia...

Il commissario                 - (sempre pili irrispettoso) È noto! Guardate Shakespeare,..

L'autore                           - (punto sul vivo, freme) Shakespeare fa­ceva quel che voleva. E inoltre erano certamente in molti a scriverle. E le sue commedie non sono proba­bilmente neppure le sue. Non è poi tanto da furbi passare per un immenso genio di teatro quando è uno sconosciuto che scrive per voi! Anch'io potrei essere Shakespeare a quelle condizioni.

Il commissario                 - Veramente non volete che vi aiuti?

L'autore                           - (superiore) Vecchio mio, potete essere divertente, in un inizio, tanto per sciogliere l'atmosfe­ra, ma non è con un tipo come voi che farò finalmente del gran teatro. Sono desolato, permettetemi di dir-velo: un personaggio artificiale, un rifiuto di vecchio boulevard; ecco cosa siete...!

Il commissario                 - (toccato) Se la prendete su questo tono... Io, non l'ho detto per offendervi.

L'autore                           - (raddolcito) Non si deve mai pronun­ciare con un certo tono il nome di Shakespeare da­vanti a un autore drammatico. Ci legge subito un'allu­sione offensiva. Noi siamo degli scorticati vivi, sappia­telo. Se credete che sia piacevole dover fare gli esami tutti gli anni! (Si sentono improvvisamente scoppi di voce dietro la cucina. Maria Giovanna è entrata, tra­scinando bruscamente Adele per le braccia. L'autore e il commissario tentano qualche goffo gesto per in­tervenire poi alla fine scompaiono)

Maria Giovanna              - Tu parlerai! Parlerai, piccola di­sgraziata! Vi ho sorpresi che stavate sussurrandovi non so cosa all'orecchio, voi due. È la seconda volta che vi sorprendo. Che cosa ti stava dicendo?

Adele                              - Niente, vi dico. Mi chiedeva il lucido per le scarpe.

Maria Giovanna              - Non ha che da metterle con quel­le dei bambini; gli saranno lucidate.

Adele                              - (vivamente) Gliele lucidavo io, mg non vuole.

Maria Giovanna              - (la guarda, fredda) Gliele luci­davi tu?

Adele                              - Si. Non vuole.

Maria Giovanna              - È un lavoro tuo lucidare le scar­pe? Credevo che quelle dei signori e dei bambini le dovesse pulire Marcello, e Hugueline quelle della Sdol­cinata e della baronessa...

Adele                              - Pensavo che gli desse meno soggezione se lo facevo io. È sempre sporco e poco curato. Nessuno si occupa di lui. Mancano non so quanti bottoni alla sua sottana.

Maria Giovanna              - E gli hai anche proposto di ricu­cirglieli tu, magari?

Adele                              - Si. (Di colpo grida) Voi siete sua madre! Fatelo voi allora, invece di lasciarlo cosi. Voi non ve ne curate affatto. Se avessi un figlio io, se avessi qual­cuno, di mio, di cui occuparmi!

Maria Giovanna              - (dolcemente) Saresti una brava mogliettina, eh? L'aspetteresti dolcemente nella tua cucinetta tutto il giorno per preparargli buoni piatti­ni... E la sera, quando tornasse dal lavoro, lo servi­resti in piedi, guardandolo mangiare... E se la zuppa gli sembrasse buona, sentiresti una grossa bolla tie­pida di felicità scoppiare dentro di te. Ti sentiresti nutrita.

Adele                              - (gli occhi chiusi, dolcemente) Si. (Maria Giovanna la guarda un istante, con odio, rossa di pia­cere, gli occhi chiusi, poi la picchia a tutta forza)

Maria Giovanna              - Disgraziata! Perpetua! Un materasso che basta stenderlo e lei non sa dire di no. È un prete, mio figlio, capisci? Non è fatto per le tue grosse mani rosse, lavascodelle! Mettiti scalza e lava la cucina!

Adele                              - (urla tenendole testa) Non è ancora prete. Me l'ha detto. Può dire di no.

Maria Giovanna              - Lo sarà l'anno prossimo... A me il buon Dio non fa né caldo né freddo, ma vorrei pro­prio vedere che lui dicesse di no!... E magari per una come te. (Riattacca brutalmente) Questa che ha un pulcinella nella credenza che non sa come liberarsene da sola; un pulcinella che neanche si sa di chi sia, e già gira intorno a un altro! Una nullità! Una che non vale neppure la pena di chiederglielo cortesemente, basta entrarle in camera... E ha il coraggio!... E vor­rebbe magari anche cucinare, lei che non sa neppure friggere decentemente il burro e rammendare i vesti­ti, capace solo di tenere il secchio e la scopa in quelle manacce! Lava la cucina, sguattera! Avere un uomo per sé? E chi, signora? Mio figlio. Che io mi sono dis­sanguata per farne un prete come si deve, che è un giovanottello quasi per bene! Un signorino dalle ma­ni pulite! Ma questa sogna!... Cosa si deve vedere! Povera ragazza! (Adele è caduta a sedere, in singhioz­zi, la testa tra le braccia, sulla tavola. Maria Giovanna va al suo fornello) Va'. Ti farò la tisana. Mi fai pietà.

Adele                              - (tra i singhiozzi) Non la voglio. È troppo amara.

Maria Giovanna              - Oggi sarà ancora più amara di quella di ieri, e domani ancora più amara di oggi-Rinforzo la dose ogni volta... Ce ne son già troppi di poveri bastardi sulla terra! Uno di meno, questo è quanto.

Adele                              - (chiede, tirando su col naso) Glielo avete detto?

Maria Giovanna              - A chi? Non ho detto niente a nes­suno. Non ho certo voglia di fare sei mesi di gatta­buia per i tuoi begli occhi.

Adele                              - A lui.

Maria Giovanna              - A un curato?... Ci mancherebbe anche questo. Per chi mi prendi? (Cade sinceramente dalle nuvole) Ma allora, il senso delle convenienze, il tatto, come si dice, ti sfugge completamente? Se gliel'ho detto? M'avrebbe fatto la predica e si sarebbe pro­posto per il battesimo. Non li conosci tu, quei verginelli!... Non capiscono niente di quel che è ragione­vole...

Adele                              - (geme) Se lo sapesse, mi ucciderei.

Maria Giovanna              - (che rimesta la sua tisana al for­nello) Non esagerare. Verrà da sé quando sarai vec­chia e conciata come me... Solo che prima dovrai pi­sciare tutte le tue lacrime, ricevere tutte le botte e adoperare le mani che il buon Dio ti ha fatto per la­vare la cucina degli altri - eternamente - e buttarti sulla tua branda per notti e notti senza piacere col primo che vorrà... sul ventre. Non hai ancora avuto tutta la tua razione, figlia mia. È troppo presto per dire arrivederci. (Torna verso di lei, quasi tenera) Va', bevimi questo, idiota. Dopo ti farò un buon caffè per farti passare il saporaccio. Specialità mia. La tazza che riservo per me.

Adele                              - (beve piangendo come una bambina) È cattivo! E mi fa venire i dolori.

Maria Giovanna              - (dolcemente) Bisogna soffrire per fare un angioletto. (Si è seduta di fronte a lei, i go­miti sul tavolo) Allora non vuoi ancora dirmelo il no­me di chi te l'ha fatta?

Adele                              - (chiusa) No.

Maria Giovanna              - Non è Marcello, ne sei certa? Si caccia sempre tra le tue sottane da qualche tempo. Allora che cos'ha da raccontarti?

Adele                              - (fa un gesto) Oh! Un'altra cosa... È per un posto che mi ha trovato.

Maria Giovanna              - (con dolcezza per farla parlare) Un buon posto? E dove?

Adele                              - In un bar. A Orano.

Maria Giovanna              - (dura, tra i denti) Piccolo spor­caccione! M'occuperò anche di lui. Non mi piacciono i lenoni. Non sei mai stata con lui, proprio sicura? Certe volte non ci si ricorda bene.

Adele                              - (stanca) No, mai, vi dico.

Maria Giovanna              - E quella gran testa rossa del gar­zone del lattaio, sei sicura anche di lui?

Adele                              - No! vi dico... (Piange come una bambina) Oh! È troppo cattivo! E poi stasera mi verranno an­cora i dolori. Preferisco gettarmi a fiume subito con lui, si fa prima...

Maria Giovanna              - (dolcemente) Via, via, un po' di coraggio. Bevi lo stesso, mammina mia... è cattivo ma ti libera... Ancora due tazze e non hai peccato, sei innocente. È cosi bella l'innocenza e non è difficile: basta avere il ventre piatto. (Chiede improvvisamen­te) Non è il barone Jules per caso?

Adele                              - No.

Maria Giovanna              - Allora chi è?

Leone                              - (entra, tornando dalla scuderia, e grida) Salve!

Maria Giovanna              - Salve! Lavati le mani... Non ci sporcare... (Torna ad Adele) Sei certa che non è sta­to quel piccolo suonato? Puoi andare a letto con chi vuoi, capisci. Siamo qui per questo noialtre, per dare piacere come ha previsto il buon Dio... Ma non con­ceder mai a un padrone di farti fare l'amore, o avrai nel cuore un sangue nero che non saprai più sputarlo fuori...

Leone                              - (s'impazientisce all'altro capo della tavola do­ve si è seduto) Allora, il mio caffè?

Maria Giovanna              - Impiccati!, non è pronto. (Gli spinge la pentola della tisana davanti) Tieni. Vuoi un po' di questa? Serve a sgonfiare il ventre. Ti farà be­ne, grassone.

Leone                              - (allontana la pentola con una smorfia) Mi­seria, che puzza.

Maria Giovanna              - Meno di te! Ti sei mangiato an­cora pane e aglio, porco, prima d'andare a curare le bestie? E il tuo litro di rosso nello stesso buco? E dopo viene a chiedere il suo caffè, il ditino in aria co­me sulla terrazza di Tortoni, ah le belle maniere. Un caffè! Perché non gli stuzzicadenti? E dire che fra non molto sono vent'anni che vado a lètto con questa roba... (Se ne va, ridendo, verso il retrocucina)

Leone                              - (le grida sarcastico) Non sputare nella mi­nestra! Sono vent'anni che te lo ripeto...

Maria Giovanna              - (che è nel fondo, a macinare il caf­fè) Olà! Non bisogna più avere troppe pretese, co­me disse mia nonna il giorno che le portarono la bara troppo piccola...

L'autore                           - (che è rientrato durante la scena, in un an­golo, sottovoce, accorato, al commissario) Ma che idiozie!

Il commissario                 - Bah! È tipico di lei.

L'autore                           - Si, ma comunque credono che sia roba mia. è con battute di questo genere che mi sono squa­lificato a Parigi. All'estero è meno grave perché non riescono mai a tradurle, è per questo che ho una re­putazione migliore che in Francia...

Il commissario                 - (osservando i maneggi di Leone) Dite, capo, guardatelo un po', quel sozzone... (Rimasta sola, Adele ha alzato uno sguardo impaurito verso il cocchiere, come una bestiolina in trappola. L'altro strizza l'occhio verso il retrocucina dove Maria Gio­vanna macina il caffè senza poterlo vedere; si alza pe­santemente, prende tra le braccia Adele che fa resi­stenza e l'abbraccia golosamente)

Adele                              - (dibattendosi, a voce bassa) No! No! Non voglio. Non voglio più. (B riuscita a distaccarsi e fug­ge per la scala che dà sulla strada)

L'autore                           - (inquieto) Mah! E veramente troppo di­sgustoso. Io avrei velato tutto questo, sarei riuscito a farlo passare, o perlomeno non avrei mostrato il ba­cio. Ma ora, dopo che hanno parlato per conto loro, fanno quello che vogliono.

Il commissario                 - Siate energico. Intervenite. Mo­strategli il canovaccio della commedia.

L'autore                           - (piagnucoloso) Non esiste.

Il commissario                 - Ma allora... Se è cosi che fate il vostro mestiere! (Marcello è entrato in cucina. Va dal cocchiere che si è seduto al tavolo)

Marcello                          - (sedendosi) Allora?

Il cocchiere                      - Allora?

Marcello                          - Va bene?

Il cocchiere                      - Va bene.

 L'autore                          - (esasperato, nel suo angolo) Che dialogo! (Pausa)

Il cocchiere                      - (dopo forti riflessioni) E a te, va bene?

Marcello                          - Va bene. (Trova qualcosa da dire) Lo sai che cosa ha fatto la Sdolcinata? Mi ha suonato an­cora due volte. Sono scoppiato.

Hugueline                        - (entrando) Il signor barone Jules è ca­scato dal letto! Cioè è ancora a letto, ma vuole il vassoio.

Maria Giovanna              - (grida dal fondo) A quest'ora? Non è pronto.

Hugueline                        - Pare che abbia un allenamento a Maisons. Deve assolutamente essere puntuale cosi vincerà il Gran Premio. Segretissimo. Saranno solo in due a saperlo, col cavallo.

L'autore                           - (in un angolo) Si trascina... Si trascina. Non è interessante, tutto questo.

Marcello                          - (si è alzato) Ma dite un po', certo che è interessante! (A queste parole l'autore, sentendo che non è più padrone di niente, alza le braccia al cielo, impotente, e s'allontana col commissario) Il vincitore del Gran Premio... Non so se ve ne rendiate conto, puttanelle mie. È una fortuna che sia outsider, come l'anno scorso ; gli ha fruttato venti luigi per ogni soldo. Allora, svegliati, Maria Giovanna! Fagli presto il suo succo di frutta. Deve assolutamente essere puntuale; io punto cinque luigi sul colpo.

Maria Giovanna              - (gli grida dal fondo) Cinque lui­gi, piccolo pidocchio, dove diavolo li hai rubati?

Marcello                          - (borioso) Lavoro notturno! (Il piccolo seminarista compare sulla soglia della scala interna. Si ferma sorpreso di vedere tutti. Adele, che è sull'al­tra scala, quella della destra, in alto, lo guarda da lontano)

Il seminarista                   - Scusate.

Hugueline                        - (gii grida) Entrate! Entrate dunque, signor curato. Mica vi mangiamo. (Grida verso il re­trocucina) Maria Giovanna, è il tuo pretino.

Il seminarista                   - Scusate, volevo solamente...

Maria Giovanna              - (appare sulla porta del retrocucina e gli dice soltanto) Risali!

Il seminarista                   - Ma volevo...

Maria Giovanna              - Risali. Tu non sei di quaggiù. Se vuoi qualcosa, non hai che da suonare. Non sono fatti per i cani i campanelli. (Grida ancora, con durezza) Risali, ti dico. (il piccolo seminarista china la testa e risale. Maria Giovanna va alla tavola con l'immensa caffettiera e la posa in mezzo alle tazze preparate da Hugueline) Tenete! Bevete ragazzi miei!

Hugueline                        - E il signor Jules? Ha fretta.

Maria Giovanna              - (con una sorta di grandezza) Fretta o no, prima bevete. Abbiamo già lavorato, noi. Per lui lo allungheremo con l'acqua calda. (Improvvi­samente il buio. Torna improvvisamente la luce. Si di­rebbe il principio della scena che ricomincia. Maria Giovanna e Adele sono sole in cucina. Maria Giovanna la fa bere)

Adele                              - (geme) è cattivo. Ora mi fa venire i dolori.

Maria Giovanna              - Bevi, mammina. Devi, gallinella. Lui comincia a scoraggiarsi, comincia a mollare la pre­da. A non avere più voglia di vivere.

Adele                              - È duro, è lungo...

Maria Giovanna              - (che le carezza dolcemente la testa) Tutto è duro. Tutto è lungo. Fare e disfare. Bevi, gallinella mia. Bevi, mammina mia. Bevi, bevi, vec-chierella mia. Festeggeremo dopo tutte e due... Com­preremo dei dolci.

Adele                              - (dolcemente) Non lo rimpiango, questo. Ma vorrei averne un altro di bambino, che amerei.

Maria Giovanna              - (si siede con un improvviso scora­mento) Oh! Siamo tutte cosi stupide... Non c'è da avere speranza. Si. Preoccupatevi! Rischiate sei mesi per queste graziose creature ; cosi per niente, per ami­cizia; loro, loro stanno già scegliendo il nome del pros­simo... (Le carezza dolcemente i capelli) Allora, non ti decidi a dirmelo il nome di chi te l'ha fatta?

Adele                              - (chiusa) No. Non posso.

Maria Giovanna              - (chiede insidiosa) Perché non puoi, gallinella mia? Perché non hai confidenza nella vecchia? Che invece la sa lunga e tu lo sai che sistema sempre tutto. (In alto, sui gradini, appare il semina­rista, come la prima volta. Si ferma, muto, pallido. Lei gli grida) Eccoti là di nuovo. Vuoi il lucido per le scarpe? O del caffè? O vieni a dirci la messa? Ti ho già detto che ci sono i campanelli per quelli di sopra!

Il seminarista                   - (pallidissimo, mormora penosamen­te) Che cos'è che la costringete a bere?

Maria Giovanna              - (dura) Ti riguarda?

Il seminarista                   - Si. (Discende, con nuovo coraggio. Strappa la tazza dalle mani di Adele spaventata e chiede ancora) Che cos'è che la costringete a bere?

Maria Giovanna              - (impudente, uno strano barlume negli occhi) Assaggia. Vedrai... È una tisana per il mal di pancia. Questa ragazza ha un po' di mal di pancia.

Il seminarista                   - (posa la tazza, tremando di rabbia e di vergogna) È indegno.

Maria Giovanna              - (beffarda) Non si ha più diritto di avere mal di pancia? È un peccato adesso?

Il seminarista                   - (quasi ridicolo con un singhiozzo nella voce) Ah! Non ridete! Vi proibisco di riderne!

Maria Giovanna              - (dura) Sono tua madre. E posso ridere quando e di che cosa voglio, curato.

Il seminarista                   - (sordamente) Si, voi siete mia ma­dre. (Si addolcisce) Lascerò il seminario. La sposerò. L'aiuterò a crescere il bambino. Servire una povera creatura soltanto, e salvarla, è bene quanto servire Dio.

Maria Giovanna              - (viene avanti, pesante) Ascoltami bene, curato. A me le parole non fanno né caldo né freddo. Tu sei un pivellino, con la goccia al naso, e credi ancora che vogliano dire qualcosa; ti passerà, come gli altri. Imparerai che la vita, quella vera, non coincide mai con le parole. Ma, intanto, tu sei mio figlio. Che ti piaccia o no. E io so quel che voglio e quello che non voglio. E sono tua madre.

Il seminarista                   - (grida con tutte le sue forze) No.

Maria Giovanna              - Si. (Lo schiaffeggia due volte con forza e dice semplicemente) La prova! (Prosegue sor­damente) Piuttosto la butto nella Senna, dentro un sacco, come mi preparo a gettare il bastardo di que­sta disgraziata, che lasciarti irretire da lei. Guardami bene. Maria Giovanna se ne fotte delle leggi e delle guardie e persino del buon Dio. Lavare i piatti in pri­gione o continuare a lavarli qui, finché crepo, è lo stes­so per me. Guarda le mie mani. Guardale, le mani di tua madre. (Gliele tende e dice sordamente) Ti giuro che la strangolerò con queste due mani, se occorre, ma che tu non sposerai mai una serva.

Il seminarista                   - Sono un contadino e il figlio di una serva.

Maria Giovanna              - Appunto. Ne basta una. Non ne avrai due nella tua vita. Sono io che te lo dico. Ti ho fatto prete per evitarlo (Dopo una pausa) Risali adesso.

Il seminarista                   - No.

Maria Giovanna              - Non sei abbastanza grande per dire di no a tua madre. (Lo picchia ancora una volta con tutte le sue forze. Lui non si muove, pallidissimo) Risali! (Un silenzio. Non si muove, fissandola. Lei so­stiene il suo sguardo, fiera. Un campanello in cucina. S'illumina la soneria)

Il seminarista                   - (voce bianca) Suonano.

Maria Giovanna              - Per i conti della mattina. Lo so. Scocciatori. Risali. Lassù dirai che hai ricevuto una lettera, che ti richiamano al seminario. Che devi pren­dere il treno stasera.

Il seminarista                   - Sono un contadino come lei. Il bambino vivrà e io la sposerò.

Maria Giovanna              - Il bambino creperà da solo o insieme a lei, ma tu non la sposerai mai. Non posso impedirti di dire laggiù che non vuoi più essere cura­to. Ma posso impedirti di sposare una serva. Ti arruo­lerai. Anticiperai la chiamata. Sarai soldato; ti farà bene e potrai farti tutte le bagasce d'Algeria. Le ra­gazze non mancano, lo sai. Te ne troverò se hai paura di star solo. Ma non questa qui! No. Non una di cui hai pietà, non una che tu credi d'amare, bastardo! (Torna al tavolo) Lasciami fare colazione, adesso.

Il seminarista                   - (grida, commovente, quasi ridicolo) Nessuno può niente contro l'amore!

Maria Giovanna              - (si volta fiammeggiante e stranamente calma) Invece si, smidollato. Io posso. Ho un conto da regolare con lui. E vuoi vedere come re­golo i miei conti? Guarda. (Tira fuori da un cesto un coniglio; vivo) Su, guarda, non è difficile, davanti a te. Non chiedeva che di vivere, anche questa è una crea­tura del buon Dio, innocente quanto un bambino. Ma i signori domani hanno voglia di un paté di coniglio come antipasto, perché è la mia specialità; allora i conigli devono morire e le mani della cuoca sono fatte per questo. Basta un secondo, il tempo che faccia gligligli, che sgambetti un po', l'occhio che non capisce e poi un po' di sangue sulle labbra. (Uccide il coniglio sotto il suo naso) Toh! Eccolo il tuo amore, bastardo! (Gli getta in faccia il coniglio ucciso; lui si asciuga pallidissimo, non si muove; di colpo cade svenuto. Maria Giovanna lo guarda ai suoi piedi e torna alle sue occupazioni, gridandogli semplicemente) Smidol­lato.

Adele                              - (si alza, urlando) L'avete ucciso.

Maria Giovanna              - (asciugandosi le mani) Figurati, idiota! È il coniglio che ho ucciso. Lui è solo svenuto, come una signorina. Ha sangue di sedano nelle vene. Crede di saper abbattere le montagne e non è neanche capace di guardare la vita in faccia, una buona volta.

Adele                              - (si china sul seminarista e lo soccorre) È pallidissimo. Che dobbiamo fargli?

Maria Giovanna              - (tranquilla) Fagli una smorfia. O fagli bere un po' della tua tisana, forse lo libererà dal suo bambino Gesù.

Adele                              - (affannandosi) Bisogna allentargli il col­letto... (Mormora stranamente) Che pelle bianca ha.

Maria Giovanna              - (si è avvicinata e guarda il ragazzo con dolcezza) Si. è un gran bel signorino. Tranne le mani che sono le mie. Ma lui non sa ancora servir­sene. E se l'avessi visto da piccolo... Arrossiva come un'innamorata quando lo lavavo. Ma non succedeva spesso. Anche questo era un piacere proibito. A quei tempi non avevamo neppure il diritto al pomeriggio intero della domenica e lui stava in campagna... Appe­na il tempo d'andare e tornare. (Tocca dolcemente i capelli di Adele che carezza la testa del pretino) Tu sei una ragazza di buon senso, Adele. Siamo simili noi due. I signorini non sono per noi... Io t'aiuto, bambina mia, e rischio grosso ad aiutarti. Ci sono donne che ti avrebbero chiesto bigliettoni da cento e da mille, e ti avrebbero asciugato tutte le tue economie. Per forza, si rischia. Io t'aiuto per niente. Solo che devi aiutarmi anche tu, piccola mia. Devi dirgli che non te ne importa niente di lui. In un paio di mesi gli sarà passata. E anche per te, andrà meglio. Un giorno te lo rinfaccerebbe d'aver sposato una serva. (Adele sin­ghiozza, china sul ragazzo. La vecchia inginocchiata continua a carezzargli la testa quasi teneramente) Hai il cuore grosso, lo so. Anch'io l'avevo grosso. Da scoppiare... Ma non si muore. Non si muore di niente dal momento che sono ancora viva. Soprattutto non per un cuore troppo grosso. (Ha preso la pentolina della tisana sul tavolo) Va'! Finiscila, la tua tisana. Che almeno il tuo ventre sia piatto. (Soggiunge con altro tono) E dopo mi scuoierai il coniglio. Con questa storia io l'ho ucciso troppo presto. Devo prepararlo questa mattina stessa. (Buio improvviso)

L'autore                           - (geme nell'oscurità) Ma insomma, ancora buio, no, Dio buono! Lo detesto! È troppo facile fare un buio a ogni momento! (// commissario ha acceso una sigaretta. Anche l'autore traffica col suo accendino. Si vedono i due volti nell'oscurità alla luce delle fiammelle. Il cattivo umore dell'autore cresce) Ho or­rore di questo genere di teatro! Tutto avrebbe dovuto essere trasfigurato, e disgustoso e poi è l'Arlesiana... Vogliono disonorarmi davanti a tutta Parigi. Comun­que non importa; non firmo la commedia.

Il commissario                 - (sospirando un poco) Ciò non toglie che la scena aveva una sua forza. Sembrava cinema.

L'autore                           - Avete un gusto deplorevole, vecchio mio. Io credo solo alla commedia.

Il commissario                 - (con un certo buon senso) Allora bisognava farla... Dopo tutto nessuno vi ha costretto a immaginare tutti questi personaggi.

L'autore                           - Sono loro che sono venuti a cercarmi. (Grida agli elettricisti) Volete darmi i riflettori del sipario e della ribalta, per favore? E d'ora in avanti aspettate il mio segnale per gli effetti di luce. Che modo è questo di giocare con le luci? Gli attori son fatti per essere visti. La penombra non fa piacere che al regista. (Torna bruscamente la luce, nella cucina non c'è più nessuno) Bisogna affrettarsi, adesso! Le undici passate e ancora tutto da recitare... (Grida ver­so le quinte) Via, in scena, in scena tutti... (Non viene nessuno) Ma dove si sono cacciati? (Esce dietro le quinte, furioso. Il commissario viene avanti e confida al pubblico)

Il commissario                 - Io ho sempre detto che andava a finire male. Non vi interessa, a voi, di sapere chi l'ha uccisa, la cuoca? (L'autore rientra, abbattuto. Il com­missario lo interpella ironico) Allora?

L'autore                           - Dietro le quinte non ci sono. Non so più dove si sono cacciati. Sono scomparsi... volatilizzati. Ecco cosa succede, a non scrivere le commedie!

Il commissario                 - Fortuna che io ci sono ancora!

L'autore                           - (che si è seduto, triste) Si. E poco.

Il commissario                 - Forse potremo finire la serata tra noi due? Conosco un monologo comico d'un autore belga, che è estremamente divertente.

L'autore                           - Ah! No. Vi prego, vecchio mio! Tacete!

Il commissario                 - D'accordo. Sto zitto. Sto zitto. Ma ci sarà un vuoto, per forza. (Suggerisce ancora) Po­treste forse recitare al pubblico il pezzo sul naso. (L'autore lo fulmina con uno sguardo cupo. Entra il seminarista)

Il seminarista                   - Signore, i miei compagni hanno delegato me per parlarvi. Non vorrebbero che equivo­caste sul loro rifiuto. Non hanno nessuna animosità contro di voi, signore, anzi vi devono molto e lo san­no... Ma provano un certo disagio... Si, proprio un di­sagio. Hanno impressione che certe precauzioni - in­dubbiamente lodevoli - per non urtare il pubblico, impediscono loro di essere se stessi fino in fondo. È una storia atroce, signore, disumana, ma dal momento che è incominciata, ora che è vera a metà, se non dob­biamo recitarla fino in fondo, io e i miei compagni, abbiamo la sensazione che sarebbe meglio tornare al nostro nulla. Ridiventare quelle idee informi, quelle possibilità vaghe che eravamo prima che voi pensaste a noi... Forse sarebbe stato meglio che questa storia restasse come una medusa senza forma galleggiante tra due corsi d'acqua, nel vostro subconscio... Si, for­se sarebbe stato meglio per tutti che noi non fossimo stati trascinati chissà dove, incollati a lei... Ma ormai siamo qui, signore, abbiamo cominciato a vivere e la cosa va considerata. Per quanto mi riguarda, benché possa soffrirne moltissimo, è mio dovere far tutto quel che occorre in una situazione come questa. Non biso­gnava inventare me, questo destino e questa madre, e far nascere la mia vergogna. Non dovevate carezzare nella vostra mente, tra i vari possibili, quest'atroce minuto che mi resta da vivere... Per voi, non è che un capriccio della vostra immaginazione, stavate facendo il vostro mestiere, cercavate di costruire una comme­dia. Forse non avreste dovuto, ma l'avete fatto. Allora, adesso dovete lasciarci. Non dovete intervenire più sino alla fine. (Una pausa, poi calmo) Se siete d'ac­cordo per lasciarci fare, salgo di sopra e riprendo la scena coi bambini ; dopo tutto deve svolgersi in ordine. Se no rassegnatevi alla nostra scomparsa.

L'autore                           - (ha ascoltato, il viso tra le mani; ora, sen­za muoversi, strano) Va bene. Andate... Ma in real­tà... volevo dirvi... prima che non avrei dovuto, forse... e poi... (D'improvviso) Vi chiedo scusa, piccolo mio. Sapete, si cerca, si cerca, si rimuginano idee...

Il seminarista                   - (dolcemente) Ormai il male è fat­to, signore. E chissà, forse è preferibile questa condi­zione al non vivere del tutto. (Esce. La parte bassa della scena è al buio. La parte alta s'illumina dolce­mente. Si scoprono i due bambini inginocchiati per le preghiere della sera davanti alla tavola ingombra di libri e di quaderni. L'abate li ha raggiunti e si ingi­nocchia vicino a loro. La contessa entra in silenzio e ascolta le loro preghiere. In basso il commissario si è un poco allontanato ; s'intuisce, solo, nell'ombra l'au­tore, sulla sua sedia, che li guarda e li ascolta, an­gosciato)

 I bambini                        - (insieme) Mio Dio, noi vi chiediamo che tutte le cose restino pure e buone come Voi le avete create. Che conserviate sempre la salute... (Si fer­mano)

II seminarista                  - (suggerisce) e la pace dell'anima...

I bambini                         - (riprendono) E la pace dell'anima al nostro caro papà e alla nostra cara mamma. Vi chie­diamo anche la vostra... (Si fermano)

II seminarista                  - (suggerisce) Speciale benedizione...

I bambini                         - (riprendono) La vostra speciale benedi­zione per il nostro fratellino Timoteo appena nato, perché voi Io colmiate...

II seminarista                  - Di tutti i Vostri doni più preziosi...

I bambini                         - Di tutti i vostri doni più preziosi. Cosi sia. (Si alzano rumorosamente)

II maggiore                     - Mamma ci dai il permesso di giocare un po' prima di andare a letto? Siamo stati buoni.

Il più piccolo                   - (fa eco) Siamo stati buoni.

La contessa                     - Salite a giocare in camera vostra per cinque minuti e senza far rumore per non svegliare il fratellino; dopo vi farete spogliare da Nounou...

Il maggiore                      - (uscendo) Grazie, mamma... Mamma, diteglielo voi che abbiamo già detto le preghiere. Non vuole mai crederci, e ce le fa ripetere. Che barba!

Il più piccolo                   - (fa eco) Che barba!

La contessa                     - (sorride) Si, glielo dirò. (Sono usciti. Il seminarista, pallidissimo, ha raccolto i libri; si ferma)

Il seminarista                   - Posso parlarvi un momento, si­gnora? (La contessa, che stava uscendo, lo guarda un po' sorpresa dal suo tono)

Il seminarista                   - Signora, non posso più far recitare le preghiere ai bambini, io stesso non posso più pre­gare.

La contessa                     - (interdetta, mormora) Signor curato...

Il seminarista                   - Voi siete buona, signora. Lo so. Sono forse molto giovane, impressionabile e certamen­te un po' impacciato... (Soggiunge) Forse anche inde­gno. Non posso più occuparmi come dovrei di quelle due giovani anime. Desidero prendermi la libertà di chiedervi... (La voce gli muore, è come sopraffatto)

La contessa                     - (dolcemente) Tornate in voi, signor curato. Mi sembrate molto turbato. Da parte nostra noi siamo contentissimi di voi e della vostra influenza sui bambini... Siete stato accolto qui dietro raccoman­dazione d'una persona che conosciamo e stimiamo da molto tempo.

Il seminarista                   - (si è ripreso) Certo è la reazione di un uomo molto giovane e di modeste origini, sinora... C'è nello spettacolo di questa pace, di questa elicità, di questa chiarezza          - nello spettacolo di que­sti due bambini buoni e belli, miracolosamente pro­tetti da ogni sozzura, dall'idea stessa di ogni sozzura, da ogni contatto con l'orribile realtà delle cose, e questo cosi vicino, a due passi, da quel che la vita può offrire di più laido e di più sordido - mescolato ad essa in qualche modo... e destinato a ignorarla per sempre... c'è qualcosa... (Cerca le parole angosciato) di spaventoso, si, di spaventoso, di beffardo, che mi farebbe dubitare della mia vocazione.

La contessa                     - Non vi comprendo, signor curato.

Il seminarista                   - (come a se stesso, smarrito) Se devo ugualmente essere prete, chiedo di servire nel­la più povera, nella più diseredata delle parrocchie per mescolarmi a loro, mettermi più in basso di loro. Voglio che per una volta si siedano a tavola e sia io a servirli, io a lavare i loro piatti unti, nel puzzo e nella sporcizia che si appiccica alle dita. (All'improv­viso, istericamente) E tuttavia io odio tutto ciò! Odio i poveri! Odio la miseria, mi ripugna. (Si è accasciato singhiozzante, la testa sulle ginocchia della contessa, interdetta, che ha un gesto indeciso verso di lui e mormora)

La contessa                     - Siete realmente molto giovane, si­gnor curato. Fatevi coraggio. O piuttosto piangete, vi farà bene. Poi chiacchiereremo con un po' di confidenza insieme e forse potrò aiutarvi. Per lo meno farò del mio meglio, se riuscirò a capirvi...

Il seminarista                   - (alza la testa e la guarda, socchiuden­do gli occhi) Non potrete. Siete buona, ma non po­trete. Non si può. Signora, signora, da basso, al vostro servizio, c'è una ragazza poverissima... Voi probabil­mente non riuscite neppure a concepire quanto di lai­do può accumulare la crudeltà degli uomini e della vi­ta sopra un solo essere che resta sempre ugualmente puro e innocente nella sua vergogna. Come dovremmo essere tutti. Quelli che non sanno e anche quelli che le hanno fatto del male. Ma voi, voi forse potete. Voi do­vreste trovare qualcosa in fondo al vostro cuore. Qual­cosa di vero, qualcosa che non assomigli a quelle buo­ne parole, a quegli aiuti irrisori di denaro con i quali ci si sbarazza dei poveri. Oh... signora! Se voi poteste inventare qualcosa che facesse sorridere una buona volta la spietata giustizia di Dio... (È ricaduto, in sin­ghiozzi, la testa sulle ginocchia. La contessa sta per scoppiare in lacrime e ripete lo stesso gesto timido e vago verso la sua testa, parlando dolcemente)

La contessa                     - Voi mi commuovete infinitamente, signore, anche se non vi comprendo ancora bene. Vi prometto che mi sforzerò di cercare con voi se posso fare qualcosa per la persona di cui mi parlate... Spie­gatemi bene. Chi è? (La luce in alto è diminuita fino a far appena indovinare i personaggi. Escono. S'accen­tra sull'autore e il commissario)

Il commissario                 - (sempre commosso e sospirando dopo questo genere di scena) Allora è qui che lei decide, se capisco bene, di scendere a proporre alla piccola di far da madrina al suo ultimo nato?

L'autore                           - (sordamente, come vergognoso) Si. È spaventoso.

Il commissario                 - Perché? Era abbastanza carina come idea.

L'autore                           - (dolcemente) No, vecchio mio. Voi deci­samente non capite mai molto; era orribile. (i dome­stici sono entrati in basso nella semipenombra. Si mettono in fila, come in attesa. L'autore si alza e tra­scina il commissario) Venite. Lasciamoli. Non voglio vedere questa scena. È troppo penosa.

Il commissario                 - Ma insomma, ditemi, siete voi o no che avete inventato questa storia? (L'autore ha un gesto disarmato. Escono. Sopra, la luce è diventata fortissima. Entra energicamente la contessa, seguita dal conte. Egli è vestito da passeggio, il bastone in mano. Stava uscendo)

Il conte                            - Non farete questa pazzia!

La contessa                     - Perdonatemi, amico mio, ma la farò.

Il conte                            - (sforzandosi alla calma) Evangelina, io non vi ho mai ordinato qualcosa e vi chiedo perdono in anticipo di ciò che può esserci di odioso, e, temo, di ridicolo, in questo mio nuovo atteggiamento di pa­dre di famiglia, ma si tratta di mio figlio. È un pro­blema che mi riguarda quanto voi e vi proibisco di fare quel che avete in mente.

La contessa                     - (dolcemente ma con fermezza) Scen­derò e lo farò. Scusate la parola forte, ma è Dio che me lo ordina, amico mio.

Il conte                            - (alza le spalle un po' secco) Dio non ha mai ordinato niente di grottesco a nessuno! Vi siete lasciata suggestionare da un giovane troppo roman­tico, sulla cui falsa spiritualità ci sarebbe molto da ridire... Evangelina, per la prima volta mi deludete. Siete molto giovane, forse io non sono cosi divertente come credo di essere, dopo tutto, e può darsi che vi annoiate... Questo posso capirlo. Avrei ammesso che desideraste divertirvi, anche senza di me. Entro certi limiti tutto è ammissibile. Ma che con il pretesto di non saper che fare della vostra personcina, cadiate nel bigottismo, non lo tollererò! Prendetevi un amante - un amante adeguato - se avete assolutamente bi­sogno di qualcuno per occupare le vostre giornate, santo cielo... Mi vergognerei meno.

La contessa                     - (sorride, dolcemente) Ma mi vergo­gnerei io, amico mio. Ho idee meno larghe delle vo­stre. Tuttavia, per una volta, e su questo punto pre­ciso, forse perché questo pretino mi ha fatto capire qualcosa che neppure immaginavo, le avrò più larghe delle vostre. So bene che la vostra vanità e il vostro orgoglio   - perdonatemi la parola - possono essere facilmente feriti. Ma da parte vostra non deludetemi per la prima volta. Lasciatemi scendere senza opporvi e permettetemi di fare quello che ho in mente.

Il conte                            - (di ghiaccio) È impossibile.

 La contessa                    - Perché è impossibile? Voglio offrire un grande dono a questa ragazza. Voglio che per una volta, forse per una sola volta, ma sarà avvenuto, le cose vadano diversamente da come sono sempre an­date.

Il conte                            - Evangelina, voi non siete soltanto una ingenua. In questo momento siete ridicola. E non esiste peccato più imperdonabile. Vostra zia de Guermantes doveva essere la madrina del neonato.

La contessa                     - Mia zia de Guermantes è una gran signora. Capirà che c'era qualcuno al di sopra di lei davanti a Dio che doveva onorare di più Timoteo. La più povera delle ragazze di questa casa. E sono certa che s'inchinerà volentieri. (Più seria all'improvviso) Sono credente io, Timoteo, ed è la prima volta che   - aiutata da quel giovane prete - sento che sto per fare qualcosa che rassomiglia un po' a quel che ci ha do­mandato il Cristo. Soltanto un gesto.

Il conte                            - (le grida, irritato) E sarà precisamente solo un gesto! E un gesto teatrale, che è peggio. Una adulazione del vostro orgoglio.

La contessa                     - (sinceramente sorpresa) Del mio or­goglio? Sto per chiedere a una domestica di essere la madrina di mio figlio al posto di una duchessa, e que­sto sarebbe orgoglio?

Il conte                            - Della peggior specie! E state ammetten­dolo voi stessa empiendovi la bocca della parola du­chessa e della parola domestica. I poveri non sanno che farsene delle vostre parole e delle vostre buone in­tenzioni. Non sanno che farsene della vostra grande anima piena di tenerezza. Non sanno che farsene della vostra carità. Non hanno che un desiderio, un'esigen­za, d'essere rispettati, anch'essi. I poveri sono molto puntigliosi sull'etichetta, molto più di noi. E non ci so­no sfumature che gli sfuggano: con la vostra pagliac­ciata potreste onorare solo un servo di professione e d'animo come Romain. Se questa ragazza ha qualche qualità voi la ferirete, molto semplicemente.

La contessa                     - Che cosa ne sapete? Voi siete un uomo duro e frivolo. Non avete cuore.

Il conte                            - (secco) Ho il cuore che posso, mia cara. Ma quel che vi sto dicendo, ho pagato molto caro per saperlo. È per questa ragione che dovreste farmi la grazia di ascoltarmi. Vi ho già detto che l'esperienza che voi volete tentare, io l'ho già fatta. E che è stata una sconfitta.

La contessa                     - (con ironia quasi cattiva adesso) Ami­co mio, temo che andremo incontro alle peggiori vol­garità se cominciamo a discutere insieme su quest'ar­gomento. Ma non è perché avete avuto un'avventura - non siete né il primo né l'ultimo e dopo tutto non è un titolo straordinario - con una cameriera della vostra prima moglie, vent'anni fa, che si deve credere che siate il solo qualificato a sapere quel che pensano i poveri, che sono molto migliori e più semplici di voi, ve l'assicuro.

Il conte                            - Non sono né migliori né più semplici. Sono profondamente diversi, ecco tutto. E lo sanno. È per questo che ci chiedono di comportarci come si conviene. (Si smarrisce) Ho amato Maria Giovanna. La contessa (voltandogli la testa) Se volete, non riparliamone. È odioso.

Il conte                            - (duro) È odioso, ma o ne parleremo ora o mai più. Ho amato Maria Giovanna. La contessa non era che la moglie che mi aveva dato mio padre. Lei è stata la mia vera moglie per cinque anni. Vi rispar-mierò i particolari.

La contessa                     - (tesa) Farete bene.

Il conte                            - Con una coscienza cosi acuta - crede­telo- come ho adesso della follia che stavo per com­mettere, io volevo partire, nascondermi da qualche parte con lei e vivere. Il mio patrimonio era allora interamente nelle mani di mia moglie, come la mia fortuna attuale è interamente in mano vostra ; di mio non ho mai posseduto che il nome e una quantità di cravatte. E sono probabilmente un incapace. Ma di­pingevo... Si, voi non l'avete mai saputo, non ho mai più dipinto, dopo, ma dipingevo. E Lautrec, che era quasi mio cugino, m'assicurava che avevo talento. Dis­si a quella... vedete, cerco anch'io le parole, dissi a quella ragazza - è la parola giusta - che avrei potuto guadagnarmi la vita, non vendendo le mie tele, non avevo tante pretese, ma forse dando lezioni di disegno da qualche parte, all'estero. Questa ragazza - dunque - che non aveva niente da perdere e che mi amava - credetelo se ve lo dico oggi - questa ragazza mi disse di no. Lei. Proprio lei mi disse che non dovevo farlo e perché. Fu lei che mi disse che non eravamo dello stesso mondo - orgogliosamente - e che l'amore era solo un fatto banale. E da quel giorno, ha rotto con me. E perché fosse ben chiaro, proprio definitivo, si è data al garzone di stalla che la corteggiava. Deve essere ancora la sua amante, è una ragazza che non amava i cambiamenti. Lui è diventato il vostro cocchiere, se volete saper tutto. E da allora è rimasta giù e non ho mai potuto rivederla.

La contessa                     - (sordamente, dopo un silenzio) E siete vissuto al piano dei padroni, lasciandola in basso. (Dopo una pausa) Mi fate orrore.

Il conte                            - Ho vissuto come voi dite. E nel modo migliore possibile, come penso sia mio dovere. E sog­giungerò, mio dovere verso di lei, che l'aveva voluto nell'ingenuo orgoglio del suo sacrificio. Ho creduto che tutto quel che potevo darle - da eguale a eguale - fosse di rispettare la sua decisione. E di lasciarla dove desiderava restare.

La contessa                     - (mormora ancora) Che orrore.

Il conte                            - (freddo) Si. Che orrore. Ma è cosi. È questa ragazza che mi ha insegnato che c'erano - perdonatemi la parola grossa, ho coscienza d'essere un po' grottesco in questo momento - delle anime - (cerca la parola, per pudore) molto nobili, poche ma ce ne sono, capaci di guardare in faccia la realtà. (Im­provvisamente tace. Si accende un sigaro, si siede su una poltrona, tornando ironico e leggero) Ora vi ho avvertito. Non posso prendervi con la forza o chiu­dervi dentro a chiave.

Il seminarista                   - (ha bussato alla porta, appare, timi­do, ma con gli occhi che brillano) Signora contessa, ci attendono.

La contessa                     - (bruscamente) Scendiamo. (Esce con lui. La luce è aumentata in basso dove i domestici sono sempre in attesa)

Papà Romain                   - Un po' di pazienza, amici miei. Il signor curato è salito a cercarla. La signora contes­sa non può tardare. (Dopo una pausa, si volta, ri­gido, verso Maria Giovanna) Signora Maria Giovanna, faccio questo mestiere da troppo tempo per non sa­pere per esperienza che la casta delle signore cuoche è particolarmente gelosa delle sue piccole prerogative. E che è una tradizione nelle migliori case di passar sopra alle loro stranezze, per un riguardo al loro ta­lento. Nondimeno, per l'ultima volta, volete avere la cortesia di mettervi la cuffia?

Maria Giovanna              - No.

Papà Romain                   - Eppure quando salite la mattina coi conti ve la mettete.

Maria Giovanna              - Faccio quel che voglio. Qui in casa mia non l'ho mai messa.

Papà Romain                   - (constata, sinistro) Ci sarà dunque una lacuna. (In questo momento per la scala grande si vede passare un corteo, la contessa, la balia col neonato, il seminarista e i bambini che discendono in cucina. Adele, che faceva sforzi coraggiosi per restare in piedi cade all'improvviso semisvenuta nelle braccia degli altri)

Adele                              - Credo di non poter restare in piedi ancora.

Papà Romain                   - (si precipita, mugolando) Via, che diamine! Cosa sono questi modi! Mentre sta scen­dendo la contessa. Alzatevi! In piedi! Reggetevi in piedi! (La schiaffeggia furiosamente per farla tornare in sé. Un completo disordine regna in basso. Tutti circondano Adele svenuta. Papà Romain, invadente, saltella a destra e a sinistra per cercare di mettere ordine nel suo mondo) Ai vostri posti! Ai vostri posti! Ai vostri posti subito! (Ed è in questo momento che, in corteo, la contessa coi due bambini, seguita dalla balia infiocchettata che porta cerimoniosamente nelle braccia un neonato sepolto in una nuvola di trine, ap­pare nella cucina; dietro a lei il seminarista commos­so sino alle lacrime)

 La contessa                    - (si ferma, stupita) Ma cos'ha questa ragazza?

Papà Romain                   - Un incidente, signora contessa. Non è nulla. Assolutamente nulla. L'emozione. Vedete, sta rinvenendo. In piedi, voi! In piedi! E al vostro po­sto!... (La contessa, nella curiosità generale, va verso Adele che è stata rimessa in piedi al suo posto alla meno peggio, tutta stordita; le si ferma davanti, piena di gentilezza)

La contessa                     - Signorina, sono discesa per vedervi. E ho voluto che tutti i vostri compagni vi fossero at­torno. Guardate questo bambino, signorina, è il mio ultimo nato. Si chiama Timoteo, come suo padre. È il nome che il signor conte ed io gli abbiamo scelto alla nascita. Ma deve avere un altro nome, che sarà anche il nome di battesimo e il suo secondo nome, ed è a voi che voglio chiedere di sceglierglielo. (Adele la guarda stordita. La contessa riprende) Signorina, sono scesa per chiedervi se vorreste accettare d'essere la madrina di mio figlio. (Un silenzio stupefatto nella cucina. Adele la guarda senza rispondere. La contessa sorride) Lo so. Siete sorpresa. Ma può essere una sor­presa solo per chi non sa che il coraggio, l'umiltà di cuore e la volontà di fare sempre bene il proprio la­voro nel posto che Dio ha scelto per noi, sono le più grandi virtù che dobbiamo onorare. Sono certa che voi sapreste aiutarmi a insegnarle al nostro piccolo Timoteo, che più tardi sarà fiero d'avere tale madrina. (Adele la guarda, sempre smarrita. La contessa con­tinua gaiamente in mezzo al disagio crescente, tranne che in papà Romain che chioccia di piacere come un tacchino) Dovete far un po' di conoscenza voi due. Dovete prenderlo in braccio. (La contessa ha preso il neonato dalle braccia della balia e l'ha messo in quelle di Adele che guarda, stordita, muta; poi all'improvviso emette un urlo bestiale, restituisce il bebé nelle brac­cia della contessa e fugge correndo nel retrocucina)

Papà Romain                   - (mugola) È insensato. È insensato. Un tale onore. Riprendetela! Riprendetela immedia­tamente. (Quelli che si sono precipitati dietro Adele che singhiozza accasciata sul tavolo del retrocucina, gridano)

Voce                                - Non vuole venire. Dice che non vuole venire.

Papà Romain                   - (al limite d'una crisi isterica, come un fiammeggiante giustiziere) Legatela mani e piedi! Che la si trascini qui. Corda al collo. Prego la signora contessa d'accogliere tutte le nostre scuse. Di tutti! Questo incidente ci disonora tutti. È uno scandalo senza precedenti! Senza precedenti!

Maria Giovanna              - (ha fatto un passo, scartando gli altri, e grida proprio in faccia alla contessa) Vo­lete o non volete lasciarla in pace questa poverina?

Papà Romain                   - (con un urlo atroce) Signora Maria Giovanna! Alla signora contessa!... (Si volta verso la contessa; ansima, livido) Signora contessa... signora contessa... prego la signora contessa d'accettare le mie dimissioni. Sono disonorato. (Esce come un pazzo, forse va a impiccarsi. Gli altri, un po' marmittoni, come si dice in gergo militare, sono riusciti a ripor­tare Adele e la trascinano davanti alla contessa. Adele grida, si dibatte come un'ossessa)

Adele                              - No, non voglio vederlo, non voglio vedere il suo bambino. (La reggono davanti a lei, e Adele grida alla contessa come una pazza) Ho un bambino nella pancia che sto facendo abortire. È per questo che sono svenuta.

La contessa                     - (balbetta, senza capire) Un bambino? Che bambino?

Adele                              - (improvvisamente grida, volgare, scarmiglia­ta) Un bambino non nato, identico al vostro, solo che è mio e del cocchiere! Del cocchiere che mi ha violata una sera nella scuderia dove ero andata a por­targli un secchio. Nel fango! Sono tornata col vestito pieno di fango e gli altri ridevano perché credevano che fossi caduta nel fango e che piangessi per questo. (Grida a Leone che indietreggia alle spalle degli altri) Non la scampi! Sei più coraggioso quando sei solo con me, vero? Dietro le porte, contro i muri, ogni volta che può incastrarmi, mi prende. E non posso neppure gridare perché ho paura che gli altri sappiano e ho troppo vergogna per la sua donna. E puzza! Mi disgusta! E mi fa male e non l'amo! (Grida, misuran­do tutti gli altri con una nuova grandezza da regina) Non amo nessuno io! Neppure lei che fa finta d'essere buona e mi fa le tisane per abortire, tra uno schiaffo e l'altro. Quelli che mi picchiano non li amo! Neppure lui col suo buon Dio, lui che diceva d'amarmi e non ha avuto il coraggio di tirarmi fuori dalle grinfie di sua madre, lui che non ha saputo trovare altro che andare a piangere lassù perché voi mi portaste il vo­stro fagotto. Quelli che non hanno coraggio io non li amo! (Li guarda tutti come una bestiola che sta di fronte ai suoi nemici) Vi odio tutti! Mia madre mi ha mandato a servizio a dodici anni. Non glielo perdo­nerò mai. E il mio primo padrone, già ci provava, al­lora la padrona mi batteva, ma mi teneva lo stesso perché mi dava solo da mangiare e non poteva trovare che me a quel prezzo per picchiarmi e farmi lavorare - dalle cinque del mattino - si, signora, dalle cinque alle undici di sera, e senza contare le domeniche, per­ ché c'era il pranzo dei cacciatori. Era stato convenuto cosi con mia madre, che era ben contenta di sbaraz­zarsi di me perché mio padre, quand'era ubriaco, mi guardava anche lui un po' troppo. (Grida, accesissi­ma) Anche questo non lo perdonerò mai, a tutti! (Li guarda tutti, pietrificati e muti, poi fissa il seminarista, col suo visetto deformato e imbruttito dall'odio) E dalle monache dov'ero prima, pretaccio! Era ancora peggio perché io ero la più piccola. Per punirci d'aver risposto male alla badessa, ci mettevano in cortile, d'inverno con il sedere nell'acqua ghiacciata, e dove­vamo restarci, mentre le altre ci sfilavano davanti ri­dendo, il culo nell'acqua. (Grida alla contessa, livida, come se questa parola fosse un esorcismo) Il culo nel­ l'acqua, signora contessa! Il culo nell'acqua. Il culo. Il culo. Il culo. Capite? E per di più bisognava chie­dere perdono al buon Dio. (Grida, ardente) Io, io non lo amo il buon Dio!

Maria Giovanna              - (si avvicina e le dice sordamente)

                                        -      Smettila adesso.

Adele                              - (ha un brivido, ma riprende a voce più bassa)

                                        -      ...Dopo, sono stata dal farmacista. Non mi faceva niente, quello li; ma sua moglie mi trovava troppo carina, allora aveva inventato qualcosa... Avevo quin­dici anni... (E improvvisamente s'affloscia dolcemente come uno straccio singhiozzante per terra in mezzo allo spavento generale. C'è ancora un minuto di stu­pore, nessuno osa muoversi, poi l'autore balza dalle quinte urlando)

L'autore                           - Fermatevi! Fermatevi! Fermatevi! È impossibile. (Rivolgendosi alla contessa) Risalite, si­gnora. Risalite di sopra; risalite alle vostre stanze, al­trimenti svenite anche voi. Avevo previsto quel che stava per accadere, l'avevo sempre detto che questa scena non doveva aver luogo! Era la porta aperta alle peggiori volgarità, alla sporcizia. (Prende il bebé dalle sue braccia e lo restituisce alla balia) Riprendetelo voi. E seguite la vostra padrona. Risalite, signora. Do­vete risalire e dimenticare questa scena penosa. Le vostre intenzioni erano buone, garantisco io. Risalite di sopra, risalite... (Vede i bambini ed esclama) E davanti ai bambini! È deplorevole e la colpa è inte­ramente mia. Non avrei dovuto cominciare. (Ha spin­to fuori la contessa. Rivolto agli altri che conducono Adele) Conducetela a riposare nella sua stanza, que­sta povera piccola, e datele da bere qualcosa di caldo. (Esce con loro, mormorando) Povero gattino, non bi­sogna volergliene. Non avremmo mai dovuto inflig­gerle questa prova. È una crudeltà inutile. (Grida, ridicolo) Inutile! È una storia che non sarebbe mai dovuta esistere, ecco tutto! Non posso credere che la vita sia altrettanto brutta. In fondo c'è tanta brava gente dappertutto. È un dovere dirlo e scriver comme­die dove ci sia brava gente e buoni sentimenti. (Urla come un pazzo) Dobbiamo lavorare coi buoni senti­menti, solo coi buoni sentimenti. E tanto peggio per la letteratura. Non ci sono che i letterati a immaginarsi che sia cosi importante. (Tutti sono usciti. In basso sono restati solo tre personaggi, faccia a faccia, guar­dandosi: il piccolo seminarista, Maria Giovanna e Leone. Il commissario li spia da un angolo con l'oc­chio penetrante)

Maria Giovanna              - (piano) Porco.

Leone                              - D'accordo. Tu hai fatto di meglio. E prima.

Maria Giovanna              - Non quando c'eri tu. E poi te l'ho detto, io ero in regola.

Leone                              - (sogghigna) Lo so! I resti, per la cucina. Come al solito. Tu ti sei mai chiesta se non ne scop­piavo?

Maria Giovanna              - Anche troppo buoni per te, i re­sti! Ti sei mai guardato vicino a lui?

Leone                              - Non sono mai stato vicino a lui. Nella car­rozza gli volto il culo e lui non è mai entrato nella scuderia.

Maria Giovanna              - Fare questo a me, tu, con quella sgualdrina. Sotto i miei occhi (Grida, superba) In casa mia!

Leone                              - (faccia a faccia con lei, iroso) Tu sei una serva qui, come le altre. Non è casa tua. E avevo il mio rancore da smaltire. (Si guardano ancora in si­lenzio. Lui continua sordamente) Se vuoi saperlo, non è la prima. Tutte, le ho avute, le ragazze che sono passate in cucina. Giulia, Irma e prima l'altra piccola alla quale tu hai fatto pure andar giù il vitello: era mio, anche quello. Era per me che rischiavi la galera.

Maria Giovanna              - (tra i denti) Maiale. Tu sai che con me si paga in contanti. (Afferra un coltello sulla tavola. Leone tira fuori il suo)

Leone                              - Attenzione, pochi scherzi. Ne ho uno anch'io. Se pungi, pungo anch'io. Ti ho avvertito: da uomo a uomo.

Maria Giovanna              - (con un sorriso terribile) Credi di farmi paura?

Il seminarista                   - (urla improvvisamente) Ferma­tevi!

Maria Giovanna              - (si volta verso di lui come se lo scoprisse) Ah sei là tu? Risali. Non è per te, il se­guito. Tu non sei di qui. Tu sei figlio dell'altro, di sopra. Ti ho avuto da lui dietro una porta, anch'io. Va' a cercarlo. Sei un bastardo, tu. Non appartieni né a quaggiù né a lassù. Per essere uno di quelli di sopra, dovresti avere un nome. E non hai che il mio. E per essere di quaggiù, ti manca qualche altra cosa, prete. Sali. Ti dico che quel che sta succedendo non è per te. (Cominciano a girare l'uno attorno all'altra, come due fiere)

Il seminarista                   - (grida) Non avete il diritto! Siete mia madre! Datemi il coltello! (Il seminarista si è lanciato su Maria Giovanna per disarmarla e grida) Siete mia madre! Siete mia madre! Siete mia madre! (Buio improvviso. Nell'oscurità, si sente il commissa­rio che ha seguito la rissa, molto eccitato, che grida)

Il commissario                 - Luce! Luce, Buon Dio. Proprio quando si stava per sapere! (La luce torna quasi su­bito. Tutti i domestici, tranne Romain e Leone, sono attorno a Maria Giovanna distesa sulla tavola di cu­cina. Il seminarista e il commissario sono scomparsi)

Maria Giovanna              - No. Voglio curarmi da sola. Portatemi i miei mucchi di stracci. Quelli che sono nella credenza, in basso. Meglio di un cuscino, per sostenermi la testa. Tanto noi, quaggiù, non ne abbia­mo di cuscini. E poi, ho freddo. Mettetemi sopra quel pezzo di seta rossa. (Alessio va alla credenza e torna portando un mucchio di stracci multicolori. La coprono. Tiene una corona di regina in mano. Maria Gio­vanna ha un sorriso debole. Dice dolcemente al ra­gazzo) Sono stata regina a vent'anni, piccolo. Posala vicino a me, la mia corona. Le più belle natiche di Nizza, dicevano. Hugueline, tu che sei la meno stupida, nel cassetto di destra dell'armadietto dove sono le mie calze e i miei bigodini, c'è una scatola, una vec­chia scatola di unguento, tutta arrugginita. La vedi?

Hugueline                        - Si.

Maria Giovanna              - Portamela. Prendi la pomata che c'è dentro e mettimela sulla piaga. Non ti preoccupare del sangue. È buono, il sangue. È fatto per colare. Lava. (Geme) E poi stringi forte, con uno straccio; si, non importa quale. Sono sciocchezze, i microbi. Li hanno inventati, ma non ne sanno niente, quegli asini. Da quando gli uomini si bucano la pelle, non hanno certo aspettato loro per curarsi. Non è la prima piaga che la vecchia farà guarire a modo suo. Una volta non si chiamava mai il medico. Ero io che curavo tutto, i colpi degli zoccoli delle bestie e i colpi di coltello degli uomini.

Hugueline                        - (stringendo) Vi fa male?

Maria Giovanna              - (che stringe i denti) Me ne in­fischio d'aver male. Lo mando a farsi fottere, io, il male. Sono forte. Mio padre, di', Hugueline, mi senti?... Mio padre...

Hugueline                        - Si.

Maria Giovanna              - Era grande e forte come me. Non aveva paura di niente. Fabbro, era. Un uomo. Aveva imbroccato un numero sbagliato. Ha fatto sette anni. Durante la guerra di Crimea gli hanno amputato una gamba, senza niente. Ha chiesto solamente di te­nersi la pipa e quando l'operazione è finita ha dato dell'idiota al maggiore. (Si sente tra le quinte: "Ma si, di qua, per di qua! Noi perdiamo tempo e voi cer­cate di perdere ancora più tempo! è un dovere d'u­manità, amico mio. D'altra parte, ne avremo per cinque minuti." Uno scalpiccio: il barone e la baronessa ules scendono dalla scaletta in costume da ballo)

La baronessa Jules           - Allora, mia povera Maria Gio­vanna, pare che non stiate del tutto bene?

Maria Giovanna              - (brontola) Sono voci. Sto be­nissimo.

Il barone Jules                 - Mio Dio, com'è assurda questa storia! Non si dovrebbe scherzare con le armi da fuoco. Fa cosi presto a capitare un incidente. Era una discussione, vero?

Maria Giovanna              - Si. Uno scambio d'idee. Ma nean­che. Siete proprio buona d'esservi disturbata, signora baronessa Jules, e anche voi signor barone. Passerà.

Il barone Jules                 - (adeguandosi a quest'idea) Si, è vero. Passerà. Qualche giorno di riposo e scomparirà tutto.

Maria Giovanna              - (dolcemente, beffarda) Senza con­tare che dovete esser in ritardo, come d'abitudine. Siete cosi bello.

Il barone Jules                 - (ridendo) Benedetta Maria Gio­vanna. Indovina sempre tutto. Mezzanotte meno do­dici, mia cara. Se non vogliamo mancare col Pre­sidente.

La baronessa Jules           - Si, figuratevi, mia buona Maria Giovanna, che andiamo a un ballo dell'Opera con il Presidente, le guardie repubblicane, tutto. Una vera raffinatezza! Non crediate che ci diverta. Ci pia­cerebbe di più restare qui come voi. Positivamente. Sono sempre cosi noiose queste feste! Ma il capo di­plomatico è di servizio, capite, e abbiamo promesso a Cocò d'essere là per non farla morire di noia. Cocò, è l'ambasciatrice d'Austria.

Maria Giovanna              - (sorride, tra due smorfie di dolore)

                                        -      Ah si, mi dicevo, ho già sentito questo nome! È a lei che piace tanto la mia torta di more?

La baronessa                   - (rapita dal particolare) Si! A lei! Ma quando abbiamo saputo che eravate ferita, ab­biamo voluto scendere lo stesso. Tanto peggio per l'Ambasciatrice. Aspetterà.

Il barone Jules                 - (continuando a guardare l'orologio)

                                        -      Insomma qualche minuto...

La baronessa                   - Il tempo che ci vorrà! Noi vi voglia­mo molto bene, sapete, Maria Giovanna. Positiva­mente.

Il barone Jules                 - (inquieto) Rischiamo di farci no­tare entrando nel palco dell'Ambasciata, mia cara.

La baronessa                   - (svincolandosi) Non lamentatevi, che vi piace da morire.

Il barone Jules                 - (spasimando d'impazienza) Cura­tevi bene, vecchia mia. Mi auguro che possiate rifarci presto i vostri famosi piattini. Ci teniamo a voi, lo sa­pete, in questa casa!

Maria Giovanna              - (con un sorriso) Ci credo.

La baronessa                   - A domani! Scenderemo di nuovo. Curatevi bene. (Le manda un bacio dalla punta del guanto) E coraggio. Pensiamo a voi.

Il barone                          - (andandosene) Io, quando ho preso quel colpo di zoccolo a Bagatello, credevo di essere morto. Nient'affatto, vedete! Si passa un brutto mo­mento, ecco tutto.

Maria Giovanna              - Lo passeremo. Attenzione ai gra­dini, signor barone. Sulla scala della cucina si scivola.

Il barone Jules                 - (gaiamente) Ci sono abituato!

 La baronessa Jules          - (scomparendo, come a un bam­bino) Ciao! Ciao! Ciao! (Salgono fruscianti e pro­fumati com'erano venuti)

Maria Giovanna              - (a Hugueline) A lui, gliel'hai detto di scendere?

Hugueline                        - Si.

Maria Giovanna              - Allora lasciatemi tutti .Lo aspet­terò. (Tutti si scansano. Adele, che si è tenuta un po' discosta dagli altri, vestita d'una mantellina povera, va a prendere una valigetta di cartone che aveva lasciato in un angolo. Fa segno a Marcello)

Adele                              - Portami in quell'alberghetto che mi hai detto, E dopo, tra cinque o sei giorni, quando sarò guarita, puoi scrivere al tuo amico che mi imbarcherò. (Va a prendere la valigia. Marcello l'aiuta gentil­mente)

Marcello                          - Lascia. Lascia... È il minimo. Capisci, piccola mia, se ci sai fare, te la puoi passare bene. E tirarti fuori dalle grane. Non ci sono poi tanti mez­zi per tirarsi fuori. Tu ti senti ancora male... Appog­giati a me per salire le scale, bambina mia... (Escono per strada. Maria Giovanna non si è mossa. Gli altri sono scomparsi. La cucina sembra più scura... e di­venta quasi un luogo fantastico con ombre insolite. Il ritratto della vecchia, là, in alto, è solo, vagamente illuminato, come Maria Giovanna sdraiata per il lungo sul tavolo, coperta di seta rossa, con vicino la corona, come una vecchia regina. Ha cominciato a parlare da sola come se delirasse. Dopo entrerà il ragazzo e co­mincerà a sbucciare i legumi. Durante il suo monolo­go l'autore entra dolcemente e va a sederlesi accanto su un palchettino, senza che lei possa vederlo subito)

Maria Giovanna              - (dolcemente) Le più belle na­tiche di Nizza. Me lo dissero dandomi il premio. E in una sola domenica, più fiori che la vecchia in venti anni in cambio dei suoi pranzi!... (Sorride misterio­samente) Tu parli di uno scandalo! La cameriera del­la signora contessa che si è permessa di presentarsi a un concorso. Lei voleva mettermi alla porta, ma tu ti sei arrabbiato. È la prima volta che ti ho visto ar­rabbiato, tu che ti prendi sempre gioco di tutto. Eri bello nella collera... Allora lei è rientrata in camera sua sbattendo la porta, e per cinque anni non vi siete più rivolti la parola... (Ha un sorriso complice) Per me. (Mormora teneramente) Grazie amore mio d'aver­mi lasciato essere regina per tutta una domenica. (Avverte improvvisamente una presenza vicino a lei, e chiede) Sei tu, signor conte?

L'autore                           - (dolcemente) No, è ancora trattenuto di sopra. La contessa ha avuto una crisi di nervi quan­do è tornata nei suoi appartamenti. Aspettano il me­dico.

Maria Giovanna              - (sorride) So che lui non scende­rà. È cosi che abbiamo vissuto, non ci sono ragioni che non sia cosi quando si muore: ognuno al proprio piano.

L'autore                           - (goffamente, dopo una pausa) Vi fa male?

Maria Giovanna              - (misteriosamente) Deve far ma­le. Lavora. Bisogna che la natura faccia quel che deve. Non c'è che lasciarla fare. Sa come comportarsi. Sa tutto. È una vecchia cuoca, anche lei. (Un silenzio, la si sente ansimare come una bestia. Chiama) Signor conte?

L'autore                           - (risponde dolcemente, un po' vergognoso) Si, sono qui.

Maria Giovanna              - (sorride senza vederlo) Ah!... Hai messo il tuo abito da sera, l'abito a coda e la cravatta bianca? Sei sceso prima di uscire per dirmi arrive­derci? (Misteriosa) Non sono gelosa. Sei cosi bello. Quando salivamo a guardare il ballo dalla porta soc­chiusa, eri sempre tu il più bello in mezzo a tutti i signori.

L'autore                           - (imbarazzato e vergognoso) Ma no...

Maria Giovanna              - (furiosa) Se te lo dico! Credi che ti avrei custodito il mio cuore e il resto, se non fossi stato il più bello? Tu non conosci le ragazze! Cinque anni ti sono stata fedele. Per cinque anni non sono andata con le altre a ballare, neppure una do­menica. Cinque anni. È un legame per una ragazza che aveva il fuoco sotto al sedere. (Mormora come divertita) Strano l'amore. Non si sa dove si caccia.

L'autore                           - (dolcemente) Si, è strano.

Maria Giovanna              - (cambia sguardo; la sua espressio­ne diventa sospettosa. Su un altro tono) Ditemi un po', voi, come vi è saltato in mente di mettervi a par­lare con me?

L'autore                           - (perdendosi d'animo, sussurra) Ma mia piccola Maria Giovanna...

Maria Giovanna              - .Via, poche chiacchiere! Per pri­ma cosa, lui, non mi chiamava Maria Giovanna. L'a­vete inventato voi. Mi chiamava ragazzina mia, e poi a letto, con un altro nome che non voglio ripetere... Ma chi vi ha suggerito l'idea di parlare di me? Voi non mi conoscete.

L'autore                           - (dolcemente) Si. Molto bene.

Maria Giovanna              - (ingenua) C'eravamo già incon­trati? (Ridacchia) In società?

L'autore                           - No. Non in società.

Maria Giovanna              - (ridanciana) Ah bene! Me lo dicevo anch'io... (Un silenzio. Poi domanda diffiden­te) Lo conoscete il signor conte?

L'autore                           - Si, un po'.

Maria Giovanna              - Era bello. (Si comincia a senti­re il tic tac della sveglia di cucina. Lei è come paci­ficata. Sente una presenza. Interroga) Chi c'è?

Alessio                            - Alessio.

Maria Giovanna              - Cos'è che stai facendo?

Alessio                            - Sbuccio. Con tutte queste storie non ho finito il mio mucchio di patate.

Maria Giovanna              - (dolcemente) Finisci, ragazzo mio, finisci. La minestra prima di tutto. (Una pausa, poi chiede) Che cosa farai, tu, quando sarai grande?

Alessio                            - Aprirò un ristorante.

Maria Giovanna              - Sarai il padrone?

Alessio                            - Certo. Metto già da parte. Non spendo niente. E ho tredici anni. Allora tra dieci o dodici an­ni, a Nizza...

Maria Giovanna              - (s'illumina di un sorriso) Ah, a Nizza... È bello, a Nizza... Che cosa a Nizza?

Alessio                            - Il mio ristorante. Al vecchio porto.

Maria Giovanna              - E tu credi di dimenticarti di tutte le botte?

Alessio                            - (sicuro) Boh! Bisogna pure imparare il mestiere. Dopo si diventa grandi. Si dimentica, quando si è uomini. Sarò un uomo, io. E un uomo è forte, è libero, fa quel che vuole. È un re, un uomo, se vuole.

Maria Giovanna              - (ancora, incredula) Malgrado i ricchi?

II piccolo                         - (luminoso, con dolcezza) Ma io sarò ricco... (Sbuccia tranquillamente. Si sente il tic tac. In alto sullo scalone, si vede il conte in abito e man­tello da sera, che rientra dal circolo, solitario)

Maria Giovanna              - (sussurra) Signor conte...

L'autore                           - Si, bambina mia, sono qui...

Maria Giovanna              - Sono bella, signor conte?

L'autore                           - (guarda la vecchia donna che muore nei suoi fronzoli di carnevale. Sussurra all'improvviso, te­neramente) Si, siete bella. (Si è avvicinato, le ha preso la mano e la bacia)

Maria Giovanna              - (in estasi) La mano... come a una signora. (In questo momento suona un campanello. Meccanicamente, lei si alza, come una piccola serva d'altri tempi nella sua soffitta, e mormora) Suonano.

L'autore                           - (le si avvicina dolcemente e la fa sdraiare di nuovo) Riposatevi. Salgo io a vedere. (Si è allon­tanato un poco. Il piccolo sbuccia sempre. Si sente il tic-tac. All'improvviso il tic-tac s'arresta. L'autore si avvicina al ragazzo, lo fa uscire. Poi torna verso Ma­ria Giovanna, fa un gesto che è come una carezza per chiuderle gli occhi. Accende una sigaretta insolita vi­cino a questo falso cadavere. Entra il commissario)

Commissario                   - Allora?

L'autore                           - (lo guarda senza allegria) Allora cosa?

Il commissario                 - (rapito) Ho trovato chi aveva ammazzato la vecchia.

L'autore                           - (distratto) Ah si? E chi era?

Il commissario                 - Il cocchiere. Trentacinque minu­ti d'interrogatorio con due altri colleghi, metodo ame­ricano, la lampada sulla faccia e ha confessato, è già stato imbarcato al Deposito. La questione è risolta. In fondo, vedete, era molto semplice la vostra storia no­nostante la vostra tendenza a complicarla.

L'autore                           - Credete? Be', ora sparite. Potete ritor­nare nel vostro nulla. Lei è morta. (Il commissario se ne va irritato. L'autore, al pubblico) Scusate le lacu­ne dell'autore, signore e signori. Ma questa comme­dia non ho mai potuto scriverla. (C'è da sperare che l'applaudiscano lo stesso ed esce anche lui)

 

FINE