La guerra

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LA GUERRA

LA GUERRA

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia

il Carnovale dell'Anno 1760.

AL NOBILE E VALOROSO CAVALIERE

IL SIGNOR MARCHESE

FRANCESCO ALBERGATI VEZZA

A voi è noto, amabilissimo Signor Marchese, quanto benignamente mi ama il Signor Senatore Albergati vostro congiunto. So che siete ambidue legati dalla parentela non solo, ma da reciproco amore. Posso dunque a ragion lusingarmi, che vogliate avere per me lo stesso affetto e la stessa bontà. Quando sono venuto in Francia, mi ha onorato il Signor Senatore di una sua lettera da presentarvi, l'ha accompagnata coi sentimenti più teneri di stima e d'interesse per Voi, e di consolazione per me. Gli elogi fatti alla vostra persona ed al vostro merito da un Cavaliere sì giusto, sì illuminato e sincero, m'invogliarono sempre più di conoscervi, e di acquistarmi la grazia e protezione vostra. Giunto a Parigi, non mancai subito di adoperarmi per rintracciarvi, ma tutti e due forestieri, nel vortice di sì popolosa Città, penai qualche poco prima di aver il piacere di rinvenirvi. Ciò mi è riuscito soltanto allora quando la fortuna mi ha fatto penetrare nelle case più illustri, nelle conversazioni più riguardevoli del Paese, dove vi ho ritrovato assai conosciuto, amato e stimato. Pria di vedervi, mi è stato fatto il vostro ritratto, mi è stata epilogata la serie de' vostri meriti in questo Regno. Vedrai (mi dicevano) un Cavaliere di spirito, un uomo amabile, con un fondo di sincerità e d'onoratezza che fa onore alla sua Famiglia ed al suo Paese; egli è Italiano, della città di Bologna... Su quest'articolo non avea bisogno di essere illuminato, troncai con impazienza l'altrui ragionamento, ed ebbi la vanità di far conoscere ch'io n'era istrutto. Dissi a chi mi ascoltava, ch'io sapea benissimo essere la famiglia de' Conti e Marchesi Albergati di Bologna una delle più antiche, e più nobili, e più decorate d'Italia; che nel nono secolo dell'Era Cristiana Gossino ed Aurelio Albergati passarono dalla patria loro in Germania, al servizio di Ottone Imperatore, e furono da essi fondate le Signorie di Vistinga e Chastel; che da quel tempo fino ai dì nostri mantenne sempre l'antichissimo suo splendore, con cariche insigni, dignità primarie, parentele illustri; che fiorirono in ogni tempo in sì gran Famiglia uomini celeberrimi in Armi, in Lettere, in Secolari ed Ecclesiastiche Dignità; che fra i Cardinali di tal casato si annovera il Beato Nicolò Albergati, il quale dopo essere stato Nunzio in Francia e in Inghilterra, e Legato in Francia e in Germania, meritò per la santità del suo vivere, e del suo morire, di essere venerato sopra gli Altari; che Luigi Senatore Albergati fu tenuto alla Sacra Fonte dal gloriosissimo Re di Francia Luigi XIV; e avrei proseguito a parlarne per tutto il giorno, se aumentatasi la conversazione, non fossi stato obbligato con dispiacere ad interrompere il mio discorso.

Terminate colle persone novellamente venute le solite cerimonie del benvenuto, del come state, un Uffiziale, Cavaliere di San Luigi, interessato più degli altri per la vostra personae per l'onor vostro, tirommi in disparte, e mi tenne dì Voi il seguente ragionamento. Voi (mi disse) conoscete la Famiglia Albergati in Italia, ma non conoscete forse bastantemente il Marchese Francesco in Francia. Egli è un bravo Soldato; un Uffizial valoroso, che ha mente e cuore, e sa il mestier della guerra, e si è acquistato tutto il merito e tutto il concetto fra le nostre milizie, e fra quelle de' nostri passati nemici. Ha servito nel Canada, nell'America Settentrionale, dall'anno 1752 sino alla perdita per noi fatale di quel vastissimo continente. Si è valorosamente distinto nell'assedio della Fortezza Inglese chiamata il Forte della Necessità, dove è anche stato gravemente ferito. Ha fatto conoscere il suo talento e il suo zelo nell'importante impiego d'Uffiziale inspettore sopra i lavori del Castello nostro di Cariglion; e nell'Inverno del 1757, superiore ai rigori del clima, ebbe l'abilità ed il coraggio di mettere il fuoco più d'una volta ai lavori ed ai vascelli degli inimici, a vista della Fortezza appellata Giorgio, ed in tal vicinanza, che un tiro di pistola potea colpire. Mirabile fu la sua resistenza all'armata Inglese nel 1759, dopo la perdita della battaglia, e riconoscono i Francesi dal suo valore e dalla sua costanza la ritirata fortunatamente eseguita; ma quello che coronò i suoi meriti e la sua bravura fu la battaglia de' 28 Aprile dell'anno 1760, in cui meritò gli elogi di tutta l'armata, ed in conseguenza di ciò, fu scelto con preferenza a tanti altri al comando del Forte Jacque-quartier. importantissima Piazza, situata in allora nel centro degl'inimici. Ha egli avuto il talento di nascondere la scarsezza delle provvisioni, lo stato infelice di quel presidio, ridotto con trentasei Soldati della marina ed alcuni pochi Militari di que' contorni, ed obbligare gì'Inglesi ad attaccarlo con mille uomini e dieci pezzi d'artiglieria, ed accordargli alla fine la più onorevole capitolazione. In somma (continuò il Cavaliere) il vostro Marchese Albergati, nello stato Maggiore, all'armata Francese nel Canada, per tre anni consecutivi durante la guerra, ha adempito con soddisfazione pienissima de' Generali a tutti i doveri di un Militare, e si ha guadagnata la stima intiera de' Soldati, del Popolo e degl'inimici medesimi.

Non potei allora trattenermi di domandargli: Qual premio, qual gratitudine, qual ricompensa ha egli ottenuto ai suoi travagli, alla sua condotta? Ha egli avanzato di grado? Ha ottenuto almeno la Croce di San Luigi? Restò sospeso l'Uffiziale alcun poco; pareva ch'ei volesse rispondere, e non trovasse i termini per spiegarsi; ma ecco dell'altra gente che arriva, ecco interrotta la nostra conversazione; mi mette in mano un Foglio stampato, mi dice di leggerlo in confermazione di quanto mi aveva esposto, si unisce alla compagnia, e da me si divide. Curioso di leggere il suddetto Foglio, mi ritirai in una stanza vicina; trovai ch'ella era la Gazzetta d'Utrecht de' 4 Novembre dell'anno 1760. Scorsi coll'occhio per osservare s'eravi cosa interessante sul proposito fin allora tenuto, ed ecco quel che vi ritrovai, in data di Londra de' 24 Ottobre del medesimo anno. Una lettera di un Uffiziale del Reggimento Franzer (de Montagnari), in data di Quebec li 13 Settembre passato, è concepita in questi termini: Noi siamo di ritorno dal Forte Jacque-quartier, del quale ci siamo impadroniti li 9 del corrente, e prima che a noi fosse nota la resa di Mont-Royal. Il Colonello Franzer alla testa di un distaccamento di ottocento uomini ha diretto questa spedizione, ed il Marchese Albergati Italiano, Governatore di detto Forte per i Francesi, l'ha sostenuto fin tanto che si è trovato con trenta sole libbre di polvere. Noi ci disponevamo all'assalto, allora quando questo bravo Uffiziale si è reso. Monsignor Albergati e Monsieur Franzer hanno dunque avuto l'onore, l'uno di prendere l'ultima Piazza del Canadà, l'altro di mantenersi l'ultimo in questa antica parte degli Stati di Sua Maestà Cristianissima.

Confesso il vero. Sig. Marchese veneratissimo, questo pubblico Foglio mi ha consolato all'estremo; mi pare ch'egli vi renda tutta la giustizia che meritate, e che l'elogio di una nazione sì valorosa, ed in quel tempo nemica, vaglia tutte le ricompense, che forse non avete ancor ricevute.


Ecco dunque come ho imparato a conoscervi, prima ancor di vedervi. Considerate la mia impazienza. Informato del vostro albergo, vi corsi subito, e non vi trovai. Lasciai la lettera, scrissi un viglietto, vi rimarcai la mia pena, il mio desiderio, ed eccovi il giorno dopo, pieno dì bontà, di gentilezza, di cortesia, ad onorarmi, a consolarmi nella mia abitazione. S'io avessi cominciato allora a conoscervi, e non fossi stato di già prevenuto pel vostro grado e pel vostro merito, bastato avrebbe il vedervi, il trattarvi, il ragionare con Voi, per amarvi, e stimarvi, ed esservi perpetuamente attaccato. Vi si legge in fronte l'onore, il valore, la sincerità. I vostri ragionamenti, succosi e piacevoli nello stesso tempo uniscono perfettamente la cognizion delle cose alla virtuosa semplicità, onde dissi tosto a me stesso: ecco un uomo di garbo, che non affetta di esserlo. Contento fui all'estremo dell'onor di conoscervi, e di ritrovarmi qualche volta con Voi; ma fu ben tosto amareggiata questa mia contentezza, rilevando da Voi medesimo, che siete in disposizione di ritornar ben tosto in America. Avrei desiderato, che foste contento di Parigi; non so se lo siate; non ve l'ho dimandato, e se ve 'l chiedessi, siete troppo moderato e prudente per lamentarvene. Voi partirete adunque pel Canada; rivedrete que' luoghi, bagnati dal vostro sangue e dal vostro sudore, difesi dal vostro coraggio, ed onorati dal vostro zelo e dalla vostra condotta. Consolerete, egli è vero, la Signora Marchesa, degnissima vostra Sposa, che colà impaziente vi aspetta, ma ella sarebbe stata egualmente contenta di seguitarvi in Europa, dove avrebbe fatto risplendere quelle virtù che l'adornano, e che la rendono preziosa e distinta nella Colonia da due secoli colà trapiantata. Vi abbraccieranno con giubbilo gli amici vostri; e i nuovi possessori della conquista avranno di Voi quella stima e quel rispetto che meritate. Tutto ciò vi anima e vi consiglia a ripassare l'oceano, ad allontanarvi da noi, ma un altro stimolo non meno forte degli altri vi sollecita forse ad anticipare il cammino. Voi avete un amico, un amico vero; Voi conoscete il pregio della vera amicizia; vi credete in obbligo di perfetta corrispondenza; l'amate con eguale virtù; ritorna in America; v'invita seco a partire, e non avete cuore di abbandonarlo: andate dunque, se così la sorte di Voi dispone, secondi il Cielo le oneste mire del vostro talento, e vi renda felice, qual meritate di essere. Ma ricordatevi qualche volta di noi; non ci abbandonate per sempre; tornate a rivedere la vostra Patria, gli amici, i Parenti vostri, il vostro degnissimo, amabile Genitore, che teneramente vi ama.

Vi ha fatto egli sortire dal Reggimento delle Guardie del Corpo di S. M. Imperiale in Firenze, con animo forse di avervi seco in Bologna, ma il genio vostro militar, valoroso, manifestatosi in Voi negli anni più teneri dell'età vostra, intollerante dell'oziosa tranquillità, vi ha trasportato di là dal mare a rintracciare la Gloria. Ha sagrificato e sagrifica tuttavia il tenero, virtuoso Padre all'idolo dell'onore il suo caro Figlio, ma Voi siete in obbligo di corrispondergli con eguale impegno, sollecitando il vostro ritorno. Credete Voi interessato questo mio rispettoso consiglio? Sì, è vero, non mi nascondo, il mio interesse, il mio amor proprio mi eccita a persuadervi. Desidero di rivedervi in Bologna, in compagnia del nostro amabilissimo Signor Senatore, del vostro amico, del mio Protettore.

Ma vorrei pure, che il lungo viaggio che Voi intraprendete, e la smisurata distanza in cui saremo per qualche tempo, pregiudicasse il meno che sia possibile alla bontà vostra per me, ed al mio attaccamento verso di Voi. Mi è venuto alla fantasia un espediente; lo credo opportuno, e lo esseguirò se mel permettete. Ho pensato di dedicarvi una mia Commedia, e di presentarvela prima della vostra partenza. Così Voi avrete il mio umilissimo nome dinanzi agli occhi, ed io il vostro nelle mie opere. La Commedia ch'io vi destino non può essere che poca cosa, se è cosa mia; ma il titolo per lo meno e l'intreccio vi conviene perfettamente. Ella è intitolata: La Guerra, ed è intrecciata di virtuosi caratteri militari. Che ne dite? Poteva io meglio scegliere al gusto vostro? Poteva dedicare quest'operetta a persona che meglio lo meritasse? Nelle situazioni nelle quali siete Voi ritrovato, avete dimostrato tanto valore, e sì buona condotta, quanta poteva usarne in congiunture maggiori un Generale d'armata. Ritroverete nella Commedia un qualche tratto, che non vi darà dispiacere. Vedrete fra le cose le più rimarcabili il carattere di una Donna, accesa del più tenero amore, sagrificare all'onore del caro amante i suoi timori, le sue speranze, la sua passione. Vi sovverrete allora della virtuosissima Sposa vostra, la quale con intrepidezza ammirabile v'incoraggiva a combattere, ed a trionfare: qual situazione dolorosa, difficile per due consorti che s'amano! Voi, nel Castello, dirigere i colpi verso i nemici, impadroniti della Città, essere obbligato a non risparmiare la vostra Casa medesima; e la valorosa Signora, esposta al pericolo, lungi dal rattristarsene, animare i timidi col proprio esempio, e preferire l'onor del marito alla propria vita! Questa è la giustizia che a lei vien resa da tutti quelli che obbligati furono a passare in Francia, dopo la resa del Canada, e questo è quanto può rendere una Donna immortale.

Ricevete dunque benignamente questa Commedia, che a Voi appartiene, e divertitevi qualche volta a leggere i miei volumi. So che vi dilettano i studi più seri, le lettere più utili ed interessanti. So che non avete profittato de' vostri ozi a Parigi per correre colla folla ai spettacoli, ai divertimenti, ma vi siete seriamente applicato ad un corso metodico di Architettura, e meditate di pubblicar colle stampe le vostre applicazioni ed i vostri progressi; ma spero non isdegnerete talora gettar l'occhio alla sfuggita su questi libri, i quali non contengono eleganza e dottrina, ma semplicità e verità. Il Cielo vi feliciti ne' vostri viaggi, nelle vostre intraprese. Ricordatevi qualche volta di chi vi stima, e vi ama, e si protesta ossequiosamente

Umiliss. Devotiss. e Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

«Tutt'arme è il Mondo. Arma virumque cano. Le Donne, i Cavalier, l'armi e gli amori. Canto l'armi pietose e il Capitano.»

Così principia Salvator Rosa la satira intitolata: La Guerra. Così principierò io questo mio ragionamento al Lettore. Tutt'arme è il Mondo. Ne' circoli, nelle piazze, nelle conversazioni, nelle botteghe non si sente che parlar di guerra, ed è venuto a me pure il capriccio di comporre una Commedia intitolata la Guerra. Mi trovai da principio un po' imbarazzato nello scegliere le nazioni belligeranti, temendo l'indignazione degli appassionati geniali ma finalmente trovai la maniera d'uscir d'impegno, in quella guisa che si può scorgere dalle ultime righe della Commedia medesima. Negli anni miei giovanili mi sono trovato in qualche occasione da poter conoscere da vicino la guerra: non già ch'io abbia fatto il mestiere del militare ché, per grazia del Cielo, tutte le tentazioni ho sofferte fuori di questa, ma si può essere informato di qualche cosa anche senza averne fatta la professione, trattando co' professori, informandosi con esattezza, e riflettendovi, come io per abito a tutte le cose ho accostumato sempre a riflettere. Chi è pratico della Guerra, giudicherà se io ho trattato l'argomento a dovere, se sono informato di quelle massime d'onore che spingono i valorosi al cimento, se nota mi è veramente quell'allegrezza, quella carità, quell'intrepidezza che regna al campo, che ravviva il coraggio, e che fa non curare i pericoli, se ho ragionevolmente unita la passion dell'amore agli obblighi del Militare, e se finalmente ho usata la giusta critica rispetto a coloro che in tali occasioni si approfittano un poco più del dovere. Circa alle operazioni militari, ho scelto un assedio di una Fortezza, che è delle più interessanti. Quando si rappresentò questa mia Commedia, ho creduto di servir bene al piacere del pubblico facendo agire gli assedianti non meno che i difensori coll'uso delle artiglierie, delle sortite, degli assalti e de' movimenti delle milizie, ma vidi in pratica esser operazioni difficili da eseguirsi sopra la scena, e che male eseguite, guastano anziché adornare la rappresentazione. Ho ridotte ora le cose a facilità. Alcune ne ho del tutto levate, supplendovi con brevissime narrative; altre ne ho moderate, che possono soddisfare collo spettacolo, senza impegnare gli attori alla difficile esecuzione. Il fine è lietissimo, poiché viene coronato dalla santa pace: fine che io desidero ardentemente sollecito alle presenti guerre d'Europa, che Dio lo voglia.


Personaggi

Don EGIDIO comandante della fortezza assediata.

Donna FLORIDA sua figliuola.

Don SIGISMONDO Generale degli assedianti.

Il CONTE CLAUDIO tenente.

Don FERDINANDO alfiere.

Don FAUSTINO alfiere.

Don CIRILLO tenente stroppiato.

Don POLIDORO Commissario dell'armata.

DONN'ASPASIA sua figliuola.

LISETTA contadina.

ORSOLINA venditrice di varie cose all'armata.

Don FABIO alfiere.

Un AIUTANTE.

Un CAPORALE.

Un CORRIERE.

Cinque SOLDATI che parlano.

Soldati che non parlano.

Contadini che non parlano.

Contadine che non parlano.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa del Commissario, con lumi accesi, con tavolini, sedie, ecc.

Don Fabio che taglia al faraone. Il Conte Claudio, che punta al faraone. Donna Florida e

don Faustino a sedere, parlando e amoreggiando fra di loro. Don Ferdinando e donna

Aspasia a un altro tavolino, bevendo, con bottiglia, bicchieri ecc. Altri due Ufficiali, che

puntano al Faraone. Altri Ufficiali, che giocano ad un altro tavolino. Un Caporale.

CON. Paroli al sette.

FAU. Donna Florida, mi permettete ch'io vada a quella banca di faraone ad arrischiar la mia sorte?

FLO. Stupisco che possa venirvi in capo la volontà di giocare.

FAU. E perché vi maravigliate?

FLO. Perché oramai si approssima il giorno. Potete essere di momento in momento chiamato a dar la muta alle batterie. Potete essere destinato all'assalto della fortezza, a sostenere l'impeto di una sortita, e voi senza pensare al pericolo, senza prepararvi al cimento, avete animo di divertirvi?

FAU. Che ho da far io per prepararmi al cimento? Partito di casa mia, vestito l'abito militare, cinta la spada al fianco, disposi l'animo fin d'allora ad ogni pericolo ed a qualunque azzardo. Se mi chiamano al campo, so ch'io deggio obbedire. Se mi espongo al nemico, so ch'io posso morire; ma so altreSì che l'importuna tristizia potrebbe rendere il mio coraggio men forte, e che il pensier del pericolo a nulla serve per evitarlo. Lasciatemi goder in pace questi momenti di vita, e se non vi piace ch'io giochi, consolatemi almeno colla dolcezza de' vostri sguardi.

CON. Ho vinto il paroli. La pace al fante. La pace al fante. (con allegria saltando)

FERD. Tenente, come va il gioco? (al Conte)

CON. Va bene. La pace al fante. Or ora lo sbanco. La pace al fante. Ho vinto il fante. Ho vinto il fante. Aspettate. La doppia pace al re. La doppia pace al re.

FERD. Bravo, Conte, coraggio.

CON. Coraggio.

FAU. Lasciatemi arrischiar due zecchini. (a Florida)

FLO. No, per ora non vo' che giochiate.

FAU. Siete padrona di comandarmi.

CON. Diavolo maladetto, ho perduto la bella posta.

FERD. Come va, Conte?

CON. Niente, niente. Mescolate le carte. Ora vengo, mi ricatterò. (al tagliatore, e s'accosta a Ferdinando,) Un bicchier di Borgogna. (a Ferdinando)

FERD. Sentirete che vino! Regalo di madamigella. (accennando donna Aspasia)

CON. E che viva madamigella! (assaggiandolo) Buono da cavaliere. Eh, in casa di un commissario di guerra tutte le cose hanno da esser preziose. Felice voi, che godete la grazia della figliuola.

ASP. Che cosa vorreste dire per ciò?

CON. Voleva dire...

FAB. Tenente, è fatto il taglio. (al Conte)

CON. Eccomi. (finisce di bevere, poi corre al tavolino) Sette per dieci zecchini.

FAU. Ma voi, donna Florida, mi volete far disperare. Questa è forse l'ultima volta che ci vediamo, e voi con sì poca carità mi trattate?

FLO. Oh cieli! mio padre è il comandante di quella piazza che voi battete. Sorpreso il borgo dalle vostre armi, sono rimasta io prigioniera; è incerto il destino dell'armi, potete perir voi, che tant'amo; può perire il mio genitore che adoro, e mi vorreste ilare e disinvolta? E pretendereste che vi parlassi d'amore?

FAU. Vi compatisco, ma io sono di animo intollerante. Permettetemi almeno che divertir mi possa col gioco.

FLO. Sì, ingrato. Fatelo a mio dispetto.

FAU. No, cara, non v'inquietate, non parlerò mai più di giocare.

CON. Maladetto il sette. Via il sette.

ASP. Il Conte perde. (a Ferdinando)

FERD. Perde il meschino, ed io spero di guadagnare moltissimo.

ASP. E che sperate di vincere?

FERD. Il vostro cuore.

ASP. Mi fate ridere.

FERD. E voi ridete.

ASP. Non pensate alla guerra?

FERD. Alla guerra ci pensa il mio generale. Noi subalterni abbiamo da obbedire, non da pensare. Chi non è al campo, non è in pericolo, e tanto vale esser lungi dal campo dugento miglia, quanto dugento passi. Sono ora tranquillo in questa camera, come s'io fossi in luogo dove non si parla di guerra. Domani andrò al cimento, se occorre; stanotte voglio divertirmi, s'io posso. La vostra compagnia mi diletta; madamigella, siete amabile, siete vezzosa. Alla vostra salute. (beve)

CON. Oh fortuna indegnissima! ho sempre da perdere? Vada tutto sul sette. Il resto de' miei danari sul sette.

FLO. Vedete il povero Conte, come è agitato pel gioco; e vi vorreste esporre ancor voi ad una simile agitazione?

FAU. Avete tanta compassione per me?

FLO. Sì certo; ho della premura per voi.

FAU. Se fosse vero, sareste meco un poco più compiacente.

FLO. Lo stato in cui ci troviamo, non mi permette di più.

CON. Primo anche il terzo sette. Contro me tutti i sette? Voglio vedere anche il quarto. Venti zecchini sul quarto sette.

FAB. Conte, io non tengo su la parola.

CON. Son cavaliere; sono un offiziale d'onore.

FAB. Compatitemi; al campo non si gioca su la parola.

CON. Prestatemi venti zecchini. (a Ferdinando)

FERD. Vi servirei, se li avessi.

CON. Prestatemi venti zecchini. (a Faustino)

FAU. Non li ho, da galantuomo.

CON. Ehi, chi è di là?

CAPOR. Signore.

CON. Chiamatemi il Commissario. (va al tavolino fremendo, e guardando a giocare)

CAPOR. Sarà servita. (in atto di partire)

FLO. Ehi. (al Caporale)

CAPOR. Signora.

FLO. Che nuove abbiamo dal campo?

CAPOR. I nostri hanno principiato a fare la breccia. (parte)

FLO. Povera me! che sarà del mio genitore?

CON. Ecco il sette secondo. E non ho potuto mettere, e non ho potuto giocare. Dov'è il Commissario?

SCENA SECONDA

Don Polidoro e detti.

POLID. Chi mi vuole; chi mi domanda?

CON. Signor Commissario, favorite prestarmi venti zecchini.

POLID. Venti zecchini?

CON. Venti zecchini.

POLID. Per chi?

CON. Per me.

POLID. Per giocare?

CON. Per giocare.

POLID. Venti zecchini?

CON. Venti zecchini.

POLID. Benissimo.

CON. Fate presto.

POLID. Aspetti un poco. (tira fuori un libretto di memorie)

CON. Non mi fate perdere la pazienza.

POLID. Favorisca. Il signor Conte Claudio, tenente di cavalleria, deve dare a conto delle sue paghe zecchini 60. (leggendo)

CON. E venti ottanta.

POLID. Favorisca una cosa sola.

CON. E che cosa?

POLID. Una sicurtà.

CON. A un cavaliere par mio si domanda una sicurtà? Sono uffiziale, son galantuomo, e nell'armata son conosciuto.

POLID. Benissimo.

CON. Benissimo, benissimo, e mi domandate una sicurtà?

POLID. Io non le domando la sicurtà del danaro.

CON. Di che dunque?

POLID. Che domani mattina una palla di moschetteria o di cannone non coroni le glorie del signor Conte, e non porti i miei venti zecchini nei fortunati esilii degli eroi militari.

CON. Se morirò, sarà tutto finito.

POLID. Benissimo.

CON. E se viverò, vi sarò debitore di cento zecchini; a questo patto me li volete dare?

POLID. Quando c'è il rischio, credo si possa fare.

CON. Date qui dunque.

POLID. Benissimo. (tira fuori il libro)

CON. (Quel maladetto libro mi vuol far delirare). Aspettatemi, che ora vengo. (al tagliatore)

FAB. Di qui non parto.

POLID. In tutto zecchini cento. (scrive sul libro) Favorisca di porvi la di lei firma. (al Conte)

CON. Benissimo. (scrive sul libro)

POLID. Ecco venti zecchini. (dà il danaro al Conte)

CON. Obbligatissimo. (In questa maniera i commissari si fanno ricchi). Eccomi qui, tagliate. (al tagliatore)

ASP. Serva sua, signor padre. (a Polidoro, che vuol partire)

POLID. Oh figlia mia, cosa fate qui?

ASP. Sto qui un poco in conversazione.

POLID. Benissimo. (parte)

ASP. Mio padre è il miglior uomo di questo mondo. (a Ferdinando)

FERD. Se io gli domandassi una cosa, vorrei che mi rispondesse benissimo.

ASP. Capisco, capisco quello che gli vorreste chiedere, ma prima ch'ei rispondesse, avrei da risponder io.

 FERD. E voi che rispondereste?

ASP. Se andate alle schioppettate, malissimo.

FERD. E se ritorno sano? ASP. Benissimo.

FERD. Brava, così mi piace. Alla vostra salute. (beve) ASP. Portate un'altra bottiglia. (a un servitore)

FLO. Donna Aspasia ha un bel divertirsi. (a Faustino)

FAU. La casa di un commissario di guerra è il fondaco dell'abbondanza. L'oro che consumasi nelle armate, non si perde sotterra; cola nelle mani di alcuni particolari, e i commissari ne hanno la maggior parte.

CON. Non mi restano che tre zecchini. Vadano questi ancora sul sette.

FLO. Sentite? Se il Conte perde ancor questi, mi aspetto vedere qualche orrida scena. (a Faustino)

FAU. Non temete; siamo qui in molti, non ardirà di trascendere.

CON. Oh sette indiavolato, oh sette maladetto! Datemi quelle carte. (stracciandole) Diavolo, porta chi le ha stampate; diavolo, porta chi ha guadagnato; diavolo, porta me che ho perduto.

ASP. Or ora dà in qualche bestialità.

CON. Eh, non importa. Chi ha fatto, ha fatto. Non ci vo più pensare. Allegramente. Datemi del Borgogna. Viva la guerra, viva l'amore, viva il buon vino; vivano le belle donne. Vivano i buoni amici, anche quel maladetto tenente che mi ha rovinato.

FAB. Amico, lagnatevi della vostra fortuna.

CON. Sì, hai ragione. Vieni qui, ti abbraccio, ti bacio, tu sei un onest'uomo, ed io sono stato una bestia; ora che non ho danari da giocare, voglio far all'amore. C'è loco per me con alcuna di queste signore?

FLO. Eh via, signor Tenente, pensate che dai vostri compagni si batte ora il Castello che si difende, e voi quanto prima dovrete essere sostituito.

CON. Che importa a me di queste malinconie? Si ha da combattere? andiamo. Si ha da montare la breccia? si ha da scalare le mura? son pronto. Fin che sto qui, non ci penso, vo' divertirmi. Voglio fare all'amore con voi.

FLO. Mi maraviglio. Con me non vi avete a prendere una tal libertà.

CON. Eh via, che cosa volete fare di quel ragazzo? Io, io v'insegnerò il viver del mondo.

FAU. Conte, portate rispetto a questa dama

CON. Io non le perdo il rispetto; ma se fa conversazione con voi, la può fare, e la deve fare ancora con me. (si mette a sedere vicino a Florida)

FLO. Questa è un'impertinenza. (si alza)

CON. Non mi fate scaldare il sangue. (si alza)

FAU. Se il sangue vi si riscalda, vi pungerò io la vena per moderarlo.

CON. V'insegnerò io a maneggiare la spada.

ASP. Eh! signori, in casa del Commissario?

CON. Sì, in casa del Commissario è il luogo dove si scannano gli uffiziali, dove si succhia il sangue delle milizie, e il vostro signor padre per venti zecchini ci permetterà di fare un duello.

FERD. No, caro amico, riflettete al luogo ed al tempo. Guai a voi, se penetra il Generale un simil trapasso sul punto di dover servire ai suoi ordini. Questo non è il tempo a proposito...

CON. Sì, è vero. Ci batteremo dopo la battaglia. (a Faustino)

FAU. Quando vorrete voi. (al Conte)

FLO. Oh cieli! Sì poco stimate la vita; vi esponete per così poco ai pericoli? Ora non mi sorprende più tanto, che in allegria ed al gioco passiate l'ore che precedono ai militari cimenti. Credei che l'amor della gloria vi rendesse giulivi e solleciti di conquistare il trionfo sotto i comandi di un generale, giudice e spettatore del vostro coraggio. Credei che con eroica indifferenza andaste incontro ad una vittoria illustre, o ad una morte gloriosa; ma or che vi veggo esporre per cagion sì meschina ad una morte ingiuriosa, mi fate credere che il fanatismo, più assai che la ragione, vi domini e vi consigli. L'uso che fatto avete di scherzar colla morte, vi rende famigliare il suo nome, e vi esponete ai suoi colpi non per virtù, ma per abito. Se amaste veramente la gloria, dovreste meglio apprezzar la vita per conquistarla, e preferire il debito di buon soldato alla vanità di un imprudente coraggio. (parte)

CON. Viva la dottoressa. Facciamole una canzona per la bella lezione che ora ci ha fatto.

FAU. Donna Florida favellò con ragione.

SCENA TERZA

Don Cirillo e detti.

CIR. Allegri, compagni, allegri. Abbiamo fatto tre piedi e mezzo di breccia. (con allegria saltando)

CON. Come si può sapere, se appena è giorno?

CIR. È giorno, è giorno (saltando); in campagna si vede chiaro. Sono stato io fra le batterie. Ho livellato io due cannoni, e ho imboccato un pezzo d'artiglieria del nemico. Oh che bel colpo, oh che bel colpo! ASP. E non avete paura che una cannonata vi porti via l'altra gamba?

CIR. Che importa a me della gamba? Per il gusto d'imboccar un cannone darei dieci gambe, se ancor le avessi. Animo, che si fa qui? non si gioca?

FAB. Abbiamo giocato finora.

CON. Ed io ho perduto l'osso del collo.

CIR. E don Ferdinando?

CON. Ha bevuto.

CIR. Bravo; e don Faustino?

CON. Ha fatto all'amore.

CIR. Bravissimo. Così mi piace; impiegar il tempo in cose allegre, in cose gioconde. Amici, da qui ad un'ora, o due al più, vi tocca montar la guardia alle batterie. I nemici si difendono da disperati. Hanno fatto una sortita da diavoli. Noi li abbiamo respinti, ma ci è costato la perdita di trenta uomini. Gran fuoco ho veduto fare dagli assediati! non ho mai più veduto un fuoco simile. Lo vedrete, lo proverete anche voi. Ma fino che vien quell'ora, divertiamoci, stiamo allegri.

CON. Sì, stiamo allegri; beviamo.

FERD. Beviamo pure.

CIR. Beviamo.

FAU. Allegramente, beviamo.

FERD. Con licenza della padrona di casa. (ad Aspasia)

ASP. Accomodatevi pure, (Non so come facciano. Pare impossibile quest'allegria, un'ora prima di andare ad esporsi alle archibugiate. (da sé)

CIR. E che viva il nostro Sovrano.

TUTTI E viva. (e bevono)

FERD. E che viva il nostro generale.

TUTTI E viva. (e bevono)

FAU. E che vivano quelli che ora difendono le batterie.

TUTTI E viva. (e bevono)

CON. E viva noi, che andremo a batterci coll'inimico.

CIR. Viva il primo che salirà su la breccia.

CON. Il primo voglio esser io.

FERD. A me tocca prima di voi. Il mio reggimento è più anziano del vostro.

CON. Andrò coi volontari a farmi largo su le trinciere.

FERD. Da voi non mi lascierò pigliare la mano.

CIR. Bravi; e viva il vostro valore, e viva il vostro coraggio. Divertiamoci intanto, ecco un violino. (trova un violino sopra un tavolino)

FERD. Madamigella, balliamo. (ad Aspasia)

ASP. Balliamo pure.

CON. Ballate, e noi beveremo.

CIR. (Si mette a sedere, lascia cadere le stampelle, e suona un minuè. Don Ferdinando e Aspasia ballano)

SCENA QUARTA

Don Fabio e detti.

FAB. Amici, il Generale ha intimato un consiglio di guerra. Sono già ragunati nelle sue tende tutti gli ufficiali dello stato maggiore, e vuole che tutta l'altra ufficialità stia sull'armi.

FERD. Sapete di che si dee trattar nel consiglio?

FAB. Trattasi di deliberare l'assalto generale della piazza nemica. (odesi il tamburo) Andiamo. (parte)

CON. All'assalto, all'assalto. (corre via saltando)

CIR. All'assalto, all'assalto. (saltando colla sedia)

FERD. Al cimento. (parte)

FAU. Alla gloria. (parte)

CIR. Ehi, favoritemi le mie stampelle. (ad Aspasia)

ASP. Eh via, don Cirillo. Voi siete esente dalle fatiche. Riposatevi, che ne avete bisogno. CIR. Datemi le mie stampelle. (con sdegno)

ASP. Non vi voglio dar niente. (parte)

CIR. Maledettissima. Sì voglio andare al fuoco, al cimento, alle cannonate. (saltando colla sedia, e parte)

SCENA QUINTA

Altra camera nella casa suddetta.

Don Polidoro solo.

POLID. Poh! gran bella cosa è la guerra! Io ne dirò sempre bene, e non vi è pericolo che mi esca un voto dal cuore per desiderare la pace. Direbbe alcuno, se mi sentisse, tu prieghi pel tuo mestiere, come la moglie di quel carnefice pregava il cielo che si aumentassero le faccende di suo marito. E bene, chi è colui nel mondo che non desideri, prima d'ogni altra cosa, il proprio vantaggio? Le liti danno da vivere agli avvocati, le malattie ai medici, e chi è quel medico, o quell'avvocato, che vorrebbe tutti gli uomini sani, e tutte le famiglie tranquille? Se non vi fossero guerre, non vi sarebbero commissari di guerra, e chi è colui, che potendo mettere da parte centomila scudi in quattro o cinque anni di guerra, volesse per carità verso il prossimo desiderare la pace? Esclamano contro la guerra coloro che vedono desolare le loro campagne, non quelli che per provvedere l'armata vendono a caro prezzo il loro grano ed il loro vino. Si lamentano della guerra i mercanti, che soffrono il danno dell'interrotto commercio; non quelli che servono al bisogno delle milizie, e guadagnano sui generi, e sul danaro, il venti o il trenta per cento. Piangono per la guerra quelle famiglie che perdono per disgrazia il padre, il figlio, il parente; non quelle che se li vedono tornare a casa ricchi di gloria, e carichi di bottino. Si lamentano della guerra talvolta i soldati, e gli uffiziali ancora, mancando loro il bisogno; non si lamenta già un commissario, come son io, che nuota nell'abbondanza, che lucra sulle vendite e nelle provviste, e che col crogiuolo della sua testa fa che coli nelle sue tasche l'oro e l'argento di tutta quanta un'armata.

SCENA SESTA

Orsolina e detto.

ORS. Serva, signor Commissario.

POLID. Oh garbata Orsolina, che fate qui a quest'ora?

ORS. Vengo a rendervi conto del guadagno di questa notte.

POLID. Benissimo.

ORS. Ecco la lista di quello che si è venduto. Sessanta fiaschi di vino di Chianti; trenta bottiglie di Borgogna; sedici boccie di rosolino, ventidue libbre di acquavita gagliarda, quaranta libbre di tabacco da fumo, ed una cassa di pippe.

POLID. Benissimo.

ORS. Vi ho portato i danari del capitale che voi mi avete per grazia vostra prestato, e circa al guadagno, alla vostra cortesia mi rimetto.

POLID. Quanto ci avete voi guadagnato?

ORS. Son donna leale, e sono pronta a dirvi la verità. Sul vino ci ho guadagnato il doppio. Sui rosolini il terzo, e sulle altre cose due terzi.

POLID. Benissimo. Siete voi di quelle che dicono mal della guerra?

ORS. Per me dico tutti i beni del mondo. Io era una povera lavandaia. Son venuta al campo con mio marito per vivandiera. Son rimasta vedova, voi mi avete assistito, e col mio ingegno e colla vostra assistenza spero, tornando a casa, di poter vivere da signora.

POLID. Benissimo.

ORS. Volete incontrare il danaro che vi ho portato?

POLID. No, gioia mia, tenetelo, custoditelo, aumentatelo. Volete dell'altro vino? ve ne darò. Volete dell'altra roba? vi provvederò. Guadagnate; fatevi ricca. Mi piacete; vi voglio bene; amo le persone di spirito; stimo chi sa far il molto col poco. Ho fatto così ancor io, e terminata la guerra, se mi risolvo di prender moglie... Basta, credetemi che vi voglio bene.

ORS. Oh signore, vorreste che una povera lavandaia si lusingasse di divenir commissaria?

POLID. Che lavandaia! Siete ora una mercantessa. I danari fanno dimenticare il passato. Sentite, in confidenza, chi credete che fossi io, prima di essere commissario? Ve lo dirò fra voi e me in segretezza per animarvi a sperare, per levarvi ogni scrupolo della vostra condizione passata. Io era un povero tamburino. Sono passato a far il garzone di un vivandiere; mi avanzai dieci scudi, ho comprato un asino, ed ho trafficato all'armata. Ho fatto dopo il condottiere di muli, poi son passato a magazzeniere de' grani. Mi sono poscia interessato nei forni. Di là sbalzai ad essere provvisioniere. Andò bene il guadagno, mi regolai con prudenza, mi feci benvolere dai generali; ho saputo spendere con giudizio, ho regalato a tempo, e sono finalmente arrivato al grado di commissario di guerra. Ah! cosa dite?

ORS. Dirò come dite voi. Benissimo.

POLID. Il più bel matrimonio di questo mondo è quando si marita col danaro il danaro.

ORS. Ma io non posso avere ricchezze.

POLID. Se non ne avete, ne potete fare. Stimo pìú una donna che in un giorno sappia guadagnare un paolo, di una che abbia uno scudo al giorno di entrata. Le rendite sono soggette a disgrazie. L'industria si sa difendere in ogni tempo. Parlo bene?

ORS. Voi parlate da quell'uomo che siete. In avvenire cercherò di moltiplicare il guadagno. Farò che mi frutti bene il danaro che mi lasciate. Alzerò nella mia bottega due o tre banche di faraone; m'interesserò nelle banche, e guadagnerò nelle carte e nel gioco. Comprerò delle scatole e degli orologi dai giocatori. Presterò qualche danaro senza pericolo, e colla speranza di profittare. Tutte cose che in un'armata fanno arricchire prestissimo; non è egli vero?

POLID. Benissimo.

ORS. E vi renderò conto di tutto quello ch'io faccio.

POLID. Benissimo.

ORS. E quando sarà terminata la guerra...

POLID. Vedo colà due sergenti che aspettano. Orsolina mia, a rivederci. (in atto di partire)

ORS. Non vi scordate di me.

POLID. Non vi è dubbio. (come sopra)

ORS. Credetemi, che anch'io ho dell'amore per voi.

POLID. Benissimo. (come sopra)

ORS. E sarete contento di me.

POLID. Benissimo. (parte)

SCENA SETTIMA

Orsolina, poi Aspasia.

ORS. Questa, per dire la verità, sarebbe per me una gran sorte, che avessi tutto ad un tratto a divenire illustrissima. Chi sa? mi par di essere su la buona strada. Oh benedetta la guerra! alla guerra soltanto si possono vedere di questi sbalzi impetuosi della fortuna. Ma ecco la figliuola del Commissario; conviene ch'io studi di guadagnarmi l'animo di costei, per non avere un nemico in casa.

ASP. Cosa volete qui? che cercate? chi domandate?

ORS. Cercava di lei, illustrissima signora.

ASP. Sì, buona giovane, in che cosa posso servirvi?

ORS. Ho bisogno della di lei protezione.

ASP. Comandate.

ORS. Tengo, com'ella sa, una piccola bottega aperta. Guadagno qualche cosetta; sono perciò invidiata, sono perseguitata. È vero che ha qualche bontà per me l'illustrissimo signor Commissario, ma desidero ancora il patrocinio di vostra signoria illustrissima.

ASP. Poverina! che cosa vendete nella vostra bottega?

ORS. Un poco di tutto. Vino, acquavite, rosolini sono i maggiori miei capitali; ma tengo ancora delle galanterie. Osservi quest'astuccio quant'è bellino.

ASP. Bello, bello davvero.

ORS. È d'Inghilterra.

ASP. Si vede. Mi piace infinitamente.

ORS. Vossignoria illustrissima è di buon gusto.

ASP. Non ho mai veduto un astuccio, che più di questo mi vada a genio.

ORS. (Capisco, se n'è innamorata. Ma la voglio far un poco penare). (da sé)

ASP. (Se vuole la mia protezione, me lo dovrebbe donare). (da sé)

ORS. Vede quante belle cose vi sono dentro? (lo apre)

ASP. È veramente maraviglioso. Quanto costa?

ORS. Chi lo vuole, val sei zecchini.

ASP. Sei zecchini! non vi vergognate chiedere sei zecchini di quest'astuccio? È bello, lo avrei comprato, ma non merita questo prezzo. Ora capisco di che temete. Vendete la roba al doppio di quel che costa, e vorreste ch'io proteggessi un'usuraia, una fraudolente? Lo dirò io stessa a mio padre, vi farò chiudere la bottega, vi farò scacciar dall'armata. Le robe si hanno da vendere a giusto prezzo. Vogliamo il giusto, ed io non proteggerò un'ingiustizia.

ORS. Perdoni, illustrissima signora: ho detto che, chi lo vuole, val sei zecchini: ma non ho già pensato che ella lo volesse comprare. S'ella lo comanda, si serva.

ASP. Ed a che prezzo?

ORS. Mi basta l'onore della di lei protezione.

ASP. Oh questo poi...

ORS. Senta, signora. Glielo dico con sincerità. Li vendo sei zecchini; ma mi costano molto meno. Si degni di riceverlo in dono e lasci il pensiero a me di ricattarmi con qualcun altro. ASP. Povera donna! chi paga, e chi non paga. Quanti verranno a prendere la roba vostra, prometteranno pagarla, e vi gabberanno. Siete poi compatibile, se alterate il prezzo cogli altri.

ORS. Così diceva ancor io. Per ciò mi raccomando a vossignoria illustrissima.

ASP. Sì, cara, non dubitate, che sarò sempre per voi.

ORS. Mi raccomandi all'illustrissimo signor padre.

ASP. Lo farò di buon cuore. Ehi, se vi viene qualche cosa di bello, fatemela un po' vedere.

ORS. Sarà servita. (Sono una donna generosissima). (parte)

SCENA OTTAVA

Donna Aspasia, poi Florida.

ASP. Quando posso, mi piace di far del bene. Questa povera donna s'ingegna, e si vede, poverina, che è di buon cuore.

FLO. Ah donn'AspaSìa, soccorretemi per carità.

ASP. Che avete, donna Florida, che vi vedo così agitata?

FLO. Non lo sapete, che ora si tien consiglio di guerra?

ASP. Che importa a me del consiglio di guerra? All'armata ne fanno continuamente, ed io non ho nemmeno curiosità di domandare di che si tratta.

FLO. Ah, si tratta presentemente dell'ultimo destino della mia patria, e della vita forse anco del povero mio genitore.

ASP. Avreste piacere che la piazza si difendesse, che i nostri perdessero, e che fossero tagliati a pezzi?

FLO. Non ho l'animo così crudele. Vorrei la pace, non l'eccidio delle persone.

ASP. Poverina! Il vostro cuore è diviso. Mezzo l'avete qui, e mezzo nella fortezza.

FLO. Voi mi rimproverate l'amore per don Faustino. È vero, amo questo giovane cavaliere. La divisa ch'ei porta di mio nemico, dovrebbe far ch'io l'odiassi; ma le adorabili sue qualità mi hanno penetrato, ad onta d'ogni difesa. Conto per mia fortuna, che il genitore vostro, commissario di guerra, prendendo in casa mia il suo quartiere, mi abbia resa men dura la carcere colla vostra amabile compagnia. Col mezzo vostro s'introdusse qui don Faustino. I suoi begli occhi, le sue dolci parole, la compassione che mi mostrò de' miei casi, in dieci giorni mi hanno assoggettato ad amarlo. Mi lusingava il crudele, non so se per deridermi, o per consolarmi, che la pace vicina avrebbe troncato il filo de' miei timori, e rivedendo libero il padre, avrei potuto sperare un amico alla patria nel mio più tenero amante. Ma oh Dio! tutto al contrario. La guerra più che mai inferocisce, la piazza è battuta, la breccia è aperta, e trattasi ora di volerla prendere per assalto. Tremo al pericolo di mio padre; tremo, ve lo confesso, per quello ancor dell'amante; e il cuore combattuto da due passioni prova in se stesso i fieri colpi delle due armate nemiche, e chiunque vinca, e chiunque perda, mi rende orribile niente meno e la perdita e la vittoria.

ASP. Davvero vi compatisco. Non siete avvezza all'armata, e per ciò siete ancor suscettibile di ogni apprensione. Io che sono assuefatta da qualche tempo alla guerra, ho indurito il cuore per modo che più non sento passione alcuna. Saranno morti in battaglia più di cento uffiziali, che spasimavano per amor mio. Su le prime mi dispiaceva la perdita di qualcheduno, ora tanta specie mi fa sentir a dire: il tale è restato morto, come se mi dicessero, che ha perduto al gioco. In fatti la guerra non è altro che un gioco della fortuna. Salvo la direzione dei comandanti, e l'intrepidezza dei subalterni, in guerra viva la morte è un caso. Le cannonate, le archibusate, non si misurano: tocca a chi tocca. Può vivere il più poltrone, e può morire il più valoroso. Per questo, quando tratto cogli uffiziali che hanno d'andar a combattere, mi par di trattare con delle ombre: onde, senza aver passion per veruno, li tratto tutti egualmente; li lascio andare a combattere senza pena. Mi rallegro con chi ritorna, mi scordo di chi ci resta, scherzo coi vivi, e non mi rammarico degli estinti.

FLO. Felice voi, che ammaestrata dall'uso ed aiutata da un ottimo temperamento, sapete trattare con indifferenza le cose più melanconiche e serie. Non so per altro, come sapreste esimervi dal cordoglio, se vedeste in pericolo vostro padre.

ASP. Veramente in questo caso non mi sono trovata mai, mentre noi andiamo alla guerra con tutto il nostro comodo, e senza arrischiar la pelle. Ma se mio padre fosse soldato, e morisse in battaglia, mi spiacerebbe assai meno di quello mi dolerebbe s'ei morisse di malattia sul suo letto. Finalmente una volta sola si muore, e i spasimi di un ammalato li credo più dolorosi degl'incomodi di un soldato, e veder uno morire a poco a poco reca maggior rammarico che sentir a dire egli è morto.

FLO. Si conosce che la conversazione de' militari vi ha insegnato a pensare diversamente. Così non parlereste, se non aveste seguitata l'armata. Ed è vero, verissimo, che l'educazione contribuisce non poco a formar la mente ed il cuore. Sono anch'io figliuola di un capitan valoroso. Don Egidio mio padre nacque cadetto di sua famiglia, ed impiegossi nel militare. Morto il di lui fratello, rimase solo, fu obbligato a legarsi con una moglie, ma non per questo rinunziar volle all'esercizio dell'armi. Io fui l'unico frutto delle sue nozze, e fino all'età presente educata fui in un ritiro. Invasa questa provincia dalle vostre armi, fatto il mio genitore castellano della fortezza, pensò ad allontanarmi dal pericolo di un assedio, e mentre in questa casa medesima si disponeva per altra parte il mio accompagnamento, giunse improvvisa la vanguardia del vostro esercito. Mi lasciò sul momento l'intrepido, genitore, addio mi disse partendo, e andò a chiudersi alla difesa di quella piazza, che è al suo valore raccomandata. Vedete dunque, che tutto nuovo mi giunge ciò che alla guerra appartiene; e più di tutto mi sta nell'animo il pericolo di mio padre, e vedendolo avvicinarsi, tremo a ragione, e non ho l'intrepidezza che voi vantate, né posso averla, e permettetemi ch'io lo dica, una figlia non dee sentirla; poiché a fronte dei vostri eroici divisamenti, la natura si scuote, l'amor ragiona, il sangue opera, e ogni dovere a tremare ed a rammaricarsi consiglia.

ASP. Io vorrei pure colle mie ragioni divertire dal vostro animo la tristezza. Ma vedo che non mi riesce... Oh via, donna Florida, grazie al cielo, se io non vaglio per consolarvi, viene ora chi potrà farlo meglio di me.

FLO. E chi viene?

ASP. Don Faustino.

FLO. Voglia il cielo ch'ei mi consoli con qualche lieta notizia. Oh, mi recasse don Faustino il lieto annunzio di pace!

SCENA NONA

Don Faustino e dette.

FAU. Eccomi a voi, adorata mia donna Florida.

FLO. È terminato il consiglio di guerra?

FAU. Sì, è terminato.

ASP. Fate ancor noi partecipi di qualche nuova.

FAU. Sì, ecco la determinazione del pien consiglio. Si darà l'assalto alla piazza, si salirà per la breccia, e quando non si arrenda il presidio, sarà prigioniero di guerra.

ASP. Bella nuova per donna Florida!

FLO. Ah ingrato! ah crudele! e con tanta indifferenza venite a recarmi in faccia una nuova per il cor mio Sì funesta?

FAU. Come! non desiderate voi stessa il termine della presente campagna? Fin che dura l'assedio, lusingarvene non potete. Decida una giornata e del valore e della fortuna delle armi. Figuratevi di veder vostro padre sul margine della breccia colla spada in mano ad animare il presidio e respignere gli assalitori. Figuratevi veder me stesso degli aggressori alla testa col brando nella destra, con una scala nella sinistra, scendere nella fossa, appoggiare la scala ai muri, salir per le rovine della fortezza, e fra la grandine delle palle nemiche giungere a fronte dei difensori, ed incontrandomi nel castellano...

FLO. Ah barbaro, ricordatevi che il castellano è mio padre.

FAU. Sì, donna Florida, amo e rispetto quel genitore che diede alla luce il più bell'idolo de' miei pensieri. Bramo conoscerlo, bramo di baciargli la mano, e di gettarmi a' suoi piedi, e domandargli la cara figlia in isposa. Ma fin che siamo nel campo, fino ch'ei ci disputa la vittoria, fin che dura all'ostinata difesa della sua piazza, lo considero mio nemico, bramo di soggiogarlo, e farei lo stesso s'ei fosse padre di me medesimo. Un uffiziale onorato giura al suo Sovrano una fedeltà illimitata, spogliasi d'ogni altro affetto a fronte della sua gloria, e preferisce ad ogni altro bene di questa vita l'onore, il merito e la vittoria.

ASP. Sentite? Con questi discorsi tutto dì nell'orecchie, non volete che anch'io divenga un'eroina per forza? (a Florida)

FLO. Con queste immagini di fortezza, di fedeltà, di onore, perché venite a presentarvi ad un'infelice? Vi compiacete del mio dolore? venite a posta per insultarmi?

FAU. No, cara, vengo a darvi un addio, che sarà forse l'ultimo ch'io vi reco.

FLO. Oimè! temete dunque voi stesso di mai più rivedermi?

ASP. Non volete ch'ei tema? Mi par di Sì. Ha d'andare all'assalto di una fortezza, e ora non si usano più elmi, scudi e petti di ferro. Ha d'andare snello, così come lo vedete, sotto una tempesta di schioppettate, e si ha da rampicare sui muri, e sopra di lui scaricheranno pietre, ferri ed artiglierie, e se lo colgono, schiavo, signor alfiere, non si trovano più nemmeno le di lui ossa.

FLO. Ah tacete, per carità. Mi dipingete il suo pericolo con Sì neri colori, e avete cuore di accompagnarli col riso?

ASP. Non lo sapete? Sono avvezzata; è forza dell'educazione.

FAU. Donna Florida, accompagnatemi almeno in questi ultimi estremi con uno sguardo pietoso.

FLO. Andate, barbaro, andate, e se v'incontrate col mio genitore, scordatevi ch'io gli son figlia.

FAU. È scritto in cielo il destino delle nostre armi. Possiamo essere vincitori, restar possiamo perdenti. Io posso vincere, e incontro con indifferenza il mio fato, più assai di quello sdegno che mi minacciano gli occhi vostri. Deh donna Florida, amatemi, compatitemi, conservatemi quella bontà con cui soffriste gli affetti miei; giuro, s'io sopravvivo, di amarvi sempre, di essere tutto vostro, di rendervi, per quant'io posso, felice.

FLO. (Ahimè; che fiero incanto al mio cuore!) (da sé)

ASP. (Eccolo lì; colla morte intorno vuol far ancora l'innamorato.) (da sé)

FAU. Ditemi una dolce parola, che mi consoli. Andrò più intrepido alla battaglia, coll'onesta immagine dell'amor vostro, e il punto in cui vi parlo d'amore può assicurarvi della purità del mio foco.

SCENA DECIMA

Caporale e detti.

CAPOR. Presto, signor alfiere. Tutti sono sull'armi, e il primo segno dell'assalto è già dato.

FAU. Donna Florida, addio. Permettetemi ch'io vi consegni il mio orologio, la mia tabacchiera, gli anelli, il mio danaro; se vivo, siatene depositaria; se muoio, disponetene come vi pare. Amatemi, s'io ne son degno, e sia di me quel che destinano i cieli. (parte col Caporale)

FLO. Oimè, fermatelo. (ad Aspasia)

ASP. Non vi è pericolo che s'arresti. Il tamburo ha l'abilità di far scordare ai soldati tutte le altre cose di questo mondo.

FLO. E perché ha egli lasciato qui questi arredi? ASP. Perché se muore, ne disponiate voi a vostro piacere.

FLO. Ah no, non fia mai vero ch'io soffra la vista di questi oggetti così lugubri e funesti. Pur troppo sento nell'anima il fier dolore, senza che oggetti nuovi me lo risveglino. Povero don Faustino, infelice mio padre, ahi sventurata me più di tutti! (parte)

ASP. S'ella non vuol questi mobili, li prenderò io. Ne sarò io la depositaria, e se muore l'alfiere, accetterò io, invece di donna Florida, il benefizio del militare suo testamento. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Campagna.

Vari SOLDATI con capretti, galline, capponi, vino, ecc.

I° SOLD. Sospeso l'assalto della fortezza, ecco qui, sono andato a dar l'assalto a un pollaio.

II° SOLD. Ed io ho fatto prigioniero questo capretto.

III° SOLD. Ed io ho cavato sangue a una botte.

I° SOLD. Manco male, che il nemico ha esposto bandiera bianca.

II° SOLD. Se non capitolava la resa, avressimo tagliato a pezzi il presidio.

III° SOLD. Meglio per noi; così almeno nell'armistizio ce la godiamo un poco.

I° SOLD. Andiamo a far legna, a cucinare, a mangiare. (parte)

TUTTI Sì, andiamo. (partono)

SCENA SECONDA

Lisetta contadina, con un cesto di roba, inseguita da due soldati.

LIS. Via, lasciatemi stare. Lasciatemi andare per la mia strada.

IV° SOLD. Venite con noi, che starete allegra.

LIS. Che impertinenza è questa? Sono una fanciulla onorata.

V° SOLD. Che cosa avete in quel cesto?

LIS. Lasciate stare il mio cesto.

IV° SOLD. Se avete roba da vendere, compreremo.

LIS. Non ho niente; non vi voglio vendere niente.

V° SOLD. Credete che non vogliamo pagare? Questi sono danari, e vendeteci quello che avete.

LIS. Ecco qui: ho del formaggio, delle ova e delle frutta.

IV° SOLD. Quanto volete di questo formaggio?

LIS. Tre paoli.

V° SOLD. E queste ova per quanto le date?

LIS. Ne do sei per un paolo.

IV° SOLD. Di questo formaggio vi voglio dare quattro baiocchi.

LIS. Datemi il mio formaggio.

V° SOLD. Quattro baiocchi di quel formaggio? Avreste intenzione di ingannare questa buona ragazza?

IV° SOLD. Cosa c'entri tu con i fatti miei?

V° SOLD. C'entro, perché so che sei un birbante.

IV° SOLD. A me birbante? Eh corponone! (mette mano alla baionetta)

V° SOLD. Eh sanguenone! (mette mano ancor egli alla baionetta; fingono volersi dare, e scappano portando via le ova e il formaggio)

LIS. Le mie ova, il mio formaggio. Poverina me! mi hanno rubato la roba mia. Cosa dirà mia madre? Poverina me! poverina me! (piangendo)

SCENA TERZA

Il Conte Claudio Con alcuni Soldati, e detta.

CON. Fanciulla, che cosa è stato?

LIS. Mi hanno rubato le ova; mi hanno rubato il formaggio. (piangendo)

CON. E chi sono stati i bricconi?

LIS. Due soldati.

CON. E dove sono?

LIS. Eccoli lì, que' due che vanno saltando. Hanno finto di volersi dare, ed ora ridono d'avermi gabbata. Mia madre mi griderà, poverina! (piangendo)

CON. Presto, inseguiteli ed arrestateli. (ai Soldati) Il Generale ha pubblicato il bando, pena la vita, che niuno ardisca nell'armistizio di usurpare nemmeno una spilla. Conduceteli al profosso, e saranno, come meritano, castigati. (ai Soldati che partono)

LIS. Ma io, poverina, non avrò più le mie ova ed il mio formaggio. (piangendo)

CON. Via, acchetatevi; quanto vale la roba che vi hanno preso?

LIS. Quattro paoli. (piangendo)

CON. E per quattro paoli piangete?

LIS. Piango, perché mia madre mi griderà.

CON. Via, perché la mamma non gridi, perché più non piangiate, eccovi i quattro paoli.

LIS. Sono poi veramente quattro paoli?

CON. Credete ch'io vi voglia ingannare?

LIS. Per dirvi la verità, ho paura, mi fido poco.

CON. Sono uffiziale; son galantuomo.

LIS. Sì, vi credo, ma li voglio contare.

CON. Soddisfatevi pure. E bene, sono giusti?

LIS. E non mi volete dar niente per la paura che ho avuto?

CON. Oh, questo poi è un altro discorso. Vi è restato niente da vendere?

LIS. Ne sono restate queste poche frutta.

CON. Quanto ne volete?

LIS. Tre paoli.

CON. Bene: vi darò tre paoli.

LIS. Eccole qui.

CON. Sì, ma portatele al mio quartiere.

LIS. Marameo! (espressione caricata per dir di no)

CON. Cosa vorreste dire?

LIS. Non ci vado io al quartiere d'un offiziale.

CON. E per qual ragione?

LIS. Non vorrei che mi succedesse quello che è succeduto a mia madre.

CON. E che cosa è accaduto a vostra madre?

LIS. Non lo so, non ci penso, e non ci voglio venire.

CON. Quand'è così, tenetevi le vostre frutta.

LIS. Voglio i tre paoli.

CON. Non vi voglio dar niente.

LIS. Guardate che bel tratto! Mi promette tre paoli, e non mi vuole dar niente. (piangendo)

CON. (Costei fa l'innocente, ma la credo furba come il demonio.) (da sé)

LIS. Mi avete detto di darmi tre paoli delle mie frutta; intendo di averle vendute. Eccole qui, se non me le volete pagar, non importa. (piangendo getta il cesto colle frutta per terra)

CON. Io non ricuso di darvi tre paoli, e sei, e dieci, e quanto volete, ma vorrei che foste più buona.

LIS. Io non sono cattiva. (rasserenandosi)

CON. Che nome avete?

LIS. Lisetta.

CON. Avete madre?

LIS. Signor Sì.

CON. Padre?

LIS. Poverino! mio padre è morto, ed è stata causa la guerra, che è morto. Ha tanto faticato a far legna per voi altri uffiziali, che è morto; e mi dovreste dare qualche cosa per mio padre che è morto. (piangendo)

CON. Via, vi darò tutto quel che volete; ma fatemi la finezza di tralasciare di piangere.

LIS. Che cosa mi darete, se io non piango?

CON. Vi darò uno scudo.

LIS. E se rido?

CON. Un zecchino.

LIS. Via dunque, datemi lo zecchinetto. (ridendo)

CON. Venite al quartiere.

LIS. Ecco qui, non si può credere a voi altri bugiardi.

CON. Lisetta. (accostandosi)

LIS. Lasciatemi stare.

CON. Eccovi un bel zecchino.

LIS. Per me? (ridendo)

CON. Per voi.

LIS. Me lo date? (ridendo)

CON. Se verrete al quartiere.

LIS. Maladetto sia quel quartiere.

SCENA QUARTA

Don CIRILLO saltando e cantando, e detti.

CIR.Viva la guerra, viva l'amore!

Che bel contento prova il mio cuore,

Quando si trova con gioventú,

Quando combatte tipete tu. (cantando e saltando)

Conte, mi rallegro, bravo; così mi piace. Che non si perda il tempo: o combattere, o far all'amore.

CON. Don Cirillo, questa giovane mi fa disperare.

CIR. E perché?

CON. Perché ora piange, e ora ride. Vorrebbe che le dessi de' danari, e non vuol venire al quartiere.

CIR. Non vuol venire al quartiere? non vuol venire al quartiere? E che Sì che io la faccio venire al quartiere. (saltando)

LIS. E che no, che non mi fate venir al quartiere? E che no, che non mi fate venir al quartiere? (saltando e caricando come lui)

CIR. Mi burli, fraschetta. (minacciandola con una stampella)

LIS. Via, lasciatemi stare. (piangendo, e accostandosi al Conte)

CON. Lasciatela stare, poverina. Non la fate piangere.

CIR. Non le credete; la conosco; è maliziosa; è un diavolo. (saltando)

LIS. Che vi strascini. (caricandolo)

CIR. Or ora, corpo di bacco.

CON. Venite qui; non gli badate. (a Lisetta)

LIS. A proposito; dove avete messo il zecchino?

CON. In tasca.

LIS. Bella Carità! me lo promette, e mi burla. (piangendo)

CON. Ma non piangete.

CIR. Non le credete.

LIS. Finalmente sono una fanciulla; senza mia madre al vostro quartiere io non ci posso venire. Se diceste a mia madre, che mi avete dato uno zecchino, potrebbe darsi che mi conducesse. (mostrando di tenersi di piangere)

CIR. Che tu sia maladetta! Sentite? la sa più lunga di noi. Vi vorrebbe mangiar lo zecchino.

LIS. Questo stroppio mi fa venire la rabbia. (piangendo forte)

CON. Orsú, per un zecchino non voglio disgustare una bella ragazza. Voglio darvelo, e vedrò se mi burlerete.

CIR. Non voglio che glielo diate. (corre nel mezzo fra Lisetta ed il Conte)

LIS. Voi, che cosa c'entrate? (a Cirillo)

CON. Lasciatemi gettare un zecchino. (stende la mano per darlo a Lisetta)

CIR. Signor no. (vuol impedire che non le dia il zecchino)

LIS. Il diavolo che vi porti! (dà una spinta a Cirillo, lo getta in terra, prende il zecchino e corre via)

SCENA QUINTA

Don Cirillo ed il Conte.

CIR. Aiuto. Aiutatemi. (al Conte che lo solleva) Oimè, sono rovinato.

CON. Ve la siete ben meritata.

CIR. Gliel'avete dato il zecchino?

CON. Gliel'ho dato, sicuro.

CIR. Sì, per farmi dispetto; ma non avete né testa, né prudenza, né civiltà.

CON. A me questo?

CIR. Sì, a voi. Io ho avuto amicizia colle più belle ragazze di questo mondo, e non ho mai speso un quattrino, e voi buttate via il danaro così? Stolido, scimunito, minchione.

CON. Don Cirillo, parlate meglio.

CIR. E al giorno d'oggi, stroppio così come sono, son padrone di farmi correr dietro tutte le donne ch'io voglio; e mi parerebbe di ridere a farvi stare, bertuccione, vigliacco.

CON. Siete un temerario, un impertinente.

CIR. A me temerario? a me temerario? (saltando)

CON. A voi, e se non foste nello stato in cui siete, v'insegnerei a parlare.

CIR. Non ho paura di voi, e, cospetto di bacco, mi voglio battere.

CON. Non mi vo' mettere con uno stroppio.

CIR. Se ho stroppia la gamba, non ho stroppia la mano; ci batteremo colla pistola.

CON. Bene, ad altro tempo ci rivedremo. (parte)

CIR. Crede forse di farmi paura? Ho fatto ventisette duelli, e son soldato d'onore, e don Cirillo, anche senza una gamba, sempre sarà don Cirillo. E viva la guerra, e viva l'amore ecc. (cantando e saltando parte)

SCENA SESTA

Camera in casa del Commissario.

Donna Florida e donna Aspasia.

ASP. Donna Florida, mi rallegro con voi.

FLO. Sì, cara amica, sono consolatissima. Il cielo ha secondato i miei voti. Terminato è per ora il pericolo di mio padre, e non mi sento pìú al cuore l'acerba pena che mi teneva angustiata. ASP. Il motivo della vostra consolazione deriva soltanto dalla salvezza di vostro padre? Non v'interessa punto la salute di don Faustino?

FLO. No, mi sovviene con qual baldanza era disposto a contribuire all'eccidio del mio genitore. M'intenerì alcun poco, allorché lo vidi incamminarsi alla perdita della vita; ma ora ch'egli è fuor di pericolo, rifletto soltanto alla crudeltà con cui mi venne a ostentare in faccia il suo coraggio, la sua virtù, o piuttosto il suo fanatico desiderio di gloria.

ASP. Se aveste pratica del militare, non parlereste così. Gli ufficiali vanno alla battaglia, come si va al festino, alle nozze; e dicono per proverbio: o un bel vincere, o un bel morire.

FLO. Sì, ne son persuasa; ma in faccia mia non doveva mostrarsi indifferente a tal segno. Doveva almeno dissimulare.

ASP. Don Faustino è sincero. Dovreste anzi aver di lui maggior stima, per una sì bella sincerità.

FLO. L'amor che avete per la milizia, vi fa essere avvocata de' militari. Io non penso come voi pensate. Don Faustino ha un esterno amabile, ma chiude in seno un animo, che è feroce. L'amai non conoscendolo, ora mi fa spavento l'amarlo, e temer posso che la ferocia de' suoi pensieri renda barbaro l'amore istesso, e possa un giorno ricompensare la mia tenerezza con aspri modi e con militare fierezza.

ASP. Può essere, se lo rivedete, che non parliate così.

FLO. Può essere, ma non lo credo.

ASP. Io so di certo, ch'egli vi ama davvero.

FLO. Guardate la bella prova d'amore. Si è egli curato di venir subito a rivedermi?

ASP. Convien sapere, se ha potuto ancor liberarsi dall'obbligo delle sue funzioni.

FLO. Eh, dite piuttosto ch'ei di me non si cura.

ASP. A quel ch'io sento, voi avete un'estrema curiosità di vederlo.

FLO. Sì, è vero. Ho curiosità di vedere se pena, se si rammarica, per non aver riportata quella vittoria che dovea costarmi le lagrime, e fors'anco la vita.

ASP. Eccolo, eccolo, potrete or soddisfarvi. Addio, donna Florida.

FLO. Dove andate?

ASP. Ho un affar di premura. E poi ho piacere di lasciarvi in libertà. Non vorrei che per soggezione di me voleste sostenere la massima concepita. Ci rivedremo fra poco, e mi lusingo di ritrovarvi cangiata. Oh amica, amore sa far delle cose belle. (parte)

FLO. Amor può far tutto, ma non potrà mai persuadermi ad amare un oggetto che preferisce il pericolo alla tranquillità, e che rinunziò alle tenerezze di un cuore amante, per la barbara compiacenza di una sanguinosa vittoria.

SCENA SETTIMA

Donna Florida e don Faustino.

FAU. Ah donna Florida, eccomi a voi dinanzi, eccomi pieno di giubbilo e di contento nel rivedervi lieta e felice. Il cielo ha secondato i miei voti. Siete libera dallo spavento, non vi vedrò più in aria mesta, piangente. Libero sarà vostro padre. La tregua è certa, la pace è vicina; il suono lugubre in liete armonie si converte. Le spade pendono oziose al fianco; son cessati i pericoli, le ostilità, le carnificine. Respirate, mia cara, colla dolce lusinga di presto abbracciare il valoroso eroe vostro padre, e se qualche scintilla d'amore per me provate, consolatevi di rivedermi e vivo, e sano, fuor di necessità di combattere, non più vostro nemico, ma vostro servo, e permettetemi il dirlo, vostro fedele, svisceratissimo amante. (sempre con aria di allegria)

FLO. (Questa inaspettata sua contentezza mi sorprende, mi ammutolisce). (da sé)

FAU. Ma come? Sì mal rispondete al sincero giubbilo del mio cuore? Non vale la felicità che vi si presenta a rasserenare l'afflitto animo vostro?

FLO. Don Faustino, compatitemi, non vi capisco.

FAU. E donde nasce la difficoltà di capirmi?

FLO. Non siete voi quello che, poco fa, ilare, animoso e contento, si disponeva a combattere, ad assalire la piazza e ad affrontarsi col medesimo mio genitore?

FAU. Sì, son quel desso.

FLO. Ed ora, come potete voi ostentare la stessa ilarità ed allegrezza in un evento affatto contrario? Come vi può esser cara la pace, se eravate per la battaglia anelante, e come compiacervi potete di essere amico con quegli stessi di cui desideraste poc'anzi la perdita, l'esterminio, la morte?

FAU. S'io fossi più filosofo che soldato, rendervi potrei ragione del modo con cui in un medesimo cuore per due contrarie ragioni può succedere l'una all'altra allegrezza. Alcuni principii di naturale filosofia sono per altro comuni a tutti, onde permettetemi ch'io vi dica, che i piaceri ed i dispiaceri vengono da noi concepiti secondo la disposizione dell'animo, e questa ora è mossa dall'affetto, or dal dovere, ed ora dalla necessità. Quindi avviene, che lasciandosi l'uomo regolar dall'affetto, concepisce e desidera un bene; poi, riflettendo al dovere, ne brama un altro, e la necessità, talvolta, dell'animo intieramente dispone. Ognuna di queste cause moventi è capace di occupar tutto l'uomo, ed è assai meglio abbandonarsi ad una immagine sola, che soffrire l'interna pugna delle irresolute passioni. Capite ora, perché fui lieto nell'adempimento del mio ministero, perché or son lieto nel contentamento della inclinazione che a voi mi lega, e compatendo quel giubbilo che mi conduceva alla gloria, gradite or la letizia che al vostro piè mi conduce. (inginocchiandosi)

FLO. Sì, adorabile cavaliere. Ammiro il vostro talento, applaudisco al vostro valore e mi compiaccio dell'amor vostro. Compatite, se dubitai vanamente della sincerità de' vostri teneri affetti, ed attribuite l'inganno a corta mente e ad inesperienza di mondo.

FAU. Anzi la dubbietà ragionevole del vostro cuore giustifica la premura che di me avete, e lungi dal lamentarmene vi ringrazio, o mia cara, di una sì segnalata bontà.

FLO. Ma quando poss'io sperare di rivedere il mio genitore?

FAU. Ciò non so dirvi precisamente. Spedito fu don Ferdinando dal Generale a interpellare la sua intenzione. Se trovasi in necessità di doversi arrendere, si proporranno i capitoli della resa e quanto prima potrete essere consolata.

FLO. Speriamo che sia terminata la guerra?

FAU. Sì, certo; si hanno fondamenti per credere che non sia lontana la pace.

FLO. Deh non ritardi quel momento per me felice, in cui possa gettarmi a' piedi del caro mio genitore e chiedergli in dono la permission di potervi amare.

FAU. E s'egli ve lo negasse, lasciereste perciò d'amarmi?

FLO. So quanto amore ha per me, e mi lusingo a ragione della sua pietosa condiscendenza.

FAU. Ma se mai l'avversione concepita contro di noi, che componiamo un'armata nemica, lo stimolasse a negarvi la grazia, che fareste voi in simil caso?

FLO. Morirei di dolore; ma prendendo l'esempio dalla vostra istessa virtù, anteporrei il dovere all'amore, e studierei di obbedire al padre con quella stessa costanza con cui sareste voi disposto ad assalirlo sulle mura nemiche.

FAU. Sì, donna Florida, con tai sentimenti piucché mai mi piacete. È troppo vile quella passione che può soffrire il rossore, ed è l'amor virtuoso la vera consolazione delle anime delicate.

FLO. Il mio cuore per altro desidera trovar il padre a' suoi desideri secondo.

FAU. Non cede l'animo mio alle premure del vostro, e vo cogl'interni voti sollecitando il mio bene.

FLO. Or più che mai desidero di rivedere il padre.

FAU. Or più che mai desidero la conclusion della pace.

SCENA OTTAVA

Don Polidoro e detti.

POLID. Signor alfiere, l'ha saputa la novità?

FAU. Si è forse dichiarata la pace?

POLID. Che pace? che pace? Guerra, guerra, e vorrei io viver tanto, quanto durerà questa guerra.

FLO. Ma che novità siete voi venuto a recarci?

POLID. La novità è questa. Don Egidio vostro padre, il castellano della fortezza assediata, ha esposto bandiera bianca, per volersi arrendere e capitolare; ma vuol pretendere tutti gli onori militari possibili: vuol bandiere spiegate, tamburo battente, carri coperti e cento altre cose, e il nostro Generale non gliene vuole accordare nessuna; e non se ne farà altro, e si tornerà a battere la Fortezza, e si darà l'assalto alla piazza, e si prenderà a discrezione, e si darà il saccheggio, e si darà il saccheggio. (con allegria)

FLO. Ah don Faustino, tornerete voi a lasciarmi? Tornerete voi al cimento? Vi esporrete di nuovo all'azzardo d'infierire contro il povero mio genitore?

FAU. Donna Florida, non so che dire. Voi conoscete il mio cuore: noti vi sono i miei sentimenti. Approvaste voi stessa, e virtù chiamaste il modo mio di pensare; vogliano i fati, che l'onor mio non esiga il sagrifizio della mia passione.

FLO. Eccomi nuovamente precipitata nel cupo seno delle sventure.

FAU. Deh non vi affliggete cotanto, e non cercate d'indebolire la mia costanza.

POLID. Signor alfiere.

FAU. Che cosa volete? (a don Polidoro, con alterezza)

POLID. Perdoni. È vero che Marte e Venere sono stati amici; ma si ricordi bene che Marte fu colto in rete, e gli si fecero le fischiate.

FAU. Che vorreste dire per ciò? Parlate meglio di me; pensate meglio di un cavaliere e di un uffiziale d'onore: amo una dama, che merita di essere amata, né dubito che l'amor mio possa esser deriso, poiché la virtù non abbandona il mio cuore. Son conosciuto all'armata. È cognito il mio valore, ho dato prove del mio coraggio, né mi può essere rimproverata l'onesta fiamma che nel mio seno coltivo. Voi arditamente parlaste, e saprei ben anco mortificarvi, se non rispettassi il tempo e il luogo in cui siamo. Io venni a combattere per la gloria, voi siete al campo per l'interesse; la varietà dei nostri principii, e dell'esser nostro, fa Sì che voi conoscete male il vostro dovere, e che io per mio decoro vi risparmi ora quella mercede che meritate. Ma se avrete più ardire di frammischiarvi in cosa che mi appartenga, troncherò gli argini alla sofferenza, e saprò farvene amaramente pentire.

POLID. Benissimo.

FAU. Donna Florida, permettete ch'io parta. Lasciate ch'io vada a rilevar con più fondamento ciò che a noi ha recato una voce sospetta. Non vi abbandonate intieramente al dolore; sperate, Sì, sperate nel cielo, confidatevi nella clemenza dei numi, ed assicuratevi dell'amor mio. (parte)

FLO. Speranze infide! funesto amore! peripezie dolorose! Nacqui sotto un astro infelice: ho da penar fin ch'io viva; ed un momento di bene mi viene con successive amarezze ricompensato. Miserabile vita! crudel destino! immutabile condizion del mio fato! (piangendo parte)

POLID. Benissimo. Ella vorrebbe la pace, ed io vorrei che continuasse la guerra. Così vanno tutte le cose di questo mondo: chi ne desidera una, chi ne desidera un'altra. Per esempio, quel contadino vuol seminare, vorrebbe che la pioggia gl'inumidisse il terreno; quell'altro vuol battere il grano, vorrebbe che fosse sole. Un marinaro che vuol andar in levante, brama il borino; un altro vuol andar in ponente, brama il scirocco. Una donna che ha degli abiti per comparire, vorrebbe sempre bel tempo. I commedianti vorrebbero che tutto il mondo andasse al teatro, i giocatori al ridotto, i sonatori al ballo. In somma disse bene colui che disse:

Vari sono degli uomini i capricci:

A chi piace la torta, a chi i pasticci. (parte)

SCENA NONA

Campo di battaglia con veduta della fortezza assediata con bandiera bianca, e la breccia aperta.

Il campo è intieramente ingombrato, come segue. Un manzo scorticato ed aperto attaccato a' legni. Un carro con una botte di vino. Una o due some con frutti, erbaggi ecc. Una tavola con Soldati che mangiano e bevono; e Soldati, Paesani e Donne che ballano. Soldati che vendono e comprano, altri che cavano il vino dalla botte ecc.

Don Cirillo, Un Aiutante Con un Trombetta e Soldati

TROM. (Suona. Tutti si fermano ad ascoltare)

AIUT. D'ordine di Sua Eccellenza il signor General Comandante, si sbarazzi immediatamente il campo per dar luogo all'erezion delle tende.

CIR. Animo, presto, sbarazzate il campo. Per qual motivo vuole il Generale che si erigano qui le tende? (all'Aiutante)

AIUT. Deve abboccarsi col comandante della fortezza assediata, per trattar di capitolazione, e vuol riceverlo qui, a vista di tutto l'esercito.

CIR. E il comandante nemico verrà qui in persona a trattare?

AIUT. Così è, così hanno stabilito di fare. Ma che si fa? non si obbedisce al comando? Soldati, fate voi sbarazzare. (a' suoi Soldati; e parte con don Cirillo)

Suonano i tamburi; i Soldati dell'Aiutante si avanzano per far eseguire. Portano via ogni cosa con confusione e rumore; si rovescia la tavola, cadono le some. I Paesani gridano, e i Soldati bastonano. Liberato il campo, al suono di tamburi vengono altri Soldati a piantare il padiglione del Generale con due sedili.

SCENA DECIMA

Don Sigismondo, il Conte Claudio, don Faustino, don Ferdinando, don Fabio, Soldati.

Vengono al suono di trombe e tamburi. Don Sigismondo si ferma al suo padiglione,

gli altri Uffiziali prendono posto all'intorno, alla testa delle milizie.

SCENA UNDICESIMA

Dalla fortezza, a suono di tamburo, scende don Egidio, con seguito di alcuni Uffiziali, i quali restano indietro, e don Egidio si avanza al padiglione, dove è ricevuto da don Sigismondo, che lo fa sedere alla dritta, sedendo anch'egli alla sinistra.

SIG. Don Egidio, lasciate prima di tutto ch'io mi congratuli con esso voi della valorosa difesa, che fatta avete sinora della piazza al vostro merito raccomandata, e che mi congratuli insieme col vostro Sovrano, che può vantarsi d'avere in voi uno dei più valorosi capitani de' nostri tempi. Dieci giorni continui ci avete defatigati sotto una piazza che doveva arrendersi all'avvicinarsi delle nostr'armi, né figurar mi poteva, che, all'aprire della nostra trincea, aveste cuor di risponderci colla scarsa batteria del Castello, e molto meno tentare disordinarci colle sortite, e resistere al fuoco delle nostre batterie duplicate. Al primo aspetto parve la vostra difesa soverchio ardire, immeritevole di ascoltare verun patto nell'occasion della resa; ma rispondendo l'esimio vostro valore all'apparato di guerra con cui v'incominciaste a difendere, lodo il coraggio, mi compiaccio di vincere un buon soldato, né ricuso con voi di capitolare. Riflettete per altro alla qualità della piazza, allo stato in cui vi trovate, all'inimico che avete a fronte, e moderate le vostre pretese, se volete trovare in noi quell'umanità che ci alletta, e quella condiscendenza che ad un esercito vittorioso, all'onorato suo condottiere conviene.

EGI. Grate mi sono, don Sigismondo, le laudi vostre, quantunque io sappia non meritarle; poiché chi serve al suo Principe non fa che il proprio dovere, servendolo con fedeltà e con zelo. Permettetemi però ch'io vi dica, che mal conoscete la piazza cui attaccaste, e che merita da voi maggior stima e miglior concetto. Ella era talmente fortificata, che senza un formale assedio non si poteva sperare di soggiogarla, e i suoi magazzini provveduti di viveri e di monizioni non posero mai in verun'angustia il presidio. Non parlovi del coraggio de' suoi difensori. Li conoscete per prova, e sapete esser quelli che, disputatovi a palmo a palmo il terreno, soverchiati dal numero, seppero senza disordine ritirarsi, e in quelle mura costretti furono a ricovrarsi. Ditelo voi, valoroso condottiere d'eserciti, qual è a' dì nostri quella fortezza, che senza un campo volante resister possa più lungamente al tormento della formidabile artiglieria? Non mancò verun di noi al proprio dovere. Ci provaste nelle sortite, intrepidi ci vedeste all'azzardo, disposti a sagrificare la vita per la difesa comune. Vi sortì finalmente lacerare le nostre mura, e aperta e dilatata la breccia, siamo a quel punto in cui qualunque capitano onorato può chieder tregua, e può capitolare la resa. Per me, vi accerto che trovavami assai disposto a continuar la difesa, e la mia spada, unita a quelle de' miei valorosi compagni, non vi avrebbe lasciato Sì di leggieri salir le mura e penetrar nel recinto. Ma dubitai, che fossevi nel presidio chi amasse meglio una cession vantaggiosa, anzi che una pertinace difesa. La mia carica, il mio dovere vuole ch'io possa rendere giusto conto dell'ardire e della prudenza; perciò seguitando le leggi ed il costume degli assediati, esposi candida insegna, vi chiesi triegua, e vi esibisco la resa.

SIG. La triegua vi fu accordata. La resa non si ricusa accettarla. Ma a qual patto intendereste voi d'accordarla?

EGI. A buoni patti di guerra.

SIG. Tutti i patti non convengono ad ogni piazza.

EGI. Merita la mia quegli onori che alle frontiere si accordano, ed io non credo né col mio nome, né colla mia difesa, averla punto discreditata.

SIG. Accorderò al vostro nome ed al vostro valore quello che non accorderei al merito della fortezza.

EGI. Nulla per me vi chiedo. Pretendo che onorate si veggano le insegne del mio Sovrano.

SIG. Su via, don Egidio, spiegatevi: a quali patti intendereste voi di capitolare la resa?

EGI. Eccoli qui sommariamente distesi. (mostra un foglio e legge) Primo. Che debba uscire il presidio armato, con sei cariche per ciaschedun soldato, colle bandiere spiegate e coi tamburi battenti. Secondo, quattro carri coperti, oltre il libero asporto degli equipaggi.

SIG. Sospendete di maggiormente inoltrarvi. La piazza è ridotta agli estremi; né può pretendere una capitolazione sì avvantaggiosa. Il presidio dovrebbe arrendersi a discrezione. In grazia vostra gli si concede l'uscita, ma senz'armi, e senza bandiere, e dei carri coperti non ne parlate.

EGI. No, non ho l'animo così vile per cedere in una maniera Sì vergognosa. O accordatemi quegli onori che mi convengono, o mi difenderò sino all'ultimo sangue.

SIG. L'esercito è già disposto all'assalto, ed impazienti siam tutti di segnalare il nostro coraggio.

EGI. Né manca in noi il valore e l'intrepidezza.

SIG. Proviamoci adunque e poiché vi ostinate a difendervi, preparatevi al destino de' disperati. EGI. Signore, voi ed io facciamo il nostro dovere. Ma se in mezzo all'onorato impegno delle nostr'armi può aver luogo la cortesia, ardisco chiedervi per me una grazia.

SIG.  Chiedete pure. Son nemico delle vostr'armi, non della vostra persona.

EGI. Ecco; disposto già mi vedete ritornar per la stessa strada alla combattuta fortezza. Rimesso colà dentro il mio piede, tornate pure alle ostilità, ed usi ogni uno di noi il diritto ed il poter della guerra; ma pria ch'io torni fra quelle mura, permettetemi che per brevi momenti possa rivedere la mia figliuola.

SIG. Con quanto fervore vi ho saputo negare la capitolazione, con altrettanto piacere vi accordo questa picciola compiacenza. Andate su la vostra parola.

EGI. Grazie alla vostra bontà. Eh là, tornate al Castello. Dite che a momenti colà mi aspettino; e in pena della vita, niuno ardisca di moversi senza mia commissione. (a' suoi Uffiziali, i quali tornano nella fortezza)

SIG. Amico, preparatevi alla difesa. Noi verremo con animo di soggiogarvi.

EGI. Ed io vi aspetterò con intrepidezza.

SIG. Guardatevi dalle nostre spade.

EGI. I miei colpi non saranno meno risoluti dei vostri.

SIG. Addio, don Egidio.

EGI. Addio, Sigismondo. (si abbracciano e si baciano)

Al suono delle trombe partono tutti. Poi, allo strepito del tamburo escono Soldati, Paesani e Donne a ballare ed altri a mangiare, a bere, a vendere ecc.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa del Commissario.

Donna Florida sola.

FLO. Dacché son nata, per quante disgrazie, per quante agitazioni d'animo abbia sofferte, mai più trovata mi sono nell'impazienza, che presentemente mi affligge. Mio padre è al campo, e non mi è lecito di vederlo. Trattasi o della resa, o di un estremo cimento, e non v'è alcuno che mi ragguagli di ciò che passa, di ciò che possa sperarsi. Un punto può decidere di me stessa, e questo punto mi è incognito, e son fra mille timori. Se tornano alle ostilità, alle rovine, il mio genitore è in pericolo, e non è salva di don Faustino la vita. E se la resa si compie, chi mi assicura che il genitore medesimo alle mie nozze acconsenta, e chi mi accerta che il giovane militare che mi ama, risolva tutto ad un tratto lasciar l'impiego, abbandonate le insegne, e preferir la mia mano all'idolo della gloria? Fra il turbamento de' miei pensieri, non so s'io meglio desideri o un'incerta speranza, o un disinganno penoso. Sono due stati per me infelici, né saprei sceglierne alcuno senza tremare. Ciò che potrebbe rendermi consolata, sarebbe il lieto suono di pace, l'assenso del padre, la docilità dello sposo; ma oh dio! sono immagini troppo incerte, sono lusinghe troppo lontane, ed il mio cuore è Sì afflitto, che pria di giungere alla certezza del mio destino, abbandonarmi pavento alla più fiera, alla più dolorosa disperazione. (siede confusa)

SCENA SECONDA

Don Faustino e detta.

FAU. (Eccola qui, dolente al solito e lacrimosa. Oh cieli! ella mi ha fatto perdere quella ilarità, quella indifferenza, con cui soleva reggermi a fronte di qualunque destino).

FLO. Venisse alcuno almeno per informarmi. (s'alza) Chi è là?... (scopre don Faustino, e rimane confusa)

FAU. Signora, se chiedete un servo, eccolo ad obbedirvi.

FLO. Voi qui! senza dirmelo? senza parlare? Qual novella recate? qual fu l'esito dell'abboccamento sul campo?... Ah no, non mel dite; dall'insolita mestizia del vostro volto comprendo il mio infelice destino. Vuol guerra il mio genitore, e guerra piace al Generale nemico, e voi forse sotto i finti colori di una simulata mestizia, applaudite alle stragi, e vi disponete con giubbilo alla battaglia. Via, non fate forza a voi stesso. Trionfi la vostra virtù. Usate liberamente quella barbara filosofia, che vi fa essere lieto tanto coll'amor della figlia, quanto colla morte del padre: e se vi offende la mia tristezza, allontanatevi  da  quest'oggetto   infelice.   Seguite  gli   stimoli   della  vostra  gloria,   e risparmiatemi il crudo affanno di sentirmi vantare in faccia il vostro barbaro ed inumano coraggio.

FAU. Calmate, o cara, gli sdegni vostri; non m'ingiuriate, ch'io non lo merito. Pur troppo le vostre lagrime e i vostri amari trasporti hanno avvilito la mia costanza, e più non riconosco me stesso. So che vi amo, ma so altreSì che un uomo vile e codardo degno non può essere dell'amor vostro. Ma ho un inimico a fronte, che interessa le vostre cure, e non posso essere valoroso senza comparirvi crudele. Decidete voi, donna Florida, del mio destino. Piace a voi ch'io mi tolga la spada dal fianco, che la depositi a' piedi del Generale, che sottoscriva io medesimo il mio disonore, la mia viltà, e che mi esponga alle mormorazioni del campo, e senza poter rispondere agl'insultanti, soffrir io deggia i rimproveri, gli scherni, le derisioni? Mirate meglio lo stato mio; riflettete a quell'onorato carattere che mi fregia, compatite le dolorose mie circostanze, e se l'impegno, in che sono, non può meritare l'affetto vostro, sia degno almeno il mio cuore di pietà, di perdono. Sì, cara, da voi lo spero, e a' vostri piedi con tenerezza e con fiducia lo chiedo. (s'inginocchia)

FLO. Oh dei! alzatevi.

FAU. Perdonatemi.

FLO. Alzatevi per carità.

SCENA TERZA

Don Egidio e detti.

EGI. Olà, che fate voi ai piedi di mia figliuola?

FAU. (S'alza confuso)

FLO. Oh adorato mio genitore!

EGI. Tacete. Rendami conto quest'uffiziale nemico, con qual animo gettossi a' piedi di una mia figlia.

FAU. Signore, per darle l'ultimo addio.

EGI. E dove siete voi incamminato?

FAU. Ad assalire le vostre mura, A combattere contro i vostri soldati e contro di voi medesimo, se la sorte vi presenterà alla mia spada.

EGI. Qual grado è il vostro?

FAU. D'alfiere.

EGI. Che pretendete voi da mia figlia?

FAU. Il cuore e la mano: il primo lo chiesi, e l'ho ottenuto da amore. L'altra sperai averla dalla vostra bontà.

FLO. Deh caro padre... (a Egidio)

EGI. Tacete. Con voi non parlo. (a Florida) Siete voi cavaliere? (a Faustino)

FAU. Sì, tal sono. È cognito all'armata il mio nome.

EGI. Chi siete?

FAU. Don Faustino Papiri, duca d'Alba, signor di Conchiglia.

EGI. Conosco il vostro casato.

FLO. Se conosceste le adorabili sue qualità...

EGI. Tacete. (a Florida) Amate la figlia, e avete cuor di combattere contro il padre?

FAU. Un capitan valoroso sa meglio di me i doveri di buon soldato: amore non mi comanda a fronte della mia gloria.

EGI. Così parlano i valorosi. Siete degno della mia stima, siete degno del sangue mio.

FLO. (Oh cieli, secondate le disposizioni dell'animo del mio buon genitore). (da sé)

FAU. Signore, se tanta bontà vi anima in favor mio, promettetemi la vostra figlia in isposa.

EGI. Sì, l'avrete.

FLO. Quando? (a Egidio, con impazienza)

EGI. Tacete. (a Florida) Lo stato in cui ci troviamo, non ci permette parlar più oltre di ciò. Fate il vostro dovere, assalite le nostre mura: sarò io stesso spettatore del vostro coraggio. Se il destino vi fa soccombere, la morte scioglie ogni nodo; s'io muoio, e voi vivete, valetevi della mia parola per conseguire mia figlia; s'ambi viviamo, terminata la guerra, dalle mie mani l'avrete. Dissi quanto basta ad un cavaliere, che per mio genero accetto; da questo punto noi ritorniamo nemici.

FLO. Oh cieli! quai funeste nozze son queste? Ah padre mio pietosissimo, non mi fate morire di spasimo, di dolore.

EGI. Qualunque pena che voi provate, è dovuta alla vostra imprudenza. Acconsento alle vostre nozze: ma non do lode alla vostra condotta. Una donzella nobile, una figlia di don Egidio, una prigioniera de' miei nemici, non doveva aprir il cuore agli affetti, mentre sudava il padre fra l'armi. La fortuna di aver incontrato in un amante nobile e valoroso non è vostro merito; e vi poteva lusingare un affetto indegno, come vi allettò una fiamma non indegna del sangue nostro.

FLO. Deh scusate, signore, la debolezza, l'incontro...

EGI. Non chiedo scuse; voglio obbedienza.

FLO. Comandatemi.

EGI. Venite meco.

FLO. Dove?

EGI. Al Castello.

FLO. Fra l'armi?

EGI. Sì, fra l'armi.

FLO. Esposta mi volete ai pericoli?

EGI. Maggiori saranno quelli di vostro padre e del vostro sposo. Seguitemi.

FAU. Signore, abbiate riguardo al sesso, all'etade, alla complessione. (a Egidio)

EGI. Il sesso, l'età, la complessione di donna Florida ha d'uopo di migliore custodia. Provvedo in tal modo al mio decoro e alla vostra quiete. Se avete animo da cavaliere, qual siete, non vi lagnate delle mie giuste, delle mie oneste deliberazioni. (a Faustino) E voi seguitemi senza dimora. (a donna Florida)

FAU. E come vi sarà permesso condur la figlia in Castello?

EGI. Non ci pensate. Mandai a chiedere al Generale l'assenso.

FAU. Non so che dire. Siete arbitro del di lei volere.

FLO. Mi abbandonate al mio crudele destino? (a Faustino)

FAU. Obbedite ai comandi del padre.

EGI. Non fate ch'io pratichi la violenza. (a Florida)

FLO. Ah no, signore; sono pronta a obbedirvi.

EGI. Amico, il cielo vi benedica. (abbraccia Faustino, e parte)

FLO. Ah don Faustino.

FAU. Ah donna Florida!

FLO. Il cuore mi dice, che non ci rivedremo mai più.

FAU. Sperate, o cara...

FLO. Vengo, signore, vengo. (verso la scena) Addio. (a Faustino, e parte)

SCENA QUARTA

Don Faustino, poi donna Aspasia.

FAU. Come mai si può vivere fra tanti affanni? Oh cieli, come potrò io salir quelle mura, se mi palpita il cuore, se il piè vacilla, se mi trema la mano?

ASP. Signor alfiere, appunto di voi cercava.

FAU. Deh lasciatemi in pace.

ASP. Voleva dirvi, che quel che lasciaste in mano di donna Florida, fu da me custodito.

FAU. Non m'inquietate per carità.

ASP. Non volete la scatola, l'orologio, gli anelli?

FAU. (Ora conosco qual sia la forza d'amore).

ASP. Non li volete?

FAU. (No; non è possibile ch'io resista).

ASP. No? avete detto di no? Se non li volete, li terrò lo. Ma ripigliate almeno il vostro danaro.

FAU. (Sì, il mio dovere mi sprona).

ASP. Sì? Eccolo. (gli vuol dare la borsa)

FAU. Ma lasciatemi, non mi stancate, non mi fate uscir di me stesso. (ad Aspasia)

ASP. Se non volete, lasciate stare; ma che dirà donna Florida?

FAU. Ah! dov'è donna Florida?

ASP. Dov'è donna Florida?

FAU. Non è partita col padre?

ASP. Col padre?

FAU. Non lo vedeste il di lei genitore?

ASP. Dove?

FAU. Qui, in questa stanza.

ASP. Ditemi, don Faustino, ci sarebbe pericolo che l'amore vi rivoltasse il cervello?

FAU. Ma dove foste finora?

ASP. Sono stata alla bottega di certa Orsolina, a provvedere dei nastri.

FAU. Non lo sapete dunque quel ch'è accaduto?

ASP. Non so nulla; raccontatemi.

FAU. Venuto è qui, non so come, il padre di donna Florida.

ASP. Oh capperi!

FAU. Ha scoperto gli amori nostri.

ASP. Eh! cosa mi dite!

FAU. Ed ha condotto seco la figlia,

ASP. Oh che caso, oh che disgrazia! oh che grand'accidente!

FAU. Donna Aspasia, non so se mi deridiate.

ASP. Non rido, signore; ma in verità non posso poi nemmen piangere.

FAU. Ah Sì, avete l'animo avvezzo alle crudeltà.

ASP. Sì, credo di essere più guerriera di voi.

SCENA QUINTA

Il Conte Claudio e detti.

CON. Povero don Faustino, me ne dispiace. (scherzando)

ASP. Lo sapete anche voi? (al Conte)

CON. Sì, ho veduto passar donna Florida con suo padre, mesta, afflitta, grondante di lagrime, che faceva pietà.

FAU. Ah, con qual barbara compiacenza venite, o Conte, ad inasprirmi la piaga?

CON. Capperi! siete cotto davvero.

ASP. È cotto, biscotto, arso, inaridito.

CON. Chi vi ha insegnato a innamorarvi come una bestia?

FAU. Lasciatemi stare. (al Conte, passeggiando)

ASP. Il signor alfiere vorrebbe combattere sotto un'altra insegna.

FAU. Contentatevi di tacere. (ad Aspasia, passeggiando)

CON. Andiamo, andiamo, che il fumo dei cannoni farà svanire i fumi d'amore.

FAU. A suo tempo farò il mio dovere. (come sopra)

ASP. Se va a combattere, avrà paura di offendere la sua bella.

FAU. Ma non mi tormentate. (con sdegno ad Aspasia)

CON. Voi farete ridere la brigata.

FAU. (Non posso più). (passeggiando)

ASP. Scommetto che gli fanno le pasquinate.

FAU. Perderò la pazienza. (ad Aspasia, con sdegno)

ASP. Alla larga.

SCENA SESTA

Don Cirillo e detti.

CIR. Animo, fratelli, coraggio. I guastatori lavorano. Gli artiglieri son pronti. Le scale son preparate. Si raccoglie l'esercito, ed a momenti si darà l'assalto.

ASP. Zitto, don Cirillo, che fate morire questo povero uffizialetto.

CIR. Ehi, l'ho veduta l'amica. (a Faustino)

FAU. Voi non dovete entrare ne' fatti miei. Ci siete entrato altre volte, ed a suo tempo me ne farò render conto.

CIR. Sì, quando volete. Pistola, e non ho paura. Uno e un due. Mi ricorderò anche di voi, signor Conte.

CON. Sì, quando volete. Ora voglio che siamo amici, e che confortiamo d'accordo questo povero appassionato.

FAU. Non provocate la mia sofferenza.

CIR. Che diavolo volete che dica di voi l'armata? Siete innamorato? buon viaggio. Non vi saranno altre donne al mondo? Noi altri militari ne ritroviamo per tutto.

L'amore del soldà

Non dura neanche un'ora.

Per tutto dove va

Si trova una signora

Lara lara lara lan là. (cantando e saltuzzando)

FAU. Questa è un'impertinenza. (a Cirillo)

(Suona il tamburo)

CON. All'assalto, all'assalto. (corre via)

FAU. Alla morte, alla morte. (corre via)

CIR. Alla guerra, alla guerra. (saltando via)

SCENA SETTIMA

Donna Aspasia, poi don Polidoro.

ASP. Buon viaggio, buon viaggio.

POLID. Che cosa è stato?

ASP. L'armistizio è finito presto, per quel ch'io sento. La piazza non si vuol rendere; converrà che la prendano per assalto.

POLID. Eh, la guerra non vuol finir per adesso. (con allegria) ASP. Io per altro, dopo questa campagna, vorrei che si andasse a quartier d'inverno.

POLID. A quartier d'inverno? a quartier d'inverno? Si ha da combattere colle nevi, col ghiaccio. Si hanno da vedere i soldati induriti dal gelo; le sentinelle hanno da diventar di cristallo. Gli uffiziali si provvederanno di buone pellicce, ed io ne ho fatto una tale provvista, che spero di guadagnarvi più di mille zecchini.

ASP. Tutto va bene; ma io ho sempre da far questa vita?

POLID. E che cosa vorreste fare?

ASP. Maritarmi.

POLID. Benissimo. E chi vorreste voi per marito?

ASP. Un uffiziale.

POLID. Per restar vedova dopo tre giorni?

ASP. Benissimo.

POLID. Figliuola mia, non vi consiglio di prendere un uffiziale.

ASP. E perché?

POLID. Perché gli uffiziali sono per lo più cadetti delle famiglie: ne hanno pochi da spendere, e sono avvezzi a scialare. Sono poi delicatissimi nel punto d'onore. Lasciano trattare, conversare le loro mogli per paura d'essere criticati di gelosia; ma niente niente che vedano che loro dispiaccia, in una mano la spada, e nell'altra il bastone. La spada per infilzare monsieur; il bastone per complimentare madama.

ASP. Oh, madama in quel caso saprebbe rispondere alle galanterie di monsieur. Sono avvezza all'armata, e non mi lascerei soverchiare. Avete capito?

POLID. Benissimo. ASP. Il benissimo è così fatto, che io mi vo' maritare, che mi avete a preparare la dote, e che se mai per avventura, per caso, per accidente, aveste la bontà di dirmi di no, ho dei protettori all'armata, che vi faranno dire di sì. Serva, signor padre. (parte)

POLID. La riverisco. Oh, l'ho fatta grossa io a condur costei all'armata. Merito peggio. Ecco la mia cara Orsolina: questa è donna di garbo, brava, economa, industriosa, e le voglio tutto il mio bene.

SCENA OTTAVA

Orsolina e il detto.

ORS. Ah signor Commissario.

POLID. Che cosa c'è?

ORS. Sono precipitata.

POLID. Che cosa è stato?

ORS. Dopo che si pubblicò l'armistizio, ho aperto due banche di faraone, ci ho messo sopra tutto quello che aveva, sperando di guadagnare moltissimo, sono venuti a mettere quattro uffiziali, e in un momento hanno sbancato i due tavolini, e sono rimasta senza un quattrino.

POLID. E i miei danari?

ORS. Il diavolo se li è portati

POLID. Andate al diavolo ancora voi.

ORS. Via, ci vuol pazienza. Se ora è andata male, un'altra volta anderà bene. Vi ricordate quello che mi avete promesso?

POLID. Vi dico chiaro, netto, rotondo, che non ne vo' più sapere.

ORS. Ed io vi dico chiaro, netto, rotondo, che se non mi manterrete quello che mi avete promesso, andrò dal Generale, gli scoprirò tutti i monopoli che fate; il danaro ad usura al venti e al trenta per cento; che nel pane della milizia ci frammischiate segala, veccia e lupini; che, in vece di mandare a far la legna nei boschi, per risparmiar le vetture fate devastar le campagne, tagliar le viti, e gli alberi, e i pali che le sostengono; che proteggete i malviventi all'armata; che siete interessato nel giochi, nelle bettole, nei festini. Sì signore; e se questo è poco, ho una giuntarella segreta, con cui mi darò l'onor di servirla. La riverisco divotamente. (parte)

POLID. L'elogio non è cattivo; la minaccia è calzante; lo spirito è ben disposto; è donna, ha bisogno, le ho promesso, le ho fatte delle confidenze. Sa tutti i fatti miei, può rovinarmi; bisognerà ch'io pensi a quietarla. Benissimo. (parte)

SCENA NONA

Luogo remoto o sia bosco corto.

Don Ferdinando, un Aiutante, un Caporale, Soldati e tamburo.

FERD. Sì, è un torto che mi vien fatto. (all'Aiutante)

AIUT. Di che cosa vi lamentate?

FERD. Mentre gli altri vanno all'assalto, perché destinarmi a presidiar questo sito? Non ho io valore che basta per quell'impresa? Non ho dato bastanti prove del mio coraggio? Don Faustino è alfiere dopo di me: perché dar a lui la gloria di ritrovarsi all'assalto, e spedir me a questo posto avanzato?

AIUT. Scusatemi, mi pare sia più decoroso il comandare a un picchetto, di quel che sia andare in truppa a scalar le mura di una fortezza.

FERD. No; colà vi è maggior onore, dov'è maggiore il pericolo. Don Faustino non mi doveva essere preferito.

AIUT. E pure so che il Generale fa stima di voi, e giudico certamente che, dandovi questa commissione, abbia inteso di darvi un posto d'onore.

FERD. Del Generale non mi lamento.

AIUT. Di chi dunque?

FERD. Di don Faustino, che maneggiandosi per essere fra gli assalitori, ha inteso di soverchiarmi.

AIUT. Io credo tutto al contrario. Don Faustino ama donna Florida, e donna Florida è stata condotta da suo padre in fortezza: pensate ora con qual piacere può andargli incontro colla spada alla mano.

FERD. È vero quel che mi dite?

AIUT. Verissimo. (si ode suonare un cornettone da posta)

FERD. Donde viene questo suono?

AIUT. Da quella parte.

FERD. È un uomo a cavallo.

AIUT. E corre a carriera aperta.

FERD. Caporale, riconoscete quell'uomo.

CAPOR. (Si avanza)

SCENA DECIMA

Un Corriere a cavallo di galoppo, e detti.

CAPOR. Chi va là?

CORR. Corriere.

CAPOR. Dove andate?

CORR. Al campo.

CAPOR. Chi domandate?

CORR. Ho un dispaccio per il Generale.

CAPOR. Ha sentito? (a Ferdinando)

FERD. Fatelo accompagnare da due soldati.

CAPOR. A voi, accompagnatelo al quartier generale. (a due Soldati)

FERD. Che nuove portate? (al Corriere)

CORR. La pace.

FERD. È fatta la pace?

CORR. È fatta la pace.

FERD. Presto, che salgano due soldati a cavallo, e lo accompagnino velocemente al quartiere.

CAPOR. Subito. Fermatevi voi. Andate voi altri. (partono altri due Soldati)

FERD. Sollecitate la corsa. (al Corriere)

CORR. Son cascato due volte. Non ho più fiato. (parte)

AIUT. Avete piacere che sia seguita la pace?

FERD. Ho piacere che don Faustino non possa vantarmi in faccia il merito di un assalto.

Ritiriamoci nel fortino ad aspettare i comandi del Generale. (parte)

AIUT. L'invidia regna per tutto, ma all'armata poi si attacca come la pece. (parte con Soldati)

SCENA UNDICESIMA

Campo di battaglia con batteria di cannoni. Fortezza senza bandiera bianca.

Don Faustino, il Conte, don Fabio. Soldati in atto di dar l'assalto alle mura. Soldati su la fortezza, che si difendono al suono di tamburi. Il suono delle trombe fa cessare i tamburi, e s'odono voci per il campo, che gridano: Pace, pace. Gli assalitori abbandonano il posto, si ritirano al campo, si mettono in ordinanza ecc.

SCENA DODICESIMA

Don Sigismondo e detti.

SIG. Amici, ecco il dispaccio regio, ecco la pubblicazion della pace. Lodo il vostro coraggio, ne darò parte al Sovrano, e sperar potete la ricompensa al vostro merito ed al vostro valore dovuta.

FAU. (Il cielo ha secondato i miei voti).

SIG. Don Fabio, sia vostra cura far ritirare i feriti, e sotterrare gli estinti. FAB. Saranno eseguiti gli ordini vostri. (parte)

SIG. A voi, don Faustino, do l'onorevole incarico di recar i capitoli della pace al difensor valoroso della fortezza. (gli dà un foglio)

FAU. (Oh comando per me felice! oh momento che mi ricolma di giubbilo e di contentezza!) (corre verso la fortezza. Fa cenno col fazzoletto. Gli calano i ponti sopra la breccia, suonano sul Castello le trombe, ed egli entra)

SCENA TREDICESIMA

Don Cirillo, don Polidoro e detti.

CIR. La pace. La pace; e viva la pace. (saltando)

POLID. Signor Tenente, è fatta la pace? (al Conte)

CON. Domandatelo al Generale.

POLID. Eccellenza, perdoni, è seguita la pace? (a Sigismondo)

SIG. Sì, la pace è conclusa.

POLID. Benissimo. (con un poco di dispiacere)

SIG. Questo è il dispaccio che ha recato al campo la novità, ma nel dispaccio medesimo ve n'è un'altra, che risguarda voi solamente.

POLID. Benissimo. (confuso)

SIG. Mi viene ordine dalla Corte di rimuovere la vostra persona dal posto di Commissario, sostituendone un'altra.

POLID. Benissimo. (con gran dispiacere)

SIG. E di più, vi è una piccola giuntatella.

POLID. (Povero me!) (da sé)

SIG. Dovete render conto della vostra amministrazìone; e resterete sotto sequestro, fino a tanto che siano i vostri conti appurati.

POLID. (Rimane mortificato, e si ritira un poco)

CIR. Benissimo.

CON. (Questa volta gli faranno scontar le usure). (da sé)

SCENA QUATTORDICESIMA

Orsolina e detti.

ORS. (E bene, signor Commissario, che cosa mi dite? Mi confermate quello che mi avete detto?) (piano a Polidoro)

POLID. (Sì, vi ho mandato al diavolo, e vi ritorno a mandare).

ORS. Parlerò al Generale. Signore, sappia che don Polidoro... (a Sigismondo)

SIG. Don Polidoro è licenziato dall'armata, e voi che siete a parte de' suoi interessi, partirete seco dal campo.

ORS. Pazienza. Don Polidoro, sentite? Converrà ch'io torni a fare la lavandaia.

POLID. Benissimo; ed io il mulattiere.

ORS. Benissimo. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Donna Aspasia e detti.

ASP. Ah Eccellenza, mi è stato detto l'accidente di mio padre. Io non dirò, se sia giusta o ingiusta la sua disgrazia; so bene ch'io resto una miserabile, e che non so qual abbia da essere il mio destino. (a Sigismando)

SIG. So che ci siete, ed ho pensato già a provvedervi. Maritatevi, e dai beni di vostro padre farò io che si estragga la dote.

POLID. Ma, signor Generale...

SIG. Tacete.

POLID. Benissimo. (parte)

ASP. Ringrazio la carità di Vostra Eccellenza. Voglia il cielo che presto mi si presenti qualche partito.

CIR. Eccomi; son qua io. (ad Aspasia)

ASP. Grazie. Non mi comoda uno stroppiato.

SCENA SEDICESIMA

Don Ferdinando, Caporale e detti.

FERD. Eccomi, ai comandi di Vostra Eccellenza. (a Sigismondo)

SIG. Don Ferdìnando, so che di me vi siete doluto.

FERD. Signore, vi chiedo scusa...

SIG. Compatisco l'intolleranza del vostro spirito. Il posto che vi aveva affidato, era onorifico bastantemente, ma il desiderio di segnalarvi nell'assalto della fortezza, vi ha fatto credere diversamente. Dono l'imprudenza all'ardor della gloria. Ma in avvenire rispettate meglio gli ordini di chi comanda, e fatevi merito coll'obbedire.

FERD. Signore, confesso il mio torto, e do lode alla vostra bontà. Ma perdonatemi, come mai giungeste a sapere questo mio importuno risentimento?

SIG. Al campo non mancano esploratori, ed io ne sono assai provveduto.

CAPOR. (Se non vi fosse qualche incerto, cosa si può avanzare colla paga di caporale?) (da sé)

Si sentono suonar le trombe sul Castello, e poi si vede scendere ecc.

SCENA ULTIMA

Don Egidio, donna Florida, don Faustino, Soldati ecc.

Rispondono le trombe del campo, poi i tamburi.

EGI. Signore, godo di nuovamente vedervi, e potervi essere amico. (a Sigismondo)

SIG. Ammiro sempre più il vostro coraggio, e mi è cara la vostra amicizia. (a Egidio)

EGI. Vi presento mia figlia.

SIG. Mi congratulo seco lei di un genitore Sì valoroso.

EGI. E vi presento in essa, quando l'autorità vostra il consenta, la sposa di don Faustino.

FAU. Signore, spero che mi renderete giustizia, per la parte del mio coraggio e del mio dovere. Una maggior prova ne sia aver intrepido assalite codeste mura, dove chiudevasi l'amormio: quel cuore medesimo che affrontò coraggioso i perigli di Marte, non ha potuto difendersi dal seduttore Cupido, e se con gloria ho terminato la guerra, spero non poter esser rimproverato, se mi abbandono alla mia passione.

SIG. Sì, gli amori onesti non sono indegni di un eroe militare. La sposa che vi eleggeste, è figlia di un prode guerriero che onora le vostre nozze, ed io volentieri colla mia autorità vi concorro.

FAU. Grazie alla vostra bontà.

FLO. Ringrazio anch'io l'amorosa condiscendenza di un Generale pio, valoroso e cortese. Chiedo perdono al padre d'aver arbitrato senza di lui del mio cuore, e impegno alla loro presenza al mio caro sposo la mano.

CIR. Viva l'amore, viva la pace. (saltando)

FAU. Don Cirillo, siamo amici o nemici?

CIR. Amici, amici con voi, col Conte, con tutto il mondo: viva la pace, viva l'amore.

CON. Caro don Faustino, mi rallegro con voi; a quartier d'inverno mi permetterete ch'io sia della vostra partita?

FAU. Sì, della mia, ma non di quella di mia consorte.

FLO. Né io voglio più trattar militari.

ASP. Donna Florida, mi consolo, saremo amiche.

FAU. A proposito. Favorite poi di rendermi le cose mie. (ad Aspasia)

ASP. Sì, Sì, ve le renderò. (Credeva se le fosse dimenticate). (da sé)

SIG. Andiamo al quartiere. Colà, sposi felici, si concluderanno le vostre nozze.

FLO. Sì, andiamo pure giacché, per grazia del cielo, trionfa la pace ed è terminata la guerra. Signori miei benignissimi, che con tanta bontà soffriste la rappresentazion della Guerra, deggio pria ringraziarvi umilmente di tutto cuore, indi vi ho da fare una scusa. L'autore di questa commedia si è scordata una picciola cosa. Si è scordato di dire di qual nazione fossero i combattenti, e il nome della piazza battuta. Noi commedianti non possiamo dirlo, senza suo ordine; ma dirò benSì, che poco più, poco meno, tutte le nazioni d'Europa guerreggiano ad una maniera, e sono tutte forti, valorose, intrepide e gloriose; ed auguriamo a tutti la pace, siccome a voi, umanissimi spettatori, preghiamo dal cielo la continuazione di quella tranquillità, che è frutto di sapere, di prudenza e di perfetta moderazione.

Fine della commedia