La idropica

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La idropica

La idropica

Di Battista Guarini

PERSONAGGI

PATRIZIO

padre di Pistofilo.

PISTOFILO

amante di Gostanza.

ANTONIO

padovano.

FLAVIO

amante di Cassandra.

BERNARDO

raugeo.

ZENOBIO

pedante.

NOTAIO.

LURCO

padrigno di Gostanza.

GRILLO

servitore in casa di Nica.

MOSCHETTA

servitore di Patrizio.

RADICCHIO

servitore di Bernardo.

CAVALIER

del Podestà.

TRAGUALCIA

birro.

CASSANDRA

creduta idropica.

GOSTANZA

amante di Pistofilo.

NICA

governatrice di Cassandra.

LISCA

serva in casa di Nica.

LORETTA

cortigiana.

La scena si finge in Padova

PROLOGO DELL'AUTORE

Io son andato meco medesimo, nobilissimi spettatori, molte volte considerando da qual cagione sia proceduto che la commedia greca e latina, siccome quelle che trassero da nobilissimo nascimento la prima origine loro, quanto più crebbero e nell'età s'avanzarono, a tanto maggior grado di riputazione e di finezza salissero, e deposta la loro antica scurrilità e sordidezza, a guisa di serpente che lasci la vecchia scorza, e più gravi e più costumate e più nobili diventassero; laddove, per il contrario, quella dei nostri tempi, la quale (s'io non erro) co 'l secolo passato nacque ad un parto e, sulla stampa delle migliori antiche formata, si può dire che 'l principio e la perfezione dal divino Ariosto in un medesimo tempo avesse, tuttoché, dopo sì gran maestro, non sieno poscia mancati di buoni ingegni che, le vestigia di lui seguendo e secondo le sane regole poetando, si sieno con molta lode loro ingegnati di sostenerla, di abbellirla e alla primiera maestà sua, quanto è stato possibile, ricondurla, nulla di meno la sperienza dimostra che quanto maggior progresso ha ella fatto negli anni, in tanto minore stima è sempre poscia caduta; siccome quella a cui, per esser mancato quel nutrimento che ricever dal pubblico o dalla man del principe già soleva, è stata indegnamente costretta non solo a mendicare quando da questo e [quando] da quel cortese spirito il vitto, ma, quello ch'è molto più miserabile, a divenire ancor vagabonda e pubblica meretrice, dandosi in preda per vilissimo prezzo a tal sorte d'uomini, che, facendone mercanzia, or qua or là portandola, in mille guise l'hanno avvilita; in modo che, dove ella soleva essere modestissima e, quanto lece a donna costumata, piacevole, oggi, senza arte, senza legge e senza decoro, piena sol di sconcerti e di sfrenata licenza, non è lascivia di sorte alcuna che di farne spettacolo [non] si vergogni. Che più? Vestita da giocolare, non sa far altro che ridere; ed èssi inebriata sì fattamente di riso che ridicola è divenuta, ma, chi dritto la mira, lacrimevole. Or quale di cotesta miseria sia la cagione e di cui la colpa stimar si debbia, o di color che compongono o di color che ascoltano le commedie, siccome a me non tocca darne sentenza, essendo qui venuto per far il prologo e non il giudice, così mi pare di poter dir senza scrupolo che, se le sceniche viste son fatte perché si veggano, è molto ragionevole che quali sono i teatri, tali sieno ancora le scene; conciosiaché i poeti s'ingegnino per lo più d'andare, meglio che possono, secondando il vario gusto degli ascoltanti, che le medesime rivoluzioni patisce anch'egli, alle quali, per l'ordinario, le mondane cose soggiacciono. A questo dunque sì ragionevole e importante rispetto, che ha la scena co 'l teatro, gli accademici nostri il dovuto riguardo avendo, siccome quelli che altro oggetto e desiderio non hanno che di piacervi, né altro frutto delle fatiche loro che la grazia vostra procurano, avendo deliberato di trattenervi quest'anno ancora con qualche cosa non indegna affatto di voi, e fra sé stessi considerando la grandezza, il sapere, la nobiltà di coloro che empiono questo teatro (tanti giovani d'elevatissimo ingegno, tanti senatori d'altissimo intendimento, tanti padri di maestà veneranda, tante donne che sono di virtù niente meno che di bellezza meravigliose: nella città di Vinegia, miracolo delle genti, sostegno e gloria d'Italia, in questo unico nido di libertà, in questo del saggiamente reggere e giustamente regnare ammirabile e raro esempio), si sono con gran ragione guardati da non vi porre innanzi una qualche opera dozzinale, un guazzabuglio di cose sordide e vane, una filza di scene mal regolate, un filo senza nervo, che invece di far nodo si rompa, una vivanda o discipita o troppo salata, che verun altro artificio che 'l riso dissoluto e plebeo non abbia, né conosca, né voglia: sì fatta cosa non è cibo de' vostri ingegni; ma una favola ben tessuta e meglio ordinata, fornita di buon costume, di buon decoro, fondata sulla base del verisimile, che 'l sale per condimento adoperi, non per cibo, che annodi con artificio e sciolga con maraviglia, ricca di molti fatti e di non pensati accidenti, e sopra tutto d'una sì varia mutazione e sì subita di fortuna, che 'l bene al male e la speranza al timore vicendevolmente succeda, per modo che 'l poco dianzi felicissimo riputato imantinente divenga misero, e quello stesso misero, quand'era più disperato, si vegga sorgere un'altra volta e felicissimo divenire. Questi sono di voi, e della vostra vista e della vostra presenza e de' vostri pellegrini e rari intelletti, degni spettacoli. Se poi di tutte le annoverate e tanto lodevoli e sì pregiate condizioni la nostra Idropica (che tale è il nome della commedia) dotata sia, sì come nostra cura è stata di procurarlo, così sarà la vostra di farne retto giudizio. Né vi curiate di sapere l'autore: bastivi che sia vostro più che l'opera non è sua; e bastivi che altre volte, e in altro tono e per altro soggetto, l'avete su questi pulpiti udito e anche, la vostra buona mercé, lodato. Ma s'egli allotta vi condusse in Levante, ora voi non avete a varcar né mari né monti. Mirate con quale agevolezza, al calar d'una tenda, nella città di Padova v'ha condotti. Riconoscete la città vostra tanto celebre e tanto chiara: quelle, che colà sorgono, son le torri del Santo, famoso per tutto 'l mondo; e quella, che d'altra parte si scuopre, è la Sala mirabile del Palagio. Io giurerei che alcun di voi la propria casa v'addita. Par che vogliate dire: “E che fa ella poscia cotesta Idropica?”; e voi donne massimamente, che di saper i fatti delle altre donne siete sì curiose. Ma perdonatemi: io non vi posso far l'argomento, perché non basto solo a tanta fatica, né il tempo mi servirebbe. Il farlovi alla sfuggita non sarebbe con gusto né mio né vostro: ché, a dirne il vero, non è questo mestiere da strapazzare. Coloro, che dopo me verranno, ve l'anderanno essi facendo comodamente; ed è già tempo ch'essi comincino e ch'io dia luogo. Ma prima di due cose, nobilissimi ascoltatori, vo' supplicarvi: l'una che vi piaccia di gradire con lieto viso e con benigno animo le fatiche degli accademici nostri, anzi pur vostri e devotissimi servitori, che altro non bramano che di servire ai vostri comodi, ai vostri gusti; e voi, bellissime donne, quando la presente commedia cara non vi fosse per altro, sì vi de' ella esser per questo, che il poeta nostro, parziale del vostro sesso, non si è curato, per esaltarvi, di commetter nell'arte comica un gran peccato, rappresentando cosa lontana tanto dal verisimile, che par quasi miracolosa: cioè donne costantissime nell'amare, che per miniere d'oro la loro invitta fede non venderebbono. L'altra è che vogliate prestarci grato silenzio, il quale, ancora che vi si chieggia per grazia, voi nondimeno il dovete dar per giustizia: che se quando la cortina ci separava, ciascun di voi, con ogni libertà discorrendo, favellando e ridendo, ha fatta la sua commedia, e noi tacendo non ve l'abbiamo impedita, è ben dovere che altresì voi, tacendo, ci lasciate fornir la nostra. E 'l dico principalmente a voi, donne, che per natura tacete mal volentieri. Ma se volete sentir diletto del nostro buon lavorio, state chete e lasciateci far a noi; e Dio vi contenti.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

GRILLO, NICA

GRILLO.

E così, monna Nica, la nostra idropica in capo a nove mesi sarà guarita.

NICA.

Sta cheto, per vita tua: noi siam qui sulla strada.

GRILLO.

E chi volete voi che ci senta? Le mura? È troppo ancora per tempo, che le genti vadano attorno.

NICA.

Grillo, questo è un gran caso! Se Cassandra si scopre gravida, guai a me!

GRILLO.

Infatti è vero il proverbio: “Donna tentata è mezza guadagnata; difendila dagli assalti, se la vuoi salva”. Monna Nica, voi, dite il vero: questo è un gran caso. E se dianzi m'aveste detto: “Cassandra è gravida”, io vi avrei data quella ragione che or vi do con mio grandissimo dispiacere.

NICA.

Aiutami tu, dunque, e non m'abbandonare, ché in te solo, e nell'amore e nella fede tua, Grillo mio, la mia speranza tutta ho riposta.

GRILLO.

Non dubitate già, monna Nica, che son per aiutarvi co 'l sangue proprio. Ma bisogna ch'io sappia molto ben prima come sta il fatto: ché le più volte chi è male informato, suol fare di molti errori.

NICA.

Tu di' bene. Ma tu ne sai gran parte, se male non mi ricordo.

GRILLO.

So quella della idropica io, ma quella della gravida, no.

NICA.

Or ascoltami dunque.

GRILLO.

Sarà meglio che ascoltiate voi prima me, acciocché, ridicendovi quel ch'io so, scemi a voi la fatica di dirlo a me.

NICA.

Tu parli bene: di' su.

GRILLO.

Voi mi diceste in prima in prima che 'l padre di questa nostra Cassandra si chiama Bernardo Càttari, nobile di Raugia, il quale, essendo giovane allora e governando certa ragion del padre in Vinegia, ebbe questa figliuola. E' così?

NICA.

Così sta. Ebbela furtivamente di certa giovanetta che si godeva, e che nel parto di lei morì.

GRILLO.

Chi di gallina nasce, convien che razzoli. Non voleva il dovere ch'ella fosse da meno della sua mamma. Questo particolare voi non m'avete detto mai più, madonna no; e non era già da tacere. Ma come fu ella poi condotta a Raugia? Ché di ciò troppo bene non mi ricordo.

NICA.

Hottelo detto ancora che in questo tempo Bernardo fu richiamato dal padre.

GRILLO.

Sì, sì. Ed esso, partendo poi di Vinegia, lasciolla, così com'era bambina, in man della balia. Ricordatemi il nome.

NICA.

Maddalena: appresso la quale stette sin che Bernardo, per la morte del padre, lei, ch'era già grandicella, a Raugia fece condurre.

GRILLO.

Il resto mi ricordo io troppo bene. Ch'ella quivi infermò d'un gran male; cappita, un mal terribile! Sta così?

NICA.

Così sta.

GRILLO.

Così sta, eh? O donne, donne, chi può fuggire le vostre trappole, ha ben Giove per ascendente.

NICA.

Quanti credi tu, Grillo, che sarebbono sotto il segno di Capricorno, se la sagacità delle donne non li coprisse? Poveretti a voi, se le femmine non sapessero far la coda alle lucciole!

GRILLO.

Ah, ah, ah, voi avete una gran ragione.

NICA.

Seguita dunque.

GRILLO.

Ma poco più ne debbo sapere io. Che da Raugia fu condotta qui per sanarsi, in casa di madonna Ginevra, sorella di Bernardo, la quale fu, vivendo, nostra padrona, che l'ha lasciata reda di venti mila ducati: erro io?

NICA.

Forse anche più.

GRILLO.

E che questo nostro vicino... Come si chiama egli?

NICA.

Patrizio degli Orsi.

GRILLO.

Nobile padovano, eh?

NICA.

Sì, co 'l malanno che Dio gli dia.

GRILLO.

... corso al boccone di sì gran dote, al figliuolo maritar la vorrebbe. E 'l nome del figliuolo, sapreste 'l voi?

NICA.

Oh Dio! Non mi sovviene.

GRILLO.

Orsù, non vi stillate il cervello, ché poco importa.

NICA.

Pistofilo; io l'ho carpito.

GRILLO.

E che alla fine questo è quel che vi cuoce. Più non ne so, e credeva di saper tutto.

NICA.

Ora ascolta. Dissiti che Cassandra fu lasciata bambina in man della balia, che nomavasi Maddalena, con la quale crebbe e visse, fin che, venuta grande, messer Bernardo, suo padre, la fe' condurre a Raugia. Quella sua balia, per quanto intendo, era cattiva donna; e non è maraviglia se la fanciulla apprese mali costumi.

GRILLO.

Ve' tu se si poteva salvare? Sarebbe stato miracolo!

NICA.

Non si finì la festa che in capo l'anno ella si fu invaghita d'un suo vicino, leggiadro e avvenente giovane certo, ma di bassa fortuna, che Flavio de' Riccati si noma. La giovane molto viva e poco guardata, la matrigna senza amore e senza cervello, l'amante fuor di modo sollecito, la commodità grande: che debbo dirti? La paglia appresso il foco: tu sai.

GRILLO.

Oh, voi ci lasciate il più bello.

NICA.

E che?

GRILLO.

Monna Nica, amorevole a' bisognosi.

NICA.

Uh, uh, che dirai?

GRILLO.

Che dirò? Non m'avete voi detto ch'ella dormiva con esso voi?

NICA.

Sì che l'ho detto, ma...

GRILLO.

Ma eravate voi che dormivate, e non essa, eh? O per dir meglio, v'infingevate.

NICA.

E che volevi tu ch'io facessi?

GRILLO.

Quello che avete fatto.

NICA.

Mi dava ad intendere che altro non passava tra loro che favellargli da una finestra, e mi pregava, e piagneva; e io che son tenera di natura, gliene avea compassione. Ché se tal cosa avessi creduta, uh! sarei prima morta che comportargliela.

GRILLO.

Oh pessima finestra! Fu cagion ella di tutto il male.

NICA.

Assassina, la conficcai subito subito.

GRILLO.

Dopo il fatto, eh? Buon avviso! ah, ah, ah.

NICA.

Io non so, Grillo, come domine si facessero.

GRILLO.

E pur è buia la camera.

NICA.

Cassandra si trovò gravida, il cuor mi trema a ridirlo. In verità ch'io ebbi a impazzare: ma che? Il fatto era fatto, e frastornare non si poteva.

GRILLO.

Troppo è vero.

NICA.

lo me n'avvidi prima di lei; e avendola confortata a starsi nel letto, feci credere al padre che fosse inferma di malaria poco men che incurabile. Onde fu agevol cosa che, per guarirla, egli si risolvesse a' conforti del nostro medico, che era (vedi ventura!) parente stretto di Flavio, di mandarla qui in casa di madonna Ginevra, che fu nostra padrona e di lui sorella, come tu sai, venuta in questa terra, due anni avanti, per curarsi d'un suo catarro, che l'ha poi finalmente condotta a morte. Ora la zia, che grandemente l'amava, inteso l'accidente, n'ebbe compassione, e scrisse al fratello che Cassandra era idropica, ma che, con l'aiuto di Dio e de potenti rimedi, si sarebbe sanata. Così la nostra barca, che era già salva, ora, per la morte della padrona, è ricaduta in più tempesta che mai. Perciocché, avvisando la zia di far gran bene alla nipote, d'ogni sua sostanza lasciolla reda, con questa condizione però, che non prendesse altro marito che padovano.

GRILLO.

Oh cotesto non sapev'io; e perché ciò?

NICA.

Perché portasse le sue vergogne lunge da casa, o dubitando per avventura che, potendosi maritare di suo capriccio, non prendesse il suo Flavio. Mosso dunque da sì gran dote, questo nostro vicino halla fatta richiedere al padre stesso, fino a Raugia, e ottenutala per Pistofilo suo figliuolo. Al qual vecchio ho sempre per parole date parole. Ma poiché vien a' fatti e mostra commessione e lettera di Bernardo medesimo, con la quale ordina ch'io la consegni in mano di detto vecchio, non so più che mi dire, né che mi fare.

GRILLO.

Ma di Flavio, che fu?

NICA.

Si fuggì. Guai a lui, se ciò si fosse mai risaputo!

GRILLO.

E dove ricoverò?

NICA.

A Palermo, in casa d'un suo parente, mercante ricco; e quivi è stato sempre fuor di pericolo, aspettando che fine debbia avere la sua sciagura.

GRILLO.

Oh quanto importarebbe che fosse qui!

NICA.

Oh Dio 'l volesse: parrebbemi d'esser fuori d'ogni pericolo. Noi l'abbiamo sempre avvisato della nostra venuta a Padova e della morte della padrona, pregandolo a venir subito, e pur non viene. Alle prime lettere ci rispose; alle seconde, no. Ho grand'oppenione ch'elle non gli sien capitate in mano.

GRILLO.

E Cassandra, che pensa ella di fare?

NICA.

Morire prima che non esser moglie di Flavio.

GRILLO.

Né si cura di perder sì ricca dote?

NICA.

Se fosse tre volte tanta.

GRILLO.

Volete ch'io v'insegni? Scoprite la gravidezza, che Patrizio non la vorrà, e molto meno Pistofilo.

NICA.

Del figliuolo io son certa, ma del padre non so. L'avarizia può troppo. E poi, vivendo il padre di lei, guardimi Dio. Questo è un rimedio che si vuole serbar per l'ultimo. No, no, il meglio è che noi troviamo un dottore, come t'ho detto.

GRILLO.

Ma che potrà far qui un dottore?

NICA.

Che potrà, eh? Trattenere, intricare, fin tanto che Cassandra ci tragga di questo affanno: ché 'l suo parto non può molto indugiare. E poi di cosa nasce cosa, e 'l tempo la governa. Potrebbe venir Flavio, chi sa? Va, dunque, e trova messer Isidoro; sai tu il compare della padrona? Un uomo di conto, e tutto di casa nostra.

GRILLO.

So qual voi dite. Ma s'egli non fosse in casa, a qual segno di Palazzo troveroll'io? Al Montone, al Bue?

NICA.

A quello della Volpe non puoi fallire, ché quivi capita spesso.

GRILLO.

Dio voglia che non sia a quello dell'Asino! Ditemi un poco: non è egli, questo dottore, quel forastiero sì profumato che fa il coram vobis, il cortegiano, il poeta, l'innamorato, che stava le ore intere in camera con madonna?

NICA.

Questi è desso.

GRILLO.

Non son il caso.

NICA.

Perché?

GRILLO.

Perché un dì gli volli pelar il mento; e se troppo mi stuzzicava... Andateci voi, e farà tutto quel che vorrete. Conosco ben io le mie bestie.

NICA.

Vuoi tu che io vada in Palazzo?

GRILLO.

Forse il troverete in casa. E poi che monta? Avete voi paura di perdere il vostro onore? Fate a mio senno: in questo mezzo andrò pensando io di far alcun'altra cosa in vostro servigio.

NICA.

Perché a questo tu mi consigli, proverò mia ventura. Addio.

SCENA SECONDA

ZENOBIO, GRILLO

ZENOBIO.

Sta bene. Oh admirabile!

GRILLO.

Ecco 'l pedante; vo' far vista di non vederlo.

ZENOBIO.

Che Petrarca? Lenta salix quantum pallenti cedit olivae.

GRILLO.

Che non guardi? Oh, siete voi! Perdonatemi.

ZENOBIO.

O lepidissimo mio capitulo!

GRILLO.

O messer Zenobio onorando.

ZENOBIO.

Io non t'avea veduto. Questo furor poetico, quand'io sono afflato da lui, mi fa uscir fuori di me medesimo; perdonami.

GRILLO.

Non importa, messer Zenobio, che l'esser urtato da pari vostri è favore.

ZENOBIO.

Tu burli? E chi sa che nel venire inverso di te, ripieno d'estro poetico (così lo chiamano i dotti, sai?), non t'inopinassi questo furor divino, e divenissi tu ancor poeta?

GRILLO.

(Di minestra e di vino sento pur troppo che sei ripieno. Anco il ciacco a questo modo è poeta).

ZENOBIO.

Che di' tu di poeta?

GRILLO.

Dico che non mi curo di diventar poeta.

ZENOBIO.

So che tu fai del grande, io, Grillo, e non ti lasci più vedere, come solevi prima ch'entrassi in casa di quella buona femmina d'Epidauro. Proficiat, i grilli s'imbucano volentieri, eh?

GRILLO.

Ma chi s'imbuca più di voi, messer Zenobio? Che, dopo la partita vostra di casa Papafava, non ho potuto mai più vedervi.

ZENOBIO.

Tu solus advena? Non sai dunque ch'i' ho la mia libertà vendicata e, quinci non molto lunge, aperto ancora un pubblico gimnasio, anzi pure una socratica stoa, a tutti i giovanetti della città?

GRILLO.

Non l'ho inteso per certo; e come vi privaste voi mai di quella casa sì principale?

ZENOBIO.

Male lingue, fratello! La invidia, ch'è nemica della virtù! Cominciarono a dire ch'io era troppo plagoso.

GRILLO.

Di grazia, parlatemi che v'intenda.

ZENOBIO.

Che troppo adoperassi la verga.

GRILLO.

La verga? Che cosa è ella cotesta verga?

ZENOBIO.

La scutica magistrale, lo staffile.

GRILLO.

Oh dite così, in nome di Dio. Or v'intendo. E perciò vi fu data licenza, eh?

ZENOBIO.

Mi fu data, ma discretissima, e quale conveniva a un par mio.

GRILLO.

Non fu dunque vero che in su la mezza notte vi mettessero fuor di casa, no?

ZENOBIO.

Anzi verissimo, e perciò la chiamo discreta.

GRILLO.

A me, che sono di grossa pasta, par altrimenti; e però fate, per vita vostra, che intenda come la chiamate discreta.

ZENOBIO.

Discreta, perché tacita.

GRILLO.

E una cotal licenza chiamate tacita?

ZENOBIO.

Per amica silentia noctis. Sta cheto, che è di Virgilio. Ve' quanto importa il sapere! Tacita, per la notte ch'è tacita, intendi tu?

GRILLO.

Mi par di sì. Come sarebbe a dire, se quel cavaliere v'avesse licenziato con un pezzo di legno?

ZENOBIO.

Bona verba, quaeso. A un par mio?

GRILLO.

Io dico: quando l'avesse fatto, intendetemi sanamente, perché il bastone non sente nulla, neanche voi avreste sentite le bastonate; una cosa sì fatta.

ZENOBIO.

Tu non l'intendi, messer no. Non è la medesima genologia dal legno alla schiena ch'è dalla notte alla licenza.

GRILLO.

E che vuol dire cotesta genologia? Ch'io non v'intendo, perché sappiate.

ZENOBIO.

Te 'l credo. Ha pochi pari Zenobio. È una parola greca che non fa per te, Grillo.

GRILLO.

Del vin greco m'intendo assai bene, ma del parlar non ne mangio. (Dio sa se questo animale non dice qualche sproposito).

ZENOBIO.

Ma aedepol paenitebit: tardi s'accorgerà d'aver perduto un tal uomo. Pochi Zenobi son oggi al mondo, credilo a me. Io fui discepolo di quel famoso Fidenzio, gimnasiarca dell'universo. Per tutto poi, dove ho dato opera all'auree umane lettere, ho lasciato memoria del nome mio; e più d'altrove nell'inclita città di Venezia, dove apersi i tesori della mia grande erudizione. Oh che disciplinata gioventù! Oh che morigerati discepoli! più dei socratici pazienti e più de' pitagorici taciturni. Di quella gentil città non mi sarei partito giammai, se l'amor di Gostanza non mi avesse tirato in qua.

GRILLO.

Che, siete innamorato?

ZENOBIO.

Heu me!

GRILLO.

E qual è ella cotesta traditora che vi fa sospirare? Ah ah ah.

ZENOBIO.

La figliuola di Lurco: il quale, per mio maggior lenocinio (Dij boni), è venuto a stare in questa contrada. Guata, Grillo, di grazia, s'ella fosse al balcone.

GRILLO.

A me par dì sì.

ZENOBIO.

O cara animula!

GRILLO.

Ah ah ah, guata viso che fa! Guata ceffo!

ZENOBIO.

Eh, Grillo, tu m'hai beffato.

GRILLO.

V'ho detto il vero, io. Ma chi v'aspetterebbe con questi vostri occhialacci? Farebbono spiritare.

ZENOBIO.

Caro Grillo, per amor di costei, la cui plusquam humana e, posso dir, metafisica pulchritudine è sola degna della mia penna, ho pur ora fatto un sonetto che non ha pari. Odilo, Grillo, per vita tua.

GRILLO.

Volontieri. Ma voglio prima sapere come voi siete bene ricambiato di cotesto vostro sì grande amore.

ZENOBIO.

Oh queste non sono cose da dimandare, se già tu non l'avessi per pazza! E perché credi tu che ella mi porti cotanto amore?

GRILLO.

Per la vostra virtù.

ZENOBIO.

Tu l'hai detto; con questo mezzo cerca d'immortalarsi, perciocché questo, ch'io ti vo' far sentìre, è il quingentesimo sonetto ch'i' ho fatto in sua lode. Non v'è mai giunto il Petrarca, ve'. E che sonetti! Dij boni, tutti hanno la coda; senza la quale non è sonetto che vaglia.

GRILLO.

E che sorte di bestie son eglino?

ZENOBIO.

Come bestie? Ah ah ah. Dij immortales! Homini homo quid praestat? Stulto intelligens quid interest? Un sonetto chiami una bestia. Ah, ah.

GRILLO.

Non dite voi ch'hanno la coda? La coda è delle bestie, se non son bestia io. (O tu più tosto).

ZENOBIO.

La coda metaphorice. Ah, ah, ah, tu non intendi questi misteri, Grillo. Quando io dico la coda, io dico perfezione, acciocché tu sappi.

GRILLO.

E come? Insegnatemi un poco.

ZENOBIO.

Ora ascoltami, e sì l'intenderai. Ma queste sono bene lezioni che vagliono talenti, sai? La coda non è ella l'ultima parte dell'animale?

GRILLO.

Mi par di sì.

ZENOBIO.

L'ultima parte, non è ella il fine di tutte le cose?

GRILLO.

Così credo che sia.

ZENOBIO.

Il fine non è egli la perfezione?

GRILLO.

Bene; e che volete inferire?

ZENOBIO.

O ingegno obtuso, stolido e inerudito. Non senti dunque la forza dell'argomento?

GRILLO.

Che vuol dir argomento?

ZENOBIO.

Ah ah ah. Tu se' pur tondo. Dico che tu raziocini: se la coda è l'ultima parte, l'ultima il fine, e 'l fine la perfezione, ergo?

GRILLO.

ergo siate voi; che vuol dir ergo?

ZENOBIO.

Ah, ah, ah. Concludi, stupidaccio, dal primo all'ultimo, su.

GRILLO.

Oh questa sarà da ridere, che costui mi voglia far saper oggi quel ch'io non so, né vorrei sapere, ch'è un'altra cosa. Che volete ch'io concluda?

ZENOBIO.

Che la coda è perfezione.

GRILLO.

E io, arzigogolando dall'ultimo al primo, tanto ne so ora quanto ne sapeva testé.

ZENOBIO.

Or passiamo a più sottili meditazioni.

GRILLO.

Èccene ancora?

ZENOBIO.

La Gostanza (oh nome aureo), la Gostanza è virtù, la virtù è perfezione, dunque la Gostanza è perfezione: intendi ora il misterio?

GRILLO.

Comincio a intenderla. Ma udite voi ancora le mie ragioni. Se la coda è perfezione e Gostanza parimenti perfezione, dunque Gostanza sarà una coda. E così la vostra diva avrà guadagnato, da cotesta vostra coduta poesia, grandemente. Ah ah ah.

ZENOBIO.

Hui, hui, sofistico, elenchico, pecca in materia e in forma.

GRILLO.

Non so il più bel matto di voi, io. Che vuol dir matto? O non mi dite villania, messer Zenobio. Come, ch'io pecco in materia? Non fui mai né matto, né poeta.

ZENOBIO.

Ah ah ah. Non t'ho detto villania, no. Hai ben tu bestemmiato, a chiamar coda quella lucida stella.

GRILLO.

Anzi holla onorata. Quante stelle vi sono in cielo codute, assai più belle dell'altre?

ZENOBIO.

Or ti vo' dir il sonetto, e poi andarmene verso la casa della mia bella Gostanza.

GRILLO.

Che volete voi fare, a dir a me, che sono ignorante, le vostre dotte composizioni?

ZENOBIO.

Hai ben appresso il dottore. Ascolta pure, che non sentisti mai meglio.

O nata allor che sono i flutti e i flamini

pacatissimi in mar, novella Venere,

cui godon di servir le Grazie tenere,

e i Cupidini alati in belli examini.

Oh buono!

Apri, Zenobicida, ambo i foramini

de le auricole tue, perché si genere

in lor pietà, se tu non vuoi che, in cenere

conversa, il tempo tua beltà contamini.

Puossi dir meglio?

Che se quel bel che gli anni avrian per pabulo,

dolce farai de la mia musa edulio,

non fu sì chiara mai la fiamma d'Ilio.

Ascolta, anima mia, ch'io non confabulo:

quell'Arpinate, che mi dà il peculio

e l'aurea lingua e 'l venerando cilio,

e Terenzio, e Virgilio

stimo sì, ma per te, mio dolce assenzio,

posterghinsi Maron, Tullio e Terenzio.

Che te ne pare?

GRILLO.

Che mi pare, eh? Stupendissimo!

ZENOBIO.

Un'aItra volta, Grillo, ascolta.

GRILLO.

No, per l'amor di Dio, che passerebbe l'ora di veder Gostanza.

ZENOBIO.

Tu di' vero. Addio.

GRILLO.

Ti raccomando, messer Zenobio. Oh balordo! A impazzar daddovero non ti mancava altro che l'esser innamorato e poeta. Umori che non entrano in capo alcuno, donde prima non sia uscito tutto il cervello. Ma se non era Gostanza, m'avrebbe assediate l'orecchie a furia di frottole e di stampite. Or non è meglio che non perda qui il tempo e me ne vada in Palazzo, per veder di spiare se questo vecchio di Patrizio macchina qualche cosa contra di noi? Certo sì, ch'egli è meglio. Ma voglio per ogni buon rispetto, chiavar la porta, poiché Nica ha ella ancor la sua chiave.

SCENA TERZA

PATRIZIO, PISTOFILO

PATRIZIO.

Ventimila ducati? È un bel boccone, Pistofilo. Le sì fatte venture vengon di rado; e perciò, figliuolo mio, non è da perderci tempo, ché “tra la bocca e 'l pomo.”, tu sai ben il proverbio. Un sol punto ce la dà vinta. Come la giovane sia sposata, è mozzo il dire. E potrai ben vantarti d'esser un ricco sposo e invidiato da molti. Ti par così? Tu non parli.

PISTOFILO.

Tacendo son sicuro di non dir cosa che v'abbia ad offendere, signor padre.

PATRIZIO.

Anzi m'offendi tu non parlando. Ma senza che tu parli, credo d'averti inteso. Tu dubiti che le nozze, perché non vedi apparecchio di sorte alcuna, non passino a tuo modo. Non dubitar, no. Per istasera ci de' bastare d'averla in casa, e sposata. Faremo poi a suo tempo le nozze quanto vorrai più belle e più sontuose.

PISTOFILO.

Quando avessi a parlare, di questo certo non parlerei.

PATRIZIO.

Orsù sta cheto, ché ti darò da spendere; vuoi tu altro?

PISTOFILO.

Di ciò vi rendo ben molte grazie, ma altra cosa è pur quella che, quando avessi a dire, io direi.

PATRIZIO.

E che cosa può ella esser cotesta? Non credo già che tu pensassi a non ubbidirmi.

PISTOFILO.

Se assolutamente mi comandate ch'io prenda moglie e stia cheto, io sarei temerario, se quel pensassi di fare che al filial rispetto non si conviene. Ma siccome vi son io stato sempre ubbidiente figliuolo, non potendovi voi dolere ch'io non abbia tenuta quella vita e quelle pratiche, e atteso a quegli esercizi che più vi sono piaciuti, così mi par d'aver meritato che quello, che non può farsi senza il mio consentimento, vi debbia piacere ancora che senza il mio contentamento seguir non debbia.

PATRIZIO.

Che parlar è cotesto tuo, Pistofilo? Non sai tu che, essendo unico in casa nostra, bisogna che prendi moglie? E, dovendola prendere, quando ciò potresti tu fare in miglior punto di questo?

PISTOFILO.

Io non ricuso di prender moglie, ma non vorrei già prenderla così tosto, né sì per tempo perder la mia libertà. Sono ancor giovane, e posso aspettar ancora qualche anno.

PATRIZIO.

Dice libertà! Dio m'aiuti. È dunque servitù il prennon ti parrebbe di perder la libertà, vendendola a colui che con un pezzo di pane ti compera per ischiavo, e parli ora di perderla, accompagnandoti con tal donna che, con ventimila ducati, te compera per signore? Povero a te! Non dire queste sciocchezze.

PISTOFILO.

Quella si può lasciare, ma questa no.

PATRIZIO.

O Pistofilo, sì fatte servitù ti legassero pure spesso! Le ricche donne fanno le case ricche. Ho io veduto di quelli che furno già poveri fantaccini, e per le grandi eredità delle mogli son oggi conti e marchesi, sai? Lasciati, lasciati governare, e disponti a far a mio senno.

PISTOFILO.

Sallo Dio ch'io vorrei poter farlo per ubbidirvi. Ma come quel che sperava di goder libero questo fiore della mia giovanezza, almeno per due o tre anni, duro fatica. E se grazia veruna posso impetrar da voi, io vi supplico a non legarmi sì tosto, ché altro alfine io non vi chieggio che tempo.

PATRIZIO.

E a te pare di chieder poco, eh? E come te 'l poss'io dare cotesto tempo, s'io non l'ho? Fammi sicuro tu del partito, ch'io ti farò contento del tempo. Due anni, eh? Non così tosto sarà scoperta la lepre, che mille cani le saranno alla coda; che, a dirne il vero, è troppo bello il boccone. Guardici Dio dal provarlo.

PISTOFILO.

Alle nostre facoltà non mancheranno mai donne, e se non tanto ricche, almeno più sane.

PATRIZIO.

Oh oh! Queste sono parole di quella femmina maladetta, la quale ha preso amore a sì ricca facoltà che maneggia, e va essa così spargendo queste menzogne. Dio sa s'ella ha male di sorte alcuna.

PISTOFILO.

Come male? È idropica marcia, che così ne corre la voce.

PATRIZIO.

Eh che sono tutti d'accordo. E poi quand'ella non fosse così ben sana (che quanto a quella idropica, me ne rido), perché l'avresti tu a rifiutare? O ella guarrà, o no, Pistofilo. Se guarrà, l'avrai sana, e goderaitela bella e ricca. E siccome se fosse sana e dopo che entrata ci fosse in casa cadesse inferma, sarebbe inumana cosa l'abbandonarla; così, avanti che tu la prenda, il rifiutarla, perché ella non sia sana, non è buona ragione. La faremo guarire, piacendo a Dio. Anzi la guarrai tu, ché, alfine, le fanciulle da marito non hanno mai altro male che 'l non aver marito. Ma s'ella guarrà, dimmi un poco, figliuolo mio, non guadagni tu in una notte diecimila ducati almeno? Per tre scudi un soldato va baldanzoso a farsi ammazzare; e tu, per tanti mila ducati, non potrai sofferir una mala notte, eh?

PISTOFILO.

(Una notte che basta sola farmi morire. Che maladetto sia quel dì che la carogna ci capitò).

PATRIZIO.

Che parli tu da te stesso, che di' tu?

PISTOFILO.

Dico che alla fine le male notti saran le mie. Chi non ha a fare, ha bel dire.

PATRIZIO.

O Pistofilo, io t'ho parlato infin a qui da fratello, ti parlo ora da padre. Disposto o non disposto che tu sii, hai a prender moglie stasera, e quella donna che in casa ti condurrò: tu m'hai inteso. Va, e pensaci bene, e guardati dal malanno. (

Pist. parte

). Or va tu, e fa bene a chi no 'l conosce. Ma costui certo ha altra paglia in becco. Questa sua così insolita resistenza (ché suole intendermi a cenno) non può venire da buona cosa. Hollo anco veduto questi dì tutto astratto, tutto pensoso. Poveri padri! Se tu li tieni a freno, padre duro! padre inumano! Se gli lasci far a lor modo, traboccano in mille errori. Se fai loro mal viso, t'odiano; se buono, insolentiscono. Se non dai loro da spendere, tu sei avaro; se ne dai, sei cagione di mille loro sciagurataggini, di mille loro pericoli; e finalmente puo' far, se sai: ti vorrebbero veder morto. Colpa della corrotta usanza! Così oggi, per tutto, la pubblica educazione vien trascurata. Che giova egli a' poveri padri l'allevar con buoni costumi i figliuoli, se essi poi per le piazze e ne' trebbi trovano istromenti e compagni scandalosissimi d'ogni male e d'ogni licenza? E quanto più sono scapestrati, trovano tanto più chi dà lor, contra il padre, mille ragioni. Dio voglia che 'l mio non balli a cotesto suono. Ma per quello ch'io vo vedendo, son a mal termine di far nozze: costui non vuole, colei non vuole, faremo tosto. Con tutto questo io non mi perdo d'animo, no: con l'uno darò di mano all'autorità e con l'altra alla giustizia, se questa carta non mi vien meno. Voglio andar in Palazzo.

SCENA QUARTA

LURCO, NOTAIO

LURCO.

Che Pistofilo? Sfacciatella, al tuo marcio dispetto ti condurrò. E perché più gli doglia, domattina ti vo' condurre; ve', se lo stimo. Parti egli che s'ingalluzzi costei, con cotesto suo Ganimede; poi che gli ha pieno il capo di vento, non ci si può più vivere. Ma se ha fatto te insolente, me non farà già egli beccone. E se ei si crede di passar per bel giovane, s'avvedrà che si può meglio volar senz'ali che far l'amore senza denari. L'amore è come il campo, che non rende a chi non gli dà. Guardate un poco, messer Onofrio, a che termine son condotto per una femmina, con la qual maritandomi credetti d'uscire di po- vertà, e son entrato per essa poco men che in miseria: poiché altro non ho di suo che costei da farci le spese.

NOTAIO.

E come ti lasciasti tu consigliare? So io pure che solevi esser delle femmine così vago com'è il cane delle mazzate.

LURCO.

Che so io? Maestro Bertaccio sarto, marito di Maddalena... No 'l conosceste voi?

NOTAIO.

Come, s'io 'l conobbi? Aveva la sua bottega in Rialto, presso all'orafo della Vecchia.

LURCO.

Quegli era desso. E fu, vivendo, mio grande amico, usando del continuo insieme, egli nella mia casa (quando io stava a Vinegia) e io nella sua. Ond'egli avvenne che, dopo la sua morte, la buona Maddalena cominciò a domesticarsi con esso meco di sorte che, per dirla in poche parole, non passò un mese che fummo marito e moglie, facendo così mio conto: costei ha di molti anni e di molta ciarpa, avrò le spese mentre che vive e, dopo morte, l'eredità. E certo l'un disegno mi riuscì, ma l'altro no: perciocché ella morì ben tosto e, invece di farmi erede, fece quel testamento, anzi pur quell'imbroglio che voi sapete. E 'n tanto non ho nulla, e mi muoio di fame e stento come un bell'asino.

NOTAIO.

Secondo me, Lurco, non farai nulla. Tu hai sentito il buon uffizio che ho fatto per te, e com'ella per tutto ciò non si smove; e si risolve di voler anzi morire che andar in altre mani che di Pistofilo.

LURCO.

O messer Onofrio, che non mi date voi quelle robe? Niun se ne serve, e si potrebbono ben guastare anzi che no.

NOTAIO.

E come, se lo 'nventario loro è registrato nel testamento?

LURCO.

A questo voi, che siete il maestro della scrittura, agevolmente provvederete.

NOTAIO.

Io ti dico che non si può. Non sai tu ch'elle furono depositate in mia mano, con obbligo di restituirle a Gostanza?

LURCO.

Basterebbe che costei fosse stata la dogaressa! Ma quello, che non ho potuto aver dalla madre, m'ingegnerò ben io di trarre dalla figliuola.

NOTAIO.

E come farai tu? A me pare che tu ci sii male in acconcio finora.

LURCO.

Costei è innamorata di Pistofilo che mena smanie, sperando ch'egli l'abbia a sposare; e forse che 'l disegno le potrebbe riuscire. E perché Patrizio suo padre gli vorrebbe oggi dar moglie, bisogna batter il ferro mentr'egli è caldo: ché se le nozze seguissero, gnaffe, i dugento ducati, che m'ha promesso Pistofilo, e le robe dello inventario, che costei mi promette, sempre che ella sia di Pistofilo, andrebbono a babbo riveggoli. E a fine che oggi possa fargli a sapere che domattina la può condurre a Vinegia, ho lasciata aperta la camera che risponde qui su la strada, acciocché, trovandosi ella commodità di parlargli, faccia, senza avvedersene, la innamorata per lei e la ruffiana per me.

NOTAIO.

Tu se' tristo daddovero, ma troppo ingordo. Questo è rubare, acciocché tu sappi.

LURCO.

O messer Onofrio, che dite voi? Forse non sapete che ora pochi di rubar si fanno coscienza? Non vedete voi che ognun ruba? Né altra differenza è da ladro a ladro, se non che d'alcuni si tien ragione, e d'alcuni no. E dove la roba di malo acquisto ti solea mandar su le forche, ora te ne difende. Perché credete voi che i furfanti s'impicchino? Per rubare? Messer no: s'impiccano perché non sanno né rubar, né nascondere. Ma quei che rubano alla grande sono onorati e rispettati. E che pensate voi che sia il ladroneccio? Un qualche poveraccio, pidocchioso, mendico? Messer no, vedete: gli è un gran signore; perché sappiate: né va oggi attorno persona né me' veduta, né più stimata di lui. E benché muti nome, non muta vezzo. In ogni luogo è furto, ma in ogni luogo non ha il suo nome. E che be' titoli ha! Che be' visi!. Che belle maschere! Insomma, governa il mondo. Né si può viver senza rubare, perché non si può fare di non esser rubato.

NOTAIO.

Lurco, non vuò contender teco, ché ne sai troppo. Se altro posso per te, comandami; e poiché Gostanza è nel diciottesimo anno, ad ogni suo piacere aprirò il testamento. Ma fa ch'io abbia la fede del nascimento, senza la quale non posso aprirlo, sai?

LURCO.

Io so d'averla in serbo autentica come va; andrò per essa, e bisognando, sarò con voi.

NOTAIO.

Addio, Lurco.

LURCO.

Addio, messer Onofrio.

SCENA QUINTA

ANTONIO padovano, FLAVIO sotto nome di Ortensio medico

ANTONIO.

Più di quello che avete inteso non vi so dir, messer Flavio. E questo ancora ho io raccolto da più persone, secondo che si va ragionando. Quella che colà voi vedete, è la casa ove abitava la raugea, la quale, come v'ho detto, è morta un mese fa. Ho io a far altra cosa per voi? Messer Panfilo, mio compare, mi ha la vostra persona in modo raccomandata, ch'io son tenuto a farvi ogni servigio per me possibile.

FLAVIO.

Messer Antonio, voi m'avete ben tanto d'amorevolezza mostrato in quelle poche ore che sono stato con esso voi, che, dove i fatti parlano, le parole stimo soverchie: se altro mi bisognerà, mi vedrete. Pregovi sopra tutto a tenermi segreto.

ANTONIO.

Non dubitate. Ma vi voglio ben avvertire che buona cura v'abbiate. Cotesto vostro andar così travestito non è la più sicura cosa del mondo. Voi siete giovane, forestiero, solo, mal pratico della terra, e potreste ben dare ne' mali spiriti, anzi che no. Né vo' già io sapere quali sieno in quella casa i vostri interessi; ma ben vi dico che, essendo quella giovane maritata e dovendo esser istasera, siccome avete inteso, in casa di messer Patrizio degli Orsi, suo suocero, vi guardiate di non dar ombra a tale che potesse farvi poco piacere. Messer Patrizio è de' primi e più riputati della nostra città: ha di molte ricchezze e di molto seguito. Governatevi saviamente; e perdonatemi, se troppo libero vi paressi, ché tutto ho detto per vostro bene.

FLAVIO.

Come, ch'io vi perdoni? Anzi da ciò conosco che voi mi amate e che dite il vero. Ma giunsi, come sapete, iersera a notte; e quando che io ci fussi il più conosciuto uomo del mondo, bastava il buio a nascondermi. Stamane, poi, sono uscito con questi panni, i quali ho presi per alcuni rispetti che voi saprete, né per più d'oggi m'hanno a servire. Ma che dite, per vita vostra? Come vi paio ben travisato?

ANTONIO.

Eccellentemente; non è uomo che vi stimasse quel che voi siete. Parete proprio un medico. E quegli occhiali non potrebbon calzar meglio. Orsù vo io.

FLAVIO.

Andate in nome di Dio.

ANTONIO.

Arrivederci a ora di desinare.

FLAVIO.

No, ascoltate messer Antonio, s'io non venissi, non m'aspettate.

ANTONIO.

Venite o non venite, siete padrone.

FLAVIO.

Udite: come ha nome colui che sta in casa la raugea?

ANTONIO.

Grillo, volete dire.

FLAVIO.

Sì, m'era uscito della memoria. Di grazia, ricordatevi di trattenerlo più che potete, acciocché torni quanto più sia possibile tardi a casa, intendete?

ANTONIO.

Tanto farò (

parte

).

FLAVIO.

Oh sventurato e misero Flavio! Dunque per tanto mare, per tanti monti, per sì lungo cammino, non sarai giunto qui a far altro che a vederti privare sì subito di colei che speravi d'avere sì subito nelle braccia? Maraviglia, o traditora Fortuna! che 'l mare e 'l vento m'agevolasti, perch'io giungessi più tosto a morte. O Cassandra (non dirò più mia, se oggi sarai d'altrui), ètti dunque uscito del cuor quel Flavio del quale hai nelle viscere tanta parte? Patirai tu d'abbandonar il tuo Flavio, di tradir il tuo onore, di scoprire le tue vergogne? E tu, qualunque sei, uomo avaro che la solleciti, potrà tanto in te l'oro, che di dare al figliuolo non ti vergogni donna gravida per isposa? Ma che farò? S'io mi discuopro, costoro m'ammazzeranno; e son ridotto a tale che non ho pur sicuro il discoprirmi né anche a lei. La quale, per avventura, sarà d'accordo co 'l suocero, amando meglio d'avere marito nobile e ricco che servar fede a povero amante. So io che della morte di madonna Ginevra, né della ricca eredità, non m'ha avvisato né scritto mai. La cosa è intesa. Non ti voleva qui, Flavio. Oh misero! Ah Cassandra, saresti tu mai sì cruda che, quando per amante e per marito mi rifiutassi, volessi come nemico perseguitarmi? Non credo mai. E molto meno ancora vo' credere che s'abbian oggi a far quelle nozze che non possono già seguire senza tua infamia. Non vo' perder più tempo. Cosa fatta capo ha. Sol ch'io ne parli, mi chiarirò. Vo' bussare.

SCENA SESTA

LISCA fantesca, FLAVIO

LISCA.

Chi bussa?

FLAVIO.

Il medico.

LISCA.

Oh guata ceffo di barbagianni! Chi bussa? dico.

FLAVIO.

Il medico, il medico.

LISCA.

Come, il medico? Che novità è questa? Chi vi manda, messere?

FLAVIO.

Oh mal aggia cotesto nome sì fastidioso. Me l'ho pur anche scordato.

LISCA.

Che tresca è questa! Su, chi vi manda? Rispondete, o ch'io vi pianto.

FLAVIO.

Quell'uomo qui di casa. (Sia maledetto...).

LISCA.

Qual uomo? (Deve farneticare).

FLAVIO.

Quell'animaletto che sta ne' buchi.

LISCA.

Mancano gli animali che stan ne' buchi! Certo costui è pazzo. Siete voi medico, o l'andate cercando? Che, per quanto mi pare, il vostro cervello n'ha gran bisogno.

FLAVIO.

Grillo, in nome di Dio; l'ho pur trovato.

LISCA.

E Grillo chiamate animaletto? So ben io s'egli è grande e grosso, che ogni dì l'ho per mano e governolo. E Grillo v'ha mandato?

FLAVIO.

Dico di sì.

LISCA.

(Costui certo non dice il vero; e giurerei ch'egli fosse una spia di quel pessimo vecchio nostro vicino).

FLAVIO.

Eh di grazia, bella giovane, apritemi, ch'egli m'ha mandato a visitar l'ammalata.

LISCA.

Qual ammalata?

FLAVIO.

L'idropica, non sapete?

LISCA.

Non c'è niuna in casa che abbia cotesto nome, no certo.

FLAVIO.

E non c'è niuna malata?

LISCA.

Niuna, se non io.

FLAVIO.

Voi non ne avete già viso. E che male è 'l vostro? D'amore, bella figliuola?

LISCA.

Forse che sì.

FLAVIO.

Son ben uomo per guarir voi ancora, sì.

LISCA.

Con quel mostaccio eh? Sarete voi mai uno di quei ceretani che vendono le ricette?

FLAVIO.

Sì, un di quegli (Ho dato in buono! Costei è bergola, m'aprirà).

LISCA.

(Oh se venisse Grillo! Vo' trattenerlo). Quanta voglia avev'io di abbattermi in un vostro pari! Ve', come il destro me n'è venuto.

FLAVIO.

Perché? Avete voi qualche male? Non guardate a questo mostaccio; ché quando verremo a' fatti, vi chiamerete di me contenta. Se avete piaga, pizzicore, ho ricette mirabili. S'avete mal di madre.

LISCA.

Questo appunto è il mio male; ché 'l medico me l'ha detto.

FLAVIO.

Ho una radice in tasca che subito vi guarrà. Apritemi dunque, e non mi fate più star qui fuori.

LISCA.

S'io 'l credessi, affè che v'aprirei. Fate, per vita vostra, ch'io la possa vedere. Mostratela, e sì vi crederò.

FLAVIO.

Ma non la posso mostrar in strada. Apritemi, se vi piace, graziosa giovane, ché non ho tempo da perder, io. V'avrei già fatto il servigio, e sareste bella e guarita, sì certo.

LISCA.

Ma io non mi diletto di far le mie faccende sì in fretta, sapete, caro vecchietto.

FLAVIO.

Per quel ch'io veggo, non avete quel male; perciocché subito m'aprireste.

LISCA.

Ben sapete ch'io non l'ho sempre; ma quando egli mi viene, è tanto furioso ch'arrabbio. (Ma ecco Grillo, oh come a tempo!).

FLAVIO.

La mia radice è sì vigorosa, che immantinente vi sanerà.

SCENA SETTIMA

GRILLO, LISCA, FLAVIO

GRILLO.

(Poiché Lisca m'accenna...).

LISCA.

Io son contenta, vi voglio aprire.

GRILLO.

(... starò un poco a vedere che tresca è questa).

LISCA.

Accostatevi all'uscio, che tirerò la fune del saliscendi; intendete?

FLAVIO.

O siate voi benedetta! Eccomi, aprite.

LISCA.

O, rispignete la porta.

FLAVIO.

Rispingola, ma non giova.

LISCA.

Ve' pecora ch'io sono, ve'! La porta è chiusa a chiave; e m'era uscito di mente che dianzi Grillo mi chiavò in casa.

FLAVIO.

Oh sgraziato! Come faremo?

LISCA.

Andrò per quella della mazza e gitterollavi, acciocché voi medesimo dischiaviate la porta, intendete?

FLAVIO.

Sì, fate presto.

GRILLO.

(Or'io comincio a intenderla, per mia fè).

FLAVIO.

Son a cavallo.

LISCA.

Eccola, sere. Ma guardate che non vi percotesse. Accostatevi più alla porta e getterolla in mezzo la strada.

FLAVIO.

Sto ben così?

LISCA.

Non potreste star meglio; e io la scaglio più lontano che posso. Prendi Grillo, bastonalo, ch'egli è una spia, dàlli, dàlli.

GRILLO.

Oh, io ci sono prima di te, manigoldo. Or prendi questa, e questa...

LISCA.

Ah, ah, ah, so ch'egli mena le gambe, io, e non par vecchio a fuggire; e Grillo il seguita d'una santa ragione. Oh come è calzata bene! Possa fiaccarsi il collo, con quante spie si trovano al mondo, canaglie maladette da Dio...

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

GRILLO, NICA

GRILLO.

Non ho potuto bastonarlo a mio senno, il manigoldo: perché prima e' menava le gambe non mica da vecchio, no, e poi vi traevan le genti poco meno che accorr'uomo. E son restato di più seguirlo.

NICA.

Ve' maladetto vecchio ch'è quello! Aveva egli mandato certo quel soppiattone. Buona fu che ti ci trovassi tu.

GRILLO.

E sappiate che a caso mi ci trovai. Perciocché io, non guari dopo la partita vostra, deliberai di seguirvi per aiutarvi se fosse stato bisogno. E di primo colpo mi condussi in Palazzo; e colà non trovandovi, andai a casa il dottore, là dove intesi ch'eravate partita; ond'io, credendo di trovarvi qui, diedi volta per la cagione che 'ntenderete. Avendoci poi trovato quello spione, ho fatto quello che avete inteso. E nel tornare di nuovo a casa, credendo pure di ritrovarvici, v'ho incontrata.

NICA.

Io ti dirò. Partita dal dottore, andai alla messa, e per questo non m'hai trovata.

GRILLO.

Ma parliamo di quello che importa più. Ch'avete voi fatto? Nulla, eh?

NICA.

Tu 'l dicesti. Quand'io giunsi a casa il dottore, trovailo con la camera piena di molta gente; e tutti ad uno ad uno volle spedire, prima che, non che altro, pur un po' mi guatasse. Quando poi volli cominciar a parlargli, appena che gli paresse d'avermi mai conosciuta. Né altro della bocca potei mai trargli, se non: “Copia e tempo, madonna; copia e tempo”. Pensa tu s'abbiam tempo.

GRILLO.

E altro non vi ha risposto?

NICA.

Io ti dico di no. Si parlava tra denti, che pareva insensato. Alla fin fine vedendo io che non c'era tempo da perdere, il pregava perché meco ne venisse dal Podestà. Sì, sì, mi rispose ch'egli aveva a fare un consulto, mostrandomi i danari che pur allora gli erano stati dati.

GRILLO.

La cosa è intesa.

NICA.

Talché vedendo io la sua villania, mi ridussi, non potendo far altro, a ripregarlo che quanto prima si contentasse d'andarci.

GRILLO.

Impetrastelo voi?

NICA.

Appena; dicendomi ch'io gliene dessi un memoriale.

GRILLO.

Ben, ben. Desteglie 'l voi?

NICA.

Per buona sorte Cecchino si trovò quivi, e sì me 'l fece.

GRILLO.

E poi, che vi diss'egli? Che faceva intanto?

NICA.

Mentre Cecchino questo faceva, andava egli per mano ravogliendosi que' danari, che testé ti diceva.

GRILLO.

Nota quella! E quando il memoriale fu fatto?

NICA.

Appena gliel'ebbi porto che cominciò a fare il viso dell'arme.

GRILLO.

E che dicea?

NICA.

Che altro ci bisognava.

GRILLO.

Ma, troppo era vero.

NICA.

All'ultimo mi promise d'andarci.

GRILLO.

E' non ci andrà. Ditemi un poco, non gli avete portati i danari, eh?

NICA.

Come danari? Hanne egli dato a me, quando l'ho servito?

GRILLO.

Eh, monna Nica, non conoscete i dottori: questo è il loro mestiero; e' non vivono d'altro. Certo voi non gli avete dato il buon memoriale.

NICA.

Qual è cotesto, il danaro?

GRILLO.

Questo appunto. I dottori, acciocché voi sappiate, non han memoria.

NICA.

Son dottori, e non han memoria?

GRILLO.

Non l'hanno, madonna no. E quando son loro portati i processi e le scritture, di quelle sol si ricordano che hanno seco il memoriale: tutte l'altre, che sono senza, vanno in dimenticanza; dove la vostra capiterà, se Dio non l'aita. Per questo solo parlava in croce: per questo maneggiava i danari. Questi erano tutti segni della memoria smarrita.

NICA.

Sarà dunque ben fatto ch'io gliene porti; e quanti, Grillo?

GRILLO.

Niente men di due scudi: uno perché vi serva, l'altro perché non v'assassini.

NICA.

E' potrà esser che gli tolga?

GRILLO.

Come, che gli tolga? Tanti gliene portaste!

NICA.

Insomma questo è un male comune a tutti: dove va il danaio, amico fatti con Dio.

GRILLO.

Io vi lascio pensare com'egli averebbe trattato me, avendo sì gentilmente spacciata voi.

NICA.

E chi mai l'avrebbe creduto? Non ti ricordi tu, Grillo, com'egli, al tempo della padrona, mi lusingava, m'accarezzava? Le proferte grandi che mi faceva?

GRILLO.

Eh monna Nica, le carezze fatte per interesse son come l'ombre, che vengon co 'l corpo loro e co 'l corpo loro partono ancora. Mentre era viva madonna, avea bisogno di voi, perché madonna avea bisogno di lui; e per questo vi careggiava. Morta madonna, messere non vi conosce.

NICA.

Ingrataccio! I' gli ho fatti più servigi! Dio 'l sa bene. Orsù parliam d'altro. Ma tu, che hai fatto, Grillo, per la tua parte?

GRILLO.

Meglio di voi, che ho trattato nell'andar a Palazzo, come v'ho detto, con più cortesi persone; dalle quali sono stato avvertito che non ci fidiam del Vicario, perché Patrizio lo presentò l'altrieri.

NICA.

Sì, eh? Sai tu 'l presente?

GRILLO.

Madonna sì. Il presente fu di bellissime frutta.

NICA.

Ma se per frutta può guadagnarsi, presenteremolo noi ancora di que' nostri sì belli e sì saporiti fichi, sai, Grillo?

GRILLO.

Tutto che i nostri fichi siano assai vizzi, nondimeno se gli saran portati in una bella coppa d'argento e lasciati i fichi e la coppa, siccome ha fatto messer Patrizio, potrebbe essere che il disegno vi riuscisse.

NICA.

Ed egli se l'ha tolta, eh?

GRILLO.

Ah, ah, ah. Se l'ha tolta, dice: poco fu; e torranne da voi ancora, se gliene porterete, vi so dir io.

NICA.

E s'io fossi sì pazza, come potrebb'egli sodisfare all'uno e all'altra?

GRILLO.

All'un co' fatti, all'altra con le parole; e queste toccherebbono a voi. Sono anche stato avvertito ch'egli ha pensato di venirci a far un sopruso: ond'io mi sono avacciato di tornarmene a casa: che s'ei ci viene...

NICA.

E che disegno credi tu che sia quel di Patrizio?

GRILLO.

Che so io? Farci paura come a' bambini. Ma eccol ve', ritirianci. Stiamo un poco a vedere quel ch'e' vuol fare.

NICA.

Oh Dio ci aiuti! Grillo, vo' entrar in casa; resta tu fuori.

GRILLO.

Non abbiate paura, no.

SCENA SECONDA

PATRIZIO, CAVALIERO del Podestà, NICA, TRAGUALCIA birro, GRILLO

PATRIZIO.

Monna Nica, non vi partite, ché ho bisogno di voi.

NICA.

Chi è colui che mi chiama?

PATRIZIO.

Son io. Ascoltatemi, se vi piace.

NICA.

Per l'amor di Dio, messer Patrizio, badate a' fatti vostri, e lasciatemi vivere. Dovreste pur sapere, oggimai, che seminate in arena.

PATRIZIO.

Non vi turbate, madonna, e statemi ad udire, vi prego, ché le parole non sono mica saette.

GRILLO.

Ascoltatelo, monna Nica, né dubitate, ch'io non ci sono per nulla, no.

NICA.

Purché di Cassandra non mi parliate, dite pur quel che vi piace.

PATRIZIO.

Anzi, d'altro non intendo di parlarvi.

NICA.

Non andate più innanzi, ché v'intend'io troppo bene; e vi dico che non siete mai per averla. E vel dissi iersera pur tanto chiaro, che vi potrebbe bastar per sempre.

CAVALIERO.

Madonna, avvertite bene che pentire alla fine voi vi potreste di cotesto vostro cervel caparbio; e farete gran bene, credete a me, concedendo quel per amore che per forza poi dare, vostro malgrado, vi converrà. Hòvvelo detto.

NICA.

Dalle cose, che altri fa con ragione, pentimento non può seguire. Messer Bernardo, suo padre, mi dié Cassandra, e messer Bernardo solo può anche torlami: m'intendete? E sebben'io son donna, non vi pensate d'aggirarmi il cervello con un pezzo di carta; ché, alla croce di Dio, sarete gli aggirati pur voi.

PATRIZIO.

Se messer Bernardo suo padre avesse potuto condursi a Padova, non avrei bisogno di questa carta per ottenere la sua figliuola; ma perciocché egli si trova ora nel maestrato, ha voluto supplire, con mezzo tale, a quello che mandar ad effetto non può egli con la presenza. Non sapete voi meglio di me gli ordini di Raugia, che non permettono a' rettori della città di partirsi dal territorio, mentre dura il carico loro? Ma che differenza fate voi della persona del detto messer Bernardo e questa scrittura sua, nella quale ha egli il suo volere sì efficacemente, e con termini sì legittimi e sì valevoli, dichiarato?

NICA.

Che differenza? Voi mi fate ben ridere, mi fate. Quella medesima ch'è tra le cose vere e le false. E s'a voi pare che sia 'l medesimo, servitevi di tal mezzo, ch'io son molto contenta che voi abbiate Cassandra, immaginando d'averla: e, se vi aggrada, darovvene anche molto volentieri un ritratto; vedete s'io son cortese. Ma troppo son io pazza a star qui cicalando fuor di proposito.

CAVALIERO.

Madonna, per quel ch'io veggio, bisogna mutar registro co 'l fatto vostro: conoscetemi voi?

GRILLO.

Lasciate parlar a me, monna Nica. E quando ella t'avrà conosciuto, che sarà poi?

CAVALIERO.

O, o, o, tu se' bravo, tu se'. Ho ben anche de' pari tuoi gastigati, sì. Ma per ora non parlo teco.

GRILLO.

Quando parli con questa donna, tu parli meco; e son bravo per certo, e se tu non...

PATRIZIO.

Sai tu quel che tu vai cercando? D'andar in prigione, sì, per mia fè. Tu non conosci costui, eh? Egli è 'l Cavalier del signor Podestà; e se tu 'l vai stuzzicando, tanto te n'avverrà!

GRILLO.

Perdonatemi, signor Cavaliere, ch'io non vi aveva conosciuto; né mi sarebbe nell'animo mai capito che sergente alcuno della Giustizia fosse intervenuto a quest'atto.

PATRIZIO.

E perché?

GRILLO.

Come perché?

CAVALIERO.

Orsù, non accade qui far commenti. Madonna, non siete voi quella Nica che ha in governo la figliuola di messer Bernardo Càttari, nobile raugeo, che ha nome Cassandra?

NICA.

Sì, sono.

CAVALIERO.

Io, che son Mazzasette, Cavaliero del Podestà, vi fo commessione e precetto, in nome di Sua illustrissima Signoria, che per tutt'oggi debbiate aver consignata nelle mani del signor Patrizio degli Orsi, che è qui presente, la detta giovane, destinata dal padre per legittima sposa del suo figliuolo, come più ampiamente nel mandato di lui si vede: sotto pena di star due anni in prigione e d'altre pene arbitrarie, secondo che la Giustizia richiederà. E se voi pretendete cosa in contrario, comparite alle diciotto ore davanti al signor Vicario, ché vi sarà fatta giustizia.

NICA.

Buona pezza!

CAVALIERO.

Ordina ancora che questo uffiziale per tutt'oggi non parta di casa vostra. Fatti innanzi, Tragualcia.

TRAGUALCIA.

Che comandate?

CAVALIERO.

Entra in cotesta casa; e non andar di sopra a sturbare li fatti loro, ma, standoti sotto il portico, guarda bene di non lasciar entrar né uscir persona alcuna. Hai tu inteso?

TRAGUALCIA.

Signor sì, sarà fatto.

GRILLO.

Fermati un poco. Dunque non volete che noi possiamo andare innanzi e 'n dietro pe' fatti nostri? Questa sarebbe ben disonesta!

PATRIZIO.

Hai ragione, e mi contento che tu e monna Nica soli possiate entrare e uscire a vostro piacere; ma altri, no. E, sopra tutto, avvertici di non lasciar portare fuori di casa roba di sorte alcuna; intendi tu?

TRAGUALCIA.

Intendo; e tanto farò.

CAVALIERO.

E tanto eseguirete, guardandovi dalla mala ventura. Andiamo, signor Patrizio.

GRILLO.

Avete fatti i vostri colpi, e noi faremo i nostri. Ci sarà ben giustizia per noi ancora, sì bene.

NICA.

S'io credessi affogarla, tu non l'avrai, vecchio manigoldo.

TRAGUALCIA.

Or entriamo, su; che si bada?

GRILLO.

O, o, tu hai la gran fretta. Eccoti l'uscio aperto, ma non di sopra, ve', se non vuoi ch'io ti suoni una danza; e sai se n'ho pizzicore? Non chiuder quella porta, e aspetta, ché ora vengo.

SCENA TERZA

NICA, GRILLO

NICA.

Grillo, noi siam perduti. Che faremo, meschina me! uh, uh, uh!

GRILLO.

Non piangete, non dubitate, ché, alla peggio peggio, ce n'andrem con Dio.

NICA.

E come, meschina a me, se noi abbiamo la guardia in casa?

GRILLO.

Udite quello ch'io ho pensato. E' non bisogna ch'io mi allontani di qui, per cagion di costui. Prendete questi due scudi, e prima che l'ora venga più tarda, andate a casa il dottore, e quivi aspettatelo, ché, appressandosi l'ora del desinare, non può star a venire: dategli que' due scudi, e fate opera di condurlo con esso voi all'udienza del Vicario, che il nostro Scatolino ha da me ordine d'introdurvi, intendete?

NICA.

Intendo; ma che debb'io dire al dottore?

GRILLO.

Informatelo del precetto, e procurate ch'egli il faccia o revocare o sospendere, fin a tanto che si scriva a Raugia e venga la risposta del padre di Cassandra, non essendo il dovere ch'ella sia data altrui, se suo padre non è prima informato d'alcuni particolari troppo importanti. Insomma, faccia ogni opera per tirar la cosa in lungo più che si può: ché altro, finalmente, non ci bisogna. Poi chi ha tempo ha vita, e chi scampa d'un punto scampa di cento. Se ciò s'ottiene, siamo a cavallo. Scriveremo poi tanto male a messer Bernardo di cotesti padre e figliuolo, che, quando non ci facesse mai altro, s'avrà il beneficio, che noi cerchiamo, del tempo. Se non s'ottiene, ci condurremo subito, con quel meglio che noi abbiamo, al Portello; e quivi presa una barca, ce n'andremo a Vinegia, dove non mi manca luogo commodo e onorato da porre in serbo sicuramente Cassandra, finché a Dio piaccia di far maturo il suo parto, il quale, secondo che voi mi dite, non può esser molto lontano.

NICA.

O Grillo, questa fuga è un gran fatto. Ma per fuggir vergogna, si vuol far ogni cosa; purché si possa colorir il disegno. Ma io non so; tu di' che ce n'andremo, e non fai conto co 'l birro, tu.

GRILLO.

Qualche cosa faremo pure. L'inebriaremo, l'ingollerem di danari, l'uccideremo, quando altro far non si possa. Ma non perdete più tempo, voi. Serberovvi alcuna cosa per desinare, o piuttosto per merenda.

NICA.

Io vo. Tu va in casa, e guardati da colui. O Iddio lodato sia tu sempre, che mi mettesti in cuore di scoprir il mio segreto a costui; senza il quale che averei io potuto mai fare in tanti travagli?

SCENA QUARTA

PISTOFILO solo

PISTOFILO.

O questa sì, ch'è miseria da non poter sofferire: poiché se mille cuori avessi, a me certo non basterebbono, né per amar Gostanza, ch'è la mia vita, né per odiar quella carogna, ch'è la mia morte. E pur con un cuor solo mi convien sostenere l'immenso amore dell'una e l'insopportabil odio dell'altra. Che farai dunque, infelice? Oggi tu hai a perdere o la grazia del padre, o l'amor di Gostanza. La quale, come sia certa delle tue nozze, così subito o ti s'invola, o d'altrui ti vien involata. E tu potrai sofferirlo? Potrai tu vivere senza lei? Potrai vederla nell'altrui braccia? Io morrò prima. Oh perché non m'è lecito colla fuga provvedere al mio scampo? Ché dove ora il paterno sdegno mi sfida, la pietà forse m'affiderebbe; e forse coll'esiglio impedirei quelle nozze che d'altro modo impedire non avessi potuto. Ma son legato da troppo forte necessità, da troppo dolce catena. Abbandonare la mia Gostanza? Allontanarmi dalla mia vita? È per me cosa impossibile. Dovrei fuggire il padre adirato, il pericolo delle nozze, la casa di questa fracida; e pure sono tirato a forza in queste contrade, per veder, non che altro, le mura sole che chiudono il mio tesoro. Potessi almeno comperarlo col vivo sangue, poiché con altro mezzo non posso trarlo dalle mani di quel suo tanto iniquo e dispietato padrigno. Che partito prenderai dunque, misero, non giovandoti punto né il restar né il fuggire? Al male ch'è più vicino provvederò non consentendo alle nozze. Ma tuo padre ti sforzarà: no 'l farà certo. Tu non potrai resistere: sì, farò. Condurrà in casa la raugea: e conducala, allo sposarla ci parleremo. Senza me, certo far non si può. No 'l farò mai. Ma vo' provar mia ventura, s'io potessi veder l'anima mia.

SCENA QUINTA

MOSCHETTA, ANTONIO padovano

MOSCHETTA.

Solenni bestie per certo dovevano esser gli uomini di quel tempo, che si pascevano di ghiande e d'acqua. E ci sono oggi ancora delle canaglie che chiamano quella vita l'età dell'oro. L'età dell'orso, piuttosto la dire' io. Gente fallita o d'appetito o di borsa, così credono di coprir i difetti loro e le loro meschinità. Che ne dite, messer Antonio?

ANTONIO.

Nel fatto della buccolica, a Moschetta non si può contradire, ché ne sa troppo.

MOSCHETTA.

Ma che diremo noi di coloro che hanno il modo di mangiar sei volte il dì, non che quattro, e si riducono ad una sola? Oh vigliacchi se ciò fanno per avarizia, e sciocchi se lo fanno per sanità! Vedete se han cervello: per mangiar non si vive?

ANTONIO.

Certamente. Se altri non mangiasse, non viverebbe.

MOSCHETTA.

Or se 'l mangiar ci dà vita, quanto più si mangia, tanto più si vive.

ANTONIO.

A me par che tu abbi una gran ragione.

MOSCHETTA.

Come, s'io l'ho! Tanto avessi il modo di farla a questo non mai satollo mio ventre e sempre digiuno! Ché mi darebbe l'animo di vivere più di Matusalemme. Ascoltate, per vita vostra, messer Antonio. Capitò una volta a Vinegia uno che chiamavano Matomago.

ANTONIO.

Ah, ah, ah. Matematico, tu vuoi dire.

MOSCHETTA.

Credo di sì, io.

ANTONIO.

Un astrologo.

MOSCHETTA.

Strolago, sì. Buon dì! Un uom di conto. Non si può dir quant'era onorato. Io gli senti' pur dire la bella cosa. Non me l'ho mai scordata.

ANTONIO.

E che bella cosa fu ella?

MOSCHETTA.

Che si trovava un certo paese dove si mangia almeno trecento sessanta sei volte il dì. O Moschetta, se vi potessi mai giungere!

ANTONIO.

Ah, ah, ah. E' ti piantò una carota, Moschetta.

MOSCHETTA.

Sì, che non c'erano degli altri quando e' lo disse, e dottori e uomini riputati che l'affermavano? E non ridevano mica di lui, come ora voi fate di me. E poi faceva egli ben i suoi conti, e parlava co' libri in mano: se aveste sentito!

ANTONIO.

Ma dimmi tu, voragine delle mense: come puoi stare in casa messer Patrizio, che vive tanto assegnatamente?

MOSCHETTA.

Ma la gola, messer Antonio, è maestra di tutte l'arti. Cosa troppo ingegnosa! Guai a me se stassi a' suoi pasti! Quando ci venni, che non sono più di due mesi, egli mi deputò al servigio di Pistofilo, suo figliuolo, e però rade volte di me si serve. Testé mandommi alla villa, e io v'andai volentieri, perché ho fatto già parentela colla gastalda; intendete?

ANTONIO.

Come, se intendo?

MOSCHETTA.

Di Pistofilo poi son io padrone a bacchetta. Quanti danari ha, tutti son di Moschetta; ma il peggio è che ne ha pochi. A quanto in casa può dar di piglio, è mia rigaglia; e poi fuori di casa, mi vo ingegnando, messer Antonio.

ANTONIO.

E che servigi di cotanto merito gli fai tu? Che ufficio è il tuo?

MOSCHETTA.

Quello che nelle corti fa grandi gli uomini e favoriti: quello che si può dire l'oppressione de' buoni, il purgo de' benemeriti, il padron de' padroni. Io stava una volta con un gran cortigiano che 'l medesimo ufficio aveva, il qual era villano di schiatta e per avanti era stato staffiere, così bene com'era io; e per santa Nafissa, bisognava che tutti gli s'inchinassero. Insomma, egli è il re di tutti gli uffici.

ANTONIO.

Con assai meno di parole potevi dire: “io son ruffiano”. Ma io non so vedere come questa tua arte ti possa poi satollare, quando non trovi in casa la tavola ben fornita.

MOSCHETTA.

In casa, eh? Mai non ci desino. Come prima ho vestito il padrone, così esco in foraggio, e secondo il mio traffico mi dimeno. All'ora solita vo in Palazzo, conosco ognuno e ognuno conosce me, perciocché tutti si servono di Moschetta: dico ognuno che metta tavola, ché degli altri nulla mi cale. Quivi pianto il mio squadro. S'io miro per avventura uno di questi montoni d'oro, gonfi di vento, m'inchino un miglio lontano, poi destramente mi accosto, e con mille inchini gli dico: “Buondì alla Signoria Vostra illustrissima”. Ed esso: “Moschetta mio, come si sta?”. E io: “Non posso star se non bene, ogni volta ch'ella mi tenga in sua buona grazia, padron mio caro; e meglio ancora starò, quand'io abbia bevuto un tratto, che n'ho bisogno”. “Vien meco a desinare, soggiunge egli, che a tuo modo ti farò bere”. E io, baciandogli il mantello, riverentemente il ringrazio; e poi m'avvio con esso lui, sempre mai lusingandolo e adulandolo: ché chi non sa piaggiare, si muor di fame. A quell'altro poi che fa dell'Orlando e del maestro di scherma: “Signore, due gentiluomini son venuti a contesa d'una certa guardia fantastica: io mi ci sono abbattuto, e hogli accordati nel sapientissimo parere della Signoria Vostra illustrissima”. Ed egli intanto si gonfia; e io, sotto: “Sicché, signor mio, sarà forza ch'ella si degni di dare questa sentenza”. Mi piglia per la cappa e mi conduce a casa; dov'io, mostrandogli un colpo ch'io mi sono sognato, il fo far tombole e menar le mani che pare un pazzo. E io sogghigno: “Oh buono! Oh bravo! Non è uomo che la sapesse trovare”; e poi a' circostanti mi volgo, e dico in guisa ch'egli sentir mi possa: “Tutto 'l regno di Spagna non ha 'l più bravo cavalier di costui”. Intanto si porta in tavola, e io, senz'altro invito, come canina mosca m'attacco e meno le mani molto meglio di lui, perciocché quivi ho io una botta ch'è troppo franca. Quell'altro vanerello, profumatuzzo, spezza cuor di tutte le donne, subito che mi vede, mi chiama a sé. Io, che so 'l giuoco, gli dico: “Oh signore, avesse mille ducati chi parlava di voi stamane!”. “E dove, Moschetta mio? Basta mo'. Dimmi, di grazia, chi fu?” E io, nell'orecchio: “La più bella figliuola di tutta Padova, ah, ah, ah”. E quivi il pongo in dolcezza; e intanto vo accompagnandolo a casa. Dove giunti, mi dice: “Caro Moschetta, non mi tacere chi fu la bella giovane che è sì vaga di mentovarmi”. E io: “Sarebbe troppo lunga la storia: è meglio che prima noi desiniamo”. “Dimmi, almeno, quel che dicea”. “Che voi siete il più bel giovine, che con due occhi veder si possa”. Oh quivi non può dirsi com'egli si ringalluzzi; e come, datasi una stropicciatella alle tempie, va tutto in succhio! E io addosso: “Voi la fate morir, voi la fate, quella meschina”. Quivi comanda subito che si porti malvagìa, biscottelli e altre galanterie. Vien poi madonna santa e venerabil vivanda, odorosa, fumante, ohimè, che mi pare d'averla in bocca. Egli mi vuole appresso, e tutti i buoni bocconi son di Moschetta: perciocché egli si pasce dell'aria d'un bel viso e pensa a quel ch'io gli ho detto; e io meno le mani e 'l dente come una macina. Dopo desinar, torno a casa: il padron vecchio perché gli pare che mangi poco, il giovane perché gli arreco buone novelle, mi veggono volentieri. E così vivo allegramente e mi procaccio le buone spese, alla barba di mille scimuniti collitorti.

ANTONIO.

Infatti tu se' cima d'uomo. Ma dimmi, per vita tua, queste nozze farannosi elleno?

MOSCHETTA.

Come, se si faranno? E che bella roba ho io per ciò condotta di villa!

ANTONIO.

E quel bel giovane soffrirà d'accostarsi a quella femmina mezza fracida?

MOSCHETTA.

Non sono mica fracidi tanti belli ducati che porterà in quella casa; co' quali avrà ben modo di trovarne di belle e di saporite e di godersele allegramente.

ANTONIO.

Sarà dunque venuta la tua ventura, Moschetta, di satollarti a tuo modo.

MOSCHETTA.

A mio modo no, ma quanto più si potrà. Pensate pure ch'io merrò le mani come un piffero: io maestro di casa, io scalco, io dispensiero, io sopracuoco, io credenziere: io tutto, perché il vecchio non vorrà tante macine, no, per casa. Io vi lascio pensare, se Moschetta saprà fare buon lavorio. Oh perché non ho io mille bocche! Natura traditora, un sol palato a mille appetiti, eh? Questa è la volta ch'io vo' provarmi, se mi venisse mai fatto di mangiar quelle trecento e tante fiate che quello strolago disse.

ANTONIO.

Ah, ah, ah. Tu se' ben sì valente che puoi sperarlo. Ma ecco 'l tuo padrone, ve'. Addio, Moschetta.

MOSCHETTA.

Addio.

ANTONIO.

Tu stai fresco, povero Flavio. Male nuove ti recherò io, per certo.

MOSCHETTA.

Non potea venir più a tempo.

SCENA SESTA

MOSCHETTA, PATRIZIO

MOSCHETTA.

Dio vi salvi, padrone, io son qui.

PATRIZIO.

E sai ch'io mi credeva che tu fussi alle Molucche, cotanto hai tu penato a tornarci? E perché non venisti tu ieri? Son pur tre giorni che te n'andasti, infingardaccio.

MOSCHETTA.

Perché, prima il mal tempo...

PATRIZIO.

Non andar più innanzi, ché, senz'altro, io so la seconda.

MOSCHETTA.

Forse anche no.

PATRIZIO.

Il mal tempo la prima, e la poltroneria la seconda. Anzi, pur questa è la prima. Oh quanto ti fa egli, Pistofilo, infingardo!

MOSCHETTA.

Sta bene affè! E se questo infingardaccio non si fosse trattenuto ieri alla villa, vi sareste voi avveduto la valentia di qual altro avesse potuto guarentir il vostro pollaio.

PATRIZIO.

Si, eh?

MOSCHETTA.

Questo è 'l merito di cotanta fatica.

PATRIZIO.

E che fatica è stata la tua, valentuomo? Prender i polli, riporli nella stia, fargli condurre a barca e, dormendo, lasciarsi portare al fiume, eh? Grande impresa per certo hai fatta!

MOSCHETTA.

Lavorar tutto 'l giorno, vegghiar tutta la notte, sudare, trafelare, combatter con le bestie per salvar il vostro pollaio: queste sono state le imprese mie, signor sì.

PATRIZIO.

E perché? Starà pur a vedere che gran miracoli sien questi.

MOSCHETTA.

Perché 'l martorello...

PATRIZIO.

Che di' tu di martorello?

MOSCHETTA.

(La pace è fatta). Che dico, eh? Bisogna dire quel ch'egli ha fatto, e quello che ho provveduto io ch'ei non faccia.

PATRIZIO.

Nel mio pollaio?

MOSCHETTA.

No; l'avrà fatto nel mio.

PATRIZIO.

Cacasangue! La cosa va daddovero.

MOSCHETTA.

(Oh che bella menzogna!).

PATRIZIO.

Or dimmi, come sta il fatto?

MOSCHETTA.

Giunsi ieri l'altro a sera, colle vostre commessioni; e perché i polli non si potevan prender se non la sera o la mattina per tempo, la gastalda pensò che fosse meglio lasciarli riposar quella notte. La mattina seguente, entrati nel pollaio per levar quelli che comanda la lista, noi vi trovammo due de' maggiori e de' più vecchi capponi che vi fossero...

PATRIZIO.

Morti?

MOSCHETTA.

Che morti? Anzi, pur lacerati per sì fatta maniera che v'era appena l'avanzo de' pie, dell'ossa, delle penne e del becco.

PATRIZIO.

Oh bestia maledetta! Un paio eh? Guardasti poi ben, Moschetta, di non errare? Io vo' dire che fosse stato un solo, e ti fosser paruti due, sai?

MOSCHETTA.

Come, s'io 'l vidi bene? (L'un fu lesso e l'altro arrostito). Purtroppo il vedemmo noi bene: perciocché v'erano quattro piedi e due becchi. E poi tanti ve ne mancavano al numero.

PATRIZIO.

O roba di Patrizio, come vai tu! Non ho pur uno voluto mangiarne mai, per conservare intero quel bel pollaio, e una bestia se gli ha mangiati. Ma, Moschetta, e' bisogna che siano state due bestie, avendone guasti due: il maschio e la femmina.

MOSCHETTA.

Credo anch'io. (E così, Moschetta, tu se' una bestia).

PATRIZIO.

Or seguita, Moschetta.

MOSCHETTA.

Veduto questo, ci risolvemmo di côrre il malfattore su 'l frodo e liberarne il pollaio.

PATRIZIO.

Oh ben fatto, ben fatto!

MOSCHETTA.

E tutta questa notte abbiam fatta la sentinella, fin tanto che egli entrò nel pollaio. Oh com'era egli grande! Come prima e' vi fu, mi diedi a turar il pertugio; sapete quello della gastalda, che risponde in cucina?

PATRIZIO.

Sì, intendo. Entrava per quello, eh?

MOSCHETTA.

Per quello appunto. Avendolo ben turato, sì che non potesse più ritornarsene, entrammo ambedue insieme e gli fummo addosso, menando l'uno e l'altra colpi di schiena, io con un sodo palo ed ella con una pertica, che avereste detto: “costoro fanno a gara chi me' si dimena”. Ultimamente menammo tanto, che restò morta. Oh che valente donna è colei! Né crediate che alla prima morisse, no: tornammo a quel trastullo ben tre fiate. Per Dio, che un asino, padrone, non sarebbe durato alla gran fatica che ho fatt'io questa notte. Or non mi dite mai più infingardo.

PATRIZIO.

O Moschetta mio caro, quant'obbligato ti sono per sì buon'opra. E' se gli avrebbe mangiati tutti. Hai tu poscia turata ben quella buca?

MOSCHETTA.

Se fosse qui la gastalda, ne potreste chieder a lei, ché miglior testimonio darvene non potrei. (Sì è ella ben radicata?)

PATRIZIO.

Or dimmi, hai condotto la roba salva?

MOSCHETTA.

La roba ora può esser al Bassanello, che, quand'io la lasciai, partiva la barca ancora.

SCENA SETTIMA

PISTOFILO, PATRIZIO, MOSCHETTA

PISTOFILO.

(Ecco Moschetta; ma c'è mio padre).

PATRIZIO.

Con essa dunque non se' venuto?

MOSCHETTA.

Le robe appena si son potute condurre, per mancamento di piena.

PISTOFILO.

(Io vo' star ad udire).

MOSCHETTA.

O padrone, che bella roba! Voi vi farete un onor mirabile.

PISTOFILO.

(Parla de' polli che ha condotti).

PATRIZIO.

Ho sempre fatta professione d'aver in casa mia belle bestie.

MOSCHETTA.

Cominciando da te.

PATRIZIO.

Che di' tu?

MOSCHETTA.

Dico, cominciando da me.

PISTOFILO.

(Oh che ribaldo!).

MOSCHETTA.

Oh come voglio sfamarmi per una volta! Ma perché l'ora è tarda, sarà meglio ch'io vada per la bolletta, e faccia condur la roba.

PATRIZIO.

Sì, tu di' bene. Va via, mentre vo io a fornir la lite in Palazzo.

MOSCHETTA.

Oh giornata felice! Che mangerà Moschetta? Un'oca e una porchetta.

PATRIZIO.

O Moschetta, Moschetta. È pur meglio ch'essi la facciano questa spesa.

MOSCHETTA.

Chiamatemi voi?

PATRIZIO.

Sì, hai tu la lista de' polli?

MOSCHETTA.

Eccola.

PATRIZIO.

Or va con essa a casa il Collaterale: sai tu quel cipriotto, che sta all'Arena?

MOSCHETTA.

Come, s'io 'l so? Oh che cuoco mirabile! Non andate più innanzi, che senz'altro v'ho inteso. Ch'io mostri a quel suo cuoco la lista, e sì gli dica da parte vostra...

PATRIZIO.

Che cianci tu di cuoco? Va dico a casa il Collaterale, e trova quel suo maestro di casa, e digli...

MOSCHETTA.

Che volete voi far di maestro di casa? Non vi servirò io meglio di lui?

PATRIZIO.

Tu farnetichi, neh vero? Che umori sono cotesti tuoi? Che maestro di casa vuoi tu far, ignorante? Egli è un uomo grande, di pelo tra biondo e bigio, ricciuto, sai?

MOSCHETTA.

Quanto a questo, io lo conosco purtroppo.

PATRIZIO.

Digli che son venute quelle robe ch'io gli promisi; e se le vuole, mi mandi prima i danari del costo, secondo l'accordo fatto, e poi a casa se le conduca, acciocché egli faccia la spesa della condotta. Ha' tu inteso?

MOSCHETTA.

Quali robe? Quelle cinque sacca di grano e sette di lana, che ho condotte insieme co' polli?

PATRIZIO.

Che grano, che lana vai tu sognando, balordo? Dico i polli di quella lista.

PISTOFILO.

(Oh questa sì, ch'è da ridere!).

MOSCHETTA.

Di questa lista?

PATRIZIO.

Di cotesta lista, sì.

MOSCHETTA.

Ah sì, volete dire ch'io gli dia questa lista e che poi faccia i polli condurre a casa. Io v'intendo: tanto farò.

PATRIZIO.

Dove vai? Fermati. Se' tu ebro, o fai del buffone? Io dico che tu gli dia la lista insieme co' polli, quand'egli il prezzo loro m'abbia mandato. La vuoi più chiara?

MOSCHETTA.

La lista e i polli? E per far che?

PATRIZIO.

Guarda animal ch'è questo! Che vuoi tu sapere de' fatti loro? Perché suo padrone aspetta un gran signore. Orsù, se' tu chiaro?

MOSCHETTA.

Dunque con queste robe non volete far un convito?

PATRIZIO.

Che convito! Dio me ne guardi. Sciocchezze del tempo antico.

PISTOFILO.

(To' to').

MOSCHETTA.

Eh, padrone, dite voi daddovero? Voi siete pur piacevole; e par ben che parliate dal maladetto senno. Forse voi vi credete che i manicamenti mi piacciano, e per ciò volete darmi martello. Poco me ne curo io, vedete. Ciò dissi solo per onor vostro, io. Orsù farò far la bolletta, e condurrò (ch'egli è tardi) le robe a casa. Sì, sì. Assai vi siete voi preso gabbo del fatto mio. Oh come siete voi dolce!

PISTOFILO.

(Te n'avvedrai. Oh i' l'ho caro).

PATRIZIO.

Vuoi che t'insegni, Moschetta... Non mi andare più stuzzicando, e fa quanto io t'ho detto. S'io torno a casa, che ciò non abbi esequito, ti pentirai d'avermi veduto mai.

SCENA OTTAVA

PISTOFILO, MOSCHETTA

PISTOFILO.

Che mangerà Moschetta? Un gufo e una civetta. Ah, ah, ah. Tu se' mutolo, sì. O Moschetta, Moschetta. Egli è morto il poverello. Ah, ah, ah. Mi convien ridere, e non ho voglia. O Moschetta! Bisogna scuoterlo daddovero costui. O Moschetta! To' to', gli cade di man la lista, cotanto è fuori di sentimento. Si vede bene che la tua vita è 'l mangiare. Io gli vo' gridar nell'orecchio. O Moschetta, Moschetta!

MOSCHETTA.

Ohimè, i' son morto.

PISTOFILO.

Anzi no; tu se' vivo, e mio padre ti vuol fare un solennissimo stravizzo: non dubitare.

MOSCHETTA.

Oh traditore, manigoldo, poltrone, imperador de' poltroni! Hammi quasi fatto morire. Ma creda pur che Moschetta farà la sua vendetta.

PISTOFILO.

Abbi pur pazienza, Moschetta. Tu te l'hai guadagnata.

MOSCHETTA.

E perché?

PISTOFILO.

Quanto l'ho caro! Per la 'ngordigia di satollarti m'avevi abbandonato, eh? Ve' quello che te n'avviene. Come l'ho caro!

MOSCHETTA.

Oh assassino, a questo modo eh? Farmi venir la lupa in corpo, e poi levarmi il modo di pascerla con pericolo che di dentro mi divori il fegato, la corata e 'l polmone con tutto il resto delle budella. Sento ben io come sto.

PISTOFILO.

Ah, ah, tuo danno. Eri fatto ancor tu consiglier delle nozze, provveditor del convito, introduttor dell'idropica. Pistofilo, a sua posta. Il manicare più t'importava che l'amor di Pistofilo, eh?

MOSCHETTA.

Datemi qua la mano. Moschetta oggi farà vedervi quel che possa una lingua aguzzata dall'appetito, un appetito ingannato dalla speranza. Io dirò tanto, che sturberò queste nozze.

PISTOFILO.

O Moschetta, mia vita, mia salute, mio bene, quanto caramente t'abbraccio! Se questo fai, beato me, beato te; ma no 'l farai.

MOSCHETTA.

No 'l farò? E perché?

PISTOFILO.

Mari e monti nelle parole.

MOSCHETTA.

Forse ch'io starò troppo? Datemi tanto solo di tempo ch'io mi tragga non so che della tasca; e sì potrete chiarirvi, s'io fo parole. Vedete voi questo viluppo?

PISTOFILO.

Da mal capo la prendi, se da viluppo cominci.

MOSCHETTA.

O se sapeste dond'egli viene! Inchinatevi infin a terra.

PISTOFILO.

Non diss'io che coteste sarebbon cicalerie prette prette?

MOSCHETTA.

Ora statemi ad udire, e sì vedrete se sono fatti. Venendo dalla barca per trovar vostro padre e avvisarlo di quella roba (ohimè), di quella che mi fa sospirare...

PISTOFILO.

Lasciala andare, in nome di Dio, che non c'è più rimedio, e io prometto di ristorartene in mille doppi. Sta di buon animo, e seguita.

MOSCHETTA.

Nel venir dunque da barca, passando per quel chiassolino che è qui di dietro alla casa di Lurco, sento chiamarmi: “Moschetta, o Moschetta”. Io m'arresto, e parendomi ch'ella venisse d'alto, guardo alle finestre, né vi veggio persona. Ed ella, richiamandomi, “più su, dice, più su”; tanto che, rivolti gli occhi là su, vidi Gostanza essere quella che mi chiamava.

PISTOFILO.

Gostanza? Oh ben mio! E dove era ella?

MOSCHETTA.

Sapete voi quel terrazzo ch'è sopra il tetto, dove, già due dì sono, voi la vedeste che stendeva il bucato?

PISTOFILO.

Fin lassù, eh? Che faceva?

MOSCHETTA.

Si faceva biondi i capegli: che, per quanto intesi già dalla Lena, questa è quanta commodità gli ha data Lurco il padrigno suo. O Pistofilo, se quella fila d'oro aveste vedute! Quel bianco seno, quelle candide braccia poco meno che ignude, quel volto che par d'un angelo!

PISTOFILO.

Ahi, tesori della mia vita che mi fanno morir mendico.

MOSCHETTA.

Poiché le fui vicino, istantemente pregommi ch'io mi fermassi e aspettassila un cotal poco. Il che feci; e non istette guari che mi gittò di lassù questa, che voi vedete, fettuccia di panno vecchio, così legata.

PISTOFILO.

Oh ben mio! Dallami.

MOSCHETTA.

Io la raccolsi, con animo, a dirvi il vero...

PISTOFILO.

Di non darlami, eh?

MOSCHETTA.

Anzi sì, ma dopo fatte le nozze.

PISTOFILO.

Dopo le nozze, eh? Traditore!

MOSCHETTA.

Ma poiché la speranza mi va fallita, questa e ogn'altra cosa, in servigio vostro, di fare son dispostissimo; prendete.

PISTOFILO.

Oh ben nato fascetto, venuto di paradiso!

MOSCHETTA.

E scioglietelo voi: ché né pur voglia ne venne a me, come quegli che tutto 'l mio pensiero, tutto 'l mio cuore nelle pentole avea riposto.

PISTOFILO.

Oh benedetta carta! Così potessi baciar colei che ti manda!

MOSCHETTA.

Voi vi turbate, leggendola: che c'è di rotto?

PISTOFILO.

Qualche male incontrato le sarà certo.

MOSCHETTA.

Ben, che dice ella? Voi vi grattate in capo. Qualche novella che non vi piace, eh?

PISTOFILO.

Io son tra il bene e il male, Moschetta mio. Dice la carta che Lurco è ito a Santa Giustina, donde per buona pezza non tornerà; e che di cosa molto importante mi vuol parlar a certa finestra, che risponde qui, ferriata. La qual certo de' esser quella.

MOSCHETTA.

E voi dubitate di questa nuova?

PISTOFILO.

Par che presago m'avvisi il cuore che questa necessità, non venga da buona cosa.

MOSCHETTA.

Ma ecco Gostanza.

PISTOFILO.

E dove?

MOSCHETTA.

Non è, no; era una gatta.

PISTOFILO.

Ohimè, non mi dare di queste angoscie, Moschetta.

MOSCHETTA.

Oh valentuomo! Che farete voi, quando l'averete innanzi?

SCENA NONA

GOSTANZA, PISTOFILO, MOSCHETTA

GOSTANZA.

O Pistofilo! Pistofilo?

PISTOFILO.

Ma eccola daddovero. Oh ben mio!

MOSCHETTA.

Padrone, datemi quella lista.

PISTOFILO.

Che, Moschetta? Oh cuor mio, e come, oh Dio!...

MOSCHETTA.

Puuu, in cimbalis. Oh padrone, la lista che testè raccoglieste, ch'io la porti a quel cipriotto.

PISTOFILO.

Si, va via, non mi dar noia.

MOSCHETTA.

Fui un gran pazzo a non gli chieder la cappa.

GOSTANZA.

Deh guardate, di grazia, che altri non ci vegga, Pistofilo.

PISTOFILO.

Non c'è persona, cuor mio. Ma che ventura è stata oggi la nostra? Tanto più cara, quanto meno aspettata!

GOSTANZA.

Ventura, eh, Pistofilo? Ventura che mi farà morir di dolore.

PISTOFILO.

Ohimè, che è quel che voi dite? Così dunque la mia vista v'offende?

GOSTANZA.

Anzi il troppo gioirne è cagione che 'l vedervi ora, per non avervi a riveder forse mai più, noiosa quella vista mi rende, che per altro m'è sì soave.

PISTOFILO.

Come mai più? Se 'l ciel ci ha data questa commodità, ce ne darà ben anche dell'altre, malgrado di quel crudele e iniquo vostro padrigno.

GOSTANZA.

Eh Pistofilo, mio padrigno ha data la sentenza della mia morte, e domattina l'esequirà.

PISTOFILO.

Come sentenza? Ohimè, che pensa egli di fare? Deh non piagnete, cuor mio.

GOSTANZA.

Mi vuol condurre a Vinegia.

PISTOFILO.

Domattina?

GOSTANZA.

Domattina, Pistofilo, né voi potrete impedirlo.

PISTOFILO.

O cielo, fammi prima morire, che veder questo. Oh come son io stato di così tristo annunzio certo indovino! Non sarà vero mai che siate d'altri che mia.

GOSTANZA.

Vostra son, perch'io v'amo, perché del mio cuore v'ho fatto libero dono; ma vostra non son già in quella guisa che ho sperato, e che merita l'amor mio, e che voi m'avete promesso.

PISTOFILO.

S'io credessi di lasciarci la vita, sarete mia.

GOSTANZA.

Il tempo è troppo breve, Pistofilo. Bisognava pensarci prima. Ma se fosse in voi quella fede, nella quale ho vanamente sperato, un'ora sola ci basterebbe. Che quand'io fussi vostra per legittimo matrimonio già divenuta, che ragione potrebbe avere in me né 'l padrigno, né uom del mondo?

PISTOFILO.

Ah Gostanza, voi non sapete di che importanza sia questo fatto.

GOSTANZA.

Io so che, quand'amore è del buono, agevolmente vince ogni cosa. Io, che fanciulla sono e posso dir prigioniera, curando poco le minaccie del mio fiero padrigno, ho, suo malgrado, prolungato due mesi interi (che tanti sono appunto che ci venimmo) la pratica di quel mercatante, a cui egli mi ha venduta. E così, povera com'io sono, ho rifiutata, per esser vostra, l'eredità della madre; e voi, che siete uomo libero e ricco, in tanto tempo non avete saputo mai trovar modo di trar di bocca a sì fiero lupo questa innocente e misera vostra agnella?

PISTOFILO.

Se così fosse padrigno il mio, com'è 'l vostro, fare'vi ben io vedere chi di noi fusse più fedele e più ardente. Troppo son io legato.

GOSTANZA.

Eh! Dio voglia che non vi leghino i lacci d'oro; e che la roba non vi consigli ad esser anzi marito di ricca donna che di fanciulla povera, com'io sono.

PISTOFILO.

E se quella ricca donna fosse in mia mano di possedere, e pure per amor vostro non solo non la volessi, ma l'abborrissi, che ne direste? Ah non sapete il fiero tormento, che per ciò sostenere dal padre mio mi conviene.

GOSTANZA.

Se cotesto è pur vero, che io no 'l so, assai più di timore che di conforto m'arreca. Che se quel cattivello, il quale confessando sa di morire, non può resistere a chi 'l tormenta, che si de' creder di voi, potendo, non colla morte, ma colle ricche nozze terminar il vostro tormento? Se ora non v'ha vinto, un'altra volta vi vincerà; e quella sola basta a farmi morire.

PISTOFILO.

Potess'io pure così voi liberare dal pericolo di Vinegia, com'io quel delle nozze saprò fuggire.

GOSTANZA.

Domattina dunque, Pistofilo, io me n'andrò, portando in questo misero cuore eternamente scolpita la rimembranza sola di voi, poiché altro non mi resta dell'amor vostro. Io dico eternamente, non già ch'io speri di poter molto vivere senza voi; ma perché voglio amarvi, s'e' si può, ancora dopo la morte. Ricevete voi queste lagrime, ultimo dono e miserabile del cuor mio. E se degna non sono stata d'amorosa mercede, fatemi degna almeno di cortese compassione. Non la negate a questa misera serva, che né dolor, né fortuna, né lontananza, né paterno rigore, né qual altra si voglia potenza umana, avrà mai forza di separare, o viva o morta, da voi.

PISTOFILO.

Non più pianto, Gostanza, non più querele. Io solo ho da stagnar queste lagrime, io solo da saldare le nostre ferite. Oggi farò vedervi s'io vi amo. Sprezzerò le minacce del padre, romperò il freno della modestia, non temerò di pericolo, sforzerò, involerò, penetrerò quelle mura; o domattina, nel cammino, vi rapirò. Né sarà impresa ch'io non ardisca. Non vo' patti colla fortuna, no, no: o tutto misero, o tutto lieto. Tra la vita e la morte non cerco mezzo: o io vi avrò, o io morrò.

SCENA DECIMA

GRILLO solo

GRILLO.

Che fo io? Lo star inutilmente, in tempo di cotanto bisogno, non mi par bene. Debb'io andare o restare? Par che mi dica il cuore che quella povera donna abbia di me bisogno; e pur mi pesa di lasciare la casa sola. Che fo? Voglio andare. Il Palazzo è vicino: quel birro non può andar di sopra, ché io ho chiusa la porta della scala. Non farò molto indugio: lasciami andare fin colassù.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

NICA, GRILLO

NICA.

O Grillo, tu ci venisti pur tanto a tempo! Dio ti spirò.

GRILLO.

E sapete ch'io stetti per non venire?

NICA.

Guai a noi. Egli s'era impuntato di mandarci (ohimè, che 'l cuore mi triema ancora!) a levare Cassandra allor allora di casa.

GRILLO.

E perché così subito? Che gli era entrato nel capo?

NICA.

Perché il dottore è stato come la rana, la quale o salta o sta. Dianzi non volle fare; e oggi ha voluto strafare.

GRILLO.

Sapeva ben io che, a far saltare le sì fatte ranocchia, non ci voleva altro che 'l boccon d'oro.

NICA.

Nel difender la causa gli scappò della bocca non so che d'ingiustizia. Buon dì! Il Vicario, collerico di natura, che s'era di già scoperto parzialissimo di Patrizio e sapeva, in coscienza sua, che faceva ingiustizia, sentendo rimproverarlasi, fieramente adirato lo cacciò via. E non solo non volle a me, che umilmente ne 'l supplicava e piagneva, conceder la richiesta sospensione, ma fe' di più chiamare subito il Cavaliere, per ordinargli che immantenente ce la levasse di casa. Grillo mio, i' non ebbi mai la maggiore angoscia di quella; né credo che la morte possa esser più dolorosa.

GRILLO.

Mirate furia da pazzo! Che colpa avevate voi, anzi pur la giustizia, dell'altrui fallo? E forse che non si tien un gran savio? Infatti, chi non sa regger se stesso, non è atto a regger altrui. E i gran savi, per lo più, fanno le gran pazzie.

NICA.

E tu, com'hai poi fatto a incantarlo?

GRILLO.

Con uno scudo, che io piantai 'n mano a Scatolino: ed esso fu che trattenne il Cavaliere, acciò non andasse. E poi, entrato subito in camera, cominciò a dire delle solite sue novelle, e seppe sì ben fare, che mise il Vicario in succhio e ottenne la grazia che s'esequisca il primo comandamento: cioè che per tutt'oggi Cassandra non ci sia tolta.

NICA.

Così dunque si lascia egli aggirare a un cinciglione com'è colui?

GRILLO.

Oh sta bene. I buffoni, i ruffiani, i parassiti, gli adulatori, gli spioni e simil gente son gl'idoli de' padroni. Questi li ben veduti, gli accarezzati, i favoriti, i premiati: alla barba di quanti scimuniti, goffi e sgraziati virtuosi stentano al mondo.

NICA.

Or che s'ha a fare? Meschini a noi! Sei ore sole di tempo, eh?

GRILLO.

Hovvelo detto fin da principio: fuggire. A' casi nostri non c'è altro rimedio.

NICA.

Ohimè, Grillo, fuggire? E dove? E come? E quando? Grillo, pensaci bene, ch'egli è un gran passo.

GRILLO.

Senza pericolo, monna Nica, non si scampa di gran pericolo. Voi avete a gustare uno di questi due amari calici: o lasciare svergognata Cassandra, o fuggire con essa. Qual volete voi prima?

NICA.

Anzi morta che svergognata.

GRILLO.

Prendiamo dunque la fuga, e lasciatene a me la cura. Che s'altra via (che no 'l credo) men perigliosa di questa mi portasse innanzi la sorte, assicuratevi pure ch'io serberò il fuggire per l'ultima. Ma ditemi, credete voi che Cassandra potrà, senza sconciarsi, camminare infin al Portello?

NICA.

Anzi credo che, essendo ella nei nove mesi, questo moto per far agevole il suo parto le gioverà.

GRILLO.

Andate in casa; e fatto un fastello de' panni suoi e de' vostri, riponetelo in un forziere, ch'io condurrò un facchino per esso. Prendete ancora que' pochi danari e ori che voi avete, e aspettatemi.

NICA.

Ma il birro?

GRILLO.

Poiché 'l vino non l'ha inebriato, l'inebrieremo con l'oro. Queste canaglie si lasciano aggirare per uno scudo, com'altri vuole. Due paia che gli si donino: farà veduta di dormire, infingendosi d'esser ebbro, e lasceracci fare quel che vorremo. Quattro scudi: non gli vede in quattr'anni! Ma mi scordavo del meglio. Crediam noi che Cassandra voglia venire?

NICA.

Se vorrà? Dice che andrebbe in capo del mondo, per sfuggire la sua vergogna e le nozze. Oh se tu la sentissi! “Misera me, dice ella, avesse almen voluto la mia disgrazia che questo parto, infelicissimo testimonio dell'amor mio, o fosse stato maturo avanti che scoperte le mie vergogne si fossero, o prima del tempo uscendo, m'avesse, quasi vipera, uccisa. Ma, viva o morta, non fia mai vero che altri mi possegga che tu, Flavio mio. Né per altro m'è cara la ricca eredità che m'astringe a prender marito padovano, se non per farti sicuro che la mia fede non è vinta dall'oro”. O vedi s'ella verrà!

GRILLO.

Or via, non perdete tempo. Oh nelle sue miserie felicissima giovane! Se tutte fossero di tal animo, che bel mondo! Del quale, alla fin fine, le donne sono il vero ornamento. Oh sesso nobile! Oh sesso caro! Sesso gentile! Questa vita, senza te, sarebbe un inferno. Tu ristoro dell'uman genere, tu fonte delle dolcezze, tu consolazion degli affanni, tu condimento delle allegrezze, tu finalmente nido d'amore. Donne: non donne, angeli della terra. Ma volta carta, e fa che manchi loro la fede: diavoli incarnati, che ti vanno per casa!

SCENA SECONDA

MOSCHETTA, LURCO, GRILLO

MOSCHETTA.

Aspetta almeno tutto dimani.

LURCO.

Questi vostri dimani non arrivano mai. Né cotesto dimani sarà niente più oggi di quel che sia quest'oggi, rispetto a quel che fu ieri: e così l'uno va dietro all'altro. Non ne vo' più.

GRILLO.

(Che domine hanno costor di traffico? Io vo' star un poco a udirgli).

MOSCHETTA.

Lurco, non possa io veder altr'oggi, se non verrà il dimani che io ti dico.

LURCO.

So ben anch'io che verrà. Gran segreto! Ma quello de' danari non sarà già.

MOSCHETTA.

Io dico quel de' danari.

LURCO.

E io replico che, per le tue parole e per quelle del tuo Pistofilo, ho mille occasioni perdute di far bene li fatti miei, e che non voglio perder quest'altra. Danari e non parole voglion esser, Moschetta.

GRILLO.

(Sì, eh? Comincio a intenderla).

MOSCHETTA.

Fammi questo servigio, per vita tua.

LURCO.

Per la vita tu mi scongiuri, eh? Non sai tu che la mia vita è 'l danaro?

MOSCHETTA.

Per la nostra antica amicizia.

LURCO.

E perché questa duri, non ti voglio far credito.

MOSCHETTA.

Per l'amor di Dio.

LURCO.

Per l'amor di dugento ducati Gostanza ti sarà data.

MOSCHETTA.

Tu se' pur crudo; chi ti fece mai tale?

LURCO.

La povertà, fratello, che è più cruda di me.

MOSCHETTA.

Deh, abbi compassione a quel povero giovane che si muor per amore.

LURCO.

Compassione a me, che mi muoio di fame. E poi che tresca è cotesta vostra? Non so io che Pistofilo prende moglie?

MOSCHETTA.

E qual è questa sua moglie?

GRILLO.

(Oh come a tempo ci son venuto!).

LURCO.

Oh, tu no 'l sai. Forse che andremo lunge a cercarla. La figliuola di quella sì ricca greca che morì un mese fa, e abita in quella casa.

MOSCHETTA.

Si vede ben che tu se' male informato, e che siccome falli nel nome, falli anche nel resto. Io t'intendo per discrezione. Ma odi, Lurco: tu vedrai prima il lupo congiungersi con l'agnella che Pistofilo con colei.

LURCO.

E perché?

MOSCHETTA.

Perché l'odia come la peste: più della morte.

GRILLO.

(O questa è pur la gran nuova! Non è tempo da starsi). Che mercati sono cotesti vostri? Puossi egli sapere?

MOSCHETTA.

Grillo, tu giungi a tempo: hai tu inteso?

LURCO.

Moschetta, addio.

GRILLO.

Ove vai? Che creanza è cotesta tua di volertene andare subito ch'io sia giunto?

LURCO.

In mezzo a duo ribaldi, eh?

GRILLO.

Oh! ci puoi star per terzo tu, meglio del mondo.

MOSCHETTA.

Che per terzo? Per primo, dico io. Ascolta, Grillo, se tu sentissi mai la più fiera cosa! Costui ha una giumenta ch'io vorrei comperare pe 'l mio padrone; oggi non ho i danari, dimani prometto darglili; e costui è sì sfiduciato, che non vuol credermi e la vuol vender altrui.

LURCO.

Se costui avesse tanti danari quanti ha dimani, già è buon pezzo che 'l mercato sarebbe fatto. Ma ho bisogno d'un oggi, e non di mille dimani. Parti onesto ch'io non venda a chi mi paga la roba mia?

GRILLO.

Quanto importa cotesto prezzo?

MOSCHETTA.

Dugento ducati importa.

GRILLO.

E' un gran pagare! Bisogna ch'ella sia bella.

LURCO.

Ne val più di trecento; e ho più d'uno che me gli dà.

GRILLO.

Vuo' tu fare a mio senno?

LURCO.

Secondo che cosa. Di' mo'.

GRILLO.

Pistofilo ha il modo di dartene ben duemila, non che dugento.

LURCO.

Credo che gli abbia, ma non per me. Ma egli non ha voglia; no certo.

GRILLO.

Oh fagliene tu venire.

LURCO.

E come?

GRILLO.

Lasciagliela cavalcare una volta, e invaghirassene di maniera che trecento te ne darà.

LURCO.

Oh vedi che ho dato in buono!

GRILLO.

E perché no? I giovani son vogliosi.

LURCO.

Disse ben io ch'era in mezzo a duo sciaurati. Addio.

GRILLO.

Fermati un poco; non tanta fretta, no.

MOSCHETTA.

Caro Lurco, dove fu mai che si facesse mercato senza qualche dilazione?

LURCO.

I mercati delle donne non si fanno con credito.

MOSCHETTA.

Perché no?

LURCO.

Perciocché questa è una merce che porta, a chi la compera, pentimento. Sicché quel prezzo che non hai tratto dall'appetito, indarno è che tu speri di trarlo mai dalla fede.

GRILLO.

Egli è tristo daddovero.

LURCO.

Orsù bisogna ch'io v'apra il foglio. Holla promessa a chi caparra me ne ha già data. Forse voi pensavate che un anno a vostra posta la volessi tenere? Siete cortesi certo. Avete un bel garbo da far incetta di donne.

MOSCHETTA.

Tu l'hai promessa?

LURCO.

Promessa, sì; e perché?

MOSCHETTA.

Tu te ne pentirai, credilo a me.

LURCO.

Gnaffe. E per non avermene a pentire, oggi la vo' condurre a Vinegia.

GRILLO.

Orsù Lurco, non t'adirare, vien qua. (Non bisogna attizzarlo, Moschetta).

LURCO.

Credi tu di farmi paura? Ora io vo.

GRILLO.

Non ti partire di grazia, Lurco, e parla con esso meco; ché costui è uno scemo.

MOSCHETTA.

(Se questo è vero, tu stai fresco, Pistofilo).

GRILLO.

Ascolta, Lurco. E' troppo malagevole cosa a un figliuolo di famiglia, e figliuolo di padre avaro, il trovare dugento ducati così in un subito.

LURCO.

Tu parli contra di te, pover'uomo. Quanto è maggior la fatica, tanto meno io t'ho a credere.

GRILLO.

Daratti un mallevadore.

LURCO.

Non vo' piatire.

GRILLO.

Daratti un pegno.

LURCO.

Non son ebreo. Grillo, queste sono parole vane. M'accorgerò ben io se Pistofilo n'avrà voglia. Per amor suo son contento d'aspettar per tutt'oggi. Domattina, sull'alba, la sentenza è data. Statti con Dio.

GRILLO.

Ascolta, fermati un poco.

LURCO.

Purtroppo mi son fermato.

GRILLO.

Aspettaci almeno in casa.

LURCO.

Sì, quasi io non abbia altra faccenda che questa. Addio.

GRILLO.

Moschetta, tu la 'ntendi. Senza danari, abbiam perduta la causa. Ma il mio caso è in peggior termine assai del tuo. Tu, non guadagnando, non perdi nulla; ma se oggi quella povera giovane ci vien tolta, così inferma com'ella è, senza alcun fallo, la misera si morrà.

MOSCHETTA.

Che, dunque anch'ella non consente alle nozze?

GRILLO.

Questo non so; ma so bene che non vorrebbe venirti in casa, e che noi facciamo ogni cosa perch'ella non ci venga e non ci sia tolta. Ti par egli onesta cosa?

MOSCHETTA.

To', to': cotesto non sapev'io, ed è ben daddovero un gran punto. Grillo, poiché amenduni camminiamo ad un fine, aiutianci, per vita tua. Alleghiamoci insieme, per trovar modo io d'acquistar una donna, tu per non perder la tua.

SCENA TERZA

PISTOFILO, MOSCHETTA, GRILLO

PISTOFILO.

Sbandito a tua posta, pur ch'io goda la mia Gostanza, pur ch'io possegga l'anima mia. Oh lagrime preziose! Oh sangue del cuor mio! Ch'io t'abbandoni? Ch'io ti vegga in altre mani che in queste? Al primo colpo, taglia una gamba a quel manigoldo, e tutto a un tempo raddoppia il colpo sopra alcun altro che seco fosse: messigli in terra, becco su la mia vita. Oh cuor mio!

MOSCHETTA.

Se quella che tagliate è una torta, un buon pezzo per me, di grazia.

PISTOFILO.

O Moschetta, a tempo ti trovo.

MOSCHETTA.

Voi fate un gran menar di mani.

PISTOFILO.

Fratello, tu sai bene che quel tristo di Lurco... Tirati 'n qua, che colui non c'intenda.

MOSCHETTA.

Non dubitate, ch'è nostro amico, e non mi replicate parola; ché quanto dir mi volete, tutto so.

GRILLO.

Pistofilo, non vi guardate da me, ch'io son de' vostri, nientemeno di quello che sia Moschetta: poiché, per quanto mi par d'intendere, la mia padrona e voi v'accordate meglio del mondo. Voi non volete lei, ed ella molto men voi, non già per poco merito vostro, ma perché, avendo inteso dell'avarizia grande di vostro padre, famosa per tutta Padova, si morrebbe piuttosto ch'entrarvi in casa.

MOSCHETTA.

Che vi diss'io?

PISTOFILO.

O Moschetta, dice egli il vero costui, o s'infinge?

GRILLO.

Ancor non mi crede.

MOSCHETTA.

Come, se dice? Non ha forse ragione? Ella ci morrebbe di fame, la poveretta.

PISTOFILO.

Oh come a tempo! De' esser bravo, ché ha la spada. Affé che sarà buona per aiutarci a rapir Gostanza.

MOSCHETTA.

Rapir Gostanza? Parliamo d'altro.

PISTOFILO.

Che hai paura della pancia, poltrone?

MOSCHETTA.

Piuttosto della schiena, che è calamita del remo; che, quanto alla pancia, non ha ella paura d'altri che di vostro padre, a dirvi la verità.

PISTOFILO.

Come hai tu nome?

GRILLO.

Grillo, al vostro servigio.

PISTOFILO.

Grillo, se questo è vero, mi dai la miglior nuova del mondo.

GRILLO.

Come, s'è vero? Io vi farò conoscere che meno di voi non bramo la rovina di queste nozze.

MOSCHETTA.

Per due sposi, che si hanno a fare istasera, non si vide mai meglio.

PISTOFILO.

Oh Dio! sarà possibile mai che due così lontani d'animo e di volere sian per unirsi?

MOSCHETTA.

Eh padrone, aveste voi creduto a Moschetta,che sareste ora fuori d'ogni fastidio. Quante volte v'ho io detto: “Pistofilo, se volete costei, non ci perdete tempo, ché suo padrigno ve la condurrà un dì a Vinegia. Rompete quel granaio, schiodate quella cassa, impegnate quelle robe”. Ma non avete mai saputo risolvervi. O tutto buono o tutto reo bisogna esser, padrone. Se ora noi avessimo apparecchiato il danaro, mi darebbe il cuore di porvi in braccio a Gostanza.

GRILLO.

E dimmi un poco, Moschetta, quando tu avessi i dugento ducati, provvederesti tu poi al resto?

PISTOFILO.

Perché, Grillo? Sai forse dove poterli avere? Saresti ben l'idol mio.

GRILLO.

Non dico già io d'avergli; ma dico bene che se la via si trovasse di frastornar queste nozze, sarei uomo per accattargli. Mille grilli mi vanno per la testa, da che tu mi motteggiasti di que' danari.

MOSCHETTA.

Guardati dal proferire.

GRILLO.

Guardati pur tu dal vantarti.

PISTOFILO.

Accordatevi, io vi prego: parlate chiaro, e levatemi di tormento.

MOSCHETTA.

Se costui oggi trova i contanti da dar a Lurco, per trargli di man Gostanza, mi va per l'animo la più sottile invenzione, e più agevole da fornire, che mai sentiste. Ma egli farnetica d'accattar oggi i dugento ducati.

GRILLO.

Io farnetico? Primieramente, io so dove avere il pegno per tanti. In casa sempre l'avrò. Ma per dirti, ho pensato meglio, Moschetta. Non ci sarebbe il mi' onore, se di gioco di testa io mi lasciassi vincer da te. Emmi sovvenuto che quello scemo di Zenobio pedante è innamorato, che spasima di Gostanza.

PISTOFILO.

Di Gostanza mia?

GRILLO.

Di Gostanza vostra.

PISTOFILO.

Oh insolente! So ben io quello che va cercando. Gostanza mia, eh?

GRILLO.

Non dubitate che gli faremo pagar la pena.

MOSCHETTA.

E quella pecora è innamorata?

GRILLO.

Sì; e di tal sorte che mi dà il cuore di fargli fare ciò ch'io vorrò.

PISTOFILO.

Non farai nulla, Grillo. Da colui dugento ducati? Egli è un poveraccio.

GRILLO.

Più di cinquecento n'ha ben egli, per quello che mi mostrò in tanti bei pezzi d'oro, fin quando stava a Vinegia. So ben io che ve l' farò sdrucciolare. Il terreno va troppo bene alla vanga. E poi egli è innamorato fin dove può mai andare.

PISTOFILO.

O Grillo mio caro, caro! Senza te, noi eravamo perduti. E tu, Moschetta, che pensi ora di fare? Già noi possiamo dir d'aver il danaro. Che di' tu? Quanto dubito che cotesta tua sì miserabile invenzione non sia uno scoppio vanissimo di vessica!

MOSCHETTA.

Sarà scoppio d'una bombarda, e colpirà sì fattamente nel segno, che le macchine de' nemici tutte n'andranno a terra. Ma, prima d'ogn'altra cosa, Moschetta vuol sapere quel che n'ha a guadagnare.

GRILLO.

Sai che, Moschetta, non è tempo da patti: è tempo da fatti. E poi bisogna che prima tu ne faccia sapere quel che pensi di fare.

MOSCHETTA.

Tu non la 'ntendi, tu. Vo' prima esser sicuro della mercede, sai, Grillo? Io voglio che mi facciate un solennissimo manicare, Pistofilo.

PISTOFILO.

Sì, sì, quanto saprai desiderarlo maggiore.

GRILLO.

Oh ti venga il fistolo, manigoldo. Io mi credeva che tu volessi qualche gran prezzo, io.

MOSCHETTA.

E questo non è grande? Ma son io troppo avvezzo a esser ingannato, e però...

PISTOFILO.

Eh non perder il tempo, Moschetta, né dubitare; ch'io ti darò tutto quello che tu vorrai.

MOSCHETTA.

Ma voi m'avete a giurar, sapete?

PISTOFILO.

Io ti giuro. Orsù.

MOSCHETTA.

Dite pure come dirò io.

PISTOFILO.

Ohimè, ohimè!

MOSCHETTA.

Su dite: io ti giuro. Su.

PISTOFILO.

Io ti giuro.

MOSCHETTA.

Per vita di Gostanza.

PISTOFILO.

Per vita di Gostanza. Ohimè, che mi fai dire!

GRILLO.

Ah, ah, ah. Oh ribaldo! So che ha saputo trovare il buon santo, io.

MOSCHETTA.

Di far a te, Moschetta. Su, dite, via.

PISTOFILO.

Di far a te, Moschetta.

MOSCHETTA.

Un solennissimo stravizzo.

PISTOFILO.

Un solennissimo stravizzo.

MOSCHETTA.

Che duri fin ch'avrai fame.

GRILLO.

Non fate; ch'egli manicherà voi, me, Gostanza e ce ne fossero pur degli altri.

PISTOFILO.

Tanto che ti satollerai. Orsù...

GRILLO.

Né questo ancora, diavolo.

MOSCHETTA.

Grillo, tu se' fastidioso; impacciati ne' fatti tuoi, e non mi dar in bocca, ché non saremo amici, te 'l dico io.

PISTOFILO.

Tanto che basti a fare che tu non ci mangi. Orsù, contentati.

MOSCHETTA.

Or la cosa comincia a passare pe'l suo verso. M'è venuto un sì fatto appetito, con la memoria sola del manicare, che vo in deliquio. Ma io non voglio che stiamo qui; che se per mala sorte il vecchio malizioso sopravvenisse, vedendoci alle strette, non sospettasse. Ritiriamci qui nelle Scuole, Pistofilo e io; e tu Grillo va, procaccia il danaro. E se questo avrai tanto sicuro quanto ho io il mio pensiero, la cosa è fatta.

GRILLO.

Saprei pur volentieri ancor io quel che n'ha essere.

MOSCHETTA.

Trova il danaro, e troppo bene il saprai. Addio.

PISTOFILO.

Addio, Grillo. A rivederci con buone nuove.

GRILLO.

Addio. Ma che invenzione troverò io che sia buona? Nel cammino l'andrò tessendo. E dove il troverò io? Disse d'andar a veder Gostanza, ma ciò fu innanzi desinare. Certo il troverò a casa il Collaterale, ché quivi spesso a quel buon tavolone ridur si suole.

SCENA QUARTA

ZENOBIO, GRILLO

ZENOBIO.

Oh sole opposito al sole, oh auree chiome, oh seno, oh braccia, oh mani, oh tergo meraviglioso! Ma ecco Grillo: oh come a tempo! O Grillo.

GRILLO.

Chi mi chiama? (Oh sii tu il mal venuto! Sì tosto non ti voleva già io).

ZENOBIO.

Volgiti in qua, ché son io.

GRILLO.

Oh siete voi, messer Zenobio mio caro? (Che cosa gli dirò io?).

ZENOBIO.

Appunto di te cercava, per teco le mie rare avventure comunicare.

GRILLO.

Io vi ho da dare la miglior nuova che mai aveste a' dì vostri. Oh che nuova! Oh che nuova rara! Che nuova miracolosa! (È stato agevole il cominciare; a finirla ti voglio).

ZENOBIO.

E io ne reco a te una maggiore assai della tua.

GRILLO.

È impossibile. Questa è regina di tutte le altre nuove. (Non so andare più innanzi io).

ZENOBIO.

Vuoi tu contender meco di nuove, se testé ho veduta Gostanza mia?

GRILLO.

Sì, la vostra, a petto alla mia, non val nulla, no certo.

ZENOBIO.

Dunque dimmi la tua.

GRILLO.

(Il tutto sta ch'io la sappia). Io credo certo che la fortuna mi v'abbia mandato innanzi per vostro bene. Oh che nuova! Oh che nuova!

ZENOBIO.

Oh che nuova, oh che nuova; oh dillami una volta!

GRILLO.

S'io non vi ritrovava, guai a voi. Pensate, io v'ho cercato tutt'oggi. (E la cerco tutt'ora, e trovar non la posso).

ZENOBIO.

Se questa è quanta nuova mi sai tu dare, frustra t'ho ritrovato.

GRILLO.

(Per mia fè, ch'io la tengo). Che volete giucare che la mia di gran lunga è maggiore assai della vostra? Non dite voi che avete veduta Gostanza? E dove fu cotesto?

ZENOBIO.

Là sopra 'l tetto, che quivi s'asciugava i capegli: oh aurei capegli!

GRILLO.

(Oh gran diavolo! Là su non la voleva già io. Anzi pur sì: ella ci va di brocca).

ZENOBIO.

Ma che pensi tu?

GRILLO.

O, o, o, la mia senza dubbio avanza la vostra. Voi avete a sapere che Gostanza vostra...

ZENOBIO.

Oh nuova miracolosa, poiché comincia dalla mia cara suaviola!

GRILLO.

È innamorata di maniera che spasima.

ZENOBIO.

Oh questo, infin'a qui, non m'è nuovo.

GRILLO.

E dico innamorata di Pistofilo, figliolo di messer Patrizio degli Orsi, che sta in quella casa. Fin qui non è menzogna. Conoscetelo voi?

ZENOBIO.

Hui, hui, Grillo mio facetissimo, così fai prova di martellarmi? Ma troppo bene so io che Gostanza mi ama perditamente. E poi non la lascerebbe un par mio, persona virile, uomo d'ingegno, poeta illustre, per un ragazzo com'è colui.

GRILLO.

Dunque credete voi ch'io dica menzogne?

ZENOBIO.

Di grazia, non mi far di queste paure; ch'io sono per natura sì delicato di spiriti, ch'ogni picciola mozione d'animo mi perturba.

GRILLO.

Messer Zenobio, mi duole d'avervelo a dire, ma io mi offero di farvi toccar con mano ciò ch'io vi dico.

ZENOBIO.

Ohimè! Dunque non beffi? È dunque vero che Gostanza mia per altri mi abbia posto in non cale?

GRILLO.

Non so di cale. Io vi dico che la cosa sta pur così. (I' ho 'l vento in poppa).

ZENOBIO.

Varium et mutabile semper femina. E questa è la buona nuova che tu mi dai, eh?

GRILLO.

Ho voluto prima darvi la rea, perché la buona, ch'io son per darvi, è tanto eccellente, che l'allegrezza averebbe potuto uccidervi. Ma voglio che le vostre armi medesime vi convincano. Che credete voi che facesse Gostanza sopra quel tetto, dove voi dite d'averla veduta?

ZENOBIO.

Per brama di vedermi, avrei creduto io prima ch'io ti parlassi.

GRILLO.

Oh pover'uomo! Come mostrate bene di non aver pratica delle donne. Credete voi che un solo amor le contenti? E' ci sono di quelle che fanno de' loro amanti le liste tanto lunghe, vedete, per potersene ricordare: tanti ne hanno elleno! Sapete quello che vi faceva, e che vi ha fatto? Volendola suo padrigno condur domattina a Vinegia, ha concertato di tirarsi oggi in casa Pistofilo travestito da burattino.

ZENOBIO.

Eh queste sono buone novelle? Oh infelice ascalato! oh funesto e importuno bubone!

GRILLO.

(Che domine cinguetta egli? Mi dice villania certo).

ZENOBIO.

Ma che sai tu di cotesto?

GRILLO.

(Tirala Grillo, sta in cervello). Lurco, padrigno suo, me l'ha detto, il quale si è trovato in luogo dove ha potuto sentirlo. E perché molto di me si fida, mi ha pregato ch'io voglia esser con esso lui e dargli un carico di buone bastonate.

ZENOBIO.

Ai giovanetti, com'egli è, ancora teneri, non conviene il bastone. Il suo vero gastigo sarebbe la mia scutica. Oh come il servirei io bene! Ma in qual abito ha egli divisato di travestirsi?

GRILLO.

Da burattino.

ZENOBIO.

Guata tu s'egli ha viso di sapere abburattare! Che per quell'esercizio potrebbe stare molt'anni ancora sotto il maestro.

GRILLO.

Con una barba posticcia s'avea pensato di contraffarsi. Ma per tornar a proposito: io, che so quanto voi siate acceso dell'amor di Gostanza, ho così meco discorso che, quell'abito voi prendendo, potrete troppo bene e commodamente, in vece di Pistofilo, andar in casa e godere.

ZENOBIO.

Per esserci ricevuto con un pezzo di legno? Oh questo non farò io. E così, Grillo, le tue buone novelle si risolvono in male busse.

GRILLO.

Non vi smarrite, ché non c'è male alcuno: perciocché io, bramoso di servirvi, ho fatto consapevole Lurco dell'amor vostro.

ZENOBIO.

Ohimè, che hai tu fatto, Grillo, che hai tu fatto? Perii, perii; prostituta è la mia dignità.

GRILLO.

Ohimè, ohimè, voi siete pure impaziente. Lasciatemi finire, e poi doletevi, se vi parrà d'averne cagione. E perché Pistofilo avea promesso di dare, per prezzo di Gostanza, dugento ducati a Lurco, poiché egli non ha potuto trovarli mai, ho in nome vostro data io la parola a Lurco, ed egli se ne contenta. Sicché sborsandogli voi il danaro, vi lascerà con quell'abito, in vece di Pistofilo, entrar in casa.

ZENOBIO.

Grillo, a dirti il vero, non vo' più di queste tue buone nuove. Io son chiaro: come, dugento ducati? Non emo tanti poenitere no, no; nequaquam minime, messer no.

GRILLO.

Dove andate, messer Zenobio? Non vi partite, ché non sapete ancora tutta la storia.

ZENOBIO.

Di quella ch'io so, mi basta. Troppo n'ho inteso.

GRILLO.

Voi adombrate come cavallo. Ascoltatemi, e vedrete che l'ombre vi sembrano montagne.

ZENOBIO.

Ombre chiami tu dugento ducati?

GRILLO.

Forse che non gli avete? Per quel ch'io veggio, non siete innamorato, no certo. Se i danari fossero sangue, vi svenereste.

ZENOBIO.

Innamorato son ben io, Grillo; ma il mio amor non val tanto.

GRILLO.

Orsù, non voglio più tenervi in affanno. Se avessi trovato modo di farvi aver Gostanza per niente, che ne direste?

ZENOBIO.

Oh, oh, io direi che tu fossi valentuomo terque quaterque.

GRILLO.

Messer Zenobio, lasciatevi governar a chi vi vuol bene. Io fo più stima di voi e della grazia vostra, che di quanti ruffiani può aver il mondo. Vorreste dunque che Grillo, amico vostro di tanto tempo, pensasse mai d'ingannarvi? Il ciel me ne guardi. Or ascoltatemi, ch'io vo' condurvi in braccio di quella tenera mammoletta, con tanta agevolezza che stupirete!

ZENOBIO.

Oh Grillo mio lepidissimo e soavissimo! Se cotesto è vero, tu mi farai, u, u, u, tutto, tutto andar in dolcitudine liquefatto.

GRILLO.

S'io 'l farò, dite? Mo', mo' il vedrete. Io voglio che, preso l'abito come dianzi v'ho divisato, quando farete per entrar in casa di Lurco, abbiate due moccichini, che Grillo ve gli darà, tanto simili in fra di loro, che l'un dall'altro non si conosca. Nell'un voglio che riponiate dugento di que' vostri sì be' ducati d'oro, sapete, che già voi mi mostraste a Vinegia; nell'altro, altrettanti pezzi d'ottone stampati sì vagamente, che paion monete d'oro forbito. Io sarò quivi con esso voi, e dirò a Lurco che, per sicurezza e cautela vostra, è molto ben il dovere che non gli diate i danari prima che non abbiate il vostro fine ottenuto, dovendogli bastare che voi gli abbiate sicuri in tasca. E così gli mostrerete il moccichino dell'oro, annoverando i ducati, e poi riponendolo. Dopo 'l fatto, gli darete quel degli ottoni, intendete? Che per esser tanto simili, l'accetterà senz'altro per quel dell'oro. Che vi par di questo trovato? Non è egli di tutta botta?

ZENOBIO.

Ma dimmi, Grillo: come vuoi tu che Gostanza non mi conosca, ancorché io sia travestito?

GRILLO.

Non potrà ella, no: perciocché voi avete a condurvi con esso lei in una camera al buio, nella quale ha pensato di ricever l'amante. E poi badate pur a fare, e a non parlare. Come volete che vi conosca?

ZENOBIO.

Sta bene: oh mirabile astuzia! Non credo che quel Davo terenziano trovasse mai la più bella. Ma quando si sarà egli poi avveduto della menzogna, che fia di me? Non mi potrebbe egli far qualche scorno?

GRILLO.

Che scorno volete voi che vi faccia? Per chiamarvi in giudicio, nulla farebbe, mancandogli i testimoni. Offendervi nella vita, se ne guarderà bene; e avrà anche di grazia a star cheto, quand'egli sappia che Grillo sia per difendervi. Guai a lui!

ZENOBIO.

O Grillo mio, quanto ti son io grandemente ubbligato!

GRILLO.

Or non badate, su, provvedetevi quanto prima degli abiti, ch'io v'ho detto, da burattino, e travestitevi co 'l cavalletto e staccio a bell'ordine, apparecchiando i danari. E non avendo voi gli ottoni, li darò io, che gli ho i più belli del mondo; e, sopra il tutto, una barba posticcia, acciocché Gostanza non sospettasse, uscendo voi di metafora; poiché così Pistofilo ha concertato di dover fare, intendete?

ZENOBIO.

Optume! E so dove avere ogni cosa: da un burattino, che sta nella medesima casa dove sto io. Tu porta il resto, sai, Grillo.

GRILLO.

Sì, ma aspettatemi voi in casa; ché quando ne sarà il tempo, verrò per voi.

ZENOBIO.

Così farò

(parte)

.

GRILLO.

Oh pover'uomo, se altro senno non impari tu da' tuoi libri, vendigli pure. Non ho io fatta una bella impresa? Sì certo. Ma la sciocchezza dell'uccellato assai mi scema del pregio. Or vommene a trovar Lurco, per avvisarlo del fatto e di quello che resta a fare; e poi farò provvisione d'una fantina da mettere sotto al pedante, in vece della Gostanza, nella camera oscura, perché non possa conoscerla.

SCENA QUINTA

LURCO, GRILLO, MOSCHETTA

LURCO.

Tutto ho inteso, e sta bene.

GRILLO.

(Ve' gli qua).

LURCO.

E purché vengano i danari, fate quel che vi piace. Ma tu mi hai ben narrata la più bella novella che mai udissi.

GRILLO.

Ah, ah, ah.

MOSCHETTA.

Tu non potevi giugner più a tempo, Grillo.

GRILLO.

Ridete meco, per vita vostra; ch'i' ho da raccontarvi la più solenne beffa del mondo.

LURCO.

Addio, Grillo; tu non ti degni più, eh? So che tu peni a lasciarti veder, io.

GRILLO.

Se ogni volta ch'io starò molto a vederti, t'apporterò il guadagno ch'ora t'arreco, potresti ben contentarti di non vedermi in capo degli anni.

MOSCHETTA.

Dimmi, di grazia, avrestù mai dal pedante tratti i danari?

GRILLO.

Sì; e con sì bello artificio, che non è uomo al mondo che se 'l pensasse.

MOSCHETTA.

Oh Grillo, re de gli uomini! Lurco, questi sono i danari che testé ti dicea.

LURCO.

Guardate pure, sciaurati, di non volere cavar i granchi con l'altrui mani e fare la beffa a me, ché 'l disegno non vi riuscirà: intendete?

GRILLO.

Lurco, non dubitare, ch'io ti farò 'l partito tanto sicuro, che potrai dire d'averli in mano. Ascolta come.

LURCO.

E' meglio che per istrada tu me 'l vada dicendo.

GRILLO.

Perché? Dove vuo' tu essere?

LURCO.

A casa il notaio, il quale vo' far venire prima che altro segua, affine che Gostanza consenta che 'l testamento di sua madre sia aperto, e faccia insieme la rinunzia di quelle robe che da lei mi sono state promesse. E non sta molto di qui lontano.

GRILLO.

Andianne. Ma odi cosa che 'mporta, Bisognerebbe, per far la beffa al pedante, trovar una fantina d'amore. Saprestine tu alcuna che fosse pronta?

MOSCHETTA.

A sì buona derrata avessimo noi la vitella, come avremo la vacca. Ma non se' tu da ciò così buono come son io?

GRILLO.

Messer no: tu se' il poeta de' chiassi. E poi bisogna ch'io torni qua, per condurre il pedante. Non dir altro, ché questo è tuo proprio ufficio, Moschetta.

MOSCHETTA.

La Zoppina ti piacerebbe?

LURCO.

È troppo vecchia. La Loschetta assai più.

MOSCHETTA.

Dio guardi! Un unguento da cancheri!

GRILLO.

E l'altre che son elleno? Sì ch'è gentile e accorta molto.

MOSCHETTA.

Orsù non mancherannoci, no. Hacci la Gibetta, la Truffina, la Guinzaietta, la Bruna, l'Uncina, la Volpuccia, la Sadocca, la Zanchetta, e mill'altre che ora non mi ricordo.

GRILLO.

So che n'hai il registro, io. Ascolta, bisognerebbe che fusse simile di persona alla tua Gostanza, sai, Lurco.

LURCO.

Holla trovata io.

MOSCHETTA.

Di' mo'.

LURCO.

Loretta.

MOSCHETTA.

Non potrebb'essere più al caso; ed è tutta mia, e sta per buona sorte qui di dietro al Palazzo. Sarà ottima; tanto più che fa professione di star sempre pulita. Andiamo.

GRILLO.

Andiamo, Lurco, ch'io verrò poi a casa per informar monna Nica del tutto, e insegnarle quel che de' dire a messer Patrizio.

SCENA SESTA

PATRIZIO, FLAVIO in abito di medico

PATRIZIO.

Voi siete venuto a tempo, messer Sofronio; e per me, che ho bisogno di voi, e per voi, che larga ricompensa riceverete delle vostre fatiche, se voi sarete quel valentuomo che mi promette messer Antonio.

FLAVIO.

Signor mio, non so fare belle parole: l'opera sarà quella che, giustamente e con modestia, mi loderà.

PATRIZIO.

Or ascoltatemi. Sto oggi per condur nuora, la quale sta in quella casa che vedete colà.

FLAVIO.

Oimè!

PATRIZIO.

Sospirate?

FLAVIO.

Sospiro per l'acerba memoria che ora in me rinnovate. Ebbi nuora anch'io, ma poco mi giovò averla, ché 'l mio figliuolo unico... Uh, uh, uh.

PATRIZIO.

Pover'uomo! Mi fa compassione: morissi, eh?

FLAVIO.

In capo al mese, signor sì.

PATRIZIO.

Gran colpo per certo! Ma quello che non ha rimedio si vuoi portar in pazienza.

FLAVIO.

Troppo voi dite vero; or seguite.

PATRIZIO.

Io vi diceva ch'ella sta in quella casa; e perché mi vien detto ch'ella è inferma d'un male poco meno che incurabile, procuro di sapere se così è, e se compenso alcuno per guarirla trovar si può. Messer Antonio mi ha detto meraviglie della vostra sufficienza: se vi bastasse l'anima di sanarla, io vi donerei un paio de' più begli e de' migliori e più traboccanti ducati ch'io abbia in cassa.

FLAVIO.

Oh è troppo gran presente cotesto!

PATRIZIO.

Ma io so spendere: e largamente, quando n'è tempo, vi so dir io.

FLAVIO.

Oh si vede, e di che sorte! Ma i pari vostri non si servon per danari; io li voglio servire per cortesia.

PATRIZIO.

Oh siate voi benedetto! Così fatti dovrebbono esser i medici eccellenti, senza avarizia, senza tenacità: vizio, fra tutti gli altri, il più abominevole! Dio lodato sempre sei tu, non son già tocco io di tal peste. Ora a' fatti, eccellente messer Sofronio. La prima cosa, ch'io vorrei sapere, è se 'l suo male è incurabile, o no.

FLAVIO.

Di questo non vi date pensiero. Non è male alcuno appresso di me incurabile. Quanti, poco men che cadaveri, abbandonati da altri medici, ho io alla pristina sanità ritornati? Anzi in questo, più ch'altrove, s'esercita l'arte mia. Febbri, doglie, catarri, mali ordinari e triviali, non me ne degno. Io sano etici, fisici, matimatici.

PATRIZIO.

Anche i matti?

FLAVIO.

Signore sì.

PATRIZIO.

Oh che valentuomo!

FLAVIO.

I paraplitici, i parpatetici, gli orpelati, gl'idropici.

PATRIZIO.

Oh questo appunto è 'l male di questa giovane!

FLAVIO.

Certo?

PATRIZIO.

Così da tutti vien detto.

FLAVIO.

Se questo è, io ve la do guarita in un mese.

PATRIZIO.

E pure dicono che cotesto è un male incurabile.

FLAVIO.

A qualche medico da dozzina, ma non a me, che fui discepolo di quel famoso Zafferielle, fulmine degl'ignoranti che non sanno quel che si pescano in medicina.

PATRIZIO.

Sì, eh? Oh che valentuomo!

FLAVIO.

Questi miseri stracorari comanderebbono immantenente che quella giovane non beesse. Vedete voi se la 'ntendono. E io vo' ch'ella bea quant'ella può, e del migliore e più generoso vino che abbia. E chi non sa che, s'ella ha sete, bisogna darle da bere? Oltre che il vin potente caccia quell'umor freddo e umido che la gonfia. Ma non de' esser idropisia, voi vedrete.

PATRIZIO.

L'ho detto anch'io. Oh che valentuomo! Infatti chi vuol farsi eccellente, non uccelli alle borse. Ma onde avviene che nel curare l'idropisia sì grandemente s'ingannano i nostri medici?

FLAVIO.

Perché non sono filosafi, signor no; e non hanno penetrato nelle viscere della potente natura, come ho fatt'io. Dice il grande Ippocarso, nel terzo dei Raffianismi questa bella sentenza: “Quod sapor nurat”.

PATRIZIO.

Parla dunque della mia nuora, eh?

FLAVIO.

Parla, signore sì; e vuol dire che quello che le sa buono, le gusta; e che 'l buono non è cattivo. Videlicet, che, s'ella gusta del dolce, il dolce concedere le si de'.

PATRIZIO.

E da che nasce quel gonfiamento, se non è idropisia? Dite di grazia, ché, per quanto mi pare, voi sapete ogni cosa, sapete.

FLAVIO.

Io vi dirò. Galieno nel primo delle metamorfosi, paragrafo terzo, dice che due cose sono di ciò potissime le cagioni: l'una è la natura, e l'altra il naturale. Questo è ben altro che specchiarsi in un orinale, ordinar quattro pillole e un cristeo: vanità solite di coloro che vanno oggidì mendicando piuttosto che medicando, e non sanno covelle. Il naturale, adunque, e la natura cagionano il gonfiamento. Ambidue sono forti, sono terribili, come quelli che s'empiono d'impetuosi vapori procedenti dalla superessenziale qualificazione degli alimenti: passati prima per la circonlocuzione di tutti i cieli, per gli altissimi flussi e reflussi di tutte quante le stelle, per la indissolubile stabilità dei pianeti, tirando, ricevendo; spingendo, sforzando, corrompendo e alla fin penetrando in concentrazione viscerium, mediante la quadratura del circolo straccapotico e astrolabico.

PATRIZIO.

Oh che valentuomo! Per certo, ch'io mai più non ho sentito sì alte e nuove cose, e concetti, in bocca de' nostri medici.

FLAVIO.

La natura nel concavo della Luna prende sua forza; e genera tanta copia di flauti, che bene spesso si sentono sonar di sopra e di sotto. Il naturale, poi, altresì dalla circonfluenza del sole, quando è montato nel carro perpendiculo di Fetonte e ha Venere e Marte per ascendente, riceve tutta la sua possanza; per modo che, mediante l'affissazion di Mercurio, s'indura tanto e s'ingrossa per la multiplicità di vapori ignicoli, ch'egli genera, che niun altro umore del corpo umano gli può resistere.

PATRIZIO.

Oh che valentuomo! So che la intende, io.

FLAVIO.

Or questi due parosismi tanto grandi ricercano, dentro e fuori, tutta l'incorporatura dell'uomo: e quando un membro e quando un altro, secondo la compassione di ciascheduno, e buona e cattiva, grandemente travagliano. E così, separati l'uno dall'altra, cagionano di gravissime malattie. Ma se per avventura s'incontrano e, a guisa di montoni che cozzino, tutte le forze loro sfogano ne' ventricoli della pancia, fanno quel gonfiamento che non è idropisia, no, ma una massa d'amori genitali, che bisogna risolvere co' rimedi che soli da questo vostro servitore sono conosciuti. E tal m'immagino che sia quella che travaglia la vostra nuora, la quale in poco meno d'un mese vi do guarita.

PATRIZIO.

Oh sia lodato Dio e la vostra virtù! Quanto vorrei che Pistofilo fosse stato presente a questo discorso! Ma voglio che parli con esso voi, perch'egli resti chiaro del vero. Or uditemi, eccellentissimo messer Sofronio. Oggi spero d'aver in casa la giovane; come prima sia giunta, così subito manderò per voi, intendete?

FLAVIO.

Ma avvertite che non bisogna per niente muoverla da quel luogo dove ella è, signor no. Perciocché quegli umorazzi son tanto fieri, che tutti si metterebbono in moto e la potrebbono soffocare.

PATRIZIO.

È tanto breve il cammino che, portandola ben co- perta, alterazione di sorte alcuna non sentirà.

FLAVIO.

Signor no, vi dico: a patto alcuno non è da muoverla. So quello ch'io vi dico; altramenti non me ne voglio impacciare; e ve 'l protesto, no, no.

PATRIZIO.

È un gran fatto cotesto. Orsù, poiché così consigliate, così faremo.

FLAVIO.

Bene sta; e credetemi che altramenti non si può fare. Ma s'io dovrò andare in quella casa, a me non basta l'animo d'entrarvi senza il vostro comandamento.

PATRIZIO.

Sì, sì, son io padrone della fanciulla; lasciate a me la cura di questo. Tornatevene a casa messer Antonio e quivi attendetemi; ché, come ne sia il tempo, verrò per voi.

FLAVIO.

Così farò. Mi raccomando alla signoria vostra.

PATRIZIO.

Addio. Ma i miei libri, messere, cotesto non m'insegnano certo. O sana o inferma, o viva o morta, so ben io che in casa la vo' stasera. Io vo' tornar in Palazzo, per intendere se altro ci resta a fare; poi condurrò Pistofilo al medico, acciocché resti ben persuaso che 'l male di quella giovane non è, com'egli crede, insanabile, e si rechi per ciò a fare più agevolmente la volontà mia.

SCENA SETTIMA

ZENOBIO travestito

ZENOBIO.

L'inesplebile desiderio ch'è in me, di trovarmi con la mia dolce Gostanza, mi fa ora sì impaziente che, secondo l'ordine del mio Grillo, non ho potuto più lungamente aspettare, temendo non qualche impedimento si fraponga, come si dice, inter os et offam. E poi non vedea l'ora di levarmi di scuola, essendo travestito di questo modo; però che dice Nasone: “Non bene conveniunt, nec in una sede morantur, maiestas et amor”. Talché, avendo nella catedra magistrale deposta la mia toga virile, quanto prima sono uscito di casa, tanto più ch'io portava pericolo d'esser veduto d'alcuno de' miei scolari: i quali ancora ch'io abbia licenziati, ne resta però sempre alcuno qui d'intorno, per bisogno che hanno essi di me e io di loro. Deh, Grillo mio, perché vai tu cotanto procrastinando? Saresti tu mai pentito di farmi questo servigio? O tu, Gostanza, avresti forse sotto qualche altra forma fatto venire a te Pistofilo? Ah traditora, tu mi hai pur ingannato! Ma sarai tu ora, me Hercule, la ingannata: ché, credendo di ricevere il tuo Pistofilo, riceverai Zenobio, che sotto questi candidi panni, quasi novello Giove sotto le piume d'un bianchissimo cigno, sen vien a te, sua Leda. Augurio da te non già meritato, poiché, per un levissimo ragazzotto, lasci colui che altro dì e notte non pensa che di farti co' suoi versi immortale. Intanto a te mi volgo, o Dea de' teneri amori: se de' pur meritar il suo premio l'avere già tante volte con versi elegantissimi la tua deità celebrata e con dottissima elucubrazione, nel mio famoso suggesto, condotto fuor del troiano incendio e delle pugne latine il tuo grande Enea, vieni, benigno nume, e per le fiamme amorose siemi tu ancora previa. Scendi tu ne' miei lombi, e questo tuo tirone all'insueta palestra rendi così robusto, che possa avere plenissima vittoria della spergiura e rubellante nemica sua. Ch'io ti prometto, o hominum Divumque voluptas, di consecrarti una votiva tabella di cento venustissimi endecasillabi. Né ti sdegnare, o Diva, che per l'addietro io t'abbia disprezzata e la tua dolce cura postabita, abusando l'ignito stimolo del tuo figlio, il quale non ebbe mai potere di penetrare ne' miei precordi; perché fu sempre instituto de' più eccellenti e chiari professori della tanto oggidì celebrata Ciclopedia di sempre postergare le tue lascivie.

SCENA OTTAVA

GRILLO e ZENOBIO

GRILLO.

Certo questo è il pedante: avea paura di non venir a tempo. Oh pover'uomo! Messer Zenobio?

ZENOBIO.

O Grillo, come mi hai fatto stare un pezzo hesitabundo e dolente? Perché sì tardi se' tu venuto?

GRILLO.

Tardo non sono stato io, ma voi troppo sollecito: bench'io vi scusi, ché l'esser diligente è proprio degli amanti. Avete voi li danari?

ZENOBIO.

Eccogli.

GRILLO.

E io vi arreco quegli che vi ho promessi. Vedete come son begli lucidi? Paion d'oro.

ZENOBIO.

Or dove sono li moccichini?

GRILLO.

Sono qui: datemi voi i danari.

ZENOBIO.

Oh come sono eleganti! Dono di qualche tua favorita, eh?

GRILLO.

Credete d'esser voi solo innamorato? Or prendete. Questo bisogna stringer ben bene, acciocché egli, volendolo sgruppare, vi dia tempo di potervi recar in salvo. Or vedete, non è già una differenza al mondo tra un gruppo e l'altro: chi non s'ingannerebbe?

ZENOBIO.

Oh che beffa solenne!

GRILLO.

Sì, per mia fè, la vedrete. Riponetelo dunque nella tasca a man destra, acciocché nell'uscire l'abbiate assai più pronto per dare a Lurco; e tenete in mano questo dell'oro, finché Lurco l'abbia veduto; poi riponetelo nella tasca sinistra, ma guardate di non errare e ch'egli non se n'avvegga: intendete? Ma ecco Lurco; ritiriamci un poco, per far prova se vi conosce in quest'abito.

SCENA NONA

LURCO, GRILLO, ZENOBIO

LURCO.

Il non aver trovato in casa questo notaio non mi lascia far pro la felice riuscita de' miei disegni: perciocché di due cose ch'io desiderava, l'una, che sono i danari, posso dir d'aver nella borsa; ma l'altra non mi dà il cuore di poter fare, avanti ch'ella si parta. E benché io abbia lasciato ordine a casa sua che, tornato, subito venga co 'l testamento di Maddalena, è nondimeno sì corto il termine, che dubito assai non tarda sia per esser la sua venuta. Che farò dunque? Guarda, Lurco, quel che tu fai, ché s'ella t'esce di casa, sospirerai. Ma che vo io facendomi paura con l'ombra mia? Se avessi a fare con Patrizio, suo padre, ragionevolmente potrei temere; ma trattandosi con fanciullo innamorato, che dubbio o che sospetto aver se ne de'? E poi non ardirebbono mai né l'un né l'altro di negar quello che tante volte mi han promesso, temendo, e con molta ragione, ch'io non scoprissi tutto l'inganno. Ma non è questo Grillo? Sì per mia fè, e ha seco il tordo che ha dato nella ragna. O burattino mio gentilissimo, vuo' mi tu abburattare un sacco di farina?

GRILLO.

So che di subito l'hai scoperto, io!

LURCO.

Ti par questa presenza, da potersi nascondere? In ogni tempo e in qual si voglia abito si fa conoscer troppo bene per quel ch'egli è.

ZENOBIO.

O Lurco, la tua Gostanza, da quel primo dì ch'io la vidi, mi conciò di tal sorte che mi fa smaniare e insanire, come tu vedi.

LURCO.

Tutto quello che fanno gli innamorati, per ottener il fin loro, non può star se non bene. Oh quanti ce ne sono de' satrapi, che fanno peggio di voi!

GRILLO.

Lurco, questi sono li dugento ducati che ti ha recati messer Zenobio, secondo la promessa che ti fu da me fatta in suo nome. Ma perché egli ha voto, in così fatte mercatanzie, di non pagare avanti tratto, e non già certo perché di te non si fidi, vorrebbe che tu ti contentassi di lasciarlo godere, avanti che ti desse i danari. Esso te gli mostrerà e novererà prima che entri nello steccato, tenendogli appresso di sé; e poi non uscirà di casa tua, che profumati te gli darà.

LURCO.

Come vi pare: purché io sia sicuro d'avergli, o prima o dapoi che m'importa? Non so io che sono in mano d'uomini dabbene?

ZENOBIO.

Eccogli dunque ve', in tante doble d'oro. Ti so dir io che sono dei fini; e di qui puoi conoscere se sono innamorato ben bene, dando a te, in un'ora sola, tutto quello che ho guadagnato in tanti anni.

LURCO.

Messer Zenobio mio venerando, begli sono i vostri ducati, e più bel siete voi. Oh questi sono innamorati da farne conto! Alla barba di certi bricconcelli falliti che non ispenderebbono un picciolo. Ma sarà meglio ch'entriamo in casa, a noverargli sotto 'l portico, dove io dirò poi quello che avete a fare per ingannar Gostanza; e non v'incresca d'aspettar così un poco, perché non è ancor l'ora ch'ella ha data a Pistofilo; intendete? Anzi è necessario che voi vi tratteniate in una camera terrena ch'è dalla parte di dietro, perfino che Gostanza, credendosi ch'io non sia in casa, venga nel luogo con Pistofilo concertato. Ché, come prima ci sarà giunta, verrò per voi, e conducendovi a lei, in cambio di Pistofilo sarete ricevuto pur voi: sapete?

ZENOBIO.

A te sta comandare, Lurco mio bene, Lurco mio refrigerio.

GRILLO.

Entrate pur voi, ché non v'ho che far io; e vi de' ben bastare ch'io v'abbia condotto al campo.

ZENOBIO.

I prae, sequar: che essendo in questi panni, non ho ora a tenere il mio grado, e però va pur innanzi.

SCENA DECIMA

LORETTA, MOSCHETTA

LORETTA.

Come io mi maritassi poi e come restassi vedova, e quale fosse, e prima e dapoi, della mia vita il tenore, se credessi d'aver tempo a bastanza, a pieno ti conterei con tanto tuo gusto quanto forse abbi sentito mai altra cosa.

MOSCHETTA.

Anzi, questo ci servirà per trattenimento, poiché, per non esser ancora aperto l'uscio di Lurco, ci bisogna aspettar qui di fuori, finché, aprendolo, ne dia segno d'entrare; e però di' pur, Loretta, quanto tu voi, che mi sarà carissimo di sentire la storia della tua vita, che non può essere se non bella.

LORETTA.

Vorrei, Moschetta, che la mia lingua sapesse così ben dire le mie prodezze, com'io le seppi ben fare; che, per mia fè, vedresti un ritratto di femmina sì forbita e di maestra tanto eccellente, che pari, o simigliante, né Roma, né Vinegia, né Napoli mai non l'ebbe: e finalmente, quali dovrebbon esser tutte le donne, ah, ah, ah.

MOSCHETTA.

Oh, oh, si vede bene dove sei stata a messa stamane, tanto se' tu allegra e cianci fuor del tuo solito.

LORETTA.

Io credo che al nascer mio s'accoppiassero tutti gli influssi che hanno virtù di produrre in donna animo tenacissimo in corpo liberalissimo. Nacqui di madre spagnuola e di padre napoletano.

MOSCHETTA.

Lega di finissimo argento.

LORETTA.

E nacqui nella città di Vinegia, dove, dopo le ruine del regno di Napoli, ambidue si ritrassero, per fuggir l'ira d'un certo mastro di campo che voleva far impiccar mio padre, per gran somma di danari che aveva in quella guerra truffati. Non ti saprei già dire com'egli da Vinegia passasse poi a Vicenza, perciocché io tanto era bambina allora, ch'appena me ne ricordo. Io cominciai, fin dalle fasce, a dar indizio del mio valore, e prima, per quel ch'io credo, imparai di mentire che di parlare, e prima d'ingannare che di conoscere.

MOSCHETTA.

Per Giove, che d'altra tempra non ti voleva oggi, Loretta mia saporita.

LORETTA.

Crescend'io poscia di mano in mano e venuta in età di sett'anni, fui più vana che non sono le altre di sedici. Lo specchio era il mio naspo, il pettine la conocchia. Non l'ago da cucire, ma gli spilletti per adattarmi la veste, per conciarmi le treccie, facevano il mio lavorio. In cambio della tela e del lino, la pezzuola, il bambagesso, i ricci, le bionde, i belletti erano, insomma, gli esercizi delle mie mani, i pensieri della mia vita.

MOSCHETTA.

Questo è un gran principio!

LORETTA.

Non aspettai d'esser giunta ai dodici anni ch'io cominciai a far all'amore, e senza altra maestra ti so dir io che seppi far il mestiere. Talché vedendo mia madre (perché già la sua macina faceva più crusca assai che farina) la buona piega della mia vita, pensò di rinverdire nella mia giovanezza le sue passate prodezze; e avendomi fatte imparare le sette arti liberali, aperse casa a tutta Vicenza, cominciando a tener trebbi d'ogni sorta: io, sempre in mezzo di tutti! Or pensa tu, Moschetta, se, avend'io sì largo campo d'esercitarmi, mi fei perfetta. Se quivi si giucava, er'io capo del giuoco, né mai perdea; se si teneva d'alcuna cosa profitto, er'io sempre il zimbel di tutti: chi motteggiava di qua, chi pizzicava di là; e insomma non andò guari ch'io perdei quanta vergogna avea, in luogo della quale entrò la schiera delle virtù cortigiane.

MOSCHETTA.

Oh furor divino, quanto puoi tu! Costei confessa a me, oggi, non ricercata, quello che non direbbe al confessoro. Che confessoro? Anzi quello che non le farebbon dire le funi della colla.

LORETTA.

Beato chi potea avere un mio favoruzzo; e più mi valeva un nastro di seta, o un mendico anellin d'oro, o velo, o altra chiappoleria ch'io donassi, che l'usure non vagliono degli Ebrei.

MOSCHETTA.

Ma come facevi poi tu a trattenere tanti rivali?

LORETTA.

Come? Questa fu l'arte. Lo sguardo solo reggeva a voglia sua quella greggia. Il pianto ebbe sì pronto, la faccia così mutabile, le parole, le maniere e l'animo sì subiti a trasformarsi, che quel mostro marino (come lo chiamano questi cicaloni poeti?) non ebbe tante, né sì subite faccie mai. Io dispensai sì gentilmente le grazie mie, adoperando secondo il bisogno destramente il rasoio, ch'io feci sempre parer leggiero, per grande ch'egli si fosse, ogni male. I troppo arditi con le repulse si reprimevano, i timidi colle mani s'assicuravano, gli appassionati d'un occulto sospiro, i disperati di verisimili promesse, ma però false, si soccorrevano. Le finte lagrime furono la tortura degli avari, l'adulazione de' vani. La gelosia mantenn'io sempre tra loro aspersa leggiermente, per conservare e condire ad uso di sale piuttosto che d'unguento da cancheri, come usano di fare oggidì queste semplici femmine, che non sanno fare il mestiere. Sopra tutto era in quella casa una regola generale: che a tutti i ricchi si dava indifferentemente ricapito; i poveri stavan di fuori. I bei giovani si pascevan di vanità; i poeti si accettavano per trastullo della brigata, i quali però m'erano in tanta noia caduti, che non poteva vedergli più.

MOSCHETTA.

E chi domin potrebbe tollerare pratiche sì noiose? Colpo colpo ti sfoderano qualche frottola, e come sansughe ti s'attaccano e ti seccan le orecchie. Guai a colui che digiuno dà lor tra piedi. E come sono agevoli a cadere nel pecoreccio, e se ne ubbriacano più che non hai fatto tu stamattina, Loretta!

LORETTA.

Queste furono l'arti mie; e con questo alternare, quando d'orza e quando di poggia, scorsi il pelago della mia giovanezza: ahi, con troppo sfortunato successo, perciocché, venuta al tempo e alla prova di maritarmi, trovai che tale mi vagheggiò per amante che per moglie qual vipera m'abborriva. Talché fui costretta d'accompagnarmi a quel vecchio che poco fa ti diceva, il qual avesse piuttosto sofferenza d'esser governato che cura di governarmi; poiché, solo fra tanti drudi, avea bastato l'animo a lui di sposarmi. Ben è vero ch'egli vi durò poco, e morissi.

MOSCHETTA.

Appena mille giovani, non che un vecchio solo, vi sarebber durati.

LORETTA.

E 'l buon pecorone mi lasciò anche tanto che, se fossi stata savia, beata me! Ma poscia ch'io restai vedova e ch'io mi vidi in una tale ampiezza di vita, sciolta dalla cura materna e dall'ubbidienza del marito, reina mi parve d'essere; e pensai che 'l mondo non dovesse né mancare, né nuocere, né noiarmi giammai. Or quivi quel ch'io facessi, che vita fusse la mia, com'io mi scapricciassi a mio modo, troppo lunga novella sarebbe da raccontarti. Ma per venire al fine, ti dirò solo che, per gastigo delle passate mie vanità, volle il cielo ch'io m'intrigassi d'amore (quel che a' dì miei non m'avvenne mai più) con un rompicollo che, facendo di me quel medesimo che avea già fatt'io di mill'altri, in men d'un anno mi consumò tutta quella facoltà che m'avea lasciato il marito mio; e per ultima mia ruina se ne fuggì, portandomi via mille ducati, che sarebbono stati sostegno del viver mio. E questi furono quelli che testé ti diceva avere anche speranza di ricovrare. Né altro il manigoldo mi lasciò di se stesso che pianto, pentimento e dolore, e così fino e gran mal francese che per cinque anni sono stata nel letto.

MOSCHETTA.

Buon dì! A te questa, pedante.

LORETTA.

Talché, ridotta in estrema miseria, s'i' ho voluto vivere, m'è convenuto andare a Vinegia, dove tu prima mi conoscesti, a vendere il corpo mio bene spesso per un marcello, dove già un solo mio sguardo valse un tesoro.

MOSCHETTA.

Con tale fine m'hai tu fatto così dolce discorso parer amaro. Povere femmine! Se voi sapeste conservar le vostre ricchezze, beate voi! Ma è tempo che tu ten vada, Loretta, ché veggio aperto l'uscio di Lurco.

LORETTA.

Quando ti piace.

MOSCHETTA.

Va destra, ve'; e avvertisci di tener ben a mente il nome di Pistofilo, sai? E come prima sarai sbrigata da quella bestia, vientene via, acciocché egli per mala sorte non ti vedesse; e io me n'andrò a trovare il padrone. Rimbeccami il contrapunto; hai tu fatto per modo che quel cordovano non s'accorga della banda sbasita?

LORETTA.

A Siena son andata, e holla messa in campagna, con una lenza fratenga.

MOSCHETTA.

Calati dunque nel cosco, e portati bene, sai? Ché monel fra tanto andrà a canzonar co 'l grimo.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

NICA

NICA.

Lodato Dio, che abbiamo pur trovato scampo a sì gran pericolo; e benché, dovendo io intervenire a tal fatto, la cosa non è sicura che sopra a me alla fine tutto il male non si riversi, nientedimeno è pur meglio aver danno che vergogna; tanto più che Cassandra, perdendo questa, non perde la sua ventura. E così avrem coperto e prolungato il suo parto; il quale purché non venga in luce, poco mi curo di tutto 'l resto. Non saprò io dir a suo padre che Pistofilo, d'altra femmina invaghito, l'odiava, l'abborriva, non la voleva? E che la povera figliuola temeva di non morire in casa di quel vecchio tenace? No, no, purché la nostra barca si salvi da questo scoglio, non mancheranno porti da ricovrare. Ma ecco a tempo messer Patrizio.

SCENA SECONDA

PATRIZIO, MOSCHETTA, NICA

PATRIZIO.

O Moschetta mio caro, quanto ubbligato ti sono, poiché le tue parole hanno potuto quello con Pistofilo adoperare che a me, il quale pur gli son padre, è stato sì malagevole ed era per avventura impossibile d'ottenere

MOSCHETTA.

Padrone, non è sempre ben fatto, né si vuol in tutte le cose, né con tutti, metter mano alla forza: massimamente nel dar moglie a' figliuoli, co' quali, se troppo si tira l'arco, e' si rompe. Se io con le piacevolezze non l'avessi acquistato, o egli non l'avrebbe mai presa, o guai a voi che gliel'aveste condotta in casa; e misera lei, che non moglie, ma schiava sarebbe stata

PATRIZIO.

Ma non è questa Nica? Ormai s'appressa il tempo di dar Cassandra. Monna Nica, che fate voi qui di fuori? Vi andate forse immaginando qualche buona chimera per negarmi la nuora mia? Fate presto, ché la giornata spira

NICA.

Messer Patrizio, non fu mai cosa al mondo che, senza aver contrasto, perfetta far si potesse; né colui forte o robusto chiamar si può, che molte volte al paragone non sia venuto, e fatta prova del suo valore prima non abbia. Se io, fin da quel primo dì che mi faceste istanza d'aver Cassandra, ve l'avessi ceduta, non avreste già voi per ottenerla tentato il mezzo della Giustizia, che però solo, essend'io donna forestiera, mal pratica e gelosa di lei, che amo come figliuola, e come tale fummi raccomandata, era solo bastevole a giustificare appresso il padre di lei nel guardarla, nel custodirla, il debito mio. Se fin qui dunque ve l'ho negata, non è stato difetto d'animo interessato o mal disposto verso di voi; ma piuttosto un acuto e latente stimolo che v'avesse a render tanto sollecito e aguzzarvi sì fattamente l'ingegno, a trovar ogni modo possibile per averla, che la necessità del concederla fosse per onestare la causa mia. Or che la vostra istanza, mediante la industria mia, si è già fatta, com'io voleva, aperta e ragionevole forza, non solo non intendo di più contendere, ma vengo ad offerirvi Cassandra, più vostra, ora, che mia: la quale come nuora amorevole sarà pronta di entrarvi in casa e ubbidirvi ad ogni vostro piacere

PATRIZIO.

Co 'l bastone si gastigano i pazzi, Moschetta, sai? Monna Nica, siccome negar non posso che l'ostinazione vostra non mi sia stata di gran travaglio cagione e, per dirvi il vero, non senza molto sospetto ancora di qualche vostro interesse, così ora confesso che questa larga dimostrazione che voi mi fate, o sia di bontà, o sia di paura (che io non vo' ora cercar più innanzi), ha scancellato in me tutto quel mal talento che, con molta ragione, contra voi avea conceputo. E vi prometto di farvi da quinci innanzi conoscere che io non so meno scordarmi i dispiaceri emendati che vendicarmi de' ricevuti: in fede di che questa mano vi sia certissimo pegno. Andate a porre in ordine la fanciulla, che quanto prima voglio che venga a casa, mentre che Pistofilo si trova in questa buona disposizione; sai, Moschetta?

MOSCHETTA.

Sì, sì, è ben fatto, ché talora non si pentisse, ah, ah, ah

NICA.

Ma non crediate già che co' suoi piedi possa far ella questo ancorché poco viaggio, siccome quella che ordinariamente non si move del letto; e in particolare, non bisogna che vegga l'aria, ché, sopra ogn'altro disordine, questo come più detestabile le hanno sempre tutt'i medici proibito; e, quel ch'è peggio, quanto più si travaglia, tanto più le dà noia un certo subitaneo accidente che spessissime volte, e non senza pericolo della vita, fieramente l'assale

PATRIZIO.

La faremo portare sì ben coperta e sì comoda, che né l'aria né 'l moto non potrà nuocerle. Or mi sovviene che quel valente medico mi predisse il pericolo che portava nel moto

NICA.

Abbiamo in casa noi una seggia che fece far appunto suo padre per questo effetto, quando la conducemmo, accomodata assai maestrevolmente a uso di trabacca, per potervi adattar sopra o drappo, o lenzuolo, o altra cosa simile; ed è sì bene all'ordine, che ad ogni nostro talento potrem servircene. Anzi, per dirvi tutto, ho già fatto che la fanciulla s'è messa all'ordine al meglio ch'ella ha potuto, e altro non aspetta se non ch'io vada per essa

PATRIZIO.

Or non perdete tempo

NICA.

Comandate, di grazia, a questo vostro fante che ci venga a por mano, perciocché non basta un solo a portarla

PATRIZIO.

Sì, sì, va via, Moschetta

MOSCHETTA.

Sapea ben io che senza me non si poteva far questa festa. Se si trattasse d'andar a tavola, Moschetta ci sarebbe per nulla

PATRIZIO.

Se la paura della pena non ti avesse fatto risolvere, indarno avrei potuto aspettare che dirittura d'animo ti movesse. E per dirti, sorella, son vecchio anch'io; ma mi sono contentato di crederti cotesta tua simulata buona coscienza, poiché nulla m'importa. Holla io fatta divenir mansueta? Così si fa. Or come prima Cassandra mi sarà in casa, farò ogni cosa perché Pistofilo si trattenga con esso lei, né la lasci finché, fatto venir il prete, solennemente la sposi. E mentre che essi staranno insieme, farò condurre a casa le robe, acciocché non andassero per mala sorte in commenda. E quel notaio appunto, che mi dié copia del testamento di madonna Ginevra, mi diede ancora quella dell'inventario. Io l'ho pur vinta. Infatti non bisogna cozzare con questa testa. Ingannar me, eh? Bisogna ben che sia cima d'uomo. Che dirà ora quella femmina maledetta di mogliama, che tutto dì mi rimbrotta, tutto dì mi rimprovera ch'io non so far i fatti miei punto punto? e che mi lascio uccellar da questo e da quello, e che questa pratica non mi sarebbe mai riuscita? Manda'la ieri a bello studio alla villa, perché non mi stesse a intronar il cervello. Ma eccogli.

SCENA TERZA

GRILLO, MOSCHETTA, PATRIZIO, NICA, CASSANDRA, TRAGUALCIA

GRILLO.

Va destramente, Moschetta; che credi tu di portare?

MOSCHETTA.

O vigliacco, portassi tu così sodo. Non vedi che non puoi reggerla sulle braccia?

NICA.

Eh, per l'amor di Dio, non v'affrettate tanto. Accordatevi nel portarla soavemente; e guardate di non la scuoter, ch'io temo...

GRILLO.

Oh gli è costui che cammina troppo.

MOSCHETTA.

Il difetto sta nelle tue braccia, e non nelle mie gambe, sai, Grillo?

TRAGUALCIA.

O messere, è egli di vostro consentimento ch'ella si levi di questa casa?

PATRIZIO.

Sì, sì, lasciala pur condurre.

NICA.

Che vuoi tu ora dir, manigoldo? Che quasi mi hai fatta rinnegar la pazienza!

TRAGUALCIA.

Avete voi a riprendermi perché fo il debito mio?

PATRIZIO.

Dio vi salvi, figliuola mia. Io son il suocero vostro: come vi sentite voi? Bene?

CASSANDRA.

Non troppo, padre mio caro.

PATRIZIO.

E che volete voi fare di quella ampolla che avete in man, monna Nica?

NICA.

Questo è un rimedio mirabile al suo tanto pericoloso e subitano accidente; e trovollo un eccellente medico raugeo. Se questo non fosse stato, misera lei!

GRILLO.

(Or è il tempo).

CASSANDRA.

Oimè, oimè, monna Nica, aiutatemi, ch'io son morta.

NICA.

Oh sfortunata me! Non dubitare, figliuola mia, no.

GRILLO.

Sia maladetto, non ve 'l diss'io?

NICA.

Entra subito in questa casa; va tosto su. Oh radice del cuor mio! Ci son donne in questa casa? Un po' di fuoco, presto; state di fuori, voi uomini.

PATRIZIO.

Questo è un gran male, per certo.

MOSCHETTA.

Padrone, non dubitate. Voi vedrete: come prima questa fanciulla sia in casa vostra, sarà guerita.

NICA.

Scaldate voi di grazia quel panno, mentre io scaldo l'unguento; e venite subito. U, u, poverina, non dubitare figliuola mia; non dubitare.

PATRIZIO.

E come adopera ella quel liquor così raro?

GRILLO.

Le n'unge il ventre, e gli pon sopra una pezza di lino calda; e subito torna in sé. Ora ella de' esser in agonia.

PATRIZIO.

Questo è un mirabil segreto!

GRILLO.

Se ciò non fosse stato, non sarebbe viva a quest'ora. È fatto di muschio, d'ambra e di balsamo: cosa preziosissima!

PATRIZIO.

E che male è cotesto suo, caro Grillo?

GRILLO.

Che so io? Dicono i medici che è stato un certa cosa penetrativa che gonfia la matrice. Una carnosità, no: una ventosa... che so io.

PATRIZIO.

Sì, sì, t'intendo. Tu vuoi dire una forte ventosità della matrice: quel medico me lo disse. Un flato, sì, un flato.

GRILLO.

(Fu Flavio, e non un flato, ah, ah, ah).

NICA.

Su, figliuola mia; su, da valente donna. Entrate voi a levarla: non udite, eh, che con l'aiuto di Dio le son tornati gli spiriti?

MOSCHETTA.

Andiam, Grillo, ch'ella ci chiama.

GRILLO.

Andiamo.

PATRIZIO.

Oh come ha fatto presto! Se quella ampolla si perdesse, guai a lei! A quante infermità è sottoposto questo nostro corpaccio!

TRAGUALCIA.

Padrone, ho io a far più nulla per voi?

PATRIZIO.

No, no, fratello, va pure.

TRAGUALCIA.

E chi mi paga?

PATRIZIO.

Non accade far più parole, ché di te sono soddisfattissimo.

TRAGUALCIA.

Che danza è cotesta vostra? Il tutto sta che sia io di voi.

SCENA QUARTA

NICA, PATRIZIO, GRILLO, TRAGUALCIA

NICA.

O che fatiche, messer Patrizio! Se 'l darle marito non la guarisce, son disperata io della salute sua. Ma vi so dire che a lei ancora vengono i sudori della morte. Voi la vedrete talmente infocata nel volto, che stupirete: perciocché que' vapori sì terribili di matrice le vanno al capo e la infiamman di fuori, mortificandola però dentro. Vi parrà sana e gagliarda più di noi altri. Ma gran ventura è stata che quell'uscio sia stato aperto!

PATRIZIO.

Sì, in verità. Orsù, andiamo.

TRAGUALCIA.

Padrone, datemi la mia mercede, e finiamola.

GRILLO.

Non gli date nulla, ch'egli ha bevuto più che non vale.

PATRIZIO.

Non tengo questi conti io, stiamo freschi: va pure pe' fatti tuoi.

TRAGUALCIA.

Vi fo sapere che vo' esser pagato.

GRILLO.

Vuoi tu ch'io t'insegni un bel passo? O levati di qua, se non che le tue braccia te 'l sapran dire, se tu m'aspetti.

TRAGUALCIA.

Voi mi pagherete, se sarà giustizia in questa terra, bricconi, svergognati.

PATRIZIO.

Ma il medico che m'aspetta? Che 'mporta? Non ho per ora più bisogno di lui, poiché Pistofilo si contenta. Ci consiglieremo poi, egli e io, se l'abbiamo a chiamare, o no.

SCENA QUINTA

RADICCHIO

RADICCHIO.

Colui che fu il primiero a spor la vita alle tempeste del mare aveva ben il petto d'acciaio. Io per me, poiché 'l cielo m'ha campato da morte, per non tentar mai più quel mostro sì terribile e sì spaventevole, torrò anzi a non vedere mai più Raugia, ancorché mia patria, e vivere in queste parti il rimanente della mia vita. Non credo che mi si levi mai più del capo il travaglio e lo stordimento del mare. Ma chi saprà insegnarmi la casa di questa Nica, governatrice della figliola del patron mio?

SCENA SESTA

MOSCHETTA, GRILLO, NICA, RADICCHIO

MOSCHETTA.

La nave è giunta in porto. Questo è il guadagno che tu hai fatto, avarone. Non ti diss'io che altamente mi sarei vendicato? Grillo, statti con Dio: è forza ch'io vada a bere un tratto, ch'io muoio di sete.

GRILLO.

Va pur Moschetta, ché fra poco ti seguo anch'io.

MOSCHETTA.

Tanto farò.

GRILLO.

Ma chi è costui vestito da Levantino?

RADICCHIO.

Costoro, forse, me ne sapranno dar indirizzo. O valentuomo, saprestimi tu insegnare dove abiti una monna Nica raugea?

GRILLO.

Che ci va, monna Nica, che costui è fante di Flavio, il quale, per buon rispetto, avrà voluto mandar innanzi costui? Dimmi, di grazia, chi ti ha inviato qua, un raugeo?

RADICCHIO.

Maisì, per imparar la casa di detta Nica; ché da Vinegia siamo giunti mezz'ora fa.

GRILLO.

Oh lodato Dio! E' verrà pure una volta. Questa è la donna che vai cercando.

NICA.

Oh felice giornata! Or venga che mal si voglia, di nulla più non tem'io. E dove è egli, valentuomo?

RADICCHIO.

In sala di Palazzo, che quivi appunto m'aspetta.

GRILLO.

Or va volando, e menalo in questa casa, sai? Ché quivi Cassandra sua troverà. Ma va tosto, di grazia.

RADICCHIO.

Tanto farò.

GRILLO.

Voi, monna Nica, portatene la novella a Cassandra, e poi tornate a casa a preparar la stanza per Flavio, mentre io vo in piazza a provvedergli da cena; e poi mi fermerò alla Camatta, dove abbiamo a ritrovarci Moschetta e io; intendete?

NICA.

Intendo. Questo si può ben dire un giorno di primavera, or turbato, or sereno. Ma sia lodato Dio, poiché 'l migliore ha pur vinto.

SCENA SETTIMA

LORETTA.

LORETTA.

Tutte monete d'oro: oh felice Loretta! Oh pover'uomo! So ch'hai pagato caro il tuo fallo, io; e quanto a me, benché tutta ne sia dolente e pesta della persona, al sicure te la perdono. Oh che be' pezzi d'oro! Mentre egli facea le doppie, e io rubava le doble. Oh ventura! Oh giornata felice! Chi crederebbe mai che per un nulla avessi, da un pidocchioso come costui, tratta sì ricca paga, quando da questi miseri cortegiani, tutti vestiti di seta e d'oro, non ho mai guadagnato più d'un fallito mocenico o un marcello? E forse che non sono solleciti? Or vo' andarmene a casa; e tolto il meglio ch'io abbia, tirar alla volta di Vinegia e godermi co 'l mio dolcissimo Taccola, allegramente, questa ventura.

SCENA OTTAVA

NICA

NICA.

Che tesor di San Marco? Che casnà del Gran Turco? Per mia fè, se io le avessi arrecato quant'oro e quante gemme portano o siano mai per portar le flotte indiane, non credo che sì allegra fosse mai stata: se partoriva in quel punto, non sentiva dolore. Oh quanto bene! Oh quanto amore! Oh quanto giubila! Oh quanto è lieta! Or vo' ire a dar un poco di buon assetto alla casa e preparare la stanza a Flavio; e poi tornerò a Cassandra, la quale, come si faccia buio, condurremo subito a casa.

SCENA NONA

LURCO, ZENOBIO

LURCO.

Voi potete appena reggervi in piedi; o che valentuomo!

ZENOBIO.

Oh infelice Tantalo; oh cornu sine copia! oh copia sine cornu!

LURCO.

Che cosa v'è incontrata? Che male avete messer Zenobio?

ZENOBIO.

O Lurco, vox faucibus haeret.

LURCO.

(Qualche disgrazia gli sarà certo avvenuta, con quella volpe maliziosa di Loretta. Ma saprollo da lei. Or voglio attender a quello che importa più).

ZENOBIO.

Lurco, vo' andarmi a riposare; piglia i danari, e vatti con Dio.

LURCO.

Andate pure, messer Zenobio. Ma ditemi, son ben elleno tutte buone d'oro e di peso, eh, queste doble?

ZENOBIO.

(Deus bene vertat). Sono quelle medesime ch'io ti diedi testé, addio.

LURCO.

O messer Zenobio, non vi partite sì tosto, no.

ZENOBIO.

Lasciami andare, caro fratello.

LURCO.

Oh! questo non è oro; mi pare ottone, a me. Che ne dite?

ZENOBIO.

(Perii). Come ottone? È quell'oro medesimo che testé ti mostrai: riconoscilo al moccichino, sì certo.

LURCO.

Non vi partite, vi dico; ché non voglio ottone per oro, io. (Vo' fare di costui quel che fa la gatta del topo). Che vorrà esser questo? Messer Zenobio, sarebbonsi eglino mai trasformati?

ZENOBIO.

(Salva res est). Per Giove, ch'Edipo sei, non Lurco.

LURCO.

E cotesti miracoli s'usan poi?

ZENOBIO.

Come, se s'usano? Non hai tu lette le Metamorfosi? Leggile, e vedrai cose molto più stupende di queste. Piglia da me l'esempio: chi direbbe ch'io fossi ora Zenobio? E pur son desso.

LURCO.

Affè ch'ella mi entra, s'egli è vero quel che voi dite; e io credo a un par vostro, che sapete ogni cosa.

ZENOBIO.

Oh sta bene; lasciami dunque andare, che, siccome io tornerò Zenobio, così essi torneranno altresì elegantissime doble d'oro.

LURCO.

Oh come scaltro! Sapete quello che vi vo' dire? La vostra tasca de' aver una sì fatta virtù. Proviamo un poco se quell'altra avesse forza di farle ritornar d'oro.

ZENOBIO.

Deh lasciami, ti prego, e abbimi compassione, Lurco, ché io son tutto molle. Vuoi tu ch'io muoia?

LURCO.

Lasciatemi provare solamente, se questo giova.

ZENOBIO.

Eh non far Lurco, ché la mia tasca non può avere una tal virtù.

LURCO.

Non ci mettete la mano voi, ché tutta potreste ben levarle la forza. Lasciate far a me.

ZENOBIO.

Ehu, ehu.

LURCO.

Che cosa avete, che vi duole?

ZENOBIO.

Tu 'l vedrai bene.

LURCO.

Levate voi la mano di qui, dico, e lasciate ch'io vi ponga la mia, se volete; e poi anche se non volete.

ZENOBIO.

Nec mihi, nec tibi.

LURCO.

Questa non è quella dell'oro.

ZENOBIO.

Né quest'altra, ch'è peggio.

LURCO.

Che dite voi? Oh questa sì sarebbe da registrare: che l'uccellato foss'io!

ZENOBIO.

Hai tu ora provato assai? Lasciami dunque andare.

LURCO.

Eh fermati, se non vuoi ch'io ti lasci andar su 'l mostaccio una mano che ti tragga i denti di bocca.

ZENOBIO.

A un par mio, Lurco? Ah scelus indignum!

LURCO.

Tu mi hai a trovar dugento ducati, sai? E ti dico su 'l saldo, se io credessi di spogliarti tutto da capo a piedi.

ZENOBIO.

Ah Lurco, miserere, miserere, che sono stato ingannato anch'io.

LURCO.

Ingannato son io, ribaldo: a questo modo, eh? Io vo' condurti a Moschetta, il quale ha detto d'esser alla Camatta; e sappi certo che un di voi mi ha a pagare, scellerati, ghiottoni.

ZENOBIO.

Deh, Lurco, lasciami almen mutar di panni, ch'io mi sento propriamente andar in diliquio.

LURCO.

Va là, manigoldo; e questa pigliati per caparra.

ZENOBIO.

Oimè, l'osso maestro, oimè.

SCENA DECIMA

BERNARDO, RADICCHIO

BERNARDO.

Insomma, quand'io vo bene fra me medesimo discorrendo delle cose del mondo, trovo che la prudenza umana è piuttosto una cotale prerogativa usurpata dagli uomini che quella certa regola del governo che altri vanamente pretende: imperocché tanti son gli accidenti che s'attraversano, e quasi sempre i disegni nostri interrompono, che si può sempre, o temere da faccenda ben consigliata riuscita infelice, o sperare da mal guidata impresa prospero fine. Talché possiamo fermamente concludere che altra più sicura prudenza aver non possiamo che una salda rettitudine di coscienza e fermo proponimento di ricevere ogni fortuna, o buona o rea ch'ella sia, con animo ben composto, lasciando poi la cura del resto a chi meglio di noi la intende e di lassù ci governa. Quand'io mandai Cassandra, mia figliuola, qua per sanarsi, tutti gli amici e parenti miei di così fatta deliberazione mi biasimavano, allegando il cammin malagevole, la stagione pericolosa, l'infirmità grave e molte altre opposizioni; alle quali se io, come forse richiedeva il dovere, avessi prestate orecchie, Cassandra mia non sarebbe ora né tanto ricca, né sì ben maritata, né forse viva. E certo è stato voler di Dio che così presso al luogo, dove ella nacque, abbia trovato sì buono e sì onorato partito. Ma dimmi, qual è la casa di Cassandra?

RADICCHIO.

Questa mi fu mostrata da un servitore, secondo che mi parve, di casa propria.

BERNARDO.

Entriamo dunque.

RADICCHIO.

Ella appunto si trova aperta.

SCENA UNDECIMA

PATRIZIO

PATRIZIO.

Pistofilo è stato appunto come quel sonatore, il quale, prima che s'inducesse a sonare, fu necessario che egli s'accordasse la cetra; poi sonò tanto che, per farlo tacere, bisognò rompergliela sulla testa. Chi vide mai cervello più di lui ostinato nell'odiar quella giovane? Che certo, se io m'avessi lasciato vincer dalla disperazione, avrei dato nel pazzo. Ora è cosa da non credere come egli le fa vezzi; diresti ch'egli ne fosse stato lungamente invaghito. Subito che fu in casa, serraronsi in una camera, dove ancora sono; ed essend'io stato all'uscio origliando, hogli sentiti sonar a doppio, ti so dir io. Tanti risi, tante tresche e tante moine, che, in buona fè, m'hanno fatto mezzo mezzo risentire, così vecchio com'io mi sono. Ma ella è una bellissima giovane, e ha piuttosto viso da far infermo altrui che d'esser inferma ella. Certamente se Pistofilo l'avesse da principio veduta, averebbe quel medesimo fatto che ora fa. Per me, non credo che altro medico ci bisogni. Pistofilo l'ha guerita. Ho pur condotta a fine la bella impresa! Io son pur tanto contento, e che la cosa mi sia sì ben riuscita, e che la giovane mi sia in casa, e che Pistofilo se la goda ben sodisfatto. Or son sicuro, or son fuori d'ogni pericolo. Insomma io l'ho saputa condurre da valentuomo. Oh felicissimo giorno! Io scoppio dell'allegrezza. Voglio mandar una giustina di pane all'orfanelle: cappita, bisogna nell'allegrezze ricordarsi della limosina, e largamente, come fo io. Ma fin qui non ho fatto nulla; e di questa favola, che cominciò da tragedia, non manca se non fare l'ultimo atto. Bisogna che i danari vengano a casa. Farò domattina fare il mandato a nome di Pistofilo e di Cassandra, e subito me n'andrò a Vinegia a levar del banco i venti mila ducati. Ma questo è un poco mobile, se 'l valor delle robe non avanzasse la quantità della lista: la voglio un poco trascorrere, prima ch'io vada a riconoscerle dentro.

SCENA DUODECIMA

BERNARDO, RADICCHIO, PATRIZIO

BERNARDO.

Tanta istanza mi faceva messer Patrizio di queste nozze e tanta sollecitudine ne mostrava, ch'io mi credeva di trovar Cassandra già gravida, non che sposa; e trovola ancora in casa, sola, male in assetto e, per quel che posso vedere, tanto malinconosa e poco meno che stupida, ch'io non so quello che me ne debbia pensare, se non ch'ella di queste nozze sia mal contenta.

PATRIZIO.

(Fin qui, son quasi tutte stracci e stoviglie).

BERNARDO.

All'entrar mio nella camera parve che sbigottisse: vedestila tu, Radicchio?

RADICCHIO.

Io era di dietro a voi, e non potetti avvertirlo. Ma forse il sangue per l'allegrezza di vedervi le si commosse.

BERNARDO.

Abbracciola poi, e le chiedo com'ella sta, ed essa appena che mi risponda, e sì confusamente ancora che non la 'ntesi. Pareva che non sapesse formar parola. Io torno a domandarla: [se] si è pur ancora sposata, e perché è così sola e di malavoglia, e dove è Nica; ed ella ad ogni cosa mi risponde sì freddamente, che ho potuto a gran fatica trarne cosa di certo. Quanto mi meraviglio che Nica sia fuor di casa! Dalla quale, senza alcun dubbio, avrei potuto rinvenir di ciò la certezza. Tu va, Radicchio, alla dogana, e libera le robe.

RADICCHIO.

Tanto farò.

PATRIZIO.

(Val più la carta che la scrittura: pur non sarà se non bene di farle condurre a casa. Ma chi è costui vestito da forestiero? Ha viso di Levantino, e d'uomo di conto).

BERNARDO.

In questi contorni bisogna che abbia la stanza sua, per quello ch'egli mi scrisse, che stava dalla casa di mia sorella poco lontano. Ecco chi forse saprà insegnarlami. O gentiluomo, saprestemi voi dire dove abiti messer Patrizio degli Orsi?

PATRIZIO.

Perché? Vorreste voi forse alloggiare con esso lui?

BERNARDO.

Forse che sì.

PATRIZIO.

(Guarda un poco chi mi viene a sturbare in tempo di nozze). E chi siete voi? Che cosa avete da trattare con esso lui?

BERNARDO.

Di questo non vi pigliate pensiero voi; ma solo, se vi piace, insegnatemi la sua casa.

PATRIZIO.

(Fa buon animo, che quel “forse” mostra che non è risoluto). A dirvi il vero, son io Patrizio degli Orsi; ma son un poco impedito.

BERNARDO.

Voi siete messer Patrizio?

PATRIZIO.

Sì, se vi piace.

BERNARDO.

O messer Patrizio, come ha forza di trasformarci l'età! Poiché, levata ogni memoria delle nostre prime sembianze, né voi avete me ravvisato, né io voi; e pur siam lungamente stati compagni e, posso dir, fratelli cari e amorevoli insieme! Io son Bernardo Cattari.

PATRIZIO.

Voi siete messer Bernardo? O dolcissimo da me sommamente amato e desiderato messer Bernardo, l'arrivo vostro mancava alla consolazione di questo giorno. Perdonatemi, io vi prego, se, non conoscendovi, fui tardo a palesarmivi. Messer Bernardo mio caro, quanto vi vegg'io volentieri! Credo bene di parer tanto diverso a voi, quanto voi siete paruto a me, da quell'età sì fresca nella quale ci godevamo sì dolcemente.

BERNARDO.

Il tempo vola, messer Patrizio, e sì di nascosto, che non ce n'avveggiamo se non quando si viene a così fatti paragoni: o de' nostri figliuoli che crescendo ci dan licenza, o di noi medesimi ricordandoci del passato. Mi contento io nondimeno di questa mia vecchiezza; e ringrazio Dio che m'abbia preservato a vedere in sì stretta e sì desiderabile parentela terminar la nostra amicizia, parendomi che più felicemente io non potessi chiuder il corso della mia vita che con l'acquisto di queste benedette nozze.

PATRIZIO.

Se voi, che 'l sangue e la roba vostra dato mi avete, stimate sì gran ventura l'esservi in parentado meco legato, quanto la debbo più stimar io che ho donna sì ricca e sì onorata ricevuta da voi? Ma non mi scriveste voi, dianzi, che, per esser allora rettore della vostra città, non v'era lecito di partire?

BERNARDO.

Ho finito l'uffizio, il qual non dura se non un mese, e subito son venuto; e sarei stato anche qui molto prima, se 'l vento non mi avesse impedito.

PATRIZIO.

Avete dunque travagliato in mare, eh?

BERNARDO.

E di tal sorte che siamo stati per affogare. Noi uscimmo del porto con un levante assai ben gagliardo, che buon viaggio ci prometteva, ma non sì tosto passammo i nostri Pettini che cessò; e in sua vece sorse un maestro, il quale, ancorché fosse contrario, non era però sì fiero che ci togliesse il prender porto in Lesina, dove stemmo duo dì, fin che vento migliore ci richiamasse al cammino. Il terzo giorno, invitati da un piacevol sirocco, facemmo vela, ma tanto solo durò quanto noi potemmo ricoverare nel porto di Sebenico. L'altro dì noi scorremmo pur fino a Zara, e di là, non senza qualche speranza di miglior tempo, ci assicurammo di passar il Quarnaro; ma non sì tosto fummo a mezzo del golfo, che si scoperse una tramontana così terribile che, rispingendoci in alto mare, ci fracassò l'antenna e disarmocci gran parte della sponda sinistra. Noi ci sforzammo un pezzo di stare forti, ma finalmente, vinti dalla tempesta, lasciando la gomona per occhio, ci mettemmo a vele basse, scorrendo, fin che piacque alla bontà di Iddio che, scoperto il porto d'Ancona, pigliammo terra, ma tanto afflitti, che i nocchieri medesimi non potevano regger più. Quinci poscia partimmo felicemente, e in una sola velata fummo questa mattina nello spuntar dell'alba a Vinegia.

PATRIZIO.

È dunque bene che noi andiamo a dar la buona sera alla sposa; e poi vi riposiate, ché dovete essere molto stanco.

BERNARDO.

Facciamo come vi piace.

PATRIZIO.

Andiamo.

BERNARDO.

Andiamo.

PATRIZIO.

Bisogna che voi vegniate per di qua; ché questa è la mia casa.

BERNARDO.

Per di qua?

PATRIZIO.

Per di qua, sì; ch'al volger di quel canto si va verso la porta.

BERNARDO.

Non avete voi detto che andiamo a dar la buona sera alla sposa?

PATRIZIO.

Sì, se vi piace.

BERNARDO.

Oh, se volete la sposa, ci bisogna entrar qui.

PATRIZIO.

Come costì? Dio m'aiuti.

BERNARDO.

In questa casa, dove poco fa l'ho veduta e parlato ancora con esso lei.

PATRIZIO.

Eh messer Bernardo, voi v'ingannate.

BERNARDO.

Sarà forse una casa medesima, ancorché fuori paian due.

PATRIZIO.

Vostra figliuola è in casa mia, e lasciaila testé co 'l suo sposo; e so certo che indi non è partita.

BERNARDO.

Caro messer Patrízio, io son ben vecchio, ma ho pur eziandio tanto di memoria e di vista, quanto mi basta a riconoscer la mia figliuola. Io vi dico che l'ho testé veduta e lasciata in questa casa, e son entrato per questa porta; credete ch'io sia pazzo?

PATRIZIO.

In quella casa?

BERNARDO.

In questa.

PATRIZIO.

Eh, voi siete in errore. Qui sta un cotale viniziano.

BERNARDO.

(Qualche posta è qui sotto).

PATRIZIO.

Venite meco in casa; ché se non ve la mostro, dite che non son io.

BERNARDO.

Venite voi meco in questa; ché se non ve la mostro, spacciatemi per pazzo.

PATRIZIO.

(Dio voglia ch'egli non sia). Oimè, messer Bernardo, voi mi volete far disperar, volete. È sì gran cosa l'entrar in casa con esso meco?

BERNARDO.

Orsù, io son contento di soddisfarvi. Andate là, ch'io vi seguo. Ma Dio voglia che n'usciamo tutti d'accordo.

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

LURCO, ZENOBIO

LURCO.

No, no, ribaldi, vi giungerò ben io senza corrervi dietro. Per Dio, che sempre non vi varrà il nascondervi e lo sfuggire; e crederete d'aver fatta la truffa a me, e avretela pure fatta a voi stessi. Io scoprirò le vostre malvagità, di tal sorte che mille ne potreste ben pagar de' ducati, e non aver involato a me li dugento. E tu, manigoldo, porterai la pena per tutti; stanne sicuro.

ZENOBIO.

Ah Lurco, non far più strazio di me, che troppo ho io patito senza colpa mia. Siati almeno raccomandata la mia existimatione. Dammi una dozzina di bastonate, e lasciami andare.

LURCO.

Avrai l'uno e l'altro, non dubitare. Pensa pure che sopra te vo' fare le mie vendette.

ZENOBIO.

O d'un alpestre scopulo più rigido!

LURCO.

Qui starai tu prigione, fin ch'io riabbia li miei danari. Io vo' trovare messer Patrizio; e tutta da capo a piedi gli vo' contare la ribalderia di costoro. E poi faremo ragione insieme.

SCENA SECONDA

BERNARDO, PATRIZIO, LURCO

BERNARDO.

Io vi dico, messer Patrizio, che questa non è la mia figliuola; e maravigliomi ben di voi che v'abbiate dato ad intendere di potermi così palesemente ingannare, quasi ch'io sia un fanciullo, o privo in tutto di senno.

PATRIZIO.

E io vi replico, messer Bernardo, che questa giovane ho per vostra figliuola ricevuta da Nica, governatrice di lei, e per tale la tengo io, e tienla Pistofilo mio figliuolo: intendete? E se voi, in questa guisa, voleste avermi data una donna senza danari, siete in grandissimo errore, messer Bernardo; ché c'è giustizia in questa terra, vi so dir io.

BERNARDO.

E se vi pensate voi di rubar venti mila ducati alla mia figliuola, co 'l supposito d'un'altra femmina, v'ingannereste ben di gran lunga. Io mi credea, venendo in qua, d'essermi allontanato da' Turchi; ma e' mi pare d'esserci infin agli occhi, alle vanìe che ci trovo. E se qui è giustizia, e' ci bisogna, vi so dir io; ma ella ci sarà mal per voi.

PATRIZIO.

Ma che tante parole, messer Bernardo? Andiamo speditamente dove si chiariscono gli ostinati.

LURCO.

(Chi domin'è costui che fa parole con messer Patrizio? E s'io non erro, parla eziandio della medesima cosa. Sia chi si voglia).

BERNARDO.

Io non intendo di venir così subito alla Giustizia, prima che non abbia ancor io inteso, da' miei di casa, come sta il fatto.

LURCO.

Messer Patrizio, fermatevi, prima ch'io vi dica altro: o rendetemi Gostanza, mia figliastra, che avete in casa; o datemi i dugento ducati che promessi e pattoviti mi ha per lei Pistofilo, vostro figliuolo.

PATRIZIO.

Starà pur a vedere novello intrico. Che cianci tu di dugento ducati? Per l'amor di Dio, non mi far arrabbiare più di quel ch'io mi sia.

LURCO.

Eh pover'uomo, come siete voi uccellato! E forse che non vi date a intendere di vedere ogni pulce che vi salta per casa, e non vedete gli elefanti che vi calpestano?

PATRIZIO.

E quali son cotesti elefanti?

LURCO.

Que' duo' scelerati di Pistofilo e di Moschetta. Vi fanno le commedie in casa sì bene! hannovi condotta Gostanza, mia figliastra, in vece di quella raugea.

BERNARDO.

Ecco, Patrizio, non vi diss'io che quella non è la mia figliuola Cassandra? Lodato Dio, che siam pur chiari qual di noi abbia il torto.

PATRIZIO.

Tu dèi esser ubbriaco; o che ambiduo vi siete accordati, per farmi dar l'anima a Satanasso. E come può egli esser cotesto?

LURCO.

Quando voi la faceste condurre dalla sua casa alla vostra, e passò dinanzi alla mia, vi ricordate voi di quel subito svenimento, di quel dolore, di quello spasimo, di quell'ampolla, di quell'unguento, di quelle furberie? Allora Gostanza mia fu messa nella seggia e fuvvi, in vece di quell'altra, portata in casa: la quale è rimasa poi nella mia. E così ve l'hanno cacciata, messer Patrizio. Non vi pare che sian fantini da porre una sposa a letto?

PATRIZIO.

È possibile, Lurco, che ciò sia vero? Oh scelerati!

BERNARDO.

Parvi egli che coteste siano ribalderie delle fine? Forca, forca!

PATRIZIO.

Oh traditori! Come può esser tanta audacia e tanta sfacciataggine in un garzone di diciott'anni? Che quanto a quel tristo di Moschetta, non me ne maraviglio. E a che fine ciò hanno fatto?

LURCO.

Perché Pistofilo era guasto dell'una, e non voleva sentir dell'altra.

PATRIZIO.

Oh Patrizio insensato! Questo era il male: di qui nacque il suo prima non voler moglie, poi la finta mutazione e i tanti vezzi che faceva alla sposa. Assassini! Io ve ne pagherò.

LURCO.

Quel tristo di Moschetta, cagion del tutto, merita mille paia di forche, siccome quegli che ha fatto torre a un povero pedante dugento ducati, promettendoli a me per lo prezzo di mia figliastra, e subito hagli rubati all'uno e all'altro.

BERNARDO.

Ma dimmi, valentuomo, perché acconsentì Cassandra a questo baratto?

PATRIZIO.

Come perché? Ve 'l dirò io: per obbedire a quella sua malvagia governatrice, che fu sempre contraria alla conclusione di queste nozze. Messer Bernardo, se questo è vero, voi avete una gran ragione. Né io saprei dir altro se non dolermi della mia mala fortuna, benché quello che non s'è fatto potrà pur farsi di novo, piacendo a voi: perché Pistofilo, acciocché sappiate, non ha sposata colei, la qual, pagandosi a costui dugento ducati, leverommi di casa. E se Pistofilo vorrà essere mio figliuolo, bisognerà che l'una lasci e l'altra si tolga.

LURCO.

(Trova pur i danari, babbo mio, che Pistofilo non vorrà già egli lasciarla, ti so dir io).

PATRIZIO.

E tu, scelerato, non ti vergogni a vender l'onestà della tua quantunque figliastra? Alla Giustizia ti vo' far gastigare.

LURCO.

Che vender l'onestà? Gostanza è moglie di Pistofilo, acciocché sappiate: che senza questo non mi sarebbe uscita di casa; né egli, se non fosse marito, l'averebbe mai posseduta.

PATRIZIO.

Messer Bernardo, lasciate pur dir costui, ch'egli mente.

BERNARDO.

Messer Patrizio, quantunque costui mentisse, non vorrei però dar mia figliuola a garzone di sì cattivi costumi: ché s'egli è perduto dietro ad una tristarella a quel modo, sarebbe un porla nel purgatorio. Vo' entrar in casa e porle questo ferro alla gola: farolla ben confessar io. Andiamo, Lurco, ti prego; menami in casa tua, ch'io son il padre di quella misera.

LURCO.

Siete venuto a tempo; entrate pure. Vo' chiudere il pedante in una camera, acciocché in questi rumori non mi scappasse.

PATRIZIO.

Oh povero Patrizio! Or è ben tempo che tu t'impicchi: non mi starai in casa un'ora, ribalda. Ma ecco la cagione di tutt'il male: ecco la manigolda.

SCENA TERZA

NICA, PATRIZIO

NICA.

Io non avrò già più quel vecchio alle spalle.

PATRIZIO.

Il manigoldo ci avrai ben tosto, femmina scelerata.

NICA.

Uu povera me! Hammi sentito. Io non parlava di voi, messer Patrizio, non in verità.

PATRIZIO.

Di te parlo ben io, ribalda.

NICA.

Potensinterra! Una parola sola mi fa ribalda? Caro messer Patrizio, quando eziandio avessi detto di voi, meriterebbe quello che ho fatto in servigio vostro che m'aveste a dir villania? Ma ditemi, che fa Cassandra? Io vo' venire a stare un poco con esso lei.

PATRIZIO.

Cassandra eh, traditora.

NICA.

Haccene più delle villanie? Che domin avete in capo?

PATRIZIO.

Sapresti metter una sposa a letto, eh?, manigolda!

NICA.

Dio m'aiti.

PATRIZIO.

Giuochi di mani, traveggole, una donna per un'altra, sapreste 'l fare, eh?

NICA.

Io non v'intendo, messer Patrizio, né so pensare che novità sien coteste.

PATRIZIO.

No, eh? Seggie, trabacche, svenimenti, dolori, bossoli, empiastri: sapete ora quel che si sieno?

NICA.

(Oimè, son morta).

PATRIZIO.

Perversa e maladetta femmina, che tu sei.

NICA.

Sapete quello ch'io vi vo' dire, messer Patrizio? Non pretendo nulla da voi, né dei servigi fattivi; non ho sperato mai tanto, vedete, sicché ora con un vostro goffo pretesto ve ne vogliate assolvere: messer no, mai no.

PATRIZIO.

Non ti dar già pensiero, ché avrai delle tue sceleraggini una sì fatta mercede, che tutto 'l tempo di tua vita n'avrai memoria.

NICA.

Io son donna dabbene, io, al dispetto vostro, sapete?

PATRIZIO.

Ve' fronte di sfacciata, ve'! Hai anche ardire.

NICA.

Ho ardire, e perché? Andate a smaltir il vino, vecchio... voi mi fareste dire...

PATRIZIO.

Se domattina io non ti fo frustare, se non ti fo metter in berlina, e se con queste mani non ti ci fo morire a furia di sassi...

NICA.

Io voglio che mi diate... vecchio pazzo!

PATRIZIO.

E io non ti trarrò gli occhi?

NICA.

State ne' vostri termini, ché, per santa Nafissa, vi pelerò la barba.

PATRIZIO.

Non vo' perder più tempo co 'l fatto tuo: farottele ben costar care io, manigolda. Vo' prima cavarmi colei di casa, e poi...

NICA.

Oh povera Nica, tu se' spedita! Chi può esser mai stato quel traditore che ha scoperto il frodo? È stato certo quel medico, che ci ha egli a' fianchi tenuto sempre per ispia. Hollo ben detto io, meschina me! Uu uu! Sarò io quella che porterà la pena per tutti. Che debbo fare? Fuggire. Troverò Grillo alla Camatta, che mi provegga di qualche luogo da recarmici in salvo; ché mi par sempre avere i birri alle spalle.

SCENA QUARTA

PATRIZIO, PISTOFILO

PATRIZIO.

Avrà dunque ardimento una sfacciatella di volermi star in casa al mio marcio dispetto? Trarrottene d'un modo, che tu non 'l pensi. Dal manigoldo ti farò strascinare, e non che dai birri.

PISTOFILO.

Signor padre?

PATRIZIO.

Che signor padre? E tu ancora, vituperoso, che se' cagione di tutto 'l male, mi pagherai la pena della sua colpa, non meno che della tua.

PISTOFILO.

Fate ciò che vi piace, ché da me sarete sempre ubbidito. Ma io vi supplico che vi piaccia di dar intanto luogo alla collera, ch'io possa dirvi quattro parole.

PATRIZIO.

Più di venti n'hai dette tu fin a qui; e potevi anche tacerle. Di' su.

PISTOFILO.

Che cagione avete voi di dolervi, perché ora colei non abbia voluto...

PATRIZIO.

Tu mi faresti... Che cagion, dici? Non ne vo' più, no, no.

PISTOFILO.

Deh, per l'amor di Dio, lasciatemi finire; e poi sia fatto quel che vi piace. Voi l'avete voluta cacciar di casa; che poteva ella far altro, per onor suo, che resistere e contrastare, per non esser sulla pubblica strada vituperata? Paghiamoci di ragione: che poteva ella far altro? Se in casa non la volete, sta bene, siete padrone; ma fatela uscire, in modo che non faccia correre il vicinato, con vituperio di lei e nostro, che fôra il peggio.

PATRIZIO.

E chi n'è cagione, se non tu solo, eh? Di' su, sfacciato, chi n'è cagione?

PISTOFILO.

Io, signor padre? Che male ho fatto?

PATRIZIO.

Vedi, insolente, vedi? Ancora hai fronte di dirmi in faccia: che male ho fatto? Condurmi in casa...

PISTOFILO.

Io l'ho condotta? Io, ch'era in camera mia? Non me l'avete data voi, signor padre?

PATRIZIO.

Questa no, scelerato: ma tu, sfacciatamente ingannandomi, te l'hai tolta.

PISTOFILO.

Come, ch'io me l'ho tolta? Non mi comandaste voi che quella moglie io prendessi che in casa mi aveste oggi condotta? Or chi n'è stato il condottiere? Chi me l'ha messa in camera, se non voi?

PATRIZIO.

Ve' pure, ve' con che fronte gli basta l'animo di difendere una sì fatta menzogna!

PISTOFILO.

Voi potete dire quel che vi piace; ma se voi siete stato ingannato da altri, che colpa ne ha Pistofilo? Doletevi di coloro che l'han condotta, e non di me, che quello ho mandato ad effetto che mi fu da voi comandato. Che femmina sapeva io ch'ella fusse? Informatevi s'io n'ho colpa; e non credete sì tosto a Lurco, di cui non ha la città di Padova, né di Vinegia insieme, il più infame ghiottone, il più solenne ribaldo.

PATRIZIO.

A te, a te, su 'l tuo viso, su quella sfacciata fronte, il farò dire, a te, sì; andiam pure.

SCENA QUINTA

LURCO, BERNARDO, PATRIZIO, PISTOFILO

LURCO.

Son un fanciullo, io, da darmi a intendere le novelle, ah?

BERNARDO.

Non so di novelle io. Tu l'hai 'ntesa, tu, così bene come ho fatt'io.

LURCO.

Non so quello che abbia inteso, ché non m'importa. So bene che se non mi levate costei di casa, non vi varranno i giuochi di testa, non al certo. Di grazia, non aspettate ch'io ve la faccia saltar in strada.

PATRIZIO.

Eccolo appunto, ve': su 'l tuo mostaccio te 'l dirà egli, sì bene. O Lurco.

LURCO.

Mancherebbe quest'altra alle mie buone venture, che costei mi facesse figliuoli in casa.

PATRIZIO.

Figliuoli in casa? E di chi parli tu?

LURCO.

Della figliuola di quest'uomo, che, con sue favole, se ne vorrebbe sgravare.

PATRIZIO.

E Cassandra vostra figliuola, che de' esser mia nuora, è gravida, messer Bernardo?

BERNARDO.

Così foss'ella morta, com'è ben vero.

PATRIZIO.

Miracoli, miracoli!

PISTOFILO.

Gravida, eh? Oh giudicio di Dio! Questo era ben altro fallo che 'l cambio. Anzi fallo sarebbe stato, se non si fosse cambiata.

LURCO.

Orsù, signori, non moltiplichiamo in parole: l'uno mi lievi la figliuola di casa, e l'altro mi numeri il pattuito danaro per la figliastra mia ch'egli ha avuta.

PATRIZIO.

La tua figliastra ti sarà resa, non dubitare.

LURCO.

Gran mercé. Or ch'ella è un'altra cosa, me la volete render, ah? Buon avviso per certo. Chi ha tagliato il mellone l'ha a pagare, messer Patrizio: intendetemi voi?

BERNARDO.

Ascoltate, messer Patrizio: voi non sapete dove sta il punto. Il levar di casa a costui Cassandra non vuol dir nulla; ch'io saprei farlo anch'io, nella casa medesima rimettendola ond'ella è uscita. Hassi a vedere di cui ella ha da essere.

PISTOFILO.

Che pensereste voi dunque di darla a me? Parliam pur d'altro: a me, eh?

BERNARDO.

Non ho voluto dir questo, Pistofilo: io dico che s'ha a vedere s'ella è figliuola mia, o figliastra di Lurco.

PATRIZIO.

Io non intendo ancora questo enigma.

LURCO.

Signor sì, perché ora ch'egli la trova gravida, vorrebbe scaricarsene, e forbirsi dal viso la sua vergogna con farle dire ch'essa è la mia figliastra, e Gostanza la sua figliuola. Chimere raugee per avventura.

BERNARDO.

A bell'agio, fratello. Voi sapete, messer Patrizio, che testé mi condussi in casa costui, dove Cassandra è stata furtivamente condotta, per intender da lei qual cagion l'abbia mossa a consentir al cambio che si fece di lei; e 'n pochi salti presi la fiera: perciocché ella, vinta dalla paura, non mi seppe negar il vero e confessommi subito che, per non iscoprire la sua pregnezza, a ciò commettere s'era indotta.

PATRIZIO.

Or intendo le menzogne e arti di Nica, e mezze gliele perdono.

BERNARDO.

Immaginatevi com'io restassi dolente e tanto attonito, che non mi sovvenne pur di richiederla di cui gravida ella fosse. Io credo certo che, se tale non fosse stata, viva non mi sarebbe uscita di mano. E non so anche quello ch'io m'avessi fatto, se non giungeva costui, che da farle mai mi ritenne. Or udite, ché qui sta il punto.

LURCO.

Io vi lascio dire le vostre favole; dirò poi ancora io le mie vere ragioni in poche parole.

BERNARDO.

Io l'avea di già lasciata e stava in capo alla scala, per venirmene a basso, quando costei, seguendomi, instantemente si diede a supplicarmi ch'io l'ascoltassi. Io mi rivolsi; ed ella, gittatamisi con molte lagrime a' piedi, a così dire s'incominciò: “Messer Bernardo, poscia che io né per lo fallo ardisco, né per natura posso chiamarvi padre, consolatevi, che se giustissima cagione vi ho data di dolervi di me, or voglio che la medesima ancora abbiate di sommamente lodarmene”.

PATRIZIO.

Che domin può esser questo?

BERNARDO.

Udite pure.

LURCO.

Udite, sì, sì, ché 'l Boccaccio non fece mai la più bella.

BERNARDO.

Seguitò ella dicendo: “Quando voi mandaste a Vinegia per levar la vostra figliuola, Maddalena, la mia vera madre, così mi disse: - Cassandra, quel raugeo, che ha mandato per te, non è tuo padre, come infin a qui ho cercato sempre di farti credere. La tua compagna Cassandra, la quale da qui avanti voglio chiamar Gostanza, è la vera figliuola sua, tu la mia. Tu te n'andrai colà, e sarai ben maritata. Ricordati ch'io ti son madre: sovvieni, ché potrai farlo con onesto colore, alla vecchiezza e povertà mia. Ma guarda di mai non lo scoprire a persona, per molto confidente ch'ella ti fosse, ché tu saresti la tua ruina e la mia”.

LURCO.

Come può esser ch'una fanciulla sappia ordire una sì fatta menzogna? Femmine, eh? Hanno 'l diavolo addosso!

BERNARDO.

“Io nondimeno - dice ella -, vedendo di potervi ora ricompensare la vergogna fattavi in casa co 'l palesarvi la vostra vera figliuola, ho anzi eletto di perder una sì ricca eredità che nascondervi il vero: acciocché conosciate che, se poco pudica fui, non son però sì malvagia ch'io la voglia rubar a vostra figliuola”.

LURCO.

Co 'l pugnale alla gola l'avete costretta voi a trovare queste pure menzogne. Che ci va che, s'io mi reco nel medesimo modo addosso alla mia Gostanza, la farò dire tutto 'l roverscio?

PATRIZIO.

A questo modo, tutte al luogo loro tornerebbono l'ossa.

PISTOFILO.

Eterno Dio, fa tu, che far il puoi, che queste cose sian vere.

LURCO.

Maddalena, mogliama, fu una donna dabbene; e non averebbe fatte queste ribalderie, messer no.

BERNARDO.

Tu dunque fusti marito di Maddalena, che la mia figliuola allevò?

LURCO.

Fui di lei secondo marito, e però Gostanza è figliastra mia.

BERNARDO.

Oh tu dovresti pur sapere di questo cambio.

LURCO.

Non so di cambio, io; ché, quando mi maritai, altra figliuola non avea Maddalena mia che Gostanza.

PISTOFILO.

Il cambio fu forse fatto al tempo del suo primo marito, poiché costui dice d'essere stato il secondo.

BERNARDO.

Io le domando poi: “Che sai tu di Gostanza?”. Ed ella subito mi risponde: “Noi ci siam riconosciute, quand'ella entrò nella seggia, e fu portata in mia vece a casa messer Patrizio”.

PISTOFILO.

Il medesimo ha detto Gostanza a me, signor sì.

LURCO.

Testimonio di Montefalco.

PATRIZIO.

Ma, Lurco, non accade a farsene beffe; ché se Gostanza fosse vera figliuola di messer Bernardo, tu non avresti che far in lei; e vi dico che comincio a crederne qualche cosa.

LURCO.

Che crederne qualche cosa? Vi pensate voi dunque di levarmi con vostre favole mia figliastra? E con le sole e mentite parole d'una fanciulla, che le ha dette a forza di minacce, trarmi dal mio possesso? Sapete che... Non mi lasciate andare alla Giustizia, ché vi svergognerò. Bench'io mi rido di cotesti vostri vani concerti; perciocché io, senza forza alcuna di schiena, co 'l testamento solo di Maddalena, che Gostanza nomina per sua figliuola, vi chiarirò.

PISTOFILO.

Non potrebb'essere che per figliuola la nominasse, e tuttavia non fosse?

LURCO.

Umbè, noi vederemo a cui sarà per dare la Giustizia fede maggiore e qual sarà più valevole, o 'l vostro verisimile o la mia carta, signor dottore fatto di nuovo. Io vo' trovar il notaio, che dovrebbe pur esser qui, secondo l'ordine dato. Apparecchiate intanto i danari, signor dottore; e voi altri trovate cosa, per onor vostro, che abbia un po' più di garbo che non ha questa; né ci perdete tempo, ché all'aprirsi del testamento siete spediti. Io ve 'l dico per carità; ché ho compassione de' casi vostri, sì, per mia fè.

SCENA SESTA

PISTOFILO, BERNARDO, PATRIZIO

PISTOFILO.

Vedi arrogante, che si fa anche lecito di beffarci!

BERNARDO.

Piacesse a Dio che così fosse vera la cosa, com'io temo ben al contrario. Dubito molto che colei s'abbia finta questa chimera, per mitigar il mio giustissimo sdegno; poiché, quanto al perder l'eredità della zia, Dio sa quant'ella se ne curi, e se non ama meglio d'essere a colui, benché povero, maritata, di cui è gravida, ch'esser moglie ricca d'un altro. Le femmine incapricciate maggiori cose di queste sogliono fare.

PATRIZIO.

La cosa passava bene; ma temo grandemente del testamento.

PISTOFILO.

Non si potrebbe egli o contradirgli o negarlo? Stiam saldi noi sulle parole di quella giovane, e diciamo di non voler sapere di testamento.

BERNARDO.

Non gioverà. E ci bisognerebbe andar alla Giustizia, e niente altro ne seguirebbe che maggiormente scoprir le nostre vergogne.

PISTOFILO.

(A sua posta; voglio andarmene in casa a guardar Gostanza. Ho fuggite le nozze dell'una: qualche cosa sarà dell'altra. Chi vorrà trarlami dalle braccia, farà conto con l'oste).

SCENA SETTIMA

NOTAIO, LURCO, BERNARDO, PATRIZIO

NOTAIO.

Io vi dirò: il collegio nostro ha fatto un notaio, e non ho potuto prima spedirmi; ma io veniva diritto a voi, secondo l'ordine dato.

LURCO.

Orsù, siete a tempo. Avete voi il testamento?

NOTAIO.

S'io son venuto per questo! Eccolo.

LURCO.

Signori, questo è quel testamento che ci ha a chiarire. Dite, per vita vostra, come ve ne sta il cuore. Ah, ah, ah.

PATRIZIO.

Tu se' pur arrogante.

BERNARDO.

Ditemi, sere, che testamento è cotesto?

NOTAIO.

Di Maddalena, moglie che fu, in secondo matrimonio, di Lurco, ch'è qui presente: la quale, venuta a morte, due ne fe' scrivere d'un tenore medesimo a un procuratore suo compare, che furono sottoscritti poi di mia mano, senza che io sapessi però il contenuto loro. E fui anche rogato della mano e dei suggelli di quelli che chiamati vi furon per testimoni, siccome vedete qui tutti l'un dopo l'altro.

BERNARDO.

E perché due?

NOTAIO.

Perché uno di loro fu da lei dato al medesimo suo compare e l'altro a me, vietandomi e facendomi giurare di non l'aprire, finché Gostanza non avesse diciott'anni, nomandola allora di sedeci.

BERNARDO.

E che venne poi di quel procuratore?

NOTAIO.

Credo, s'io non m'inganno, che fosse uno tra que' tanti viniziani che furon presi da' Turchi sulla nave Vittoria.

PATRIZIO.

Sì, mi ricordo: tutti morirono, per non aver voluto rinnegare la fè di Cristo.

LURCO.

Orsù, apritelo omai; che mi pare un'ora mill'anni di chiarire tutti costoro.

NOTAIO.

La prima cosa, Lurco, guatalo bene, e riconoscilo per quel vero che tu segnasti co 'l tuo suggello, di propria mano tu ancora.

LURCO.

Veggolo, e riconoscolo troppo bene; e poi non so io chi voi siete? Sta bene.

BERNARDO.

Fermatevi, messere, ché non vogliamo sapere noi cosa che sia di suo testamento. Abbiamo il testimonio di quella giovane; e ciò ne basta.

PATRIZIO.

Dice il vero, messer Bernardo: che abbiamo noi a fare del testimonio de' morti, s'abbiamo quello de' vivi?

LURCO.

Umbè, ci troveremo ripiego: la Giustizia vi chiarirà. Andiam, messer Nofrio.

NOTAIO.

Non ti partir, Lurco, che farogli ben io capaci. Signori, vi piace egli che io vi dica quel che vuole il dovere, e anche il vostro vantaggio?

BERNARDO.

Dite pur, sere.

NOTAIO.

Se voi avete oppenione che in questo testamento sia alcuna cosa che vi pregiudichi, l'ascoltarla non vi può nuocere: anzi piuttosto, avendola udita, potrete meglio consigliare le cose vostre; e però lasciatelo aprire, che questo è un atto privato e non pubblico.

BERNARDO.

Dice il vero, messer Patrizio; e però ascoltiamo quel che contiene.

PATRIZIO.

Ascoltiamolo: ma non voglio già io lasciar di fargli un protesto. Odi, Lurco, e udite voi, sere: noi protestiamo di non acconsentire a qualsivoglia cosa, che sia in quel testamento, di pregiudizio alle nostre vive e buone ragioni.

LURCO.

Gran senno, certo! Gran protesto, messer Patrizio, è cotesto! O voi mi riuscite un eccellente dottore, mi riuscite: cappita! Ah, ah, ah.

PATRIZIO.

Tu ridi? Son elle cose da rider queste?

LURCO.

E chi non riderebbe? Orsù, a' fatti, che così, caldo caldo, il vostro protesto vi vo' rimettere, perché 'l serbiate in fra le cose vostre più preziose.

NOTAIO.

Ora essendo venuto il tempo d'aprir questo testamento, per l'autorità concedutami dalla testatrice e dall'età della giovane, della quale ho fede appresso di me, io l'apro ad istanza qui di Lurco, crede in parte, com'ella disse, della suddetta Maddalena sua moglie. Invocato prius Altissimi nomine. Perciocché, humanum est peccare, diabolicum perseverare, angelicum emendare... Strano principio di testamento.

LURCO.

Strano principio? Quasi voi non sappiate che tutti i testamenti sono per lettera.

NOTAIO.

Monna Maddalena, venuta a morte, ha eletto me, Alberto da Verona...

PATRIZIO.

Hollo io conosciuto questo procuratore; era uom molto religioso, e per tale conosciuto da ognuno.

BERNARDO.

Ha più viso di predica che di testamento, fin qui.

NOTAIO.

...ora procuratore e suo compare, per porre in carta le infrascritte parole da lei dettate.

LURCO.

Or attendete, ché questo è 'l punto. O Pistofilo, dove siete? Questa a voi. Siete fuggito, eh? Or seguite, messer Nofrio.

NOTAIO.

Io confesso d'aver con isperanza di guadagno, ma sceleratamente, cambiata la figliuola di messer Bernardo Cattari raugeo (oimè, che cosa è questa!), al quale mandai la mia Cassandra, in vece della sua, quando egli mandò per lei a Vinegia. E poiché Dio mi abbia a perdonare il mio peccato, ho voluto rivelare questa verità con una scrittura simile a questa: pregando voi, signor Alberto mio compare, che la vogliate far avere a messer Bernardo, suo padre, fin a Raugia. Io lascio poi erede mia universale Cassandra, mia legittima e vera figliuola, che ora si trova nelle mani del suddetto messer Bernardo a Raugia.

LURCO.

O laccio, o laccio, aspettami pur ch'io vengo.

PATRIZIO.

Ove va egli con tanta furia costui? A 'mpiccarsi? Ha gittato il cappello in terra: è disperato ben daddovero. Oh gran caso! Oh gran caso!

NOTAIO.

Oh miracolo della bontà di Dio! Il quale non ha patito la dannazione d'un'anima, la perdita d'una figliuola e sì notabile inganno!

BERNARDO.

Oh stupendissimo caso! Nel quale io non so ben dire quel che ammirare si debba più, o la grandezza del fallo e 'nsieme del pentimento di Maddalena, o la costanza e fede di costei, nella quale ha potuto più amore e il vero che l'avarizia di venti mila ducati.

PATRIZIO.

O tu se' qui: io credeva che tu ti fussi andato a 'mpiccare, io.

LURCO.

Lasciatemi un po' vedere questa carta.

BERNARDO.

O Cassandra, figliuola mia, non ha potuto l'inganno altrui privarti di me, né di quel bene ch'apparecchiato t'aveva il cielo.

PATRIZIO.

Questo è bene il nuovo caso che si sentisse mai; e credo, certo, che chi mettesse insieme tutte le storie non trovarebbe tal cosa.

LURCO.

Egli è quello in effetto! Che possan esser arse quante femmine ha il mondo, acciocché se ne spenga il mal seme. Dovrò io dunque prender costei e farle rabbiosamente le spese? Venture che mi corrono dietro! Ma, per mia fè, tu t'inganni: va pur a trovar il tuo drudo, ch'io non ho pane da dare alle tue pari, io.

BERNARDO.

Non dubitare no, ch'io mi obbligo, così piacendo a lei, di condurla a Raugia.

NOTAIO.

Gentiluomini, io me n'andrò, serbando il testamento appresso di me, tra l'altre mie scritture, a beneficio di chiunque v'abbia interesse; facendovi anche sapere che le robe, lasciatemi in serbo dalla testatrice, sono in mia casa sane e salve, a requisizion dell'erede; rallegrandomi con tutti voi delle vostre consolazioni.

LURCO.

Il malanno che Dio ti dia! Se queste sono consolazioni per me, ne possi aver tu altrettante. Mi consolo che 'l pedante è nelle mie forze, dalle quali non si riscat- terà già egli senza pagarmi. Signori, poiché la fortuna mi ha condotto a questo termine, abbiatemi compassione, e siatemi cortesi in tante vostre consolazioni di qualche aiuto.

BERNARDO.

Or va, ch'io son contento donarti li dugento ducati che hai perduti.

LURCO.

Oh siate benedetto, padron mio caro, padron mio generoso! Io vo' veder se trovo Moschetta.

PATRIZIO.

E noi, messer Bernardo, è ben che ce n'andiamo in casa a confortare li nostri sposi, raccontando lor tutto 'l fatto.

BERNARDO.

Facciamo come vi piace. Ma vorrei pure saper di Nica.

PATRIZIO.

Oh non può stare a comparire essa ancora, quand'ella sappia che i rumori sien racchetati.

BERNARDO.

Andiamo, ché torneremo poi a cercarne.

SCENA OTTAVA

GRILLO, FLAVIO, NICA, LISCA

GRILLO.

Affè, che non mi scapperai questa volta.

FLAVIO.

Eh, per l'amor di Dio!

GRILLO.

Tenete'l, monna Nica, voi ancora; tenete'l forte, che non ci fugga.

FLAVIO.

Ah monna Nica!

NICA.

Che monna Nica? Spione: tu sai ben il mio nome, sì? To' questo, perché tu 'l sai. Dàlli Grillo, ch'egli è stato cagione di tutto 'l male, questo ribaldo: egli ci ha scoperti.

FLAVIO.

Scoperto io, sopra che? Deh, lasciatemi, che non v'ho fatto mai dispiacere.

GRILLO.

Fermati, se non ch'io ti pianto questo passerino nel seno, sai? Vecchio, non mi far adirare.

LISCA.

A tempo mi sono affacciata, ve'.

FLAVIO.

A un povero forastiero s'usano questi termini, eh?

GRILLO.

A gli spioni tuoi pari sì, e molto peggio ancora di questo.

LISCA.

Vo' ben esser a questa tresca ancora io, sì.

GRILLO.

Oh come a tempo tu ci venisti! Tiello ancora tu, Lisca, tiello ben fermo, ve'.

LISCA.

Aspettate pure, ch'io mi sciolga questo cintolino di gamba.

FLAVIO.

Orsù, eccomi, non vo' fuggire: che volete da me, che v'ho fatto? Prego Dio che mi faccia morire, se mai v'offesi, ch'io sappia. Eccomi a' vostri piedi.

NICA.

Che vuoi tu far, pazza?

LISCA.

Afferrarlo così nel collo, vedete.

GRILLO.

Non tirar: vuoi tu affogarlo?

FLAVIO.

Misero me! Uu uu: io vi domando misericordia.

GRILLO.

Che misericordia, ladrone, tu ci hai rovinati! Non può essere stato altri che tu, il quale andavi spiando tutto quello che facevamo.

FLAVIO.

Se questo è vero...

GRILLO.

Spione, traditore, io non vo' mancarti di fede. Promisi di pelargli il mento, non vo' mentire. Io te la vo' pelar quella barba, sì bene.

FLAVIO.

Ahi ahi!

GRILLO.

Tenetegli voi le mani.

FLAVIO.

Oh Dio! ohimè!

GRILLO.

Tutta ad un tratto te l'ho sterpata. O manigoldo, la barba posticcia, eh?

FLAVIO.

Io vi domando la vita.

NICA.

Fermati, Grillo, fermati. Oh meschina me, che veggio? Non se' tu Flavio?

FLAVIO.

Oh monna Nica, purtroppo io sono.

NICA.

O figliuol mio dolce, figliuol mio caro, perdonami delle offese che io t'ho fatte, perdonami, cuor mio; leva su.

LISCA.

Uh che bel giovane! Fui pur la gran bestia a non aprirgli la porta.

GRILLO.

Miracoli! È questo Flavio, monna Nica?

NICA.

Sì, Grillo, sì. E come vai tu in questi abiti sconosciuto? Perché non ti scoprire subito a noi?

GRILLO.

Vi domando perdono anch'io, Flavio: che se v'avessi conosciuto, Dio guardi...

FLAVIO.

Perdono a tutti, purché a me non mi si nieghi una grazia.

NICA.

Chiedi, che ogni cosa è tua.

FLAVIO.

Anche Cassandra?

NICA.

Pur quella è tua più che mai.

FLAVIO.

Oh se questo avessi saputo, Flavio felice!

LISCA.

Madonna, anch'io vorrei far la pace: io l'ho schernito, ben sapete.

NICA.

Sì, è dovere.

LISCA.

Ma voglio fare la buona pace, sapete?

NICA.

E qual è cotesta tua buona pace?

LISCA.

La pace di Marcone.

NICA.

E che sai tu di Marcone?

LISCA.

Ben sapete che la 'mparai da uno che mi diceva ch'ella era sì buona cosa.

GRILLO.

Sì, eh? Buon avviso!

NICA.

Non mandasti tu, Flavio, un tuo fante innanzi, due ore fa?

FLAVIO.

Io? Madonna no. Mi guardava da voi, per questo andava io così sconosciuto.

NICA.

Dio te 'l perdoni: e perché? Di cui temevi?

FLAVIO.

A bell'agio l'intenderete.

NICA.

Di cui fu dunque il fante che venne, Grillo?

GRILLO.

Che so io, che trasecolo a sentire sì strani accidenti?

NICA.

Orsù, andiamo a trovar Cassandra: oh novella!

FLAVIO.

Andiamo, ché ho bisogno di riposare: di sì santa ragione m'avete pesto.

NICA.

Poveretto! Andiamo. Tu resta, Grillo; e ricordati d'aver cura ch'io non vada prigione; che ci verresti tu ancora, sai?

GRILLO.

Lasciate 'l pensiero a me: sopra la mia parola siete tornata; con questa vita farovvi scudo.

FLAVIO.

Come prigione? E perché?

NICA.

Saprai tutta la storia: andiam pure.

GRILLO.

Questo povero giovane dovea certo temere, a quel che ne dice, d'esser caduto in odio a Cassandra, come avviene per lo più delle donne, le quali co 'l mutar di fortuna cangiano amore. Il pagherei del sangue a non l'avere sì mal trattato: ma sotto que' panni chi l'averebbe creduto Flavio? Io sto pur a pensare che domin può essere stato quel raugeo che mandò il fante. A me parve pur che dicesse ch'era di Flavio; o che sogno?

SCENA NONA

PATRIZIO, GRILLO, BERNARDO

PATRIZIO.

Oh quanto sono allegri que' nostri sposi, messer Bernardo! Si può dir più?

GRILLO.

(Bernardo, eh?).

BERNARDO.

Non vidi tal cosa mai d'allegrezza: Dio gli benedica.

PATRIZIO.

Santa deliberazione che fu la vostra a venir in qua.

BERNARDO.

E sapete ch'io stetti su quello di non venire?

GRILLO.

(Che sì, che questo è il padre di Cassandra: sta pur a vedere).

PATRIZIO.

In quale intrigo, senza la persona vostra, mi sare'io trovato! E chi l'avrebbe mai sviluppato, se non sol voi, questo gruppo?

BERNARDO.

Io non credetti già io mai d'incontrarmi in sì fatti accidenti, quand'io parti' da Raugia.

GRILLO.

(Raugia? Buon dì: questo fu il raugeo che mandò il fante, ve'. Noi siam disfatti).

PATRIZIO.

Considerate, di grazia, maraviglia di caso! Puossi egli dare maggior inganno, né più enorme ribalderia di quella ch'è stata ordita contra di noi? Cambiataci a voi già la figliuola, e a me, oggi, la nuora.

GRILLO.

(L'un cambio intendo, ma l'altro no).

PATRIZIO.

Dall'altra parte, si poteva egli far cambio né più giusto né più santo né più opportuno né più necessario di questo? Mediante il quale a voi è stata restituita quella figliuola che la malvagità della balia v'avea rubata, e a me quella nuora che giustamente mi si doveva?

GRILLO.

(To', to', ecco nuovo accidente! Oh giornata piena di maraviglia; ma spero ancora di gioia).

BERNARDO.

Messer Patrizio, io 'l dicea pur testé: questa nostra prudenza vede sì poco lunge, ch'io non so quello che dir ne debbia. Se non s'apriva oggi quel testamento di Maddalena, co 'l quale si è manifestato l'inganno, non sarebbe egli, senza alcun fallo, seguito il matrimonio della supposita? Or lascio pensar a voi quanti scandali ne potevan succedere.

GRILLO.

(Quel testamento nel quale Lurco sperava tanto, ve'. Oh che sento, oh che sento!).

BERNARDO.

Ma dove è Nica, che non la veggio?

PATRIZIO.

La povera femmina non si de' attentare di comparirvi davanti, or che la gravidezza di quella giovane, che tien per vostra figliuola, avete scoperta. E in verità, stante l'error seguito, il quale d'altra materia corregger non si poteva che occultandolo, non avrebbe ella potuto più saviamente portarsi; ond'ella è non solo scusabile, ma comendabile ancora.

BERNARDO.

Di lei non cerco per mal veruno, in verità, ma per sapere come sta il fatto. E però venga pure, ch'io la vedrò volontieri.

GRILLO.

(Oh sia lodato Dio!).

PATRIZIO.

Oh quanto bene, messer Bernardo! Andiamo dunque a confortar quella giovane, la quale, se condurrete a Raugia, come dianzi voi prometteste, sarà opera certo di carità.

GRILLO.

(Or è tempo). Signori, non m'abbiate per importuno, se interrompo i vostri ragionamenti, perciocché non intendo di dirvi altro che cosa di vostro comodo.

BERNARDO.

Chi è costui, messer Patrizio?

PATRIZIO.

Questi è Grillo, che sta nella medesima casa con Nica vostra; e serviva la buona memoria di madonna Ginevra, vostra sorella.

BERNARDO.

Che di' tu, valentuomo?

GRILLO.

Io giunsi testè di piazza, e stava per entrarmene in casa, quando mi parve udire la Signoria Vostra dir non so che di condurre la mia padrona a Raugia.

BERNARDO.

Qual è la tua padrona?

GRILLO.

Cassandra, che fu nipote di madonna Ginevra.

BERNARDO.

Be', che vuoi dire?

GRILLO.

Io vo' dire che, se io credessi di poter impetrar una sola grazia da voi, la fatica di tal condotta vi leverei.

BERNARDO.

Secondo che grazia. Io certo, se fare onestamente il potessi, assai volentieri di cotal imbarazzo mi sgraverei. Dimmi dunque che grazia è cotesta; e poi vedremo se ci possiamo accordare.

GRILLO.

La grazia è questa, che voi vi contentiate di perdonare a Flavio.

BERNARDO.

Che mi ha fatto in casa quel disonore? Cotesto è troppo, fratello.

GRILLO.

Altro disonore non v'ha egli fatto alla fine che di celatamente venirci, benché questo eziandio non è indegno di scusa. Del resto Cassandra era sua sposa prima che la toccasse.

BERNARDO.

A me coteste ciance non si danno ad intender, fratello.

PATRIZIO.

Orsù, messer Bernardo, nelle comuni nostre allegrezze sarebbe troppo disdicevole cosa che altri fosse lieto e altri dolente.

BERNARDO.

Oh egli non è qui; e però non può esser partecipe delle nostre consolazioni.

PATRIZIO.

Sarà ben la sua sposa partecipe e dolente dello sdegno che mostrate di lui. Orsù, messer Bernardo, per amor mio, voglio che voi gli perdoniate; non dite altro.

BERNARDO.

A Raugia prometto di perdonargli.

GRILLO.

E non qui?

BERNARDO.

Oh se e' non c'è.

GRILLO.

E se e' ci fosse, e ve 'l domandasse?

PATRIZIO.

Su allegramente, messer Bernardo, non ci pensate: non gli perdonereste? Sì, sì. Di grazia, non ce 'l negate più lungamente.

BERNARDO.

Orsù, vi dico, che s'e' ci fosse e mi chiedesse perdono, l'impetrerebbe.

GRILLO.

Or Flavio è in quella casa; e chiederavvi umilmente mille perdoni.

PATRIZIO.

Di' tu vero?

GRILLO.

Verissimo.

PATRIZIO.

E quando venne?

GRILLO.

Tutto saprete: io vo a darne la nuova a Flavio.

BERNARDO.

Assai dunque fia consolata Cassandra, senza l'opera mia. Se Flavio verrà in casa vostra, messer Patrizio, e chiederammi il perdono, per amor vostro no 'l negherò.

SCENA DECIMA

MOSCHETTA, LURCO, PATRIZIO, BERNARDO

MOSCHETTA.

Lurco, tu sei a nulla, se credi di trarglimi dalle mani.

LURCO.

E perché, son eglino tuoi?

MOSCHETTA.

Ecco 'l padrone, che ne sia 'l giudice. Oh signori, di grazia contentatevi d'ascoltarci.

PATRIZIO.

Oh, oh, buone pezze. A quest'ora tu torni, eh?

BERNARDO.

Chi è colui che ci chiama, messer Patrizio?

PATRIZIO.

Egli è un mio fante, o furfante, come volete.

MOSCHETTA.

Primieramente io mi rallegro delle vostre consolazioni, signori, e delle maraviglie che Lurco mi ha testé raccontate; né vi chieggio perdono, perciocché io pretendo, anzi, di meritare grossa mercede, essendo io stato autore di quel cambio che vi ha fatto venir in luce del vero. Ma che diss'io, cambio? Cambio sarebbe stato, se altrimenti fatto si fosse: perciocché io, con la mia industria, vi ho quella giovane messa in casa, che legittima vostra nuora doveva essere. Né di tal beneficio altra mercede intendo di conseguire se non che ascoltiate le mie ragioni, e mi facciate giustizia.

PATRIZIO.

Con chi l'hai tu?

MOSCHETTA.

Con cotestui.

PATRIZIO.

Non saprei dire qual di voi fosse peggio abbattuto.

MOSCHETTA.

Or il vedremo. Questi sono li dugento ducati che promise il pedante a costui...

PATRIZIO.

Memoria nobilissima delle vostre ribalderie!

MOSCHETTA.

... per lo prezzo della figliastra. E per ingannar il pedante, gli fu messa in camera un'altra femmina, acciocché con essa, in vece di Gostanza, si trastullasse.

PATRIZIO.

Oh ghiottoni!

MOSCHETTA.

Ora, mentre il pedante stava sulle dolcezze, la ladroncella gli trasse della tasca i danari che dovevan esser pagati a Lurco.

BERNARDO.

Ah, ah, ah: oh che tresca solenne! e così ella gl'ingannò amenduni.

MOSCHETTA.

Or se io non l'avessi trovata e toltogli i danari, la ribalda se gli sarebbe portati via; né costui era già egli per riavergli mai più, che s'ella fosse giunta a Vinegia, dov'era incamminata, cercala tu! Di questi dunque, come di cosa senza speranza alcuna da lui perduta e da me con fatica grandissima guadagnata, intendo d'esser giusto e legittimo possessore. E per tale vi prego che dichiarare voi mi vogliate.

PATRIZIO.

A questo che di' tu, Lurco?

LURCO.

Io dico, primieramente, non esser vero che costui s'inducesse a fare il cambio per carità; fecelo per vendetta, non avendo la Signoria Vostra voluto empiergli il ventre d'alcune robe che e' condusse di villa.

PATRIZIO.

Oh manigoldo! Sarai tu mai satollo?

MOSCHETTA.

Non è vero, padrone, lasciatel dire.

LURCO.

Signor sì. Dico, poi, che que' danari son miei, come quelli che furono a me promessi, numerati e ubbligati per patto espresso. E finalmente che costui non è stato solo a ricoverargli: perciocché, se non ci fossi sopraggiunto io per soccorso, non era uomo mai per avergli, sì fortemente si difendeva colei!

MOSCHETTA.

Messer no: che quando tu ci venisti, io già gli aveva ricoverati.

PATRIZIO.

Sapete che io vi vo' dire? Meritereste ambidue di maritar una forca, ghiottoni.

MOSCHETTA.

Lurco, se questa è la sentenza, cedo alla causa, e a te la rinunzio.

BERNARDO.

Dimmi tu, Lurco, non t'ho promesso io di donare dugento ducati?

LURCO.

Signor sì.

PATRIZIO.

Dunque non ti contenti, ché anche vorresti gli altri?

LURCO.

Voleva tenergli in serbo, finché questo cortese gentiluomo m'avesse dati i promessi.

MOSCHETTA.

In serbo, eh? Buona detta, e miglior coscienza per certo.

PATRIZIO.

Da' qua tu que' danari, Moschetta.

MOSCHETTA.

Eccogli.

PATRIZIO.

Lurco.

MOSCHETTA.

Padrone, se voi glieli date, ci ammazzeremo, ve 'l dico io.

PATRIZIO.

Lurco, dov'è il pedante?

LURCO.

In casa mia.

PATRIZIO.

Va per lui. Quanti sono, Moschetta? Io gli vo' annoverare.

MOSCHETTA.

Settantatré pezzi d'oro vorrebbon essere.

PATRIZIO.

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, diece...

MOSCHETTA.

Non credo che ce ne manchi pur uno.

BERNARDO.

Doveva esser ancor egli innamorato, il pedante, eh?

MOSCHETTA.

Signor sì. Se voi vedeste che ceffo, che mostaccio, che figura d'innamorato, ne stupireste.

BERNARDO.

O pover'uomo! Egli sonava, e altri faceva la danza.

PATRIZIO.

Tutti ci sono, appunto.

SCENA UNDICESIMA

LURCO, ZENOBIO, PATRIZIO, BERNARDO, MOSCHETTA

LURCO.

Non abbiate vergogna, messer lo sposo; venite.

ZENOBIO.

O Lurco, che cosa mi fai tu fare? Il mio decoro è prostituto.

LURCO.

Bisogna ben che vegniate, se volete i vostri danari.

ZENOBIO.

I mie danari? Eh, tu mi beffi.

LURCO.

No certo.

ZENOBIO.

Chi mai gli tolse? Gostanza? Per farmi una beffa, eh? Vengo, vengo.

LURCO.

Signori, ecce.

ZENOBIO.

Non vi maravigliate, gentiluomini, di vedere un par mio in questi panni: perciocché omnia vincit Amor. Ricordatevi che una femmina fece filare quel domator de' mostri terribile.

BERNARDO.

Questo è un pedante? Mi par un burattino a me.

MOSCHETTA.

Messer Zenobio, che abito è cotesto? O pover uomo, il troppo studio gli ha levato il cervello.

PATRIZIO.

Orsù, pazzarone, lascialo stare. Messere, ecco i vostri danari. Imparate di attendere a' vostri fancíulli, e lasciate star le femmine, che non fanno pe' pari vostri.

ZENOBIO.

O manus vere aurea, quam ego reverenter et merito te deosculor! Tibi vero, undequaque praestantissime vir patritie, ex patritia vere genite gente, quamquam ingenioli mei vires...

BERNARDO.

Messer Patrizio, io so come son fatti questi pedanti, quando danno nel pecoreccio. E' ci terrà quel poco qui a disagio.

ZENOBIO.

Quamquam (dico) ingenioli mei vires...

PATRIZIO.

Non v'affaticate, messer Zenobio, ch'io sono assai sicuro dell'eloquenza e gratitudine vostra.

ZENOBIO.

Deh, signore, lasciatemi fare il debito mio. Quamquam ingenioli mei vires...

LURCO.

E' non sa andar più innanzi, per quel ch'io veggio. Credo che sarà molto meglio, messer Zenobio, che voi facciate un di que' vostri bellissimi sonetti in laude della Sua Signoria.

ZENOBIO.

Credi tu, Lurco?

PATRIZIO.

Sì, dice il vero. A me certo sarà più caro, messer Zenobio.

ZENOBIO.

Con la coda, eh?

LURCO.

Sì, con la coda.

ZENOBIO.

Poiché così vi piace, farollo elegantissimo. Valete.

PATRIZIO.

In buonora, messer Zenobio. Se Lurco non ce ne liberava, guai a noi.

BERNARDO.

Lurco, vientene meco in casa, ch'io ti farò la polizza de' dugento ducati, i quali subito avrai su 'l banco de' Quirini a Vinegia.

LURCO.

E io di nuovo ve ne rendo grazie infinite, padron mio caro e dabbene.

PATRIZIO.

E tu, Moschetta, poiché quel cipriotto non mi ha mandati i danari di quelle robe che dianzi conducesti di villa, va per esse alla barca e falle portar a casa, ché c'è ben tanto ancora di giorno che potrai farlo: perciocché voglio che noi facciamo, doman da sera, un solennissimo convito, insieme con ambedue le spose e gli sposi, e che tu possa satollarti a tuo modo. Andiamo, messer Bernardo.

MOSCHETTA.

Oh questo sì ch'è un miracolo il più stupendo di quanti oggi n'abbiam veduti! Oh Moschetta felice! Spettatori, il resto delle nostre allegrezze si farà dentro. Bastivi di sapere che la favola nostra ci abbia fatti tutti contenti. E se voi siete così contenti, e di lei e di noi, datecene, vi preghiamo, il vostro cortesissimo e lieto segno.

FINE