La lontana parente

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LA LONTANA PARENTE

Commedia in tre atti

Di ELIGIO POSSENTI

PERSONAGGI

ORTENSIA FIORINI

RINALDO FRAZZI

ASTOLFO CERRATI

MIRELLA CERRATI

SAVINA CERRATI

RENATA CERRATI

LA SIGNORA GINEVRA

LUI

LEI

LA CAMERIERA DELLA PENSIONE

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Un salotto illuminato a luce tenue che, in fondo, fa corpo con la sala da pranzo alla quale si ac­cede per un arco a vetrata scorrevole.

 (Quando si alza il sipario la vetrata è chiusa. Attraverso la vetrata, nella piena luce della sala da pranzo, si vedono seduti a tavola Astolfo Cerrati, Renata          - (sua moglie), Mirella e Savina (loro figlie) e Rinaldo Frazzi (fidanzato di Mirella). Nel salotto è aperta la radio che trasmette una lan­guida canzonetta. Dopo un momento)

Mirella                             - (si alza di scatto, s'avvicina alla vetrata, l'apre, entra in scena furente e si lascia cadere su una poltrona).

Savina                              - (la segue, chiude la vetrata e la raggiun­ge) Calmati, Mirella.

Mirella                             - (con voce sorda) Non ne posso più! Non posso più rimanere di là, a tavola, con lui.

Savina                              - Non fare così.

Mirella                             - (gridando) Dimmelo tu come ho da fare! Trattarmi a quel modo!

Savina                              - Non gridare...

Mirella                             - (a voce più bassa) Ma non l'hai vi­sto? Se gli parlo, risponde a monosillabi; sì, no. Ha qualche cosa contro di me? Lo dica.

 Savina                             - Non ti esaltare così. Su, torna di là.

Mirella                             - No. Non ci torno. Non mi ha mai rivolto la parola. Se fosse la prima volta potrei pensare a un malumore. Ma sono ormai quindici giorni: ora basta! Anche dianzi si è ben accorto in che modo mi sono alzata e sono venuta via. S'è mosso? Mi ha chiamata? Mi ha seguita? Tu, mi hai seguita.

Savina                              - Per impedirti di fare sciocchezze. E' un dovere di sorella maggiore.

Mirella                             - Tre mesi di fidanzamento, di idillio e poi, d'un tratto... Lo sa il diavolo chi ci ha messo il veleno!-.. E lui, Rinaldo, per me è tutto, capisci? Tutto. Se lo dovessi perdere... se lo dovessi per­dere... (Le si inumidiscono gli occhi).

Savina                              - Su, su, non piangere, non far scene.

Mirella                             - (si asciuga gli occhi) Di rabbia, pian­go, di rabbia... (Altro tono) E poi no! Niente la­grime. (Si sforza di ridere) Ah, ah, ah!

Astolfo                            - (entra dalla vetrata, la chiude e dà piena luce) Oh, manco male... ti è passata! Ri­naldo è lunatico, ecco tutto. Non è vero Savina?

Savina                              - Glielo sto dicendo!

Mirella                             - Tu papà, quando- non si tratta dei tuoi affari, fai tutto facile mentre proprio tu gli dovresti chiedere...

Astolfo                            - Io? Fossi matto. Alla larga. Tua madre, piuttosto; guarda... (Indica oltre la vetrata) Porse gliene sta parlando. Torniamo di là.

Mirella                             - No. Dite che ho l'emicrania, ditegli quel che volete. Vado in camera mia.

Astolfo                            - (con autorità) Obbedisci! Vieni di là!

Mirella                             - (forte) No! (Sillabando) Vo-glìo-che-si-spieghi!

Astolfo                            - (a Renata che entra seguita da Rinaldo) Bada un po' a tua figlia: sragiona!

Renata                             - (sedendo) Che hai, Mirella?

Mirella                             - Rinaldo col suo contegno mi offende, mi esaspera, finora ho sopportato; adesso non più. Che si spiegali!

Astolfo                            - Dinanzi a tutti?

Mirella                             - Sì, dinanzi a tutti! Ha qualche cosa da rimproverarmi?! Parli, accusi, mi difenderò.

Astolfo                            - Uh, che tragedia mi fai! (A Rinaldo) Scusala, stasera è nervosa.

Savina                              - Mirella, ti prego.

Mirella                             - Si spieghi, si spieghi!

Renata                             - Non ti riconosco più. Sembri un'altra.

Mirella                             - Sono un'altra. Ma chi mi ha cam­biata? Lui. (A Rinaldo) Ma me lo vuoi dire una buona volta che cos'hai?

Astolfo                            - (a Renata) Andiamocene Renata: è meglio se la sbrighino a quattr'occhi. Baruffe di fidanzati. Vieni, Renata.

Renata                             - (si alza).

Mirella                             - No! (Perentoria) Restate tutti quanti. Sedete! (Tutti siedono) A lui, ora. Che parli!

Rinaldo                            - (a Renata) Posso, devo parlare?

Astolfo                            - Perché tu sai?...

Mirella                             - (a Renata) Mamma, tu sai e non mi dici nulla?!

Renata                             - (a Mirella) Sì, so; e se ho taciuto, l'ho fatto per te. (A Rinaldo) Oramai puoi par­lare.

Rinaldo                            - Ebbene, Mirella, poiché lo vuoi, io son costretto ad essere franco e magari rude... Sì, è vero, non è più come prima. Qualcosa s'è spento, si è trasformato. Una tenerezza affettuosa ha preso il posto del sentimento che mi aveva deciso a chiederti in moglie. E mi tormentavo. Co­me dirtelo? Ne ho parlato a tua madre, le ho dichiarato lealmente che non potevo continuare a fingere quel che prima era vero. Lei mi ha pre­gato, supplicato di non comunicartelo bruscamen­te, di prepararti a poco a poco, di fare in modo che il distacco fosse lento; che in te, chi sa, que­sta mia freddezza suscitasse dispetto, antipatia.-. Volevamo evitarti una scossa... Ma tu hai preci­pitato le cose... o io non ho saputo fare... E adesso, vedi!...

Mirella                             - Tutte fandonie! Non ti credo una sillaba.

Astolfo                            - (a Renata) E tu Renata sapevi, e hai taciuto? Mi meraviglio- Con lei, con Mirella, capisco- ma con me...

Renata                             - Con te? Non mi avresti ascoltata. Di me, delle figliole, non ti sei mai occupato. Hai gua­dagnato molto, guadagni ancora di più, ci mantie­ni il necessario ed il superfluo, ci hai dato questa casa che ha più camere di un albergo; ma per il resto, io, loro, come non esistessimo. Mi hai sem­pre detto: le figlie, tua parrocchia.

Astolfo                            - Ma mi dovevi informare! Perdinci, la rottura di un fidanzamento riguarda anche gli interessi. Almeno per questi, no? Ma dice bene Mirella. (A Rinaldo) La ragione, la ragione; avanti, fuori!

 Rinaldo                           - (imbarazzato) L'ho detta; forse male, ma l'ho detta.

Mirella                             - E allora se ne vada. Ci tolga il di­sturbo!

Rinaldo                            - (a Renata) Signora...

Mirella                             - Via, via!

Rinaldo                            - (a Renata) Io ho fatto di tutto per evitare... Ma dal momento che... Sono costretto ad andarmene. Ma non io ho precipitato le cose! Buo­nasera. (Esce).

Mirella                             - (nervosissima) Ma non finisce così! Ah, no no no! (Passeggia per la scena) Oh; la saprò la vera ragione. Metterò sossopra mezzo mondo, ma la saprò. (Una pausa, poi, sempre passeggiando) Ringraziando Dio, ho chi mi aiuta.

Renata                             - E chi mai, figliola?

Mirella                             - (sempre passeggiando trionfante) Co­me ho fatto bene a scrivere a Ortensia Fiorini!

Astolfo                            - (scattando) A chi? A chi hai scritto?

Mirella                             - (naturale) A Ortensia Fiorini.

Renata                             - Sei riuscita a rintracciarla?

Astolfo                            - Ma chi mai ti ha parlato di quella disgraziata?

Mirella                             - (naturale) La mamma.

Astolfo                            - (irritato, a Renata) Brava, bravis­sima! Domando io che cervello!

Savina                              - Mirella si disperava di non aver ohi l'aiutasse... Lei esagera sempre...

Mirella                             - Nessuno: non un parente perché voi siete gli ultimi della famiglia; non un amico fidato perché (ad Astolfo) tu non hai ammesso alcuno per casa. Ci hai voluti misantropi, orsi!

Astolfo                            - E' tua madre che ci ha ridotti così.

Renata                             - Non è vero. Sei sempre stato tu a dire che gli amici vengono, si rimpinzano, e poi digeriscono sparlando di chi li ha nutriti.

Mirella                             - E io a chi 'dovevo rivolgermi? A un avvocato? Le cose di famiglia hanno da rimanere in famiglia. La mamma è uscita a dire: «Ma sì, una parente, una lontana parente, l'abbiamo: Or­tensia Fiorini; cugina di cugini; ma chi sa dov'è! »

Astolfo                            - Per l'amor di Dio! Lasciamola al suo destino!

Renata                             - Io l'ho detto così, tanto per dire.

Astolfo                            - Ma non ricordi che è stata la ver­gogna della famiglia? Ortensia Fiorini è il suo nome di battaglia; lei si chiama Adele Valenti, ed è ve­dova di Carlo Nelli, uno sciagurato anche lui.

Renata                             - Io non l'ho mai veduta. So che in casa tua ci veniva.

Astolfo                            - Sì, ma poi abbiamo chiuso la porta sul muso a lei e a suo marito. Né l'abbiamo più vista.

Mirella                             - (vantandosi) Io l'ho trovata.

Astolfo                            - E dove?

Mirella                             - In una rivista turistica. Dal parruc­chiere. Aspettavo, sfogliavo e, nell'elenco degli ospiti dei Grande Albergo Miramare a San Remo, ho scoperto il suo nome: Ortensia Fiorini. E il risen­timento, la stizza, il bisogno d'aver qualcuno ac­canto che mi soccorresse, mi hanno suggerito que­sta idea. Bizzarra? Può darsi; ma in certi momenti non si riflette. E poi, lo sapete, io e la riflessione, mai andati d'accordo. E le ho scritto!

Astolfo                            - Sei matta?

Renata                             - Sempre la stessa sventata.

Mirella                             - (quasi divertendosi) Un espresso.

Astolfo                            - La fluisci di dire assurdità?

Mirella                             - E l'ho pregata, scongiurata di aiu­tarmi. Ho chiuso la lettera con queste parole: « Sé non mi aiuta mi sparo ».

Astolfo                            - (a Renata) La senti? Son cose da pazzi! (A Mirella) Quando le hai scritto?

Mirella                             - Una settimana fa.

Savina                              - E ti ha risposto?

Mirella                             - Neanche una riga.

Astolfo                            - (soddisfatto) Ah, volevo ben dire!

Mirella                             - (trionfante) Ma è venuta.

Renata                             - Venuta?

Astolfo                            - Qui?!

Savina                              - Quando?

Mirella                             - Da un'ora. Le ho dato una camera. Si sta riposando. Ha viaggiato a lungo e male.

Astolfo                            - Sarà venuta a piedi, da stracciona.

Renata                             - Se era in un grande albergo!

Astolfo                            - Non vuol dire. Vivrà alla giornata. Ricca al lunedì, stracciona al sabato. (A Mirella) E adesso, quieta quieta, la rimandi via. La nostra è una famiglia onorata. Non ci si può mescolare con gente di quella risma. (Accalorandosi) Perdin­ci, ma è mai possibile che tu scriva, inviti, riceva una persona che non conosci, senza nemmeno chie­dermi il permesso? Il capo di casa sono io!... (Altro tono) E poi non ti credo, macché!... E' una inven­zione. E io ho abboccato. (Ride).

Mirella                             - Allora la faccio scendere. (Preme il campanello) Due colpi e vedrai che compare. Ho tutto combinato. Ai due colpi Lisetta corre a chia­marla.

Astolfo                            - Non la voglio vedere. (Si avvia; a Mi­rella) Con te faremo i 'conti dopo. (Esce furioso) Me ne vado!

Renata                             - Ma che hai fatto?

Savina                              - Uno dei suoi colpi di testa; non è il primo, vero mamma? (A Mirella) Hai sentito il babbo?

Mirella                             - L'ho sentito; ma i conti, io, ho da farli con Rinaldo. Voglio sapere perché ha mentito.

Savina                              - Oh, mentito poi! A me pare sia stato leale.

Mirella                             - Appunto per quella lealtà. Nessuno dice a una donna, a una fidanzata: « Ti lascio perché non ti amo più». Dice qualunque cosa, una bugia, una falsità; mai una verità simile, quando è la verità. Ha mentito!

 Ortensia                          - (entra. E' una donna sulla cinquan­tina, forse più forse meno, indossa un impermea­bile di gabardine chiaro e logoro e ha in capo un fazzoletto colorato. Atteggiamento e aspetto di­messi. Si ferma sulla soglia) Si può?

Renata                             - (cortese) Avanti, venga avanti, prego...

Ortensia                           - (fa timidamente un passo avanti e sor­ride) Grazie, ma non vorrei disturbare-

Renata                             - Ho piacere di conoscerla. (Presentan­do) Queste sono le mie figliole.

Ortensia                           - Io non ho portato le mie perché non ne ho.

Renata                             - Ero curiosa di vedere questa nostra lontana parente.

Ortensia                           - E adesso è soddisfatta? O vuol ve­dermi meglio? (Si rigira su se stessa).

Renata                             - Benvenuta in casa mia.

Ortensia                           - Venuta, sì; ben, vedremo dopo. Del resto io, di mia iniziativa non ci avrei mai messo piede- Detesto i parenti. Ma la lettera, qui, della signorina non è di una parente, è di una naufraga. Pare scritta in alto mare, a bordo d'una zattera. E io credo alle parole dei naufraghi. Sono le sole sincere.

Savina                              - Si vuol togliere il soprabito?

Ortensia                           - No; ancora no. Voglio dire che me lo leverò quando sarò ben certa di rimanere qui. E' meglio essere chiari subito. Io... non sono la vostra lontana parente. Io seno sì Ortensia Fiorini, ma semplicemente una omonima. Ecco: mi tro­vavo anch'io all'Albergo Miramare di San Remo co­me la signora Ortensia Fiorini; ma lei c'era come cliente, io come guardarobiera. I miei compagni, cameriere, camerieri, su questa omonimia ci scher­zavano. Quando giunse la lettera della signorina, lei, la vostra parente, era già partita. Ormai la stagione era finita e anch'io stavo per andarmene-I miei colleghi mi consigliarono di aprirla. Busta azzurra, indirizzo: Ortensia Fiorini: non signora, né altro. Espresso. Poteva ben essere diretta a me. L'aprii e lessi: frasi commoventi, disperate. I miei colleghi volevano sapere, ma io niente... Segreto epistolare. E partii. Pensai: sono disoccupata, quella signorina, chi sa, mi aiuterà. Lo so, sì, è lei che cercava aiuto; ma il caso rovescia molte si­tuazioni, ed eccomi qui. (Si guarda attorno) Vedo che son cascata bene. Ambiente facoltoso. Mobilia di pregio. Agiatezza. Abbondanza. Molto bene-! (Una piccola pausa) E allora - (eseguendo) via questo im­permeabile, via questo fazzoletto; posso mostrarmi nel mio abito da sera. Eh? Sto meglio così? Sembro ancora giovine no? Dopo tanti anni temevo... Quan­do si ricorre d'urgenza a un lontano parente - (e accende la sigaretta) è quasi sempre per bussare a denari. Qui, questo pericolo non c'è. Me ne com­piaccio con voi; e anche con mie. Su su, spianate quelle facce. Sono proprio Ortensia Fiorini. Ah, perché ho raccontato quella storia dell'omonimia? Non ci badate: lavorare di fantasia è una mia specialità. Oh, ma non dico mai bugie; se mai colorisco. La bugia è la difesa dei deboli. E io... Oh, guarda Astolfo.

Astolfo                            - (entra, ostile) Tò, chi si rivede!

Ortensia                           - Avete sentito? Mi ha riconosciuta. Ma non gli fa piacere di rivedermi.

Astolfo                            - Come hai passato tutto questo tempo?

Ortensia                           - Ho viaggiato. Transatlantici e treni di lusso. Da signorona.

Astolfo                            - Con biglietto o senza biglietto?

Ortensia                           - Con biglietto di prima classe.

Astolfo                            - Chi hai incontrato? Un maragià?

Ortensia                           - Bravo! Hai indovinato. E sai che cosa facevo alla sua corte? Addomesticavo gli ele­fanti bianchi.

Astolfo                            - E tutti questi anni, sempre tra le proboscidi?...

Ortensia                           - No, no; un giorno mi son seccata dell'Asia e ho mutato continente: America.

Astolfo                            - Ah, ah, gola di dollari.

Ortensia                           - Non del Nord; del Sud.

Astolfo                            - «Pesos». Gioia di « pesos ». Quanti?

Ortensia                           - A sacchi. (Spiegando) Mi sono an­che accasata.

Astolfo                            - (stupito)   - Ti sei rimaritata?

Ortensia                           - Perché? E' proibito?

Astolfo                            - Mi sono sorpreso, ecco. Dunque, se­conde nozze.

Ortensia                           - Sì e no. Nozze e non nozze-

Astolfo                            - Ho capito. E con chi?

Ortensia                           - Ma!... Con un argentino. Ballava così bene il tango...

Astolfo                            - Che hai fatto coppia al Varietà.

Ortensia                           - Coppia sì, ma non sul teatro; nelle Pampas. Possedeva una magnifica «agenda » ar­menti superbi. (Nostalgica) Le notti di luna si bal­lava sulla prateria... Ballavano tutti; i «gauchos» suonavano le fisarmoniche, le ragazze s'abbando­navano al ritmo, e i cavalli, legati a un palo, ni­trivano. Una scena così dolce che pareva sognata. Un incanto!

Savina                              - Molto ricco anche lui?

Ortensia                           - A migliaia di buoi. Ne aveva tanti che cinque ragionieri non bastavano per contarli tutti.

Astolfo                            - E sta sempre con te?

Ortensia                           - No (Con un sospiro) E' scomparso.

Renata                             - Morto?

Ortensia                           - Non credo. Porse è vivo. E' magari più vivo di noi. Noi siamo vivi? Mah! Chi ce lo può assicurare?... Un giorno è partito in aereo per Rio de Janeiro. Più rivisto. Ohi sa, un incidente... povero Alonzo! Be', non ne parliamo.

Mirella                             - E lei?

Ortensia                           - L'ho aspettato tre giorni, poi me ne sono venuta via.

Mirella                             - Nessuna traccia?

Ortensia                           - Nessuna.

Renata                             - Chissà quante ricerche?

Ortensia                           - Può immaginare! Mi sono rivolta persino a una chiromante.

Savina                              - E da quando è rimpatriata?

Ortensia                           - Mah! Facciamo un lustro.

Renata                             - E in un lustro, come dice lei, non le è mai venuto in mente che noi?...

Ortensia                           - Altro che. Ci ho pensato più volte di farvi un'improvvisata. Ma... ha visto l'accoglien­za di Astolfo? I parenti, quando non ci sono, si vorrebbero vicini, ma quando ci sono si mandereb­bero lontani.

Mirella                             - Non badi al babbo.

Astolfo                            - Come, non badi?

Mirella                             - Voglio dire, che non si offenda.

Astolfo                            - Io la offendo? Me ne guardo bene.

Ortensia                           - (a Mirella) Ad ogni modo, io son qui per te, Mirella - tra parenti ci si dà del tu non per lui. Ma bisogna che ci parliamo da sola a sola. Che si fa con tanta gente? Un comizio?

Mirella                             - Si va in camera mia.

Renata                             - Oh, restate pure qua. Ci ritiriamo noi-(Si avvia).

Astolfo                            - (a Mirella) Noi andiamo di là, ma non durerà molto questa storia, vedrai. (Esce).

Mirella                             - (a Renata) Scusami mamma, tu mi capisci...

Renata                             - (si ferma) Tutte le volte che vuoi fare i comodi tuoi mi dici di capirti. Invece non ti ca­pisco, ma cedo sempre ai tuoi capricci. Questo è il mio torto! (Esce, seguita da Savina).

Mirella                             - Eccoci sole. (Scrolla le spalle; poi a Ortensia) Grazie, Ortensia! Grazie!... (Le prende le mani) Come ti sono riconoscente.

Ortensia                           - Aspetta dopo a ringraziarmi.

Mirella                             - Mi pare già così generoso quello che lei ha fatto.

Ortensia                           - Niente « lei » ; tu.

Mirella                             - Quello che hai fatto.

Ortensia                           - Non ammirarmi troppo. Quando si fa qualcosa per un altro, sotto sotto, c'è sempre un vantaggio, proprio- La generosità è più pelosa della carità. Insomma ho le mie ragioni.

Mirella                             - Tanto meglio per me.

Ortensia                           - Devo dirti subito che il tuo fidan­zato è uno stupido. Perché con una ragazza come te, con questo faccino e questa personcina... E' uno stupido. Quanti anni ha?

Mirella                             - Ventitré. .

Ortensia :                         - Come si chiama?

Mirella                             - Rinaldo Frazzi.

Ortensia                           - Uhm! E' un nome che non dice nulla.

Mirella                             - Alla sua età non diceva nulla anche il nome di Cristoforo Colombo.

Ortensia                           - Bel giovane?

Mirella                             - A me piace.

Ortensia                           - L'uomo ha sempre il volto che gli dà la la donna. Dove l'hai conosciuto?

Mirella                             - A Viareggio, due anni fa. Noi si passa sempre l'estate a Viareggio. L'estate scorsa non è venuto e io ci ho molto sofferto. Quando son tornata in città l'ho cercato- Ci siamo rivisti. An­che lui aveva sofferto come me. E, così, ci siamo intesi.

Ortensia                           - Amore romantico! Brava! E... è ben fornito?

Mirella                             - Sì, fornitissimo.

Ortensia                           - Be', questo non guasta la poesia.

Mirella                             - (spiegando) E' orfano e quindi è già in possesso della sostanza paterna.

Ortensia                           - Allora, quanto a Quattrini andiamo bene. Ma quanto a fosforo?

Mirella                             - Ce n'ha da metter fabbrica di fiam­miferi.

Ortensia                           - Allora gli vuoi proprio bene. Si crede sempre un genio l'uomo che ci ha toccato il cuore. Solo quando non lo si ama più lo si vede nella sua giusta statura: un nano come gli altri che si affanna a parere un gigante. E che cosa fa?

Mirella                             - Ha una professione non tanto co­mune.

Ortensia                           - Meglio. Cos'è? Un filosofo?

Mirella                             - No, no. Veterinario.

Ortensia                           - Ah, manco male!

Mirella                             - Non ti va?

Ortensia                           - Anzi, lo invidio: tratta solo con le bestie.

Mirella                             - Non credere che... Lui, solo bestie di lusso.

Ortensia                           - Ma sempre bestie. Cos'è? Uno spe­cialista?

Mirella                             - Sì, di cavalli.

Ortensia                           - (ammirativa) Ah, un primario delle scuderie.

Mirella                             - (vantando) Ma da corsa. Cura i ca­valli da corsa.

Ortensia                           - Oh, oh, clientela aristocratica!

Mirella                             - (c.s..) Ha già una bella fama.

Ortensia                           - Tra i purosangue? Bene. E tu sei pro­prio innamorata?

Mirella                             - Da morirne.

Ortensia                           - E lui si comporta sempre male come mi hai scritto?

Mirella                             - Peggio, molto peggio. Stasera mi ha lasciata.

Ortensia                           - Cosa?!

Mirella                             - Me l'ha detto dianzi.

Ortensia                           - Ma in che modo?

Mirella                             - Con un pretesto. Dice che non mi ama più... E io non voglio perderlo... E poi è un impostore!

Ortensia                           - Tu vuoi sposare un impostore?

Mirella                             - Senza di lui non posso vivere.

 Ortensia                          - Ma pensa a quante donne ne vivono senza.

Mirella                             - Perché non lo conoscono.

Ortensia                           - E tu credi di conoscerlo?

Mirella                             - Ne sono certa-

Ortensia                           - Ah, sì? E allora dimmi: che ca­rattere ha?

Mirella                             - Un carattere... Non so come dire... Ecco... chiuso... riservato1.

Ortensia                           - Ahi, ahi, chi. chiude nasconde.

Mirella                             - A te piace il carattere aperto?

Ortensia                           - Sempre più degli altri.

Mirella                             - Quello chiuso è più serio.

Ortensia                           - Verissimo, ma quello aperto è più sincero.

Mirella                             - Io preferisco quello chiuso: invita alla confidenza.

Ortensia                           - Ma non la ricambia.

Mirella                             - (a scusarlo) E' fatto' cosi-

Ortensia                           - Né io glielo rimprovero. Dico che con un carattere simile è più difficile capirci qual­che cosa. E quando hai cominciato a notare che gli frullavano i grilli?

Mirella                             - Da non molto. Prima non ci volevo credere, poi mi sono offesa; stasera gli ho detto quello che si meritava e lui se n'è andato.

Ortensia                           - Sai quel che avrei fatto io al posto tuo? Gli avrei aperto l'uscio. Credi a me: un uomo che se ne va spontaneamente, compensa di tutti quelli che si vorrebbero mandar via e non se ne vogliono andare. Invece tu ti disperi. Patti cuore, e lasciami fare.

Mirella                             - Me lo ricondurrai presto?

Ortensia                           - Mi proverò... Non è mica facile.

Mirella                             - Voglio sapere la vera ragione.

Ortensia                           - Tutto lì?

Mirella                             - Tutto qui!

Ortensia                           - Dici niente, cara. Ma tenterò. In­tanto bisognerà che gli parli.

 Mirella                            - Tu vorresti addirittura?...

Ortensia                           - Come faccio a venirne a capo se non gli parlo? Ah, sorvegliarlo, pedinarlo, vigilargli il telefono, la posta... Troppo: complicato- Dove abita?

Mirella                             - Alla Pensione Aurora, in via Rosari, num. 14.

Ortensia                           - Aspetta che me lo segno. (Scrive) Aurora, via Rosari, 14. Stasera ci vado. Mi trasfe­risco là- Troverò bene il modo di- avvicinarlo.

Mirella                             - E mi terrai informata?

Ortensia                           - Per telefono, di minuto in minuto. Va bene?

Mirella                             - Ora mi canzoni.

Ortensia                           - No, mi fai molta pena.

Mirella                             - Anche tu a me.

Ortensia                           - O guarda, e perché?

Mirella                             - Per Alonzo.

Ortensia                           - O chi è Alonzo?

Mirella                             - Come? L'argentino.

Ortensia                           - (ride) Sai perché non è più tor­nato? Perché l'apparecchio era pilotato da una donna.

Mirella                             - E tu, non ci hai sofferto?

Ortensia                           - Neanche un poco.

Mirella                             - Non stavi con lui per amore?

Ortensia                           - Affatto.

Mirella                             - E allora perché? Ah, per i buoi.

Ortensia                           - (ridendo) Niente buoi, niente Alon­zo e niente aereo. Tutti estri dedicati a tuo pa­dre. Lui mi detesta e io lo imbroglio. E mi ci diverto. Inventare è arricchire la vita e mettere i bottoni d'oro  all'abito grigio di tutti i giorni. Insomma mi ci diverto; c'è chi soffre, chi si arrabbia, chi si rode l'anima. Io invento.

Mirella                             - Non vorrei che per colpa sua...

Ortensia                           - Non ti dovessi aiutare? Tu non sei mica lui.

Mirella                             - Ma sono sua figlia.

Ortensia                           - Chi sa! ,

Mirella                             - Come, chi sa?

Ortensia                           - Io dico sempre: chi sa! Quel marito è fedele? Chi sa! Quell'amministratore è onesto? Chi sa! Parò cantare il tuo fidanzato? Chi sa!

Mirella                             - Io ne sono sicura.

Ortensia                           - Piano con la sicurezza. Sicuri non si è mai di niente. Oggi amici, domani nemici.

Mirella                             - Mi prometti almeno di fare tutto il possibile?

Ortensia                           - Te lo prometto. L'avermi chiamata, che vuoi? mi ha commesso, mi ha dato subito cin­quanta gradi di simpatia. Ora che ti ho conosciuta la simpatia è salita a cento. C'è gente che, a cono­scerla, ci perde; tu ci guadagni.

Mirella                             - E come farai?

Ortensia                           - Non lo so. Intanto lo devo vedere. All'aspetto mi regolerò. Metodi ne ho parecchi. Ora, ahimè, non ho più la seduzione. Però, però... Ma non te lo sedurrò. Potrei adularlo. Nessun uomo resiste all'adulazione di una donna: «Ah, se avessi conosciuto prima un uomo come lei tutta la mia vita sarebbe stata diversa! ». Potrei fargli credere che io so di qualche sua marachella: il gioco è si­curo. Tutti hanno- qualche cosa da nascondere. Op­pure, potrei intenerirlo, dicendogli: « « Oh, come ;a compatisco ; oh, come la comprendo! ». Ma non biso­gna far piani. Cercherò di manovrare nel mio me­glio. E' furbo?

Mirella                             - A me pare una volpe.

Ortensia                           - Be', io sarò più volpe di lui.

Astolfo                            - (entra) E cosi? Finito il misterioso colloquio?

Ortensia                           - Proprio in questo momento. Sei tempista.

Astolfo                            - (a Mirella) E adesso ci lasci soli noi due. Prima a te, ora a me.

Ortensia                           - Uno dopo l'altra, come dal dentista.

 Astolfo                           - Anche perché, se non erro, sono- in casa mia.

Ortensia                           - Giusto; e tu, Mirella, che, a quanto pare, non sei in casa tua, ritirati. (Mirella esce. Ad Astolfo) A noi due, ora. Hai tanta smania di parlarmi?

Astolfo                            - Ma sì-

Ortensia                           - Cose gravi?

Astolfo                            - Macché. Una piccola domanda: perché sei qui?

Ortensia                           - Potrei dirti per generosità. Ma non capiresti. Le nostre azioni hanno- sempre due mo­tivi: uno buono e l'altro. Ti dirò quello cattivo. Tua figlia mi ha offerto l'occasione di rientrare nella tua casa- Tu me ne avevi scacciata molti anni fa; io ci ritorno, regolarmente invitata, anzi dispe­ratamente invocata. Tu te la saresti lasciata sfug­gire una soddisfazione simile? No, vero? E neanch'io. In un primo momento, ho anzi pensato che Mirella mi chiamasse per difenderla da te- Tu sei capace di tutto.

Astolfo                            - E tu no?... Già, dimenticavo, scusa, che non hai fatto che belle azioni, che, sposa da tre anni, con un bimbo di un anno, hai piantato ma­rito e figlio per seguire ohi sa chi.

Ortensia                           - Bravo! (Ironica) Ah, ti ricordi ap­pena che ho- piantato... il resto è svanito dal tuo cervello. Hai un cervello comodo... (Con forza) Ma se sei stato tu! Se la colpa di tutto, di quello che sono- stata, di -quello che sono, sei tu! Ah, io ho piantato, io non ho più cercato!-.. E tu?... Tu che per salvarti da certi tuoi imbrogli hai costretto mio marito, tuo dipendente, a falsificare una firma d'avallo, su una grossa cambiale, dicendogli che in due giorni avresti sistemato la cosa... E poi niente, e poi, scoperto il malanno, l'hai lasciato condan­nare?

Astolfo                            - Non è vero.

Ortensia                           - Hai il coraggio di negare?

Astolfo                            - Ho 'il buon gusto di non dar peso alla tue parole. Non sai quello, che ti dici.

Ortensia                           - -So che di là son venuti tutti i miei guai- Quella condanna l'ha rovinato. Non ha più trovato lavoro. Tu per il primo ci hai cacciato via. Proprio tu! Ed è cominciata la miseria. Avviliti, abbruttiti, pronti a tutti i baratti. Io non sono nata per la miseria. Qualunque cosa, ma la miseria no. Mio marito s'è buttato agli espedienti. Temevo sem­pre che me l'arrestassero. Il mio piccolo Gerardo è venuto nel momento più tragico- Pure ho sopportato, ho lottato... Poi non ne ho potuto più. Un uomo mi ha proposto di togliermi da quell'ango­scia: ho accettato, sono fuggita con lui. Sono stata vile; ma la miseria no. Sono stata snaturata, ma ho pensato.-.: il bambino se lo prenderà un cu­gino che era sposato senza figli, in buone condi­zioni finanziarie e che ci aveva sovvenuti per qual­che tempo e poi s'era stancato perché voleva che mio marito si riabilitasse. Ma come? Tutti lo respingevano. Ho saputo che è andato giù, sempre più giù, e che è morto in carcere-         - (Con forza) Tu ce l'hai fatto morire! (Altro tono) Ho saputo anche che il piccino è stato raccolto da quei parente. Rimasta sola e ricca l'ho cercato', l'ho cercato, ma il parente le aveva studiate tutte per farmene perdere le tracce. Persino il nome e cognome gli aveva cambiato, non so con quali diavolerie di pratiche. Me lo scrisse lui stesso perché non lo importunassi. Voleva liberare l'avvenire del ragazzo dall'onta di un padre come lui e tìi una madre come me. Avrei potuto non abbandonarlo, rimanere accanto a lui e al marito, mantenuta da un altro. Ce ne sono che lo fanno; ma a me ripugnava spartire con loro. Svergognata, colpevole, ma con un po' di dignità. Se no mi sarei uccisa.

Astolfo                            - Romanzi! Ma i fatti sono come sono. Io vi ho scacciati perché tuo marito voleva sempre quattrini.

Ortensia                           - Li voleva perché gli spettavano.

Astolfo                            - Una volta sei venuta persino tu a...

Ortensia                           - (affermativa) ...a chiedere, mi ricordo. Ti ho detto che era tuo obbligo aiutare un uomo che avevi traviato. Tu hai negato' tutto come ora e mi hai fatto mettere alla porta. Canaglia!

Astolfo                            - Oh, ecco, 'ti sfoghi! Quando ci si sfoga, il venticinque per cento è verità, il settan­tacinque è livore.

Ortensia                           - Ti sei sempre saputo difendere, tu! Hai la forza del danaro! Le ribalderie ti hanno fruttato. Dimmi, ne hai accumulati molti?...

Astolfo                            - (vantandosi) Molti.

Ortensia                           - Tutti puliti, eh?

Astolfo                            - Come i tuoi.

Ortensia                           - E cioè?

Astolfo                            - Molti quattrini, puliti puliti non sono mai.

Ortensia                           - I miei lo sono più dei tuoi.

Astolfo                            - Li hai disinfettati?

Ortensia                           - Li ho sofferti.

Astolfo                            - Ancora romanzi?

Ortensia                           - Giallissimi! Col delinquente impu­nito, che sei tu.

Astolfo                            - E se io ti mettessi alla porta un'altra volta? i

Ortensia                           - Racconterei a tua moglie, a Mirella, a Savina, la mia storia. E poi no. Non voglio punire loro, voglio punire te.

Astolfo                            - Con che?

Ortensia                           - E se io possedessi le prove?

Astolfo                            - (impressionato) Che prove, quali prove?

Ortensia                           - (dopo un attimo' di riflessione) Que­sto tuo sgomento, ad esempio.

Astolfo                            - Difatti mi avevi spaventato.

Ortensia                           - (ride) Sei un colosso di cartavelina.

Astolfo                            - Ma documenti niente.

Ortensia                           - Eh, molti figurino onesti perché non c'è la prova del contrario.

 Astolfo                           - Ma vattene via!

Ortensia                           - Non posso, sono tua ospite.

Astolfo                            - Mia ospite? Quando mai ti ho in­vitata?

Ortensia                           - Mi ha invitata tua figlia.

Astolfo                            - Non è lei la padrona, che io sappia.

Ortensia                           - Finora! Ma domani...

Astolfo                            - . Mi auguri di morire?

Ortensia                           - Eh, tutto si sconta, no?

Astolfo                            - Pensa a quello che hai da scontare tu.

Ortensia                           - Io sconto minuto, per minuto, da anni. Tu no. A te, il male porta bene; finora, ma domani...

Astolfo                            - Mi fai il malocchio adesso?

Ortensia                           - Ti metto in guardia, perché ti rav­veda.

Astolfo                            - Sul tuo esempio? Che te la spassi da gran signora, qui,' là, e sei vestita e ritinta come una...

Ortensia                           - Io mi tingo per nascondere le tracce delle lagrime.

Astolfo                            - Questa è ben trovata.

Ortensia                           - Ma non credi a niente, tu?

Astolfo                            - No.

Ortensia                           - Neanche a Dio?

Astolfo                            - No.

Ortensia                           - E' una bella fortuna per lui.

Astolfo                            - Perché, tu ci credi?

Ortensia                           - Io sì.

Astolfo                            - Oh, bella, e da quando?

Ortensia                           - Da quando ho imparato a soffrire.

Astolfo                            - E tutto il tuo godere?

Ortensia                           - Mi ripugna.

Astolfo                            - (ridendo) Ah, ah; adesso che l'hai go­duto.

Ortensia                           - Tu non puoi capire.

Astolfo                            - Già, lo sono stoffa di aguzzino e tu stoffa di vittima.

Ortensia                           - Io forse un giorno poterò stimarmi. Tu mai.

Astolfo                            - Quel che mi preme è la stima pub­blica, e quella ce l'ho.

Ortensia                           - Fin che io te la lascerò. La stima pubblica ha bisogno di quella privata-

Astolfo                            - Mi fai tanta paura che più presto ti levi di torno, meglio è.

Ortensia                           - Quando ne avrò voglia.

Astolfo                            - Vuoi restare per forza?

Ortensia                           - Eh, non mi dispiacerebbe. Ci rimar­rei magari un mese a tuo marcio dispetto. Ma non posso. Ho promesso a Mirella di aiutarla e appunto per questo cambio dimora.

Astolfo                            - Niente Mirella. Non voglio intriganti, capito?

Ortensia                           - E invece intrigherò.

Astolfo                            - Ti impongo...

Ortensia                           - Tu non mi imponi niente.

Astolfo                            - Sai che faccio? Dico tutto a Mirella.

Ortensia                           - E io ti imito. Tu la illumini su di me, io su di te. Sarà edificante!

Astolfo                            - Ma le tue sono calunnie.

Ortensia                           - E le tue menzogne.

Astolfo                            - Ma io posso provare che...

Ortensia                           - Che cosa, puoi provare? Nulla puoi provare.

Astolfo                            - Che intendi fare, allora?

Ortensia                           - So io.

Astolfo                            - Guai a te, se fai scandali!

Ortensia                           - Hai paura?

Astolfo                            - Nemmeno un po'.

Ortensia                           - Tu hai paura; perché sei di quelli che fin che stanno nell'ombra tutto bene; ma se niente niente ci si butta in faccia il raggio di una lampadina rivelano orrende magagne.

Astolfo                            - Tu farnetichi.

Ortensia                           - Può darsi; ma ora che so di farti rabbia, aiuterò Mirella con entusiasmo.

Astolfo                            - Non riuscirai a nulla.

Ortensia                           - Quando io voglio una cosa, la voglio. Non solo ci riuscirò, ma ci piglierò un gusto matto! Non c'è niente di più bello che umiliare chi ci ha umiliati, schiacciare chi ci ha schiacciati, tor­mentare chi ci ha tormentati. Vendicarsi! Ah! Ma non sempre si può, non sempre si ha questa for­tuna. Io, ora, ce l'ho; e non me la lascio sfuggire. Spero ardentemente che sia la volta buona. Spero che quel giovane se ne sia andato per te, per colpa tua, perché ha scoperto, saputo chi tu sei, di qual razza sei... e che abbia avuto ribrezzo di diventare il genero di un vampiro, di un malvagio, di una vergogna d'uomo come te! Sì, ti sei fatto una for­tuna, ma calpestando ogni cosa. Ah, sogghigni? Sogghigna pure, ma bada che se gli restasse ancora qualche dubbio, penso io a levarglielo, glielo levo io! Gli dico: « Guardi me! Sì, una donnaccia di lusso. Opera sua! ». (Astolfo ride beffardo) Ridi, ridi! Ma ridi male. Riderò meglio io. Dopo! (Esce).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

La mattina dopo. Un salotto in una pensione. Divani, poltrone, sul tavolo, un telefono. Una porta in fondo e due a destra.

 (Quando si alza il sipario una giovane coppia sta bisticciando).

Lei                                   - Sicuro! Sei un buono a nulla.

Lui                                   - Grazie tante! Dopo tutto quello che ho fatto.

Lei                                   - Non riuscire neanche a levare venticin­quemila lire a quello scimunito!

Lui                                   - Non le ha; momentaneamente, si capisce; domani...

Lei                                   - Domani è troppo tardi. La padrona della pensione non aspetta più. Stamane mi ha detto: « o pagate o vado dall'avvocato ».

Lui                                   - S'accomodi!

 Lei                                  - Già! Tu ci sei abituato alle cattive figure. Sei senza dignità.

Lui                                   - E la tua dove l'hai nascosta che non l'ho mai vista?

Lei                                   - Quando ci son debiti da pagare ti mancano le iniziative.

Lui                                   - Mi mancano i quattrini!

Lei                                   - Caricali! L'uomo Sei tu.

Lui                                   - Te l'ho dettooo... Il Bertoceihi non ne ha; insomma non me li dà!

Lei                                   - Ma non esiste solo il Bertoicehi al mondo. E le Banche? Non ci sono le Banche?

Lui                                   - Vuoi che ne svaligi una?

Lei                                   - Sei un, inetto.

Lui                                   - Me lo dici quando non ho un soldo; ma quando ne ho, oh, allora sono un portento.

Lei                                   - Dovevi fare il commerciante, non lo scrit­tore; un uomo di criterio non fa lo scrittore!

Lui                                   - E tu, perché hai smesso 'di cantare alla radio?

Lei                                   - Che c'entra? Non tocca a me procurare il denaro. Vorresti a volte che lo procurassi io? Che trovassi io il modo di procurarlo? Oh, lo so come me lo potrei procurare. Vergogna! A questo vuoi ridurmi?

Lui                                   - Ma non dire enormità!

Lei                                   - All'uomo trovare i quattrini, alle donne spenderli. La legge è questa.

Lui                                   - E' l'unica legge fatta dalle donne.

Lei                                   - Ma gli uomini si sono vendicati facendo tutte le altre.

Lui                                   - (concedendo) E va bene... Tenterò io con la padrona    - (Suona).

Lei                                   - Parai cilecca.

Lui                                   - Provo. A provare non si spende nulla.

Lei                                   - Per fortuna.

La Cameriera                   - (entra di fondo) I signori co­mandano?

Lui                                   - Vorrei parlare con la padrona.

La Cameriera                   - Subito, signore! (Esce a sinistra).

Lei ,                                 - Io me ne vado.

Lui                                   - No. Tu rimani a darmi man forte.

Lei                                   - Lo vedi che da solo non ce la fai?

Lui                                   - Ti voglio testimonio del mio trionfo.

Lei                                   - Non ci credo.

Lui                                   - L'evidenza ti convincerà.

Ginevra                            - (entra da sinistra parlando) ... so quel­lo che mi volete dire. Lo so a memoria. C'è un frasario dei clienti morosi che si ripete da secoli in tutte le lingue: «Abbiate pazienza, attendo un as­segno, un vaglia. Non ante ancora arrivato. La posta! Che servizio orribile! Ma arriverà. Se non è oggi è domani » e via via. Ma anch'io, se Dio vuole, ho il mio frasario per queste occasioni: «o pagate o..

Lei                                   - (continuando) ... vado dall'avvocato! ».

Lui                                   - (insinuante) Un giorno! Le chiedo un giorno; ventiquattro ore di attesa; che sono in realtà sedici,, perché otto le passa dormendo e dunque non sì accorge di aspettare. Le chiedo se­dici ore. Se poi toglie le ore dei pasti, del sonnellino quotidiano, delle telefonate, della contabilità e delle intime tenerezze, restano, sì e no, due o tre ore. Vi chiedo in sostanza due ore; ha atteso un mese, aggiunga centoventi minuti; è il ritardo normale di un diretto.

Ginevra                            - O pagate o...

Lei                                   - (continuando) ... vado dall'avvocato!

Lui                                   - (supplichevole) Sia cortese, via...

Ginevra                            - Ohi è cortese per -un mese diventa grullo per tutta la vita.

Lei                                   - (prorompendo) Ma non ci insistere. An­diamocene da questa locanda!

Ginevra                            - Se ne vada pure, signora, ma a saldo, mi lasci il suo collo di volpe azzurra.

Lei                                   - Ma quello vale un anno, a dir poco.

Ginevra                            - E' una volpaccia qualunque. L'ho fatto stimare ieri mentre eravate fuori.

Lui                                   - Questo è un abuso!

Ginevra                            - E' un diritto, con clienti come voi. Vale giusto venticinquemìla lire. Pari e patta.

Lui                                   - Be', perché no? Può essere un'idea.

Lei <                                - Perché non è roba tua, vero?

Ginevra                            - Se non vuole...

Lui                                   - ... vado dall'avvocato! Siete proprio una...

Ginevra                            - Una che? Non mi spavento. Possiedo questa pensione da quindici anni: è la prima della città. Me ne sono capitati di clienti! Anche peg­giori di voi. Voi ve ne andate zitti zitti, senza ri­fiatare, senza protestare; senza la volpe... e tutto fila liscio. D'accordo?

Lui                                   - (rassegnato) Sia fatta la sua volontà.

Ginevra                            - E più presto sloggiate, meglio è. (Esce da sinistra).

Lei                                   - Bravo! Bel successo. Sembravi un poppante. Impappinato, impacciato! Balbettavi! E vuoi che io seguiti a viverti insieme? Ma perché mi hai strap­pato all'arte? Perché mi hai rovinato la carriera? Io, se avessi seguitato a cantare alla radio...

Lui                                   - (continuando) ... avresti fatto maledire Marconi.

Lei                                   - Villano! Meglio aver dinanzi il microfono del tuo muso. Finalmente! Torno libera, padrona di me. (Trionfante) Oh, sola, i quattrini mi ripio­veranno intorno. Te, i quattrini ti odiano. Spian­tato! (Esce di fondo, sbattendo l'uscio).

Ortensia                           - (entra di destra) Signore, scusi...

Luì                                   - (intontito come è rimasto, non sente).

Ortensia                           - (ripete) Scusi, signore...

Lui                                   - (si volta).

Ortensia                           - Che ora è?

Luì                                   - (scattando) Che vuol che m'importi dell'ora! (Esce di fondo).

Ortensia                           - (lo guarda sorpresa e poi ascoltando il proprio orologio) Oh, che mal garbo! (Suona; poi va al telefono).

La Cameriera                   - (entrando) La signora desidera?

Ortensia                           - C'è la padrona?

 La Cameriera                  - Sissignora, gliela mando subito  - (Esce).

Ortensia                           - (che nel frattempo ha combinato il nu­mero) Mirella, sei tu? Sì, sono Ortensia... Hai dormito?... Poco, eh?... Me l'immagino... Io sì, ho riposato e sono pronta, nella tana del leone... Se l'ho veduto?... Ancora no-..

Ginevra                            - (entra) E' permesso?

Ortensia                           - (se ne accorge e al telefono) Addio, cara; più tardi! (Depone l'apparecchio e a Gine­vra) Lei è la padrona della pensione? Bene; sicco­me sono arrivata ieri sera e non l'ho vista, volevo conoscerla.

Ginevra                            - Grazie, molto gentile.

Ortensia                           - Non è per gentilezza. E' per sapere a chi rivolgere i reclami.

Ginevra                            - Ne ha già da farmi?

Ortensia                           - No, niente. Tutto bene, camera, let­to... Bella biancheria! Complimenti. Neanche in un grande albergo!... Ah, una piccola noia: nella stanza accanto si fa troppo rumore.

Ginevra                            - Lei è al numero?...

Ortensia                           - Sette.

Ginevra                            - Al numero otto ci sta una vecchia signora belga. Al numero sei un giovanotto. Il sei è a destra e l'otto a sinistra della sua stanza.

Ortensia                           - Allora è il sei.

Ginevra                            - Possibile? Una così brava persona?! E' qui da un anno ed è sempre stato tranquillo.

Ortensia                           - Con me no. Apre e chiude i cassetti con violenza. Delle due l’una: o vuole esercitare i muscoli o ha gravi contrarietà. Ma che si calmi, diamine!

Ginevra                            - Glielo dirò.

Ortensia                           - Farà bene. E come si chiama?

Ginevra                            - Rinaldo Frazzi.

Ortensia                           - (fingendo) Mai sentito nominare.

Ginevra                            - Ottima famiglia. Nella mia pensione, tutti di ottima famiglia.

Ortensia                           - E lui lavora?

Ginevra                            - Credo, e guadagna. Se la passa bene.

Ortensia                           - Eh, la gioventù sta volentieri nelle pensioni. Gran cosa la libertà.

Ginevra                            - Oh, non creda che la mia casa sia ma! frequentata.

Ortensia                           - Lo so. Altrimenti non ci sarei venuta.

Ginevra                            - E' fatto stretto divieto ai clienti e alle clienti di ricevere in camera. Possono ricevere sol­tanto qui in questo salotto oppure in uno degli altri due che io metto a disposizione.

Ortensia                           - E se si tratta di parenti?

Ginevra                            - Ah, allora si può riceverli dove si vuole.

Ortensia                           - Anche se sono giovani e belli?

Ginevra                            - E diamine, quando si presentano come parenti...

Ortensia                           - E lui, il mio vicino, neanche cugine?

Ginevra                            - Che io sappia, no.

Ortensia                           - Ah, lei può anche non sapere?

Ginevra                            - Naturalmente; non sto alla porta.

Ortensia                           - Capisco. Ma io desidero soltanto che i miei vicini idi camera... La signora belga quanti anni ha?

Ginevra                            - Ottanta.

Ortensia                           - Be', forse lei, cugini non ne riceve più. Mi preme che l'altro sia per bene. Mi darebbe fastidio pensare che nella camera attigua...

Ginevra                            - Ma signora! Mi pare sia fidanzato.

Ortensia                           - (.sempre fingendo) Ah, c'è una fi­danzata? Ma autentica?

Ginevra                            - Autenticissima, se no, qui, non ci verrebbe.

Ortensia                           - (sema dar peso) Perché ci viene?

Ginevra                            - Oh Dio, qualche volta, si sa. Non siamo in un collegio o in un monastero.

Ortensia                           - Ma è una fidanzata diurna o not­turna?

Ginevra                            - Diurna, diurna.

Ortensia                           - Manco male.

Ginevra                            - La signora si fermerà a lungo?

Ortensia                           - Dipende. Può darsi che ci rimanga per qualche tempo.

Ginevra                            - Io ne sarò lieta.

Ortensia                           - Io no.

Ginevra                            - (la guarda sorpresa).

Ortensia                           - (spiegando) Se parto presto vuol dire che m'è riuscito un certo affaruccio.

Ginevra                            - Allora le auguro di partir domani. Contro il mio interesse, vede!

Ortensia                           - Chi sa!

Ginevra                            - Le occorre altro?

Ortensia                           - No, grazie.

Ginevra                            - (s'avvia).

Ortensia                           - Ma, ora che ci penso, forse...

Ginevra                            - (si ferma).

Ortensia                           - ... sarebbe meglio che io lo conoscessi il mio vicino di camera. Potrei invitarlo ad aver riguardo e lui, pregato da una signora anziana, ma­gari me lo userebbe volentieri.

Ginevra                            - Figuratevi! Io ho sempre desiderato di fare della mia pensione una famiglia.

Ortensia                           - Buona idea per ristabilire l'equilibrio.

Ginevra                            - Con che?

Ortensia                           - Con le famiglie che sono una pen­sione. Le dispiacerebbe presentarmelo, questo mio vicino di camera?

Ginevra                            - Affatto. (Guardando il proprio orolo­gio) Le dieci. Giust'appunto sta prendendo il caffè e latte. Di solito esce verso le dieci e mezza. E' sem­pre l'ultimo a uscir di casa.

Ortensia                           - Perché, gli altri?...

Ginevra                            - Tutti già fuori. Ciascuno ha da fare; e fino a mezzogiorno non si rivede, più nessuno. In questo salotto lei è sicura di rimanere indisturbata per tutta la mattinata. Potrei pregarlo di passare di qui. Glielo vado a dire.

Ortensia                           - Gli dica: -un minuto; gli rubo un minuto.

Ginevra                            - (esce a destra).

Ortensia                           - (va al telefono, forma il numero) Mirella? Sì, sono ancora io. Ortensia. Dimmi una cosa: sei venuta qui alla pensione qualche volta? No? Pensaci bene... Mi dici la verità?... Va bene, va bene.. No, per niente... Io devo saper tutto, per non trovarmi disarmata-.. Come?... Lascia fare a me... Sì, sì... Non ti prometto nulla... Come?... Nulla e tutto. Sì, sì, lasciami fare... A qualunque costo. Eh?... Ma sì, se occorre metterò in gioco tutta la mia fantasia... Se ti dico a qualunque costo...

Ginevra                            - (entra da destra).

Rinaldo                            - (la segue).

Ortensia                           - (al telefono) Sì, sì, a presto! (Depone il ricevitore).

Ginevra                            - Signora... (Presentando) Ecco il signo­re del numero sei. Il signor Rinaldo Frazzi. La si­gnora arrivata ieri sera, il numero sette.

Ortensia                           - Sette più sei tredici. Porta bene o porta male? E' superstizioso, lei?

Rinaldo                            - (si inchina e, secco) Nossignora.

Ortensia                           - Meglio così.

Ginevra                            - Io li lascio. Con permesso. (Esce).

Ortensia                           - Scusi, se ho osato.-.

Rinaldo                            - (asciutto) La prego!

Ortensia                           - Ognuno ha le sue piccole manie. Io ho quella di farmi presentare negli alberghi e nelle pensioni i miei vicini di camera. Ho bisogno di sa­permi accanto, se non amici o amiche, almeno co­noscenti; non indifferenti o sconosciuti. Forse è prudenza, o debolezza: la debolezza di sentirsi meno sola. E, soprattutto, è una comodità. Se ci si conosce, ima sera che, poniamo si ha un po' di malessere, toc toc, si bussa e si chiede soccorso. Oppure, non si riesce ad aprire l'armadio? Toc toc, si chiama il vicino o la vicina. Una notte non si può chiudere occhio? Ci si alza, toc toc, e ci si fa com­pagnia. Il vicino sbatte i cassetti o canticchia o urla al telefono? Toc toc e lo si fa smettere. Ma se non lo si conosce non si ardisce. Adesso con lei, toc toc, magari tutto il giorno. (Ride) Si spaventa? No, no, si metta tranquillo. Ognuno deve vivere come gli pare e piace, ma dando agli altri il minor disturbo possibile. Lei, per esempio, fa un po' troppo chiasso.

Rinaldo                            - Le chiedo scusa.

Ortensia                           - Di niente. Forse lei non lo fa nean­che tanto chiasso. Le ubbie sono mie. Nervi. Quando si vive sole si sta sempre sulle 'difese. La solitudine è un modo allarmato di vivere? Lei non può capire.

Rinaldo                            - Capisco perfettamente.

Ortensia                           - (negativa) Ah, non è possibile.

Rinaldo                            - Perché?

Ortensia                           - Perché lei non è solo.

Rinaldo                            - Si sbaglia, signora. Sono solissimo.

Ortensia                           - Sempre meno di me.

Rinaldo                            - Non vedo come.

Ortensia                           - Eh! Lei è fidanzato.

Rinaldo                            - (sorpreso) Chi gliel'ha detto?

Ortensia                           - In una pensione si sa tutto.

Rinaldo                            - Ma lei non è arrivata qui ieri sera?

Ortensia                           - Sì, e per caso.

Rinaldo                            - Mio Dio, che pettegola, la padrona!

Ortensia                           - Che c'è di male? E' un male essere fidanzati?

Rinaldo                            - Tutt'altro. Ma io non lo sono già più.

Ortensia                           - (fingendo sorpresa) Ah no?

Rinaldo                            - No.

Ortensia                           - Peccato! Come mi dispiace! Quando un matrimonio va a monte, non so perché, mi di­spiace.

Rinaldo                            - Preferite che la gente si sposi?

Ortensia                           - I giovani sì, perché lo fanno senza pensarci. Gli sbagli si devono sempre alla riflessione.

Rinaldo                            - Esperienza sua?

Ortensia                           - Sì e no.

Rinaldo                            - Scusi, ma lei è sposata?

Ortensia                           - Non vade la fede?

Rinaldo                            - Ed ora è sola?

Ortensia                           - Come un beduino nel deserto.

Rinaldo                            - E... suo marito?

Ortensia                           - (con un gesto vago) Partito.

Rinaldo                            - Ah, separata?

Ortensia                           - Nel modo più definitivo.

Rinaldo                            - L'ha abbandonata?

Ortensia                           - Oh, ma non per sua volontà.

Rinaldo                            - E' stata lei, allora...

Ortensia                           - No, lui; trasferito per ordini su­periori.

Rinaldo                            - Ah! Un militare.

Ortensia                           - Macché; riformato alla leva...

Rinaldo                            - Ma chi gliel'ha ordinato di...?

Ortensia                           - Domineddio!

Rinaldo                            - Vedova? Lei è vedova?

Ortensia                           - Come lei. Non mi faccia quegli oc­chi. Lei è vedovo prima di sposarsi. La sua è una vedovanza senza lutto. Ma scusi, se non sono indi­screta: la sua fidanzata voleva o non voleva?...

Rinaldo                            - Non voleva.

Ortensia                           - Proprio innamorata?

Rinaldo                            - Credo.

Ortensia                           - Come, crede?

Rinaldo                            - Chi può mai sapere quando è amato!

Ortensia                           - Ma lo si capisce.

Rinaldo                            - E' facile illudersi.

Ortensia                           - Ed è per questo che...?

 Rinaldo                           - No no.

Ortensia                           - E dunque lei era persuaso.

Rinaldo                            - Questo sì.

Ortensia                           - E tuttavia?...

Rinaldo                            - Ecco.

Ortensia                           - Curioso!

Rinaldo                            - (troncando) Be', signora, io devo an­dare.

Ortensia                           - Il lavoro la chiama?

Rinaldo                            - Oh, così poco!

Ortensia                           - E allora, resti ancora un momento. (Siede e lo invita col gesto a sedere).

Rinaldo                            - (siede un po' infastidito).

Ortensia                           - Sono capitata qui per caso; non ho conoscenze in città. Ho telefonato adesso per cer­care una vecchia amica. E' assente. Quattro chiac­chiere mi accorceranno la giornata. Quante lunga la giornata vuota! Alla mia età, capirà, non ho gran che per riempirla... (Controscena di Rinaldo) No, non protesti. La mia età, è la mia età; la nascondo un po', non tanto per me quanto per gli altri. Parsi vedere vecchi è rammentare a chi non lo è che lo diventerà. Non è una bella prospettiva. Be', non ci pensiamo. Cinque minuti, poi lei se ne va.

Rinaldo                            - Lei non esce?

Ortensia                           - Può darsi, chi sa, più tardi.

Rinaldo                            - Non ha proprio nessuno da queste parti?

Ortensia                           - Nessuno. Ci manco da anni.

Rinaldo                            - E dove abita ora?

Ortensia                           - Qua, là, sono vagabonda, senza fissa dimora. Fermarsi vuol dire pensare, e vengono sem­pre i pensieri più brutti. Per questo, quando non viaggio, faccio un po' l'attaccabottoni. Come ora, così, per stordirmi;

Rinaldo                            - (per troncare) Ma conoscendoci ap­pena abbiamo ben poco da dirci. (Si alza).

Ortensia                           - E dovrebbe essere il contrario. Due che non si sono mai visti quante cose avrebbero da dirsi! Invece il primo moto è di diffidenza. Sono due misteri che s'accostano.

Rinaldo                            - Oh, misteri, poi...

Ortensia                           - (affermativa) Misteri, misteri. Si ri­mane tali anche dopo una vita intera in comune, figuriamoci al primo vedersi.

Rinaldo                            - Se taluni in treno si raccontano subito tutto!

Ortensia                           - Sono gli incontinenti.

Rinaldo                            - Lei non racconta nulla?

Ortensia                           - Mai.

Rinaldo                            - Io neppure.

Ortensia                           - Vuole una sigaretta? (Gliela offre).

Rinaldo                            - Grazie, al mattino no.

Ortensia                           - Anch'io, non dovrei (e si mette la sigaretta in bocca) né al mattino né dopo. I medici me l'hanno proibito. Ma io ho sempre disobbedito ai medici e finora mi sono trovata bene. In verità, io ho sempre disobbedito a tutti. So quel che lei sta pensando. Lei pensa: « Chi sarà mai questa si­gnora? Di dove viene? Qual è la sua storia? ». Tutti abbiamo una storia, specialmente quelli che sem­brano non averne. « Ha sofferto? E' una vittima o una vittoriosa? "Vedova, mi ha detto; ma sarà vero? Non sarà piuttosto separata? Dato il tipo, mi pare più separata che vedova. Ma allora per colpa di chi? Sua? Del marito? E i figli? Ha figli? ». Tutto questo mentre mi parla del più e del meno. Dica di no!

Rinaldo                            - (tace e torna a sedere, rassegnato al battone).

Ortensia                           - Vede? E io lo stesso. Mi domando: «Chi sarà questo giovanotto? Studia, lavora, ama,? E' fortunato in amore? Lo interesso? Lo annoio? Fidanzato e non più fidanzato? Che cosa sarà ac­caduto? Ha litigato con la fidanzata? O lei lo ha maltrattato? O lui? O i genitori? ». Tutti fanno così. In treno, giusto venendo qui, avevo vicino a me due giovani: uno studente e una studentessa: forse neppure quarant’anni fra tutti e due. Be', se ne stavano con le mani in mano e discorrevano, d'amore, ma con un linguaggio curioso. Lei parlava di algebra e di astronomia, lui di logaritmi. Ma tutt'e due capivano perfettamente quel linguaggio cifrato, e, per loro, esame voleva dire amore, astro­nomia felicità e logaritmi baci. Si dissimula sem­pre, ma la verità sotterranea tradisce l'inganno delle parole. Dico bene o no?

Rinaldo                            - (tace, mal celando un po' di fastidio).

Ortensia                           - E allora, scusi, perché non parlare anche noi di astronomia e di logaritmi? Dato che il destino ci ha fatti incontrare in questo modo, non è meglio levarci la reciproca curiosità? Ciascuno più o meno, ha dispiaceri, dolori, difficoltà: be', nelle pene degli altri si prova conforto alle pro­prie. Creda, ci si può confortare. Potrei confortare più io lei, che lei me. Se non altro per la differenza delle primavere. Poi, uno di qua, l'altro dì là, ognu­no per la propria via.

Rinaldo                            - Ma io non ho bisogno di conforto.

Ortensia                           - Dopo tutto quello che le è accaduto?

Rinaldo                            - Capitolo chiuso, finito.

Ortensia                           - Per lei! Ma per la ragazza? Lasci dire a me che sono donna. Chi sa in quale stato, poveretta?

Rinaldo                            - Ne sono addolorato, ma non potevo fare diversamente.

Ortensia                           - Lo credo. Ci sono persone che, a guardarle, si dice: ecco un galantuomo. Lei è di quelle. E se ha agito come ha agito deve aver avuto le sue brave ragioni.

Rinaldo                            - Naturalmente.

Ortensia                           - E ragioni serie. Ho una certa pratica di uomini. Mah! Chi l'avrebbe mai detto, eh?

Rinaldo                            - Che cosa?

 Ortensia                          - Come, che cosa? Che lei si dovesse fidanzare e poi, come dire?, sfidanzare. Se una chi­romante un anno fa glielo avesse predetto, son si­cura che non le avrebbe creduto. La vita, come la storia, è la fabbrica delle sorprese. Vede, la rottura di un fidanzamento è molto più misteriosa della rot­tura dì un matrimonio. Di quest'ultima i motivi si sanno a memoria: son sempre gli stessi. Sono persi­no elencati nei codici civili e canonici. Ma per il fi­danzamento è ben diverso. Non c'è ancora intimità di rapporti:--almeno, di regioia. E' una regola con molte eccezioni; ma insomma c'è. I motivi di rottura non si trovano né nel codice civile né in quello ca­nonico. Quando mi si dice di un fidanzamento anda­to a male, mi metto in curiosità. Ma non creda che io... no no. Brucio dalla voglia di sapere, ma mi guardo bene dal chiederle...

Rinaldo                            - (.si alza per troncare definitivamente) E dunque, signora?

Ortensia                           - Deve proprio andare?

Rinaldo                            - Qualche impegno, pochi; ma appunto perché pochi non lì devo trascurare.

Ortensia                           - Non la voglio trattenere di più. Ci si rivede?

Rinaldo                            - Se le garba...

Ortensia                           - A me sì. E a lei?

Rinaldo                            - Eh, diamine T si sta sempre volentieri con una signora intelligente.

Ortensia                           - Anche se non è coetanea?

Rinaldo                            - C'è un'invidiabile giovinezza nello spirito.

Ortensia                           - Io ho sempre preferito quella, del resto. Cena alla pensione?

Rinaldo                            - Di solito sì.

Ortensia                           - Allora ci ritroviamo a tavola.

Rinaldo                            - A stasera. (E s'avvia).

Ortensia                           - (gli lascia fare qualche passo e poi, agganciandolo) Però, in tutto questo c'è una stranezza.

Rinaldo                            - (si ferma) Quale?

Ortensia                           - Porse, io la sua fidanzata, la sua fidanzata la conosco.

Rinaldo                            - (ritorna in scena) Se non gliel'ho nep­pure nominata.

Ortensia                           - Qui sta appunto la stranezza. Quando ne abbiamo parlato, io mi son detta: è quella. Non so come e non so perché. A volte suona il campa­nello di casa o quello del telefono e ci si dice: «è il tale o la tale » ; e s'indovina.

Rinaldo                            - E lei avrebbe indovinato?

Ortensia                           - Lo vediamo subito. H nome che mi è apparso d'un tratto nella mente, come un avviso luminoso, è... Mirella Cerrati. E' lei?

Rinaldo                            - Esattamente.

Ortensia                           - Non è una stranezza?

Rinaldo                            - Lei sa qualche cosa.

Ortensia                           - No, le giuro di no. Ma tanto più ora me ne rincresce, perché la conosco bene.

Rinaldo                            - Ma io, da Mirella, non l'ho mai sen­tita nominare. Scusi, il suo nome?

Ortensia                           - Ortensia Fiorini.

Rinaldo                            - Proprio non...

Ortensia                           - Ho conosciuto la sua fidanzata l'anno passato al mare. Non era a Viareggio un anno fa?

Rinaldo                            - Difatti.

Ortensia                           - Ci siamo fatte amiche, poi io sono partita, ho ripreso a viaggiare, non le ho scritto perché non scrivo mai a nessuno. Può darsi che mi abbia dimenticata. Succede spesso per gli incontri di spiaggia. Ma non vuol dire. E' una brava figliola. Io l'avrei sposata.

Rinaldo                            - Andrà a trovarla?

Ortensia                           - Me ne guardo bene. Capiterei in un brutto momento.

Rinaldo                            - Meglio così.

Ortensia                           - Temeva le parlassi di lei?

Rinaldo                            - (.ridendo) Non credo voglia avere ne­mico il numero sei.

Ortensia                           - A lei basti di essere il nemico nu­mero uno per la sua fidanzata. L'ha lasciata in bella maniera, almeno?

Rinaldo                            - Così così.

Ortensia                           - Male, allora,

Rinaldo                            - Piuttosto.

Ortensia                           - Ha troncato bruscamente.

Rinaldo                            - Quasi.

Ortensia                           - Vergogna!

Rinaldo                            - Io ho fatto il possibile perché ciò non avvenisse, ma Mirella ha guastato tutto.

Ortensia                           - E dunque, lei, non ha nulla da rim­proverarsi.

Rinaldo                            - Allora, a stasera. (Si avvia).

Ortensia                           - A stasera; ma le vaglio anche dire che mi è capitato più volte di veder sollevato l'a­nimo di chi si è confidato con me, senza conoscermi, anzi appunto perché non mi conosceva. Uno sfogo con me non comprometteva nulla. Dopo io son partita, non ci si è incontrati più e buona notte. Ma, al momento, un po' di conforto son riuscita a darlo.

Rinaldo                            - La ringrazio, ma non è il caso.

Ortensia                           - Lo so, lo so, dicevo così per dire. Tanto più che non si può confessare alla prima venuta - non dico quel niente che avrà fatto lei - ma anche una colpa, purché... E su questo « purché » mi fermo. Scusi le chiacchiere e arrivederci a que­sta sera.

Rinaldo                            - Purché?... »

Ortensia                           - Mah! Non so più quel che volevo dire.

Rinaldo                            - Non sa o non vuole?

Ortensia                           - Quel che non si vuole non lo si sa mai.

Rinaldo                            - E allora, mi dica.

Ortensia                           - Ecco, come siete voialtri uomini. Basta un « purché » in sospeso per turbarvi. Ah, ecco, mi ricordo: si può confessare alla prima venuta anche una colpa purché... non ci siano com­plici.

Rinaldo                            - (turbato) Che complici? Quali com­plici?

Ortensia                           - (naturale) Complici.

Rinaldo                            - (inquieto) Che intende dire?

Ortensia                           - Nulla, una massima, una, sentenza. Magari sbagliata. Una vecchia signora come me filtra sempre l'esperienza nelle parole. Mi fa pena la sua fidanzata. Ecco tutto.

Rinaldo                            - (deciso a congedarsi) Buon giorno, signora. (Esce incerto).

Ortensia                           - Buon giorno! (Guarda la porta che Rinaldo s'è chiusa alle spalle) Non se ne va. (Sta in ascolto) Non se ne va. (Va verso la porta, poi corre a riprendere il suo posto; la porta si riapre) Lo dicevo io!

Rinaldo                            - (entra).

Ortensia                           - Ha dimenticato qualche cosa?

Rinaldo                            - Sì... no... - Ortensia         - Sì o no?

Rinaldo                            - E perché dovrei dirglielo?

Ortensia                           - Oh, per ime... .

Rinaldo                            - (diffidente) Lei comincia a inquie­tarmi.

Ortensia                           - Io? Che le ho fatto?

Rinaldo                            - Non capisco bene... tutto quel rigiro di frasi... Non è chiaro, ecco. Che cosa c'è sotto?

Ortensia                           - Niente .c'è sotto. Parole. Non si son dette che parole.

Rinaldo                            - Appunto, le parole. E una, l'ultima, m'è piaciuta meno delle .altre: complici. Che com­plici devo avere?

Ortensia                           - Io non lo so di certo, lo saprà lei.

Rinaldo                            - (con forza) Niente complici. Io sol­tanto ho deciso quel che ho deciso.

Ortensia                           - Né io la contraddico. Infine io non sono né la madre, né il padre della Signorina Mirella.

Rinaldo                            - (affermativo) Difatti! (Aggressivo) E allora, perché mai se ne occupa tanto?

Ortensia                           - (con ostentato candore) Io? E' la conversazione che ha preso quella piega.

Rinaldo                            - L'ha presa o gliel’ha fatta prendere?

Ortensia                           - Ma! A questo punto è difficile dirlo.

Rinaldo                            - (con forza) O non lo vuol dire?

Ortensia                           - Eh, non mi spaventi adesso!

Rinaldo                            - Insomma, che vuole da me?

Ortensia                           - (ridendo) Davvero mi meraviglia. Ma io non voglio nulla, benché ora cominci a pen­sare che sotto qualcosa ci sia. Anzi, ci deve es­sere. Scopriamo le carte? (Decisa e seria) Questo colloquio l'ho provocato io, Mirella è mia parente. L'ho vista disperata, le ho promesso di sapere la vera ragione del suo abbandono e la saprò.

Rinaldo                            - No.

Ortensia                           - Lei me la dirà.

Rinaldo                            - Mai! .

Ortensia                           - Le prometto di non riferirla a Mirella.

Rinaldo                            - Non le credo più.

Ortensia                           - Posso perfino aiutarla a dirmela.

Rinaldo                            - Lei sa qualcosa.

Ortensia                           - Potrebbe anche 'darsi.

Rinaldo                            - E allora fuori!

Ortensia                           - Oh oh, non rovesci le parti. Tocca a lei a parlare.

Rinaldo                            - E' inutile. Tanto non ci guadagna niente e sarebbe peggio.

Ortensia                           - Per lei!

Rinaldo                            - Non solo per me.

Ortensia                           - Dunque, c'è un complice!

Rinaldo                            - Non ho altro da dire. (Fa per uscire).

Ortensia                           - Ma se è venuta qui più volte.

Rinaldo                            - (si ferma) Chi?

Ortensia                           - So io.

Rinaldo                            - Lei gioca d'astuzia.

Ortensia ----------------- - Ma perché non ha confidenza in me? Sì, lo capisco, lei mi conosce appena. (Coloren­do) Ma mi guardi un po' meglio; qui la mia faccia. Non ci legge che mi si può dire tutto? Passione e vizio? Vizio, sì. Io, lei, tutti, capaci di ogni bellezza e di ogni orrore. Senta: le ho detto che sono vedova. E' vero; ma sono scappata gio­vanissima, ho lasciato la casa coniugale per se­guire un uomo che mi piaceva. Poi sono rimasta sola. Ero ricca, ho amato, tradito, sofferto, gioito. Tutti i grandi alberghi sanno chi sono, fin trop­po... Una vitaccia che mi esaltava. Godere e go­dere, null'altro. Capivo che scendevo sempre più in basso, che il lusso, l'eleganza erano la cornice di un quadro vergognoso, ma mi ci trovavo bene! Sprofondavo nella mota come nel miele e avrei continuato se gli anni non mi avessero fermata. Sono sola, esausta, ma non mi pento di nulla. Non ho rimpianti di occasioni mancate, di baci perduti. Mi sono ridotta una depravata... Ma per questa mia vergogna mi sento subito alleata di chi ha commesso, per amore, per passione, per vizio, qualche cattiva azione; e lei deve averne una sulla coscienza, ma così grossa che non ha il coraggio di parlarne. Ne misuro la gravità dalla sua reticenza. Oh, le dico anche che se avessi in­tuito trattarsi di una cosa da poco non ci insisterei... Ma lei è un po' della mia razza... Ci si può inten­dere. Son venuta a cercarla da nemica e ora mi sento solidale con lei. Non ne è persuaso? O è stordito per quanto le ho detto? O non le basta? Vuole dell'altro?... E sia. Dieci anni fa mi trovavo a estenda. Spiaggia di lusso. C'era un norvegese alto, magro, pallido, biondo, bellissimo. Si curava, dicevano; era là convalescente di un lungo periodo di esaurimento nervoso. Era stato in una casa di  cura ed era venuto ad Ostenda per continuare il suo riposo e, nello stesso tempo, avere lo svago dell’elegante movimento della baldoria--------------------- - (balneare. Ma donne, niente. Guai se avesse ceduto a un desi­derio, a un capriccio. Poteva essergli pericoloso. E difatti se ne stava tutto il giorno nella sedia a sdraio quieto e casto. Be', non so che diavolo s'è svegliato in me. L'ho avvicinato, mi son fatta sua confidente; gli riempivo le giornate... Insomma, mi ero incapricciata di lui... Sapevo che poteva essergli fatale... e questo, invece di allontanarmi, mi at­traeva... Un'avventura nuova, sbrana, morbosa... Un giorno con un pretesto l'ho fatto salire da me... Poco mancò non ci morisse... Orrendo, vero? Eppure, se ci ripenso... non ne provo rimorso. Anzi! (Una pausa) Ha ancora ritegni, pudori?... E non tema che io, perché mandata da Mirella, poi glielo vada a ridire. Tutt'altro. (Presa nella sua stessa finzione) Ora non mi interessa più Mirella, mi in­teressa lei. Io ci godo a scoprire che anche chi all'apparenza è così come lei, in realtà è invece come me. Noi siamo tutti specchi, l'uno per l'altro. E' un riconoscersi uguali, io, lei, tutti... E' l'unica uguaglianza, la terribile uguaglianza del male. Io son certa che nel sentire le mie prodezze lei si è consolato, si è giudicato migliore. E' già molto. A meno che non abbia fatto di peggio... Ha fatto di peggio?

Rinaldo                            - Non lo so.

Ortensia                           - Quella donna l'aveva prima di fidan­zarsi?

Rinaldo                            - (ancora incerto se variare o no) No.

Ortensia                           - L'ha conosciuta dopo?

Rinaldo                            - Contemporaneamente.

Ortensia                           - Un'amica di Mirella?

Rinaldo                            - (c. s.) Più che amica.

Ortensia                           - No!... E come ha potuto?...

Rinaldo                            - Non so come. La trovavo sempre accanto a lei. L'intimità con Mirella favoriva l'in­timità con Savina. Savina facilitava le occasioni... A poco a poco un veleno ci ha intossicato le vene... Una sera che m'ero recato da Mirella... Questa era accorsa presso un'amica, improvvisamente aggra­vata. Padre e madre erano a un concerto... Savina era sola... Ci smarrimmo... Da quella sera... Ecco tutto. Poi la finzione, poi i convegni qui, finché ieri sera ho avuto un grido di lealtà. Ma come dire a Mirella che... come dirglielo? Non l'ha da sa­pere mai.

Ortensia                           - Io tacerò, stia sicuro.

Rinaldo                            - Potevo non mandare a monte il ma­trimonio?...

Ortensia                           - Eh! almeno quella è onestà.

Rinaldo                            - Son segreti che non ci appartengono. Se lei non fosse stata quello che è, non glielo avrei certo confessato. Ci sono cose che non si confes­sano che ai Santi o ai diavoli.

Ortensia                           - E' convinto che non parlerò?

Rinaldo                            - Sì.

Ortensia                           - E non per omertà, sa? Ma per lealtà verso di lei. Qualche lato buono l'abbiamo anche noi.

Rinaldo                            - Oggi Savina verrà qui.

Ortensia                           - Siate prudenti. La pensione è a pochi passi dalla sua casa. E se Mirella vigilasse?

Rinaldo                            - Savina ha perso la testa. Non le im­porta di nulla. E anelilo... non mi sento nem­meno colpevole. Sono a questo punto. Ci si rovina a poco a poco. H male prende lo stesso colore del bene. Poi, la rovina, la si scopre d'un tratto. Ma! Sono cresciuto così, alla peggio... Prima un tutore cerbero, insopportabile... Poi sbandato, alla gior­nata, senz'anima.

Ortensia                           - (trepida) E... i genitori?

Rinaldo                            - Li ho perduti, bambino. Una scia­gura.

Ortensia                           - E... li ricorda?

Rinaldo                            - Ero così piccino... Vagamente. Ombre.

Ortensia                           - Sicché... solo?

Rinaldo                            - Desolatamente solo. H tutore era se­vero, arido. Pareva mi dovesse far espiare delle colpe.

Ortensia                           - Colpe? Quali colpe?

Rinaldo                            - Che ne so io? Non mi nominava mai né padre né madre: una volta sola gli scappò detto del babbo, ma subito aggiunse: « Guai a te se gli somigli! Ti scaccio di casa! ».

Ortensia                           - E... di sua madre?

Rinaldo                            - Nulla. Mai. Una volta gli ho chiesto: «Non hai un ritratto della mamma? ». Mi rispose, brutalmente: «Non fare domande inutili!». E mi mise senza cena. Ero piccolo, allora, però non ho dimenticato né il tono né le parole.

Ortensia                           - Sicché, di sua madre, non ha mai visto un ritratto.

Rinaldo                            - Mai! Ma che cos'ha?

Ortensia                           - (che pareva svenisse) Niente. Un capogiro. E' passato.

Rinaldo                            - Ah, un altra cosa mi ricordo... Che mi chiamava Gerardo... Poi, un giorno, non più: mi Chiamò Rinaldo. Da grande, gli chiesi spiegazione... Mi proibì di parlargliene... Allora ho cercato, ho frugato... Avevo anche un altro cognome... Nelli. Gerardo Nelli.

Ortensia                           - (con voce disperata, cupa) E adesso... io mi dovrei spaccare la testa contro la parete! Me la dovrei spaccare! (In un soffio) Vada via! Vada via!...

Rinaldo                            - Ma, signora...

Ortensia                           - Via, via!

Rinaldo                            - (che non si capacita) Vado, vado. (Esce).

Ortensia                           - Rovinata!... Mi sono rovinata!... Non glielo posso più gridare che io... che sono io... (Con voce soffocata) Pazza, pazza, pazza! Ah, potessi ur­lare, urlare, urlare!...

 

                                            Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(Un'ora dopo. Stessa scena. Ortensia è seduta in una poltrona, immobile, con lo sguardo fisso).

Savtna                             - (entra).

Ortensia                           - (non  si muove).

Savina                              - Mirella voleva venire qui, ma non ne ha avuto la forza. La tua lettera l'ha schiantata. Le ho domandato di che si trattava, non ha par­lato. Che cosa le hai scritto?

Ortensia                           - (tace).

Savina                              - Che le hai scritto?

Ortensia                           - (tace).

Savina                              - Io non lo devo sapere?

Ortensia                           - No.

Savina                              - E' un segreto fra te e Mirella?

Ortensia                           - Sì.

Savina                              - Ma che è successo, in nome di Dio?

Ortensia                           - Chiedilo a tua sorella.

Savina                              - Non dice verbo. E' là, seduta su una poltrona, con lo sguardo Asso nel vuoto. Io ero presente quando tu le hai telefonato. Poco è man­cato che non mi cadesse in terra, svenuta. L'ho so­stenuta a tempo. Le ho dato un cognac. S'è ripresa. Ma non ha 'voluto parlare.

Ortensia                           - Con te.

Savina                              - Come, con me?

Ortensia                           - Perché anch'io con te non parlo.

Savina                              - Che c'entro, io?

Ortensia                           - Niente, proprio niente.

Savina                              - E allora?

Ortensia                           - Chiedilo a tua sorella.

Savina                              - Insomma che c'è?

Ortensia                           - Niente.

Savina                              - Come niente? Dopo il tuo biglietto s'è messa in quello stato... E tu con quella faccia... Che cosa le hai fatto?

Ortensia                           - Io?

Savina                              - Ha ragione il babbo quando dice che tu non fai che rovine.

Ortensia                           - Si capisce.

Savina                              - Ci provi anche piacere?

Ortensia                           - Sì e no. E più sì che no.

Savina                              - Sei veramente...

Ortensia                           - Che cosa?

Savina                              - Quello che dice il babbo.

Ortensia                           - Per questo mi trovo bene con te.

Savina                              - Io sarei?...

Ortensia                           - Peggio di me. Assai peggio.

Savina                              -  Io credo al babbo.

Ortensia                           - Naturale. Gli assomigli.

Savina                              - Voglio sapere! Lo voglio!

Ortensia                           - Oh, non perdere la calma. Voglio, voglio. Te lo dirò o non te lo dirò. A seconda. Per ora non ho ancora deciso. Non so ancora ciò che è meglio. La vita ci mette dinanzi così, all'improv­viso, a cose che ci tolgono il fiato. Bisogna soffer­marsi un momento, ritrovare il respiro, prima di agire.

Savina                              - Frasi! Dimmi la verità.

Ortensia                           - Oh, ecco, ci siamo, la verità. Dim­mela prima tu.

Savina                              - Non sono io che ho scritto a Mirella.

Ortensia                           - Sai che Mirella aspettava un mio biglietto?

Savina                              - No.

Ortensia                           - E allora! Mi meraviglia che tra so­relle non siate in confidenza. Io credevo che Mi­rella ti informasse di quello che fa, di quello che pensa, idi quello che sogna e che tu la ricambiassi.

Savina                              - Affatto. Mirella ha la sua vita e io la mia.

Ortensia                           - Separate?

Savina                              - Separatissime.

Ortensia                           - Indifferenti runa all'altra?

Savina                              - Indifferentissime.

Ortensia                           - Bel modo di essere sorelle.

Savina                              - Bello o brutto, è così. Dipende dai ca­ratteri. Opposti. Lei è sentimentale, ama la mu­sica, crede a tutto e a tutti, è un'ingenua.

Ortensia                           - Invece tu non ami la musica...

Savina                              - Non la posso soffrire.

Ortensia                           - ...non credi a nessuno e a niente. E sei di sasso.

Savina                              - Quasi.

Ortensia                           - E mai vi siete comunicati i vostri segreti?

Savina                              - Mai.

Ortensia                           - E dunque! Perché proprio questa volta dovrebbe fare quello che non ha mai fatto?

Savina                              - Ma perché non l'ho mai vista così scon­volta.

Ortensia                           - La confidenza è un'abitudine del cuore, e bisogna meritarsela.

Savina                              - Ma qui si tratta di qualche cosa di grave. »

Ortensia                           - Può darsi.

Savina                              - Io lo voglio sapere. Per aiutarla.

Ortensia                           - Vuoi aiutare ohi?

Savina                              - Mirella.

Ortensia                           - Oh, questa è magnifica, parola d'o­nore.

Savina                              - Non la posso aiutare?

Ortensia                           - Altro che.

Savina                              - E dunque!

Ortensia                           - Ma non lo farai. Non l'hai mai fatto.

 Savina                             - Invece lo farò. Dimmi quello che è ac­caduto e ti giuro che l'aiuterò.

Ortensia                           - E' strano che ora ti prenda tanta pena per tua sorella.

Savina                              - Mi credi proprio una tigre?

Ortensia                           - Ma, chi lo sa!

Savina                              - Non sarei corsa qui.

Ortensia                           - Potrebbe essere più per curiosità che per bontà.

Savina                              - E se fosse? Sì, sono curiosa. E poi?

Ortensia                           - Ecco, ti preferisco sincera.

Savina                              - Io lo sono sempre.

Ortensia                           - Non direi.

Savina                              - Se credi che mi prema molto la tua opinione!

Ortensia                           - E allora perché non torni a casa?

Savina                              - Vorrei avere qualche elemento per po­terla consolare.

Ortensia                           - Oh, guarda! Attraversi proprio una crisi di generosità. Brava. Dille questo: che non si preoccupi, che non ne vale la pena; che lui, Ri­naldo, non è come lei se lo immaginava.

Savina                              - Oh, è per Rinaldo che?...

Ortensia                           - Già. Mirella non si dà pace del suo congedo.

Savina                              - Pensavo che ci si fosse rassegnata. Mi pareva indignata, offesa, decisa a non vederlo più.

Ortensia                           - A parole. Di fatto, non ci rinuncia.

Savina                              - La solita testardaggine.

Ortensia                           - Perché tu... Se fosse capitato a te, ti saresti adattata a...?

Savina                              - Certamente.

Ortensia                           - Oh, guarda! Ma si fa presto a dirlo, quando non ci si trova.

Savina                              - Ma doveva accorgersi che, da tempo, non interessava più a Rinaldo.

Ortensia                           - Accorgersi non vuol dire accettare.

Savina                              - Non è il marito per lei.

Ortensia                           - No? E perché?

Savina                              - Perché no. Ma lei gli si è appiccicata e se l'è accaparrato.

Ortensia                           - Non è stato lui a innamorarsi di lei?

Savina                              - Lui? La corteggiava così come ogni giovanotto corteggia una ragazza. Corteggiava an­che me.

Ortensia                           - Ah sì? Ma se Mirella se ne è inna­morata ha fatto bene a farglielo capire e a fidan­zarsi.

Savina                              - Ha fatto male. Mirella è la minore e non doveva mai fidanzarsi prima di me. Prima dev'essere la maggiore, se no la gente dice che nessuno la vuole. Quando, di due sorelle, la minore si sposa, chi ci fa brutta figura è la sorella mag­giore! Quanto all'essere innamorata è da vedere se si tratta di amore per lui o di disamore per me.

Ortensia                           - Non capisco. Si sarebbe fidanzata per farti dispetto?

Savina                              - Press'a poco.

Ortensia                           - E tu ti sei sentita offesa, umiliata.

Savina                              - Press'a poco.

Ortensia                           - E l'hai invidiata.

Savina                              - Con tutta l'anima.

Ortensia                           - Non è bello quello che dici.

Savina                              - Lo so, ma è così. Merito suo, colpa mia, capriccio del destino. Ma lei è sempre stata la fortunata. Cercata, desiderata, contesa. A me non badava nessuno. Anche in casa è sempre stata la preferita. Non si sa perché. Io, la maggiore, ho sempre dovuto cedere alla sua volontà, ai suoi estri. Ne ho trangugiate di amarezze. Fin da pic­cole tutte le attenzioni .erano per lei.

Ortensia                           - (insidiosa) Povera Savina! Chi. sa quale bruciore in fondo all'anima. Ti comprendo, sai. A       poco a poco ti si deve essere accumulato tanto rancore da essere pronta a odiarla, quella tua sorella prediletta dalla sorte. Ma odio segreto, intimo, nato dal sentimento di un'ingiustizia che ti colpiva, da un fiele che non osavi confessare neanche a te stessa e che temevi sempre si rive­lasse in qualche lampo cattivo de] tuo sguardo. Non è così?

Savina                              - Che ne sai tu!

Ortensia                           - Molte cose si indovinano.

Savina                              - E quand'anche fosse...

Ortensia                           - Si spiegherebbe tutto. Non dico si giustificherebbe, dico si spiegherebbe.

Savina                              - Che cosa si spiegherebbe?

Ortensia                           - Che tu abbia portato via Rinaldo a tua sorella.

Savina                              - Io?

Ortensia                           - E che sei la sua amante.

Savina                              - Non è vero.

Ortensia                           - Perché mentire? Se tutto ti accusa, se il tuo smarrimento ti denuncia, se i tuoi occhi lo confessano.

Savina                              - Non è vero.

Ortensia                           - Allora ha mentito Rinaldo.

Savina                              - Gli hai parlato?

Ortensia                           - Sì, dianzi.

Savina                              - E ti ha detto?

Ortensia                           - Tutto. Mi ha raccontato di lui,, di te. L'ho costretto io a parlare.

Savina                              - Ma in che modo?

Ortensia                           - Non occorre spiegartelo.

Savina                              - E lui... c'è cascato.

Ortensia                           - Precisamente.

Savina                              - (negativa) Ah, non è possibile.

Ortensia                           - E allora come saprei che?...

Savina                              - E Mirella? (Con sarcasmo) Gliel'hai messo per iscritto?

 Ortensia                          - Le ho scritto soltanto che Rinaldo non è degno di lei. Ma tu, sii sincera: ti sei presa la rivalsa.

Savina                              - Forse.

Ortensia                           - Magari non eri neanche innamorata.

Savina                              - Questo sì. Innamoratissima. Da quan­do l’ha conosciuto. Da quando ha cominciato a frequentare la nostra casa.

Ortensia                           - E il pensiero di Mirella non ti ha trattenuta?

Savina                              - E lei, prima, ha rinunciato per me?

Ortensia                           - Non se ne sarà accorta.

Savina                              - Se n'era accorta benissimo. Anzi, ha accentuato la sua affettuosità proprio quando s'è accorta che io... Lei è sempre stata la beniamina, la favorita... e anche questa volta l'ha voluto es­sere.

Ortensia                           - E tu, l'hai punita. (Ironica) Brava!

Rinaldo                            - (entra).

Savina                              - Giusto tu. Perché le hai detto tutto? E che cosa le hai raccontato? Ma per quale follia?  E perché? A che scopo?

Rinaldo                            - Non so... Uno strano smarrimento... non so.

Savina                              - Ora basta! Ciascuno per la sua strada. Dovevi tacere. Il segreto non era soltanto tuo. Era anche mio. Dovevi pensare a me. E adesso, ecco quel che succede. Non ti voglio più vedere! Non voglio più vedere nessuno. A casa non ci torno. Andrò da una mia amica... Vipere tutti quanti. (Esce infuriata).

Rinaldo                            - Savina! (Fa per seguirla).

Ortensia                           - La lasci andare e ascolti me: mi ascolti come se fossi sua madre.

Rinaldo                            - Mia madre era una santa. Ne ignoro il volto ma io la vedo con un volto d'angelo. Lei, rievocandola, la profana! Badi!

Ortensia                           - Se io le dicessi che sono migliore di quanto mi sono descritta un'ora fa... Se le dicessi che 'è stata quasi tutta una finzione... mi crederebbe?

Rinaldo                            - No.

Ortensia                           - Perché?

Rinaldo                            - Perché sul proprio conto si possono fingere talvolta meriti; mai vergogne che disono­rano.

Ortensia                           - E invece sì. Vergogne, si possono anche fingere, quando serva. Non ci si fa umili, al bisogno, non si finge umiltà? Fingere vergogne è sprofondarsi nell'umiltà fino alla nausea.

Rinaldo                            -  Ma per scendere così in basso, biso­gna già essere sulla china.

Ortensia                           - E ohi non lo è? Il fondaccio nostro è torbido, limaccioso. Guasta tutto. Lorda tutto. Idee, sentimenti, tutto. E una volta alla deriva, come me... (Altro tono) All'inizio di ogni vita scia­gurata di donna c'è sempre la mala azione di un ribaldo... (Altro tono) La gran vita! E poi, come resti? Ecco qui. (Altro tono) Io ero nata per avere una casa e l'ho avuta, per avere un marito e l'ho avuto, per essere madre e lo sono stata, per vivere nella mia casa come moglie e madre, paga dell'oggi, sicura del domani. E ci vivevo. Una turpe ventata m'ha gettata fuori, percossa a sangue dalla mal­vagità altrui, macchiata dalla viltà mia, e con un solo desiderio: dimenticare, cose e volti, ripagare la crudeltà della sorte, cancellandone i ricordi. Via! Via! Ma i ricordi tornavano. Erano là, pallidi spettri; erano là più vivi dei vivi. (Una pausa) E allora, dopo tanto patito egoismo essere utile a qualche cosa, a qualcuno. Finalmente! Un po' di luce. E per quel po' di luce, qualunque simulazione. Almeno questo! Almeno questa impressione le ri­manga di me... Che saprei anch'io fare del bene... che pur di farlo sono disposta a perdermi... Oh, non lo dico per difendermi... E poi sì, mi difendo, ne ho il diritto. Le donne, si fa presto a giudicarle, a disprezzarle! Ma bisogna sapere quel che gli altri le fanno e ne fanno... In ognuna c'è una luce na­scosta. Anche in quelle che sembrano, che sono le più spregevoli... Chissà... forse è il privilegio di mettere al mondo creature... Anch'io, le posso par­lare, nonostante tutto, le posso parlare come una mamma. Posso dirle: «Lasci Savina»... L'avrei la parola per deciderla, per convincerla... Ma mi sono chiusa io stessa la gola nel momento in cui avrei voluto gridarla! E dinanzi a lei non sono che una misera donna. In un minuto l'espiazione di tutta una vita!

Rinaldo                            - Sèguiti, sèguiti a parlare per enigmi, a imbrogliare. M’ha giocato una volta, non mi gioca più. E Savina, io, non la lascio.

Mirella                             - (che è entrata ed ha sentito l'ultima fra­se) Ah! Questo è. Ho fatto bene a venir qui. Questo è. Lo dovevo capire. Stupida che sono. Una infamia, ma la dovevo capire! (Cade di schianto su una poltrona e scoppia a piangere) Lo sapevo che era la mia nemica. (Si raddrizza, si asciuga gli occhi. Con sfida) Dov'è?

Ortensia                           - Se n'è andata. Non la vedrai.

Mirella                             - La cercherò. La troverò.

Rinaldo                            - Che vuoi fare?

Mirella                             - Taci tu!

Ortensia                           - (a Mirella) Calmati. E non dimenti­care che è tua sorella.

Mirella                             - E lei se n’è ricordata?

Ortensia                           - Abbi pietà.

Mirella                             - E lei e lui ne hanno avuta? Ne han­no avuta?... (Cade a sedere di nuovo e piange).

Ortensia                           - (le va vicino) Piangi, piangi... ti farà bene. (A Rinaldo, sottovoce) Se ne vada.

Rinaldo                            - (esce).

Ortensia ----------------- - Siamo sole. Calmati. Quando ci si so  incontra con la vita è sempre un crollo. Tu vivevi in un sogno... Sempre si vive in un sogno, prima. Ma il risveglio! Che vuoi fare?

Mirella                             - Non mi chiedere.

Ortensia                           - Rifletti. Non cedere agli impulsi. Sono sempre dannosi. Hai ragione di torturarti. Non si agisce così. Una sorella! Torna a casa. Lei non ci sarà, non ci verrà, non oserà. (L'accompagna sul fondo. Mirella esce).

Astolfo                            - (entra da destra) Che maleficio hai combinato? Ho visto adesso Rinaldo. E' nella sua camera, torvo e cupo, e non gli si strappa verbo. Ho lasciato Mirella in uno stato...

Ortensia                           - Se n'è andata ora.

Astolfo                            - E' stata qui?!

Ortensia                           - Fa pena.

Astolfo                            - Ma che c'è in nome di Dio!...

Ortensia                           - Dio sa quello che fa. Dio ti punisce. Finalmente. Da anni aspettavo questo momento. E ti punisce nelle tue figlie. L'una contro l'altra. L'una rivale dell'altra. Savina ha tradito Mirella.

Astolfo                            - Che infamia vai dicendo?

Ortensia                           - Realtà, verità. Terribili verità.

Astolfo                            - Disgraziata!

Ortensia                           - Disgraziato tu, che a forza di far il male agli altri te lo sei tirato in casa. E non potrai neanche infierire contro nessuno perché tu non sei degno di giudicare.

Astolfo                            - Ma io ti farò tacere!

Ortensia                           - No, che non ci riuscirai. Anzi voglio parlarne anche a tua moglie.

Astolfo                            - Tu le dirai?

Ortensia                           - Tutto: e soprattutto di te.

Astolfo                            - Non ti crederà.

Ortensia                           - Ho la prova.

Astolfo                            - Che prova? Fantasie, le tue fantasie.

Ortensia                           - Una lettera.

Astolfo                            - Mia?

Ortensia                           - Tua, tua.

Astolfo                            - Sarà apocrifa.

Ortensia                           - E' di tuo pugno

Astolfo                            - E' un falso.

Ortensia                           - Non sono della tua scuola.

Astolfo                            - Un falso! Non. può essere che un falso!

Ortensia                           - Lo vedrà tua moglie.

Astolfo                            - Che lettera? di che lettera mai può trattarsi?

Ortensia                           - Un tuo sbaglio. Ma sono bene gli sbagli che perdono i malfattori. Quando hai indotto mio marito al falso in cambiale, per deciderlo gli hai rilasciata una dichiarazione. In essa ti afferma­vi responsabile della losca operazione. Ma l'indo­mani sei venuto a casa mia mentre mio marito era in ufficio e, a suo nome, hai frugato fra le sue carte e ti sei portato via un foglio. La sera, mio marito, saputo della tua venuta, poco mancò non mi picchiasse. Poi rovistò anche lui tra le carte. Tu avevi sbagliato. Il caso, la furia... Ti eri preso un foglio per un altro. Mio marito mi raccomandò di custo­dirlo. Io l'ho fatto tanto bene che al momento del processo non l'ho più ritrovato. Molti anni dopo m'è venuto sott'occhi. E l'ho conservato.

Astolfo                            - Ammettiamo vera tutta questa favola. Che intendi di farne a tanta distanza?

Ortensia                           - Portarlo a tua moglie. Che Renata ti conosca, finalmente.

Astolfo                            - Se tu lo fai commetti un delitto. Mia moglie vive sicura di aver un marito perfetto, una ricchezza onesta, figlie esemplari. Dare la felicità è difficile: forse è impossibile: darne la parvenza è un'impresa che si può tentare. Io l'ho tentata e ci sono riuscito. Ipocrisia, tu dici? Ma il vivere in comune senza l'ipocrisia non è accettabile. E lei, Renata, è felice. Fuori io, tutto quello che vuoi: imbroglione, rapace, crudele, donnaiolo; ma in casa, perfetto. Di me, delle figlie, lei non sa che le cose belle, lei è sopra un altare e all'altare non si portano che i fiori. Senza che ci si sia messi d'accordo, tutti noi di famiglia siamo complici idi questa devota con­giura del silenzio. Guarda: di quanto è successo ora, lei non saprà nulla. Né io, né Savina...

Ortensia                           - Bada! E' andata da una sua amica.

Astolfo                            - Immagino chi è. L'andrò a riprendere. E neppure Mirella farà mai parola a Renata. Noi accanto a lei vorremmo essere migliori. Ma lungi da lei, tu sai: le passioni, le debolezze, gli appeti­ti... Se tu ci smascheri, se di colpo le togli le illu­sioni, tu la uccidi.

Ortensia                           - (.tace e lo guarda).

Astolfo                            - Non mi credi?

Ortensia                           - Nemmeno una parola.

Astolfo                            - Ho modo di fartene persuasa. Ortensia - E come?

Astolfo                            - Vieni ad abitare a casa mia per qual­che tempo. Studia, osserva e vedrai che ti ho detto la verità. Un mese, va bene? Rimarrai tra noi un mese. Se ti ho mentito consegnerai la lettera. Ci vieni?

Ortensia                           - Non è possibile. E poi è inutile. Se non fosse vero non ti saresti azzardato a farmi quella proposta. E sia. Non mostrerò la lettera a tua moglie. Non per te, sai? Ma per lei. Colpire te sempre, ma travolgere lei... Che almeno si creda fe­lice. Ma non simulerà? Non sarà, a vostra insaputa, al corrente di tutto?

Astolfo                            - E a che scopo?

Ortensia                           - Per tenervi uniti; perché non si sca­teni l'uragano e vi disperda. Le madri sanno tacere. La lettera gliela darai tu stesso... No, non quella; un'altra che le scriverò io, per scusarmi di non poterla salutare. Ormai, qui non posso più restare. Tu non sai che strazio sia per me partire! Rinaldo è mio figlio.

 Astolfo                           - No!

Ortensia                           - E' il mio Gerardo. Mi ha detto lui stesso che il tutore gli ha fatto cambiare nome e cognome... Ma adesso che l'ho ritrovato, non posso far nulla perché mi riconosca. Anch'io, lo vedi, quanto sono punita! Sì, potrei rintracciare le carte da cui risulta che io... Ma ti par possibile che una madre presenti al figlio la carta d'identità? E poi, quand'anche... non posso più. Ho messo tra me e lui l'irreparabile... Per rendergli più facile dirmi il vero motivo della sua rottura con Mirella, avendo intuito che si trattava di cosa grave, mi sono di­pinta ai suoi occhi una creatura volgare, spregevole, spudorata... Sono scesa così in basso che ora non posso più risalire! (Controscena di Astolfo) No no, è inutile, non si può rimediare... Anche se ci riu­scissi, anche se lui si convincesse del contrario, come potrà scomparire dalla sua memoria, e dalla mia, l'eco di quelle disgraziate parole, una sola delle quali "basta a distruggere la dignità di una donna? Gli ho teso una trappola e io, per la prima, ci ho messo il piede. Lui non potrà mai vedere nel mio volto un volto materno. M'ha detto che per lui, che mi crede morta e che non ha mai visto neppure un mio ritratto, sua madre ha un volto d'angelo. La­sciamo a lui e a me questo volto incomparabile. Egli lo immagina luminoso. Meglio immaginarmi un volto d'angelo che vedermelo coi lividi delle pas­sioni. La mamma da lui veduta è infinitamente mi­gliore di me. Gli lascio quella. Egli non penserà a me, penserà a lei. E anch'io, attraverso questo pen­siero, mi sentirò un po' come lei, mi eleverò un poco, e il mio volto terreno e sciupato si illuminerà dei riflessi celestiali del suo. Lo vedi? Tutti abbiamo le ali purché qualcosa o qualcuno ce le sciolga. Porse, chi sa, questo potrà anche confortare il mio terri­bile sacrifizio. Ah, son tutta dolore... Sfinita, avvi­lita... Tanto spasimo per niente, come avessi dato alla luce un cadaverino! (Siede affranta. Una pausa) Torna a casa tua... ne avrai delle angosce... dover nascondere tutto a tua moglie... e le bue figlie così...

Astolfo                            - Manderò Savina in viaggio, un lungo viaggio... n tempo... Ma ora ti chiamo Rinaldo.

Ortensia                           - No, non lo chiamare... Non ho più la forza di rivederlo...

Astolfo                            - (esce).

Ortensia                           - (che non se n'è accorta, continua) Perché vuoi che venga?... Perché la sua presenza mi laceri le viscere?... Prima era diverso... prima lo pensavo, lo immaginavo, ma non sapevo com'era­no i suoi occhi... Adesso lo so come sono... li porterò sempre nei miei... Vorrei diventare cieca per non vedere più altro... Non lo chiamare!

Astolfo                            - (rientra con Rinaldo) Ecco Rinaldo.

Ortensia                           - (dà un grido) Ali!

Astolfo                            - (a Rinaldo) La signora parte, bacia­le la mano.

Rinaldo                            - (lo guarda, sorpreso) A costei?

Astolfo                            - Baciale la mano.

Rinaldo                            - Come?... Se è stata lei...

Astolfo                            - Devi!... Nessuno di noi può condannare l'al­tro... Tutti uguali...

Rinaldo                            - (allusivo) La ter­ribile uguaglianza del male! Ecco. (Bacia la mano di Or­tensia) Parte davvero?

Ortensia                           - (con una sforzo supremo, con voce piena di lacrime, ma con gli occhi asciut­ti, tentando di sorridere) Eh!... Non sono una lontana parente?... Esser lontana... è il mio destino! (Sta per scop­piare in singhiozzi, ma si do­mina) E poi, che dico lonta­na? Io sono una mezza morta che cammina... Oh, siamo in tanti mezzi morti che cammi­nano... Mezzi morti nei dolori di ieri, mezzi vivi in quelli di oggi... (Ad Astolfo) E adesso vado a scrivere la lettera! (Si alza, ma fatti pochi passi va­cilla).

Rinaldo                            - (pronto, la so­stiene).

Ortensia                           - (si rinfranca, ro­vescia il capo e lo guardia).

Rinaldo                            - (ad Astolfo) Qualcosa di forte, presto!

Astolfo                            - (fa per avviarsi).

Ortensia                           - (che con un terri­bile sforzo si è ripresa) No, no... grazie... Non è niente... (E si avvia curva, invecchiata, schiantata, trascinando le gambe) Non vi disturbate! (Tenta disperatamente di sor­ridere) Eh, sono gli anni che cominciano a pesare... (Esce).

FINE