La matriarca

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Non esistono sinonimi, nel senso

LA MATRIARCA

di Giuseppe Manfridi

                                                                                  ...e per di più sei donna.

                                                                                 

In una città che, se sarà dato di nominarla, chiameremo Corinzio.

I personaggi che agiscono sono quattro, altri due si danno più con la voce che col corpo.

I quattro sono: una donna giovane che, in qualche modo, è MEDEA; un’altra più giovane e consunta che, in qualche modo, è CREUSA, poi il padre di lei, una sorta di CREONTE; infine, il compagno di Medea, in qualche modo: GIASONE, con aria da bonzo.

Le due voci sono quelle di un vecchio giudice l’una e di un massacrato lottatore l’altra. Di quest’ultimo vedremo solo l’informe sagoma sotto il manto che la ricopre.

La scena assembla più spazi, di modo da poter offrire, quando serve, una simultaneità di immagini e di presenze.

A perno dei luoghi, la dimora di Creonte. E’ come l’interno di un mulino, con una trave centrale a fare da fulcro. Poi, attorno, una teoria di finestre e finestrelle su diversi piani e coperte da tende. Più avanti, è dove sta Medea. Un alloggio da poco. Una pozza. Un pollaio. Molto polveroso. A definirlo basta un tavoloccio con due sedie, lenzuola ammassate e pochi bagagli appena disfatti. Una breccia nel muro vorrebbe essere un forno. Più in fondo, sfalsato di livello e impercepibile per buona parte dell’azione, c’è lo spazio di un talamo. Pregiato e orpelloso. Creusa  (accento sulla ‘e’) va e viene di lì.

Da ultimo, percorsi neutri che simulano l’esterno.

Una nota. A pagina 25 Medea usa l’espressione ‘con classe’, definendola:”odiata da un poeta da me amato.” Il riferimento è a Pasolini.

Infine, per onestà: nel mio testo è sepolto, cripticamente tradotto, un verso del poeta Kavafis. Quasi un talismano.

 


(E’ l’istante meridiano.

Il luogo di quest’inizio è la tana della donna che chiamandosi da se stessa ‘Medea’ può essere lo sia.

Sporcizia; un senso di ragnatele e di cose appassite.

Lei ha il viso ardente. Si muove irrequieta tra robe sparpagliate che tocca, arraffa e getta lontano, a mucchi, senza criterio. Guarda fuori, aspetta e poi rientra riprendendo il centro di uno spazio che ha in evidente orrore.

Inala fumo da un robusto tronchetto nero che si direbbe più un ranuncolo che un sigaro. Ma è un sigaro.

Dal cortile, guaiti di cani.)

MEDEA: E Giasone non torna.

(Un tempo)

E Giasone non torna.

(Un tempo)

Io mi domando dove starà ronzando adesso. Dove e con chi

a tessere i suoi imbrogli. Ladro!

Di me e di ciò che ci compete. Ah, bello lui che m’ha cacciata

come calce nel muro  e chi s’è visto s’è visto!...

Spatolata, lisciata, messa lì a seccare e via!

Chi s’è visto s’è visto! E in che topaia, poi!...

Tra che topaie, poi!... (Fuma)

E tra che topi!

(Latrati. Lei fuma.)

No, davvero, non c’è più nulla da guadagnarci, accettalo:

da me e da lui, se ancora insieme: nulla.

O, almeno, io da lui: più nulla. Ammettilo, Medea:

per mille erranze stanco

sembra s’incurvi a più non posso e scricchioli

questo povero rapporto ormai allo sfascio.

Sembra?... Altro che sembra! E’ certo: ormai allo sfascio.

Ma tu, sincerità, lo salveresti?... Io sì, sì, sì!

Brucio per lui, brucia per me...

che cosa, dunque, allora?...

(Latrati e latrati. Lei fuma.)

E questo postaccio, poi, che a metà si barcamena

tra un campo profughi e un’agricola congrega

di sbalestrati lo si direbbe fatto apposta

per mettere alle corde ben altri amori in crisi che non il nostro!

Corinzio, nome

da burla: così si chiama. Anche l’estate

non ne perfora le polveri. Qui ancora

fa monumento il gelo.  (Latrati)  Ah, passeri

miei bellissimi e adorati!...

Solo voi, miei levrieri come me randagi...

miei fantastici veltri

sotto vesti di molossi e di mastini

e di errabondi lupi... solo voi siete un vincolo presente!...

(Fuma)

Di lui già mi sento che non so più dirlo.

E doppio tormento è subire un tormento e doverlo indagare.

Ma che cosa lo scansa? O cosa me da lui? Che cosa?

(Si rianima.

Rimesta tra le sue robe.

Reggipetto smagliati,  giarrettiere poco fini, biancheria trascurata e maglie ingrigite)

Fare sforzi da donna?... Forse.

Qui ce n’è da gettare. Logore cose che non chiamano più...

dai lembi alonati, con gore incancellabili e macchie di sudore

e duri calli di secrèti umori, sbrindellate lane e non immacolate

seconde pelli che ai maschi piace veder mordere alle polpe.

Fare sforzi da puttana? Forse.
Ma ne ho bisogno?

Fa sforzo  un’ala a sostenersi in aria?

O un’alga a inarcarsi elastica nell’acqua?

No, il mio corpo funziona: il suo a me

sa allacciare senza il minimo sforzo e per reciproco bisogno.

Oh, attenta alle tagliole che l’inquietudine dissemina!

Da te distraiti, Medea, se questo può distrarti!

(Riaccende, se spento, il suo sigaro e, fumando, pratica una respirazione taumaturgica.)

C’è un altrove, da tutto ciò distante,

in cui per certo stanno, a chiare cifre iscritte,

le ragioni di quanto mi dà ansia.

(...)

(Nella cava consiliare.

Giasone, a torso nudo e ansimante, ha le spalle lucide di sudore e le mani avvolte in bende arrossate. Lo fronteggia Creonte, che si fa aria con uno sdentato ventaglio dalle stecche di sandalo.

Si sparge per terra un velario di sangue.

Se seduto, Creonte si alza e gira intorno all’altro soppesandone la figura e la stazza. Gli saggia i bicipiti. L’umido del sudore sui polpalstrelli lo infastidisce. Poi si avvede del sangue che gli bagna le suole.)

CREONTE: (Gridando fuori) Segatura!... Portate segatura!

(Creonte torna al suo trono. Un sedilaccio di vimini imbarcato.)

CREONTE: Bene. Dunque, sei tu, a quanto pare,  l’homo novus.

GIASONE: Non ho combattuto per vincere alcunché,

ma per ricacciare in gola l’offesa a chi mi ha offeso.

CREONTE: Il che t’ha guadagnato, seppure lo ignoravi,

una vittoria d’enormi proporzioni. Quel colosso che hai abbattuto,

la cui aorta inesauribile poco manca che ci allaghi,

era il gendarme, sappilo, della nostra discendenza.

GIASONE: Cose vostre. Non m’impiccio.

CREONTE: Invece devi. Ormai ti tocca.

GIASONE: A me? Che cosa?

CREONTE: Di mischiarti ai fatti nostri: sono i tuoi.

Il nostro impero latita di eredi e le viscere più adatte

a partorire un buon capo son quelle degli Dei, ovvero:

quelle del caso che, a quanto pare, han partorito...te.

GIASONE: Me?

CREONTE: Te, sicuro. O non fu il caso

a spingerti sbandato

da luoghi sconosciuti ad altri posti ignoti? E a combinare

la perfezione dei percorsi con quella degli orari, e a farti giungere

esattamente qui, esattamente ieri.

(Ad altri)  E usate la fiamma, o con la calce

cauterizzate l’emorragia!

(A Giasone) L’hai sfondato con pugni che parevano bombarde. Domineddio, non l’hai capito? Quell’energumeno

era preposto a dirci chi meritasse dopo di me il comando,

e ora eccolo ch’è laggiù schiantato, là ridotto

a quell’immonda fontana che c’inonda. Tua l’impresa e la città

affoga nel silenzio la sua gioia.

(E si alza, con aria tronfia da beato mugnaio.)

Per te, perciò, mi alzo. Non da poco

è indurre a un gesto un Re! - Di qui, sbircia.

(Creonte fa accostare Giasone a una feritoia. Bassa e scomoda.

Giasone si china e, di là dal muro, non visto vede...

Creusa, esile e laminata, nella sua virginale alcova.)

CREONTE: Non ti sembra un’Andromeda in attesa?... Lo è.
In attesa di te.

GIASONE: (Voltandosi stupefatto)  Di chi?

CREONTE: Già, proprio: di te, poiché sta a te,

neonato principe, di scrofolare con mia figlia e ingravidarla.

Avrai notato, immagino, le deformità. Notate?

GIASONE: Di chi?

CREONTE: Sue, ma non solo. Di quasi tutti qui: sguinci, mutili e                                                                                                                                   sciancati.

Per un eccesso, pare, di copule in famiglia.

GIASONE: Tra chi?

CREONTE: Tra bisavoli indecenti, e ora ecco i risultati.

Perciò quello che ci vuole è sangue esterno. E ben temprato.

GIASONE: Di chi?

CREONTE: M’hai capito benissimo: di te. Chiaro il perché?                                                                                                                               Ristrutturare

fibbre depresse che tendono al morboso e in estinzione.

GIASONE: Di chi?

CREONTE: Della mia gente, santiddio! Sei sordo d’anima?

Pure Creusa, poveretta - così si chiama - ... ma l’hai vista?...

Ammetterai: bellina. Ma l’hai vista?

In agonia. Reversibile agonia, ma in agonia.

Pare involucro a se stessa ed è regina. E’ figlia mia.
Semipadrona in dono a chi la impalma.

Già si diceva, per ‘absurdum’, che di farlo toccasse a me, suo padre.

Macroscopica follia, eppure già vociferata.

(Levando un calice...)

Ma oggi l’incubo svanisce. Ti sia lode il fatto in sé,

e sangue d’uva perciò a te,

pugile da monta, levo!...

Il tuo nome, mi dicevi, è?...

GIASONE: Non il mio nome ti ho detto, ma quello della donna

che quel balordo, steso / dai magli della mia rabbia, ha offeso.

CREONTE: Già, Medea, che lui, per ridere, chiamò Merdèa.

GIASONE: Una risata che gli ha fatto da epitaffio.

CREONTE: Eppure sosteneva / di dileggiarla a ragion veduta.

GIASONE: Vi son creature che non ammettono giudizio.

Tale è Medea. Me-dea. Il bene e il male le sono estranei come

al sole i passeri dell’aia.

CREONTE: Taglia corto. Te, piuttosto...

te-Dio!... Gradisci il gioco?... Mutuato dal nome di quella vagabonda!

GIASONE: Muta l’accento e si trasforma in ‘tedio’.

CREONTE: Parola affliggente ma non pericolosa.

Ben s’addice al potente, per il quale

l’inazione s’impone spesso come obbligo formale.

GIASONE: Pane al pane: che cosa vuoi da me?

CREONTE: Ancora? Ma il tuo sperma,

benedetto dagli eventi e gradito alla mia gente, poiché, ignaro,

hai assolto un dovere che te ne guadagna un altro.

GIASONE: Solo questo e basta? Che sgualcisca tra le cosce

la tua figliola, è questo quel che vuoi e basta?

CREONTE: Appunto: e basta. Dopodiché, profitti.

GIASONE: Cioè, sarebbero?

CREONTE: Sarai mio vice fin quando io sarò al mondo, poi il padrone.

In quest’istante ti nomino mio figlio, e di mia figlia

ne faccio la mia nuora. Il tuo becchime. Bell’aurora

s’è accesa per te stamane, non ti pare?

(Ad altri)  Ma bruciatelo, perdio! Lì nello stagno, andiamo, in fretta!

GIASONE: Se ho abbattuto quell’hidalgo, tu questo te lo scordi,

è stato in nome di una donna che più non nomino: il suo nome

pare sia di troppa insidia perciò meglio sorvolare. Ma è con lei

che ho spartito, e superato, le sbandate fortunose

che tra punti di posta, e guadi, e strade, e tra cocenti

carnaie balneari m’hanno spinto

a darti tanta gioia. Dunque: non

da solo. Ma in coppia, mi capisci?...

Tu vuoi adesso che scalmàni nel ventre di tua figlia e la vendemmi?

                                                                                                                          Bene.

Ma consacrarle il mio nome, ovverosia

le mie giornate, il mio tran-tran dell’”àlzati, pigrone”, del “ciao,                                                                                                                                   amore,

com’è andata la giornata?”... No, impossibile!

Quell’altra, la prima, ha su di me autorevoli poteri.

E pei diritti che su di lei mi ha dato

s’è presa dei diritti, e in bocca se li tiene. Come un cane la sua carne.

Al tuo mastino, dì...

ti proveresti mai a sottrargli il boccone mentre mastica? Non credo. Tali sono

due amanti l’un per l’altra quando l’amore si coniuga al presente.

CREONTE: Masticazione?

GIASONE: Praticamente.

CREONTE: Già, già. Non è stonato

parlandomi di lei parlar di cani.

Canina per davvero

la sua natura: so di schiere

sciacallesche che le fanno da scherani.

GIASONE: I suoi segugi.

CREONTE: Non solo. Anche coyote e quasi lupi.

Tutti attorno le si accampano

erigendosi a muraglia e a farle da capanna. Così dicono.

(Del fumo entra da fuori. E’ della pira accesa nel cortile.

Creonte lo respira.)

Che mastodonte, diamine,

hai saputo trasformare in un oggetto!

GIASONE: Quelle bestie che ti fanno tanto effetto

sono stati i nostri numi protettori.

Comparvero un giorno, e non so dirti come,

nella tenda di Medea sul far dell’alba. Quella notte

lei non mi volle con sé. Era il culmine

d’una sosta che durava ormai da tempo. Per suo, di lei, volere.

“Io sono - mi disse - come il vento che crolla imponendo la bonaccia.

Tu, ugualmente, Giasone... - eccoti, Re, il mio nome! -

tu, ugualmente, accettami così.

Sia quando accettarmi equivale a godermi, sia quando a subirmi.”

E ci impiantammo nell’arido d’una spiaggia illimitata.

Per un tempo che a me parve illimitato. (E tace.)

CREONTE: Che  cosa ti distrae... Giasone?... Questo fumo?... 

(Glielo sventaglia contro)

Se tu potessi acchiapparlo sarebbe il tuo trofeo. Continua!

GIASONE: Poi comparvero quelli, i suoi cani:

Fiori di polvere, minuscoli. Il deserto

per molarne le zanne aveva offerto

i suoi cristalli, e le sue rose / minerali per le grinfie.

La cipria delle dune ne aveva tinto il pelo. I venti

ne alimentavano le corse. - Ciotoli ardenti

quei feti già furenti.

“Da oggi - lei mi disse - mai più soli, Giasone... la vecchiezza

sarà un infimo tormento.” E li comanda

con un cenno del capo. Anzi, di meno:

col pensiero d’un cenno. Sono, mi dice,

quasi il suo corpo: così sfrangiato, espanso, bizzarramente osceno.

(Creonte lo osserva annoiato e scettico. Si sventaglia, poi reagisce.)

CREONTE: Ti temo irretito, mio caro giramondo.

La vagabonda, lo consento, ha avuto la sua parte nel farti venir qui.

Ma al bando adesso la preistoria e ci si addentri in epoche moderne!

Questo ha valore: il resto è solo / abnorme convulsione d’officina.

Che si disperda, via! Come nel cesto le pagine ammucchiate

che han prodotto la pagina risolta. Altro non conta.

Noi siamo nel presente, che è ciglio del futuro.

Vuoi toglierti dai fatti? Ma se sei tu, Giasone, che hai sospinto

sulle fascine quella montagna umana!...

(E va presso uno spiraglio che dà verso l’esterno.)

CREONTE: Vieni, guarda!... Qui alla finestra, Giasone, guarda:

possano, e presto, le proporzioni di cotanta morte

divenire quelle / del tuo avvenire!

(Giasone si sbenda i pugni e si scansa brusco.)

GIASONE: Sarebbe come ritornare nel reticolo del mondo.

CREONTE: Ne stai fuggendo?...  E chi t’insegue?

Forse qualche polizia?... Di che paese?...

GIASONE: E’ che vi sono questioni più profonde

che l’intuzione da sé non può raggiungere.

(E muove un passo per andar via.)

CREONTE: (Recuperando le bende da terra)  Giasone, aspetta!...

Ora che fai? Te ne vai e mi lasci / di te solo coriandoli lerci?...

Il passato è nel tempo, il futuro è nello spazio.

(Giasone si blocca, e si volta a guardare il Re.)

CREONTE: Il passato è la notte delle femmine in calore,

è la notte uterina, è l’impero delle vulve e dei suoi grembi

schierati cupi a sperderci nel mondo. E’ nella notte

delle buie matriarche, generatrici saturnine

dei loro stessi pasti. Su tutto ciò

s’è ormai, però, abbattuto il sole e la luna è in fuga.

(Creonte spinge Giasone verso un’altra feritoia, alta e comoda, e dalla quale entrano spire dense di vapore.)

CREONTE: Ora guarda laggiù, eroe...

eccolo il futuro, l’impero dell’astro, là oltre

la grisaglia fiammante... la vedi?...

La città, là in fondo, spunta. Ne emerge il nerofumo

da una padella di cemento. Fa da bordo

smerlettato all’orizzonte. Noi

è a quella che tendiamo.

Dal profondo delle pozze, dai capanni

di fango dove stiamo: è a quella che tendiamo!

Perciò vogliamo averti. Apprezzaci!

E pure te stesso apprezza

da tutto ciò reclamato al vertice.

(Giasone incantato alla finestra.

Gocce di sangue gli colano dalle dita.

Creonte, da dietro, gli cinge la fronte con la benda sudicia.

Giasone ha un sobbalzo.)

CREONTE: Per le misure della tua corona.

(Giasone picchia il pugno della destra nel palmo della sinistra.)

(.......)

(Altrove. Sale il guaire dei cani. Di nuovo nella pozza di Medea.

La donna ora è ferma, stabile, seduta ed espira l’ultimo fumo del sigaro ormai terminato. Opera un sortilegio.)

MEDEA: Spargo...

mi spargo...

mentre di me si sparla...

oppure di me si tace,

o si pensa.

Il mio esistere è di per sé bastante

a una propaganda immensa,

celebrante - che vale

se con gioia o fastidio? - il nome mio.

I cammelli tra le dune sono pure fantasie,

solo i ‘tuareg’ ne sentono l’orina

tra i pelaghi di sabbia navigando.

Non più reale è il ricordo di ciò che non si sa. L’embolo

rotea nel sangue in un canto di dolore.

Si smuovono teste dalla terra scotennate

e mi insufflano consigli. Pesto

defunti mormoranti. Denervati. Sconnessi. L’embolo

s’accosta alla foce del respiro. “Ordini, mi dice,

ti bisbigliano i morti, non consigli.” L’embolo

s’annuncia alla ragione, infesta i liquidi che esalo e spargo.

Nascitura m’annuncia, l’embolo,

l’opera che indura. E quello ch’io sono spargo.

L’embolo ha un fine: la mia tristezza. Infine

sa farne uso. “ Il meglio di te, Medea,

va arroventadosi” mi dice. “Quello ch’io sono, è.”

(Butta il mozzicone spento tra le vesti sgualcite.

Ancora, da fuori, brontolii e guaiti.)

(......)

(Creusa, malata, e Giasone. Nella stanza di lei, con imbarazzo.

Il volto corroso della ragazza è chino ma il suo sguardo, dal basso all’alto, è trafiggente.

Giasone si è ributtato sulle spalle un peplo a ricoprire il dorso nudo e tutt’ora fradicio. La garza zozza lo cinge ancora alle tempie.)

CREUSA: Mio padre sa una cosa che non ama riferire.

E ora, ci scommetto, è fuori là che origlia

nella speranza che neanche io lo faccia. Lo disilludo subito.

Non ho mai atteso, e lui lo sa, questo momento:

che qualcuno la spuntasse con quello su cui hai vinto.

E’ che, purtroppo, un po’ troppo confidavo

nei limiti di un sesso che è già un limite a se stesso: il tuo.

Ma così è. M’hai vinta. E sia.

(Stringendogli i testicoli...)

Solo se stringo la mano non mi trema. Compatiscimi.

Ora, se vuoi, / possiamo cominciare a conoscerci un po’ meglio.

(......)

(L’angolo di Medea.

Mugolii, guaiti, ronfi. Uggiolii che avvertono...

Con passo malfermo, e attento a non aizzare tanto pericolo, si presenta sulla porta Creonte. Superato l’uscio dà la senzazione di sentirsi al sicuro.

Medea è seduta. Con la schiena eretta e gli occhi chiusi. Tiene stretto in un pugno un mazzo di carte, oleose e annerite, delle quali alcune sono disposte con imperscrutabile ordine per terra e non solo.

Creonte, non visto, prova a indagarne la logica, poi ne approfitta per buttare l’occhio nei bagaglio di lei alla quale, infine, si rivolge.)

CREONTE: Stai dormendo o sei solo concentrata?

MEDEA: (Senza schiudere gli occhi)

Peggio, travolta dall’ispirazione.

Caro Creonte.

CREONTE: Già, scordavo.

Una divinatrice.
Cara Medea.

MEDEA: E tu, invece,

un eccellente poliziotto.

CREONTE: Direi piuttosto un Re.

I poliziotti sono i miei gregari.

MEDEA: Me ne compiaccio per te: che tu lo sia, e nell’omaggio

che fai nel visitarmi.

CREONTE: Onorevole omaggio: a una Regina.

(Medea apre gli occhi. Lo guarda.)

MEDEA: Vedo che sei fornito non solo di un esercito

ma pure di un’attenta segreteria protocollare.

CREONTE: Un ufficio degli Esteri. La dicitura è questa.

MEDEA: Conosco l’eufemismo.

 ‘Rete di spie’ è più pertinente, giusto?

CREONTE: Giusto. Ma mai, da noi, a contrabbandare crimini.

Per evitare, semmai, di sdoganarli.

MEDEA: E la merce poco accetta stavolta è in carne e ossa. Giusto?

CREONTE: Senza far giochi di fioretto. Meglio

attenersi ai fatti nudi e crudi.

(Leggendo da un biglietto che ha con sé)

“Medea... la malefica figlia di Eete della Colchide...’ - Giusto?

MEDEA: Nel nome sì, mi riconosco.

CREONTE: A quanto mi risulta

hai frequentato molte corti e tutte quante

le hai mandate alla malora.

MEDEA: Ah, ti risulta...

CREONTE: Molte corti e molte coltri, e tutte alla malora.

MEDEA: Il tuo omaggio ha un suono stridulo.

Che sarebbe? Un ‘vade retro’?

CREONTE: Sia chiaro, non sta me

né maledirti né di benedirti.

Tutto quello che spero è che tu dispaia.

MEDEA: Per non dispiacere chi?

CREONTE:                                             L’ordine

a cui ancora poco avvezzi siamo, essendo

dal disordine, Medea, reduci appena.

MEDEA: E temi che io ne sarei flagello?

CREONTE: Delicatamente potrei dirti: temo

ciò che altrove sarà, non dubito, il tuo pregio.
E dunque, con profonda reverenza

di Re in ossequio a una Regina,

temo, diciamo,

l’indiscreto, indiscretissimo, tuo fascino,

che non è gesto in te, ma essenza e dunque

indominabile.

MEDEA: E detta non / delicatamente, Sire?

CREONTE: La ripercossa della tua diversità.

MEDEA: Su chi?

CREONTE: Sul fermento

che insito è già nella città.

MEDEA: Ma va’! Usi davvero

delle strambe espressioni, carissimo collega.

Io, lo vedi,

a seguire la tua lingua mi ci adatto,

tu, al contrario, una qualunque

altra lingua la riduci, anche se tua,

estera a se stessa: e non per atto

di parole ma di frasi. Complimenti.

Non t’ho capito affatto.

CREONTE: Vuoi sapermi più spiccio? E sia!

Non smontare quei bagagli e vattene.

MEDEA: Da dove e con chi?

CREONTE:                                    Da qui,

con chi non so. E non a dire

che sia questa una risposta che mi tocca.

MEDEA: Se ti dicessi: con mio marito?

CREONTE: Lui rimane.

MEDEA: Oi, povero, e cosa conti mai di farne?
Una rondella fra le tante di questo microstato, o chi di voi?

CREONTE: Quasi l’hai detto: uno tra noi, cosa che è già.

E tra noi il migliore.

MEDEA: E vuoi che non lo sappia proprio io?

Portatemelo via e vi stermino! Impallidisci? Scherzo. Non mi spiace

che da molti sia apprezzato l’uomo mio.

CREONTE: E tanto più apprezzabile da chi non merita disprezzo.

MEDEA: Attento attento, mio ottimo signore!  Rischi quasi

miserevoli cadute sia di tono che di stile.

Non da te. Non da Re. Per cui, scherzando, ti ripeto:

portatemelo via e vi stermino.

CREONTE: Stermina, lei! Ma chi?... Non mi sei ovvia

come essere vorresti, strega...

tra i sorci a tuo agio e vigilata

da canizze inzaccherate

di pulci a sciami, profuga

tra non indegna gente che il tempo e la diuturna

fatica ha sollevato a razza, a popolo, a città...

abbine rispetto, fila via!
Tu disadorni la mia terra, fila via!

MEDEA: Altolà, barbetta! Profuga, certo,

ma aggregata a un’orda di fuggiaschi,

per sovrappiù difformi e smunti

che qui tu stipi come in stive gli emigranti

d’inizio secolo. Compatrioti? No, piuttosto

comproprietari della stessa fogna.

Questa, direi, mio zar, la tua città.

CREONTE: Noi siamo nel motore di grandi mutamenti!

Notevoli potenze hanno interesse per quello che ci accade

e grandi canocchiali perlustrano, ora per ora,

quel che facciamo e come lo facciamo.

La fusione coi migliori è quasi certa, e prossima

l’aggregazione al consesso planetario.

Tu non ci sei, Medea, né amica né nemica.

Che tali restino tra noi i rapporti.

Né amica né nemica, ma sconosciuta e basta.

MEDEA: Dio, che sfilza di parole sottintende la tua questua!...

Fusione... aggregazione!...

Ma hai davvero tanta ansia

di trasformare il tuo regno in un quartiere,

e te, da Re,

in poco più di un caposcala, e in poco meno

di un minuscolo ‘kapatàz’ da condominio?

(I cani guaiscono forte.)

CREONTE: Con te, di questo, che ne discuto a fare?

Tu sei un'ombra selvaggia scortata

da ombre canine, e lo sai.

Via da noi l'iracondia del tuo nero gregge

pestilenziale e zannuto!

Va' via, mosto di bave!

Va' via! A traino

di te viene l'inferno.

MEDEA: Sì, so,

e bene,

quali le mie virtù, Creonte, e so che sono

invidiatissime. Da chi? Da te.

Sbianchi. La sento

la patetica ammissione che ti rumina in  pancia:"C'ha ragione."

Di me, dunque, semirè, che vuoi?

Il saper mio?...

Il planetario delle mie mammelle, i miei delitti, la mia insatolla

longevità che vuole

ch'io questo sia: la giammai vecchia...

l'inabbattibile... non spodestabile

matriarca... quella, insomma,

innanzi alla quale tu ti vedi

esattamente per quel che sei... sai cosa?

Sì che lo sai... un padroncino. Un padroncino e basta.

Un padroncino

col farfallino

col pisellino

perso all'ingiù!

Bù, bù, bù! Bù,  bù, bù!

CREONTE: Se ti contenta che l'indecenza sia

la tua bandiera da te già dici

in quale conto, ugola di larva,

dovrò e dovremo tenere quel che dici.

MEDEA: Bò, bò, bò! Bò, bò, bò!

(I cani guiscono e latrano.)

CREONTE: Non ti fanno un buon servizio i tuoi sciacalli!

Sono il tuo stemma e il tuo più consono peana: litanie

che ti ritraggono benissimo.

MEDEA: Ritrarranno, al più, la tua paura.

CREONTE: La mia? E perché?

MEDEA: Per la tua esile, esilissima

e squinternata onnipotenza.

Ma dì, non senti come mugoli? Possibile?


CREONTE: Ah, io davvero proprio no.

MEDEA: Io benissimo, e tanto che mi sanguina l’orecchio.

Relegato qui sull’ansa di un’infetta baraccopoli, mio Re,

mugoli e smani gonfiando il petto a vanvera

per un regno periferico che, al massimo, ha le forme

malcerte e striminzite di un circondario e basta.

E ti inventi, presumendoti già grande,

grandi avversari alla tua meschinità.

Nientedimeno, eleggi a tua nemica... me.

Presuntuosissimo Creonte, va’ con Dio!

Ti sono grata per questa catapecchia.

Almeno m’è servita a trascorrerci la notte.

Molto più misero, credimi, è lo spazio

che ti riservo nei miei pensieri io.

CREONTE: Sta’ zitta, baldracca, e non provarti

a venirtene mai fuori dalla tana! Che tu possa

raggricciare nel tuo gelo!... Pianta un chiodo

lì nel muro, puttana, ed annodaci il pelo!

(Creonte va. Tra l’abbaiare dei cani che presto si racquetano.)

MEDEA: O gnomi, furetti di lassù

che destreggiate i fili degli umani...

chi è testimonio di ciò che qui m’accade?

E chi ne anticipa l’evolvere con voce salmodiante di balia o di                                                                                                                                         tutore?

Uno straccio di servo, una fedele... niente.

Io non ho più niente

e fuoriesco dai secoli solissima.

Poco ci manca che di qui a domani

a me si tolga persino la mia ombra.

(......)

(Presso Creusa, che sta drappeggiando le vesti di Giasone.)

CREUSA: Mio padre m’ha detto:

“Io voglio un Re di cui essere Re.

E grazie a te l’avrò.”

(Giasone, con gesti sgarbati, si stropiccia e sgualcisce l’abito che ha indosso e che lei, con tanta cura, vorrebbe sistemargli.)

CREUSA: Ma no, che fai?...

Te l’ho drappeggiato alla maniera nostra.

GIASONE: Quella, tu sai chi, m’aspetta.

Diamo tempo al tempo.

Certe cose, a dirsi, e a certe donne soprattutto,

vanno dosate con la massima prudenza.

CREUSA: Se quel che speri è di temporeggiare

mi sa, allora, che sei davvero in un bel guaio.

Che sia ora o sia stasera

a quella, tu sai chi, devi dirglielo, non scappi.

GIASONE: Io non ci vado, da quella, imbacuccato alla maniera vostra.

E’ stata e forse è ancora la mia donna.

E, se volesse, potrei anche tenermela da amante.

Non si merita affronti. O non per questo, per purgare

un insulto scriteriato contro di lei diretto,

che, schifiltosi e forse immeritevoli,

già ronziamo un po’ attratti attorno a questo letto?

(E Giasone, così obliquamente perentorio, se ne va.

Creusa carezza le stoffe, madide, delle sue lenzuola.)

CREUSA: (Lancia la voce, ma non lo sguardo, oltre la soglia)

Stai sempre lì?... Sempre lì dietro o no?

Io  t’immagino sempre: che tu ci sia o no.

E spesso ci sei stato, qualche altra volta no.

(Si sdraia. Morbidissimamente si carezza.)

CREUSA: Tanto tu mai me lo diresti. O no?

Né mai di colpo, io, spalancherò la porta. No!

A che mai servirebbe se quello che ci serve

sono i nostri taciturni polipi interiori?

Sano o meno, papà, a noi questo cosa importa?

Chissà che un giorno qualcuno poi non venga

e con decenza, ma anche questo cosa importa?,

si chini a dircelo, o a spiegarcelo un po’ meglio.

(E, al culmine del suo toccarsi, flebilmente geme.)

(......)

(Presso lo scalcinato maso di Medea. I cani tacciono.

Entra Giasone. Ha con sé un fascio di carte che butta in un angolo. Sulla fronte esibisce ancora le tracce del sangue lasciato dalle bende. Medea si muove irrequieta come una pantera dallo sguardo instabile. Continua a muoversi anche quando vede Giasone sull’uscio. Si ferma solo un attimo, poi riprende. Quindi ancora si blocca, lo fissa, e riprende di nuovo. Lui le tien dietro con gli occhi come si trattasse di un pendolo dal quale aspetti di essere ipnotizzato. Lei, infine, si ferma una volta per tutte interrompendo così la sua eccitata deambulazione.

Fra i due si materializza un silenzio che è un muro. Sembrano cozzarvi contro entrambi, boccheggiando. Come se un’isteria improvvisa impedisse loro di comunicarsi vicendevolmente alcunché. Sinanche il puro suono delle voci. Poi Giasone si dirige verso i bagagli scompaginati di lei. Un arruffìo di robe che lui scruta, e forse smanaccia, con riprovazione. Da ultimo...)

MEDEA: E allora?...

Com’è andato il tuo giro d’ispezione?...

GIASONE: Decentemente. Direi che è gente

rozza ma non insulsa. E tu chi hai visto?

MEDEA: Io? Nessuno. Tu?

GIASONE: Chi ci ha offerto di star qui.

MEDEA: Ah-ah, uno che può.

GIASONE: Direi il massimo.

MEDEA: Il massimo nel senso?

GIASONE: Il capo in testa.

MEDEA: Possibile? Che bravo!

Riuscire subito ad arrivare così in alto!

(In questa replica c’è un’ambiguità che pizzica Giasone come un morso di vipera.)

GIASONE: Io la direi, piuttosto, cosa ovvia.

Un reciproco dovere per chiarire

da ambo le parti le pacifiche intenzioni:

mie nell’ostentare i nostri buoni uffici

- cioè, anche a nome tuo se mi consenti -

e sue, d’anfitrione e primo cittadino.

MEDEA: Ah, per questo che ci hai messo tanto tempo.

Un conciliabolo davvero interminabile.

GIASONE: Non stavo a far mercato col solito burocrate,

ma a un sovrano m’è toccato di spiegare

il perché e il percome ci siamo fatti nomadi.

MEDEA: Titanica risposta.

Avrei voluto esserci e sentirti.

GIASONE: Vi è gente al mondo, gli ho spiegato,

per cui l’essere instabili è natura

come il colore degli occhi e dei capelli.

MEDEA: Parole mie.

Le avrai fatte valere, immagino, anche per te.

GIASONE: Parole tue, ma dette per entrambi.

MEDEA: E lui ha capito?

GIASONE: Da vero autentico / morigerato ha preso atto.

(E Medea riprende il suo frenetico andare in sù e in giù tormentandosi le mani.)

MEDEA: Sicché con classe. - Mi rifaccio a un’espressione

odiata da un poeta da me amato.

GIASONE: E che, invece, è un’ottima espressione.

E che molto gli si addice.

Molto a Creonte, così si chiama,

e al popolo che, con classe, egli amministra.

MEDEA: Creonte, certo. Un nome che, da tempo,

ai nostri giorni si mescola parecchio.

GIASONE: Io è da oggi che lo sento. Perché, tu che ne sai?

MEDEA: E’ la querula natura dei miei sogni.

Pettegoli su tutto. Non ci pensare, stupidaggini!

(Giasone rimesta infastidito tra le vesti e le sottovesti di lei.)

MEDEA: Perché t’interessi alle mia cose?

Pensi, per caso, che dovrei rifarmi il guardaroba?

(Giasone scompiglia adesso con violenza quel cumulo di stracci.

La sua ira appare tanto fuori luogo quanto improvvisa.)

GIASONE: Sempre te stessa, sempre! Comunque e dovunque

immancabilmente barbara, e immancabile

all’appuntamento con te stessa, sempre!

MEDEA: Se, per favore, vuoi spiegarti meglio...

GIASONE: Ah, spiegarmi!... Guarda!... Questa sei tu, spiegata

dal selvatico Iddio che ti si torce in pancia!...

Spiegata

come i tuoi paludamenti a far mondezza! Ovunque e sempre!...

Come in tutti i tuoi capanni...

come in tutte le tue tende impiantate nelle oasi...

o in ogni guscio che, per ventura, ci abbia fatto da dimora...

tale e quale!... Già una notte

e anche il decoro di questa cameretta hai, al tuo solito, sconciato.
Di un prestito cortese ne hai fatto un lazzaretto,

e la decenza di una casa hai ridotto a una cloaca!

MEDEA: Rimproverata, da te, del mio disordine!?...

Non posso crederti.

E’ al mio disordine, Giasone, che devi i tuoi guadagni.

Se ho scommesso la mia vita, e di me tutto, per seguirti

il disordine ha avuto, sta’ certo, la sua parte.

E tutt’a un tratto cos’è? Mi vorresti più massaia?

GIASONE: Per cominciare: ‘i miei guadagni’...

se è a te che li debbo, tu devi a loro i tuoi!

MEDEA: Quali, ad esempio?

GIASONE: Tu lo conosci il tuo perché, io pure. In una coppia

sapere senza dirselo è sempre un buon collante.

MEDEA: Non oggi. Dirselo conviene.

Se tu non vuoi, rispondo io al tuo posto: il mio guadagno

è un monosillabo laconico: te.

L’ansia che avevo di guadagnare te.

Di gambe e braccia, di voce e tutto il resto.Te.

GIASONE: Ecco, e adesso, se proprio ti va, ricamaci!...

MEDEA: Ma è incontestabile, lo ammetto.

Visto, però, che a quanto pare urge,

o ti urge,

una certa qual voglia da contabile, son pronta.

Ho i rendiconti in tasca, ci vuol nulla.

Dunque, a noi due...

dall’inizio a ora, la nostra storia in due parole, eccola:

Io mi sono sradicata, ho fatto questo.

Tu già lo eri, hai fatto poco.

GIASONE: Non ti seguo nei rinfacci.

Ognuno è quel che vuole.

Il suo destino è se mai l’abbia o no.

MEDEA: Che rispondere a un’epigrafe? Rimuginando e basta.

Ma a fronte, almeno, di quel che so la mia risposta non è sconfitta.

GIASONE: Bene. - Tu rimugina sul mio e io lo farò col tuo.

MEDEA: Spirito olimpico!

GIASONE: Voglia di pace.

MEDEA: E a me la chiedi?

GIASONE: Io a te la do.

MEDEA: E in cambio che ne hai? Nulla?

GIASONE: A volte no, e a volte non lo so.

MEDEA: Che t’ha detto quel prete?

GIASONE: Non è un prete.

MEDEA: Quasi.

GIASONE: Niente mi ha detto.

MEDEA: In cosa vuol coinvolgerti? In qualcosa di sicuro.

GIASONE: Beghe di palazzo.

MEDEA: Te? Un estraneo?... Gli servirà un sicario.

GIASONE: Già, a proposito.

M’è toccato, là fuori, di stendere qualcuno.

MEDEA: Tu? E chi?

GIASONE: Una canaglia che ti rideva dietro.

(Medea va a tiragli fuori il coltello dalla cintola.)

MEDEA: E’ asciutto, come mai?

GIASONE: Tu ti credi che a me non bastino le mani?

MEDEA: Ah, non l’hai ucciso.

GIASONE: Cos’è? Te ne rammarichi?

MEDEA: Ingravidarsi l’aria attorno di vendette

fa anche della morte non un imprevisto.

GIASONE: Non ho mani di velina, se a spaventarti è questo.

Sù, annusa!... Non senti che c’è un puzzo

di concia abbrustolita e di grassi sfrigolanti?

Beh, per tua norma, è tanfo

di sepoltura e non di ciminiera.

MEDEA: La sua? Di quello?

GIASONE: Appunto. E allora?...

Me lo merito o no, tu che ne dici, un minimo di gloria?

MEDEA: E questi qui del posto com’è che l’hanno presa?

GIASONE: Benevolmente.

MEDEA: Ma un’indagine? Qualcosa? Non hanno fatto niente?

GIASONE: Per chi? Per quello? C’era su lui una taglia.

MEDEA: Ah.

GIASONE: Che?

MEDEA: E tu che pensi ora di fare?

GIASONE: Cioè, in che senso?

MEDEA: Nel senso della taglia. Di riscuoterla?

GIASONE: Ma sì, se poi se ne riparla...

MEDEA: Ovvio: se c’è, se ne riparlerà per forza.

GIASONE: E allora, a tempo e a luogo...

MEDEA: Non sarai tanto scemo da volergliela lasciare!

GIASONE: Oh, basta! Non è per ricavarci che ho rischiato

di rimetterci la pelle, ma per te.

E scusami, sai, se ho ardito sino a tanto!

MEDEA: Dico solo: se c’è una vincita perché lasciarla al banco?

GIASONE: Ma difatti non ho detto mica no.

Se c’è da prendere si prende.

MEDEA: Vieni un po’ qui, fammi vedere, aspetta!...

(Lo fa accostare per guardarlo bene alle tempie.)

MEDEA: E questo sangue sulla fronte?...

Ha due stranezze...

non vien fuori da ferite

e fa un disegno regolare...

quasi come d’un serto, d’un alloro, a imprimerne la traccia.

GIASONE: (Pulendosi)

Di sangue, capirai... ne ero imbrattato da cima a piedi!

MEDEA: (Pulendolo: con la propria saliva, con la propria lingua)

Oh, povero amore... povero amore...

GIASONE: Sì, povero...

non mi sembra però intanto che t’abbia dato molto pena.

MEDEA: Pena di che?

Di te che, raccontandomi, mi mostri già il buon esito della tua                                                                                                                                         peripezia?

GIASONE: Le tue ragioni, a sentir te, son sempre così ovvie!

MEDEA: (Ancora pulendolo)

Povero amore... che sarò ovvia io!... Ma dimmi meglio:

di quel mezzo ciclope, là fuori, che hai abbattutto.

GIASONE: E sia. Lo conoscevi.

MEDEA: Chi?

GIASONE: Quello.

MEDEA: Io?

GIASONE: E pure io. Benissimo.

(Lei tace e si allontana. Quasi disinteressata.

Giasone non sa più né che dire né che fare.)

MEDEA: T’aspetti di vedermi incuriosita?

GIASONE: Se non ci tieni che non ti dica nulla...

MEDEA: Non ci tengo se ti è facile non dirmelo.

GIASONE: Ma se neanche sai che cosa.

MEDEA: Fosse grave, penso, non staresti a girarci tanto attorno.

GIASONE: Girarci cosa? Ci sono andato dritto.

MEDEA: Se sei tu quello che sa, perché mai vuoi che parli io?

GIASONE: Oh, diavolo di donna!... Con te, oggi, beato chi sa starci!

(Ed esce di furia. I cani gemono. Qualcuno abbaia.

Medea si piega tutta su se stessa. Come se, d’un tratto, le si fosse frantumata la spina dorsale.)

MEDEA: Finito è il tempo, povera Medea!

Finito è il tempo in cui

la diuturna tua preghiera melodiava per lui e sempre uguale!

Finito è il tempo poiché finito

è colui per cui imploravi.

Finito è quel Dio ch’era, al contempo,

oggetto e termine di tutte le preghiere:

sempre e a ogni istante infinitamente lui.

Così tu lo elevavi... così lo celebravi:

“Sii degno di te, mio sposo, e adèguati a te stesso ora che sei

non più come la carne che, facendoti, è sfinita

ma abnormemente bello!

Va’, dunque, e in fretta prendi

ciò che, amore mio infinito,

solo per essere da te desiderato

t’è consentito.”

(......)

(In quella specie di ovile addobbato a festa che è la sala del Consiglio.

Sono stati aggiunti altri due seggi a quello già presente di Creonte. Uno dei seggi è vuoto, sugli altri due stanno Creonte e Creusa, in abito rituale. La ragazza ha una patacca simildiadema che le scende a mezza fronte e orrida chincaglieria che le pende da ogni dove.

Pure Creonte ha qualcosa di pompeiano indosso.

Giasone sta in piedi dinnanzi a loro. Creonte lo esorta con un gesto a sedersi. Creusa rimane assolutamente immobile. Giasone, da principio, esita ma poi si siede.)

CREONTE: (A Giasone)

Il fatto che stavolta si sia in tre

diciamo che dà un tono più prammatico all’incontro.

Ebbene, la mia Creusa - o dire dovrei: la nostra -

a tua insaputa, è scesa a salutarla.

(Creonte si volta verso la figlia, quasi a scambiare con lei un segno di intesa.)


CREONTE: (Di nuovo a Giasone)

Armata, credimi, di ottime intenzioni,

e quel che ha visto ora intende riferirlo.

CREUSA: Con delle squallide carte giorno e notte

non fa altro che ripetere un pedestre solitario. Il più plebeo

e diffuso ai tavoli termali fra tabelle di Enalotto e dove i vecchi

hanno forte il fetore dell’acido fenico. E sibila improperi.

CREONTE: Strano, mi dico, non è roba, quella,

che una rampolla possa impararla a corte.

E difatti, mi rispondo, non a corte

li ha imparati lei i suoi giochi...

Le sue macumbe, di certo non a corte.

Quella, mio caro, altro che pargola di re:

Quella, ci giuro,

già ha spappolato milizie d’uomini, ecco chi è!

Quella è un 'dibbuk'... un corpo involucro

per ectoplasmi sulfurei, per anime assassine!

GIASONE: No, nego! Nego!

Mi son giaciuto con quella donna, la conosco.

Mai l'ho veduta un solo istante essere

qualcuno o qualcos'altro da se stessa. Mai.

Feroce sì l’ho vista, ma maga a questo modo mai.

Fuoriuscite da sé?... Per carità, Medea

è mille volte Medea e nient'altro. E, soprattutto,

mai nessun altro.

Né nessun'altra.

CREUSA: Non son d'accordo, Giasone. Che tu, forse,

di certe cose sei un po' digiuno. Io no. Non io.

I morti, a coabitarci o a esserne abitati,

fortificano il cuore e non lo fiaccano.

Addirittura aumentano in sveltezza

di percezione i sensi sino a rendere

un individuo più conscio di se stesso.

Così abitata io temo sia Medea.

Da cosa me n'accorgo?

Da un segno inconfutabile negli occhi:

l'iride ha sotto

quasi un filo sanguigno. Non è bistro:

le viene dall'inferno.

GIASONE: No, no e ancora no!

CREONTE: Contro che strepiti, Giasone?

E' per difenderla? perché?

GIASONE: Contro quello che ho sentito, a questo mi ribello.

C'è qualcosa che mi punge, e punge a sangue, nel sentire

che può la morte alimentarci. A questo mi ribello.

CREUSA: Non la morte, ma i morti ho detto.

GIASONE: Appunto. Per l'amara

convinta nozione che sei vivo

che bisogno hai tu dei morti? Io

non ne ho nessuno.

(Se ne va.)

CREUSA: Attento, padre, è un pensatore.

CREONTE: Assai mediocre.

CREUSA: Sì, ma attento:

anche lui, come quell'altra, è pur sempre uno straniero.

E quell'altra, non scordarlo, è pur sempre la sua donna.

CREONTE: Tu dici la difende?

CREUSA: Scappa da noi, torna da lei. Scappa da noi, torna da lei.

(......)

(Giasone nuovamente da Medea. Ha buttato d’un canto il suo manto.

Lei ha le mani imbiancate dalla farina. Stava impastando del pane.)

MEDEA: Perché torni da me?

GIASONE: Perché pare che mi tocchi per destino.

Non te lo dissi? Sei

la mia zolla di terra nella terra. Pur se in volo

tu sei quanto ho in me di fermo, d'immoto, di stanziale.

Non sotto metafora: la casa. La mia camera da letto. La                                                                                                                piastrella sulla quale

si poggia forte il piede, sempre e ovunque.

Sei il luogo che mi fodera, mi stringe. L'amarti, il penetrarti:

è questo sì metafora

di quel che tu sei per me, tant'è

che il cadere d'un peso sbilanciato non è meno

inevitabile di questo mio tornare.

MEDEA: O sarà forse che non hai mangiato?

GIASONE: Potevo farlo altrove.

MEDEA: Non il mio cibo.

GIASONE: No, quello no.

MEDEA: Ne hai più voglia o più bisogno?

GIASONE: Vorrei fosse, a spingermi, il bisogno.

Sarebbe come dire: un moto naturale.

Fisiologia, evento, quasi simile ad un brivido

di terremoto o a un'onda. E necessario.

Io ne sarei impartecipe. La voglia, invece,

è a un soffio dall'essere un pensiero, una superfluità.
Se fosse voglia

chi altri ne sarebbe responsabile oltre me? Nessuno.

Di non dominarla, poi?... Nessuno men che meno. Ed è la voglia.

Proprio e solo

voglia.

Quel che in un conto non è il saldo ma la mancia, ecco cos'è.

Non me la vieto più. Se deve essere, che sia!

Scompare e sopravviene come un corso stagionale di turgori e                                                                                                      deplezioni.

Sì, io sono, lo so,

da me sconfitto, ma non perciò

su me vincente, e  a te ritorno.

E perciò anche un po' infelice

di questo mio tripudio. Un po' infelice

per la mia felicità.

(Sulla battuta che segue, come è facile intuire, si avvierà un amplesso.)

MEDEA: Chinati, sposo. Chinati e lecca.

E mangia. E bevi.

Spingi le mani sulle ginocchia e apri.

Latrano, senti,

i miei fanciulli  là fuori dal dorso maculato!...

Detestano sapere di non essere, stanotte, i prediletti.

T'invidiano.

Il loro acido fiato ha demoni che a stento

non ti volano nell'orbite degli occhi. A me lo devi. Io li trattengo.

Ne cavo un vento che dirotto / sui tetti delle case,

ne intossico le mandrie / cittadine, ogni tuo colpo

pelvico è un cadavere

enfio di malasorte che come una vescica

si espande, stinge, e spolmonando schianta.

Vorrei, vorrei / tu ne ridessi. Voglio

che tu ne rida come ne rido io!

(E’ il ‘climax’. I due si staccano l’uno dall’altra.

Lui se ne resta accovacciato in terra. Recupera dei fogli. Legge.

Lei torna a lavorare i suoi pani.)

MEDEA: Leggi?... Che leggi?...

GIASONE: Qualsiasi cosa. Fogli.

MEDEA: Sarà che vuoi / da chissacché distrarti.

GIASONE: Forse. Non so.

MEDEA: E ora, ad esempio?

GIASONE: Vecchie sentenze. C’era qui da queste parti

il primo archivio del tribunale e ancora, a quanto pare,

si sparpagliano, come ceneri, antichi documenti. Paleontologici

residui d’alterchi e strepiti.

MEDEA: E passerai pure così

la prima notte delle tue nozze?

GIASONE: (Ha un soprassalto)  Dove? Con chi?

MEDEA: Si dice che siano ormai imminenti.

(Medea dà forma al suo cibo.

Senza contraccambiare lo sguardo di lui.)

MEDEA: Dove pensi che mangerò questo mio pane?

GIASONE: Ma qui. Sicuramente qui.

MEDEA: (Tra nubi di farina)  E lo vedrò lievitare? Potrò farlo?

E aspetterò che sbollenti? Potrò farlo?

(Ora sì, lo guarda.)  E te?... Ti vedrò mentre lo mordi

e con le guance un poco gonfie

che lo gusti tremitando

le palpebre socchiuse?... Oh sì, tu sai a cos’è che alludo: agli infiniti

nostri pasti condivisi. Rivedrò

te che inghiotti, come donna, il tuo boccone assaporato?

GIASONE: Ma che domande mi fai? Lo spartiremo, è ovvio,

al modo nostro insieme.

MEDEA: Azzarda, Giasone, ti supplico: azzarda!

E, prima di inghiottire,

quel che hai da sputare, sputa!

GIASONE: Dio mio, di nuovo con le tue sciarade!

MEDEA: Almeno questo è certo che verrà fatto insieme:

vuotare l’otre del disinganno!

(Giasone la guarda e tace.)

MEDEA: Se non sai di che parlo

scuoti la testa e fammi ‘no’.

(Giasone la guarda e tace.)

MEDEA: Giuro, ti crederò.

Quello che tu vuoi lo credo.

Ma una cosa la pretendo:

se non l’audacia della verità,

almeno quella della menzogna.

A te di scegliere.
Delle due l’una.

Io sono pronta a rispettarle entrambi!

(Giasone ancora la guarda e ancora tace.

Si morde le labbra.

Da fuori, i cani abbaiano. Furiosamente.

Lei ne è distratta. Lui, forse, ne è salvato.

Salta sù e corre sulla soglia.)

CREONTE: E’ Creonte. Deve parlarci e non può passare.

MEDEA: Marito mio... per te lo dico, fa’ attenzione!...

(Giasone esce. I cani ancora latrano. Poi, lentamente, la smetteranno.

Lei butta legna nel forno e la fa ardere, poi torna a spolverare di farina i suoi impasti e a manipolarli con forza.)

MEDEA: Scoprii, da giovanissima, il libro di un filosofo

che, solo per quel libro fu per me cruciale.

Mi fu d’aiuto spesso, un punto fermo, e le avversioni

ne furono guarite o, a volte, stemperate. Poi, col tempo,

lui dette corso ad opere più vaste e fu per esse

finalmente, ufficialmente, valutato.

E io con che entusiasmo pensai, allora:

pur io, ecco, ne guadagno dei pregi più ufficiali e la mia vita pure!

Corsi al resto dei suoi scritti, a divorarli. - Che sorpresa!...

Quel suo meglio era solo revisione, inesorabile

confutazione,

di quanto in giovinezza aveva proclamato:

lui, il mio apripista nel mondo delle idee...

E cosa mai pensare?... Dopo quel punto, io?...

Alimentata da un errore, conseguenza

d’una fede ritrattata e orfana prodotta

da una copula sventata.

Perciò lo uccisi,  e perciò lì

mi battezzai al delitto. E oggi, caro il mio apripista

nell’obbligo a esser donna, ben più che da lui da te

sono tradita in ogni mio diritto!

(......)

(Per le strade della città.

Creonte passeggia tenendo sottobraccio Giasone. Si sventaglia.

I mugolii dei cani estinguono in lontananza.)

CREONTE: Insomma, a chiare lettere non gliel’hai detto ancora...

GIASONE: Come se, Creonte: come se.

CREONTE: Ma a chiare lettere?...

GIASONE: E’ preparata a tutto. Lei lo sa.

CREONTE: Va bene, e te?

Sei, insomma, pronto per stanotte o no?

GIASONE: Pronto per cosa?

CREONTE: Pronto per Creusa.

Oh, il maschio che c’è in te non mi dà dubbi,

ma per l’uomo, per quell’uomo

che da stamane ho eletto a principe, è una notte

che ipoteca il più fulgido destino e duraturo. Ne sei pronto?

GIASONE: Sì che lo sono. Poiché lo debbo.

(Latrati. Gementi. Come alla luna.)

CREONTE: Ah, quei cani... quei cani!...

Il sacro è sempre assai pericoloso per chi entra nei suoi recinti                                                                                                                  impreparato.

Ma tu, per questo, hai me. Perciò affrontiamolo

quel nodo ormai in cancrena che è il peso che ti porti: lei.

I sensi ci costringono, talvolta, a partite assai difficili, lo so.

E’ una di queste che stai giocando? Dimmelo.

Confìdati, Giasone.

C’è in me qualcosa di femmineo per cui m’arrogo il diritto di capirti.

GIASONE: Sono perplesso. Più che incerto, perplesso.

C’è qualcosa di magnetico in Medea che il tempo

non m’ha permesso di sentire mai normale.

 “E se divisa  da me torna - mi domando -

cosa mai, e come, contro noi tutti potrà mai avvenire?”

CREONTE: Vedi, Giasone, io sono un utopista: ai miei fini

anche le puttane mi sono necessarie.

Ma lei lo è?... Sa esserlo?...

GIASONE: Se sì, le chiederesti cosa?

CREONTE: Di fare la puttana, e la farei restare.

GIASONE: Forse lo è, non so, ma come certe

che pure lo sono e non lo fanno mai.

Oddio, non ascoltarmi! Sono confuso e dico cose orribili.

CREONTE: Orribili perché? Perché sensate?

Lei per quello che è non può servirci.

Tra noi ristagnerebbe come zolfo...

un’anarchica minaccia nei nostri organigrammi, e questo

ti pare mai possibile? Nemmeno per idea, e dunque,

che ti dispiaccia o meno, in gran consulto

io coi miei pari abbiamo stabilito

di istituire contro di lei un processo:

per estradarla o, al peggio... o al peggio, il peggio.

GIASONE: E che sarebbe

questo gran peggio che non ha pronuncia?

CREONTE: Vieni più sù... qua al belvedere e ammira

la razza mia che il male mina ma intensa, ammira

il laborioso tuo podere formicolante e vivo!...

Presso di noi, Giasone, e tienlo bene a mente,

ogni maschio maggiorenne prima o poi

vive un giorno da giudice  e quel giorno

le leggi lo tramutano. Oh, non per sempre,

ma quel giorno totalmente. Ora, sapendolo,

guarda con occhi differenti la mia gente.

Sia il notabile, o lo straccione analfabeta.

L’intimità col boia li rende tutti prìncipi.

E’ l’armonia completa

di cui leggo in questa norma l’incipit.

(E si allontanano sottobraccio.)

(......)

(Da Medea, nel suo buco. Brilla il fuoco nella crepa del muro.

Il teatrino del pane è completamente distrutto. La donna ne ha le mani e i polsi incrostati, quasi sino agli avambracci.

Si è appena accesa uno dei suoi sigari scuri e bitorzoluti.

Solo due i cani che guaiscono adesso.)

MEDEA: Il mio occhio, povero occhio, è

commisurato alle feritoie,

ai tagli sbiechi delle stecconate...

i miei piedi, le mani, le mie braccia

alla paglia e al letame. Eppure pare

che pure qui e così,

io possa fare danni:

spazzata ai margini di questa favolaccia.

(Fine della prima parte.)

(............)

 (Seconda parte. Nella sala del Consiglio. Siamo al Processo.

Le tende alle finestre hanno strie violastre.

Medea è sullo sgabello preparato da Creonte che si muove attorno a lei, illustrandole lo spazio. La donna non si è cambiata d’abito. Lui indossa un addobbo con frange crèmisi che sembrano brandelli.)

CREONTE: I tuoi giudici sono dietro quelle tende.

Di loro non vedrai né saprai niente.

Sarò io solo a interrogarti.

Al loro voto verrà poi aggiunto il mio.

Come quello, ricordi?, di Pallade Atena. Tu ne leggi storie antiche?

MEDEA: Io le so.

CREONTE: Ricorderai, senz’altro, allora,

il primo tribunale democratico che l’uomo

abbia mai steso in resoconto e tramanandato sino a noi.

Mi riferisco ad Eschilo e al processo contro Oreste.

MEDEA: Mi compiaccio. Frequenti la poesia.

CREONTE: No, frequento i documenti.

Per noi in quei versi non c’è letteratura:

solo atti processuali, i primi a fondamento

di una sana gestione del Diritto.

MEDEA: Se vuoi che prenda appunti...

CREONTE: Perché tu sappia di quali garanzie

sei oggi in questa sede fatta oggetto.

MEDEA: Colgo il senso

dell’ultima parola: ‘oggetto’ e non ‘soggetto’.

CREONTE: Non sarai tu, qui dentro almeno, contro di te ad agire.

Né contro chichessìa.

Ma solo loro e me.

Noi affrontiamo questa causa con un’immensa pena.

Ma tu ne hai estorto la necessità.

La città, Medea, non ti gradisce.

MEDEA: O della coppia che l’ha raggiunta

troppo gradisce, e solo, una metà?

CREONTE: Ah, di nuovo i tuoi soliti ragionamenti astrusi!

MEDEA: E’ al mio uomo che alludo, e a quanto vi sia inutile

se affianco a lui sto io.

CREONTE: Alle corte! Questi i capi d’accusa: tu istighi il remoto,

destabilizzi i forti e manipoli i più deboli,

rimesti nel furore e storci i buoni intenti

in perversione e pure d’un pensiero fai delitto.

E non in te ma in altri, e nei migliori.

Sappiamo i tuoi trascorsi.

Di maga e fattucchiera. Lo dicono i tuoi libri.

E al presente sei dedita al complotto.

E perciò, tu, in un consesso civile non puoi starci!

MEDEA: Nientemeno! Che femmina fantastica!

CREONTE: Non vuoi dirci donde vieni ma è facile supporlo.

Io penso dalla Siria. E’ lì che ci si addestra a quello che tu sai.

Potrei citare, ad argomento, il precedente d’Eliogabalo:

imperatore storto da scienze analoghe alle tue: il suo ‘guru’

pareva quasi te e veniva dalla Siria.

MEDEA: Buono a sapersi. Domanderò.

CREONTE: Ma ora a te direttamente!...

Non sarà lungo il dibattimento. Da esso ne verrà

quanto infame il tuo passato e quanto ancora

più infame, a non frenarlo, il tuo futuro.

T’avverto, rischi molto, sicché prima di iniziare

te lo propongo ancora: pensaci:

accetti o no di andartene ‘tua sponte’?

MEDEA: Non da sola?

CREONTE: Con la tua torma ferina appresso.

MEDEA: Con i miei cani e basta?

CREONTE: E basta.

MEDEA: Già lo sai che allora è no.

Io il mio meglio qui non ve lo lascio.

CREONTE: E che allora si cominci col primo ‘teste’ a carico.

(Va a prendere un foglio. Poi si rivolge alle tende.)

CREONTE: E’ qui in un foglio. Signori, ve lo leggo.

Poche righe ma assai chiare.

(Legge)

CREONTE: “Quella donna - eccola, questa - l’hanno plasmata gli inferi.

E gli inferi, leggo , le si muovono in pancia.

Lo so. Non è per dire. L’ho sognata e gl’inferi mi ha smosso

laddove, per voto, non stendo più la mano, e m’ha costretto, leggo,

come un imberbe a stuprare le lenzuola.”

A stuprare - ripeto- le lenzuola!...

A raccontarmelo, accettando

di lasciarmi a controprova questa carta che ora ho qui firmata

fu un vecchio offeso a sangue nell’onore della sua canizie;

e lacrimava raccontando. Lacrimava.

“A te lo dico, ha aggiunto,

poiché non voglio che suoni a confessione ma voglio che si sappia.

Ecco chi è lei.

Ed ecco cosa può.”

Un vecchio. E sacerdote. E uno di voi che sta

qui dietro una tenda adesso. Giudice anch’egli.

Uno tra noi e tra noi

a tutti noto per la sua purezza.

Ebbene, questo vecchio fu costretto

(additandola) a eiacularle addosso... a eiaculare

contro il fantasma della sua immagine,

che non a lei è estraneo... ma suo emissario e suo lubrico

prolungamento! Vero, Medea?...

MEDEA: Vero che?

Porta alla sbarre le sconce privatezze di quel vecchio ma non me.

CREONTE: No, te: artefice di tutto.

Te, scheggia di preistoria,  rudimento

della foschia e vestale del sortilegio!

Te che inceppi il nostro progredire.

Il sogno suo fu inconsapevole.

Non lo fu, invece, il penetrarci dentro,

il tuo farne terreno di conquista e lo scempiare

le tane notturne del suo senno e tramutare

un nobile spirito nel tuo zimbello. Vero, Medea?...

MEDEA: Quel poveraccio, immagino,

fosse gonfio per eccesso di astinenza.

CREONTE: Non usare la parola ‘eccesso’, che solo te riguarda.

Sei qui nel regno della più integra moderazione.

MEDEA: Moderazione...

c’è da temerne sempre gli effetti secondari.

CREONTE: Neghi dell’arte in quanto ho raccontato?

E che vi fosse un tuo progetto?...

MEDEA: Non nego il fatto:

che il suo membro abbia spurgato. Complimenti.

Interroga quel membro e ne saprai di più.

CREONTE: Farò di meglio!

Deporrò io stesso.

Amici...

poiché il coraggio di chi ha scritto queste righe merita proseliti, vi                                                                                                           dirò che anch’io

ho sognato quella bocca e di abitarci dentro.

E in tutti i dovunque di questa donna. Sottolineo: in tutti.

Anche in quelli di cui, con altre,

non ho fatto mai esperienza.

Sia per decenza,

che per ossequio alle norme cittadine.

Se Dio vuole, col virus non si scherza.

Ora voi mi conoscete,

E ben sapete in quale conto

io tenga, d’abitudine, le femmine.

E quanto sappia dispensarmi, e quanto spesso io le rifugga.

Com’è giusto.

Come tutti.

Eppure ciò è accaduto,

e il mio seme non fu mai tanto svilito!

Sangue di mestruo

vi stava mischiato assurdamente dentro.

A che nozze, la siriana, mi ha con lei costretto!

Nel dormiveglia ancora

udii me stesso piatire il nome suo e i suoi bisbigli ancora

da quell’immondo sonno mi vellicavano stanando,

sinanche dalle unghie, sinanche dalle ossa,

arroventate nervature discinte nella foia...

ma sinanche dai peli della barba:

sinanche di laddove un corpo, insomma,

solitamente intende riposarsi dal sentire. Ora vi chiedo:

se mai altri tra voi patì lo sfregio

di una simile lascivia, adesso e qui,

in questa pubblica sede, che si denudi e  parli!

(Un silenzio.)

CREONTE: Come l’ho fatto io, fratelli...

e come un altro già tra voi!...

(Ancora silenzio.)

CREONTE: Se tacerete questo varrà a risposta e vorrà dire no...

che siamo noi due i perversi, i lussuriosi, solo noi

e crollerà l’essenza

di questo esserci da noi, per voi, immolati.

Ma se, per contro, così non è

già all’istante in cui lo ammetterete

morrà ogni colpa in voi, in noi tutti, e la vergogna

tornerà come un falco in spalla al suo padrone,

ovvero: alla sua tana naturale: presso di lei, la maga

che con le tumide caverne del suo corpo

ci guanta nella notte come una noce il suo gheriglio e fa di noi

olive da frantoio

(Ancora silenzio. Poi...

rumori di colpi battuti con le nocche su delle tavole dietro le tende rosse e viola.

Prima da pochi, infine da tutti.)

CREONTE: (A lei) Non hai niente da dire?

MEDEA: Lusingatissima.

CREONTE: Medea, difenditi!

La nostra moderazione non t’inganni.

Sa partorire, t’informo, sentenze inappellabili e pene capitali.

MEDEA: La mia difesa è insita

di già nel capo d’imputazione.

Voi processate me? E io l’accusa.

Tanto ridicola

che si condanna da sé.

CREONTE: Difenditi!

MEDEA: E sia!

Io l’autrice di queste convulsioni? E sia!

Sarà che mi approfitto della tua, e vostra, mediocrità

in cui la sessualità sostituisce l’estasi.

Dici che ho, ti cito, spappolato milizie d’uomini.

Come non crederti?

Se pure non è vero,

tu sai bene che può esserlo benissimo.

CREONTE: E come fai a sapere che l’ho detto e a chi?

MEDEA: Fra me e Giasone c’è ancora confidenza.

Ti dà fastidio?

(Da dietro una delle tende fuoriesce d’improvviso Giasone.)

GIASONE: Difenditi, Medea!

MEDEA: E tu?...

Perché lì dietro?

GIASONE: Sono tra i giudici.

CREONTE: Non più. Ti sei mostrato.

Da noi, te lo dissi, la legge non ha volto.
Peccato per voi... la tua senz’altro sarebbe stata

una voce propizia per la salvezza di questa donna.

Ora ti prego di allontanarti.

MEDEA: Perché lì dietro, Giasone?

GIASONE: Sarei tra i maschi della città.

MEDEA: Tu, un ospite?

CREONTE: Prendila come una qualifica ad honorem.

E questo basti a confermarti di quale tempra sia

l’istituto della nostra socialdemocrazia.

(A lui) A te ho chiesto di andartene.

GIASONE: Medea, per carità, difenditi.

Se lo farai ti ascolteranno.

Ma non irridere il tribunale.

In questi giorni, lo sai, mi son nutrito di verbali.

So come pensano.
Detestano le offese e, di più ancora,

ciò che li spaventa.

Per il resto conoscono il perdono.

CREONTE: Debbo chiamare per farti portar via?

GIASONE: (A Creonte)

Se non da giudice, almeno da avvocato!...

(A lei) Ti scongiuro, difenditi.

Senza aggredire, ed evita lo sdegno.

E il tuo sarcasmo, soprattutto, evitalo:

minaccia e insulta più della tua ira.

MEDEA: E a che scopo dovrei?

Per salvarmi, e per chi?...

Preservarmi, e per chi?... Per te?...

GIASONE: La tua morte distruggerebbe l’amore in chi ti ama.

Sarebbe un lutto che non potrei mai vivere.

MEDEA: Per l’amore che porto a me stessa, ecco!

A questo sì ci tengo.

Pure morta, io, ne soffrirei il cordoglio.

Va’ sereno, mi difenderò. Ma tu...

fuori di qui m’aspetterai?

GIASONE: Non posso dirtelo, Medea.
Quale che sia la mia risposta, e ce l’ho in cuore,

se ascoltata, come qui l’ascolterebbero, potrebbe danneggiarti.

MEDEA: Dimmi solo: è almeno quella che m’immagino?

GIASONE: Mi spiace, neanche questo posso dirti.

Io non so leggere dentro di te come tu puoi con me.

(Va, e portando via con sé molta parte della forza di Medea.

Creonte può ripendere, così, il suo interrogatorio.)

CREONTE: Ricordi l’uomo che il tuo uomo ha massacrato?

MEDEA: Sì.

CREONTE: E che rise di te, te lo ricordi?

MEDEA: Sì.

CREONTE: E come ti chiamò, te lo ricordi?

MEDEA:  Sì.

CREONTE: E come?

MEDEA: Vuoi che m’insulti da me?

CREONTE: Come?

MEDEA: Merdèa.

CREONTE: Quindi sapeva, lui solo fra noi tutti,

quale il tuo nome vero che poi storpiò scherzando.

MEDEA: Già, sembra.

CREONTE: E quale il tuo rango pure?...

MEDEA: Pure cosa?

CREONTE: Tu sai se lo sapesse?

MEDEA: Continui  a fare domande di cui in partenza sai

che sono altri ad avere le risposte.

CREONTE: In questo caso trattasi di un morto.

MEDEA: Se conosceva il mio nome avrà saputo

ciò che nel mio nome è implicito.

CREONTE: Cioè?

MEDEA: Il mio stato di regina.

CREONTE: Strano. Le regine non si deridono a quel modo.

E pure al culmine dell’impudenza

non si arriva, comunque, a deriderle in faccia come ha fatto lui con                                                                                                                     te.

MEDEA: Che stupidaggine! Non ha culmini l’impudenza.

Fattelo dire da una che tu stesso hai dichiarato essere una signora                                                                                                           dell’eccesso.

Parole quasi tue.

CREONTE: E tu lo conoscevi?

MEDEA: Non so, forse.

CREONTE: Sì o no?

MEDEA: Io per natura non guardo, son guardata.

GIASONE: Ma va’!

MEDEA: Già, proprio.

CREONTE: E il tuo ex compagno?... Nemmeno lui lo guardi?

MEDEA: Quale mio ex?

CREONTE: Quello che è uscito.

MEDEA: E’ cosa degna di una regina sapere, a tratti, non essere                                                                                                             regina.

Io scelgo ciò che guardo, e quando farlo. E a proposito di quello: non                                                                                                     è me

che dovrete strappar da lui, ma lui da me.

Posso anche consentire che egli sia il mio ex,

ma temo per voi sia lui

che non consenta l’incontrario. 

CREONTE: Terremo in giusto conto,

ora, però, torniamo all’altro.

Fu servo di tuo padre, lo sapevi?

MEDEA: Mai fatto censimenti. Di servi, men che meno.

CREONTE: E poi fu pure tuo.

MEDEA: E da ultimo tuo. Davvero un irrequieto.

CREONTE: Da tuo padre passò a te per tuo volere.

E da te, poi, scappò per rifugiarsi qui.

Prima di voi percorse

la vostra stessa strada. Curioso, non ti pare?

Qui sconfisse il nostro pugile campione: il minotauro di cui prese le                                                                                                                                 consegne.

Avrebbe, infatti,

dovuto essere lui a impalmare la mia Creusa.

Non fosse che voi i servi amate, come dire?... sminuirli.

Beh, lo saprai: non aveva più attributi.

Ora preparati, Medea, a una notizia alquanto sorprendente.

Non è morto quel gigante, è ancora vivo.

Un colpo di grazia? Impossibile darglielo:

mannaia tanto grande qui nel campo non ce n’era né ‘machete’

sufficiente per smembrarlo e pure il fuoco

non l’ha esaurito per intero ma sbranato solo in parte. Tant’è vero

che le fiamme, mostrandosi incapaci

di sdipanare la sua mole, le abbiamo infine spente per timore

di un incendio incontrollabile. Nemmeno la pietà

seppe con quello essere pietosa ma una sevizia estrema. Noi

lo credevamo morto. A chi ancora cercava di finirlo

ha, con un rantolo, chiesto di fermarsi

e in un raschio che pare sia inudibile

ha di sé detto quanto ti ho già detto

ma non dell’altro che pure, a quanto pare, sa.

Perciò adesso lo chiamo a testimonio.
E’ là dietro quell’arazzo e sotto un manto

che ne cela l’impasto di emulsioni

tra garze repellenti, già annuncio del sudario. Tu di certo

occhi avresti a sostenerne la terribile visione ma non noi.

Pare sia un torso di carne e tizzi e ha due vesciche

che un peduncolo di bava chissà come giunge ancora

a un soffio d’aria per miracolo sonora.

Grazie ad esso ci parlerà di sé.
E poi di te.

Dunque, che venga

e ci racconti!

(Viene introdotto, su una barella, il Lottatore.

E’ una cosa, non un essere umano.

La sua voce è come il grattare delle unghie sull’ardesia.

Anche Medea ne soffre.)

LOTTATORE: Merdèa... tu, sei tu qui, Merdèa?...

Merdosissima Merdèa...

la megera che m’ha decapitato il ventre...  quella... te... c’è?...

Non ho parole altrimenti se non con lei presente...

la mangiatesticoli... te... c’è?...

Lei che m’ha ridotto a quel che sono... te... c’è?...

CREONTE: C’è, sta qua! Parla!

(A lei) Tu... fagli sentire che è vero che ci sei, avanti!

MEDEA: Convincilo da te! Perché aiutarti?

CREONTE: (Al Lottatore)

Se ti scopro puoi vederla?

(Silenzio)

MEDEA: Se può vedere come può sentire, dubito.

CREONTE: (Al Lottatore)

Ma nemmeno mi senti?...

MEDEA: Forse il budello in cui gli striscia il fiato

prevede un foro di sola uscita. Poveraccio.

E poveracci voi, che tanto ci contate.

(Creonte prova a sollevare un lembo del manto. Si ritrae inorridito.

L’orrore si è sparso anche oltre le tende.)

LOTTATORE: Ah... non l’aria!... E non smuovere, chiunque tu sia,

né me né quel che ho indosso!...

I miei nervi sguainati oltre le carni sono la fodera in cui sto...

tutto in me è carie, rovistatura e trauma...

e tutto mi tortura...

Lo vedete che sono? Un ammasso

di feci innervate e tendini ingrommati.

Ti piace questo, se ci sei, baldracca?...

Opera tua, relitto d’anima... tua, di te, madre mia cara...

madre Merdèa... dove ci sei?... Ci sei?... Di te... c’è?...

(Una stasi. Solo il sibilo del Lottatore.

Medea, infine, gli si accosta e penetra, lenta, con la mano sotto il manto.)

LOTTATORE: C’è! C’è! C’è!

Dove mi cerchi?... Dove più non sono? Dove

per tua delizia sono da tempo levigato e piatto, ben da prima

che arrivasse Giasone, poi le accette e infine il rogo?...

Te... con quella mano colma di tutti i membri che hai rimestato...

e con simili labbra traversate

da mandrie di maschi in sempiterno e dall’ingombra fica... troia!...

Nascere al mondo schiavo è la penultima delle pene, l’ultima

è nascere tuo schiavo!

La tua casa, Merdèa, è la cantina dell’inferno.

Lèvati... togliti... ah, che male!... Troppo male!...

Lo credo, vedi, che ci sei... levati e vattene!...

Vie quelle unghie, e quelle lame che hai al posto delle dita...

il tuo raschiare è più cocente del fuoco-squalo che mi ha morso di                                                                                                           traverso

e per metà, ma ancora in abbondanza, risparmiato!

(Creonte la tira via.)

CREONTE: (Al Lottatore)

Inutile maledirla!

Meglio conviene dire quello che sai di lei.

Sù intona, forza, la tua raucedine!...

Fosse l’ultima cosa che a te si deve,

di tutto ciò che hai fatto sarà la più importante.

(Un tempo. Poi, orribilmente, il sibilo riprende voce.)

LOTTATORE: Mi prese da suo padre e tagliuzzò.

Lei, con le sue mani e basta.

Mi fece possedere... schifo, Merdèa, che schifo!... dal suo cavallo.

Mi ridusse, di dentro, come oggigiorno sono anche di fuori.

Schifo, Merdèa, che schifo!...

E mi irrorò di strane forze e il corpo mi gonfiò con altri corpi.

Del suo stallone presi, col seme, il guizzo dei garretti.

Poi mi costrinse alla monta di un cinghiale

legato, come Taide, in una botte

con la fica dei maschi a cielo aperto e dalla bestia

mi infuse la potenza e la scorza imperforabile.

Poi da un orso la roccia dei bicipiti e... schifo, Merdèa, che schifo!...                                                                                                        da un leone

il morso sanguinario.

Già, questo glielo debbo. Sai perché?...

Per fare di me il suo ‘gòlem’...

il suo trucido killer personale. Finché un bel giorno a corte

- orto mefitico di Sodoma e Gomorra, quella corte! -

                                                                                              arriva il signorino...

Le fa ciù-ciù e ciù-ciù, e quella subito che contraccambia.

Schifo, Merdèa, che schifo!...

Al che devastano la reggia perché quello, il suo drudo, vuol partire.

A me sta il meglio: vale a dire

di scannarle - a lei: a Merdèa - il fratello e il genitore...

prima il primo che poi usato come esca dispargendolo, noi in fuga,                                                                                                          per la strada

fece sì che l’altro, il Re, mi venisse da se stesso buono buono tra le                                                                                                         grinfie e zàcchete!...

C’è ancora quella? C’è?... Merdèa... te... c’è?...

CREONTE: (A lei) Avanti, toccalo!

(Lei lo tocca. Il Lottatore geme.)

LOTTATORE: E via così... ricordi, passerotta... un bel terzetto, per                                                                                                        davvero...

Te, puttanaccia... ancora lì ci sta? Te lo ricordi, te?...

Sì, te sì!... Schifo, Merdèa, che schifo!...

E mi diceva che anche per lui, quell’altro, teneva in serbo la sua     arma prediletta, ovverosia: me! la sua macchina da guerra.

E io per lei che allora persistevo e m’infoiavo persino lì: dove                                                                                peraltro più non c’ero, sino al giorno

in cui m’hanno scaricato nel più truce camposanto che anima viva o                                              semimorta abbia, sia qui o nell’oltremondo,

mai e poi mai sperimentato...

una salina dove i microbi, signori, nascevano stecchiti

e da già morti... schifo, Merdèa, che schifo!...

partorivano cadaveri di microbi stecchiti. Dai morti, i morti: dico sul                                                                    serio, questa regione esiste.

Tutto lì era di gesso e arsura. Non sto a dirvi

quali dèmoni tutori a quell’orribile orrore m’abbiano poi sottratto.

Ma lei lo sa. Lei sì. Te sì.

MEDEA: (A irriderlo)

Ma dillo, invece: non fu il falco

che, in tanta ridda di copule zoologiche, t’imposi come amante

a darti l’ala con cui spiccare il volo e venir via?...

(Silenzio.)

MEDEA: (A Creonte, e poi ai giudici dietro le tende)

Gli credi?...

Gli credete?...

CREONTE: Un uomo così all’estremo, e non solo della vita,

mentirebbe perché?

MEDEA: In parte te l’ha detto.

E’ vero, fu un mio servo.

E’ vero, l’ho evirato, ma a chiederlo fu lui.

Essere il mio eunuco

e allietarmi con voce preservata, da castrato...

era per lui il suo sogno.

E’ vero, facemmo insieme alcuni esperimenti con fibbre d’animali.

E gli aumentai le forze, è vero.

E’ vero pure che venne via con me.

Via con noi.

E di certo è pure vero che mi amava,

con non poco disagio sia per me che per Giasone,

tanto che in viaggio

poi dovemmo separarcene. Ma francamente

non mi ricordo di saline e nemmeno di complotti miei e suoi contro                                                                                                                     il mio uomo.

Che l’avrebbe voluto forse è vero. Ma non è un fatto.

CREONTE: E che uccise, per tuo ordine, tuo padre?

MEDEA: Temo di dovere, a questo punto,

chiedere aiuto a una sottigliezza.

E temo quest’arengo da dispute sommarie

poco adatto a farne, ahimè, buon uso. Ad ogni modo...

non per mio ordine ma desiderio. Inespresso desiderio da lui colto.

Ed esaudito. Perciò lo uccise.

CREONTE: Negromanzia. Perciò colto e perciò esaudito.

MEDEA: Mettila un po’ come ti pare.

LOTTATORE: Merdèa... Merdèa... in quanto schifo

mi hai messo a pascolo, Merdèa!...

Quando il tuo ganzo è salito in mezzo al cerchio coi cesti sui cazzotti

m’ha fatto l’occhiolino quel fichetta... lui pure è lì che c’è?...

E sai perché?... A dire: “Sai, è per scherzo!... Sai, è per scherzo!...

Ho sulle nocche... su queste bende il fiato di Merdèa...

tieni, respira!...” ha detto...

“E sui ginocchi la sua saliva... prendi, bevi...” ha detto...

E io a questo ci ho creduto... e ho respirato...

ma forte, forte...

e lì ho bevuto, ingrugnato nel mio sangue...

l’ultimo fiato...

e l’ultima sorsata...

Da giù in terra ho alzato poi lo sguardo...

come soli a quel bastardo brillavano i canini.

Da quello, allora, io finalmente ho capito qualcos’altro.

(Silenzio)

CREONTE: Cos’hai capito?... Cos’hai capito?...
(A lei) Cos’ha capito, tu lo sai?...

MEDEA: Sì, l’ho capito.

Ma era una cosa che già sapevo.

CREONTE: E cosa?

MEDEA: Per te non conta.

CREONTE: Lo dirò io. Cos’è?

MEDEA: Hai lui qui apposta. Insisti.

CREONTE: Non ce l’ho più. E’ morto.

MEDEA: Rigurgitando se stesso.  C’è chi è morto meglio.

(La barella viene portata via.)

CREONTE: Qualcosa, forse, delle tue fatture?...

MEDEA: Ecco, forse.

CREONTE: O di altri tuoi delitti?...

MEDEA: Un parricidio non vi basta?

CREONTE: Per estradarti, certo, direi più che sufficiente.

Torniamo su quello allora...

Figlio di che?...

Della violenza che ti è connaturata o di un programma?...

Una rapina?... Una vendetta?...

O solo smania di suggestione?....

Tante nature

malevolmente avverse e differenti in te si assommano;                   

le sventaglia il linguaggio sciorinando

da una sola parola, ‘assassina’, una lunghissima progenie di                                                                                                                                 sinonimi.

E tutti, pedanti, ribadiscono il tuo nome.

MEDEA: Sbagli, Creonte. Non esistono sinonimi, nel senso

comunemente accetto di parole

d'un nulla differenti per chiamare,

con lieve slittamento, una stessa cosa...

Non esistono sinonimi poiché

neanche d'un nonnulla è mai una cosa

da sé distante: mai.

Due parole, perciò dunque,

fanno due cose, e se una cosa

è in un tal modo definita è quella, e se in un'altra

di già non è più quella ma tutt'altra.

A mò d'esempio: uccidere

non è lo stesso che assassinare.

Scava da te, da voi scavate,

nell'abbondanza

della distanza le diversità.

E le molteplici nature che si danno

per quei lievi slittamenti.

Gli individui, ad esempio, altro non sono

se non sfumate variazioni l'un dell'altro.

Ma distinti. Prescindibili. Sconnessi.

Prendine due: se uno lo impali muore,

se un altro non lo impali invece no.

Che vorrà dire?

Che le cose son più delle parole?

No, vuol dire

che due parole biforcano un destino...

che somiglianza

mai vorrà dire identità.

Sinonimìe saranno allora

tutte le facce e tutte le esistenze.

E ora, all'osso!... Strega mi dite

e poi assassina, e poi stragista. E maga. Fattucchiera. Negromante.

Variabili pazzesche da cui, credetemi,

se ne cavano almeno deci donne.

E mille vite, e mille e mille

destini d'altrettali. Una genìa, davvero,

che voi, sunteggiandola all'estremo,

contemplate per intero

in chi?... In me.

Ah, specchiarmi

in cotanta calunnia è davvero una lusinga!

Non fossi a rischio di rimetterci la testa

macché difendermi, me ne vanterei!

Ciò che voi dite dovrei essere, io non lo sono.

Neanche poi tanto perché non voglia, ma che non posso.

Ma riparto dal mio esempio:

chi assassina va da sé che uccide, ma l'inverso?

Una mosca, se uccisa, ha senso dire

che è stata assassinata?

Un rimorso lo si uccide, ed è questo un assassinio?... Intendo dire:

l'assassinio è un  fatto intrinseco al gioco delle leggi,

l'uccidere non sempre.

Io, certo, ho ucciso, e voi direte: non una mosca, non un'astrazione!

Ma io non l'accetto, non è vero!

Proprio una mosca ho ucciso, e proprio un'astrazione.

CREONTE: Un’astrazione? E come?... Un corpo... - anzi, due:

non più si è detto di tuo fratello - divelti dalla vita,

che smettono il respiro e imputridiscono...               

a sentir te sarebbero astrazioni?...

MEDEA: Due gangli di potere!

Due alabardieri lì messi a sentinella

di ciò che alle mie voglie è prediletto:

esser libera.

Due cinte mascoline solo al divieto intente:

dal nascere mio al mio crescere: entrambi a me preposti...

un’astrazione, sì... e combattere la quale ha maturato

prima una fede e poi un’ideologia.

La mia! Solida e forte.

La più robusta: forgiata nell’antitesi.

Quel coacervo di budella - lì, il mio servo che blaterava tanto -

tutto questo lo aveva,             te l’ho detto,

nel profondo di me chiaramente letto.

Fece poi tutto per solo compiacermi. E compiacersi

del mio, sperava, essergli a lungo... grata.

Sciocco! Per cosa?

Perché due maschi me ne fruttassero, pur se evirato, un terzo?...

CREONTE: E il tuo Giasone, allora?

MEDEA: Eccolo, invece, l’opposto esatto dell’astrazione: lui!

Poiché lui scelsi e da lui mi feci scegliere. Onde, come

cella libera nel mondo, mischiarsi e andare. - E amen.

CREONTE: E amen?...

MEDEA: Giasone è l’epilogo e indietro non si torna.

CREONTE: Strana istruttoria. Ma per fortuna

che la sentenza le era già premessa.

(Medea si porta il pollice al collo facendo il gesto di segarsi la gola.

La sua è una domanda.)

CREONTE: Verrò da te e saprai.

MEDEA: Il grave del verdetto non è certo

nel sapere di me che si è deciso,

ma in che è deciso di Giasone,

poiché è per lui che ancora passa

il meglio di Medea. - Sia in vita

che in morte.

CREONTE:        E amen.

(Lei va.

Creonte parla ai giudici.)

CREONTE: (Levando una sfera grigia)

Questo il mio voto.

Delle tre sfere - la bianca, la nera e la grigia -

è la mia grigia quella che ho in mano adesso.

Ora a voi il vostro.

Viviate con certezza la vostra Pentecoste,

poiché è nell’ombra che la luce ha un senso!

(Scivola in terra una biglia.

Creonte la raccoglie)

CREONTE: Nera... il che recupera dalla parte dell’accusa.

(Un’altra biglia) Ancora nera. Attenti!

Non siate troppo unanimi...

il che varrebbe, per ciascuno, a firmare la sentenza...

e se poi, un giorno, revisionata, dovessimo, mai sia, risponderne noi                                                                                                        stessi?

Chi potrebbe, a quel punto, più sottrarsi

all’indice puntato che, voltandosi all’indietro,

ci inchioderebbe, a quelle firme, tutti?

E “Tu l’hai fatto!... Tu voluto!” strepiterebbe quell’indice sapiente.

“Mia la grigia! Mia la grigia!” Ognuno di voi vorrebbe, allora, dire.

Misero stecco che non farà riparo.

Una, da sola,

neanche verrebbe documentata, è certo.

Sposate, con le leggi, l’astuzia alla giustizia!

(Un’altra biglia rotola giù e viene raccolt.a)

CREONTE: La terza biglia nera...

contro la mia, che non pareggia nulla.

E ancora tra voi intuisco

chi ha già il cappio tra le mani. Non lo sollevi!... Esiti e mediti!...

Si infinga indulgenza ma senza cedimento.

(Quarta biglia)

CREONTE: Parla da sé, da terra... poco sfumata: bianca.

Lieve compenso, ma buon segnale.

Il mio consiglio, stavo dicendo, è questo:

non più di tanto oltraggiamo, amici miei, quell’uomo

che assieme a questa donna s’è spinto sino a noi.

Lui ci serve.

Ci basterà respingere Medea

là dal recinto tra altri forestieri: indebolisca altrove

costumi e istanze di governi più lontani, e infastidisca

col suo idrofobo teatrino altri consessi ai quali sarà grato

esibire briciole di tolleranza; ve ne stanno:

sobborghi disasastrati che così ostentano prodighe opulenze.

Non fa per noi.

Troppi ci guardano, attenzione:

poco fuori di qui, la nostra gente...

ma oltre ancora, e con più acuti

sguardi puntati, la città stessa ci scruta e ci soppesa.

Un simulacro

di equità: questo ci serve. Un duro

ma non feroce verdetto, vedrete, sarà il meglio.

(Cominciano a cadere le biglie. A ruscelli. E grige.
Creonte le mette nel canestro che poi solleva.)

CREONTE: Bene così. Nuovamente voi vi confermate

l’uno all’altro, e tutti a me, fratelli. Grazie.

(Si conclude qui la seconda parte.)

(............)

(Terza  e ultima parte. Nel tugurio di Medea.

La farina è sparsa ovunque; con le focacce, spezzate e morse.

Il forno, nero di ceneri, è spento. Giasone e Medea aspettano la sentenza. Da fuori, l’uggiolìo dei cani.

Medea rovescia delle carte su una tavola.)

GIASONE: Quelle carte non te le ho mai viste. Che gioco fai?

MEDEA: Una partita tra me e il tempo.

GIASONE: Perché passi?

MEDEA: E’ una partita che giochiamo in quattro:

io, il passato, il presente e il futuro.

GIASONE: Ciascuno contro tutti?

MEDEA: No, si gioca in coppia.

GIASONE: E, dei tre, quale il tuo compagno?

MEDEA: Oggi il passato.

GIASONE: E chi vince che vince?

MEDEA: Opzioni sui perdenti. Nel nostro caso:

sul presente e sul futuro.

GIASONE: Cioè, concretamente?

MEDEA: Poteri.

Per te, nulla: non li sapresti usare.

Vincite che tu

non potresti né riscuotere né saldare. Io sì.

Lasciami fare, è un gioco serio.

GIASONE: Ah, serio, come no!...

MEDEA: Ci si conquista il mondo.

GIASONE: Se, invece, perdi?

MEDEA: Io e il passato diminuiremmo.

GIASONE: Materialmente?

(Medea ride.)

GIASONE: Io do un senso alle cose

coi vocaboli che so.

MEDEA: Io no.

(E continua il suo gioco.)

GIASONE: Sù, spiegami: allora?

MEDEA: Una stessa parola se usata da un botanico vale per le piante,

se da un teologo per Dio.

GIASONE: Ma tu hai detto: diminuiremmo...

dammi una chiave per interpretarla...

sia da filosofo, sia da cartolaio...

MEDEA: Ricadrebbero su noi ondate di futuro nell’attimo presente,

e per la posta in gioco

un solo giorno ne varrebbe cento,

e di cento memorie

ne resterebbe una.

GIASONE: (Guardando) Ma che diavolo racconti... è solo un solitario!

MEDEA: Non ti dirò, allora, se sto vincendo o no.

GIASONE: E va bene: ti sta venendo?

MEDEA: Che venga o meno, questo non c’entra con la mia partita.

GIASONE: Cioè, sarebbe che fai una cosa e l’altra?...

MEDEA: Come coi libri, che leggendoli li sfogli. Una cosa e l’altra.

(Medea continua a rovesciare carte. Giasone è in ansia.)

GIASONE: Stai perdendo?

MEDEA: Temo di sì, purtroppo.

Ho un compagno di gioco molto disattento.

GIASONE: Che metafora sarebbe? Disattento il passato?...

MEDEA: E all’erta il presente, e spietato il futuro.

GIASONE: Dio del cielo, spiegami!

MEDEA: L’inizio della perdita, amor mio, puoi saggiarla da te.

Non ti sembrano smagriti

già molti dei ricordi che riguardano ambedue?...

Sù, vòltati dentro e cerca, e fai come faresti

se dovessi, metti caso, controllare i tuoi risparmi.

C’è di meno, non ti pare?...

GIASONE: Meno cosa?

MEDEA: Meno di noi l’uno per l’altra.

Che egoista sono stata!...

Accingendomi all’azzardo,

scriteriatissima Medea!, non ho pensato

che andavo a giocarmi, in fondo, anche del tuo.

GIASONE: Non capisco a cosa alludi?...

MEDEA: A ciò che tu ti sforzi

di non leggere come un’allusione e che io, per preservarti,

mantengo ancora tale.

La nostra storia, che è tutta nel passato,

se non gira la sorte, io la sto scialando.

GIASONE: Che è tutta nel passato?...

MEDEA: Non è quello che vuoi?

GIASONE: Non è quello che è.

MEDEA: Nel segreto di te

tremeresti sapendo di aver detto il vero.

 

GIASONE: Non lo è! Non lo è!

MEDEA: C’è più imbarazzo, a volte,

nel combattere l’imbarazzo che ad accettarlo. Smettila!

GIASONE: Tu, allora dillo!, mi vuoi lasciare: è questo!

(Medea solleva una mano per colpirlo ma lui si è già buttato in terra e la stringe alle ginocchia. La mano di lei si abbassa: sulla sua nuca, e lo carezza. Giasone si solleva ad abbracciarla tutta.)

GIASONE: Dammi un soffio d’amore... solo un soffio d’amore...

(......)

(Altrove.

Creonte, con il suo canestro di sfere, è ancora nella sala del processo. Calano ombre.

Appare Creusa.)

CREONTE: (Tremante. Spaventato)  Vieni, mia tenue...

voglio dirti una cosa che non sai.

Ti parlo piano perché ancora sono lì.

Loro, i giudici: sono sempre lì...

dietro le coltri, sui loro scranni come

i libri delle Leggi in sempiterno aperti, anche nel buio

disabitato delle biblioteche.

E loro, dal buio, sorvegliano ogni disputa...

a ogni istante, notte e giorno.

E ogni colpa,

come questa che commetto nel dirti quel che dico.

A voi donne non è dato di saperlo.

I posti sono trenta,

e trenta i magistrati e si avvicendano in perpetuo.

Notte e giorno. Da un mese all’altro, negli anni e nei decenni.

Il loro pregio è la mutezza,

e non tanto della voce, ma il silenzio

dei loro corpi.

Quasi diresti che non siano lì

eppure, credimi, ci sono.

Anche gli alberi ad un refolo stormiscono...

anche il legno gracida assestandosi...

anche la terra, la più salda, a tratti sdrucciola...

Ascolta loro, invece?...

Sembra abbiano vesti che non fanno pieghe...

e braccia conserte sempre oppure mai.

E l’orecchio più fino non udrebbe

del più anziano, lo sforzo del respiro.

Tacciono

in ogni parte di se stessi. Ascoltali!...

Ascolta, Creusa, il silenzio dei giudici.

Nulla di più distante

dalla natura e nulla di più reale.
E’ aldilà dei processi che esso si fa perfetto.

E’ adesso.

E sai perché?

Perché è aldilà dei processi che maturano i verdetti.

E’ adesso.

Questo silenzio ne è il ventre partoriente.

(Alle tende:)

Strepitate, se la merito, una condanna a morte!

CREUSA: (A lui) Perché dirmelo?

E perché dirmelo stanotte?

CREONTE: Perché è una notte epocale questa.

E’ una notte, prevedo, di grandi cambiamenti.

(Creonte guarda nel canestro delle sfere.)

CREONTE: Temo, stavolta, si sia ecceduto

in eccessiva moderazione e troppe vite

abbiamo, temo, lasciato in vita, e troppe rabbie

fomentate senza sfogo. Inoltre...

non so perché, intuisco

un tuo possibile ruolo in tutto questo.

CREUSA: Certo, pur io.

(Prende il canestro dalle mani del padre.)

CREUSA: Perché ho preteso d’averti e non d’essere tua.

Per essere te.
Per essere Re.

Avrei potuto. Avrei saputo. Io, figlia

di un padre degno di tanta figlia. Ma le mie ossa

se ne vanno in farina e pure questo t’induce

a cercar tane nel mio sparire e sfidando l’imprudenza mi riveli

i segreti dei maschi e chiami maschi a testimoni e perciò vuoi

ch’io ora sollevi la tua giurisprudenza e che ne porti

notizia a quella donna. Io, non te. O forse no?

Non è questo che t’importa?... Non è questo il tuo volere?...

(Creonte annuisce.)

CREUSA: Sì, cosa?... Sì, lo è?

(Creonte annuisce di nuovo.)

CREUSA: E il tuo volere si fonde al mio: adesso

è l’uomo suo che voglio, ma senza farmi

da lui volere. Perché, forse,

voglio che abiti all’unisono il mio tempo e me.

Per quel che è. Per quanto ne sarà.

(Creusa bacia Creonte.)

CREUSA: Ti lascio all’inazione silente delle Leggi.

(La giovane si allontana col canestro.)

CREONTE:Dove va adesso la mia figliola?...

Mi spaventa la certezza del suo andare.

A immaginarla per la strada che la porta da Medea

passo a passo la vedo ingigantire...

come un titano farsi... luminescente ardere.

Ma è a un titano che a sua volta s’avvicina...

due istrici possenti che vanno ad incontrarsi: all’acme

di un ferragosto che non si fa fornace.

Gelido, anzi.

Ah, li sentite i suoi molossi, i suoi alani, li sentite?...

Ora è là nel recinto... tra quelle belve eretta!...

Per carità, sta’ attenta!... Di porcospino

è il pelo di quei cani... fitto d’aghi e di chiodi, e come di locusta

colmo d’acido veleno. Entra!

VOCE DI UN GIUDICE:

Creonte... chi ti parla dal profondo

della sua tetra roccaforte è il vecchio

a cui Medea svuotò la verga in sonno.

Stanotte in troppe cose hai derogato.

Hai consentito a donna cose d’uomo,

propagato hai gli arcani, come il virus,

e genuflesso il tribunale a lei.

Tu, artefice di questo concistoro,

hai iniziato stanotte a disgregarlo.

Perciò sperdo la pietra del giudizio

e scuoto il mio tendaggio. Mi dimetto.

(Tutti i tendaggi sono infine scossi.

Creonte è chino, carponi. Prostrato.

Latrati di lontano.)

(......)

(Nella fogna/pollaio/stambugio di Medea.

Creusa da Giasone e Medea, che sono nudi e abbracciati in terra.

Giasone dorme. Medea si volta verso Creusa e il suo canestro.)

CREUSA: Porto il compendio del tuo futuro.

MEDEA: (Accennando a Giasone)

E’ il suo che m’interessa.

CREUSA: Per lui si è deciso ieri, per te oggi.

MEDEA: Non è l’oggi che voglio. Dimmi di ieri.

CREUSA: Quell’uomo ha deciso per sé.

Sapeva il senso della prova che si accingeva a compiere.

MEDEA: Sapeva solo di battersi per me.

CREUSA: Da te è partito, a me ora è giunto.

O forse non ti ha detto che il contratto coniugale è già redatto?...

MEDEA: Chiunque è buono a scrivere una carta!...

Lui non sa nulla.

CREUSA: Ma l’ha firmata.

MEDEA: Non è vero!

CREUSA: E l’ha pure, in qualche punto, contestata e ne ha avallato le                                                                                                               correzioni.

O con chi credi che dormirà stanotte?

MEDEA: Dov’è il mio letto. Come da quando

la sabbia del deserto ci ha impastati insieme.

CREUSA: Il deserto è un pessimo officiante di matrimoni e accordi.

Noi da tempo l’abbiamo ricusato, è roba antica che non esiste più.

MEDEA: No, invece! E’ là fuori che v’assedia.

Le sue creature vi dimorano in pancia!

(Creusa poggia in terra il canestro.)

CREUSA: Sei stata graziata, Medea. Ma non perché innocente.

Potrai vivere: ovunque tu vorrai purché tu sia voluta.

Dunque, non qui.

Non più per invito ma per editto:

rimonta in carro con tutta la tua casa,

allaccia il tiro mugghiante dei tuoi cani e, prima dell’alba, scompari                                                                                                                     dal paese.

Chiunque altrimenti, qui della nazione, avrà licenza di giustiziarti.

MEDEA: Ce ne andremo,

ma ce ne andremo in due!

CREUSA: Conti, per caso, di legarlo insieme alla mobilia?...

MEDEA: E sarà lui a chiedermi di andare via veloce!

CREUSA: Certo: te sola. Quel manzo è ormai arruolato, lui rimane.

Se non ci credi sveglialo e prova a domandarglielo.

Inoltre ha già verificato che glielo faccio venir duro.

O ti credevi, tu per lui, la sola tana capace di scaldarlo?

Sù, prova a domandarglielo. Anche gli spettri possono piacere.

MEDEA: Parole di vergine davvero!

CREUSA: Se mai anche tu sei stata per un istante vergine saprai

che è proprio delle vergini parlare non da vergini.

E allora?... Non lo svegli?...

(Medea si accosta a Giasone. Sta per scuoterlo. Trema di spavento.)

CREUSA: Al suo sonno, certo, puoi far dire ciò che vuoi.

(Creusa si volta e si allontana. I cani non latrano più.)

MEDEA: (A sé)  Giasone... compagno mio... marito... fidanzato...

mia Patria e solo mio compatriota... è dunque tutto vero?...

I miei rimproveri, quelli esibiti solo per ripicca,

a te suonavano sinceri e non a scherno...

tu lo sapevi che coglievano nel segno,

e pensavi ch’io sapessi, ma no che non sapevo. Adesso sì.

E’ così, dunque?... Davvero è questo?...

GIASONE: (Svegliandosi) Medea, che c’è?...

(Medea si scansa. Giasone vede il canestro in terra. Lo raggiunge e vi guarda dentro.)

GIASONE: Siano benedette le anime del cielo!... Non morirai!...

Amica mia, oh sappilo quanto per te ho tremato!

MEDEA: Se tu per me hai smesso, io per te comincio.

O no, non preoccuparti...  tu di persona non rischi nulla.

La tua vita in te rimane integra.

Ma è la tua in me che viene lapidata.

E in quanti s’accaniscono a scorticarla via,

e la stracciano a brandelli e vogliono che affoghi!

Son forti, ci riescono.

E dentro me la porto la tua inespulsa morte.

Con che lutto inconciliabile riaffronto il mio fuggire!

Debbo stanotte. E’ in quelle sfere grigie.

E senza di te, mi dicono.

GIASONE: L’hai detto: sono forti.

MEDEA: Ma ora ne fai parte. Sei tra chi vince.

GIASONE: Dovevo. Il rischio / era più tuo che mio.

MEDEA: Mio, tuo: queste fredde parole tra noi mai pronunciate.

GIASONE: Sei certa, Medea, ch’io meriti solo il tuo disgusto?

MEDEA: Il mio disgusto pigola, il mio sconforto ulula.

E tu cos’è che senti? Il pigolìo.

(Medea va a prendere dei panni puliti.)

MEDEA: Nudo per Creusa sarai come lo fosti per Medea.

Che il tuo abito nuziale denunci almeno la differenza!

(E Medea lo veste. Giasone la lascia fare.

Mentre lei lo prepara per le nozze, lui comincia a parlare.)

GIASONE: Tu mi hai costretto a compiere, per te che amo,

i gesti di chi non ama.

Credi non abbia avuto il suo peso pure questo?...

Quando avrei voluto rimanere mi hai costretto ad andar via...

quando chiamarti, a tacere...

quando abbracciarti, a scansarti.

“Io - mi dicevi - ho progetti che trascendono l’amore.”

Però l’amore tu lo contemplavi. E pretendevi.

Mi costringevi a limitarmi, ma illimitata

su me pesava la tua richiesta.

Mi trascinavi nei tuoi progetti e mai una volta che si potesse

elaborarne insieme. Chiacchierarne. Così, per ridere, magari...

per scherzarci.

Il letto per noi non era naturale conclusione di ore condivise

e spartizione di sé per quella gioia che fa gemere:

“Vorrei essere te penetrata da me!”

Certo, mi hai dato, e certo dedicato gesti e cose.

Ma tue tutte le leggi. Tutte le regole, tutte le censure.

Io non ti scaccio dal mio passato ma il presente mi risveglia.

E’ la mia vita che avanza e mi chiede una ragione.

MEDEA: (Teneramente, molto teneramente)

Potessi svitarti la testa, rimescolarla e rimettertela sul collo!...

Le mie leggi... le mie regole...

e quali le tue? E quando

la tua voglia di decretarne?... Vuoi che te lo dica? Mai.

Io, chiedendoti

di esser la metà, se non il terzo, di quel Giasone innamorato che con                                             me voleva       farsi doppio, se non triplo,

in realtà mi premuravo che tu non dissipassi.

Né l’amore, né te stesso.

E che, dunque, non dissipassi me.

Perché volevo

che tra noi due continuasse a lungo.

Questo il mio autentico progetto, quello

che sinanche l’amore trascendeva.

Speravo capissi. E che tu fossi capace.

Ora hai capito.

Ma non sei capace.

(Lo carezza tra i capelli)

Ah, com’è triste tentare il dicibile con le lacrime agli occhi!...

Amore mio... noi siamo, in quest’istante, come due generali

sul far dell’alba prima del tuono delle cannonate...

due generali l’uno contro l’altro a stringersi la mano.

Fuori il silenzio delle mosche d’estate

che pesano nell’aria come uccelli sopra i rami.

E una luce di piombo che non viene né va.

Il vento la importuna. Aspettano le reclute

su per le falde in geometrie allestite e stanno mute  

ai tamburi dell’attesa.

Ecco. Il generale in visita ora esce dalla tenda.

Lo aspettano i fidi della sua ambasciata.

Rimonta su una fangosa comionetta e s’allontana

coi pensieri che tormentano coloro che non tornano.

Sei tu

quel generale, amore...

a te di uscire da questa tenda e non tornare.

Il giorno è di vetro. Sta per schiantare.

Quando sarà, non so; ma che sarà, lo so.

Stiamo per accanirci, come mai accadde a due, l’uno sull’altra.

Da questa estrema propaggine della mia amicizia

ti giunga, amore, il mio: ”Buonafortuna”.

E non addio. Ci rivedremo. Va’.

GIASONE: No, carezziamoci ancora.

MEDEA: L’immunità, t’avverto, è a un soffio dal suo svanire.

GIASONE: Carezziamoci appena. Una carezza!

MEDEA: Vattene, e vattene pure in fretta!

GIASONE: Se non vuoi darmela, fa’ almeno che sia io!...

MEDEA: Piagnucoloso insetto!...

Mi sconcerei la mano che t’ha smosso i capelli rinventandoti il ciuffo                                                                                                      sulla     fronte!

Vuoi andartene o no?

Chiedi carezze con quel membro eretto, e ancora non ti basta?...

Falso con te stesso e col tuo corpo, figurarsi con un’altra!...

Tu vuoi carezze che inizino qualcosa...

chiedi la cosa, allora! Direttamente quella!

GIASONE: No, solo carezze...  adesso solo questo.

MEDEA: E’ troppo tardi, ormai: un troppo tardi

che hai voluto solo tu.

Io un tempo ho adorato, e tu lo sai.

Non richiesta di farlo, mi sono genuflessa. E tu lo sai.

Ho guardato, al tuo posto, l’inguardabile e ascoltato, in vece tua,                                                                                                            l’inascoltabile.

Ho tramutato me stessa in navigante

precipitata a capofitto oltre le sponde

d’ogni possibile perdono.
E oltre ancora ho penetrato

il folto delle colpe, sola, per te. Solo per te, e tu lo sai.

Non mescolarmi, adesso, al minimo del mondo.

A me parente

e consona compagna fu solo l’altitudine.

Perciò, campione,

dammi la schiena, è meglio

di quella faccia su cui squaderni

ritratta punto a punto la tua azione:

altro non è

che miserabile diminuzione, e sai perché?

Perché tu fosti, in questo sguardo, il meglio. E adesso

prima che urli l’urlo che ho in corpo: VATTENE!

(Giasone, infine e con passo risoluto ma non svelto, va via.)

MEDEA: Com’è possibile?...

Quest’uomo che tanto mi conosce

invece sembra non conoscermi affatto.

Pare non sappia che ho armi strepitose.

Davvero pensa di non essermi nemico?

E ch’io proprio con lui, da amante

divenuto il più odioso dei nemici,

intenda chissà come risparmiarmi nel combatterlo?
Che intenda risparmiarlo?... Proprio lui!...

Eppure s’è inoltrato per la via che non ha scampo

come al termine di una disputa qualsiasi!...

Ha infilato quella porta e va a sposare un’altra!...

E sa che lo so!...

E sa chi sono!...

Con tutto ciò prevede

per sé e per quella ancora del futuro!...

E requie chiedeva, ma non pietà.

E comprensione, non clemenza.

Allora, forse...

davvero lui stenta a vedere il suo delitto.

“Per lei lo faccio - pensa - e non c’è colpa!”

Ma come non c’è colpa?...

Tu che di te mi svuoti...

che della donna che in te ho riposto mi rapini...

tu che togli ogni giorno al mio domani

e al presente ogni futuro...

che ogni notte vuoi che sia, da questa in poi, per me una notte

da passare, dilaniata, nel tuo letto con quell’altra!...

Tu, che sei questo e questo fai, osi pure pensare ‘non c’è colpa’?...

E va bene! Così sia, non cambia nulla.

Se non sul falco che in lui vedevo

scatènati, mia rabbia, sopra il demente che in lui ignoravo!

(Sulla soglia, Creonte. Ha delle armi alla cintola.)

MEDEA: (A Creonte)

Se è la luce a farmi da scadenza, ancora è buio.

Ho tutta la notte, se non sbaglio, per prepararmi a andare.

CREONTE: Sono venuto a rettificare un ordine.

Parti te sola, senza nient’altro appresso.

MEDEA: A confermarlo. L’ordine era questo.

CREONTE: No, lasci tutto. Pure le tue bestie.

MEDEA: Loro? Perché?

CREONTE: Perché non tornino.

MEDEA: Li volete macellare?

CREONTE: Solo tenerle. Forse addestrarle.

MEDEA: Sempre che sappiano dimenticarmi, addestrali a che?

CREONTE: A servire altri padroni e non più te.

MEDEA: Sicché ti piacerebbe stiepidirti i piedi

sotto le macule dei loro manti!... Ne son felice.

Avere per padrone un vero Re!

CREONTE: Ti trovo mansueta. E’ una sorpresa.

MEDEA: Come il mio branco. Con che umiltà ti ha accolto!...

Un buon auspicio.

(Creonte sta per andar via.)

MEDEA: Dì, Creonte!...

So di doverti la vita e voglio ringraziarti.

La mansuetudine è spesso maschera

che è facile indossare. Ma io odio le parvenze, e a dartene una                                                                                                                 prova...

ti prego di portare alla novella sposa

un umilissimo mio dono: questa organza trapuntata

che qui comunque avrei lasciato. Così lei sappia, almeno,

di averla avuta come omaggio e non come bottino.

(Gli dà la trapunta.)

MEDEA: Ma alla novella sposa, ho detto. Perciò che l’abbia

subito, adesso: prima che si corichi!

CREONTE: Mi piace crederti, Medea.

Strano odore ha intrigare con te.

E un intenso sapore l’averti in confidenza!

(Creonte si allontana.

Medea va alla sua sacca. Ne prende un quaderno malconcio. Lo sfoglia, lo brandisce alto e recita, come un sortilegio, dall’Apocalisse di San Giovanni...)

MEDEA: “Conosco le tue opere e te, che non sei né caldo né freddo.

Fossi tu caldo o fossi tu freddo!

Ma poiché sei tiepido...

ti vomiterò dalla mia bocca...” - né caldo né freddo. E poiché tiepido. 

(......)

(Altrove si consuma il passaggio del dono.

Creonte, presso il talamo degli sposi, dà a Creusa la trapunta di organza.)

CREONTE: Per te, da lei.

GIASONE: Non accettarlo.

CREUSA: E perché no? Mi piace.

GIASONE: Non conosco quel cencio.

CREUSA: E allora? Nei sei geloso?

Regali così belli tu ancora non me ne hai fatti.

GIASONE: Può essere abbia mani, lascia stare.

CREONTE:  Me l’ha offerto con le sue.

T’assicuro: l’ho lasciata che le aveva ancora ai polsi.

(Creonte ride di Giasone. Non Creusa, pallida e fiammante.)

GIASONE: Eravate voi i più timorosi...  e adesso invece?

CREUSA: Tu, piuttosto, non sopportavi le si dicesse maga.

E adesso invece?

CREONTE: Basta tremare. Quella barbara è bandita.

Hanno le Leggi risolto il caso.

La fresca notte vi impasti il basso ventre

di prolifiche dolcezze! Buon riposo.

(Creusa stende l’organza sul talamo. Giasone non replica più.)

(......)

(Cresce il vento, e, col vento, di nuovo i latrati.)

(......)

(Creonte si riavventura nel suo proprio antro.)

(.......)

(Da Medea, che si slancia a guardare fuori.)

MEDEA: Un vento cataclismatico storce le pietre.

La senti la notte, Giasone? La senti?...

La bungaville si lacera alla malagrazia del suo tocco

e sfarinandosi rinuncia alla difesa.

Vola in pupille violastre sulle contrade e annuncia... annuncia cosa?

Me! Ecco che annuncia. O mio ànghelos, vola!...

Distraetevi, stelle, che la terra stanotte non vi guarda!

Hanno roghi i miei cuccioli in gola.

Questo strillo inumano che attraversa il pelame del mondo è un                             richiamo alla caccia, alla caccia, alla caccia!

Vanno in coro nel vento, li senti?...

Ormeggiati al maestrale ecco i loro guaiti sradicati dall'aia dove te e                                 i tuoi compari me li avete reclusi...

Ma hanno flesso e stracciato

lo steccato e ora corrono fuori! Sormontano i pali

della luce reclini. Terrei

come io li ho voluti.

(.......)

(Giasone e Creusa tremuli nel letto.)

(......)

(Creonte nella sua sala vuota.

Tira le tende una a una.

Dietro ciascuna è il nulla.)

CREONTE: Sei andato via anche tu...  e tu pure!... E te?...

Via. - E tu! E tu E tu!...

O no... che sciocchezza sarebbe?...

Se vi ho offeso rinnego me stesso, ma tornate!...

Non vi ho tolto potere, fratelli...

Che equivoco è questo?...

Ho solo chiesto, lo ammetto, complicità impreviste.

Ma perché in palio c’era una posta enorme.

E vedete...

il mio piano ha portato i suoi frutti!

(Apre le ultime tende.)

CREONTE: Nessuno di voi... nessuno...  solo finestre sul nulla...

Cieca pece e diserzione!... Ah, per chi spendere buone notizie

se la vita ci ormeggia in una cella vuota?...

(Avverte qualcosa. Si precipita a guardare fuori.)

CREONTE: E quei fulmini che guizzano rasoterra?...

E queste urla?...

Io le riconosco!...

(Corre via.)

(......)

(Altrove. Nello staio di Medea, intenta ai suoi uffici.)

MEDEA: (Come in preghiera)

Da dove e come il tuo regno viene?... E dove va?...

Qui non è detto ma nel mio cuore sì.

A nulla, nel mondo che attraverso, verrà offerta spiegazione,

e chi non può capire morirà fantasticando.

Ah, la mattanza!... Si imbarcano le stive, si alzano le mazze...

Gli ultimi palpiti della tua certezza ti dicono: è ora!

E tu che non sai essere alla loro altezza, che non sai essere

sempre pari a te stesso, biascichi: ora di che?

Eccola l’ora, Giasone, è questa. Da sé viene e di sé ti parla. Riconosci?

Ah, la mattanza! Schiuma la tonnara anche di sangue improprio...

anche di sangue giusto. Tu solo, al tuo solito, non sai distinguere.

In tanto male, che ti è evidente, un altro male avverti che non                                                                                                                              comprendi.

Come non ridere di gente che ha eletto te a campione?...

Eccola l’ora. Da sé viene e di sé ti parla. Riconosci?...

Ne avesti percezione all’alba dei tuoi giorni: il primo latte munto

ti mostrò il chiaro su cui adesso chiudi gli occhi,

e il primo pianto che udisti, il tuo, a quest’altro si congiunge: al tuo.

(Il vento si fa vieppiù vorace.)

MEDEA: Come una lastra

si indura sopra voi due il mio panno...

Dalle pozze del buio e dai limiti del borgo

un furore melodioso di latrati... il tuo rimorso dice:

dolorosi imenei

ecco che intona per noi la mia Medea...

e litanie a se stessa...

La tua Medea...

Elegiaco sembra farsi l’orizzonte.

La campagna se ne riempie il grembo...

ma divina, la notte, avviene

col suo popolo in armi e il pandemonio!... Già si sfascia

l’armonia del coro che solo la distanza sembrava aver composto,

e l’ululo selvatico canta già a un passo, vicinissimo oramai.

Ti scuote il calpestio nel corridoio, e lo slittare

delle zampe senza presa sul pavimento lustro. - Creusa, nuda,

sporge il seno da oltre le lenzuola. Parte di te le sta incollato sopra.

E tu ascolti quel che ascolta.

La guardi che guarda, poi guardi quel che guarda. Quella,

da donna ferma a infermo maschio, la fine sua t’annuncia!

Parente è anch’ella del pandemonio: lei lo sa cos’è che accade:

“Non più pace! Non più pace!” bisbiglia e, pallida, ti dice: “Io morirò,

ma voglio che la morte mi colga inseminata.” E su di te si siede

flaggellata dalla luna che va e viene...

perniciosa e ondivaga,

come una scaglia del mio volto in cielo.

Sia perciò adesso : ora mentre disserraglia

sopra di te il suo ventre!... Eccola! Eccoli!...

Con collera poliziesca da retata

la mia armata scardina le porte, e brace pura s’avventa nella stanza.

Ineffabile istante! Fermi!... Che sappiano chi siete: voi,

i dèmoni della notte in armi!

S’agghiaccia la mia muta, e frena il passo e il ringhio.

E’ l’alano pezzato che la guida.

Dietro di lui il più tetro, dallo specolo di lince.

Ah, il corale dei respiri dai mantici roventi.

E riprendono all’unisono, flessuosi, ad avanzare.

Come liquido vi attorniano, a movenze

di lenta lava, e pare aspettino qualcosa.

A te, Giasone!... Fa’ qualcosa tu:

da eroe per lei!... Scosta l’avello

dov’è la notte e spaccale il petto o tocca

col segno di Febo i cenci del suo ventre!... Cos’è? Non puoi?...

No che non puoi, e allora assisti!

Sopraggiunge, lo vedo, il tuo ultimo padre: sgangherata figura

che lo spavento ha caricato a molla. E su lui e su lei

assisti a cosa, e a quanto, per mio volere avviene:

irrompono i denti nei fragili e inermi

tessuti dei muscoli, esplode

l’irato sangue dall’ergastolo delle vene.

E ciò che non residua assisti a come viene

azzerato, trito ed ingoiato! Dalla luna

strappato è un urlo alle balze del mondo. E loro

mutamente s’acquetano, li chiamaste:

rognosi sciacalli e iene! Consummatum est.

Concummatum consummatum consummatum est.

 

(La donna accende uno dei suoi sigari e aspira forte.)

MEDEA: Tu che non sei in grado di fare del male...

né ad alcuno né ad alcunché...

il vero male, quello insegnato

dagli stregoni della mia tribù, rinuncia

a servire mai a qualcosa

né a qualcuno.

(Ancora una pausa.

Medea guarda oltre la soglia verso la quale soffia volute di fumo.)

MEDEA: Ben tornato, marito... ben tornato, reietto del deserto!...

Noi apolidi, creature azzurre e beduini, corriamo rischi, a separarci,

che le talpe di città non possono sapere.

(Rientra Giasone. Seminudo, madido, e trainando con sé qualcosa.

Un grosso  fagotto sanguinolente avvolto nell’organza insudiciata.

Lo lascia sull’entrata e vi crolla presso in ginocchio.)

GIASONE: Mi hai persuaso, Medea.

La tua vittoria non è nella bava di sangue

che questa notte hai steso dalla tua soglia a quella,

ma nel farmi tornare a te e, paradosso dei paradossi,

senza un’oncia d’ira contro di te, ispiratrice del maleficio.

La tua vittoria è nel tono con cui ti parlo.

E trascinandomi due carcasse appresso.

MEDEA: E puoi scommetterci che so di chi!

Ma si direbbe che la morte li abbia alquanto rattrappiti:

così poco mi sembrano, e non di molto peso!...

GIASONE: Chi?

MEDEA: Creonte e la tua sposa. Chi altri, sennò?...

GIASONE: Non sono loro.

MEDEA: Non sono morti?

GIASONE: Ti temi fallibile? Timore assurdo!

La tua violenza è una saetta dal volo indeflettibile.

Se di una cosa ha fame, altro destino non resta a chi gli tocca

che di sfarmarla e basta.

Con quei due miseri ha banchettato or ora.
Sì, sono morti. Atrocemente.

Lui a me di fronte, lei a me di fianco.

Mai esperienza più efferata mi riservò la vita.

La trapunta d’organza... è stata questa, vero,

che ha chiamato i tuoi cani a divorarli?...

MEDEA: Tu lo sapevi! Cosa fosse quel dono: non potevi dubitarne!

GIASONE: Sì, lo sapevo.

MEDEA: Eccola, qui sì la mia vittoria:

riconoscere in te colui che mi conosce!

Ora sì che Giasone è ritornato.

GIASONE: Anche troppo ti conosco e questo m’affatica.

Perciò ho lasciato che Creusa rincalzasse i bordi del suo letto.

Perciò ho lasciato

che tramutassi tu quel letto in selvaggina, e son venuti!

E non a compiere una strage, ma un  mistero.

MEDEA: Se dissolvere è un mistero, loro questo hanno fatto:

dissolvere l’infamia e vendicarmi.

GIASONE: E altro ancora, di cui non so il perché.

Quando lì fermi pareva aspettassero qualcosa

io penso:”Amen!” e, pure nell’assurdo, lo capisco.

Ma no, altro è quello che succede: quelli,

per tacito accordo in un silente assolo,

si slanciano, suicidi, alla gole l’un dell’altro

come alianti pesci che vanno presi a volo,

e a zolle la carne è dissodata e senza gridi, e fontanelle

di sangue vivacissimo traboccano

sull’inutile presagio dell’organza,

e mille e mille d’attorno al letto, ovunque,

che ne imbarca come al centro di un naufragio. Medea, perché?

MEDEA: Ah, la mattanza!...

Sanguinolenza.... sanguinolenza oltre ogni intendimento!

GIASONE: Lei smorza la sua danza, io le faccio da tappeto.

Un camposanto canino e fumigante

ora ci assedia con una calma piatta.

Creonte, qui, sull’uscio adesso appare.

L’alano, allora, dai morti si solleva...

con lui il randagio che ha il sapore della lince.

L’uno è per l’uomo, l’altro per la donna.

Li straziano alle canne del respiro.

Poi con se stessi concludono la strage. Perché, Medea? Perché?...

MEDEA: (Indicando il fagotto imbrattato)

Lì dentro, allora?...  Chi è che hai lì sepolto?...

GIASONE: I tuoi campioni... quei due principi di morte, i tuoi crociati.

(E si allontana mentre Medea si accosta alle pieghe dell’organza.

Ne palpa il contenuto e questo basta ad annientarla.)

MEDEA: Ah, ecco la fine! La vera fine.

S’è scatenato l’imprevisto. Questa è la fine.

(Si getta su quei corpi. Si ritrae.)

MEDEA: No, invece!... l’imprevisto è il disumano!

La neve che frana, la stufa che esplode... Non questo! Non qui!

Tutto da noi proviene, marito mio! Tutto da noi:

il percorso sino a loro qui scannati

l’uno dall’altro, ma in realtà da me: da me per te.

GIASONE: Che altro orrore vai predicando adesso?

MEDEA: Non lo scansare, ti appartiene.

E, solo per poco ancora, tu non sai quanto.

Vuoi saperlo perché, poveri cuori,

si sono uccisi come li hai visti uccidersi?....

Perché io ho voluto il tuo massimo male

prima ancora del loro massimo bene.

Loro l’hanno compreso e lo hanno fatto per me,

che qualsiasi cosa avrei fatto per agire contro di te!

GIASONE: Che sarebbero?....

Formule ancora per i tuoi giochi di prestigio?

MEDEA: No, i miei gemiti.

Loro, Giasone, erano i nostri figli.

Nati dal più avido connubio che mai il deserto accolse.

La loro forma non era loro essenza.

Solo l’immagine con cui li preservavo.

Solleva lo scialle e capirai.

(Giasone solleva il lembo d’organza.

 E’ invaso dall’orrore.)

MEDEA: Ti sei mai visto così piccino? E doppio.

Due varianti del tuo ritratto.

GIASONE: Ma come vuoi che possa capire?...

Crederlo debbo, ma capirlo!...

MEDEA: Tutto è qui: in questo che vedi.

Da me e da te nacquero loro. Il resto è un’arte

che sempre hai saputo di non poter capire.

GIASONE: Due cuccioli d’uomo quella selva canina?...

MEDEA: Io vi ho immersi nel mio sogno, tutti quanti,

ma il mio sogno ha compiuto i suoi gesti, e ha sommerso anche me.

In questa storia che tanto ci ha divisi

da un certo punto in poi noi ritorniamo insieme.

Avvinghiati da un lutto che ci sposa nuovamente.

GIASONE: Perché non dirmelo?...

Io dico: quando avvenne... perché non dirmelo?...

MEDEA: Me l’avresti consentito di sottrarti

lo spettacolo del loro svezzamento?...

Il tuo vederli crescere?...

I tuoi figli!... Io non credo.

Perciò dovevo.

Sapevo a quanti rischi li esponeva il nostro vivere da transfughi.

Così ho disposto che facesse a loro scudo la magia:

per averli invulnerabili nel tempo delle insidie e per riaverli,

nostri e tuoi,  giunti che fossimo a un più sereno approdo.

Ma strane cose si sono mescolate mano mano.

L’inattingibile dei desideri, innanzitutto.

Poi la loro devozione, il loro amore:

troppo sapiente e troppo smisurato.

Per entrambi, Giasone.

Perché giungessimo, infine, a quest’istante insieme.

(Medea allunga la mano per sfiorare quella di lui, che si sottrae.)

GIASONE: E cosa mi lasci, maledetta, da piangere oramai?...

I fiori d’un volto che già appassisce?...

Due corpi sgozzati che mi offri come figli?... No.

Tu mi costringi all’egoismo di dover piangere me stesso ma non loro.

Me, orfano in eterno della mia paternità.

Povere piume... li scopro adesso. Cosa, di loro,

potrebbe mai mancarmi?

Questo essere scempiati?...

Questo pallore che non avrà più rimedio?...

Neanche un istante della loro voce!...

Neanche uno solo dei loro gesti!...

MEDEA: Lo so: tra me e te, oramai, è inevitabile l’abisso.

Ma una cosa, come pane, solo io e te potremo

scambievolmente darci.

La spinta a quel riposo che, sino a che morremo,

sarà, per noi, l’unico bisogno.

E quel riposo, a noi, può darlo solo il viaggio.

Purché sia insieme. Anche nemici ma mai più soli.

Perché credimi, altrimenti, ad aspettarci al varco

sono due inferni: le nostre due vecchiaie.

(Stavolta Giasone non sottrae più la mano al tocco di Medea.)

MEDEA: Al mio cuore fulminato come un albero dal lampo

questo dimostra, disperatamente,

che i cieli sono dei soffitti bassi...

che sollevare lo sguardo è solo un gesto isterico...

e che se esistono gli Dei, sono mortali.