La miliardaria

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LA MILIARDARIA

 


Commedia in 4 atti

di George Bernard Shaw

1936

Traduzione di Paola Ojetti

A. Mondadori Editore - Milano

1982

I PERSONAGGI

(nell'ordine della loro entrata in scena)

Sagamore

Epifania

Alastair

Patrizia

Adriano

Un medico egiziano

Un uomo

Una donna

Il direttore dell'albergo


ATTO PRIMO

Giulio Sagamore, giovane e abile avvocato, è nel suo uf­ficio di Lincoln's Inn Fields a Londra. È una bella mattina di maggio. La stanza, vecchia e rivestita di legno, è siste­mata in modo che Sagamore, seduto davanti alla finestra e visibile di profilo con le spalle alla luce e il fianco sinistro verso noi, abbia la scrivania come difesa dall'eccessiva inti­mità dei clienti emotivi o dagli eventuali assalti di clienti violenti o dissennati. La porta è alla sua destra, nel fondo della stanza. Il volto dei clienti è quindi illuminato dalla finestra mentre la figura di lui è nell'ombra. Il caminetto, disegnato da Adam, è nella parete dirimpetto a lui. Esso è sormontato dallo sbiadito ritratto di un giudice. Nella parete alla sua destra, vicino all'angolo che gli sta pili lontano, è la porta sulla quale un timpano a nicchia racchiude il busto di un altro giudice. Il rimanente di questa parete è occu­pato da scaffali pieni di codici rilegati in vitello. La parete dietro Sagamore ha, come abbiamo detto, una grande fine­stra; vicino a essa l'archivio con scatole di latta nera sulle quali sono scritti i nomi dei clienti.

In tutto questo, il luogo ricorda il secolo XVIII; ma, sic­come siamo nel 1935 e Sagamore non ama la polvere e la muffa ed esige una stanza che dia l'idea dell'opulenza e nella quale le signore clienti possano fare la migliore figura, tutto è ben spolverato e ben lucidato; il tappeto verde è nuovo, ricco e spesso; le sei seggiole, quattro delle quali stanno in fila sotto gli scaffali, sono Chippendale, della più recente imitazione. Le altre due sono occupate: una da lui stesso e una ad aspettare il comodo dei clienti, a metà strada tra la scrivania e il caminetto.

Il telefono, sulla scrivania, vicino al gomito di Sagamore, suona.

Sagamore (ascoltando al microfono) Eh?... (Interessato) Sì, mandatela subito su.

Una signora dall'aria tragica, dalla corporatura atletica e dagli abiti costosi, irrompe nella stanza. Egli si alza, ossequioso.

La signora. Lei è Giulio Sagamore, l'indegno nipote del mio compianto avvocato Pontifex Sagamore?

Sagamore. Non ho l'abitudine di annunciarmi con questo attributo, ma Pontifex Sagamore era mio zio; e io sono tornato dall'Australia per succedergli in tutti gli affari che i suoi clienti si lasciano indurre ad affidarmi.

La signora. L'ho udito parlare di lei; e ho naturalmente concluso che siccome era stato spedito in Australia doveva valere assai poco. Ma non ha importanza, quello che le chiedo è molto facile. Desidero far testamento, lasciando tutto quanto posseggo a mio marito. Suppongo che le sarà difficile sbagliare questo lavoro.

Sagamore. Farò del mio meglio. La prego, si sieda.

La signora. No: sono irrequieta. Mi metterò a sedere quan­do mi sentirò stanca.

Sagamore. Come desidera. Prima di redigere l'atto mi sarà necessario sapere chi è suo marito.

La signora. Mio marito è un cretino e un mascalzone. È un fatto che lei dichiarerà nel testamento. E aggiungerà che è stata la sua condotta a trascinarmi verso il suicidio.

Sagamore. Ma lei non si è suicidata.

La signora. Mi suiciderò, dopo aver firmato il testamento.

Sagamore. Certo, s'intende: che stupido! E come si chiama?

La signora. Si chiama Alastair Fitzfassenden.

Sagamore. Chi? Il campione di tennis e il peso massimo dilettante?

La signora. Loconosce?

Sagamore. Ci troviamo tutte le mattine alla piscina del cir­colo.

La signora. È una conoscenza che non le fa molto credito.

Sagamore. Sarà meglio le dica che siamo molto amici, si­gnora Fitzfassen...

La signora. Non mi chiami con il suo odioso nome. Mi segni nel suo registro come Epifania Ognisanti di Parerga.

Sagamore (inchinandosi) Oh! onoratissimo, signora. La prego, si sieda.

Epifania. Si sieda lei, invece; e non faccia tante storie.

Sagamore. Se lo desidera, certo. (Si siede). Suo padre, si­gnora, era un uomo meraviglioso.

Epifania. Mio padre era il più grand'uomo del mondo. Ed è morto povero. Non perdonerò mai al mondo que­sto affronto.

Sagamore. Povero! Lei mi sbalordisce. È stato riferito che egli aveva lasciato a lei, sua unica figlia, ben trenta mi­lioni di sterline.

Epifania. Beh, che cosa erano per lui trenta milioni di ster­line? Ne aveva persi centocinquanta. Aveva promesso di lasciarmene duecento. Non m'ha lasciato che quei mise­rabili trenta. Ci è morto di crepacuore.

Sagamore. Eppure, un reddito di un milione e mezzo di ster...

Epifania. Buonuomo: lei dimentica le tasse di successione. Ho sì e no settecentomila sterline all'anno. Lo sa che cosa significa questo per una donna allevata con un red­dito di sette cifre? Che avvilimento!

Sagamore. Lei mi mozza il fiato, signora.

Epifania. Siccome sto per mozzare il fiato a me stessa, non ho tempo per occuparmi del fiato suo.

Sagamore. Ah, già, il suicidio! Me ne ero scordato.

Epifania. Davvero? Beh, vuoi avere la cortesia di dedicarvi un attimo della sua attenzione e redigere un testamento sotto al quale io possa apporre la mia firma lasciando tut­to ad Alastair?

Sagamore. Per umiliarlo?

Epifania. No. Per rovinarlo. Per distruggerlo. Per farne un mendicante a cavallo, cosi che possa galoppare all'in­ferno. Il danaro gli da alla testa. Ho visto che effetto gli fa.

Sagamore. L'ho visto anch'io. Ma non si sa mai. Potrebbe sposare una donna giudiziosa.

Epifania. Ha ragione. Metta come condizione all'eredità che entro un mese dal mio funerale sposi una certa don­netta chiamata Polly Calzerotte.

Sagamore (prendendo appunto) Un buffo nome.

Epifania. Il suo vero nome è Patrizia Smith. Ma quando scrive ad Alastair firma Polly Calzerotte, forse per ri­cordargli di comprargliene un'altra dozzina di paia nuove.

Sagamore (prende un altro foglietto di carta e scrive) Mi piacerebbe conoscere Polly.

Epifania. E perché, se è lecito?

Sagamore (parla scrivendo) Beh, se Alastair la preferisce a lei, deve valer la pena di conoscerla. Bisogna proprio che gli dica di presentarmela.

Epifania. Lei non ha molto tatto, Giulio Sagamore.

Sagamore. Che cosa gliene importerà, dopo che avrà preso questo (le porge il foglietto che ha scritto)

Epifania. Che cos'è?

Sagamore. È per il suicidio. Per comprare il cianuro do­vrà firmare il registro del farmacista. Dica che è per un vespaio. L'acido tartarico è innocuo: il farmacista crede­rà che le serve per fare delle limonate. Li metta in due bicchieri diversi, in quel tanto d'acqua che basta per scio­glierli. Quando unirà le due soluzioni, l'acido tartarico e il potassio si combineranno e formeranno il tartaro di potassio. Questo, essendo insolubile, precipiterà in fon­do al bicchiere; il fluido galleggiante sarà invece puro acido idrocianico. Un sorso di esso basterà per spedirla all'altro mondo in un baleno.

Epifania (tiene la ricetta tra le dita, con aria un po' scon­certata) Mi sembra che lei prenda la mia morte con molta freddezza.

Sagamore. Ci sono abituato.

Epifania. Vuol dirmi che i suoi clienti disperati sono così numerosi da dover sempre tenere questa ricetta a portata di mano?

Sagamore. Sì. È infallibile.

Epifania. Lei è sicuro che siano morti tutti in modo indo­lore e istantaneo?

Sagamore. No. Sono tutti vivi.

Epifania. Vivi! La ricetta è un innocuo inganno?

Sagamore. No. È un veleno mortale. Ma non lo prendono.

Epifania. Perché?

Sagamore. Non lo so. Ma non lo prendono mai.

Epifania. Loprenderò io. E spero che la impiccheranno per avermelo procurato.

Sagamore. Ioagisco soltanto in veste di legale. Lei dice che intende suicidarsi; e viene da me per un consiglio. Io fac­cio del mio meglio per servirla, perché lei possa morire senza sprecare un fiume di gas o buttarsi nella serpentina. I suoi esecutori testamentari dovranno ricompensarmi con sei scellini e mezzo.

Epifania. Per avermi indicato il modo di uccidermi?

Sagamore. Non oggi. Domani.

Epifania. Perché rimandare a domani?

Sagamore. Perché oggi o domani è lo stesso. E qualcosa di divertente potrebbe accadere stasera. O magari domani sera. Non c'è fretta.

Epifania. Lei è un mostro, un animale, un porco. Per lei la mia vita non conta: non mi chiede neanche che cosa m'ha indotto a compiere questo passo. Lei si arricchisce sulla morte dei suoi clienti.

Sagamore. È vero. Molti affari sono legati alla sua morte. Alastair verrà certamente da me per sistemare i suoi interessi.

Epifania. E lei spera che io mi ammazzi per far arricchire lei?

Sagamore. Beh, è stata lei, signora, a far sorgere in me questa speranza.

Epifania. Oh mio Dio, sentitelo! Non le è mai venuto in mente che quando la vita di una donna sta naufragando ci vuole una parola di comprensione e non una boccetta di veleno?

Sagamore. Ionon so proprio avere comprensione per il suicidio. A dir la verità, non mi è simpatico. Eppure, se ha da esser affrontato, è meglio affrontarlo in modo pron­to e scientifico.

Epifania. Non mi chiede nemmeno che cosa m'ha fatto Alastair?

Sagamore. Quello che le ha fatto non avrà importanza quando lei sarà morta. Perché se la prende?

Epifania. Lei, Giulio Sagamore, è un maiale senza atte­nuanti.

Sagamore. Non si preoccupi di me. La ricetta rimedia a tutto.

Epifania. Maledetta ricetta. To'! (Lastrappa e ne butta i pezzetti sul viso di lui).

Sagamore (raggiante) Èinfallibile. E adesso che s'è sgon­fiata, provi a sedersi e a raccontarmi come stanno le cose.

Epifania. Lei chiama sgonfiamento il grido di un cuore angosciato?

Sagamore. Beh, come potrei chiamarlo altrimenti?

Epifania. Lei non è un uomo: lei è un rinoceronte. Ed è anche uno stupido.

Sagamore. Non sono che un avvocato.

Epifania. Lei è un avvocato da strapazzo. Non è un gen­tiluomo. Lei mi insulta nel dolore. Lei sostiene mio ma­rito contro me. Lei non ha né decoro né intuito. Lei è un pesce con l'anima dello scarafaggio. Ha capito?

Sagamore. Sì: ho capito. E mi congratulo con me stesso pensando a tutte le cause per diffamazione in cui dovrò difenderla se ella mi farà l'onore di eleggermi suo le­gale.

Epifania. Lei si sbaglia. Io non incorro mai nella diffama­zione. Mio padre mi ha istruito molto bene su questo rea­to. Se mettessi in dubbio la sua solvibilità, la diffamerei. Se insinuassi che ella è infedele a sua moglie, la diffa­merei. Ma se le dico che è un rinoceronte - e lo è per davvero: un rinoceronte senza attenuanti - questo è sol­tanto un volgare insulto. Io ho cura di limitarmi ai vol­gari insulti; e nessuno mi ha mai querelata per diffama­zione. E questa la legge, si o no?

Sagamore. Proprio non lo so. Bisogna che consulti i miei codici.

Epifania. Non è necessario. Io le dico che la legge è così. Mio padre doveva insegnare la legge ai suoi avvocati tut­te le volte che faceva qualcosa di diverso da quello che gli altri fanno tutti i giorni. I legali non sanno niente della legge: sono bravi soltanto a farsi una clientela, co­me dicono loro. Mio padre era un grand'uomo: in ogni giorno della sua vita ha fatto qualcosa che nessuno s'era mai sognato di fare. Io, forse, non sono una gran donna; ma sono sua figlia, e come tale sono una donna fuori dal­l'ordinario. Lei imparerà la legge da me e farà esattamen­te quello che io le dirò di fare.

Sagamore. Questo, signora, semplificherà molto i nostri rapporti.

Epifania. E si ricordi bene una cosa: io non sono una don­na di spirito. Non sopporto che si rida di me.

Sagamore. Non mi sognerei mai di ridere d'una cliente che ha settecentocinquantamila sterline di rendita.

Epifania. Non ha spirito?

Sagamore. Cerco di tenerlo a freno; ma credo di averne un pochino. Lei, comunque, lo stuzzica.

Epifania. Allora lasci che le dica, a sangue freddo, facen­do la massima attenzione alle mie parole, che lei è un farabutto senza cuore. La mia disperazione, la mia scia­gura, il fatale errore che ha provocato il fallimento del­la mia vita, le sembrano semplicemente buffi. Se mio pa­dre non m'avesse ammonito di non assumere mai un le­gale che non avesse spirito, uscirei subito da questo uffi­cio e la priverei di una cliente i cui affari possono rap­presentare per lei un vero patrimonio.

Sagamore. Ma, cara signora, io non so niente della sua disperazione, della sua sciagura, del fatale errore che ha commesso e di quel che segue. Come posso ridere di cose che ignoro? Se rido - ma sto proprio ridendo? - le as­sicuro che non rido delle sue sventure ma di lei.

Epifania. Davvero? Sono così ridicola nella mia desola­zione?

Sagamore. Ma che cos'è la sua desolazione? La prego, si sieda.

Epifania. Mi sembra che lei abbia una sola idea nella te­sta, e cioè di far sedere i suoi clienti. Beh, per farle pia­cere. (Si siede, di schianto. Lo schienale della sedia si stacca di netto con un gran colpo. Essa balza in piedi). Oh, non mi posso neanche sedere su una seggiola senza sfasciarla. Ho la maledizione addosso.

Sagamore (crolla sulla tavola, dimenandosi per una risata incontrollabile)!!!!!

Epifania. Bravo: rida, rida, rida. Cretino! Buffone!

Sagamore (si alza, deciso, e va a prendere una delle sedie che sono contro alla parete) La più bella delle mie false sedie Chippendale è andata in malora. Mi costa quattro ghinee. (Porgendole la sedia) Adesso vuol avere la cor­tesia di sedersi con tutto il garbo possibile e smettere di caricarmi d'improperi? Poi, se lo desidera, mi dica che cosa è accaduto. (Raccoglie lo schienale rotto della sedia e lo posa sulla tavola).

Epifania (si siede con dignità) La rottura di quella sedia mi ha, in certo qual modo, calmata e sollevata. È un po' come se mi fossi rotta il collo, secondo il mio desiderio. Adesso mi ascolti bene (egli viene verso lei e la guarda con gravità). E non mi stia addosso in questo modo. Si sieda su quel che rimane del suo finto Chippendale.

Sagamore. Certo (si siede). E adesso, avanti. Epifania. Mio padre era il più grand'uomo del mondo. Io ero figlia unica. Aveva un solo timore: e cioè che io fa­cessi uno stupido matrimonio e perdessi i pochi soldi che gli era riuscito di mettere da parte per me. Sagamore. I trenta milioni di sterline. Appunto. Epifania. Non mi interrompa. Mi fece promettere che qua­lora un uomo avesse chiesto la mia mano, io avrei posto una condizione al mio consenso.

Sagamore (attento) Ah sì? Quale condizione?

Epifania. Dovevo dargli centocinquanta sterline, e dirgli che se entro sei mesi egli fosse riuscito a trasformare le centocinquanta sterline  in  cinquantamila,  io  sarei  stata sua. Altrimenti, non avrei mai più dovuto rivederlo. Ca­pii tutta la saggezza di quella condizione. Soltanto mio padre avrebbe potuto immaginare una prova altrettanto tangibile, infallibile e priva di sentimentalismi. Gli feci la sacra promessa di seguire fedelmente la sua volontà.

Sagamore. Ma non l'ha mantenuta. A quanto vedo.

Epifania. Che vuol dire? che non ho mantenuto la pro­messa?

Sagamore. Sì, ha sposato Alastair. E Alastair è un caro e bravo ragazzo, nel suo genere è uno dei migliori, ma non potrà farmi credere che in sei mesi egli sia riuscito a far sì che un capitale di centocinquanta sterline ne fruttasse cinquantamila.

Epifania. Ci è riuscito. Per quanto saggio fosse, mio padre dimenticava talvolta le cose sagge che diceva cinque mi­nuti dopo averle dette. Egli mi aveva avvertito che il no­vanta per cento dei nostri neo-miliardarii erano dei cri­minali i quali avevano giocato una probabilità contro cin­quecento  e  avevano vinto  unicamente perché avevano avuto fortuna. Ebbene, Alastair era uno di quei criminali.

Sagamore. No, no: non un criminale. Alastair non è così. In affari, forse, è uno stupido. Ma non un criminale.

Epifania. Come tutti gli avvocati, lei crede di conoscere mio marito meglio di me. Ebbene, io le dico che Alastair è tornato da me dopo i sei mesi della prova con in tasca cinquantamila sterline invece della condanna ai lavori for­zati che avrebbe largamente meritata. La fortuna di quell'uomo è straordinaria. Vince sempre. Vince al tennis. Vince sul ring. Ha vinto me, l'ereditiera più ricca d'Inghilterra.

Sagamore. Ma lei era parte consenziente. Altrimenti, per­ché avrebbe dovuto metterlo alla prova? Perché avrebbe dovuto dargli le centocinquanta sterline con cui tentare la sua fortuna?

Epifania. Per la boxe.

Sagamore. La boxe?

Epifania. La sua boxe mi affascinava. Mio padre sosteneva che le donne dovrebbero sapersi difendere. Mi fece stu­diare lo judo.

Sagamore. Lojudo? Vuol dire l'ebraico?

Epifania. L'ebraico! Che sciocchezze! Lo judo è quello che gl'ignoranti chiamano jujitsu. Potrei scaraventarla giù dalla finestra con la stessa facilità con cui lei mi ha of­ferto quella sedia tarlata.

Sagamore. Ah! la lotta giapponese. Uno sport un po' bru­sco per una signora, no?

Epifania. Come si permette di chiamare sport lo judo? È una religione.

Sagamore (crollando) Mi perdoni. Vada avanti col suo rac­conto. E, per favore, cerchi di metterci tutto il garbo pos­sibile. È la prima volta che mi capita una cliente come lei.

Epifania. La prima e l'ultima.

Sagamore. Non ne dubito affatto. E adesso mi dica: com'è entrato in scena Alastair?

Epifania. Gli vidi vincere un campionato dilettanti per pesi massimi. Ha un colpo al plesso solare che nessun altro pugilatore può sostenere.

Sagamore. E lei ha sposato quell'uomo per la veemenza del suo colpo al plesso solare?!

Epifania. E, poi, era bello. Stava bene spogliato, a differenza di molti uomini belli. Non sono insensibile al sex-appeal, oh no, tutt'altro.

Sagamore (frettoloso) Certo, certo: non occorre che entri in particolari.

Epifania. Ci entrerò, se vorrò. Come legale lei ha il do­vere di conoscere i particolari. Ho commesso un errore molto comune. Ho creduto che quell'irresistibile atleta fosse un amante pieno d'ardore. Non era niente di tutto questo. Tutto il suo ardore stava nei pugni. Non dimen­ticherò mai il giorno in cui... fu durante la nostra luna di miele... in cui la sua freddezza mi infuriò al punto che lo assalii coi pugni alzati. Al primo scambio mi mise fuo­ri combattimento con quel suo famoso colpo. Lei è stato mai scaraventato in terra da un colpo al plesso solare?

Sagamore. Grazie al cielo, no. Non sono pugilatore.

Epifania. Non addormenta come un colpo alla ganascia. Quando vide il mio viso contraffatto dal dolore e il mio corpo contratto sul pavimento, rimase inorridito. Disse che l'aveva fatto automaticamente... che rispondeva sem­pre in quel modo, per istinto. Perciò, l'ho quasi rispet­tato.

Sagamore. E allora perché vuole liberarsi di lui?

Epifania. Voglio liberarmi di me stessa. Voglio punire me stessa per aver rovinato la mia vita e sposato quell'im­becille. Io, Epifania Ognisanti di Parerga, mi sono cre­duta la più meravigliosa donna d'Inghilterra andata spo­sa all'uomo più meraviglioso. E non ero che un'oca an­data sposa a un coniglio. Che altro mi rimaneva oltre la morte? E adesso lei mi ha smontato con le sue scemenze; e io non so che cosa voglio. È uno stato mentale orrendo. Io sono una donna che deve sempre volere qualcosa e che deve sempre ottenerla.

Sagamore. Potere d'acquisto illimitato. Precisamente. Che bellezza! (Squilla il telefono. Si alza). Mi scusi. (Va alla scrivania e risponde). Sì?... (Rapido) Un momento. State in linea. (A Epifania) C'è suo marito, con una donna. Vogliono parlarmi.

Epifania (alzandosi) Quella donna! Li faccia salire su­bito.

Sagamore. Ma posso fidarmi dei suoi freni inibitorii?

Epifania. Si fidi dei pugni di Alastair. Voglio dare un'oc­chiata a Mezzacalzetta. Li faccia salire, coraggio.

Sagamore (al telefono) Fate salire il signor Fitzfassenden e la signora.

Epifania. Adesso vedremo per che razza di donna ha ab­bandonato ME!

Sagamore. Sto fremendo. M'aspetto qualcosa di meravi­glioso.

Epifania. Non faccia lo stupido. Si aspetti qualcosa di per­fettamente ordinario.

Entrano Alastair Fitzfassenden e Patrizia Smith. Egli è uno splendido atleta, il cui cervello sta per la mag­gior parte nei muscoli. Ella è una gradevole e tran­quilla donnina del tipo che sa mantenersi da sola. Vie­ne placidamente verso la scrivania lasciando che Ala­stair se la sbrogli con sua moglie.

Alastair. Eppy! Che cosa fai da queste parti? (A Sagamore) Perché non me l'ha detto?

Epifania. Presenta la femmina.

Patricia. Mi chiamo Patrizia Smith, signora Fitzfassenden.

Epifania. Non è così che lei firma le sue lettere, a quel che pare.

Alastair. Senti, Eppy: non cominciare con le scenate...

Epifania. Non parlavo con te. Parlavo alla donna.

Alastair (perdendo la pazienza) Non hai alcun diritto di chiamarla donna.

Patrizia. Via, via, Ally: mi hai promesso...

Epifania. Promesso? Che diritto aveva di promettere a lei? Come s'è permesso di promettere a lei? Come si permette di farsi promettere da lui?

Alastair. Non permetto che si insulti Polly.

Sagamore (bonario) A lei, signorina Smith, non importa, vero?

Patrizia (impassibile) No, non m'importa. Mia sorella fa sempre così.

Epifania. Sua sorella! Lei crede di poter paragonare sua sorella a me?

Patrizia. Soltanto quando parte con la lancia in resta. Non badi a me: non c'è niente di peggio che partire con la lancia in resta quando si è robusti come lei. Ally, pre­sentami al signore.

Alastair. Ah, dimenticavo. Giulio Sagamore, il mio le­gale. Un vecchio amico. La signorina Smith.

Epifania. Alias Polly Calzerotte.

Patrizia. Quelli sono i miei vezzeggiativi, signor Sagamo­re. Smith è il patronimico, come dice il mio vecchio e saggio genitore.

Epifania. Inalbera un saggio genitore! Èla classica goccia.

Sagamore. Non vuol sedersi, signorina Smith? (Va a pren­dere una delle sedie appoggiate alla parete).

Patrizia (contemplando la sedia sfasciata) Oé! Cos'è capi­tato a questa povera sedia?

Epifania. Le sono capitata io. Le sia d'ammonimento.

Sagamore mette la sedia per Patrizia vicino alla scri­vania. Alastair spinge via con un piede la sedia rotta; ne prende una vicino alla parete, e sta per sedercisi so­pra, accanto a Patrizia, quando Epifania se ne appro­pria e gli fa cenno di sedersi sulla sedia di lei: ella sta dunque tra i due, con Patrizia a sinistra e Alastair a destra. Sagamore torna al suo posto ufficiale, di là dal­la scrivania.

Patrizia. Dunque, signor Sagamore, si tratta di questo. Ala­stair...

Epifania. Non è necessario che spieghi nulla. Gli ho già spiegato tutto io. Vorrei pregarla di avere la decenza di chiamare mio marito signor Fitzfassenden, quando parla di lui in presenza sua e mia. Il suo nome di battesimo non la riguarda.

Alastair (arrabbiato) Certo, Eppy, se non permetti a nes­suno di parlare...

Epifania. Ionon impedisco né a te né a nessun altro di parlare. Se hai qualcosa da dire per conto tuo, parla.

Patrizia. Mi scusi. Ma è un nome tanto lungo. Nel nostro piccolo cerchio d'amici lo chiamiamo tutti Ally.

Epifania (a denti strettissimi) Ha sentito, signor Sagamo­re! Questa gentaglia di terz'ordine chiama mio marito « Ally »! Vorrei sapere se hanno il diritto di rivolgergli la parola! E se io debbo sopportare tutto questo!

Patrizia (conciliante) Sì: sappiamo che lei deve chiudere un occhio su molte cose, carina...

Epifania (pestando i piedi) Carina!!!

Patrizia (continuando) ... ma il mondo è fatto così.

Epifania. Il mondo è fatto così per le persone fatte così. Il suo mondo non è il mio mondo. Ogni donna ha il pro­prio mondo nella propria anima. Mi ascolti bene, signor Sagamore. Io ho sposato quest'uomo. L'ho introdotto nel mio mondo, nel mondo che la mia fantasia aveva popo­lato di eroi e di santi. Prima di lui, nessun uomo reale aveva avuto il permesso di entrarvi. Io l'ho considerato eroe, santo, amante, tutto in uno. Lei stesso vede ciò che egli effettivamente era.

Alastair (balza in piedi coi pugni contratti e il volto in fiamme) Accidenti a me se tollero questa storia!

Epifania (alzandosi e affrontandolo in posa di martire) Sì: colpiscimi. Mostrale il tuo pugno micidiale. Falle vedere come tratti le donne.

Alastair (esterrefatto) Maledetta!  (Si rimette a sedere).

Patrizia. Non perdere le staffe, Ally: se no finisci per metterti dalla parte del torto di fronte al signor Sagamo­re. Credo sia meglio che tu vada a casa e lasci che con lei me la sbrogli io.

Epifania. Vuol avere la cortesia di non parlare di me come « lei »? Io sono la signora Fitzfassenden. Non sono un pronome.  (Si rimette a sedere, altezzosa).

Patrizia. Mi scusi; ma il suo nome è un vero scioglilingua. Signor Sagamore: non crede che Ally farebbe meglio ad andar via? Non è giusto che si stia qui a litigare sul suo conto proprio di fronte a lui. E, per di più, è sfinito: sta­notte non ha quasi mai dormito.

Epifania. E lei, se è lecito, come fa a saperlo?

Patrizia. Non si preoccupi di come lo so. Lo so.

Alastair. È stato innocentissimo: ma dove potevo andare quando mi hai cacciato di casa con le tue furie?

Epifania (inaspettatamente divertita) Sei andato da lei?

Alastair. Sono andato dalla signorina Smith: non è un pronome, sai? Sono andato dove potevo trovare pace e gentilezza, dalla mia buona, dolce e cara Polly. E con questo?

Epifania. Ionon sono una persona di spirito; ma ho l'impressione che tutto questo sia irresistibilmente buffo. Hai effettivamene lasciato ME per passare la notte fra le brac­cia della signorina Calzerotte!

Alastair. No, ti ripeto. È stato innocentissimo.

Epifania (a Patrizia) È stato o no tra le sue braccia?

Patrizia. Beh, sì, certo, ci è rimasto un pochino. Ma non come intende lei.

Epifania. Allora è un merluzzo senza sesso anche più di quanto credevo che fosse. Ma, per la verità, un uomo capace di precipitarsi fuori di casa quando io ero sul pun­to di perdonarlo e di concedergli una notte di legittima felicità sarebbe capace di qualsiasi idiozia.

Alastair. Perdonarmi! Perdonarmi che cosa? Che cosa ave­vo fatto quando mi sei saltata agli occhi?

Epifania. Ionon ti sono saltata agli occhi. Non ho mai perso la mia dignità, neanche sotto il peso dei più intol­lerabili torti.

Alastair. Non hai sofferto alcun torto. Mi hai cacciato di casa...

Epifania. Non è vero. Non ho mai inteso che tu andassi via. È stato vergognosamente egoista da parte tua. Tu ave­vi le Calzerotte che ti aspettavano; ma io non avevo nes­suno. Adriano era fuori città.

Sagamore. Adriano! Un'altra complicazione. Chi è Adriano?

Patrizia. Adriano, signor Sagamore, è il marito domenicale

della signora Fitzfassenden.

Epifania. Come? che cos'è?

Patrizia. Il suo marito domenicale. Lei ha capito. Lei sa che cos'è il signor Adriano Blenderbland per lei, almeno fin adesso. Quello che Ally è per me.

Sagamore. Non ho ben capito. Se permette la domanda, signora Fitzfassenden, che cos'è il signor Blenderbland per lei?

Epifania. Beh, è un signore col quale discorro di argomenti che sono al di là della portata mentale di mio marito, portata mentale estremamente limitata.

Alastair. Un individuo che si dà le arie di intellettuale perché suo padre faceva l'editore! Fa la corte a Eppy e finge di essere innamorato di lei perché ella ha un otti­mo cuoco; ma le assicuro che a lui preme soltanto di mangiar bene. Si presenta sempre all'ora dei pasti. Una buona pancia, ecco che cos'è. E io dovrei tollerarlo. Ma se mi permetto di guardare Polly! Aiuto!

Epifania. I casi sono molto diversi. Adriano adora la terra sulla quale metto i piedi: questo è verissimo. Ma se credi che Calzerotte adori la terra sulla quale metti i piedi tu, ti lusinghi di grosso. Ti sopporta e ti coccola perché tu le compri le calze, e indubbiamente tutto il resto di cui è a corto.

Patrizia. Beh, io non contraddico mai nessuno, perché non voglio piantar grane. E ho paura di costargli un bel po'; perché gli piace che io abbia tante cose carine che non mi posso permettere.

Alastair (affettuoso) No, Polly: non è vero. Vali tant'oro quanto pesi. Io insisto sempre per farti accettare cose che non vuoi prendere. Ce l'avessi io la cura che hai tu dei soldi miei!

Epifania. È commovente! Suppongo che lei sarà la moglie domenicale.

Patrizia. No: secondo me, la sua moglie domenicale è lei, signora Fitzfassenden. Sono io che debbo badare ai suoi vestiti e mandarlo a tagliarsi i capelli.

Epifania. Credevo che il pargoletto fosse tanto intelligente da provvedere da solo almeno a queste faccende.

Patrizia. Lei non capisce gli uomini: si interessano ad al­tre cose e trascurano loro stéssi se non hanno una donna che gli stia dietro. Vede, signor Sagamore, è così. Nel mondo ci sono due qualità di persone: le persone con le quali può vivere chiunque e le persone con le quali non può vivere nessuno. Le persone con le quali non può vivere nessuno possono essere di bellissimo aspetto e vitali e generose e ardenti e romantiche e via di seguito; e quan­do sono soddisfatte di se stesse e disposte a essere gra­devoli possono anche dare una mezz'ora di felicità a un uomo o a una donna; ma chi prova a viverci insieme si fa mangiare la vita a forza di correr loro dietro o di bi­sticciare o di servirli in un modo o nell'altro; e deve rinunciare ad avere un'anima propria. Come mariti e mo­gli domenicali, tanto per avere una buona dose d'amore furibondo, o fare una bella litigata a pieno fuoco, cercan­do per lo più di schiacciarsi a vicenda, una volta al mese  o  poco più vanno benissimo. Ma come compagni di tutti i giorni sono assolutamente intollerabili.

Epifania. Quindi io sono la moglie della domenica. (A Patrizia, con scherno) E lei, se è lecito, che cosa sarebbe?

Patrizia. Beh, secondo il mio ragionamento, io sarei l'an­gelo della casa.

Alastair (piagnucoloso) Lo sei, cara: lo sei.

Epifania (a Patrizia) Lei è il suo puliscipiedi: ecco che cos'è.

Patrizia. I puliscipiedi sono molto utili quando si vuol tenere la casa in ordine, cara.

Squilla il telefono. Sagamore risponde.

Sagamore. Sì?... Come? Blenderbland?

Epifania. Adriano! Come sapeva che ero qui?

Sagamore. Pregate il signore di aspettare. (Riaggancia il ricevitore). Forse può dirmi qualcosa di lui, signora Fitzfassenden. È lui il presidente della Biblioteca Economica Blenderbland?

Epifania. No. Quello è suo padre, il fondatore dell'azien­da. Adriano è un dirigente; ma non ha nessuna abilità commerciale. Fa parte di quindici consigli d'amministra­zione, grazie alla reputazione del padre, e non ha mai, per quanto sappia io, contribuito con una sola idea all'an­damento di quelle imprese.

Alastair. Sii giusta, Eppy. Non c'è nessuno a Londra che sappia ordinare un pranzo meglio di lui. È questo che gli conserva una posizione di primissimo piano nella società.

Sagamore. Grazie: adesso credo di poterlo giudicare ab­bastanza bene. Posso farlo salire?

Epifania. Certo. Voglio sapere che cos'è venuto a fare.

Alastair. A me non dà fastidio. È inteso, naturalmente, che io non sono tenuto a conoscere i rapporti che ha con mia moglie, comunque essi sieno.

Epifania. Sono perfettamente innocenti, per adesso. Non sono proprio convinta di amare Adriano. Si rende sim­patico: ecco tutto.

Sagamore (nel telefono) Fate salire il signor Blenderbland. (Riaggancia il ricevitore).

Alastair (a Patrizia) Adesso vedrai il guastafeste che mi ha soppiantato presso Eppy.

Patrizia. Non posso immaginare che esista un uomo ca­pace di soppiantarti presso qualsiasi donna, mio caro.

Epifania. Vorrete avere la cortesia di trattenere le vostre amorevolezze quando ci sarà lui?

Entra Adriano Blenderhland, uomo imponente, nel pie­no della vita, con una barbetta della moda letteraria vittoriana, piuttosto aitante e ben vestito. Sagamore si alza. Adriano trasale vedendo la compagnia, ma ripren­de subito la propria sicurezza e viene avanti sorridendo.

Adriano. Salve! Da dove siamo saltati fuori? Buongiorno, signora Fitzfassenden. Come va, Alastair? Il signor Sa­gamore, se non sbaglio. Non sapevo che fosse impegnato.

Sagamore. Il suo arrivo è quanto mai opportuno, signore. Vuol avere la cortesia di sedersi? (Prende una sedia dal­la parete e la posa vicino alla tavola, alla propria destra e alla sinistra di Patrizia).

Adriano (sedendosi) Grazie. Spero di non disturbare que­sta signora.

Patrizia. Tutt'altro. Non badi a me.

Sagamore (presentando) La signorina Smith, amica intima del Signor Fitzfassenden.

Patrizia. Piacere di conoscerla, davvero.

Adriano si inchina; poi si rivolge a Sagamore.

Adriano. Il fatto è che la signora Fitzfassenden mi ha fat­to il suo nome, parlando della scelta di un nuovo legale. E quindi ho pensato che non avrei potuto mettermi in mani migliori.

Sagamore (inchinandosi) La ringrazio molto. Ma... mi scu­si... lei non aveva già un legale di fiducia?

Adriano. Caro signor Sagamore: non si fermi mai alla prima osteria. Quando mi sento male chiamo a consulto almeno sei medici. La varietà dei loro consigli e delle loro ricette mi convince che è meglio mi curi. Quando sorge una divergenza legale, io chiedo il parere di sei legali, con un risultato pressappoco identico...

Epifania. Adriano: io non sono una donna di spirito; tu sai quanto mi annoio udendoti dire queste sciocchezze che dovrebbero essere buffe. Sei forse venuto a chiedere al signor Sagamore un parere nei miei riguardi?

Adriano. Sì. Ma, naturalmente, credevo di trovarlo solo.

Sagamore. L'argomento sul quale ella desidera un mio pa­rere ha rapporto col consesso familiare del signor Fitzfassenden?

Adriano. Sì.

Sagamore. È di natura tale che, prima o poi, abbia da essere discusso con tutti i membri adulti di questo consesso?

Adriano. Beh, certo: suppongo di sì. Ma non è meglio che prima se ne parli un poco a quattr'occhi?

Epifania. Niente di tutto questo. Io non permetto che i fatti miei siano discussi da chicchessia, in pubblico o in privato. Essi riguardano soltanto me.

Adriano. Non potrei discutere i fatti miei?

Epifania. Non col mio legale. Non lo permetto.

Alastair. È di nuovo partita con la lancia in resta. Tanto vale che andiamo a casa.

Epifania (irrequieta, alzandosi) Oh, la lancia in resta! la lancia in resta! Che cos'è la vita se non è vissuta con la lancia in resta? Alastair: sei un verme. (Gli afferra la testa e gli arruffa i capelli passandogli vicino).

Alastair. Non fare così. (Cerca di ravviarsi i capelli).

Epifania (a Patrizia) Glieli ravvii lei, angelo della casa.

Patrizia (passa sulla sedia di Epifania ed eseguisce) Non dovrebbero ridurlo in questo stato.

Sagamore. Signor Fitzfassenden: perché ha sposato la si­gnora Fitzfassenden?

Epifania. Perché!!! C'è bisogno di una spiegazione? Le ho detto perché l'ho sposato io.

Alastair. Beh, per quanto lei possa non crederlo, è capa­ce di essere spaventosamente affascinante, quando si met­te in testa di esserlo.

Epifania. Perché potrebbe non crederlo? Che vuoi dire?

Alastair. Lui sa bene quello che intendo.

Epifania. Uno stupido scherzo, suppongo.

Adriano. Non dire sciocchezze, Fitzfassenden. Tua moglie è la donna più adorabile che ci sia sulla terra.

Epifania. Non qui, Adriano. Se hai voglia di parlare così, conducimi in un posto dove possiamo essere soli.

Alastair. Oh sì, per carità, prima che ci faccia impazzire tutti.

Sagamore. Piano! piano! non so nemmeno a che punto sto. Loro sono tutti venuti per chiedermi un parere; ma nes­suno di loro mi ha dato istruzioni. Non è meglio che di-vorzino?

Epifania. E come può vivere il pargoletto? Non ha nien­te: avrebbe dovuto diventare un pugilatore o un gioca­tore di tennis professionista ma suo zio lo ha spinto in una società d'assicurazione, in cui si è reso perfettamente inutile.

Alastair. Scusa, Eppy: Sagamore non vuol sapere queste cose.

Epifania. Certo che vuole saperle. E deve saperle. Stai zit­to. Quando Alastair chiese la mia mano... era un idiota troppo grande per capire la propria audacia... io man­tenni la promessa fatta a mio padre. Gli porsi un assegno di centocinquanta sterline. « Se entro sei mesi queste so­no diventate cinquantamila » gli dissi « io sono tua. »

Adriano. Non me l'hai mai detto.

Epifania. Perché dovevo dirtelo? È una storia disgustosa.

Alastair. Che cosa c'è di tanto disgustoso? Ci sono riu­scito o non ci sono riuscito? Ho attraversato l'inferno per trovare quel danaro e vincerti, o non l'ho attraver­sato?

Adriano (sbalordito) Vuoi forse dire, Alastair, che sei riu­scito a mettere insieme cinquantamila sterline in sei mesi?

Alastair. Perché no?

Epifania. Hai di che mostrarti incredulo, Adriano. Ma è vero. Si: questo imbecille ha guadagnato le cinquanta­mila sterline e ha vinto la mano di Epifania Ognisanti di Parerga. Non mi crederai quando ti dirò che il pos­sesso di tutto quel danaro, e la coscienza di averlo gua­dagnato lui stesso, gli dette una specie di grandezza. Io sono impulsiva: fui di parola e lo sposai sull'istante. Poi, quando era troppo tardi, scoprii come l'aveva guada­gnato.

Alastair. Beh, come l'avevo guadagnato? Col mio cer­vello.

Epifania. Cervello! Con la tua follia, la tua ignoranza, i tuoi istinti criminali e la fortuna che assiste i deficienti. Hai vinto la mia mano, che tutta Europa implorava da me in ginocchio. Ti saresti meritato cinque anni di ba­gno penale.

Alastair. Cinque anni! Quindici, piuttosto. Ecco che co­s'ho rischiato per te. E che cos ho avuto in cambio? La vita con te era peggio di qualsiasi lavoro forzato.

Epifania. Sarebbe stata un paradiso se la natura ti avesse reso adatto a una compagnia come la mia. Ma che co­s'era stato per me? Nessun uomo era stato degno di me. Ero stata come una principessa delle favole pronta a of­frire a tutti gli uomini viventi la mia mano e il mio pa­trimonio se fossero riusciti a trasformare il mio assegno dì centocinquanta sterline in cinquantamila sterline en­tro sei mesi. Uomini intelligenti, uomini in vista, ram­polli di famiglie patrizie rifiutarono la prova o perdet­tero. Perché? Perché erano troppo onesti e troppo orgo­gliosi. Questa prova riuscì e io mi trovai legata per tutta la vita a un insetto.

Alastair. Puoi dire quello che vuoi: ma tu eri innamo­rata di me proprio quanto io lo ero di te.

Epifania. Beh, eri giovane: eri ben fatto, avevi un avve­nire come giocatore di tennis, eri uno splendido pugile e io ero eccitata dal contatto fisico con te.

Sagamore. Non è necessario essere tanto espliciti, signora Fitzfassenden.

Epifania. Giulio Sagamore: può darsi lei sia fatto di se­gatura; ma io son fatta di carne e sangue. Alastair è fi­sicamente attraente: è la sola cosa che giustifica il mio matrimonio con lui. Non avrà la faccia tosta di preten­dere che ha fascino mentale?

Adriano. Ma come ha fatto quelle cinquantamila sterline? In Borsa?

Epifania. Che sciocchezze! Il pargoletto non sa che diffe­renza corra tra un mazzetto d'azioni privilegiate e un mazzetto d'azioni differite. Non saprebbe neanche da che parte cominciare.

Adriano. Ma come ha cominciato? Credo che il mio conto in banca ammonti a circa centocinquanta sterline. Mi pia­cerebbe molto sapere come portarlo a cinquantamila. Tu, Epifania, sei tanto ricca che chiunque abbia un certo de­coro ha l'impressione, avvicinandoti, di essere un avventuriero indigente. Non sai che cosa provi, tra le braccia di una donna per la quale un miliardo rappresenta dana­ro spicciolo, un uomo che considera con rispetto la som­ma di cento sterline.

Epifania. E tu non sai che cosa significhi essere tra le brac­cia di un uomo sapendo di poterlo pagare venti volte più di quello che vale senza mai rimpiangere la spesa.

Adriano. Se ti do le mie centocinquanta sterline, vuoi in­vestirle per me?

Epifania. Non vale la pena di investirle. Non si può gua­dagnare in Borsa se il reddito settimanale non arriva per lo meno a settantamila sterline. Non ti immischiare di danaro, Adriano: non te ne intendi. Ti darò io tutto quel­lo che ti serve.

Adriano. No, grazie: perderei il rispetto di me stesso. Pre­ferisco godermi il lusso del povero che paga i tuoi tassì e i tuoi fiori e i tuoi biglietti di teatro e le tue colazioni al Ritz e che ti presta tutte le piccole somme che hai oc­casione di spendere quando siamo insieme.

Tutti gli altri ascoltano sbalorditi la rivelazione di que­ste abitudini di Epifania.

Epifania. È verissimo: io non ho mai soldi spicci: a forza di cinque sterline spicce devo essere arrivata a dovertene dei milioni. Dirò ai miei banchieri che devi avere mille sterline d'acconto.

Adriano. Ma non le voglio. Mi piace prestarti quei bigliet­ti da cinque. Però, siccome, alla fine, rappresentano per le mie risorse relativamente magre una somma piuttosto ragguardevole, vorrei onestamente prendere da Alastair qualche lezione nell'arte di trasformare le centinaia in decine di migliaia.

Epifania. Il suo esempio ti sarebbe inutile, Adriano, per­ché Alastair è una delle meraviglie della natura; e tu hai di meraviglioso soltanto l'appetito. Stai a sentire. Per ognuno dei suoi compleanni, sua zia gli regalava un di­sco fonografico del celebre tenore Enrico Caruso. È ac­caduto, però, che la natura, per uno dei suoi incommen­surabili capricci, ha dotato Alastair di una voce cantante sbalorditivamente forte e di un registro quasi sopranna­turale. Riesce a emettere degli acuti che nessun mortale aveva mai raggiunto. Ha scoperto che riusciva a imitare i dischi fonografici con la maggiore facilità; e si è con­vinto che avrebbe potuto far fortuna come tenore d'ope­ra. Il primo uso che ha fatto dei miei soldi è stato quello di dare cinquanta sterline all'impresario di una certa pic­cola compagnia d'opera d'infimo ordine che stava allora esalando l'ultimo respiro nei sobborghi, purché gli con­sentisse di esibirsi per una sera in uno dei ruoli più po­polari di Caruso. Mi ha addirittura condotta ad assistere allo spettacolo.

Alastair. Non è stata colpa mia. Io posso offuscare per sempre la gloria di Caruso. È stata una congiura. Il te­nore titolare della compagnia, un porco che arrivava con fatica a emettere un si bemolle senza strozzarsi, ha pa­gato un branco di manigoldi perché andassero in log­gione a fischiarmi.

Epifania. Ma, caro Alastair, la verità è che la natura, quan­do ti ha fatto dono di una voce stupefacente ha disgra­ziatamente omesso di provvederti d'un orecchio musicale. Tu puoi muggire tanto forte da soffocare diecimila tori; ma sei sempre per lo meno d'un quarto di tono crescente o calante, a seconda dei casi. Io ho riso fino a rotolarmi sul pavimento del palco in una crisi di strilli isterici. Il pubblico fischiava e zittiva: ma non riusciva a farsi sen­tire sopra i tuoi ruggiti. Alla fine il coro ti ha trascinato via dalla scena; e il tenore titolare ha concluso lo spetta­colo per poi scoprire che l'impresario era scappato con le mie cinquanta sterline lasciando tutta la compagnia sul lastrico. La prima donna era rimasta sorda all'orecchio sinistro nel quale tu avevi cantato con tutta la tua forza. A me è toccato dare la paga a tutti e mandarli a casa.

Alastair. Ti dico che è stato un complotto. Perché vuoi che il mio canto non piaccia al pubblico? Io posso can­tare più forte di qualsiasi tenore lirico esistente. E posso cantare anche più acuto.

Epifania. Alastair: non puoi sventare un complotto quan­do il mondo intero ne è parte.

Adriano. Eppure, questo non spiega come ha fatto Ala­stair a mettere insieme le cinquantamila sterline.

Epifania. Preferisco che sia lui a raccontare quel fatto vergognoso. Io credo che se ne vanti. (Si siede, sdegnosa, sulla sedia rimasta libera).

Alastair. Beh, ha funzionato benissimo. Ma l'ho rischiata grossa, ve lo dico io. Ecco come ho fatto. Dopo il ten­tativo dell'opera m'erano rimaste cento sterline. Ho in­contrato un americano. Gli ho detto che ero innamorato pazzo di una donna la quale non voleva sposarmi se non riuscivo a guadagnare cinquantamila sterline in sei mesi, e che tutto il mio patrimonio consisteva in cento sterline. È saltato su a dire « Ma lo sai, brav’uomo, che se hai cento sterline puoi aprire un conto in banca e avere un libretto d'assegni? ». Ha detto « Vogliamo essere soci, al cinquan­ta per cento? ». Allora ho detto sì: che altro potevo di­re? E proprio quel giorno abbiamo cominciato. Abbiamo depositato il danaro e preso un libretto con cento assegni. Abbiamo noleggiato un teatro. Abbiamo scritturato una compagnia di prim'ordine. Abbiamo trovato una comme­dia. Era uno spettacolo bellissimo: scene stupende, ra­gazze stupende, la protagonista era una creatura dallo sguardo collerico, con una strana voce esotica e un ac­cento da Hollywood, proprio del tipo che piace al pub­blico. Non abbiamo mai discusso il costo di quello che volevamo: ci siamo buttati nell'affare fino al collo, ri­schiando migliaia su migliaia di sterline.

Adriano. Ma con che cosa avete pagato tutta questa roba?

Alastair. Coi nostri assegni, naturalmente. Non ti ho det­to che avevamo un libretto d'assegni?

Adriano. Ma quando le cento sterline sono finite, gli as­segni sono andati in protesto.

Alastair. Neanche uno. È stato un giro continuo. Ma ho rischiato di morire di cardiopalma.

Adriano. Non capisco. Che cos'era questo giro?

Sagamore. Un'operazione semplicissima. Se ha da fare un pagamento, si serve d'un assegno emesso quando la ban­ca è chiusa: se è sabato o la vigilia di un qualsiasi gior­no festivo, tanto meglio. Facciamo conto che l'assegno sia di cento sterline e che lei, in banca, non abbia neanche un centesimo. In questo caso deve indurre un amico o un direttore d'albergo a versarle un altro assegno di cen­to sterline. Questo paga il primo assegno; ma la obbliga, sotto pena dì dieci mesi di lavori forzati, a indurre un altro amico o direttore d'albergo a versarle un altro as­segno di duecento sterline. E così lei va avanti spenden­do e girando, da centinaia a migliaia di sterline, e rischian­do da diciotto mesi a cinque, dieci e perfino quattordici anni di prigione.

Alastair. Se credete che sia stata un'impresa facile, pro­vateci anche voi: ecco tutto. Qualche volta me la sogno: è il più brutto dei miei incubi. Il mio socio e io non abbiamo visto né il teatro né la commedia fino alla prima sera! non facevamo che firmare assegni e procurare il giro del danaro. Certo, dopo un poco è stato più facile perché, siccome avevamo sempre pagato, si otteneva più facil­mente credito; e le spese più grosse sono venute soltanto quando la commedia era montata e cominciava a rendere. Io avrei potuto riuscirci con la metà della spesa, ma l'a­mericano sopportava quell'agitazione soltanto pagando ogni cosa il doppio del necessario e distribuendo percen­tuali a tutti in compenso di semplici chiacchiere. Tutto questo, però, non ebbe più importanza quando il danaro cominciò a rientrare. Oh! come rientrava! Tutta la cit­tà andava in visibilio per la donna dallo sguardo colle­rico. Il danaro pioveva a secchi. Mi andò alla testa come l'alcool. Andò alla testa dell'americano. Andò alla testa degli amici americani dell'americano. Comprarono tutti i diritti: diritti cinematografici, diritti di traduzione, dirit­ti di rappresentazione in tournée, una quantità di diritti che non avevo mai saputo esistessero, e cominciarono a venderseli scambievolmente fino a quando non ci fu più nessuno a Londra e a Nuova York e a Hollywood che non avesse da pretendere una mediazione. Allora l'ame­ricano ricomprò tutti i diritti per cinquecentomila dolla­ri, e li vendette a un sindacato americano per un milione. Per arrivare a questo fu necessaria la collaborazione di altri sei americani; e ognuno di essi pretese una media­zione; ma io volevo soltanto cinquantamila sterline; e so­no uscito dall'affare con questa somma per tornare cor­rendo da Eppy a chiedere la sua mano. Lei m'ha creduto un grand'uomo. Ero un grand'uomo: il danaro aveva fatto di me un grand'uomo: ti assicuro che ne ero inebriato: ero un altro uomo. Puoi anche non crederlo: ma la testa mi s'era gonfiata tanto che qualsiasi cappello era troppo piccolo per me.

Epifania. È verissimo. Il pargoletto non era abituato al da­naro; e ne era trasfigurato. Io, povera innocente, non so­spettavo che il danaro operasse miracoli siffatti; perché avevo posseduto miliardi fin dalla culla; e per me erano proprio come l'aria che respiravo.

Sagamore. Ma proprio adesso, quando io ho proposto il divorzio, lei ha chiesto come avrebbe fatto a vivere. Che cos'è accaduto delle cinquantamila sterline?

Epifania. Le ha perse in tre settimane. Ci ha comperato un circo equestre. Credeva che tutto quanto toccava si sa­rebbe trasformato in oro. Dopo un mese, il circo ho do­vuto liquidarlo io. Quando sono intervenuta, egli stava per mettere in libertà le belve feroci e scappare via. Do­po la transazione, ci ho rimesso quattrocentotrenta ster­line e sedici scellini e mezzo.

Alastair. È stata colpa mia? L'elefante ha preso l'influen­za. Il Ministero della Salute Pubblica m'ha fatto chiu­dere il circo e m'ha proibito di muovermi perché gli ani­mali  potevano diffondere la stomatite epizootica.

Epifania. Comunque, il risultato finale è stato che invece di avere un attivo di cinquantamila sterline per lui ho avuto un passivo di quattrocentotrenta sterline per me. Invece di portarmi la rendita d'un principe e d'un eroe m'è costato l'indennità di un verme. E adesso ha la fac­cia tosta di chiedere il divorzio.

Alastair. No, io non lo chiedo. È stato Sagamore a pro-porlo. Come posso permettermi di lasciarti divorziare da me? Come tuo marito, godo molta considerazione so­ciale; e i fornitori mi concedono un credito illimitato.

Epifania. Sulle calze, per esempio.

Patrizia. Oh! (piange) Le paga lei, Ally?

Alastair. Non ci pensare, cara: ho dimostrato che quan­do ci sono costretto so far soldi; e li farò di nuovo e coi miei guadagni ti comprerò tutte le calze di cui avrai bi­sogno. (Egli si alza e va dietro la sedia di lei per po­sarle le mani sulle guance). Via, tesoro: non piangere.

Epifania. Guardateli! Credono di essere già sposati.

Sagamore. Ma la questione non dipende da lei, signor Fitzfassenden. La signora Fitzfassenden può divorziare che lei lo permetta o no. È provato che in una recente circo­stanza ella ha lasciato sua moglie e s'è andato a rifugiare tra le braccia della signorina Smith. Il tribunale non ha bisogno d'altro per accordare il divorzio alla signora Fitzfassenden.

Patrizia (consolata e coraggiosa) Beh, pazienza. Io posso mantenere Alastair fino a quando avrà avuto il tempo di farsi un altro patrimonio. Voi tutti lo credete uno stu­pido; ma è un caro e buon ragazzo; e mi disgusta ve­dere come gli andate tutti contro e come lo tratta sua moglie, peggio che se fosse spazzatura sotto i suoi piedi. Che cosa sarebbe, lei, senza i suoi soldi, ecco quel che vorrei sapere.

Epifania. Nessuno è qualcuno senza soldi, Calzerotte. Me lo ha insegnato il mio caro vecchio genitore. « Tieni stret­to il tuo danaro » diceva « e tutto il resto ti verrà in più. » Diceva che stava nella Bibbia. Non ho mai control­lato la citazione; ma non l'ho mai dimenticata. Ho te­nuto stretto il mio danaro; e continuerò a tenerlo stretto. Ricca come sono, faccio quasi fatica a perdonare Alastair per avermi fatto perdere quelle quattrocentotrenta ster­line.

Alastair. Quattrocentotrenta e sedici e mezzo. Brutta pi­tocca. Ma te le renderò.

Patrizia. Certo, caro, che gliele renderai. Venderò la mia polizza d'assicurazione e te le darò io.

Epifania. Potrebbe mettermelo per iscritto, signorina Smith?

Alastair. Oh, dovresti vergognarti di te stessa, ingorda schifosa. È stata colpa tua. Perché hai lasciato dar via l'e­lefante per trenta sterline? Ne costava duecento.

Sagamore. Non divaghiamo dal tema principale.

Epifania. Il tema principale quale sarebbe, scusi?

Sagamore. Il tema principale è che lei può ottenere il di­vorzio appena lo desidera.

Epifania. Ionon lo desidero. Crede che voglia farmi tra­scinare da un tribunale all'altro e che voglia veder pub­blicata la mia fotografia su tutti i giornali con questa faccenda? Vedere il racconto della mia infatuazione pub­blicato in prima pagina di tutti i giornaletti di Londra! E, per di più, conviene essere sposate. È rispettabile. Tie­ne lontani gli altri uomini. Mi dà una libertà che non potrei godere se fossi nubile. Ho preso l'abitudine al marito. No: decisamente no, non divorzierò da Alastair, per lo meno non prima di aver trovato un sostituto da desiderare veramente.

Patrizia. Ella non potrebbe divorziare da lui se egli non glielo permettesse. Alastair è troppo gentiluomo per par­larne; ma ella sa benissimo che la sua condotta non è stata tanto monacale da desiderare che la rivelino in pieno tribunale.

Epifania. Alastair è il primo uomo che io abbia amato; e spero che non sarà l'ultimo. Ma le difficoltà legali non esistono per persone con danaro. A ogni modo, siccome Alastair non si può permettere di divorziare da me e io non ho alcuna intenzione di divorziare da lui, il pro­blema non sorge. Che ore sono?

Alastair. Credo proprio, Eppy, che dovresti comprarti un orologio da polso. Te l'ho detto e ridetto tante volte.

Epifania. Perché dovrei sobbarcarmi alla spesa di un oro­logio da polso quando ce l'hanno tutti, e io non ho che da chiedere l'ora? Non ho più orologio dal giorno in cui ho perso la chiave della vecchia sveglia a ripetizione di mio padre.

Patrizia. Sono le dodici e dieci.

Epifania. Oh Dio! Ho perso la lezione. Che seccatura!

Alastair. La lezione? Che cosa stai imparando, adesso, se è lecito?

Epifania. La lotta libera. La prossima volta che ti abban­donerai al tuo sport preferito, cioè a picchiare tua mo­glie, sta' attento che avrai una sorpresa. Perché sono ve­nuta da lei, signor Sagamore?

Sagamore. Per darmi istruzioni sul suo testamento.

Alastair. Fa un nuovo testamento tutte le volte che s'in­furia. Molto redditizio per lei, Sagamore.

Epifania. Stai zitto, Alastair. Dimentichi la dignità della tua posizione di marito. Signor Sagamore: ho cambiato idea a proposito del testamento. Ho intenzione di dimen­ticare il suo tentativo di avvelenarmi.

Sagamore. Grazie.

Epifania. Quanto le debbo per questa consultazione abor­tiva?

Sagamore. Tredici scellini, se non le dispiace.

Epifania. Non ho danaro con me. Adriano, puoi prestarmi tredici scellini?

Adriano (mette la mano in tasca) ...

Epifania. Fermo. Signor Sagamore: è meglio che lei sia il mio legale di famiglia e che mi mandi il conto alla fine dell'anno.

Alastair. Mandi anche una citazione per mano d'usciere; altrimenti quel danaro lo aspetta per un pezzo.

Epifania. Stai zitto, Alastair. Certo che aspetto sempre la citazione. Semplice precauzione per evitare di pagare due volte la stessa fattura.

Sagamore. Giusto, signora Fitzfassenden. Ottima regola.

Epifania. Lei è un uomo assennato, signor Sagamore. E adesso ho bisogno d'un po' d'aria aperta: quest'orgia ca­salinga ha viziato l'aria della stanza. Vieni, Adriano: an­diamo fuori in campagna, a far colazione da qualche parte. Conosco un posticino delizioso sul fiume. Arrive­derci, signor Sagamore. Arrivederci, Calzerotte: voglia bene ad Alastair per me. Il suo fisico prestante le farà provare una gradevole sensazione giù per la spina dor­sale. (Esce).

Sagamore (mentre Adriano la segue verso l'uscita) A pro­posito, signor Blenderbland, che cosa desiderava da me?

Adriano. Me ne sono assolutamente dimenticato. Questa mattina ho faticato anche troppo. (Esce senza ulteriori saluti).

Sagamore (ad Alastair) Sua moglie è una donna straordinaria.

Alastair (emette un grugnito soffocato) !

Patrizia. Non trova parole per definirla, povero caro.

Sagamore. E adesso, Fitzfassenden, permette le chieda che cosa desiderava da me?

Alastair. Non lo so. Dopo dieci minuti di Eppy non so mai se cammino con la testa o coi piedi.

Patrizia. Voleva il suo parere su un'eventuale separazio­ne. Cerca di ritrovare la ragione, caro.

Alastair. Separazione! Tanto vale che tu provi a separare te stessa da un uragano. (Diventa sentenzioso). Ascolti bene, Sagamore. Io sono uno di quegli sciagurati indivi­dui... e lei deve conoscerne parecchi... oso credere che molti di essi debbono essere venuti a sedersi davanti a questa scrivania e a parlarle come io le parlo adesso...

Sagamore (dopo aver atteso invano la conclusione della frase) Sì? Diceva...

Patrizia. Non vaneggiare, Ally. Di' al signor Sagamore a quale genere di individui alludi.

Alastair. Agli individui che hanno fatto un boccone più grosso di quello che possono ingoiare. Ai tipi normali, che hanno sposato donne straordinarie. Alle donne co­muni che hanno sposato uomini straordinari. Tutti han­no pensato di aver fatto una presa meravigliosa. Dia retta a me, Sagamore: sposi una donna della sua cate­goria. Non mi fraintenda: non alludo al rango e al da­naro. Alludo al... alludo al...

Patrizia (soccorrendolo) Vuol dire che due persone le quali si sposano dovrebbero pensare le stesse cose e amare le stesse cose. Insomma, non dovrebbero mettersi i piedi sul collo.

Sagamore. Precisamente. Lei vuoi forse dire che Alastair ha commesso un errore, e che più tardi (troppo tardi, purtroppo) ha scoperto in lei... come dire? l'anima ge­mella.

Alastair. No: mi sembra stupido. Troppo letterario, forse.

Patrizia. Iodirei una mente gemella.

Sagamore. Appunto. Grazie. Una mente gemella con la quale sta perfettamente a suo agio.

Alastair (afferrando con fervore la mano di Sagamore) Grazie, Sagamore: lei è un vero amico. Lei ha capito tutto. Ci pensi sopra. Andiamo, Calzetta mia: non biso­gna sprecare il tempo d'un uomo occupato.

Se ne va, lasciando Patrizia e Sagamore soli. Ella si alza e va alla scrivania di lui.

Patrizia. Signor Sagamore: lei sarà solidale con noi, ve­ro? Lei salverà Ally da quella donna spaventosa. Lei lo salverà per me.

Sagamore. Hopaura, signorina Smith, che non riuscirò a controllarla. E il peggio è che temo lei controllerà me. Non è soltanto perché non mi posso permettere di of­fendere una cliente tanto ricca. Ma è che la sua volontà paralizza la mia. È una specie di genio che non tutti hanno.

Patrizia. Non abbia paura di lei, signor Sagamore. Ha il genio del far danaro. È nella sua famiglia. Il danaro vie­ne a lei. Ma ho anch'io la mia piccola dose di genio; e lei non può paralizzarmi.

Sagamore. E, se permette la domanda, che qualità di ge­nio ha, lei, signorina Smith?

Patrizia. Quello di far felice il prossimo. Le persone in­felici vengono a me proprio come il danaro va a lei.

Sagamore (scrollando la testa) Non posso credere che la sua volontà sia più forte della volontà di lei, signorina Smith.

Patrizia. Non lo è, signor Sagamore. Io non ho alcuna vo­lontà. Ma ottengo quello che voglio, in un modo o nel­l'altro. Vedrà.

Alastair (da fuori, strillando) Calzetta! Andiamo!

Patrizia. Vengo, tesoro. (A Sagamore) Arrivederla, signor Sagamore. (Si stringono la mano in fretta. Ella corre ver­so la porta). Vedrà.  (Esce).

Sagamore (tra sé e sé) Voglio proprio star a vedere.

Riprende a sbrigare il lavoro mattutino.


ATTO  SECONDO

Un lugubre caffè attiguo a un'antica locanda sul fiume. Un'immensa e odiosa credenza del più cupo mogano occu­pa tutta la parete di fondo. Sopra ad essa sono appese, al­la parete, come fossero due dipinti, due insegne annerite dall'età: una con lo stemma del signore del maniero, l'altra con una scrofa ritta sulle zampe di dietro che suona uno zufoletto. Sotto alla scrofa è scritto a caratteri cubitali LA SCROFA E IL PIFFERO. Tra queste due opere d'arte è una campana di vetro che contiene un enorme pesce imbalsama­to, che ha certo non meno d'un secolo.

Ad angolo tetto con la credenza, e quasi dell'intera lun­ghezza della stanza, sono due lunghe tavole separate, appa­recchiate ognuna per una colazione di una dozzina di per­sone. Le sedie, troppo vicine, sono dì legno grezzo, dure e scomode. La posateria è da cucina, di qualità ordinaria, con delle misere oliere e saliere d'argento messe lì tanto per salvare le apparenze. Le tovaglie sono ordinarie e non fre­sche di bucato.

Le pareti sono coperte da una brutta carta vittoriana che potrebbe essere stata disegnata con ghirlande rosso scure su fondo giallo cupo, ma è adesso uno schifoso cumulo di ca­catine di mosche, dal colore indescrivibile. Sul pavimento, un vecchissimo feltro, dì qualità andante. La porta, che è spalancata e porta la scritta CAFFÈ è a destra di chiunque contempli la credenza dal lato opposto della stanza. Vicino alla porta un antiquato attaccapanni spiaccicato contro al muro; ad esso sono appesi il cappello e il leggero soprabito del signor Adriano Blenderbland.

Questi, in compagnia di Epifania, sta seduto a tavola, nel punto più distante dalla porta. Hanno appena finito di con­sumare la colazione. Il formaggio e i biscotti sono ancora sulla tavola. Ella appare interessata e felice. Egli è di pes­simo umore.

Epifania. Che divertente!

Adriano (guardandosi attorno con disprezzo) Si vede pro­prio che sono un uomo pieno di fascino.

Epifania (sgranando gli occhi) Davvero! Non lo nego af­fatto; ma che cos'ha a che fare con ciò che ho detto?

Adriano. Hai detto «Che divertente! ». Io mi guardo at­torno e osservo questa lurida vecchia locanda illuden­domi che sia un albergo sul fiume. Abbiamo appena fi­nito una colazione orrenda, composta di decotto di pomodoro chiamato minestra, di resti dei gitanti domenica­li, di cavoli, patate, torta di mele e stantio formaggio sin­tetico americano. Se puoi tollerare tutto questo ed escla­mare «Che divertente! » vuol dire che hai qua un'irresi­stibile attrazione; ed io non vedo, oltre me stesso, nulla che non sia assolutamente disgustoso.

Epifania. A te non piacciono questi cari vecchi luoghi? A me sì.

Adriano. A me no. Dovrebbero essere tutti sradicati, ab­battuti, rasi al suolo con un incendio. Per ammobiliare il tuo appartamento sulle rive del Tamigi ci sono voluti più soldi che per costruire questa stamberga dalla cantina al tetto. A casa tua, basta una semplice telefonata per avere un'ottima colazione, servita perfettamente. La tua mac­china fuori serie porta di volo a uno dei dodici migliori alberghi dei dintorni con vista panoramica. E tu scegli questa lurida vecchia locanda e dici «Che divertente!». A che serve essere miliardari per vivere così?

Epifania. Uffa! Quando ho potuto intraprendere libera­mente la mia vita, con mezzi illimitati, quanto tempo credi che abbia messo per stancarmi di andar per i ne­gozi e di godere i lussi che piacciono tanto a te? Meno di quindici giorni. Mio padre, quando aveva cento mi­lioni di sterline, viaggiava in terza classe e non spendeva mai più di djeci scellini al giorno per sé, salvo quando doveva ospitare persone che gli erano utili. Perché avreb­be dovuto far diversamente? Non poteva mangiare più di chiunque altro. Né bere più di chiunque altro. Né met­tersi addosso più abiti di chiunque altro. E io nemmeno.

Adriano. Allora perché ami il danaro e detesti spenderlo?

Epifania. Perché il danaro è potere. Il danaro è sicurezza. Il danaro è libertà. È la differenza tra la vita sulle pendici di un vulcano e la tranquilla esistenza nel giardino delle esperidi. E, poi, c'è il continuo piacere di farne di più, cosa facilissima per chi ha molti quattrini su cui ba­sare i propri inizi. Io posso trasformare un miliardo in due miliardi molto più facilmente di quanto una povera donna riuscirebbe a trasformare cinque sterline in dieci, anche se potesse trovare le cinque sterline con cui inizia­re. Il danaro, infatti, si moltiplica da solo.

Adriano. Per me il danaro è una volgarissima seccatura e una preoccupazione che distrugge l'anima umana. Mi è necessario, si sa; ma non mi piace. Non ci penso mai, quando posso farne a meno.

Epifania. Se non pensi al danaro, a che cosa pensi? Alle donne?

Adriano. Sì, certo; ma non esclusivamente.

Epifania. Al mangiare?

Adriano. Beh, io non penso sempre al mangiare; ma è un punto sul quale sono piuttosto esigente. Confesso che mi aspettavo una colazione migliore di (indica la tavola) quella.

Epifania. Aha! Dunque è questo che ti ha fatto perdere le staffe, vero?

Adriano (seccato) Io spero di non aver perso le staffe. Ma tu mi avevi promesso una gita incantevole. Mi avevi detto di aver scoperto il più meraviglioso luogo esistente lungo il Tamigi, dove avremmo potuto essere noi stessi e avere un delizioso pasto campagnolo in primitiva felicità. Do­v'è il fascino di questa lugubre topaia? Hai mai fatto una colazione più perfida? Non v'è neanche un salottino pri­vato: chiunque può entrare qua dentro, in qualsiasi mo­mento. Saremmo stati molto più comodi da Richmond o a Maidenhead. E, per di più, credo stia piovendo.

Epifania. Per colpa mia?

Adriano. No, ma corona l'idea che tu hai di una giornata felice sul fiume. Com'è che le persone le quali sanno co­me divertirsi non hanno mai danaro, e quelle che hanno danaro non sanno mai come divertirsi?

Epifania. Non stai rendendoti molto gradevole, Adriano.

Adriano. E tu, Epifania, non mi stai intrattenendo con mol­ta munificenza. Per carità, andiamo in macchina e facciamo un giro per la campagna. Sarà molto più lussuoso di questo odioso caffè, e molto più intimo.

Epifania. Sono stufa della mia macchina.

Adriano.  Io no. Magari me ne potessi permettere una uguale!

Epifania. Credevo ti saresti divertito a star seduto qua, in questo strampalato posticino fuori mano, a parlare con me. Ma vedo che sei un vecchio scapolone viziato: a te preme soltanto mangiar bene e godere le tue piccole co­modità. Sei peggio di Alastair; lui, per lo meno, sapreb­be parlare di pugilato e di tennis.

Adriano. E tu non sai parlare che di danaro.

Epifania. E tu credi che il danaro non sia interessante! Oh, avresti dovuto conoscere mio padre!

Adriano. Sono molto contento di non. averlo conosciuto.

Epifania (improvvisamente pericolosa) Che cosa dici?

Adriano. Cara la mia Epifania, se vogliamo rimanere ami­ci, è meglio che parli franco. Tutto quanto mi hai rac­contato su tuo padre mi convince che, per quanto fosse indubbiamente un padre affezionato e tanto amabile da giustificare il tuo piuttosto tedioso complesso di padre, come direbbe il dottor Freud, egli doveva essere il più spaventoso impiastro che mai sia stato capace di annichi-lire perfino un Rotary Club.

Epifania (dopo un attimo di sbalordimento per quella be­stemmia) Mio padre! Oh nullità infinita! Mio padre ha creato un patrimonio di centocinquanta milioni di ster­line. Tu non ne hai guadagnate mai neanche mezzo mi­lione.

Adriano. Ma, ragazzina mia, tuo padre non ha mai fatto un accidente. Io non ho la più pallida idea di come sia riuscito a poter legalmente pretendere di possedere tanto danaro fatto dagli altri; ma io so che ne ha persi i quattro quinti avendo superato da un bel po' il tempo in cui si potevano acquistare i beni della nobiltà russa nella con­vinzione che l'Inghilterra avrebbe annientato la rivoluzio­ne sovietica in poco più di tre settimane. Chi avrebbe po­tuto commettere un errore più stupido? Io no.

Epifania (balzando su) Fetido individuo! (Egli si alza, preoccupato). Piglia questo per aver detto che mio padre era un impiastro. (Lo atterra).

Adriano (tirandosi su, dolorante) Oh! Calmati. Avresti po­tuto farmi male per davvero.

Epifania.  Io te ne farò tanto che finirai per augurarti di es­sere crepato. Torzolo! Immondezza! Piglia questo per aver detto che non ha mai fatto un accidente. (Lo atterra nuo­vamente).

Adriano. Aiuto! Aiuto! Qua c'è una pazza: non posso reg­gerla da solo. Aiuto! (Egli passa dietro a lei e la prende per la vita, stringendola).

Epifania. Cimice! (Gli fa fare un volo al disopra della propria spalla).

Adriano. Polizia! Mi sta assassinando. È pazza. Aiuto! aiu­to! (Egli si rialza e corre verso la porta ma è sopraffatto da lei).

Epifania. Lezzo! Carogna! (Lo butta fuori a faccia avanti e gli butta dietro cappello e soprabito).

Adriano (fuori, rotolando gin dalle scale con un tonfo spa­ventoso) Ah! ah! Aiuto! All'assassino! Polizia! Ooooh! (Sviene. Silenzio).

Epifania. Mostro! Mi hai ucciso. (Trotta verso la sedia più vicina e vi si sprofonda, mettendo lo scompiglio tra il va­sellame perché tende le braccia e si abbandona con la fac­cia sulla tavola, in convulsioni).

Un signore egiziano, di media età e dall'aspetto serio, con una vecchia redingotte nera e un tarbusc, dalla par­lata troppo nettamente priva d'accento per essere con­fuso con un indigeno, corre dentro la stanza.

L'egiziano (perentorio) Che cosa c'è? Che cos'accade?

Epifania (alzando lentamente il capo e fissandolo) Chi dia­volo è lei?

L'egiziano. Iosono un medico egiziano. Ho udito un gran fragore. Mi affretto a chiederne la causa. E la trovo in preda alle convulsioni. Posso aiutarla?

Epifania. Sto morendo.

Il medico. Niente di tutto questo! Lei sta imprecando. La crisi è superata. Adesso può stare seduta: sta benissimo. Buongiorno.

Epifania. Aspetti. Io non sto bene affatto: io sono in punto di morte. Ho bisogno d'un medico. Sono ricca.

Il medico. In questo caso non le sarà difficile trovare un medico inglese. C'è nessun altro che ha bisogno del mio aiuto? Io stavo al piano di sopra. Ho udito il fragore di qualcuno che ruzzolava giù per le scale. Potrebbe essersi rotto qualche osso. (Esce rapidamente).

Epifania (alzandosi in piedi e chiamandolo) Non si preoc­cupi di lui: se s è rotto dal primo all'ultimo osso del cor­po, ha avuto soltanto quello che meritava. Torni qua su­bito. Voglio che lei venga qua. Torni indietro. Torni in­dietro.

Il medico (tornando) Il padrone della locanda sta accom­pagnando il signore all'ospedale del paese, con la sua mac­china.

Epifania. Con la mia macchina! Non lo permetto. Che pren­da un'autoambulanza.

Il medico. La macchina è già andata via. Dovrebbe essere molto contenta che sia servita a qualcosa.

Epifania. Lei ha il dovere di curarmi, non di predicarmi.

Il medico. Io non sono il suo medico: io non esercito la professione libera. Io ho una clinica per profughi mu­sulmani indigenti; io lavoro all'ospedale. Non posso as­sistere lei.

Epifania. Lei può assistermi. Lei deve assistermi. Vuol la­sciarmi qua a morire?

Il medico. Lei non muore. Non adesso, per lo meno. Il suo medico curante penserà ad assisterla.

Epifania. Il mio medico curante è lei. Le ripeto che sono ricca: gli onorari dei medici sono un'inezia per me: può farsi pagare quando vuole. Ma lei deve assistermi e mi assisterà. Lei è orribilmente sgarbato; ma, come medico, ispira fiducia.

Il medico. Se dovessi assistere tutti coloro ai quali ispiro fiducia, dopo una settimana sarei sfinito. Debbo rispar­miarmi per chi è povero e utile.

Epifania. Allora lei è uno sciocco o un bolscevico.

Il medico. Io sono soltanto un servo di Allah.

Epifania. Non è vero: lei è il mio medico, ha capito? Io sono un'ammalata: lei non può abbandonarmi e lasciar­mi morire sola in questo maledetto posto.

Il medico. Non vedo in lei alcun sintomo di malattia. È sof­ferente?

Epifania. Sì. Soffro orrendamente.

Il medico. Dove?

Epifania. Non mi faccia tutto questo interrogatorio come se non credesse a quello che dico io. Mi pare di essermi slogata un polso per buttare qua e là quel mostro.

Il medico. Quale polso?

Epifania (presentandogliene uno) Questo.

Il medico (le prende una mano, con gesto professionale, e tira e volta le dita e il polso) Non c'è assolutamente niente di leso.

Epifania. Come lo sa? La mano è mia, non sua.

Il medico. Se avesse un polso slogato, farebbe crollare la casa a forza di strilli. Lei sta simulando. Mentendo. Per­ché? Per rendersi interessante?

Epifania. Per rendermi interessante! Oé: io sono interessante.

Il medico. Medicalmente, non lo è affatto. È interessante sotto altri aspetti?

Epifania. Io sono la donna più interessante d'Inghilterra. Io sono Epifania Ognisanti di Parerga.

Il medico. Mai sentita nominare. Un'aristocratica italiana, suppongo.

Epifania. Un'aristocratica? Mi ha presa per una stupida? I miei antenati prestavano danaro a tutta Europa cinque­cento anni fa: adesso siamo banchieri in tutto il mondo.

Il medico. Ebrea, vero?

Epifania. Cristiana, fino all'ultima goccia di sangue. Gli ebrei sperperano la metà dei loro danaro in beneficenze e capricci come il sionismo. Il più stupido dei Di Parerga sa abbindolare il più intelligente degli ebrei, quando si tratta di far soldi. Noi apparteniamo alla sola aristocra­zia del mondo: l'aristocrazia del danaro.

Il medico. Insomma, alla plutocrazia.

Epifania. Se preferisce. Io sono plutocrate tra i plutocrati.

Il medico. Beh, questa è una malattia per cui non ho ricette. La sola cura conosciuta è una rivoluzione; ma la percen­tuale di mortalità è alta; e, talvolta, se la rivoluzione è sbagliata, non serve che a intensificare il male. Io non posso far niente per lei. Bisogna che torni al mio lavoro. Buongiorno.

Epifania (trattenendolo) Ma il suo lavoro è questo. Che altro ha da fare?

Il medico. C'è moltissimo da fare al mondo, oltre ad as­sistere ricchi malati immaginari.

Epifania. Ma se è ben pagato?

Il medico. Il poco danaro che m'occorre lo guadagno con il lavoro che mi perito di considerare più importante.

Epifania (scarnandolo e aggirandosi per la stanza, dispe­rata) Lei è un porco, un mostro e un bolscevico. Lasciar­mi qua nel dolore è l'azione più vergognosa che ella possa commettere. La mia macchina è andata via. Non ho danaro. Non porto mai danaro in giro.

Il medico. Io non ho danaro da portare in giro. La sua macchina tornerà a momenti: può farsi prestare del da­naro dal suo meccanico.

Epifania. Lei è un ippopotamo senza attenuanti. Lei è un bascibazuc. Avrei dovuto capirlo dal suo ridicolo fez. In mia presenza, dovrebbe cavarselo. (Glielo strappa dal­la testa e lo tiene dietro la schiena). Abbia per lo meno la creanza di stare con me fino a che torna il mio mec­canico.

Si ode suonare il clacson della macchina.

Il medico. È tornato.

Epifania. Accidenti! Può aspettare fino a che ha preso il tè e fumato una sigaretta?

Il medico. No. Abbia la cortesia di restituirmi il fez.

Epifania. Volevo vedere che faccia aveva a capo scoperto. (Glielo mette teneramente sul capo). Mi stia a sentire. Lei sta avendo un'avventura. Non ha l'animo roman­tico? E neanche un po' di curiosità? Non vuol sapere per­ché ho scaraventato giù dalle scale quel mostro? Non vuol buttare alle ortiche il suo maledetto lavoro, almeno una volta tanto, e trascorrere un pomeriggio sul fiume con una donna interessante e attraente?

Il medico. Per me le donne sono interessanti e attraenti soltanto quando sono ammalate. Io so troppe cose di loro, internamente ed esteriormente. Lei sta perfettamente bene.

Epifania. Bugiardo. Nessuno sta perfettamente bene, né lo è mai stato, né mai lo sarà. (Si siede, col broncio).

Il medico. Questo è vero. In un certo senso, lei ha cervello. (Si siede di fronte a lei). Ricordo che all'inizio della mia carriera, giovane chirurgo, ho ammazzato parecchi am­malati con le mie operazioni perché mi era stato inse­gnato che bisognava andar avanti a tagliare fino a quan­do non rimanevano che i tessuti perfettamente sani e, siccome un tessuto perfettamente sano non esiste, avrei tagliato via tutto il corpo dei miei pazienti se l'infermiera non mi avesse fermato prima che morissero sul tavolo ope­ratorio. Morivano dopo aver lasciato l'ospedale; ma sic­come erano stati portati via dal tavolo operatorio quando erano ancora vivi, io ero in grado di sostenere che l'ope­razione era riuscita benissimo. È sposata?

Epifania. Sì. Ma non abbia paura. Mio marito mi è aper­tamente infedele e non la può citare in tribunale se lei fa all'amore con me. Posso divorziare da lui, se è neces­sario.

Il medico. E il signore che lei ha scaraventato giù dalle scale, chi era? Non si scaraventa il proprio marito giù dalle scale. Faceva all'amore con lei?

Epifania. No. Ha insultato la memoria di mio padre per­ché la colazione fatta qui lo aveva deluso. Quando pen­so a mio padre, tutti gli uomini comuni mi sembrano im­mondezza. Lei non è un uomo comune. Vorrei conoscerla meglio. Adesso che mi ha fatto delle domande confiden­ziali sulla mia famiglia, e che io ho risposto a tutto, lei non può più pretendere di non essere il mio medico di famiglia. E questa è una faccenda sistemata.

Il medico. Complesso del padre, vero?

Epifania  (annuisce)!

Il medico. Ed eccesso di danaro?

Epifania. Soltanto trenta miseri milioni di sterline.

Il medico. Un fenomeno psicologico. Lo terrò in conside­razione.

Epifania. In considerazione! Ma lei ne sarà onorato, rico­noscente, entusiasta!

Il medico. Capisco. Grandissima prosopopea. Audacia e avventatezza. Folle egoismo! In apparenza, senza sesso.

Epifania. Senza sesso! Chi le ha detto che sono senza sesso?

Il medico. Lei mi parla come se fosse un uomo. Per lei gli uomini non hanno niente di misterioso, o di intimo o di sacro. Per lei l'uomo non è che un maschio della sua stessa specie.

Epifania. Già, della mia specie! Gli uomini sono di una specie diversa e molto inferiore. Dopo cinque minuti di conversazione con mio marito lei sarebbe già convinto che egli non appartiene alla mia stessa specie. Ma vi sono alcuni grandi uomini, come mio padre. E vi sono alcuni buoni medici, come lei.

Il medico. Grazie. Che cosa dice di lei il suo medico cu­rante?

Epifania. Ionon ho medico curante. Se lo avessi, mi fa­rebbe operare una volta la settimana fino a che non rimar­rebbe più nulla né di me né del mio conto in banca. Io non pretendo che lei mi tartassi con lo stetoscopio, se è questo che teme. Ho i polmoni di una balena e lo sto­maco di uno struzzo. Ho dentro di me un sistema a oro­logeria. Dormo otto ore come un ceppo. Quando desi­dero qualcosa me ne invaghisco talmente che finisco per ottenerlo.

Il medico. Quali sono le cose che lei desidera di più?

Epifania. Tutto. Qualsiasi cosa. Come un colpo di fulmi­ne. E allora non c'è nulla che mi fermi.

Il medico. Tutto e qualsiasi cosa sono niente.

Epifania. Cinque minuti fa volevo lei. Adesso l'ho avuta.

Il medico. Ma via! Non può darla da intendere a un me­dico. Può desiderare il sole e la luna e le stelle; ma non può averle.

Epifania. È per questo che ho cura di non desiderarle. Io desidero soltanto ciò che posso ottenere.

Il medico. Brava. Intelletto pratico. E adesso, per esem­pio, che cosa desidera?

Epifania. Questo è il brutto. Non si può aver nulla, salvo dell'altro danaro.

Il medico. E perché non altri uomini?

Epifania. Altri Alastair! Altri Adriani! Questi non sono desideri profondi. In questo momento voglio una moto­lancia.

Il medico. In questo paesello non ne esistono.

Epifania. Dica al padrone della locanda di fermare la pri­ma che passa e di comperarla.

Il medico. Oh! La gente non vende le proprie lance in questo modo.

Epifania. Ci ha provato mai?

Il medico. No.

Epifania. Iosì. Quando voglio una macchina o una barca a motore o una lancia o qualcosa del genere io la com­pro direttamente dalla strada o dal fiume o dal porto. Questa roba costa migliaia di sterline quando è nuova; ma l'indomani non si riesce a venderla nemmeno per cin­que sterline. Provi a offrire trecento sterline per una di esse, e vedrà che il proprietario non oserà rifiutare: sa che un'offerta siffatta non gli capiterà mai più.

Il medico. Ah, lei è psicologa. Questo è molto interes­sante.

Epifania. Non dica sciocchezze. Io so come si compra e come si vende, ecco tutto.

Il medico. È così che i buoni psicologi si arricchiscono.

Epifania. Lei si è mai arricchito?

Il medico. Io. A me il danaro non interessa: a me inte­ressa la scienza.

Epifania. La scienza è inutile senza danaro. È sposato, lei?

Il medico. Iosono sposato alla Scienza. A me basta una moglie sola per quanto la mia religione ne permetta quattro.

Epifania. Quattro! Che vuol dire?

Il medico. Iosono quello che loro chiamano un maomet­tano.

Epifania. Beh, se sposa me, bisogna che due mogli le ba­stino.

Il medico. Ah, c'è questa probabilità, tra noi?

Epifania. Sì, io la voglio sposare.

Il medico. Niente da fare, signora. La Scienza è la mia sposa.

Epifania. Si tenga pure la Scienza: io non ne sarò mica gelosa. Ma ho solennemente giurato a mio padre sul letto di morte...

Il medico (interrompendola) Ferma. È meglio le dica su­bito che ho fatto un solenne giuramento a mia madre sul letto di morte.

Epifania. Eh?!!!

Il medico. Mia madre era una donna molto saggia. Mi ha fatto giurare che se una donna mi avesse voluto sposare, e io ne avessi provato la tentazione, avrei dovuto porgere a quella donna duecento piastre e dirle che se non fosse andata in giro pel mondo con quel solo danaro e i soli vestiti che aveva addosso, e non si fosse guadagnata da vivere da sola per sei mesi, io non le avrei mai più ri­volto la parola.

Epifania. È se resistesse alla prova?

Il medico. Allora la dovrei sposare anche se fosse la più brutta strega del mondo.

Epifania. E lei si permette di chiedere a me... a me, Epifa­nia Ognisanti di Parerga! di sottomettermi a questa pro­va... a qualsiasi prova!

Il medico. L'ho giurato. Io ho il complesso della madre. È il volere di Allah. Non posso fare altrimenti.

Epifania. Che cos'era sua madre?

Il medico. Una lavandaia. Una vedova. Ha allevato undici figli. Io ero il più giovane, il beniamino. Gli altri dieci sono onesti lavoratori. Col loro aiuto ella ha fatto di me un uomo dotto. La sua ambizione era di avere un figlio che sapesse leggere e scrivere. Ha pregato Allah; ed egli mi ha donato l'ingegno necessario.

Epifania. E lei crede che io mi permetterei di farmi vin­cere da una vecchia lavandaia?

Il medico. Temo proprio di sì. Lei non potrà mai soste­nere una prova.

Epifania. Davvero! E che cosa ne dice della prova che mio padre ha preteso perché io sapessi se il marito era degno di me?

Il medico. Ah! Anche il marito dev'essere provato! Non m'era mai venuto in mente.

Epifania. E non era venuto in mente neanche a sua madre, a quanto pare. Beh, adesso l'ha saputo. Io devo darle cen-tocinquanta sterline. In sei mesi lei deve portarle a cin­quantamila. Le pare una buona prova?

Il medico. Ottima e conclusiva. Alla fine dei sei mesi, non me ne sarà rimasto neanche un centesimo, grazie ad Allah.

Epifania. Lei si confessa battuto?

Il medico. Assolutamente. Totalmente.

Epifania. E lei crede che sia battuta anch'io?

Il medico. Senza speranza. Lei non sa che cosa sia la mi­seria del senzatetto; e Allah il misericordioso avrà cura che lei non lo sappia mai.

Epifania. Quanto valgono duecento piastre?

Il medico. Al cambio contemplato da mia madre, valgono trentacinque scellini.

Epifania. Me li dia.

Il medico. Purtroppo mia madre s'è dimenticata di prov­vedermi per questa contingenza. Io non ho trentacinque scellini. Bisogna che me li faccia prestare da lei.

Epifania. Non ho un centesimo. Non importa: me li farò prestare dal mio meccanico. Se lei avrà il coraggio di do­mandargliele, potrà prestarle centocinquanta sterline sul mio conto. Arrivederci fra sei mesi. (Esce).

Il medico. Non v'è potere né maestà, salvo in te, oh Allah; ma, o Grandissimo e Gloriosissimo!, è questo un al­tro dei Tuoi terribili tranelli?


ATTO TERZO

Un sotterraneo di Commercial Road. Un uomo anziano, ansimante, povero, ridotto come un topo, è seduto insieme alla moglie davanti a una tavola. Èimmerso nei suoi conti. La donna, alla sua sinistra, sta attaccando dei bottoni a una giacca, e cuce molto rapidamente.  Alla sua destra c'è un muc­chio di giacche ancora senza bottoni; alla sua sinistra ve n'è un altro di giacche pronte. La tavola è coperta, fino in terra, con un vecchio panno. Un po' di luce scende dalle scale di pietra; ma non arriva all'angolo in cui è seduta la coppia e che è illuminato da una piccola lampadina elettrica appesa a un filo che piomba dal soffitto. Tra le scale e la tavola una vecchia tenda, sporca e rattoppata, chiude un locale attiguo.

Un campanello tintinna. La donna smette sull'istante di lavorare e nasconde i mucchi di giacche sotto la tavola. Epi­fania, avvolta in un vecchio impermeabile, con un cappello volutamente logoro, scende le scale. Guarda la coppia; poi si guarda attorno; poi va alla tenda e vi guarda dietro. Il vecchio fa un balzo per impedirglielo, ma non arriva in tempo. Le strappa la tenda di mano e le sbarra il passaggio.

L'uomo. Che cosa vuole? Che cos'è venuta a fare?

Epifania. Voglio lavorare. Una donna m'ha detto che qua avrei trovato da fare. Sono bisognosa.

L'uomo. Non è questo il modo di trovare lavoro: ficcando il naso nei luoghi che non la riguardano. Vada via. Qua non c'è lavoro per donne.

Epifania. Bugiardo. Là dietro ci sono sei donne che lavo­rano. Da chi dipendono?

L'uomo. È questo il modo di parlare? Lei si crede chissà

chi. Per che cosa m'ha preso?

Epifania. Per un verme.

L'uomo (ribellandosi con violenza) !!

Epifania. Stia attento. Ho dei buoni pugni. E, quando è necessario, sparo.

La donna (precipitandosi verso l'uomo e reggendolo) Sta' attento, Joe. È un ispettore. Guardale le scarpe.

Epifania. Non sono un ispettore. E che cos'hanno le mie scarpe, se è lecito?

La donna (con rispetto) Beh, signora mia, è possibile che una donna chieda del lavoro da due pence e mezzo al­l'ora quando può permettersi delle scarpe di lusso come quelle? Le assicuro che noi non abbiamo donne alle no­stre dipendenze. Noi siamo soltanto custodi.

Epifania. Ma io ho veduto sei donne...

L'uomo (spalancando la tenda) Dove? Non c'è un'anima. Frughi in tutto questo dannato sotterraneo e vedrà che non ne trova.

La donna. Zitto, zitto, Joe: non parlare così con la signo­ra. Vede, signora mia: non c'è un'anima.

Epifania. Ma il puzzo c'è. Loro hanno dato il segnale per­ché si nascondessero. Loro hanno violato la legge. Mi diano da lavorare o mando una cartolina al sindacato.

L'uomo. Stia a sentire, signora. Non possiamo metterci d'accordo? Che gliene viene a lei se io passo un guaio e devo chiudere questa botteguccia?

Epifania. Che me ne viene a me se sto zitta?

L'uomo. Beh, che ne dice di mezza corona la settimana?

Epifania. Non posso campare con mezza corona la setti­mana.

L'uomo. Si guardi attorno e vedrà che è possibile. Non è mica la sola, sa?

Epifania. Mi dia gli indirizzi degli altri. Se devo vivere di ricatto, bisogna che abbia una clientela molto vasta.

L'uomo. Beh, se devo pagare non c'è motivo che non pa­ghino anche gli altri. La vuole? (Le porge la mezza, co­rona). La guardi! La guardi bene! Sente come suona? (Fa tintinnare la moneta sulla tavola). È sua, e se tiene lon­tano l'ispettore, ne prende una uguale tutti i mercoledì.

Epifania. È inutile che faccia suonare delle mezze corone per stuzzicarmi: è una musica che conosco molto bene. E sono sicura che se insisto lei mi dà anche cinque scel­lini.

La donna. Oh, signora, abbia un po' di pietà per noi. Non sa quanto si deve stentare per vivere.

L'uomo (brusco) Ohé: mica siamo mendicanti. Io pago quel­lo che si può permettere la mia azienda, e non un cen­tesimo di più. Mi sembra lei sappia che si può permettere cinque scellini. E se sa questo, sa pure che non se ne può permettere di più. Si prenda i cinque scellini e va­da all'inferno.  (Butta sul tavolo due mezze corone).

La donna. Via, Joe, non aver tanta furia.

L'uomo. Stai zitta. Tu credi che ci faccia l'elemosina di uno scellino o due, ma ti sbagli. Io capisco tutto senza biso­gno di guardarle le scarpe. Ci tiene in mano: e sa di po­ter fare queste prepotenze.

Epifania. A me questi ricatti piacciono poco. Certo, se bi­sogna farli, si fanno; ma non mi possono dare del la­voro manuale?

L'uomo. Vuol esser un po' più addentro nei nostri affari eh?

Epifania. Più addentro di così, non potrei mai essere. Lì dietro lavorano sei donne alle sue dipendenze. Quell'ar­nese in quell'angolo è una macchina a gas: per legge que­sta baracca è una bottega d'artigiano. Salvo i servizi sa-nitari che probabilmente sono immondi, io non ho più niente da conoscere. Io la tengo chiusa nel palmo della mano. Mi dia del lavoro che mi faccia campare, se no la faccio snidare come un vespaio.

L'uomo. Hotutte le intenzioni di snidarmi da me, e subi­to, e di trovare un posticino dove non le sia tanto facile arrivare. Sono abituato a cambiar indirizzo.

Epifania. Questa è la carta migliore che ha in mano. Lei ha una certa abilità negli affari. Mi dica perché non può darmi del lavoro che mi faccia campare, proprio come lo dà, suppongo, alle donne che ho veduto là dietro.

L'uomo. Non mi piace che le mie dipendenti la sappiano tanto lunga.

Epifania. Capisco. Potrebbero far venire l'ispettore.

L'uomo. Far venire l'ispettore! Che razza di stupida! Ne hanno più paura loro di me!

Epifania. Perché? Non vogliono essere protette?

La donna. L'ispettore non le proteggerebbe, signora mia. ci farebbe chiudere la baracca e le lascerebbe sul lastrico Se la sapessero tanto crudele da voler fare questa denun­cia, si butterebbero in ginocchio per supplicarla di ri­sparmiarle.

L'uomo. Lei che sa tante cose, dovrebbe sapere che una ba­racca come questa non può permettersi dei lussi. È un lavoro che rende pochi soldi, il nostro. Finché trovo don­ne che lavorano a paga naturale, tiro avanti; ma senza lussi, badi bene. Niente paghe sindacali. Niente servizi sanitari, come dice lei. Niente pulitura a calce ogni sei mesi. Niente locali separati per la mensa. Niente retico­lati di protezione dai macchinari pericolosi, o come vuoi chiamarli: non che me ne importi, perché ho soltanto quella vecchia macchina a gas che non farebbe male a una mosca anche se mi tira addosso le grinfie di quella dannata Legge sull'Artigianato che lei conosce tanto be­ne. Io non ho macchinari grossi, ma bisogna che tenga dei prezzi capaci di vincere la concorrenza di chi ne ha. Se aumento i prezzi di un centesimo, quelli si mettono a lavorare a macchina e mi mandano in malora. Mi chieda pure di dare paghe sindacali o di fare tutto quello che pretende l'ispettore, ma allora dovrei chiudere bottega dopo una settimana.

Epifania. E che cos'è la paga naturale di una donna?

L'uomo. Due pence e mezzo all'ora per dodici ore al giorno.

Epifania. Che negriero!

La donna. Oh, no, signora mia, no: chi potrebbe dire che siamo negrieri? Una buona lavorante mette insieme an­che dodici o quindici scellini la settimana, di media.

L'uomo. Non è così che pagava il Governo quando scoppiò la guerra e tutte le donne furono chiamate a prestare la loro opera? Pretende che paghi più del Governo britan­nico?

La donna. Le assicuro, signora mia, che questa è una paga giusta e regolare, e che l'è sempre stata.

L'uomo. Come il cinque per cento della Banca d'Inghilterra. È un'azienda rispettabile, comunque la pensino i suoi ispettori.

Epifania. E una donna può campare con dodici scellini la settimana?

L'uomo. Eccome! Che cosa glielo impedisce?

La donna. Signora mia, quando ero apprendista in una fab­brica di fiammiferi, pigliavo cinque scellini la settimana; e per mia madre era la manna del cielo. Una ragazza che non aveva famiglia di suo trovava sempre una famiglia che la teneva per quattro scellini e mezzo, e che la trat­tava meglio che a casa di suo padre.

L'uomo. Gliela trovo io una famiglia che lo farebbe anche oggi, nonostante le tasse e le tariffe che hanno buttato tutto per aria e hanno dato alle ragazze pretese che non sono per la loro condizione, senza dar loro i mezzi per sfamarsi.

Epifania. Beh, io lavorerò anche per questo, per provare-che posso lavorare e mantenermi. Dunque mi dia da la­vorare e la smetta con le chiacchiere.

L'uomo. Chi s'è messo a chiacchierare? Lei o io?

Epifania. Io. Grazie per l'informazione che m'ha dato: istruttiva ed esauriente. Le basta, come scusa? E adesso al lavoro, al lavoro. Ho fretta di mettermi al lavoro.

L'uomo. Beh, che lavoro sa fare?

La donna. Sa cucire? Sa fare occhielli?

Epifania. No davvero. Quello non è lavoro.

L'uomo. E allora che lavoro vuole?

Epifania. Lavoro di cervello.

L'uomo. È scema!

Epifania. Il lavoro che fa lei. Lavoro di concetto. Lavoro organizzativo. Lavoro direttivo. Vediamo che cosa sta fa­cendo. Mi dica come smercia.

L'uomo   (alla moglie) È meglio che tu vada avanti coi bot­toni. Falle vedere come fai. (A Epifania, mentre la don­na tira fuori i mucchi di giacche da sotto la tavola e si mette, rassegnata, a cucire) E quando ha soddisfatto in pieno la sua curiosità, può darsi che prenda quei cinque scellini e se ne vada.

Epifania. Perché? Non le pare che il mio arrivo in questa tana sia stata un'avventura piuttosto piacevole?

L'uomo. Non ho mai visto nessuno con una faccia tosta co­me la sua. (Si siede davanti ai suoi conti).

Epifania (alla donna, indicando il mucchio delle giacche) Che cosa ne fa, quando sono finite?

La donna (seguitando a lavorare) Viene l'uomo col carret­to e se le porta via.

Epifania. E gliele paga?

La donna. Oh no. Ci lascia una ricevuta. Alla fine della settimana, il signor Superfluo ci paga le ricevute.

Epifania. E che cosa ne fa, il signor Superfluo, di queste giacche?

La donna. Le porta al grossista che gli ha fornito la stoffa. Il carretto ci porta la stoffa quando viene a ritirare le giacche confezionate.

Epifania. Perché non trattate direttamente coi grossisti?

La donna. Oh no, non sarebbe giusto. Non sappiamo chi sono; lo sa il signor Superfluo. E, poi, non potremmo permetterci un carretto.

Epifania. Il carretto è del signor Superfluo?

La donna. Oh no: non sarebbe giusto. Lo affitta a un tanto all'ora da Bolton.

Epifania. E il conducente del carretto è sempre lo stesso?

La donna. Si, certo: è sempre il vecchio Tim Tirinnanzi.

Epifania (all'uomo) Mi segni questi nomi su un fogliet­to: Superfluo, Bolton, Tirinnanzi.

L'uomo. Ohé! Mica sono il suo garzone, sa?

Epifania. Lo sarà fra poco. Faccia come le dico io.

L'uomo. Che impunita!  (Obbedisce).

Epifania. La prima volta che viene qui Tirinnanzi, gli dica di avvertire Bolton che ha trovato chi vuol comprargli il carretto per quattordici sterline. Gli dica che se riuscirà a convincere Bolton a disfarsi del carretto per quella ci­fra, gli rimarrà una sterlina per sé e sarà impegnato con mezza corona di anticipo sulla paga attuale per fare lo stesso giro negli stessi luoghi. Lui conosce i grossisti. Il signor Superfluo è superfluo. Noi raccoglieremo non soltanto la roba nostra, ma quella di tutti gli altri negrieri.

L'uomo. Negrieri! Chi sarebbero i negrieri?

Epifania. Uomo, conosci te stesso. Lei sfrutta se stesso; lei sfrutta sua moglie; lei sfrutta quelle donne là dentro; lei vive di sfruttamento.

L'uomo. Non è il modo di parlarne. Non sta bene. Io do le paghe giuste, proprio come tutti. Io procuro del lavo­ro che da sole non potrebbero procurarsi.

Epifania. Lei è molto suscettibile. Io non lo sono affatto. Io sfrutto il signor Superfluo fino a levarlo di mezzo. E sfrutto il signor Tim Tirinnanzi invece di lasciarlo sfrut­tare dal signor Superfluo.

L'uomo. Ma dica un po': questa impresa è mia o sua?

Epifania. Staremo a vedere. Ce l'ha, lei, il coraggio di com­prare il carretto?

L'uomo. Il danaro da dove deve saltar fuori?

Epifania. Da dove salta fuori tutto il danaro del mondo? Dalla banca.

L'uomo. Ma prima bisogna mettercelo, no?

Epifania. Neanche per idea. Gli altri ce lo mettono; e la banca lo presta a lei se pensa che lei sappia far fruttare la sua azienda.

La donna (terrorizzata) Oh, Joe, non affidare i tuoi soldi alla banca. A gente come noi le banche fanno poco pro. Non ti lasciar tentare, Joe.

Epifania. Qual'è stata la sua ultima vacanza?

La donna. La mia! La mia vacanza! Chi se le può permet­tere le vacanze? L'ultima l'ho presa il giorno dell'Armi­stizio, diciotto anni fa.

Epifania. Allora ci vogliono una guerra mondiale e la stra­ge di venti milioni di suoi simili perché lei si prenda l'u­nica vacanza della sua vita. Io so accontentarla meglio di così.

La donna. Noi questi discorsi non li capiamo. Non ab­biamo tempo di farli. Vuol prendere il nostro regaluccio e andarsene?

Il campanello tintinna.

L'uomo (alzandosi) Ecco Tim, bisogna dargli la roba.

Epifania (con aria da padrona) Si sieda. Con Tim me la vedo io.

Esce. L'uomo, dopo un attimo di incertezza, si siede rassegnato.

La donna (piangendo) Oh, Joe, non darle retta; non la­sciare che si immischi del nostro lavoro. Quella donna darà fine ai nostri risparmi in meno di una settimana e ci lascerà qua a sgobbare fino alla fine dei nostri giorni per recuperare quello che avremo perso. Io non posso sgobbare per sempre: nessuno di noi è giovane come una volta.

L'uomo (scontroso) Che razza di moglie sei? Mi fai sem­pre mancare il coraggio. Non li vedo io quelli che si danno alla bella vita e buttano via il danaro che vanno a prendere in banca? Stanno tutto il giorno a entrare e a uscire dalle banche. Che altro fanno, oltre a fumar si­gari e a bere champagne? Per loro un biglietto da cin­que sterline è quello che per me è un penny. Perché non dovrei provare a fare il loro gioco invece di star qua a lesinare il penny o il mezzo penny?

La donna. Perché tu non te ne intendi, Joe. Noi conoscia­mo i nostri sistemi; e, per quanto poveri, sappiamo che i nostri sistemi non ci hanno mai mandati sul lastrico; e non ci finiremo mai, se seguitiamo a usarli. E chi ci dà un consiglio? chi ci guarda in faccia o ci dà una mano nei momenti duri se cominciamo a far cose che nessun altro fa? Che ne diresti di andar giù per questa strada a raccattar soltanto occhiatacce da chi ti era amico, senza poter ottenere una settimana di credito nelle botteghe? Joe: io ho seguito questo sistema naturale per tanti anni, senza lamentarmi mai; e posso seguitare così fin a che potremo star comodi, quando saremo troppo vecchi, io per vedere quello che cucio e tu per contare i sol­di. Ma se tu vuoi rischiare tutto, e mettere i nostri risparmi in banca e cambiare sistema io non vado avanti: io  non vado avanti: io ci muoio. Alzati e valla a ferma­re, Joe. Non farla parlare: mandala via. Sii un uomo, Joe caro: non aver paura di lei. Non spezzare il cuore a me e non rovinare te stesso. Oh, non star li a sedere, in esta­si: non sai di che cosa è capace. Ohi! ohi! ohi! (Piange tanto che non può più dir nulla).

L'uomo (alzandosi, ma non molto risoluto) Calma! calma! non far tanti strilli; sta' tranquilla che non le permetterò di ficcare il naso nelle cose nostre. La caccio via, sta' si­cura. (Va alle scale. Epifania scende). Adesso, signora bella, patti chiari.

Epifania. Non c'è bisogno di far patti. Tim è sicuro che Bolton prenderà subito le dieci sterline del carretto. Tim è mio devotissimo schiavo. E intanto, se ci riesce, cerchi di far zittire i lamenti di quella disgraziata. Ora me ne vado. Qua non c'è abbastanza lavoro per me: per sbri­garlo mi basta mezza giornata la settimana. Per passare il tempo mi farò assumere da un albergo come lavapiatti. Ma prima bisogna che vada a dare una capatina all'indi­rizzo che m'ha fornito Tim e combinare di mandarci la nostra roba direttamente dal luogo di raccolta,  proprio come faceva Superfluo. Quando ho sistemato tutto  con quelli, torno qua e sistemo tutto per loro. Intanto, vada­no avanti come sempre. Buongiorno. (Esce).

L'uomo (stupefatto) A me sembra come un sogno. Che cosa potevo fare?

La donna (che ha smesso di piangere quando ha udito che Epifania alludeva a lei) Fai quello che dice lei, Joe. Sia­mo come bambini... (Comincia a piangere, di nuovo, piano piano).

Non rimane altro da dire.


ATTO QUARTO

Il caffè della « Scrofa e il Piffero », adesso trasformato nel salone del « Cappello da Cardinale », un albergo sul fiume, gradevolissimo. Le lunghe tavole sono sparite e sono state sostituite da diverse tavole da tè circondate da eleganti poltroncine. La vecchia credenza, il pesce imbalsamato, le insegne non ci sono più: vi è invece una pregevole scrivania a due posti, separati da astucci con carta da lettere e carto­line; sopra ad essa, delle lampade elettriche con graziosi pa­ralumi. Vicino ad essa, un tavolino coperto di riviste e di giornali illustrati. Più avanti, vicino alla porta, un lungo di­vano con comodi cuscini, sul quale possono stare comoda­mente tre persone. Di fronte ad esso tre poltroncine, così da formare un angolo di fronte al caminetto. Il vecchio at­taccapanni è andato nella sua tomba, con la credenza. Le pareti verniciate di fresco hanno colori allegri. L'impiantito è di legno, coperto da tappeti orientali messi capricciosamen­te. E evidente che si tratta del salone di un albergo di prima categoria nuovo di zecca.

Alastair, con pantaloni di flanella da canottaggio, è di-iteso felicemente sul lungo divano, e legge un giornale illu­strato. Patrizia, vestita assai vivacemente da estate, fa la calza nella poltroncina di fronte a lui, serena e giocosa.

E un bel pomeriggio estivo; e tutta, la scena rappresenta un paradisiaco pomeriggio di ferie.

Alastair. Di' un po' Calzetta, non ti pare divertente?

Patrizia. Sì, tesoro, è una meraviglia.

Alastair. Non c'è niente di più bello di una domenica sul fiume. Al mattino una buona strappata sull'acqua per sgranchirsi bene i muscoli e farsi venir appetito. Una buona colazione, e poi un buon riposino. Che cosa si può desiderare di più sulla terra?

Patrizia. Remi stupendamente, Ally. Mi piace tanto ve­derti vogare, soprattutto quando sei sul sandolino. È così bello vederti a torso nudo contro lo sfondo dell'acqua.

Alastair. È la calma, questa calma benedetta. Tu sei tanto calma: non ho mai paura che tu faccia un pandemonio per un nonnulla. Il fiume è così liscio. Non so che cosa dà maggior conforto, se te o il fiume, e pensare che a casa devo mettere il mondo sossopra tre o quattro volte al giorno.                                                                        

Patrizia. Non ci pensare, tesoro. Quella non è casa: questa è casa.                                                                      

Alastair. Sì, cara: hai ragione: questo è l'ideale della ca­sa, per quanto sia soltanto un albergo.

Patrizia. Sì, ma che cosa si può chiedere di meglio di un albergo? Tutto pronto e servito, niente guai coi domesti­ci, niente rate, niente tasse. Io non ho mai avuto pace, se non in albergo. Ma forse per un uomo è diverso.

Entra il direttore dell'albergo,  un giovanotto  vestito con eleganza. Ha il registro degli ospiti, lo apre e lo posa sul tavolino dei giornali. Indi viene rispettosa­mente verso i suoi due ospiti.

Il direttore (tra i due) Buongiorno, signore. Spero che si trovino bene.

Alastair. Sì, grazie. Ma che cos'avete fatto della vecchia locanda? Quando sono stato qui, un anno fa, c'era un brutto localetto che si chiamava "La Scrofa e il Piffero".

Il direttore. C'è rimasto fino a pochissimo tempo fa, si­gnore. Mio padre era il padrone della "Scrofa e il Piffe­ro". Come lo erano stati i suoi avi, risalendo fino all'e­poca di Guglielmo il Conquistatore. Il Cardinale Wolsey si fermò una volta per un'ora alla "Scrofa e il Piffero" perché il suo mulo aveva perso un ferro ed era stato por­tato dal maniscalco. Le assicuro che i miei antenati si cre­devano dei grandi albergatori. Ma erano uomini senza educazione, e hanno rovinato questa vecchia locanda per cercare di migliorarla buttando via le vecchie cose che ci stavano. Quando l'ha vista lei, signore, era agli estremi. Io ne avevo vergogna.

Alastair. Beh, adesso ne ha fatto un locale di prim'ordine.

Il direttore. Oh, non è merito mio, signore: io non sono che il direttore. Se le raccontassi com'è andata, forse non ci crederebbe. A parer mio è una storia molto più roman­tica della vecchia leggenda del Cardinale. Ma non voglio disturbarla con le mie chiacchiere. Se posso fare qualcosa per loro, non abbiano riguardi.

Patrizia. Se è tanto romantica, perché non ci racconta la storia della "Scrofa e il Piffero"? Ma forse non ha tem­po da dedicarci...

Il direttore. Sono a sua disposizione, signora, sempre.

Alastair. Forza, allora, ci racconti tutto.

Il direttore. Ebbene, signora, la storia è questa. Qualche tempo fa è venuta a presentarsi da noi una donna che voleva essere assunta come sguattera. Il mio povero vec­chio padre non ha avuto il coraggio di buttarla fuori: l'ha presa in prova per due o tre giorni. E così ha co­minciato a lavorare. Lavava due piatti e ne rompeva sei. La mia povera vecchia mamma era furibonda: pensava che i suoi piatti fossero la cosa più graziosa del mondo. Poverina, non sospettava davvero che fossero brutti e or-dinari e vecchi e dozzinali e passati di moda. Ha dichia­rato che, siccome li aveva rotti, la ragazza li doveva ri­pagare, a costo di rimanere qua un mese intero a lavorare dandoci il modo di risarcire il danno con la sua paga. La ragazza è corsa al paese ed è tornata con un carico di va­sellame che ha fatto piangere mia madre: diceva che sa­remmo stati rovinati per sempre se avessimo servito da mangiare su piatti così antiquati. Ma proprio l'indomani una signora americana, che era in gita sul fiume con i suoi amici, ce li ha portati via dalla tavola e ce li ha pa­gati il triplo di quello che erano costati; e la mia mamma, poverina, non ha più osato dire una parola. La sguattera ha manovrato la situazione come nessuno di noi avrebbe mai saputo manovrarla. È stato crudele, per noi; ma non potevamo negare che aveva sempre ragione lei.

Patrizia. Crudele! Era crudele comprarvi dei bei piatti?

Il direttore: Oh, non solo questo, signora; anzi, questo è stato facile e quasi divertente. Coi vecchi piatti, bastava si limitasse a romperli e a buttarli nel secchio della im­mondezza. Ma il male della "Scrofa e il Piffero" non stava in quei poveri piatti che levavano l'appetito a chi si sedeva a tavola. Il male stava nei vecchi che tenevano in piedi la locanda col loro lavoro e che, secondo i siste­mi moderni, avevano pochi meriti. È stato necessario met­terli sulla strada e vederli, dopo qualche giorno di vagabondaggio, finire al ricovero. Al bar accudivano per­sonalmente papà e mamma: la mamma si vestiva alla pa- rigina, secondo lei, poverina, senza neppure sognarsi che il mondo fosse un pochino più vecchio di quando si era sposata. La sguattera diceva loro la verità su loro stessi; ed essi ne erano straziati; perché era proprio la verità; e io non potevo negarla. Il povero vecchio ha dovuto cedere perché aveva preso del danaro su un'ipoteca e si era svenato per pagare gli interessi. Poi abbiamo saputo che la ragazza aveva rilevato l'ipoteca e ci teneva assoluta- mente in pugno. «È ora che vendiate questa baracca e che vi ritiriate: voi, qua, non potete far nulla di buono », diceva.                                                                   

Patrizia. Ma è stato spaventoso, sradicarli in questo modo.

Il direttore. È stato duro; ma era la verità. Se fossimo andati avanti, gli uscieri ci sarebbero piombati addosso da un giorno all'altro. Gli affari sono gli affari; e il sen­timento con gli affari non c'entra. E, poi, pensi al bene che ha fatto. I miei genitori non avrebbero mai potuto ricavare dalla loro proprietà la somma che hanno avuto da lei. Io stavo qui, vergognoso del luogo, legato alla "Scrofa e il Piffero" dall'affetto dovuto ai miei genitori, senza speranze per l'avvenire. Adesso l'albergo è una ren­dita per tutto il vicinato e offre una possibilità di lavoro che la "Scrofa e il Piffero" non ha offerto mai, neanche nei suoi tempi migliori; e io ne sono il direttore con uno stipendio e una percentuale che non avrei mai sognato di guadagnare.                                                                

Alastair. Lei, dunque, non ci ha rimesso niente.            

Il direttore. Appunto. Infatti, vede, per quanto non mi sarebbe riuscito mai di operare da solo questo gran cam-biamento, ho avuto l'intelligenza di capire che quella ragazza aveva ragione. L'ho sostenuta fino in fondo.Ho tanta fede in quella donna che se mi ordinasse di dar i fuoco all'albergo stasera stessa, lo farei, signore, senza un attimo di esitazione. Tutto quello che tocca si trasforma in oro. La banca richiamerebbe mio padre per uno sco-perto di cinque sterline, ma insiste nell'offrir crediti a lei e non sta nella pelle se vede che essa ha un soldo a suo avere. È una donna meravigliosa, signore: oggi, sguatte­ra; domani, proprietaria di un albergo di prima categoria.

Patrizia. E i vecchi sono soddisfatti e felici?

L direttore. Veramente, no: alla loro età i grossi cam­biamenti sono molto penosi. Mio padre ha avuto un col­po, e non credo che possa tirar avanti a lungo. E mia ma­dre è quasi demente. Eppure, è stato un bene per loro; adesso hanno tutti i comodi che possono desiderare.

Alastair. Beh, è un racconto molto commovente: anche più di quanto lei possa pensare, amico mio, perché io, per esempio, conosco una donna di quello stampo. A proposito, ho telegrafato a un mio amico di venir a pas­sare la domenica con noi: è un certo signor Sagamore. Spero che potrà trovargli una stanza.

Il direttore. Certo, signore, grazie.

Patrizia. Ha molti clienti, per questa fine settimana?

Il direttore. Meno del solito, signora. Abbiamo un me­dico egiziano che viene qua per i pasti: credo che sia un uomo molto dotto: sempre silenzioso, non rivolge la parola a nessuno. Poi c'è un altro signore, un convalescen­te, appena dimesso dall'ospedale della Contea. Il medico egiziano gli ha raccomandato il nostro cuoco; e anche lui viene qua per i pasti. Se non arriva qualche cliente da fuori, non c'è nessun altro, signora,

Alastair. Beh, se verrà ci rassegneremo.

Il direttore. A proposito, signore, mi scusi se la distur­bo; ma stamattina lei non ha firmato il registro. Gliel'ho portato qua. Vuoi avere la cortesia? (Prende il registro che è sulla tavola e lo porge ad Alastair con la propria penna stilografica).

Alastair (sedendosi e prendendo il registro sulle ginoc­chio) Ah, mi scusi: me n'ero dimenticato. (Firma). Ecco fatto. (Stende di nuovo le gambe sul divano).

Il direttore. La ringrazio molto, signore. (Dà un'occhia­ta al registro prima di chiuderlo. La firma lo stupisce). Oh, signore! Che onore per noi!

Alastair. Ho sbagliato?

Il direttore. Oh, no, signore, tutt'altro. Il signore e la signora Fitzfassenden. Il nome è così insolito. Ho l'ono­re di ospitare il famoso...

Alastair (interrompendolo) Grazie, molto gentile: sono il campione di tennis e il campione di pugilato e quel che segue; ma sono qui in vacanza e non voglio sentirne parlare.

Il direttore (chiudendo il registro) Capisco, signore. Non le avrei detto niente se la proprietaria dell'albergo, la si­gnora di cui le ho parlato, non fosse una certa signora Fitzfassenden.

Alastair (alzandosi con uno strillo) Eh? Mi lasci andar via subito. Fai fagotto, Calzetta. Il conto, per favore, im­mediatamente.

Il direttore. Certo, signore. Ma mi permetta di dirle che in questo momento non è sul luogo e che questa dome­nica non credo abbia intenzione di venire.

Patrizia. Stai calmo, tesoro. Abbiamo tutto il diritto di sta­re nel suo albergo, visto che paghiamo il nostro soggior­no come lo pagano gli altri.

Alastair. Va bene, rimaniamo pure. Ma la mia vacanza è rovinata.

Il direttore. Stia tranquillo, signore, non verrà. Comin­cia a stancarsi di farci visite improvvise adesso che sa di potersi fidare di me. (Esce, ma si riaffaccia subito per dire) Il suo amico signor Sagamore, signore, sta venendo col signore convalescente. (Regge la porta aperta per far passare Sagamore e Adriano, che entrano. Poi se ne va, portando via il registro).

Adriano, che entra per primo, cammina a stento, ap­poggiandosi a due bastoni; ha la testa fasciata. La vista di Fitzfassenden  e  Patrizia  lo  sorprende  sgradevol­mente.

Adriano. Alastair! Signorina Smith! Ma tutto questo, Sagamore, che cosa significa? Lei non mi ha detto chi avrei incontrato: mi ha parlato di due amici. Alastair: ti as­sicuro che non sapevo tu fossi qui. Sagamore m'ha par­lato di due amici che avrebbero avuto piacere di vedermi.

Patrizia. Infatti, signor Blenderbland, noi abbiamo piacere di vederla. Non vuol sedersi?

Alastair. Ma che cosa t'è accaduto? si può sapere che cosa diavolo ti sei fatto?

Adriano (esasperato) Tutti mi chiedono che cosa mi sono fatto. Io non mi sono fatto nulla. Suppongo tu alluda a questo (indica le sue lesioni). Beh, questo è ciò che mi ha fatto tua moglie. Ecco perché Sagamore non doveva condurmi qui.

Alastair. Davvero? Oh, quanto mi dispiace, amico mio.

Patrizia (alzandosi premurosa) Si sieda, signor Blender­bland. Si riposi sul divano. (Mette a posto i cuscini). Oh Dio! oh Dio!

Alastair. Eppy è capace di questo, lo so.

Adriano. Già, adesso lo so anch'io. Ma non dovrei essere qui: Sagamore non doveva farmi venire qui.

Patrizia. Ma perché no? Le assicuro che siamo felici di vederla. A noi non interessa quello che fa la signora Fitz­fassenden.

Adriano. Ma interessa a me. Lei è molto gentile; ma io non posso pretendere il privilegio dell'amicizia di chi ho querelato per aggressione e lesioni.

Alastair. Certo, caro. La situazione non è nuova. Le vit­time vengono sempre a chiedere la nostra compassione. Siediti, rimani con noi.

Adriano (si siede, riluttante, e distende sul divano i suoi arti sconquassati) Beh, tu sei molto gentile; e io non pos­so rimanere in piedi. Ma non riesco a capire perché Sa­gamore ha giocato questo tiro a me; e, naturalmente, an­che a te.

Patrizia torna alla sua poltroncina, e riprende a scalzettare.

Sagamore (prende una sedia vicino a Patrizia, alla sua si­nistra) Beh, la verità è che Blenderbland non intende ra­gione; e speravo che loro due mi avrebbero aiutato a far­gli mettere giudizio.

Adriano (testardo) È inutile, Sagamore. Duemilacinquecen­to. E le spese. Non un soldo di meno.

Sagamore. Troppo. Èridicolo. Il tribunale potrebbe con­cederle cinquecento sterline se ci fosse un'evidente ina­bilitazione al lavoro, o se il convenuto avesse commesso un'azione veramente femminile, se, per esempio, l'avesse sfregiata col vetriolo. Ma lei, nell'azienda di suo padre, non è che un socio dormente; lei non guadagna material­mente la rendita di cui gode. E poi, accidenti!, un uomo che querela per aggressione una donna!

Alastair. Perché non le hai sferrato un pugno nel plesso solare?

Adriano. Colpire una donna! Impossibile.

Alastair. Valà! Se una donna si butta nella mischia ha da prendersi quel che le arriva e quel che si merita.

Patrizia. Guardi come s'è fatto conciare! Lei non doveva incassare quel che ha incassato: non ha fatto che inco­raggiarla.

Alastair. Guardami addosso: neanche un livido. Ma la prima volta che ha provato a far altrettanto con me, il livido lo avresti trovato su lei, e bello grosso. La seconda volta non ci ha provato più.

Adriano. Disgraziatamente non ho né i tuoi muscoli né la tua esperienza pugilistica. Ma appena guarisco vado a prender lezioni. E le faccio pagare a lei. Duemilacinque­cento sterline. Oltre alle spese mediche. E di giudizio.

Sagamore. E al trasporto all'ospedale, suppongo.

Adriano. No: ci sono andato con la sua automobile. Ma, adesso che me lo ricorda, ho dato una mancia al mecca­nico. Non bisogna fraintendermi. Non è il danaro. Ma non voglio farmi picchiare da una donna. È un punto d'onore, di rispetto per me stesso.

Sagamore. Sì; ma come arriva a quella cifra? Mi spieghi perché il suo onore e il rispetto che ha di se stesso val­gono duemilacinquecento sterline e non duemilacinque­cento milioni.

Adriano. Mio fratello ha preso duemilacinquecento ster­line dalla compagnia ferroviaria quando il respingente di un locomotore lo ha investito sulla piattaforma a Paddington. Io non ammetto che Epifania mi risarcisca con una cifra inferiore. È stata un'aggressione non provocata, brutale e vigliacca.

Sagamore. È sicuro di non averla provocata affatto? Non credo che il tribunale riesca a bere questa fandonia senza un pizzico di sale.

Adriano. Le ho detto e ripetuto mille volte che non v'è stata alcuna provocazione. Ma la commozione cerebrale mi ha totalmente privato del ricordo di quanto è avve­nuto immediatamente prima dell'aggressione: io ram­mento soltanto una normalissima conversazione a pro­posito della ricchezza di suo padre.

Sagamore. Peggio per lei, caro Blenderbland. In questo modo la signora Fitzfassenden può accusarla di tutto quanto le pare. E badi bene: non v'è uomo che possa ottenere un risarcimento danni da un tribunale britannico se non si presenta davanti al giudice come individuo per­fettamente morale.

Adriano. Secondo lei non sono un individuo perfettamen­te morale?

Sagamore. Ionon dico questo; ma, se lei darà corso alla querela, lo dirà al difensore della signora Fitzfassenden.

Adriano. Non è vero! Il tribunale dovrebbe credere che fos­simo amanti in forza di una caviglia slogata, di un gi­nocchio lussato e di un bernoccolo più grosso d'un uovo di struzzo.

Sagamore. Le prove migliori sono contro la sua tesi. Sol­tanto gli amanti hanno litigi da amanti. E che cos'accade se l'accusata sostiene la legittima difesa contro un'aggres­sione criminale?

Adriano. Non oserebbe mai giurare una menzogna così grande.

Sagamore. Come fa a sapere che è una menzogna? Lei non sa che cos'è accaduto immediatamente prima dell'aggres­sione. Lei ha avuto la commozione cerebrale.

Adriano. Si: dopo l'aggressione.

Sagamore. Ma la commozione cerebrale l'ha privato del ricordo di quanto è avvenuto prima dell'aggressione. Co­me può sapere che cos'ha fatto in quel momento?

Adriano. Ma insomma: lei è l'avvocato mio o della signo­ra Fitzfassenden?

Sagamore. Mi sembra che il destino mi abbia fatto avvo­cato di tutti i protagonisti di questa faccenda. Se sarò co­stretto a restituire il mandato a uno di loro, lo restituirò a lei, signor Blenderbland. Come posso permettermi il lusso di rinunciare a una cliente con quel reddito e quel carattere? Le sue sfuriate valgono per il suo avvocato non meno di due o tremila sterline all'anno.

Adriano. Benissimo, Sagamore. Lei vede in che stato sono ridotto: lei sa che il diritto e la giustizia sono dalla parte mia. Non me ne dimenticherò.

Il direttore entra,  mostrandosi molto preoccupato.

Il direttore (ad Alastair) Sono veramente desolato, si­gnore. La signora Fitzfassenden è arrivata adesso col me­dico egiziano. Proprio non l'aspettavo.

Epifania (piombando nella stanza e rivolgendosi furibon­da al direttore) Lei ha permesso che mio marito condu­cesse nel mio albergo una donna e la denunciasse col mio nome. La licenzio. (È dietro il divano e non vede Adriano. Sagamore si alza).

Il direttore. Mi scusi, signora: io non sapevo che il si­gnore fosse suo marito. Comunque, lei ha sempre ragio­ne. Desidera che me ne vada subito o che rimanga fino a quando mi avrà sostituito?

Epifania.  Io non desidero affatto che lei se ne vada: la rias­sumo. Li butti fuori tutti e due, all'istante.

Alastair. Ah-ha-ha!

Sagamore. Il suo direttore non può buttar fuori suo mari­to: ma invece, per esattezza, suo marito può buttarci fuo­ri tutti. Quanto alla signorina Smith, questo è un alber­go; ed essa ha il diritto di rimanere qui, proprio come ce l'ha lei e ce l'ho io.

Epifania. Se sarà necessario, darò fuoco all'albergo. (Vede Adriano). Salve! Ma guarda! C'è anche Adriano! Che hai alla testa? E quei bastoni a che cosa servono? (Al direttore) Mandi subito qui il dottore. (Ad Adriano) Ti sei fatto male?

Il direttore corre via, felice di sfuggire alla mischia.

Adriano. Mi son fatto male! Mi son fatto male!!

Epifania. È stato investito?

Adriano. Questa donna mi ha quasi ammazzato; e adesso mi chiede se mi sono fatto male! Son ruzzolato giù per tutte le scale. Mi sono slogato una caviglia. Mi sono lus­sato un ginocchio. Mi sono fratturato la tibia. Mi sono contuso la spina dorsale. Ho dovuto fare un'offerta a fa­vore dell'ospedale della Contea, dove mi ha accompa­gnato il suo meccanico. Sono dovuto andare in una clinica privata: tredici sterline la settimana. Ho dovuto far venire tre chirurgi primari da Londra; e nessuno dei tre sapeva curare questo ginocchio lussato; volevano spaccarlo per vedere che cosa gli era accaduto. Son dovuto andare da un ortopedico che ha preteso cinquantaquattro sterline per ingessarlo.

Epifania. Bravo, e non potevi scendere un gradino per volta? Eri ubriaco?

Adriano (senza fiato) Ero...

Sagamore (intervenendo rapidamente) Signora Fitzfassen­den, il signor Blenderbland dichiara che durante il loro ultimo incontro ella si è resa colpevole di queste lesioni.

Epifania. Io? Sono forse un campione di pugilato? O un facchino?

Adriano. L'uno e l'altro.

Sagamore. Lei nega di averlo aggredito?

Epifania. Certo che lo nego. Non ho mai udito niente di più mostruoso. La verità è che egli ha insultato volgar­mente mio padre, senza la più piccola provocazione, pro­prio nel momento in cui avevo tutte le ragioni per pre­tendere da lui il colmo della tenerezza. Il sangue m'è sa­lito alla testa: e poi ricordo soltanto che mi sono tro­vata distesa sulla tavola, tremante, morente. Il medico che mi ha soccorso può dire in che condizioni ero ridotta.

Adriano. A me non interessa sapere in che condizioni eri ridotta tu. In che condizioni ero ridotto io, piuttosto, quando sono stato soccorso dal tuo meccanico?

Sagamore. Dunque nessuno di loro ha la più piccola idea di come sia finito l'incidente.

Adriano. Io ho un certificato medico.

Epifania. Anch'io.

Adriano. Va bene, vedremo. Io insisto nella querela.

Epifania. Che querela?

Sagamore. Il signor Blenderbland l'ha querelata.

Epifania. Querelata! Benissimo; lei conosce la mia norma inderogabile. Combattere l'avversario fino all'ultimo san­gue, qualsiasi cosa costi. Lo porti anche alla Camera dei Lord, se occorre. Vedremo quale dei due portafogli reg­gerà più a lungo. Io non ammetto di essere ricattata.

Adriano. Credi che il danaro di tuo padre ti permetta di infischiarti della legge?

Epifania (avvampando) Daccapo!

Gli si lancia addosso. Alastair la afferra da dietro e le fa fare una piroetta lanciandola verso Sagamore; poi si mette di guardia tra lei e il divano, tenendo il pugno alzato in segno di ammonimento.

Alastair. Basta, basta, basta! Non ricominciamo. Toko, ragazza mia, toko.

Sagamore. Toko! Che vuol dire toko?

Alastair. Lei lo sa. Toko è una medicina infallibile per calmare i nervi. Un pugno al plesso solare e un giorno di letto: ecco che cos'è toko.

Epifania. Sagamore, lei m'è testimone del terrore che pro­vo di fronte alla brutale violenza di mio marito. Egli è più forte di me: può picchiarmi, torturarmi, ammazzarmi. È l'estremo argomento della più bassa natura contro la più alta. La mia innocenza è inerme. Agisca nel modo peggiore. (Si siede, con grande dignità, nella poltrona di Sagamore).

Alastair. Tutti salvi, signore e signori. (Riprende il suo giornale illustrato e va a leggerlo sul più distante tavo­lino da tè, davanti al quale si siede con grande calma, come se niente fosse).

Adriano (a Epifania) Adesso sai quello che ho provato io. Ti sta bene.

Epifania. Bravo, vai avanti. Insultami. Minacciami. Ricat­tami. Ora puoi farlo impunemente.

Sagamore (dietro alla poltrona di lei) Non la prenda così, signora Fitzfassenden. Non si tratta di ricattarla o d'in-sultarla. Ma io voglio chiarire la faccenda delle lesioni del signor Blenderbland prima di intavolare il problema matrimoniale.

Epifania. Non voglio più sentir parlare del signor Blen­derbland e delle sue ridicole lesioni.

Sagamore. Cerchi di essere ragionevole, signora Fitzfassen­den. Come possiamo discutere il risarcimento dovuto al signor Blenderbland senza parlare delle lesioni?

Epifania. Nessun risarcimento è dovuto al signor Blender­bland. Egli ha avuto quel che si è meritato, qualsiasi cosa fosse.

Sagamore. Ma le sporgerà querela.

Epifania. La sporga lei prima di lui.

Sagamore. Accusandolo di che cosa?

Epifania. Di quello che vuole; ma non mi secchi più. Pre­tenda ventimila sterline di danni. Le ho già detto che non voglio essere ricattata.

Adriano. Neanche io. Ho diritto a un risarcimento e in­tendo averlo.

Sagamore (viene tra i due) Calma! calma! per favore. Io non consiglio né all'uno né all'altra di ricorrere alla leg­ge; ma le assicuro, signora Fitzfassenden, che il signor Blenderbland ha diritto a un risarcimento. Lei se lo può permettere.

Epifania. Caro Sagamore, una donna ricca come me non può permettersi proprio nulla. Io devo lottare per difen­dere dal primo all'ultimo soldo che posseggo. Mendican­ti, ricattatori, scrocconi, enti benefici, benemeriti al va­lore civile, cause politiche, leghe, confraternite e congre­gazioni, chiese e cappelle, istituzioni di ogni genere pos­sibile immaginabile si lambiccano il cervello dalla mat­tina alla sera per cercar di farmi morire dissanguata. Ba­sta che molli per un attimo, che ceda un centesimo per­ché a capo d'un mese io sia sul lastrico. Tutti gli anni verso cinque sterline alla Lega per la Difesa del Contri­buente; ma niente di più: neanche un soldo di più. Lei deve sempre attenersi alle istruzioni ricevute: prevenire ogni azione, bloccare ogni richiesta di risarcimento con una controrichiesta dieci volte superiore. Non ho altro modo per poter scrivere a piene lettere sul cielo "Indie­tro, borsaioli!".

Sagamore. Creda, signor Blenderbland, è inutile. Lei deve ritirare la sua minaccia di querela.

Adriano. Non la ritiro affatto.

Sagamore. La ritirerà. Dovrà ritirarla. Signora Fitzfassen­den: il signore non può far niente contro lei. Ma lasci che mi appelli alla sua misericordia.

Epifania (impaziente) Basta, abbiamo perso troppo tem­po; io ho affari assai più importanti da sistemare. Gli dia un biglietto da dieci sterline, così la farà finita.

Adriano. Dieci sterline!!!

Sagamore (con rimostranza) Ma via, signora Fitzfassen­den!

Epifania. Sì: dieci sterline. Nessuno rifiuta un biglietto da dieci sterline quando se lo sente scricchiolare sotto al naso.

Sagamore. Ma ne vuole duemilacinquecento.

Epifania (alzandosi stupefatta) Duerni... (Ansima).

Adriano. Non un soldo meno.

Epifania (va oltre Sagamore, fino al divano) Adriano, fi­glio mio, ti stimavo meno di quello che vali. Hai una faccia tosta, una voracità, un'ingordigia, una caparbia che si impongono al mio rispetto. Io ho scaraventato giù dal­le scale un signore mezzo rammollito; il mio meccanico ha raccolto sullo stoino un furbacchione di tre cotte. Adriano (furibondo) Adesso ne voglio cinquemila; ha ca­pito, Sagamore?

Sagamore. La prego! la prego! Stia calmo.

Adriano. Stia calmo lei, piuttosto. L'ha forse azzoppato per la vita? Le ha fatto forse crescere un bernoccolo sulla te­sta? Le ha forse dato del furbacchione?

Sagamore. No: ma potrebbe farlo da un momento all'altro.

Epifania (buttandogli le braccia al collo con grida di gioia) Ha-ha!  Ha-ha!  Sagamore mio! Tesoro caro! Vuole che gli dia le cinquemila sterline a patto che fra sei mesi le trasformi in un milione?

Adriano. Voglio le cinquemila sterline per farne quello

che mi pare e piace. Senza condizioni.

Sagamore (liberandosi cortesemente dall'abbraccio di Epi­fania) Signor Blenderbland: è un errore presentarsi in tribunale nella parte del furbacchione. È un modo per mostrarsi ai giurati nella giusta luce fin dal primo mo­mento. È già molto difficile che un querelale riesca a farsi rispettare nella parte dell'uomo che ne ha buscate da una donna. Se la signora Fitzfassenden le avesse tirato una coltellata o una revolverata o l'avesse avvelenata, sarebbe stato facilissimo: la sua dignità non sarebbe stata compromessa. Ma la signora Fitzfassenden è molto abile. Conosce bene i privilegi del suo sesso e non li trascura neanche di un capello. Verrebbe in tribunale splendida­mente vestita e bellissima. Non v'è donna che sappia es­sere più gran dama e più femminile di lei, quando è il momento di recitare la parte della perfetta signora. Mol­to prima che noi si riesca a far discutere la causa, il ber­noccolo che ha sulla testa sarà sparito; il suo osso rotto si sarà saldato; e le sue guance avranno ripreso colore. A meno che provochi la signora Fitzfassenden e possa farsi

assalire di nuovo il giorno prima del processo - ed essa è molto troppo furba per cascarci - lei ha una probabi­lità su un milione di spuntarla.

Alastair (alzandosi e venendo avanti dal lato opposto del­la stanza) È proprio così, Adriano. Non hai una sola pro­babilità di cavartela. La prossima volta che te la vedi venire incontro, tuffati e sferrale un bel diritto. È la sola soddisfazione che puoi prenderti. (Si siede vicino a Pa­trizia, alla destra di lei).

Patrizia. È vero, signor Blenderbland: Alastair ha ragio­ne. Glielo chieda con garbo, e forse le pagherà le spese.

Adriano (sitira su a sedere, si stringe la testa fra le mani, scosso, quasi lacrimoso) Dunque, non c'è giustizia per un uomo che deve difendersi da una donna?

Sagamore (gli si siede accanto, per consolarlo) Nessuna, mi creda. E tanto meno quando si ha a che fare con una miliardaria.

Epifania. E, secondo voi, quale giustizia v'è per una mi­liardaria?

Sagamore. In tribunale...

Epifania. Lasci andare il tribunale: è un luogo in cui v'è poca giustizia per chiunque. I miei miliardi sono, loro stessi, un'ingiustizia palese. Io parlo della giustizia divina.

Alastair. Oh, cielo! Adesso ci siamo. (Mette volutamente un braccio attorno alla vita dì Patrizia).

Epifania. Alastair, come puoi beffarti di me? Ti pare giu­sto che io, siccome sono una miliardaria, non possa avere mio marito, non possa neanche avere un amante, possa avere soltanto il mio danaro? Eccoti lì, davanti ai miei occhi, a crogiolarti all'ombra di quell'insulsa piccola nul­lità che non ha neanche di che pagarsi le calze; e tu sei felice, e lei è felice. (Si rivolge verso Adriano) Guardalo lì quel mucchio di panni su due bastoni. Che cosa con­tiene?...

Adriano (schiantato) Lasciami stare, te ne prego.

Epifania. ... Qualcosa che una volta somigliava a un uomo, qualcosa che si divertiva a prestarmi dei biglietti da cin­que sterline e che non mi chiedeva mai di restituirglieli. Perché? Per tenerezza? Per amore? No: lo sfizio del po­veraccio che presta danaro a una miliardaria. Nel mio divino furore l'ho fracassato come un bambino fracassa un giocattolo che l'ha deluso; e quando dai suoi rottami è venuto fuori il suo vero io, ho scoperto che per lui non ero una donna, ma un conto in banca con un buon cuoco.

Patrizia. Tutto questo è molto bello, carina mia; ma la verità è che nessuno può vivere con lei.

Epifania. E che chiunque può vivere con lei. E che, a quel che pare, lei può vivere con chiunque.

Alastair. Quel che dice Calzetta è Vangelo. Nessuno po­trebbe vivere con te.

Epifania. Ma perché? Perché? Perché?

Sagamore. Sia ragionevole, signora Fitzfassenden. Si può vivere con un uragano? con un terremoto? con una va­langa?

Epifania. Sì. Migliaia di persone vivono sulle pendici dei vulcani, sulle piste delle valanghe, su terre appena scon­volte dal terremoto. Ma con una miliardaria che può af­frontare il destino e giostrare a suo piacimento il potere che le dà il danaro, no. Va bene, sia. Rimarrò nella mia casa solitaria, sarò me stessa, e ammucchierò miliardi fino al giorno in cui troverò un uomo capace di essere con me come Alastair è con Mezzacalzetta.

Patrizia. Spero non dovrà aspettare troppo a lungo.

Epifania. Io non aspetto mai. Io proseguo; e quando ca­pito di fronte alle cose di cui ho bisogno, le afferro. Ho afferrato il suo Alastair. Ora vedo che non è adatto a me: mi picchia....

Alastair. Per legittima difesa. Non ho mai alzato la mano su te, se non per legittima difesa.

Epifania. Sì: tu sei come le grandi Potenze europee: ti batti solo per legittima difesa. Ma tu pesi quindici chili più di me e io non so avere la prontezza di combattimento che hai tu. Non sei adatto a me. Ti butto alla vorace Mezzacalzetta: puoi coprirla di pugni fino alla totale sod­disfazione del tuo cuore. Sagamore: faccia le pratiche per il divorzio. Crudeltà e adulterio.

Patrizia. Non mi piace: non è leale nei confronti di Ala­stair. Perché deve essere lei a divorziare da lui e non lui da lei?

Epifania. Sagamore: quereli Patrizia Smith per alienazio­ne dell'affetto di mio marito. Danni: ventimila sterline.

Patrizia. Oh! È possibile far questo, signor Sagamore?

Sagamore. Temo di si, signorina Smith. Possibilissimo.

Patrizia. Ebbene, il mio caro vecchio genitore diceva sem­pre che in tribunale c'è soltanto un modo per battere le persone che hanno danaro illimitato; e cioè non avendo affatto danaro. Lei non può prendere ventimila sterline da me. Dica pure che è vanità; ma a me fa piuttosto pia­cere far sapere al mondo che sono stata capace di portar via l'uomo più buono e più affettuoso d'Inghilterra dal­la donna più ricca.

Epifania. Accidenti al suo caro vecchio genitore!

Alastair (ride fragorosamente) Ha-ha! Piglia e porta a casa, Eppy. (Bacia Patrizia).

Sagamore (sorridendo) Ho paura, signora Fitzfassenden, che questa risata dia ragione al vecchio signor Smith. Di fronte al nulla, anche il re perde i diritti.

Epifania. Basta, ne ho abbastanza. Non voglio che la mia vita sia trascinata in questi abissi di volgarità dove per me l'aria è irrespirabile. Vivrò in totale solitudine e mi serberò virtuosa fino a quando avrò trovato l'uomo adat­to, l'uomo capace di stare con me sulle più alte vette senza mai perdere la testa, il compagno che il cielo mi ha creato. In qualche posto deve pur essere.

Il medico (appare sulla porta) Il direttore m'ha detto di venire qui. Chi mi desidera?

Epifania. Io. Venga qua. (Gli tende una mano, imperiosa).

Il medico (avvicinandosi per sentirle il polso) La pressione sanguigna non va bene? (Sbalordito) Uuuh! Non ho mai sentito un polso come, questo. Batte con la forza e la pre­cisione di un martello elettrico.

Epifania. È colpa mia, forse?

Il medico. No. È il volere di Allah. Tutte le nostre pulsa­zioni dipendono dal volere di Allah.

Alastair. Scusi tanto, dottore, ma qua non attacca. Noi non crediamo in Allah.

Il medico. Allah è impassibile di fronte alla sua incredu­lità, amico mio. Il polso seguita a battere, lento, forte, sicuro. (A Epifania) Lei è una donna terribile; ma io amo il suo polso. Non ne ho mai sentito uno uguale.

Patrizia. To', senti questa! Ama il suo polso.

Il medico. Iosono medico. Le donne che pensa lei non sono per me che un cumulo di malanni. Ma la vita! il polso! è il battito del cuore di Allah, salvo in chi non ha né maestà né potenza. (Lascia cadere la mano di Epi­fania).

Epifania. Il mio polso non cambia mai: ecco l'amore che bramo. Lo sposerò. Sagamore: appena si sarà liberato di Alastair prepari le carte per il matrimonio.

Il medico. Non è possibile. Siamo legati ai nostri giura­menti.

Epifania. Non ho forse superato la prova imposta da sua madre? Le farò avere il preciso bilancio della mia im­presa. Nella prima mezz'ora che ho dedicato alla ricerca di un lavoro ho imparato che, per vivere, una donna sola ha bisogno di cinque scellini la settimana. Una settimana non era ancora trascorsa che già avevo di che mantenermi per cento anni. Ho guadagnato onestamente e legittima­mente. Ho spiegato in che modo ci sono riuscita.

Il medico. Non così voleva Allah, il Misericordioso, il Pie­toso. Se lei avesse aggiunto un centesimo alla paga oraria delle donne che ha sfruttato, la sua iniqua impresa le sa­rebbe crollata sulla testa. Lei l'ha venduta a quel signor Superfluo esigendo da lui fino all'ultimo soldo dei suoi ri­sparmi; e le donne sono rimaste schiave a una piastra all'ora.

Epifania. Non si può mutare il prezzo corrente della mano d'opera: non lo può mutare neanche Allah in persona. Ma io sono entrata in questo albergo come sguattera, co­me la più maldestra sguattera che mai abbia sfasciato un servizio di piatti. Adesso quest'albergo è di mia proprie­tà; e qua non si tratta di mano d'opera e di paghe da fame.

Il medico. L'albergo fa un'ottima figura sulle cartoline; e le paghe del suo personale farebbero la fortuna di qualsiasi lavoratore del Nilo. Ma che cos'ha fatto dei vecchi per cui quest'albergo era la naturale dimora? del vec­chietto colpito dalla paralisi? della vecchietta impazzita? dei poveri reietti gettati in un ricovero di mendicità? Non le pare di aver approfittato della povertà dei poveri? Posso io, servo di Allah, vivere su questi profitti? Posso io, il guaritore, il soccorritore, il custode della vita e il consigliere della salute, unirmi a chi sfrutta la miseria?

Epifania. Ioho da prendere il mondo come lo trovo.

Il medico. La collera di Allah si accanisce su coloro che lasciano il mondo senza migliorarlo.

Epifania. Iocredo che Allah ami coloro che fanno quat­trini.

Sagamore. Le prove lo confermano, questo è evidente.

Il medico. Non sono del suo parere. Io vedo che la ric­chezza è maledizione; che la povertà è maledizione; sol­tanto al servizio d'Allah v'è giustizia, dirittura, felicità. Ma tutti questi discorsi sono oziosi. Questa signora ha facilmente rispettato la condizione imposta da mia ma­dre. Mentre io non ho rispettato la condizione imposta dal padre della signora.

Epifania. Non si preoccupi. I sei mesi non sono ancora trascorsi. Le farò vedere io come si fa a trasformare in cinquantamila le centocinquanta sterline che le ho dato.

Il medico. È impossibile. Non ci sono più.

Epifania. Oh, non può averle spese tutte: lei che vive co­me un topolino. Deve essergliene rimasta qualcuna.

Il medico. Non ho più un penny. Né una piastra. Allah...

Epifania. Oh, basta con Allah! Che cosa ne ha fatto?

Il medico. Allah non è mai di troppo. Il pomeriggio in cui lei mi ha lasciato per andarsi a guadagnare la vita, ho invocato il Misericordioso, il Pietoso perché mi rive­lasse che lei non era uno dei colpi della sua inesauribile ironia. Poi mi sono seduto a leggere un giornale. Oh pro­digio! i miei occhi sono caduti su una rubrica intitolata Testamenti e Lasciti. Ho letto un nome che non posso ri­cordare: La signora Tal dei Tali di Clapham Park, centoventiduemila sterline. Non aveva, in tutta la vita, fatto altro che vivere in casa sua; ma aveva lasciato centoventiduemila sterline. Dopo il suo, c'era il nome del maestro che aveva trasformato la mia vita e che, iniziandomi al mondo della scienza, mi aveva dato una nuova anima. Ero stato suo assistente per quattro anni. Egli fabbricava da solo gli apparecchi per i suoi esperimenti; un giorno si era trovato di fronte alla necessità di scoprire un fila­mento di metallo capace di resistere alla temperatura che scioglieva il platino come fosse stata ceralacca.

Epifania. Mi compri quel brevetto, se già non ci hanno messo le mani sopra.

Il medico. Non ha mai avuto brevetti. Sosteneva che la scienza è proprietà comune. E non aveva né tempo né da­naro da perdere in uffici per brevetti. La sua scoperta ha fruttato milioni a persone che s'infischiano della scienza e si preoccupano soltanto del danaro. Ha lasciato quat­trocento sterline e una vedova: la brava donna che per me era stata come una seconda madre. Avrebbe dovuto vivere tutt'al più con uno scellino al giorno: neanche una piastra all'ora.

Epifania. Questo capita a chi sposa un sognatore incompe­tente. Ha intenzione di elemosinare per lei? Badi che io ne ho abbastanza di vedove indigenti. Diventerei mendi­cante anch'io, se le prendessi tutte sulle mie spalle.

Il medico. Non abbia paura. Il Misericordioso, il Pietoso ha ascoltato la preghiera della vedova. Stia a sentire. Una volta ho guarito un Primo Ministro che si credeva am­malato. Sono andato da lui e gli ho detto che per volere di Allah quella vedova doveva ricevere una pensione a vita. L'ha ottenuta: cento sterline all'anno. Sono andato alla grande Compagnia Metallurgica che sfrutta quella scoperta e ho detto che la miseria di quella vedova era uno scandalo che gridava vendetta di fronte ad Allah. Sono ricchi e generosi: hanno fatto un'emissione straor­dinaria di titoli privilegiati, come quelli dei soci fondato­ri, che le frutteranno trecento sterline all'anno. Dicevano che era come farla entrare dal portone d'onore. Possano le sue preghiere riversare le grazie di Lui su tutti loro, sal­vo su quelli in cui non v'è né maestà né potenza! Ma c'è voluto del tempo. La malattia, l'infermiera, il funera­le, lo sgombero del laboratorio, il trasloco in un alloggio meno costoso l'avevano lasciata senza un centesimo, per quanto né medici né avvocati avessero chiesto un soldo e i fornitori fossero pazienti; infatti lo spirito di Allah operava su questi con maggior forza che sull'erario d'Inghilterra che pretendeva la sua piccola tassa di successio­ne. Tra la morte e la riscossione delle pensioni si era prodotto un vuoto di centocinquanta sterline esatte. Colui che è giusto e puntuale forniva quella somma per mano del suo meccanico e per mano mia. Il mio cuore se ne rallegrava come mai danaro lo aveva rallegrato. Ma in­vece di presentarmi a lei con cinquantamila sterline sono in arretrato col conto del suo albergo che mi fornisce il pane quotidiano e prevedo che da un giorno all'altro il suo direttore m'imporrà di liquidare questa pendenza.

Alastair. Beh, amico mio, non credo che lei abbia fatto molto per sé, ma ha fatto moltissimo per la vedova. E s'è salvato da Eppy. Non la sposerà mai, se ha le tasche vuote.

Epifania. E perché, se è lecito? Quella scoperta deve aver fruttato cinquantamila sterline moltiplicate per dieci. Il dottore, mettendo quel danaro a disposizione delle spese vive della vedova, ha fatto quel che può chiamarsi un in­vestimento retroattivo sulla scoperta. E ha dimostrato una eccezionale abilità negli affari: non è vero, Sagamore?

Sagamore. Indubbiamente. Ha smantellato il Primo Mini­stro. Ha smantellato la Compagnia Imperiale Metallur­gica. Ha sistemato gli affari della vedova in modo per­fetto.

Il medico. Ma non gli affari miei. Sono in debito per il mio vitto.

Epifania. Beh, se è per questo, anche io sono in debito per il mio vitto. Proprio stamani i miei fornitori mi hanno fatto avere una lettera per comunicarmi che da due anni non do loro un soldo e che se non verserò loro un cospi­cuo acconto saranno costretti a ricorrere al sequestro.

Il medico. Che cosa significa?

Epifania. Che mi venderanno i mobili.

Il medico. Lei non può vendere i miei, purtroppo. Non ne ho.

Adriano. Se ha un bastone, glielo venderà. È la donna più tirchia che ci sia in Inghilterra.

Epifania. È proprio per questo che sono anche la più ricca. Sagamore, ho deciso: sposerò il dottore. Si accerti del nome che porta e faccia le pratiche necessarie.

Adriano. Stia attento, dottore. Tradisce il marito volendo sposare lei. Ha civettato con me: mi ha portato sul fiume e mi ha fatto credere che dovevo essere il successore di Alastair, quando ancora non aveva veduto lei. Ecco co­me m'ha ridotto! Al primo uomo che le colpirà la fan­tasia, farà altrettanto con lei.

Il medico (a Epifania) Che cos'ha da obbiettare?

Epifania. In questo mondo bisogna saper approfittare delle occasioni. Questo deluso donnaiolo cerca di spaven­tarla con la mia infedeltà. Non è mai stato sposato: io si. E posso dirle che nei matrimoni più felici non passa giorno in cui non vi siano almeno mille momenti di in­fedeltà. Si comincia col credere di aver un solo marito: poi ci si accorge di averne una diecina. V'è una creatura che si odia e si disprezza, alla quale si è legati per la vita; prima che si sia preso il caffè e latte quel cretino dice una cosa carina e diventa l'uomo che si ammira e si ama; tra questi due estremi vi sono mille stadi in ognuno dei quali prevale un uomo o una donna assolutamente diffe­rente. La moglie è per un uomo tutte le donne: è tutto ciò che esiste di più diabolico: la spina nel cuore, la me­gera gelosa, il poliziotto che spia tutti i movimenti, quel­la che brontola, che sgrida, che infastidisce. Egli non ha che da dirle una tenera bugia ed ella è la sua consolazio­ne, il suo aiuto, nel migliore dei casi il suo più grande tesoro, nel peggiore la sua bimba insidiosa ma adorata. Tutte le mogli sono tutte queste donne in una donna so­la; tutti i mariti sono tutti questi uomini in un uomo solo. Che cosa ne sanno, i celibi, dell'illimitato pericolo di questa straziante e sempre rinnovata vita avventurosa che noi chiamiamo matrimonio? La affronti come affronte­rebbe un'operazione rischiosa: non ne ha eseguite delle centinaia?

Il medico. Certo non v'è spirito né giudizio pari a quelli della donna decisa ad accalappiare il compagno scelto per lei da Allah. Eppure sto molto bene così. Perché dovrei cambiare? Io sarò molto felice come vecchio scapolo.

Epifania (sbattendogli il polso di fronte al viso) Da vec­chio scapolo potrà sentirmi il polso tutti i giorni?

Il medico (prendendole il polso e tirando fuori, meccani­camente, l'orologio) Ah! avevo dimenticato il polso. Uno, due, tre: è irresistibile: di polsi come questi se ne tro­vano uno su centomila. Io lo amo: non posso rinunciarvi.

Adriano. Se ne pentirà fino all'ultimo giorno della vita.

Epifania. Sagamore: lei sa quello che deve fare.

Sagamore (inchinandosi)!

Patrizia. Rallegramenti, mia cara.                              

Ecco come si conclude la storia nelle nazioni capitaliste. In Russia, tuttavia, e nelle nazioni di tendenza comu­nista, il pubblico chiede che la favola abbia una moraletta edificante. Di conseguenza, quando il medico, sentendo il polso di Epifania, dichiara di amarlo e di non poterne fare a meno, Adriano prosegue la conver­sazione così:

Adriano. Stia attento. La sua mano è maledetta. È la mano di Mida: trasforma in oro tutto ciò che tocca.

Il medico. La mia mano è anche più profondamente ma­ledetta. L'oro ne vola via. Perché sono io sempre pove­ro? A me non piace essere povero.

Epifania. Perché sono io sempre ricca? A me non piace essere ricca.

Alastair. è meglio che andiate tutti e due in Russia, dove non esistono né ricchi né poveri.

Epifania. Perché no? Io adesso non compro che titoli russi.

Adriano. I russi ti abbatterebbero con una revolverata come abbatterebbero un cane idrofobo. Sei un'ingorda capita­lista.

Epifania. Io sono capitalista qui; ma in Russia sarò una la-voratrice. E che lavoratrice! Qua il mio cervello è spreca­to: la ricchezza che esso produce è sperperata su degli oziosi e sui loro parassiti, mentre la povertà, il lezzo, le malattie, la miseria e la schiavitù mi circondano come un mare tenebroso nel quale potrei inabissarmi da un mo­mento all'altro, se il mercato monetario cambiasse. La Russia ha bisogno di donne dalla mente direttiva come la mia. A Mosca non sarò una miliardaria; ma dopo sei mesi sarò nel Sovnarkom e prima della fine dell'anno nel Politbureau. Qua io non ho un potere effettivo, né una libertà effettiva, e nessuna sicurezza: potremmo tutti mo­rire in un ricovero di mendicità. In Russia io avrò piena autorità! e come potrò far valere i miei poteri naturali! godrò ciò che l'imperatrice Caterina non ha goduto mai. Giuro che prima del compiersi del primo ventennio del­la mia vita in Russia, tutti i neonati russi peseranno due chili e mezzo più di quanto pesino oggi e tutti gli uomi­ni e tutte le donne di Russia vivranno dieci anni più a lungo. Io non sarò imperatrice; e forse mi ammazzerò di lavoro; ma fra mille anni la sacra Russia avrà nuovamen­te un santo patrono, e questo santo si chiamerà Santa Epi­fania.

Adriano. Che donna presuntuosa!

Sagamore. Temo che oggi in Russia non vi siano santi.

Il medico. Vi sono santi ovunque: è l'unica specie che non può essere estinta. I re, gli imperatori, i conquistatori, i pontefici e tutti gli altri idoli sono, prima o poi, spazzati via; e tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re non riusciranno mai a rimetterli in piedi; ma i santi regne­ranno in sempiterno nel tempio della falce e del martello. Però non dobbiamo andare in Russia, perché i Russi non hanno bisogno di noi: sono rimasti a casa loro e hanno salvato la loro anima. Non dovremmo noi rimanere a casa nostra e salvare la nostra anima? Perché non fare del­l'Impero britannico una Repubblica sovietica?

Epifania. Certamente; ma dobbiamo liquidare tutti i suoi abitanti adulti, e cominciare con i neonati. Il primo passo verso questa mèta è il matrimonio. Sagamore: faccia le pratiche necessarie.

Sagamore (inchinandosi)!

Patrizia. Rallegramenti, mia cara.

F I N E