La moglie del fornaio

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LA MOGLIE DEL FORNAIO

Titolo originale: La femme du boulanger

Commedia in tre atti

di JEAN GIONO

Versione italiana di Ivo Senesi

PERSONAGGI

IL FORNAIO

PEROTTE

IL BARONE AGENORE

AURELIA

IL CURATO

IL MAESTRO

IL PASTORE

UNA GIOVANE DONNA

LE TRE VECCHIE VESTITE DI NERO

LE TRE NIPOTI DEL BARONE

TRE UOMINI

UN UOMO E UNA DONNA CHE SI IN SEGUONO

La scena si svolge durante l'estate, in un villaggio e nelle foreste che lo circondano


ATTO PRIMO

La bottega del fornaio: da un lato il forno; poi tre lunghi gradini e, al di sopra di essi, dal lato op­posto, il banco di vendita del pane, con una grande bilancia a due piatti. Davanti al forno, la tavola sulla quale il fornaio e le moglie hanno preso il pasto di mezzogiorno.

(Il fornaio tiene la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra la tavola. La moglie cammina len­tamente come se disimpegnasse faccende casalinghe del tutto immaginarie).

Il Fornaio                      - Ho sonno. E tu non hai mangiato.

Aurelia                          - Ma sì.

Il Fornaio                      - Che cosa?

Aurelia                          - Un po' d'uva.

Il Fornaio                      - Un po' d'uva! E niente minestra, niente pietanza, niente pane. Dove vuoi andare a finire?

Aurblia                          - In nessun posto.

Il Fornaio                      - Ti senti male?

Aurelia                          - No.

 Il Fornaio                     - Hai gli occhi cerchiati, le gote rigate: hai pianto?

Aurelia                          - Ti dico che non ho niente.

Il Fornaio                      - Che cosa hai fatto tutta la mattina su in camera? Ti ho sentito frugare, scompigliare ogni cosa. Ho paura che tu sia malata.

Aurelia                          - Non sono malata.

Il Fornaio                      - Non mangi, dormi poco ; è facile capirlo. Vieni al forno dove fa caldo, vai in magazzino dove fa freddo. Ti buscherai una polmonite doppia.

Aurelia                          - Le malattie che tu m'inventi sono sempre doppie.

Il Fornaio                      - Eh, sì! cosa vuoi? certamente sono doppie: se ti ammali mi sento male anch'io. Ah, starei fresco, se tu fossi ammalata!

Aurelia                          - Sì, lo so; il magazzino!

Il Fornaio                      - Ma, no! Certo, anche il magazzino; ma ci sei anche tu. Ho sempre paura che ti prenda...

Aurelia                          - E chi vuoi che mi prenda?

Il Fornaio                      - Una malattia.

Aurelia                          - Una malattia? Non farebbe una gran preda...

Il Fornaio                      - Ebbene, che cosa ci vuole? Un rantolo, e poi tu muori.

Aurelia                          - Sì. E dopo?

Il Fornaio                      - Dopo, io resto solo.

Aurelia                          - Sì, ma io sono morta.

Il Fornaio                      - Ah, ti accomoderebbe d'esser morta! Non stai meglio così?!

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Allora sei malata.

Aurelia                          - Non sono ammalata; tutt'altro.

Il Fornaio                      - Tutt'altro?! Allora è buffo. Tu sei in troppo buona salute! È la troppa salute che ti impedisce di mangiare? È la troppa salute che ti impedisce di dormire? È la troppa salute che ti fa piangere sul guanciale quando credi che mi sia addormentato perché ho russato due o tre volte per fartelo credere!

Aueelia                          - Lasciami stare.

Il Fornaio                      - Sì, ti lascio stare, ma vorrei che tu te ne rendessi conto. Da qualche tempo nulla ti fa né sangue né grasso. Un giorno o l'altro cadrai come un sacco pieno di piombo. Tu non vuoi mai credermi, ma quel che ti occorre è di mangiare molto pane.

Aurelia                          - Ma se io non ho fame...

Il Fornaio                      - Di pane non si ha mai fame; sfor­zati un poco.

Aurelia                          - Sforzarsi per tutto!

Il Fornaio                      - Come, sforzarsi per tutto?

Aurelia                          - Lasciami. Lasciami. Lasciami.

Il Fornaio                      - Eh, me ne hai detto anche troppo,. figlio mio.

Aurelia                          - Nemmeno la quarta parte.

Il Fornaio                      - Ecco; è regolato come  la carta da musica; quando tu sei snervata io ho sonno. È una cosa terribile, ma è così. Da quando faccio una infornata di più la notte, appena ho mangiato, il sonno mi casca addosso. Il cibo m'addormenta.

Aurelia                          - Dormi.

Il Fornaio                      - È facile a dirsi. Ti vedo inquieta.

Aurelia                          - Non occuparti di me.

Il Fornaio                      - È facile a dirsi; allora di chi dovrei occuparmi?

Aurelia                          - Di te.

Il Fornaio                      - È facile a dirsi, ma io non desidero occuparmi di me.

Aurelia                          - Ebbene, vedi che quando non c'è il desiderio di una cosa, è facile a dirsi, ma è difficile a farsi. Io non ho desiderio di mangiare, io.

Il Fornaio                      - E di che cosa hai desiderio?

Aurelia                          - Di nulla.

Il Fornaio                      - Allora è difficile a dartelo.

Aurelia                          - lo non ti chiedo nulla.

Il Fornaio                      - È precisamente come dico io: difficile a dartelo.

Aurelia                          - Io non domando niente, a te.

Il Fornaio                      - Allora a chi vuoi domandarlo?

Aurelia                          - Questo riguarda me.

Il Fornaio                      - Riguarda te? Riguarda me! Hai il naso come quello di un gatto, sei pallida come la morte, hai gli occhi incavati, non hai più una goccia di sangue addosso: un colpo di vento ti por­terebbe via. E non domandi niente; vuoi sbro­gliarti da te. Vieni qui.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Aspetto, oppure saprò forzarti a venire.

Aurelia                          - Ancora forzare! Lo vedi: sempre forzare.

Il Fornaio                      - Che cosa?

Aurelia                          - Forzarmi a mangiare, forzarmi a venire; che cosa potrò fare a mio piacere? Tutto sommato, che cosa sono libera di fare, qui dentro?

Il Fornaio                      - Ma tutto. Quel che ti dico, è per il tuo bene.

Aurelia                          - Il bene forzato, ecco! Lo so io dov'è il mio bene. Lo so io sola, non ho bisogno di te.

Il Fornaio                      - Io guasto che cosa?

Aurelia                          - Non ti ho chiesto niente. Tu avevi finito di mangiare, ed io anche. Stavo sbarazzando la tavola. Hai cominciato te. Lasciami stare, Onorato; sii gentile e dormi. Tu hai bisogno di dormire, dormi.

Il Fornaio                      - Bisogno, sì, non lo nego; ma non è poi un bisogno terribile. Aspetta: io non ho detto niente per irritarti, figliola. Era per sapere se tu mi nascondi qualcosa. Ecco, si vorrebbe sapere che cosa. Non per curiosità, figliolina mia, tu mi capisci; ma per sapere se si potrebbe farci qualcosa.

Aurelia                          - Tu, niente.

Il Fornaio                      - E che cosa ne sai?

Aurelia                          - È sicuro: tu, niente.

Il Fornaio                      - E allora, chi? (Breve pausa) Per chi credi che io lavori? Di me, me ne infischio. Di che cosa ho bisogno, io? Di niente: una cipolla mi basta. Io lavoro per te. Le cose che fanno piacere a te, fanno più piacere a me che a te.

Aurelia                          - Sì, lo so, a condizione che sia un pia­cere anche per te.

Il Fornaio                      - Ma no, io non cerco...

Aurelia                          - Tu non cerchi, ma trovi. Bisogna che io stia con te: allora, lo so, sei contento. Tu osservi tutto. Alle volte, vedi, ho paura di provare un piacere - quando ne provo uno - perché so che sei il primo a prendermelo dalle mani, con i tuoi occhi.

Il Fornaio                      - È il piacere di vederti contenta, figliola.

Aurelia                          - No; è il piacere d'essere contento te; ti Conosco. Sei ostinato e tutto ciò che vuoi lo rag­giungi, Quando mi procuri un piacere è perché fa comodo a te.

Il Fornaio                      - Eppure, guarda: ho cercato di lavorare sempre di più. Non ho un minuto libero in tutta la giornata e la notte non ne ho molti: mi resta appena il tempo di toccare le lenzuola. Eppure il sonno mi piace! Se avessi voluto guadagnare molto denaro anche quand'ero scapolo, mi sarebbe stato facile. Ma, per me solo, tre soldi bastavano una settimana; non fumo, non gioco, non bevo mai. Che cosa dovrei farmene dei soldi? Ma ci sei tu...

Aurelia                          - C'ero anche prima che tu arrivassi. E se tu non fossi arrivato,, non mi sarebbe rimasto che di morire. Fu per me, per evitarmi di morire che mi girasti intorno per un anno, per due anni, per tre anni, finche di guerra stanca, ti dissi final­mente: ebbene, sì!

Il Fornaio                      - Mi rimproveri di...

Aurelia                          - Nulla. Né questo né il resto.

Il Fornaio                      - Quale resto? Forse quel che hai detto or ora. È vero, non ti diedi pace fintanto che non ti ebbi avuta. Ma il resto? Forse che questo paese non ti piace?

Aurelia                          - Sì.

Il Fornaio                      - Puoi dirlo liberamente; non è la Gioconda: quelle colline scure, le foreste, gli stagni... l'aria che puzza di pesce, di montone, di selvatico. E questo isolamento da tutto non è fatto per te che sei bella.

Aurelia                          - Sì.

Il Fornaio                      - Servire il pane sulla bilancia, riempire i sacchi dei pastori: è questo che non ti piace?

Aurelia                          - Si.

Il Fornaio                      - Io sono l'unico fornaio in più di cinquanta chilometri di raggio. Possiamo prendere una commessa.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Sì. Ho accettato di fare il pane anche per i pastori del barone. Riconosco di avere pensato soltanto a me. Non ho pensato che avresti dovuto restare in piedi tutte le sere per riempire i sacchi. Forse ti aiuta un poco, colui che mandano a prenderli?

Aurelia                          - Sì, mi aiuta.

Il Fornaio                      - Qual è? È quello spilungone che ha i capelli ricciuti? Tu dici che t'aiuta, ma cosa ti fa? In ogni modo, l'altra sera quando sono sceso, avevi il tuo solito mal di ventre.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Non dire bugie; avevi la bocca quadrata e piangevi. Credi che non ti abbia veduta? Credi di darmi ad intendere ciò che vuoi? Credi che ti basti di farmi quel tuo sorrisetto scialbo, come facesti l'altra sera? Io ci vedo chiaro. Non sono nato ieri. Se tu sentissi dire che il dottore deve venire da queste parti, fagli dire che venga in po' a visitarti.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Che cosa ci sarebbe di male, a far vedere il ventre al dottore? Non sono mica geloso! Almeno si saprebbe che cos'hai.

Aurelia                          - Non ho niente.

Il Fornaio                      - Tu non lo puoi sapere. E io che cosa posso farti? Sto qui a vederti soffrire. Ti do un « cachet » d'aspirina che ti calma per un po' di tempo ma che non può guarirti.

Aurelia                          - Io non ho niente; non piangevo affatto. Non occupartene.

Il Fornaio                      - Me ne rendo conto: qui non si sta troppo allegri. Vuoi che compri un piccolo giardino?

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Non perché tu debba coltivarlo... almeno che tu non lo voglia fare. Altrimenti, durante la giornata, troverò bene un momento di tempo per coltivarlo io.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Non mi affaticherà, sai. Ora sono mezzo addormentato, ma è perché resto seduto. Se mi muovessi, tutto andrebbe bene. Vuoi? Ti ci farò una bella aiuola di asteri.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Ebbene, sì, è vero? A conti fatti, un giardino non è enorme e presto deve venire a noia. Ma allora, ascolta, voglio dirti una cosa. Voglio andare a trovare Ovidio e voglio dirgli se mi presta la rete. E, se vuoi, domenica andremo a pescare.

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Perché? Di che cosa hai paura? Si porta la colazione con noi, si mangia seduti sulla erba, io farò il bagno, che ne ho bisogno... ho certe cosce nere!...

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Era per distrarti; lo so, me ne rendo conto, lo vedo bene: le colline ci circondano come il guscio di una lumaca. È naturale, abbiamo bisogno di uscire un po' fuori. Vuoi che compri un cavallo?

Aurelia                          - Che cosa hai detto? Ripetilo!

Il Fornaio                      - Che voglio comprare un cavallo.

Aurelia                          - Perché dici questo?

Il Fornaio                      - Per niente. Perché?

Aurelia                          - Un cavallo?

Il Fornaio                      - Sì, un cavallo; che cosa c'è di straordinario? Quando si è sempre rinchiusi, si pensa a un cavallo. Non vedi i pastori che cosa fanno coi loro cavalli? (Pausa) ...Eh! galoppano! Se hanno voglia di traversare la foresta, la traversano; se hanno voglia di raggiungere la pianura, la raggiun­gono. Se desiderano di andare al mare, ci vanno. Ben inteso, non è questo che voglio dire; io non voglio che tu monti in sella con le tue gambe; ma con un calessino... là, si andrebbe tutti e due a pas­seggiare comodamente seduti.

Aurelia                          - Taci!

Il Fornaio                      - Che cos'hai? È il cavallo che?

Aurelia                          - Taci!

Il Fornaio                      - Perché? Appena ho rammentato il cavallo, tu hai fatto un balzo. Che c'è? Ne hai paura?

Aurelia                          - Sì.

Il Fornaio                      - Da quando? Non me lo avevi mai detto.

Aurelia                          - Te lo dico ora.

Il Fornaio                      - Tu mi nascondi qualcosa.

Aurelia                          - Sì.

Il Fornaio                      - Hai torto. Hai torto, perché io sono qua per questo.

Aurelia                          - Per che cosa?

Il Fornaio                      - Per evitare che tu abbia paura. Mi domando che cosa può esserti accaduto.

Aurelia                          - Non domandarti niente.

Il Fornaio                      - Sono mezzo addormentato e me lo domando, ma quando sarò sveglio del tutto, non dubitare che lo saprò.

Aurelia                          - Come farai?

Il Fornaio                      - Domanderò.

Aurelia                          - Che cosa vuoi sapere?

Il Fornaio                      - Che cosa ti è accaduto.

Aurelia                          - Non mi è accaduto niente.

Il Fornaio                      - Ebbene saprò che non ti è accaduto niente, ma saprò. Vuoi dire che sono presentimenti?

Aurelia                          - Sì.

Il Fornaio                      - Allora è un altro affare. Vedi, con la mia aria addormentata ho finito col farti dire quel che volevo.

Aurelia                          - Che cosa ho detto?

Il Fornaio                      - Quel che volevo. È bene come pensavo io! È debolezza, mancanza di sangue; qui ci vuole un dottore. È, il tuo male di ventre: un presentimento di cavallo! Se fossi un domatore e, se ti avessi detto che stavo per comprare un leone, lo avrei compreso. Ma un cavallo, la bestia più dolce del mondo!

Aurelia                          - Non ridere.

Il Fornaio                      - lo non rido. Tu credi che io rida quando si tratta di te che non hai più nemmeno la forza di arrivare a mangiare il pane? Che cosa credi che sia un cavallo? Credi che cammini ritto su due zampe come un prefetto in feluca?

Aurelia                          - Non ridere, ti dico.

Il Fornaio                      - E io ti dico che non rido, ma tu hai il sangue che non ha più forza; mangia il pane. Ecco tutto. E allora vedrai che un cavallo è una cosa da nulla, e si lascia guidare come un montone. Quel che t'inganna, figlia mia, è la tua debolezza. Non hai più corpo, non hai più nulla, non hai più peso. E credi che tutte le cose siano più forti di te. Un cavallo! Con una parola lo fermi.

Aubelia                         - Ne ho dette, delle parole: ma lui non si ferma. Al contrario: più gliene dico e più viene avanti.

Il Fornaio                      - Perché quello non è un vero cavallo; è un cavallo che hai nella testa.

Aurelia                          - È uno vero. Ma se tu credi che io mi metta a dire parole che lo fermino, sbagli; io gli dico parole che lo aizzano.

Il Fornaio                      - Eh, sì, certamente deve essere così: ti piace di avere la testa come una gabbia. Vi è chi cerca di avere la testa calma, vi è chi darebbe tutto l'oro del mondo per avere la testa tranquilla: io, per esempio! Se ho qualcosa che mi dà fastidio, è presto fatto: mi arrangio.

Aurelia                          - A me non dà fastidio.

Il Fornaio                      - Ah, se trovi che sia piacevole avere un cavallo nella testa...

Aurelia                          - Sì. Non sono mai stata così felice.

Il Fornaio                      - Strana felicità!

Aurelia                          - Strana per te. Ma per me non c'è una felicità maggiore di quella.

Il Fornaio                      - Se quella felicità continuerà ancora un poco, non ti lascerà addosso né pelle né ossa: ti confonderemo con la tua ombra.

Aurelia                          - Sì, è una felicità strana. Non si sa nemmeno più se si cammina con i piedi in terra. Vi sono momenti in cui il piede manca di appoggio.

Il Fornaio                      - Strana felicità! Vedrai che finirà per sollevarti il cuore, vedrai.

Aurelia                          - Che cosa credi che mi faccia, il tuo pane di piombo?

Il Fornaio                      - Il mio pane di piombo! Il pane più leggero del mondo! Non ve n'è un altro come il mio.

Aurelia                          - Sì. Strana felicità, senza pane, senza niente, e cento volte migliore di tutte le altre.

Il Fornaio                      - Ah, buffa felicità! Un po' di vento, no?

Aurelia                          - - Un po' di vento! Povero Onorato! Un po' di vento! Un fruscio d'ali, e le mie ossa che gridano come allodole...!

Il Fornaio                      - Tu sei pazza! Ma che cos'è, quella strana felicità?

Aurelia                          - Niente. (Entrano le tre vecchie vestite di 'nero).

Le tre Vecchie              - Si disturba?

Aurelia                          - No. È un dormiveglia.

Le tre Vecchie              - Farebbe meglio a dormire del tutto.

Il Fornaio                      - È quel che sto per fare.

Le tre Vecchie              - Non ho mai conosciuto un uomo che puzzi di cipolla come quello là. Che cos'ha sulla testa? Guarda, piccina, ha la testa piena di croste.

Il Fornaio                      - È la crusca.

Le tre Vecchie              - E sul collo?  

Il Fornaio                      - È un neo.

 Le tre Vecchie             - Un melone, vuoi dire. Una zucca, sì. È grosso come un pugno!

Il Fornaio                      - Eccole là! E ne dicono! E parlano! E parlano! E voi credete di avere avuto uomini migliori di me? Niente affatto. Puzzavano come me. E le croste che avevano sulla testa, probabil­mente non erano di crusca come le mie. Questa è crusca, e scommetto che avete mangiato il mio pane due volte piuttosto che una.

Le tre Vecchie              - Ah, questo è vero!

Il Fornaio                      - Già, quando non vi costa più nulla, lo riconoscete.

Le tre Vecchie              - Come sono buffi gli uomini col loro pane! Noi donne lo sappiamo che ci date il pane. Non siamo sorde. Non avete bisogno di ripetercelo tutti i momenti. Lo sappiamo. Dov'è tra noi quella che non è la moglie del fornaio? E dopo...

Il Fornaio                      - E dopo, è pane dato.

Le tre Vecchie              - Il pane dato è una prigione. Il pane fa sangue e il sangue è un gran padrone.

Il Fornaio                      - A che serve esser vecchie?

Le tre Vecchie              - E cosa credi mai che siano, le vecchie? Sono antiche giovani.

Il Fornaio                      - Io ho ragione lo stesso. Se m'occupo delle vostre storie, non dormo. E se ora non dormo, chi farà il pane delle quattro?

Le Tre Vecchie             - Nessuno. Hai ragione. Dormi.

Il Fornaio                      - Ci vado. Ci siete a pie del muro?

Le tre Vecchie              - Ci siamo tutti. (Il fornaio esce).

Aurelia                          - Avete potuto rinnegare il pane dato, voi?

Le tre Vecchie              - No. - Sì. - Qualche volta.

Aurelia                          - Che tempo fa fuori?

Le tre Vecchie              - Bello. Sole.

Aurelia                          - Il villaggio?

Le tre Vecchie              - Dorme. La siesta.

Aurelia                          - Sapete dove sono i pastori?

Le tre Vecchie              - Tu lo sai.

Aurelia                          - Non hanno acceso un fuoco dalla parte di Janmegarde?

Le tre Vecchie              - No. Perché un fuoco in agosto?

Aurelia                          - Nemmeno una piccola fumata?

Le tre Vecchie              - No.

Aurelia                          - C'era nessuno sulla strada?

Le tre Vecchie              - Nessuno. Se tu vuoi andare a prendere un po' d'aria...

Aurelia                          - Non ho bisogno d'aria.

Le tre Vecchie              - Ti farà bene.

Aurelia                          - Quello non mi basta.

Le tre Vecchie              - Piccola, bisogna adattarsi perché basti.

Aurelia                          - Conosco tutte le vostre buone ragioni.

Le tre Vecchie              - Non basta conoscerle, bisogna farsele proprie.

Aurelia                          - Ce le facciamo, ma si disfanno.

Le tre Vecchie              - Allora bisogna rifarsele.

Aurelia                          - E poi arriva la morte.

Le tre Vecchie              - Oh, quella ce ne mette del tempo...

Aurelia                          - Allora questo tempo, invece di passarlo a fare e disfare...

Le tre Vecchie              - Vediamo dove vuoi venire...

Aurelia                          - Oh, non vado in un luogo straordinario.

Le tre Vecchie              - Lo sappiamo.

Aurelia                          - Ma in un luogo dove non è più neces­sario sforzarsi.

Le tre Vecchie              - È molto, questo, piccina mia.

Aurelia                          - Credete che non esista!

Le tre Vecchie              - Sì. - Porse. - No.

Aurelia                          - E se bisognerà sforzarsi anche lì, che sia almeno per qualcuno che si ama.

Le tre Vecchie              - Vedi, ecco già le ragioni che tornano.

Aurelia                          - Oh, quelle nascono da sé.

Le tre Vecchie              - Tanto non è più facile farsene altre.

Aurelia                          - Mai. È il cuore.

Le tre Vecchie              - Il cuore, mia piccina, ah! quello la!

Aurelia                          - Volete forse dirmi che a voi il cuore ha lasciato la ragione interamente libera?

Le tre Vecchie              - Tu hai troppo buon gioco, non ti si può più rispondere.

Aurelia                          - Rispondermi cosa?

Le tre Vecchie              - Cantare il « Deo Gratias » con te, piccina.

Aurelia                          - Io so tutto quel che perdo.

Le tre Vecchie              - Tu senti tutto quello che ci guadagni.

Aurelia                          - Non mi sono risparmiata di tornare indietro.

Le tre Vecchie              - Per prendere slancio.

Aurelia                          - Per aggrapparmi.

Le tre Vecchie              - A uno specchio.

Aurelia                          - Tuttavia, qualche volta sembra che tutto si sia accomodato, che si abbia già tutto quello che si domanda.

Le tre Vecchie              - Poi è tutto quello che non abbiamo, che si domanda.

Aurelia                          - Gridando.

Le tre Vecchie              - Se fosse necessario contare tutti i gridi!

Aurelia                          - Ma alla fine, quando ci si domanda dov'è la giustizia, si contano tutti. (Silenzio).

Le tre Vecchie              - Hai visto volare le anitre selvatiche, in questi ultimi giorni?

Aurelia                          - Io non vedo niente.

Le tre Vecchie              - Siamo al quindici agosto. E se gli uccelli restano ancora sulla montagna, vuol dire che l'inverno sarà mite.

Aurelia                          - Non mi trovo più nel periodo in cui l'inverno conta.

Le tre Vecchie              - Un po' d'aria mite non fa mai male sulle strade.

Aurelia                          - Anche il primo passo non costa niente. (Silenzio).

Le tre Vecchie              - Non bisogna mai far niente davanti alle persone di una certa età. Dirlo, forse, e anche a mezze frasi. Permetti che andiamo a dor­mire? Hai un posto?

Aurelia                          - Lui è andato nel chiuso della farina. C'è posto anche per voi.

Le tre Vecchie              - Che bel silenzio, ora! (Escono. Si sente il galoppo di un cavallo che si avvicina).

Aurelia                          - Ferma!

Il Pastore                       - Lasciami arrivare.

Aurelia                          - Che cosa vieni a prendere?

Il Pastore                       - Porto, questa volta.

Aurelia                          - Che cosa?

Il Pastore                       - La pace.

Aurelia                          - Finalmente!

Il Pastore                       - lo non posso più vivere.

Aurelia                          - E credi che io lo possa?

Il Pastore                       - Dal momento che parti, io ti perdo.

Aurelia                          - Ma qualcuno mi trova.

Il Pastore                       - Nulla mi decide di più.

Aurelia                          - Perché quel mantello, in piena estate?

Il Pastore                       - È tutta la mia ricchezza, a parte te; e io lo porto.

Aurelia                          - Hai l'aspetto di un angelo.

Il Pastore                       - Sono un angelo.

Aurelia                          - Dove vai?

Il Pastore                       - Con te.

Aurelia                          - Non hai la solita voce.

Il Pastore                       - Ho bevuto.

Aurelia                          - Per deciderti?

Il Pastore                       - Dopo.

Aurelia                          - Per i rimorsi?

Il Pastore                       - Per la gioia.

Aurelia                          - Dov'eri?

Il Pastore                       - Sulle colline.

Aurelia                          - E il cavallo?

Il Pastore                       - L'ho preso.

Aurelia                          - Ti hanno veduto?

Il Pastore                       - Sì.

Aurelia                          - E che cosa ti hanno detto?

Il Pastore                       - Nulla.

Aurelia                          - Credevo che si sarebbe fatto di notte.

Il Pastore                       - A galoppo, è come di notte.

Aurelia                          - Dormono tutti.

Il Pastore                       - Che si sveglino!

Aurelia                          - Il cavallo è là?

Il Pastore                       - Davanti alla porta.

Aurelia                          - Allora vieni, svelto. (Escono. Si sente il galoppo di un cavallo che si allontana; tre uomini, uno dopo l’altro, entrano correndo).

Primo Uomo                 - Olà, fornaio!

Secondo Uomo             - Sei già qui, te!

Terzo Uomo                  - Che cosa fate qui tutti e due?

Primo Uomo                 - E tu?

Terzo Uomo                  - Dov'è il fornaio?

Secondo Uomo             - Nella sua camicia.

Terzo Uomo                  - Lo avete cercato dappertutto?

Primo Uomo                 - Salvo che nella camicia.

Terzo Uomo                  - Allora era lui.

Secondo Uomo             - Chi?

Terzo Uomo                  - Quello che ho visto passare a cavallo.

Primo Uomo                 - L'hai visto anche tu?

Terzo Uomo                  - A meno di non essere ciechi. E sordi!

Secondo Uomo             - Che cos'è questa storia?

Primo Uomo                 - Io l'ho intravisto. Lui non l'ho riconosciuto, ma lei era la fornaia.

Terzo Uomo                  - Io non ho veduto bene la sua testa, se l'era coperta con un mantello. Ma le gon­nelle gonfiate dal vento, erano sollevate fino al ventre. Ho veduto le sue gambe.

Secondo Uomo             - Tutti abbiamo le gambe.

Terzo Uomo                  - Sì, ma lei, ne ha...

Secondo Uomo             - Le conosci?

Terzo Uomo                  - Sicuro! Che c'è di straordinario?

Pkimo Uomo                 - La tua faccia.

Terzo Uomo                  - Che cos'ha la mia faccia?

Secondo Uomo             - Qualche difetto di costruzione. L'imprenditore ha dovuto far fallimento.

Terzo Uomo                  - Sciupa il tuo gesso, tu, e lasciami in pace.

Primo Uomo                 - Tua moglie lo sa?

Terzo Uomo                  - Che cosa?

Primo Uomo                 - Che sei così istruito sulle gambe della fornaia?

Terzo Uomo                  - Perché forse la tua conosce i tuoi trucchi?

Primo Uomo                 - Che trucchi?

Terzo Uomo                  - Credi che non ti si veda? Quante volte sei venuto qui a prendere le misure degli scaffali?

Primo Uomo                 - Perché faccio un lavoro accurato, io.

Secondo Uomo             - Faresti meglio a curare la tua tettoia, il naso ti fa grondaia.

Primo Uomo                 - Quell'altro non è nemmen capace di mettere in piedi una gabbia di conigli. Questo fa delle carezze,... dopo...

Secondo Uomo             - Io sono scapolo, io.

Terzo Uomo                  - Un garzoncello, sicuro! E il for­naio è forse scapolo, lui?

Primo Uomo                 - O dove s'è cacciato.?

Terzo Uomo                  - Non l'hai veduto? Fuori, a galoppo, verso il bosco.

Secondo Uomo             - Che cosa mi conti?.

Terzo Uomo                  - 0 chi vorresti che fosse stato?

Primo Uomo                 - Allora il fornaio saprebbe montare a cavallo!

Terzo Uomo                  - Eccome! Non l'hai veduto?!

Secondo Uomo             - Allora quell'uomo mi stupisce.

Terzo Uomo                  - A parte noi, non c'è che lui.

Primo Uomo                 - Noi! Tu vuoi dire te!

Terzo Uomo                  - Ci avete zuppato anche voialtri?

Secondo Uomo             - Io? Sono stato un po' gentile con lei, ecco tutto.

Primo Uomo                 - Io niente.

Terzo Uomo                  - E io? Che cosa credete?

Secondo Uomo             - Tu conosci le sue gambe.

Terzo Uomo                  - Ebbene? tutti le vedono, le sue gambe; che cosa significa questo?

Secondo Uomo             - Vuol dire che se egli monta in quel modo a cavallo, deve aver saputo molto bene nascondere il suo gioco.

Terzo Uomo                  - Che gioco?

Primo Uomo                 - Ha dovuto accorgersi di qualche cosa. E verrà a fracassarti la ghigna.

Terzo Uomo                  - Io non sono il solo.

Secondo Uomo             - Tu sei stato il solo.

Terzo Uomo                  - Se sa di me, sa anche di voi.

Primo Uomo                 - Noi, vecchio mio, siamo puliti come un soldo. Che cosa si può dire di noi?

Terzo Uomo                  - I tuoi occhi di porco, quando la guardavi...

Secondo Uomo             - Non è proibito di guardare.

Terzo Uomo                  - In quel modo, è proibito.

Primo Uomo                 - In ogni caso, di me, c'è una cosa che non si può dire; io non ho comprato il binocolo e la sera non vado a nascondermi nel granaio del Florentin, per guardarla mentre si spoglia.

Secondo Uomo             - Chi te l'ha detto?

Primo Uomo                 - T'ho veduto.

Secondo Uomo             - Hai creduto di vedermi.

Primo Uomo                 - Col tuo naso di sorcio è difficile di confonderti.

Secondo Uomo             - Quel che è sicuro, è che io non mi sono fatto scrivere lettere.

Primo Uomo                 - A chi vuoi alludere?

Secondo Uomo             - Credi che non si sappia?

Terzo Uomo                  - Tacete! Ascoltate! È una casa abbandonata.

Primo Uomo                 - Che cosa ne farà?

Secondo Uomo             - Di chi?

Primo Uomo                 - Di sua moglie?

Terzo Uomo                  - Forse l'ammazzerà.

Primo Uomo                 - Se l'ha trasportata in quel modo nel bosco!

Secondo Uomo             - Io l'ho veduto proprio nel momento che infilava la strada. Massacrava il cavallo a furia di pedate.

Terzo Uomo                  - Ma sei. sicuro che fosse proprio il fornaio?

Secondo Uomo             - Poiché lei era la fornaia...

Primo Uomo                 - Chiama ancora un poco.

I tre Uomini                  - Fornaio!

II Fornaio                      - Ecco fatto! (Entra) Che cosa suc­cede? Gridate come somari.

I tre Uomini                  - Sei tu?

II Fornaio                      - 0 chi volete che sia?

I tre Uomini                  - Tu sei qui?

II Fornaio                      - O dove vorreste che fossi?

I tre Uomini                  - Allora chi era quello a cavallo?

II Fornaio                      - Che cavallo? Si ricomincia?

I tre Uomini                  - Che cosa?

II Fornaio                      - Anche voi vedete un cavallo dap­pertutto? È il villaggio dei pazzi questo qui! Non c'è più mezzo di dormire. Non avevo ancora chiuso gli occhi, quando avete cominciato a parlare. Ero tranquillo da cinque minuti, ed eccone altri tre che arrivano!...

Primo Uomo                 - Dov'è tua moglie?

Il Fornaio                      - Qui.

Terzo Uomo                  - Dove?

Il Fornaio                      - Sei curioso! In qualche parte della casa.

Terzo Uomo                  - Dove va tua moglie?

Il Fornaio                      - In nessun posto. Dove vuoi che vada, se io son qui?

Il Secondo Uomo         - Hai una bella faccia tosta!

Il Fornaio                      -!  Che faccia tosta?

Secondo Uomo             - Ti immagini che perché sei qui...

Il Fornaio                      - Non è forse mia moglie?

I tre Uomini                  - Ma sì, come dici te, forse!

II Fornaio                      - Sei forse tu che l'hai sposata?

Primo Uomo                 - Perché no?

Il Fornaio                      - Eh, sì, perché no, col tuo naso di bue!

Secondo Uomo             - Perché no?

Il Fornaio                      - Eh sì, perché no, con la tua bocca a cui di vacca!

 bocca

 Terzo Uomo                 - Perché no?

Il Fornaio                      - Perché è mia! Questo ti tappa la bocca. Voi non dovevate venire a svegliarmi. Pesto di cattivo umore, quando mi si sveglia di soprassalto.

I tre Uomini                  - E quando la tua moglie se ne va con un altro, di che umore sei!

II Fornaio                      - Un altro? Un altro che cosa? (Entra una giovane donna molto scollata. Dietro a lei arriva la gente del villaggio. Essi si fermano nel vano della porta).

La Donna                      - Questo almeno! Per questo, ci si sveglia volentieri. Sono saltata dal mio materasso come una palla. Che ne dici, fornaio?

Il Fornaio                      - Di cosa?

La Donna                      - Di quel modo di andarsene? Deve esserti scoppiata davanti agli occhi come una bomba. Lui ha preso la svolta della strada; si sarebbe detto che andava a sbattere contro il muro. Ha svoltato facendo le faville. Quello là si può dire che sa stare a cavallo.

Il Fornaio                      - Chi?

La Donna                      - Il pastore, perdio! Non hai veduto quale era? Quello alto, nero, ricciuto; quello che veniva tutti i giorni a prendere il pane!

Il Fornaio                      - Sì. E che cosa ha fatto?

La Donna                      - Eh, questa volta è venuto a prendere tua moglie.

Il Fornaio                      - A prendere mia moglie? per che farsene?

La Donna                      - È un piacere parlare con te. Per andare a letto con lei, perbacco!

Il Fornaio                      - È pazzo!

La Donna                      - Tu ci dormivi con lei, tu!

Il Fornaio                      - Ma io sono sposato con lei, io!

La Donna                      - E che cosa significa questo?

Il Fornaio                      - Ma se lei è malata!

La Donna                      - Che male ha?

Il Fornaio                      - Non mangia più, non dorme, dimagra, piange...

La Donna                      - Ebbene, ha trovato il rimedio! Ora mangerà, ingrosserà, riderà. (Entrano le tre vecchie).

Il Fornaio                      - Questa donna è pazza!

Le tre Vecchie              - Andiamo, è inutile che tu ripeta che lei è pazza, che lui è pazzo. Lo sappiamo noi. Dove sono le erbe?

Il Fornaio                      - Quali erbe?

Le tre Vecchie              - Quelle per la tisana.

Il Fornaio                      - Che tisana?

Le tre Vecchie              - Quella che beverai.

Il Fornaio                      - Per che farmene?

Le tre Vecchie              - Perché ti s'è fermato il sangue. Tu non sei più in te. Bisogna farlo ripartire.

Il Fornaio                      - Ma che cosa fate tutti qui dentro?

I tre Uomini e la Donna         - Siamo venuti a vederti.

II Fornaio                      - Ebbene, guardatemi. Credete che la vostra acqua calda possa rimettermi il sangue in circolazione?

Le tre Vecchie              - Oh, ne occorre meno di quel che tu creda.

Il Fornaio                      - Lo so io meglio di voi che cosa mi ci vuole. Lasciate andare la vostra tisana. Qui non c'è altro fuoco che quello del forno.

Le tre Vecchie              - Oh, basterà.

Il Fornaio                      - Non siete difficili. Lasciate tranquillo quel fuoco. È un affare che riguarda me.

Le tre Vecchie              - Ora non vorrai mica agire contro di te?

La Donna                      - Ora non vorrai mica farne un affare di stato? La terra non smetterà di girare. Sul primo momento è un colpo grave. Ora che tu sai, ebbene, arrangiati. Che cosa d'altro ci resta da fare?

Le tre Vecchie              - Le vere donne lo sanno.

La Donna                      - E quella che se n'è andata, non era forse una vera donna? Che cosa vi occorre di più?

I tre Uomini                  - Di puttane te ne intendi, tu.

II Fornaio                      - Chi ha detto questo? Non voglio sentire quella parola in casa mia, io. Siete molto sboccati, in questo paese. Qui non siamo in una scuderia. Questo è un forno.

I tre Uomini                  - Bisogna ben dire quello che è.

II Fornaio                      - Lo so io quel che bisogna dire.

I tre Uomini                  - Allora dillo. Che cosa vuoi che facciamo? Si vuole aiutarti.

La Donna                      - E non è da oggi. Per quello, io non ho mai mancato d'aiutarti, fornaio.

I tre Uomini                  - Quel che ci vuole per te, è una buona cinghia con la quale zebrarti le terga.

La Donna                      - Parlane delle mie terga, tu, come il curato parla del Cielo. Se tu le vedi, è soltanto in sogno. Se fosse davvero, perderesti la vista.

I tre Uomini                  - Quel che sto per perdere è la pazienza. Non sono tuo marito, io.

La Donna                      - Non ci mancherebbe altro. Se tu perdi quel poco che ti tiene ritto, caschi in terra come la cacaiola.

Il Fornaio                      - Mi volete lasciar parlare, sì o no? Chi è in casa sua, qui, alla fine?

La Donna                      - Quei tre avrebbero ben voluto essere in casa tua come in casa loro.

I tre Uomini                  - Quella che t'ha tagliato reti, non ha rubato i suoi cinque soldi.

La Donna                      - Ma quella che vi ha sculacciato per prima ha sciupato la sua prima sculacciatura. Non ne siete disgustati? Segno che non siete diffi­cili. Stai nella tua calcina tu; e tu nella tua colla da falegname; e tu tra i tuoi stivali. Ma prima di avvicinarvi alle donne aspettate di avere almeno un osso da offrirgli. Invece sparlereste anche di una santa. Siete mosci come la fanghiglia e vorreste suonare la tromba! Quando si è veramente un uomo non si va a cercare cinque piedi al montone! Avete veduto voi?

II Fornaio                      - Che cosa hai veduto tu?

La Donna                      - Il sèguito di quel che ho veduto da quando sei venuto in questo villaggio.

Il Fornaio                      - Io dico veduto. Non inventare niente. Quel che hai veduto, un punto è tutto.

La Donna                      - Invento, fornaio! È vero, io invento. Ma quel che invento è più bello di quel che dico.

I tre Uomini                  - Lei troverà sempre qualcosa da risponderti, non te ne curare!

La Donna                      - Gloriatevene! Voi credete che ve ne sarà uno solo che dirà il suo mea-culpa?

Le tre Vecchie              - Ti senti male, fornaio?

Il Fornaio                      - No, nulla mi fa male. Lasciatemi in pace con la vostra tisana. Io voglio sapere.

I tre Uomini                  - Non ne avrai vantaggio.

II Fornaio                      - Dipende dal punto a cui voglio arrivare. Lasciatemi fare. Se ho delle seccature che abbia almeno anche i vantaggi! Ho passato vent'anni della mia vita in solitudine. So che cosa vuol dire; non si ha da render conto che a se stessi. Non si ha che da occuparsi di sé; allora, come vedete, tutto è facile.. Io ridivento solo per forza di cose, riprendo le mie abitudini. Voi credevate forse che mi sarei sfracel­lata la testa contro il muro? No, riprendo le mie abitudini. Vent'anni! Non sono un giorno. Io non vi dico di avere vissuto un giorno o due standomene solo, no. Vent'anni. Ho vissuto di già vent'anni solo solo. Allora voi capirete bene che ne ho l'abitu­dine. Sarebbe come dire che, piuttosto, non sono abituato a vivere con qualcuno. È vero, non mi ci sono mai abituato del tutto. Mi sembrava infatti che quella vita in compagnia non avesse nulla di solido. Avevo sempre paura che qualcosa accadesse. Mi dicevo: « Non può durare». Ci pensavo perfin la notte, vedete. Oh, mille volte ho avuto paura. Anche dormendo facevo la sentinella. Non ho mai dormito completamente. Salvo forse oggi. La forza delle cose. Alla fine è fatto.

La Donna                      - È sempre agli uomini della tua specie, che accadono questi fatti. Bisogna dire la verità: non è per la qualità, che si ama le donne, in ogni caso. Quel che è giusto, lo riconosco. A che prò farsi migliori di quel che siamo? Siamo fatti così. Si ragiona, ma tutti i più bei ragionamenti del mondo non ci trattengono dal commettere una vigliaccherìa. Per debolezza; siamo deboli, che vuoi farci?

Il Fornaio                      - Io facevo tutto.

La Donna                      - Salvo quel che facevano gli altri.

I tre Uomini                  - Lei ti racconta delle storie. Le donne sono menzognere. Tu sei pagato per saperlo.

La Donna                      - Mentire! Non t'inquietare, va; quando è troppo facile io non mentisco. Da quando ti sei istallato qui, se ne sono veduti di sdilinquimenti di tutte le specie! Costoro se la sono allegramente passata di mano in mano, tua moglie; puoi credermi! In sogno, si capisce, perché essi non sono molto terribili, guardali. Ma in sogno se la sono ripassata dappertutto, così come i veri uomini possono godersi veramente una donna. E siccome era in sogno, puoi essere sicuro che il loro era un lavoro ben fatto.

Le tre Vecchie              - Ti fanno male questi discorsi, fornaio?

II Fornaio                      - No.

La Donna                      - Soltanto, come vuoi che una donna resti qual è quando vive in mezzo a tutto ciò?

Il Fornaio                      - Non le ho mai domandato niente.

La Donna                      - Ecco il tuo torto. Uno schiaffo dato al momento giusto, fa ritornare alla realtà, te lo assicuro. Mia cognata, quando ha le sue crisi di nervi, la schiaffeggio; e lei non mette molto tempo a tor­nare in sé, puoi credermi. Tra il primo e il secondo schiaffo, è già a posto.

Il Fornaio                      - Devono bene esistere anche altri mezzi. Io non ho mai avuto molta simpatia per gli schiaffi. A te piacciono?

La Donna                      - Secondo... Perché no? Che cosa credi? Con tutte le qualità che un marito esige da una sola donna, il buon Dio farebbe tre sante.

Il Fornaio                      - Se bisogna passare il proprio tempo a battagliare...

La Donna                      - Purché lo si passi! Bisogna sempre pensare a se stessi, fornaio, credimi. Gli altri amano questo. Non bisogna mai pensare agli altri; questo li rassicura, essi hanno del tempo davanti a sé e se ne servono per il loro tornaconto, e poi ti piantano.

Le tre Vecchie              - Ora che l'asino è fuggito non vale la pena di chiudere la stalla.

La Donna                      - Non bisogna nemmeno farsi più cattive di quel che siamo. Ho detto vigliaccherìa? Avrei dovuto dir peggio: « vaccata ». Sì, è nella nostra natura, ma di chi è la colpa? Una volta è la bocca di uno di quelli là, con tutto quello che egli imprime e che vi riguarda personalmente. Un'altra volta è l'occhio di un altro che mette in uno sguardo furtivo tutto quel che può mettervi. Credete che non lo sappiamo? Altre volte sono le mani; anche se non ti toccano, si sa benissimo quel che esse vorrebbero toccarti. E tu, fornaio, che cosa facevi allora?

Il Fornaio                      - Lo sai bene; il pane.

La Donna                      - Se fosse necessario che ti dicessi tutte le finzioni dietro le quali essi si nascondono, con le loro bocche, con i loro occhi, con le loro mani, con i loro discorsi! Bisognerebbe perfino che io ti inventassi dei nascondigli. Vi sono perfino cose che non ,potresti capire. Come vuoi che si resti indiffe­renti a tutto ciò? Un fiammifero sporco fa la stessa luce di un fiammifero pulito.

Il Fornaio                      - Se bisogna diffidare di tutti, che cosa mi resta?

La Donna                      - Ma, certamente, non sarà quello là con quel naso a spoletta, né l'altro con i suoi occhi di cacio pecorino, né l'altro con le sue gambe storte come una vite, né lui, né lui, né dieci mila altri, quando si presenta il diecimila e uno. Là, poveretto, non ti eri sposato né con San Michele, né con San Giorgio, tu avevi sposato una donna! Ecco quél che bisogna sapere. Arriva quel diecimila e uno, e arriva in mezzo a un desiderio rovente.

Il Fornaio                      - Oh, capisco benissimo.

Le tre Vecchie              - E non ti dispiace? Non ti fa male sentir parlare così?

Il Fornaio                      - No. Che volete farci? Ci vuole un po' di comprensione: non si fa la frittata senza rompere le uova.

I tre Uomini                  - Eh, sì; consolati vecchio mio.

II Fornaio                      - È una buona idea, cercherò di consolarmi.

I tre Uomini                  - Ma sarà più difficile di quel che tu creda.

II Fornaio                      - Con un po' di buona volontà...

I tre Uomini                  - In ogni modo conta su noi.

II Fornaio                      - Vi sono obbligato.

I tre Uomini                  - Sarà tutto buon cuore.

II Fornaio                      - Lo so.

I tre Uomini                  - Se vuoi subito un colpo di mano...

II Fornaio                      - Per il momento, faccio da me.

I tre Uomini                  - Non farti preparare un colpo da nessuno.

II Fornaio                      - Ora più, non abbiate timore.

I tre Uomini                  - Mantienti in gamba.

II Fornaio                      - Ci vuole molto più di questo, per abbattere un uomo.

I tre Uomini                  - Una perduta, dieci trovate.

II Fornaio                      - Anche di più.

I tre Uomini                  - Noi siamo tutti dalla tua parte.

II Fornaio                      - Naturalmente.

I tre Uomini                  - Puoi chiederci tutto quello che vuoi.

II Fornaio                      - Non me ne priverò.

Secondo Uomo             - Ora bisogna che io vada a rifare il tetto alla scuderia di Andrea. Glielo avevo promesso per oggi a mezzogiorno.

Il Fornaio                      - Fai pure i tuoi affari.

Primo Uomo                 - Ebbene, vado anch'io a lavorare. Se tu avessi bisogno di qualcosa...

Il Fornaio                      - Sta bene. Ti chiamerei.

Terzo Uomo                  - Io stavo lavorando proprio per lei: finivo il suo paio di scarpe.

Il Fornaio                      - Continua.

La Donna                      - Erano scarpe fini?

Terzo Uomo                  -        - Di pelle.

Secondo e terzo Uomo          - In ogni modo, non hai che da dirlo...

Il Fornaio                      - Lo so. Non me ne priverò. Siate tranquilli. (Essi escono).

La Donna                      - Dimmi un poco, fornaio: forse io calzo lo stesso numero, io.

Il Fornaio                      - Forse.

La Donna                      - Ora sei solo.

Il Fornaio                      - Forse.

La Donna                      - Forse si potrebbe intenderci?

Il Fornaio                      - Forse.

La Donna                      - Tu ci credi nelle tisane?

Il Fornaio                      - No.

La Donna                      - Nemmeno io. Tu non credi, per esempio che io, così come sono, possa essere un rimedio? E per cose dopo le quali si può sempre semmai ricorrere alle tisane?

Il Fornaio                      - Credo.

La Donna                      - Le stoviglie sono belle, la casa è bellissima, ma il resto... è molto più bello.

Il Fornaio                      - Certo.

La Donna                      - Or ora hai detto: «se ne hai gli inconvenienti, prendine i vantaggi ».

Il Fornaio                      - È quel che penso.

La Donna                      - Io non faccio storie, io. Ho mio marito!

Il Fornaio                      - Ecco una ragione.

La Donna                      - E quel che ora ti ci vuole è preci­samente un po' di ragione. Quando e'è di mezzo il sentimento non si sa mai dove si va a finire. Non ti chiederò gli occhi della testa, io; ma mi accomo­derebbe per certe cose, ecco tutto. Non ti disturbare.

Il Fornaio                      - Non mi disturbo. (La donna esce. Il fornaio accenna alia vecchie) Chiudete le porte.

Le tre Vecchie              - Quali?

Il Fornaio                      - Quelle grandi.

Le tre Vecchie              - Ma sta per venire l'ora del pane.

Il Fornaio                      - Non c'è più pane.

Le tre Vecchie              - Gli uomini stanno per andare a lavorare, come sempre. C'è ancora molto grano da battere, sulle aie. Non possono mica lavorare senza mangiare!

Il Fornaio                      - Chiudete le porte. Non c'è più pane.

Le tre Vecchie              - Non si chiudono le porte grandi che quando c'è un morto in casa.

Il Fornaio                      - Ebbene, che cosa vi occorre? Chiudetele! (Le donne vanno a chiudere le porte) Mettete il paletto. (Esse tirano il paletto).

Le tre Vecchie              - Non ci si vede più, qui dentro.

Il Fornaio                      - C'è luce abbastanza, per quel che voglio fare. Andate a vedere se lei è in camera nostra.

Le tre Vecchie              - Non c'è.

Il Fornaio                      - C'è ancora una speranza.

Le tre Vecchie              - Non c'è più nessuna speranza.

Il Fornaio                      - Potrebbe esserci sentita male .in camera, oppure nel granaio, o anche in cantina.

Le tre Vecchie              - Non si sentiva male.

Il Fornaio                      - Bisognerebbe sapere se ha portato qualcosa con sé per coprirsi. Lei è freddolosa. E se prende freddo le viene un dolore qui, alla piegatura della coscia.

Le tre Vecchie              - Non ha portato niente con sé.

Il Fornaio                      - Voi sapete tutto?

Le tre Vecchie              - Sì.

Il Fornaio                      - Aprite l'armadio a muro. Montate sopra una seggiola. Lassù, in alto, sul primo palco. Datemi la bottiglia dell'acquavite. E un bicchiere. E prendetene altri tre, anche per voi. (Bevono). È la vita!

Le tre Vecchie              - Questa, e il resto.

Il Fornaio                      - Non mi resta quasi altro.

Le tre Vecchie              - Ne resta sempre di troppo.

Il Fornaio                      - Me ne occorre molta, sapete.

Le tre Vecchie              - I mattini sono un grande opificio.

Il Fornaio                      - Sì, ma le notti!

Le tre Vecchie              - Bisogna passarle.

Il Fornaio                      - Lei aveva maniere piacevoli...

Le tre Vecchie              - Nulla, di quel che facciamo, è senza ritorno.

Il Fornaio                      - Non dovete tentare d'ingannarmi, voialtre.

Le tre Vecchie              - Non è questo che vogliamo dire. Vogliamo dire che non siamo o tutti cattivi o tutti buoni. Anche nel male, alle volte, si mette un po' di bontà. E anche il bene, non è sempre tutto bene; e la disgrazia, alle volte, fa scoprire talune inclinazioni.

Il Fornaio                      - (beve) La mattina, era sempre molto più calma.

Le tre Vecchie              - Ella non dormiva, la notte?

Il Fornaio                      - Non troppo. Aveva dei soprassalti.

Le tre Vecchie              - Bisogna tentare di mettersi al suo posto.

Il Fornaio                      - Avevo più cure io per lei, che non avesse lei stessa. Ogni mattina, dopo l'infornata delle quattro, salivo a vedere come stava; la trovavo che dormiva tranquillamente nel suo letto. Poi ritornavo su mentre il forno si riscaldava per le sette; e a volte mi accoglieva con un piccolo sorriso. Non con un sorriso vero e proprio, ma con un sorri-setto. Stava con la sua larga bocca poggiata sul guanciale. Lei, quando dorme, sbava. Quando ritor­navo per il caffè...

Le tre Vecchie              - Andavi a vederla tre volte?

Il Fornaio                      - Sì, a volte anche quattro: ma senza far rumore.

Le tre Vecchie              - E invece sarebbe stato neces­sario di farne.

Il Fornaio                      - Quello era il suo primo sonno!

Le tre Vecchie              - Vedi, con le donne, bisogna sempre pensare a una cosa: non è tanto il necessario che esse vogliono, quanto l'essere disturbate; tu non puoi sapere quanto fa loro piacere.

Il Fornaio                      - Dopo tutto a me sembra che quando si dorme...

Le tre Vecchie              - Forse sì! Chi lo sa! Ma noi parliamo in generale. E poi, parliamo di cose passate. (Bussano alla porta).

Una Voce                      - Fornaio! Perché hai chiuso? Non ci dai il pane?

Il Fornaio                      - No. (Alle donne) Andate a dire che non ce n'è più

Le tre Vecchie              - Ecco un incarico poco pia­cevole. (Vanno alla porta) Il fornaio dice che non ce n'è più.

La Voce                        - E quando ci sarà?

Il Fornaio                      - Non lo so.

Le tre Vecchie              - Dice che non lo sa.

La Voce                        - Perché?

Il Fornaio                      - Perché non ho voglia di farne. (Beve).

Le tre Vecchie              - Dice che non ha voglia di farne. (Tornano a sedere).

Il Fornaio                      - E dire che lei non mi aveva mai dato il minimo dispiacere!

Le tre Vecchie              - Salvo oggi.

Il Fornaio                      - È diverso. A volte mi era perfino sembrato che lei stesse per fare un gesto per avvi­cinarsi a me.

Le tre Vecchie              - Le cose hanno il valore che si dà loro.

Il Fornaio                      - Bisogna vedere: era sincera.

Le tre Vecchie              - Per mentir bene occorre molta sincerità.

Il Fornaio                      - Lei ne aveva.

Le tre Vecchie              - Non si sa come vien fatto il miscuglio.

Il Fornaio                      - Tanto peggio. Io non ho mai pro­vato maggior piacere.

Le tre Vecchie              - Ma è molto meglio tenersi al corrente. Ciò che non impedisce di essere egual­mente contenti, quando si sa; anzi alle volte ne aggiunge. E, in più, si sa.

Il Fornaio                      - E questo avveniva sotto i miei occhi!

Le tre Vecchie              - È un posto molto delicato.

Il Fornaio                      - E lei lo aveva assai bello.

Le tre Vecchie              - A più forte ragione.

Il Fornaio                      - E la maniera che aveva di guar­darmi, alle volte, quando credeva che io non la vedessi!

Le tre Vecchie              - Perché, tu la spiavi?

Il Fornaio                      - Sempre.

Le tre Vecchie              - Ecco un'altra cosa che tu hai fatto a tuo rischio e pericolo. E se tu ti fossi incontrato in un suo sguardo cattivo?

Il Fornaio                      - A volte ne incontravo.

Le tre Vecchie              - E tu cosa pensavi?

Il Fornaio                      - Che ero capitato male. (Beve).

Le tre Vecchie              - Ma se tu la spiavi, lei doveva essere molto furba. Non ti eri mai accorto di niente?

Il Fornaio                      - Ma io non la spiavo per quello.

Le tre Vecchie              - E che cosa spiavi, allora?

Il Fornaio                      - Secondo i casi.

Le tre Vecchie              - Secondo che cosa?

Il Fornaio                      - Secondo il momento che traversavo.

Le tre Vecchie              - Hai l'abitudine di bere, tu?

Il Fornaio                      - No.

Le tre Vecchie              - Lo sopporti bene.

Il Fornaio                      - No, ma lo faccio credere.

Le tre Vecchie              - Tu fai troppo credere. Con te, non si sa mai a che punto siamo: non sei mai quel che sembri di essere.

Il Fornaio                      - Sono timido.

Le tre Vecchie              - Perfino questo, non ti si vede. Che cosa spiavi? Quando si beve è per sforzarsi a scioglier la lingua.

Il Fornaio                      - Spiavo il suo volto.

Le tre Vecchie              - Per scoprire quel che lei nascondeva?

Il Fornaio                      - Ma no, perché lei mi piaceva. Per guardarla senza che lei lo sapesse.

Le tre Vecchie              - Perché, senza che lei lo sapesse?

Il Fornaio                      - Per non infastidirla.

Le tre Vecchie              - Tu non vuoi mai infastidire nessuno.

Il Fornaio                      - No, mai.

Le tre Vecchie              - Ecco perché nessuno si risparmia di infastidire te. (Bussano alla porta).

Una Voce                      - Il pane, fornaio! Apri!

Il Fornaio                      - Non c'è più pane!

La Voce                        - Che cosa fai?

Il Fornaio                      - Quel che mi pare.

Le tre Vecchie              - È molto meglio.

Il Fornaio                      - Che cosa?

Le tre Vecchie              - Che tu risponda loro, da te. Non bisogna credere che gli altri abbiano tutte le qualità. Anche tu ne hai. Nella vita c'è una sola persona alla quale non bisogna procurar fastidi: se stesso. Ammetti che ogni tanto tu debba fare qualche piccola concessione, ma c'è un punto che è tutto.

Il Fornaio                      - Quando si ama qualcuno...

Le tre Vecchie              - Prima di tutto non si ama tutto il prossimo. E ciò "che si ama è buona regola di prenderselo. Contro tutti. Che cosa ha fatto quell'altro col suo cavallo? Non sei mai stato contrario a qualcuno, tu?

Il Fornaio                      - No.

Le tre Vecchie              - Se in un certo senso questo fatto dà buoni risultati, vi sono molte probabilità perché ne dia anche in senso contrario. Esiste anche un piccolo segreto. Bevi. (Egli beve) Bisogna essere contro ciò che si ama.

Il Fornaio                      - Lo avevo dubitato.

Le tre Vecchie              - Quando?

Il Fornaio                      - Or ora. (Bussano alla porta).

Una Voce                      - 0 fornaio!

Il Fornaio                      - Lasciatemi in pace!

Le tre Vecchie              - Tu bevi meglio. Che cosa conti di fare stasera?

Il Fornaio                      - Bere.

Le tre Vecchie              - Ti diamo noia?

Il Fornaio                      - Al contrario.

Le tre Vecchie              - È bene che abbiano chiamato questa roba acquavite, acqua della vita.

Il Fornaio                      - Sì, ma non bisogna abusarne.

Le tre Vecchie              - Come di ogni altre cosa, com­prese quelle di cui abbiamo parlato.

Il Fornaio                      - Ho paura che lei abbia freddo, che manchi di tutto.

Le tre Vecchie              - E il piacere che prende, dove lo metti? E quello che l'altro le dà!

Il Fornaio                      - Annoiandola, precisamente. Ogni medaglia ha il suo rovescio.

Le tre Vecchie              - Ma è completa. Ed è molto migliore che se avesse una faccia sola.

Il Fornaio                      - Di quel lato, io ne farei volentieri a meno.

Le tre Vecchie              - Non farne a meno, poi che esiste. (Bussano atta porta).

Alcune Voci                  - Il pane!

Il Fornaio                      - Accidenti! Eccovi, questo è il pane, ora. Se volete quell'altro andate a cercare mia moglie.

Le tre Vecchie              - Tu bevi molto bene.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

In casa del barone: La sala del castello. Nobiltà campagnola- Una scala conduce a una galleria che circonda la sala per tre lati e che conduce alle stanze superiori e ai granai.

(La signora Perotte, donna di servizio, cinquant'anni, ma bella e con molte tracce di teneri ricordi in tutto il corpo. Ella scende la scala tenendo il mazzo delle chiavi alla cintura. Malgrado l'uniforme un po' severa richiesta dalle sue funzioni, ella ostenta qualche segno di civetteria insolita, nell'acconciatura dei capelli e nello svagamento del busto che le comprime i, seni. Molta disinvoltura nei gesti aristocratici e nell'anda­tura, che ella controlla ad ogni istante. Entra in sala, da una porticina di sinistra, il curato, 25 anni. È un giovane atleta roseo. Sottane corte. Ha gesti di guerriero).

Il Cubato                       - Ah, signora Perotte, poiché siete qui, vi domanderò una cosa a cui pensavo da molto tempo.

Perotte                          - Sono ai vostri ordini, signor curato.

Il Cubato                       - Non so perché mi decido proprio oggi. Deve essere effetto del vino che ci ha fatto bere il signor barone.

Perotte                          - Era di quel roseo del 1913; un po' traditore, signor curato.

Il Cubato                       - Ora sentirete. Vi domanderò una cosa molto semplice.

Perotte                          - Qui, signor curato, si può domandar di tutto; tutto è semplice.

Il Cubato                       - Sì. Tuttavia, signora Perotte, spero che voi non approverete la maniera con la quale il signor barone rende semplici tutte le cose. Ciò che è sacro, signora Perotte, non è semplice. E io trovo che qui si semplificano un po' troppo le cose sacre.

Perotte                          - Il signor curato viene al castello tre volte la settimana; io sono qui tutti i giorni, da vent'anni.

Il Cubato                       - Questa non è una scusa, signora Perotte. Quando si cercano delle scuse vuol dire che si ha già il peccato nel cuore.

Perotte                          - Voglio dire che sopporto forse con più facilità ciò che 'il signor curato non è ancora abituato a sopportare. Non bastano certo le cento-diciassette colazioni che il signor curato ha fatto al castello, da quando è stato nominato fra noi.

Il Cubato                       - Le contate, signora Perotte?

Perotte                          - Io tengo conto di tutto, signor curato.

Il Cubato                       - Forse tenete anche il conto delle... delle tre... delle nipoti? Come si debbono chiamare, signore o signorine?

Perotte                          - Si dice signore. Sì, tengo anche il conto delle signore. Tengo soprattutto il conto delle signore. Il signor barone, malgrado le buone appa­renze, non ha più un'età da trascurare - per quel che lo riguarda - un impiego di tempo strettamente ordinato.

Il Cubato                       - Sono stupefatto, signora Perotte.

Perotte                          - Se il signor curato vuol dirmi quel che desidera di sapere... Anche se bisogna sempli­ficare una cosa sacra - conosco il «roseo del 1913 » -sono al suo servizio.

Il Cubato                       - Io sono un idiota, signora Perotte. Sapete che cosa desidero? E da un anno! E non osavo di chiederlo! Di andare a fare la siesta dentro il fieno?

Perotte                          - È facilissimo.

Il Cubato                       - No, signora Perotte, non è facile, perché bisogna che io trovi un fienile, e bisogna che le persone alle quali appartiene il fienile non restino scandalizzate. Disgrazia a colui che dà scandalo! signora Perotte. Ma il fieno, vedete, è tutta la mia giovinezza. Nella fattoria di mio padre...

Perotte                          - Siete ancora molto giovane, signor curato. (Ella scioglie il mazzo delle chiavi) Prendete, ecco la chiave del fienile. Salite, voltate a destra. La porta grande che è in fondo. E mettetevi a vostro agio.

Il Cubato                       - Molte grazie, signora Perotte. Io non dovrei essere così sensibile ai ricordi. (Prende la chiave, cornicia a salire la scala, ma dopo poco si volge) Ditemi un poco, signora Perotte, che cosa è tutto quel baccano che si fa oggi nei dintorni, nei boschi, sui campi?

Perotte                          - È la gente del villaggio.

Il Cubato                       - E che cosa fanno?

Perotte                          - Sono andata a domandarlo giù nelle cucine: cercano la tomaia. Torno ora dal Belvedere: si vedono le strade piene di gente: chi in barroccino, chi in bicicletta, chi a cavallo, chi a piedi, dagli stagni fino alle colline. Ne ho perfino veduti due sopra un calessino che avevano tutta l'aria di dirigersi verso il castello.

Il Cubato                       - (montando lentamente gli scalini) Vedete, signora Perotte, ecco della gente che non pone al di sopra di tutto la soddisfazione dei sensi. Vedete come sono compassionevoli, vedete come dimenti­cano sé stessi per soccorrere un disgraziato? Quelli, là, non sono baroni, vedete, ma sono colpiti dal carattere complicato del sacramento del matrimonio. Dall'alto del vostro belvedere, signora Perotte, oggi avete veduto manovrare i soldati della morale. E di Dio!

Perotte                          - Avete un poco di tempo disponibile, signor curato? (Egli si ferma sul ballatoio e risponde di lassù).

Il Curato                       - Che volete dire, signora Perotte?

Perotte                          - Nel caso che il vostro fienile potesse aspettate ancora per cinque minuti, mi permetterei di consigliarvi una visitina in cucina. È un luogo in cui si parla liberamente di tutto. Sopratutto in questa casa.

Il Curato                       - E che cosa vi si pretende?

Perotte                          - Che il fornaio sì è ubriacato.

Il Curato                       - Signora Perotte, voi avete vissuto da nubile e, malgrado i luoghi che abitate, oso cre­dere che voi ignoriate completamente la potenza dei legami che uniscono gli uomini alle donne. A me lo insegna la compagnia di Dio. Per cui, anche se il fornaio si è ubriacato, io lo assolvo. Non si fa una operazione chirugica senza addormentare il paziente e, occorrendo, potrei chiamare la sua ini­ziativa attuale, una specie di grazia divina; ciò che fuori di questi grandi boschi ove voi avete trascorso-la vostra vita ignorante, si chiama « self-défense ». È una parola inglese.

Perotte                          - Si tratta di un grosso inconveniente che apprenderete nelle cucine.

Il Curato                       - Signora Perotte, in ogni modo, voi non vorrete contrapporre le cucine all'ordinamento del mondo che è opera di Dio. La « self-défense » non ha nulla di sconveniente. È una difesa automatica di sé stessi. Si tratta di un timone automatico di cui Dio ci ha provvisti. Se voi aveste fatto un po' di meccanica - ma in mezzo a questi boschi e a questi stagni, voi non avete certamente fatto della meccanica - vale a dire se voi non aveste seguito soltanto la legge delle bestie, pensando che sia la sola legge, non avreste bisogno che io vi spiegassi che cosa è la « self-défense » e perché il vostro fornaio si è ubriacato. Non vi vedo inconvenienti. Al contrario. In linea generale è ciò che permette al mondo di continuare, e nel caso particolare del vostro fornaio, è quel che gli permette di non soffrir troppo conti­nuando a vivere. L'egoismo, vedete, signora Perotte...

Perotte                          - Quello non è soltanto il mio fornaio. È anche il vostro...

Il Curato                       - Ed è appunto per questo che gli dò la mia assoluzione totale.

Perotte                          - ...E lui non fa più il pane! Il signor barone vi ha invitato a cena per questa sera?

Il Curato                       - Naturalmente. Sapete bene che si mangiano gli avanzi.

Perotte                          - Dunque voi li mangerete senza pane, signor curato. Per mezzogiorno abbiamo dovuto mettere a soqquadro tutta la casa per poter mettere in tavola il pane necessario. Stasera nessuno ne ha più.

Il Curato                       - Diavolo! Infatti la faccenda ha tutto l'aspetto di essere molto noiosa... Di che cosa si tratta? Spiegatemi!

Perotte                          - Almeno da quel che mi hanno rac­contato sembra che il fornaio non si proponga di ubriacarsi soltanto per oggi e per domani, ma affermi che quella sarà la sua occupazione quotidiana, e che se veramente vogliamo un fornaio che ci faccia il pane, dobbiamo cercarcene un altro. Voi sapete quanta difficoltà abbiamo avuto per trovare quello! Non v'illudete, signor curato, se veramente sarà necessario cercarne un altro, questa volta occorrerà più di un anno per trovarlo. Non si trova nelle peste di un cavallo, qualcuno che voglia venire a stabi­lirsi nelle nostre terre, tra le boscaglie e i pantani, come voi stesso dicevate or ora. Ed è appunto per questo che, come vi dicevo, gli abitanti del villaggio fanno una battuta di caccia da tutti i lati, per vedere di snidare la moglie del fornaio. Non hanno mica voglia di ricominciare la serie degli inverni passati a fare trenta chilometri fra andata e ritorno, per andare a comprare il pane a Sorgues. Lui, invece, almeno a quel che dice la cuoca, avrebbe, sembra, scoperto il Paradiso.

Il Curato                       - Il Paradiso!

Perotte                          - Sì, l'ubriachezza! Non si pensa più alla propria disgrazia. E tutto si arrangia da sé... Lo sapevo bene che vi sareste sentito interessato, signor curato.

Il Curato                       - Non interessato, signora Perotte; sconvolto! Bisogna che vada a vedere che cosa succede. (Scende gli scalini correndo).

Perotte                          - Se il signor curato vuol rendermi la chiave... Non si tratta ora, di perdere la testa. (Mentre il prete esce correndo dalla porta di destra, Perotte si dirige maestosamente verso la porta di sinistra. Prima che vi giunga ne escono tre giovani donne molto allegre. Esse rispondono a qualcuno che è rimasto nella stanza dalla quale sono uscite).

—Sì, tesoro mio.

—Ma certo, mio caro Bébé.

         - Non inquietarti, rospetto.

Perotte                          - Dove andate, signore?

Le Nipoti                      - Oh! Perotte, ascolta, là dentro si soffoca. Vi si può resistere fin quando il maestro non accende la pipa; ma dopo la sesta boccata...

Perotte                          - Tutto dipende dal signor barone.

Le Nipoti                      - Agenore ha dato il permesso. D'altronde si è molto buoni. Il curatino se l'è già data a gambe Sai dov'è andato, il curatino, Perotte?

Perotte                          - Il signor curato ha del lavoro.

Le Nipoti                      - Cosa mai può essere un lavoro da curato?

Perotte ;                         - Un lavoro come quello di tutti gli altri, signore. Ma giacché voi siete qua, ho qualcosa da dirvi. Modificazioni all'impiego deh vostro tempo. Chi è di servizio stanotte?

La Bruna                       - Io.

Perotte                          - Lo dubitavo.

La Bruna                       - Non è necessario essere indovini, io sono automaticamente di servizio nel giorno di martedì, ogni tre settimane.

Perotte                          - Io non conto le settimane, mie care signore. La mia vecchia esperienza mi permette di sapere che una disgrazia non viene mai sola. Ho notato, mia cara signora, che quando voi eravate di servizio la notte, il signor barone aveva, il giorno dopo, un appetito da toro.

La Bruna                       - Ebbene? Non è mica male!

Perotte                          - Cederete il vostro turno a quest'altra signora, che è molto più riposante.

La Bionda                     - Ma io sono già stata di servizio ieri sera.

La Bruna                       - E io sono rimandata a domani sera. Perché?

Perotte                          - (alla bionda) Precisamente perché voi eravate di servizio ieri. (Alla bruna) No. Rimandata a doman l'altro sera e anche... se lo cose si aggiu­stano. Altrimenti non so come potremo fare. Voi siete di un uso troppo appetitoso.

Le Nipoti                      - Avete l'aspetto di una persona preoc­cupata, Perotte.

Perotte                          - Lo sono, signore mie.

Le Nipoti                      - Peccato! avevamo qualche cosa da domandarvi.

Perotte                          - Sicuro. Io debbo, non soltanto orga­nizzare la libertà del signor barone, ma bisogna anche che la difenda. E se tutto fosse questo, signore mie, sarebbe cosa da nulla; il male è che siamo alla mercè dell'imprevidenza e della sciocchezza del primo venuto.

Le Nipoti                      - Avevamo deciso di domandarti qualcosa per divertirci nel pomeriggio.

Perotte                          - La nobiltà, vedete signore, non ha più prerogative. Essa non può più nemmeno difen­dere la sua saggezza, divide la sorte comune. Noi abbiamo costruito qui - il signor barone ed io -oso dirlo, un rifugio contro le passioni umane e pre­cisamente contro le vicissitudini delle passioni e delle relazioni tra uomo e donna. Ho dovuto mettervi del mio più che non crediate, signore. Ho avuto anch'io il mio tempo, ma siate sicure che non rim­piango nulla. Al diavolo coloro che pretendono di trovarci in difetto in nome della meccanica. Noi organizziamo qui la nostra felicità e la vostra, signore, con ciò che l'uomo ha di più nobile: l'intelli­genza. Non sarà certo qui che si vedranno, grazie a Dio, quei giuochi da gatte e quelle cavalcate inde­centi che mettono in pericolo il pane di tutti. E anche il nostro, sissignore, anche il nostro. Ecco, finalmente, quel che avevo da dire.

Le Nipoti                      - Oh! Perotte, sai qualcosa di nuovo?

Perotte                          - Andiamo, che cosa volevate chiedermi?

Le Nipoti                      - Sai qualche cosa di nuovo sul nostro pastore e sulla fornaia?

Perotte                          - So, infatti, qualcosa di nuovo. E di poco bello.

Le Nipoti                      - Che cosa? L'ha abbandonata in mezzo al bosco? L'ha battuta? L'ha bastonata? L'ha schiaffeggiata? L'ha rimandata a casa tutta umiliata? È tornato qui, solo? Dicci dov'è? Si può vederlo?

Perotte                          - No. No. Niente di tutto questo; fosse piaciuto al cielo! La si cerca e non la si trova.

Le Nipoti                      - Voi Perotte siete troppo buona, sicuro. Se fossi io nel posto della fornaia, vi garan­tisco che potreste cercarmi per centosette anni.

 Perotte                         - Come, se foste voi?! Che cosa significa questa supposizione?

Le Nipoti                      - Così, tanto per dire.

Perotte                          - Lo spero bene, signore. In ogni caso, il morto è nella bara: non si tratta di una di voi, e non dovremo cercare per centosette anni. Soltanto, io non sono capace di vivere senza pane per cento-sette anni. E nemmeno voi, signore.

Le Nipoti                      - Che cosa c'entra tutto questo con noi, Perotte?

Perotte                          - Sono d'accordo che ciò non ha nulla a che fare con voi: né con voi, né con me. Ma non impedisce che voi ed io stasera ci dovremo privare del pane. E tutto questo perché la fornaia ha avuto voglia di andare a letto col nostro pastore. Chiamiamo le cose col loro nome. Stasera, domani, dopodomani, fino alle calende greche. Vedrete come staremo allegri, quest'inverno, senza pane! E tutto questo perché il fornaio non vuole andare a letto con altra donna che non sia sua moglie, la fornaia. E dopo tutto questo sento ancora parlare di giustizia.

Le Nipoti                      - Perotte, la giustizia vuole che non si riesca a trovarli mai, che essi siano andati dove vogliono; tu lo sai bene. Io amavo quel piccolo raggio giallastro che il pastore aveva nelle pupille quando ci guardava un poco più a lungo, te ne ricordi? Quante volte abbiamo tentato di farglielo accendere! Io ti dicevo: « Stai a vedere ». E poi: «Hai veduto? » Oh, il pane! Ebbene, faremo a meno del pane. La cuoca può farci delle frittelle di riso.

Perotte                          - Signore, vi ho detto mille volte che non mi piace di vedere usare la vostra immagina­zione a torto e a traverso.

Le Nipoti                      - Io auguro loro di essere fuggiti a galoppo e di avere avuto il tempo di superare ogni ostacolo. Deve bene esistere qualche paese nascosto in cui non potranno mai trovarli. Dove si va quando si viene rapite?

Perotte                          - Signore!...

Le Nipoti                      - Si va al mare o "sulle montagne? Lo sai tu? Oppure esiste un luogo, come tu dici, fatto apposta? Oh, debbono bene esservi delle foreste, laggiù. E delle vallate sinuose, e deve essere sempre inverno, in quel luogo, perché l'inverno è la stagione in cui le notti sono più lunghe. Debbono esservi dei gran coltroni imbottiti. Si sta bene là sotto. Di fuori piove. E non c'è più nessuna strada per coloro che vorrebbero riprenderti. E siamo con chi si vuole, per tutta la vita.

Perotte                          - Signore, signore, ve ne prego non vi montate la testa. Quando si viene rapite, abbiamo le reni rotte, freddo ai piedi; ci sentiamo le gote di cartapesta, abbiamo le labbra screpolate, siamo senza biancheria, abbiamo le mani sporche, siamo senza pettine, abbiamo dimenticato tutto, si passa il tempo ad aspettare in mezzo alle correnti d'aria. L'albergo è pieno, oppure è vuoto, i lavandini fanno rumore, i rubinetti dell'acqua sono arroganti come corni da caccia, il letto fa la buca nel mezzo, le lenzuola sono umide. A tutto quel che si ha, ammesso che sia quasi potabile, si è obbligate ad aggiungere l'amore. A ogni momento si dice: « sì, ma ho l'amore ». Sì è vero, a forza di aggiungerne a tutto, fa l'effetto del pepe nelle pietanze. Alla fine, non solo non se ne sente più il gusto, ma fa venire il mal di stomaco. Ecco la verità. Andiamo, parliamo di cose serie. Desideravate di domandarmi un permesso?

Le Nipoti                      - Siamo indecise. Forse, ormai, no. Probabilmente resteremo qui da persone sagge.

Perotte                          - No, signore, per divertirvi a prendere lucciole per lanterne, no, signore. Questa storia del fornaio, è la semplice storia di un cornuto; e stasera, se vi lascio fare, sarà diventata la storia di Romeo e di Giulietta. Giocate con tutto quello che volete, ma non con l'immaginazione. Preferirei di vedervi fare apertamente il male, almeno si sa di che cosa si tratta, che di sapervi in procinto d'immaginare Dio sa quale specie di minestra sui gigli. Cosa che può procurare delle coliche.

Le Nipoti                      - Allora vogliamo un permesso straor­dinario.

Perotte                          - Straordinario, d'accordo; ma non troppo.

Le Nipoti                      - Ci permetti di andare nella sala del primo piano!

Perotte                          - Quale?

Le Nipoti                      - Lo sai bene, quella che è sempre chiusa. Cosa vuoi che ce ne facciamo di quelle che sono sempre aperte?

Perotte                          - E in quella chiusa, che cosa volete fare?

Le Nipoti                      - Sembra che vi siano alcuni grandi bauli pieni di costumi.

Perotte                          - Chi ve l'ha detto?

Le Nipoti                      - Ma Agenore, Perotte, Agenore! Che cosa credi che faccia quando è con noi? Parla, Perotte, parla!

Perotte                          - Volete tacere, signore? Io non ho bisogno di sapere che cosa fa il signor barone con voi. Se parla, vuol dire che lo desidera. Bene, che cosa volete fare con quei costumi?

Le Nipoti                      - Provarli, caspita!

Perotte                          - Come! Metterveli?

Le Nipoti                      - Sì, vestirci come erano vestite... coloro che si vestivano a quel modo; le sorelle di Agenore?

Perotte                          - No, le vecchie zie, credo, e anche più indietro.

Le Nipoti                      - Allora permetti?

Perotte                          - Sì, ma... (Scioglie il mazzo delle, chiavi).

Le Nipoti                      - Certo, non aver paura!

Perotte                          - Non sapete ancora quello che voglio dire!

Le Nipoti                      - Ma sì! di usare discrezione, misura, buon gusto, eleganza e senza ridere sguaiatamente nel pomeriggio, a causa dell'eco dei corridoi.

Perotte                          - Esattamente. E in più proibizione assoluta di prendere il signor curato per un pastore. (Ella si dirige maestosamente verso la porta di fondo, ed esce).

Le Nipoti                      - Lei non sa niente.

—Non sa mai niente di niente.

—D'altronde guarda, la chiave non ha servito.

—Come lo sai, è di nichel. Appunto per questo. Perotte ha sempre le mani sudate, ogni oggetto di ferro che tocca fa la ruggine.

—Che cosa avete « grattato » voialtre?

—Io, cioccolato e mandorle, e anche un po' di burro, ma non ho potuto portarlo via.

—Io, prosciutto con molto grasso, essi devono averne bisogno, e tu?

—Io un po' di tutto. Perché dici che essi hanno bisogno del grasso di prosciutto?

—Perché il grasso di prosciutto è eccellente per gli innamorati, non lo sapevi?

—No, io credevo che fosse il sèdano. Come lo sai tu?

—Chi ha pensato al pane?

—Tutte, per forza.

—Nel momento in cui il curatino cercava il suo pane...

—Sì.

—Ero io che glielo avevo preso. Egli ha detto: « Vi domando scusa ».

—Egli non sa se deve chiamarci signore o signorine.

—Era un pezzo grosso?

—Lo credo, e tu?

—Un pane intero.

—E dove avete messo tutta questa roba?

—Fuori, dietro l'edera.

—Quanto pane sarà in tutto?

—Più di un chilo.

—Per forza! È più di un chilo soltanto il mio. Se aveste avuto le mani abili come le mie, essi avrebbero avuto da mangiare per tutta la settimana.

—È facile a dirsi. Hai veduto Perotte? Vigilava il pane come se fosse stato la pupilla degli occhi suoi.

—Diamine! Se le cose stanno come dice lei, il pane sta per diventare una rarità.

—È anche peggio di quel che dice lei, io conosco la musica.

—Tu eri già qui ai tempi senza pane?

—Non si può dire che fossero tempi senza pane, ma erano i tempi del pane duro.

—E allora?

—Niente. Lo sì mangia com'è, salvo l'inverno, quando le strade sono bloccate, e allora qualche volta si resta per otto giorni a patate lesse, oppure si mangia la pappa di rosicchioli.

—Tu parli d'un castello!

—Castello, amor mio. Non sono i muri che fanno un castello, ma sono le botteghe. Mia madre diceva così.

—Allora che cosa ne dite: non sarebbe meglio tenerci quello che abbiamo?

—Ma sei pazza! E i nostri innamorati?

—Ebbene, che vuoi: l'amore e l'acqua fresca... (Si seggono sopra i gradini della scala).

—È bello!

—Che cosa?

—L'amore e l'acqua fresca.

—Oh, sì!

—È il più bello del mondo.

—Sembra che lassù vi sia un gran letto! Come una barca.

—Con i cigni?

—Non so.

—Forse anche con i cigni. Forse come una grossa conchiglia. Con tante colonne. Tutto di seta.

—Credi che avranno dormito in quel letto, stanotte?

—Certamente. Quando sono entrati lassù, egli ha dovuto alzare le coperte imbottite e preparare la cuccia calda dove si sarebbero attorcigliati come i serpenti negli emblemi delle farmacie. Puoi credere!

—Non dimenticherò mai come, all'improvviso, sono apparsi davanti a noi, in fondo al parco.

—In quel luogo scuro dove non si osa di entrare a causa degli alberi con le foglie nere.

—Hanno allargato il fogliame e, improvvisamente, li abbiamo veduti: stavano in piedi tra i cespugli.

—Sono rimasta di sasso.

—Ci guardavano.

—Lui si è incamminato verso di noi. Mi sento ancora battere il cuore.

—Hai veduto che occhi?!

—Ho veduto gli occhi, la bocca. E come tremava camminando, lo avete notato?

—Certamente. Non c'eri soltanto tu.

—Perché è ritornato qui? Credi che sapesse che lo si sarebbe aiutato?

—Ha dovuto ricordarsi dei tuoi occhi tondi.

—Tu credi? Ha detto che tornava da restituire il cavallo, perché non voleva che lo si prendesse per un ladro e che si sarebbe sbrogliato lo stesso.

—Allora perché stava nascosto con lei in fondo al parco?

—Ebbene, perché! Non lo sai tu perché ci si nasconde? Le strade erano piene di gente. Non hai veduto?

—No.

—Non hai sentito quando lo diceva?

—Parlava dolcemente.

—Parlava come te e come me.

—Sentivo come se fossi stata sorda.

—Tu guardi troppo, tesorino mio; i tuoi occhi ti perderanno. Ascolta, quando parlano; e ti accor­gerai che è più comodo per fare il proprio interesse.

—Tu credi che abbia mentito?

—Certamente, sciocchina; come vuoi che faccia? Tu ne conosci di quelli che non mentono?

—D'altronde io credo che lei abbia i seni troppo grossi.

—Ma hai visto come si è aperto il cammino a traverso il folto dei pruni?

—E come, subito dopo, ha pensato alla camera grande!

—Perché la finestra era circondata dall'edera.

—Tu credi che sia difficile arrampicarsi come hanno fatto loro!

—Niente affatto: hai veduto? L'edera serviva da scala.

—In fondo è facile.

—Infantile.

—E ora lei è coricata nel letto. Nella barca dei cigni.

—A quest'ora! Spero bene di no.

—Se io fossi al suo posto, ti assicuro di sì.

—Il dopopranzo?

—Perché no? Prima di tutto chi mi direbbe che è dopopranzo? Essi non hanno mangiato. È vero, venite. (Si alzano e salgono la scala). Tu dici che è facile, tu. Io darei tutto quel che ho... Voglia il buon Dio che anche io, come lei, mi trovi in un giorno simile, in una camera simile, anche se io dovessi salirvi con una scala di spine. Non c'è che quello, di vero, nella vita. (Le tre nipoti sono uscite. Entrano Agenore e il maestro).

Agenore                        - No, amico mio; no, mio caro amico; le contingenze, gli avvenimenti, le incarnazioni, sono affari d'organizzazione. Lo so, lo so, voi vivete con gente comune, senza offesa, la quale non sa organizzare la propria vita. Non pensano che al loro commercio. Non è vero?

Il Maestro                     - Comunque, signor barone, vi faccio osservare che voi avete detto anche incarnazioni.

Agenore                        - Occorrono degli agi, capite? E una propensione particolare alla pace. Ascoltatemi bene; particolare ho detto, ma avrei dovuto dire anche esclusiva. Il gusto esclusivo della pace. Ciò che non è del caso quando voi vendete qualcosa, fosse pure un soldo di bottoni da mutande. Voi siete maestro, caspiterina. Ma non venite a dirmi che la pace è un'occupazione da rammolliti.

Il Maestro                     - Ma le incarnazioni, signor barone, le incarnazioni...

Agenore                        - Io ve lo concedo, l'aristocrazia ci dà guanti più arrendevoli, ma in fine non ho... dove sono andate?

Il Maestro                     - Voi avete detto « incarnazioni », signor barone. Ebbene le incarnazioni sono fatti che accadono agli dèi della religione buddista. Tuttavia, signor barone, nella scala sociale gli dèi, gli dèi signor barone, sono al disopra degli aristocratici.

Agenore                        - La religione buddista! La religione buddista!

Il Maestro                     - E Giove?

Agenore                        - E Giove e la religione buddista, e le altre, come le chiamate voi? Ma certamente, amico mio, certamente. Ma quelle cose accadevano nei tempi impossibili! La vostra religione buddista con le foreste, i loti, i ruscelli, le scimmie, mio caro amico, con tutto quel che volete, porta acqua al mio mulino. Non lo direi se il nostro buon amico curato fosse qui. -A proposito, dove sarà andato? -Ma infine, vedete, voi non vi rendete conto che ogni volta che si parla di un nume, si parla sempre di qualcuno che visse nell'antichità. Ma certo che essi non sono al disopra degli aristocratici. Erano gente che viveva ignuda, che faceva i caci con le mani. Ma abbiamo avuto Voltaire, dopo di loro, amico mio. Sta forse a me a dirvelo? E d'altronde perché mi fate parlare degli dèi al plurale? Se il curato mi sentisse metterebbe su muso lungo.

Il Maestro                     -  E la pioggia d'oro, signor barone!

Agenore                        - Ah, in quanto a questo, riconosco... (Entra l'erotte) Che cosa c'è?

Perotte                          - Un avvenimento strano, signor barone. Strano e straordinario.

Agenore                        - Lo strano è, fortunatamente sempre straordinario, Perotte. Sciupate il vostro tempo in pleonasmi. Che cosa succede?

Perotte                          - Ebbene, c'è il fornaio.

Agenore                        - Come, il fornaio?

Perotte                          - Ubriaco fradicio.

Agenore                        - Come, ubriaco fradicio?

Perotte                          - Quanto si può esserlo, signor barone.

Agenore                        - E che cosa diavolo viene a fare, qui: caspiterina!

Perotte                          - Cerca sua moglie.

Agenore                        - Ma io non l'ho mica in tasca della giacchetta, sua moglie, io.

Perotte                          - Gliel'ho detto, signor barone. Tuttavia io debbo spiegare al signor barone che egli non la cerca particolarmente in questo luogo. La cerca anche qui come altrove. È una specie di « globe­trotter ».

Agenore                        - « Globe-trotter? ».

Perotte                          - Sì, la cerca nel mondo e, se ho capito bene, non solamente nel mondo, ma anche al di là del mondo. Nell'universo, per così dire. Non so se mi faccio ben comprendere.

Agenore                        - Niente affatto, Perotte, niente affatto. Assolutamente no.

Perotte                          - Io stessa ho capito con molta difficoltà quel che egli diceva, Gli ubriachi, signor barone, soprattutto quando cercano di dissimulare la loro sensibilità...

Agenore                        - Egli dissimula la sua sensibilità?

Perotte                          - Visibilmente, signor barone.

Agenore                        - Non ci capisco assolutamente nulla.

Perotte                          - Da quel poco che ho potuto capire io stessa, signor barone, mi permetterò di dirvi che egli in qualche modo si crede morto.

Agenore                        - Ubriaco, volete dire?

Perotte                          - No, signor barone, morto. Come Orfeo.

Agenore                        - Come, come Orfeo?

Perotte                          - Non oserò dire che egli attribuisca a sé stesso la rassomiglianza che c'è tra il suo caso e quello del suo illustre predecessore, ma il fatto sta che egli crede, se il signor barone mi permette l'imma­gine, nei boschetti dell'inferno.

Agenore                        - Capisco di meno in meno, Perotte. Se non vi conoscessi, sarei sul punto di credere che anche voi avete bevuto.

Perotte                          - A Dio non piaccia, signor barone! D'altronde posso permettermi di far notare al signor barone che delle sei bottiglie «rosato 1913» che il signor barone ha fatto portare su a mezzogiorno, nessuna è tornata in cantina.

Agenore                        - Finiamola, Perotte; non potete parlare come sempre?

Perotte                          - Mi ci sforzo, signor barone, ma il caso - come ho detto - è nello stesso tempo strano e straordinario. È difficile spiegarlo con calma; do­mando scusa al signor barone, ma io sono obbligata a fare appello a tutti i miei ricordi filosofici.

Agenore                        - Allora cosa volete che vi dica, Perotte, fate appello, fate appello, ma dite una buona volta qualcosa che si possa capire.

Perotte                          - Ebbene, signor barone, si tratta di una specie di ricerca pura.

Agenore                        - Andate al diavolo, Perotte!

Perotte                          - Stavo per dirvelo, signor barone: il fornaio non crede che la fornaia si trovi qui, né che si trovi altrove: egli sa che in qualche posto deve essersi nascosta. Ciò gli basta per cercarla ovunque.

 Agenore                       - Vuoi dire che egli la cerca senza avere bisogno di trovarla?

Perotte                          - In qualche modo, signor barone, imma­gino che gli occorra, malgrado tutto, un po' di spe­ranza; tuttavia, ascoltandolo, si pensa - come ha detto il signor barone - che la semplice ricerca lo soddisfi.

Agenore                        - Come un cane da caccia?

Perotte                          - Superiore!

Agenore                        - Non c'è nulla di superiore a un cane da caccia.

Il Maestro                     - E i vostri aristocratici?

Agenore                        - Lasciatemi in pace, caro amico. Aristos: il migliore. Kratos: forza.

Perotte                          - Ha l'aria di aver trovato una maniera personale di aggiustare le cose.

Agenore                        - Ebbene, vivaddio, Perotte, stiamo per continuare ad avere il pane.

Perotte                          - No, signor barone, il fornaio è in pro­cinto di occuparsi unicamente di se stesso, io credo che ci si possa fare un'idea esatta della cosa...

Agenore                        - Bisognerebbe, Perotte, bisognerebbe.

Perotte                          - Ebbene ecco: secondo me l'immagine del signor barone è giusta: non è più un fornaio, è un cane!

Agenore                        - Ci siete, Perotte, ci siete!

Perotte                          - Mi scuso, mi sento soffocare. Egli mi ha asfissiata. Il signor barone deve bene accorgersene, mi manca il respiro. Quello, non è più un fornaio. Egli cerca il suo padrone. Solamente... ed ecco quando diviene più asfissiante, ci si accorge che la realtà è troppo piccola per la pista che segue la sua fedeltà. Ecco precisamente quello che voglio dire: egli cerca la moglie, ma può cercarla indifferentemente nella Grande Orsa e nelle tasche del signor barone, con tutto il rispetto che gli debbo.

Agenore                        - È una pazzia, Perotte!

Perotte                          - No, signor barone, è una sbornia.

Agenore                        - Amico mio, io ne sono positivamente... E voi che dite?

Il Maestro                     - Signor barone, io trovo tutto questo abbastanza bello.

Agenore                        - Ditemi, Perotte, quanto tempo ha impie­gato il fornaio per sbalordirvi in questa maniera?

Perotte                          - Cinque minuti, signor barone.

Agenore                        - Dov'è adesso?

Perotte                          - Nel salone col signor curato.

Agenore                        - Pulmini del cielo, Perotte, spicciatevi e conduceteli qui, altrimenti, oltre ad essere rimasti senza forno, in due colpi di ramaiuolo resteremo anche senza chiesa.

Perotte                          - (esce).

Agenore                        - Mio caro amico, siamo in pieno Don Chisciotte. Ecco, vedete, quando quella gente comincia a sbrogliarsi da sé... (Entrano il fornaio, il curala e Perotte).

Il Fornaio                      - Avete torto, signor curato. Voi siete giovane. La gioventù fa parlare più rapida­mente della lingua. Non si giuoca con l'inferno come se fosse una trottola.

Agenore                        - Buongiorno, amico.

Il Fornaio                      - Oh! signor barone! Anche voi in questa triste situazione! Ma allora è accaduta una catastrofe!

Agenore                        - Dove vedete una catastrofe!

Il Fornaio                      - Disgraziatamente, dappertutto, signor barone. Io sono morto, come mi vedete, ieri sera un poco dopo le undici e mezzo, in ogni caso mezzanotte non era ancora suonata; ma non avrei mai sperato... voglio dire che non avrei mai temuto, di ritrovarvi tutti all'altro mondo. Stamattina mi sono svegliato e mi sono detto: oh, vediamo un poco ora come si mettono le cose. Il primo che vedo è Achille, il nostro sindaco, sdraiato accanto a me sotto un albero. Ecco la prima cosa che mi son detto: l'albero tu lo riconosci, è la quercia che si trova alla biforcazione della strada di Pignes. Mi guardo attorno; è precisamente così, non soltanto l'albero, ma anche la strada e tutto il terreno circostante e perfino una collinetta lontanissima, dalla parte di Eoumes. Mi dico: Che cosa accade? È possibile che tutte queste cose siano rimaste impresse nell'occhio e che le abbia portate con me? Si sono vedute anche cose più straordinarie di quella di aver veduto una cosa viva e poi di rivederla dopo morta. Ma allora perché proprio quest'albero, quella collina, questo luogo? che cosa potevo farmene della strada di Pignes? Io credevo che una volta morto, avrei avuto ben altre cose da vedere. Guardo in terra e vedo Achille sdraiato accanto a me. Lo tocco, è proprio lui. Si sveglia. Gli dico: « Che cosa fai qui? ». Mi risponde: « Non lo so ». Gli dico: « Io lo so ». Mi dice: «Parla». Gli dico: «Sei morto ». Mi dice: «Leviamo lo scherzo». Gli dico: «Ascolta. Te ne ricordi d'ieri sera?». Mi dice; «No». Gli dico: « Ricordati: sei venuto a casa mia per dirmi di fare il pane. Tu mi hai detto: L'amore è una bella cosa, ma il pane è necessario». Mi dice: «Me ne ricordo». Gli dico: «Abbiamo un poco discusso, poi abbiamo trincato, e dopo io sono morto, mi sono impiccato ». Mi dice: «Mi sembra». Gli dico: « Ricordati bene, dopo sono venuto con te al municipio ». Mi dice: « Sì ». « Abbiamo preso il registro». Mi dice: «Sì». Io ti ho detto: « Segnalo sul registro e così le formalità sono finite ». Mi dice: «Sì». «E tu l'hai segnato». Egli dice: «Sì, me ne ricordo ». « Hai messo su il timbro ». « Sì ». «Hai firmato». « Sì ». « Te ne ricordi? ». « Benissimo ». Allora tu mi hai detto: « Onorato, non andartene, voglio morire anch'io ». Allora io ho detto: « Hai ragione; bene, vieni, è notte, se vuoi morire è cosa facile, andiamo in campagna, saremo più tranquilli ». Tu mi hai detto: « Sì, voglio morire ». Allora ti ho detto: «Poiché siamo qui, segnati sul registro, così non avremo la seccatura di dover ritornare per farlo. Sbarazziamoci delle formalità, così appena sarai morto, ci sdraieremo e potremo dormirà tranquilli ».

Il Curato                       - Ma disgraziato, vi rendete conto di quel che dite? Voi parlate di suicidio. È un peccato orribile.

Il Fornaio                      - Signor curato, è possibile, ma io mi sono suicidato per legittima difesa. E Achille si è suicidato perché... ha detto: «Non so se nella Luna o nel Sole sia lo stesso, ma certamente sulla Terra è tutta una banda di sudicioni ». Voi comprendete, signor barone?

 Agenore                       - Comprendo, amico mio.

Il Fornaio                      - D'altronde Achille è giù nel vesti­bolo. Voi non siete obbligato a credere alle mie parole. Chiamatelo e sentirete che cosa vi dirà. È lui che mi ha condotto qui col suo calessino. Ed è precisamente qui che ho capito che c'è stata una catastrofe. Achille mi ha detto : « Vieni ». Si fila. Un momento dopo io mi dicevo già: ma questo è il campo di Ernesto; quella è l'erba medica di Luciano, quest'altro è il campo d'Alfredo, è buffo questo fatto. Achille mi dice: «Guarda, la mia scuderia è morta anche lei». Era vero; la sua scuderia era là con noi sull'orlo della strada all'entrata del villaggio. Io mi dicevo: « Ma allora il villaggio è morto anche lui! ». Achille mi dice: « Vieni, entriamo ». Apre la porta e mi dice: « Guarda, il mio cavallo è morto ». Era vero, era là. Davanti alla sua greppia, morto; attaccato con la catena morta, sopra un mucchio di paglia morta. Achille mi dice: « Guarda, anche il mio barroccino è morto». Era vero: il barroccino era là. Gli dico: « Achille, che vuoi, facciamo buon viso a cattiva sorte: attacca e andiamocene ». Si attacca e si parte. Allora, naturalmente, abbiamo veduto che tutto era morto: il villaggio, i campi, le strade, gli alberi, le colline, le nuvole, tutto! Perfino la gente. Abbiamo incontrato Anatolio, Giuseppe, Raffaello, Marcellina, Noemi. Achille m'ha detto: « Vieni, vieni, sono insop­portabili da morti come da vivi, andiamocene altrove ». Poi abbiamo veduto il vostro castello. Abbiamo detto: «Guarda, anche il castello è morto». Ma in verità, signor barone, non credevo che voi foste qui dentro. Abbiamo detto: «Andiamo a vedere, tanto ormai che cosa si rischia?». Appena entrati, la prima persona morta che vediamo è la signora. Oh, allora mi son detto: « Deve essere accaduta una catastrofe ». Ne entra un altro: è il signor curato. Fra noi, signor curato, avrei creduto che voi foste in un altro scom­partimento, voi. Entro qui e chi vedo? Il signor barone e il signor maestro. Allora mettetevi un poco al mio posto! Che cosa volevate che pensassi?

Agenore                        - Ebbene, amico mio, diteci precisa­mente quel che ne pensate.

Il Fornaio                      - Dico la verità: io non penso che vi siate impiccati tutti. E non penso nemmeno che tutto il mondo sìa morto per il fatto che mia moglie è scappata. Quel che riguarda me, riguarda me. Che io mi trovi in questa situazione, è naturale. Ma il signor curato, per esempio, in che cosa questo può farlo morire? Morto io, non c'è più curato, non c'è più barone, non c'è più villaggio, non c'è più albero, non vi sono più nuvole, più strade, più nulla; e questo va benissimo. Achille viene con me, è mio compagno, e anche ciò va benissimo. Ma che voi veniate tutti: Anatolio, Giuseppe, Noemi, la signora, e perfino la collinetta, laggiù verso Roumes, è una altra storia. Ci deve essere un'altra ragione. Voi siete a un banchetto. Ora vi spiego come la capisco io: vi si fa mangiare qualche cosa che vi fa male; uscite per vomitare; che il vostro compagno esca con voi per reggervi la fronte, lo capisco; ma uscendo, voi non vi portate dietro la coppa, il coperto, la sedia e i compagni. E allora?

Agenore                        - Precisamente; e allora? Continuate, amico mio, voi parlate a un uomo di buon senso, continuate e vedrete che tutto si chiarirà.

Il Fornaio                      - Ne ho bisogno, signor barone-Prima di tutto una cosa di passata. Mi rendo conto, ora, che, a meno di non essere decisi, come me per ragioni molto importanti, a morire, quando si è morti non si vuole che sia detto. Tutti voi non volete che sia detto. Anche ad Achille è stato necessario che glielo spiegassi. E anche lui aveva le sue ragioni. Allora si vede che tutti voi siete morti senza una ragione. Sono cose che accadono.

Il Maestro                     - Ve n'è sempre una.

Il Fornaio                      - Signor maestro, vi spiegherò che cosa voglio dire. Immaginate che quando eravamo vivi tutti e due, io'fossi stato cattivo, che io vi abbia preso pieno di vita e vi abbia cacciato in una cantina senza sole, senza niente, con appena un po' d'aria. E che non vi abbia dato niente da mangiare. Se voi non siete un terribile, vi mettete a gridare, a piangere e poi, a lungo andare, morite. Se siete un terribile - e questa è una cosa che non si vede, perché a volte si è terribili dentro di se - se siete un terribile, un bel giorno, preso dalla rabbia, vi mangerete una mano, un altro giorno il braccio, poi le gambe e poi tutto. Signor maestro, voi divorate voi stesso. Questo è ciò che il curato chiama un peccato orribile e che io chiamo una legittima difesa. Ebbene, quando siete morto dopo esservi divorato, non bisogna che sì cerchi di ingannarvi, ciò non attacca, perché voi sapete benissimo che siete morto. Ecco ciò che chiamo una ragione per morire.

Agenore                        - E allora come credete che possa essere accaduto a noi? Voi siete vicino a scoprire la verità, amico mio, e allora vedrete che sorpresa!

Il Fornaio                      - Che io riesca a scoprire la verità, non mi stupirebbe, perché ne ho il mezzo, e vi dirò quale: quel che mi stupirebbe sarebbe che io ne restassi sorpreso. Vi dirò il mio mezzo; si tratta del vostro pastore, signor barone, dell'uomo che ha portato via mia moglie. Egli sapeva nuotare? .

Agenore                        - Amico mio, ricadete sempre sulle medesime cose.

Il Fornaio                      - No, signor barone, no, non preoccu-patevene, ciò non ha importanza. La sola cosa che abbia importanza è di sapere se egli sapeva nuotare; anzi, se era un buon nuotatore. Allora vedrete che tutto si spiega, e che sarete voi a scoprire la verità; e vedrete come ne resterete sorpreso!

Agenore                        - Ebbene, credo, anzi sono sicuro, che sapesse nuotare molto bene.

Il Fornaio                      - Allora so di che cosa siete morti.

Agenore                        - Di che cosa siamo morti?

Il Fornaio                      - Voi siete morti tutti affogati.

Agenore                        - Vediamo, amico mio, sedetevi...

Il Fornaio                      - No, no, signor barone, voi siete molto gentile, ma io non mi seggo. Bisogna che me ne vada, Achille mi aspetta; abbiamo ancora molte cose da fare.

Agenore                        - Trattenetevi ancora un istante. Si ha un bel non averne l'aria, ma capirete che a noi interessa moltissimo di sapere come siamo morti. Se lo sapete, bisogna dircelo. Permettete che io mi segga. Ho un bell'essere morto, ma alla mia età...

Il Fornaio                      - Ve ne prego, signor barone, ve ne prego, sedetevi.

Agenore                        - Io non vedo perché, per il fatto che il nostro pastore sa... Non capisco che rapporto ci sia!

Il Fornaio                      - Ma tutto è qui, signor barone, è tutto qui. Basta di avere un po' di comprendonio. È vero che questo ragionamento, senza voler fare un torto alla vostra intelligenza, sono io solo che lo posso fare! Ascoltatemi bene, è molto facile. Voi siete tutti morti, tutto è morto: villaggio, nuvole, strade, querce, pioppi, cavalli e colline. Voi non lo sapete, ma io lo so: non ho che da guardare ogni cosa, per sapere. Dal punto in cui mi trovo, ciò si vede benissimo. Ma che cosa ha potuto farci morire tutti insieme, tutti d'un colpo? Esistono scosse tel­luriche, il fuoco, il freddo, vi è... voi siete più istruito di me, e lo sapete benissimo. Fra tutto questo, biso­gna scegliere. Ed è stato appunto per scegliere, che vi ho domandato se il pastore sapeva nuotare. Perché voi siete tutti morti, salvo... è precisamente a questo punto che l'affare si sbroglia, che tutto si spiega, e che diviene chiaro come il giorno... salvo quel che riguarda il pastore e mia moglie. Mi seguite?

Agenore                        - No.

Il Fornaio                      - Non importa, ora capirete. Chi ho incontrato da stamani in qua? Tutti, perfino il vostro castello, meno mia moglie e il pastore. Ora so che il pastore sa nuotare. Il fuoco? Sarebbe bru­ciato anche lui come tutti gli altri. Si ha un bell'essere quello che è, il fuoco è sempre il fuoco, non è vero, signor barone? foste pure il Papa, il fuoco è sempre il fuoco. Un terremoto? È una cosa terribile il terre­moto, vi sotterra ventimila alla volta, e una volta sotterrati, tutto è finito. Ma l'acqua, signor barone, l'acqua? Si nuota. Voi mi capite. È arrivata l'acqua e siamo affogati tutti: cavalli, calesse, scuderia, castello e perfino voi. L'acqua è terribile, ma si può nuotare. Voi mi direte: « Io so nuotare. Giovanni, Pietro, Paolo, sanno nuotare. Polvere, signor barone, polvere, ve lo garantisco, perché l'acqua che affoga una collina è un bel colmo d'acqua, e le braccia, di solito, sono molto deboli. Ma il pastore era con mia moglie. Ah, signor barone, voi non sapete che cosa vuol dire questo! Gli è venuta una forza straordinaria, a quell'uomo! Ha afferrato mia moglie e ha nuotato con l'altro braccio. Ha nuotato con una gamba, ha nuotato con l'altra, le ha mantenuto la testa fuor d'acqua. Voi non sapete quel che è possibile fare per qualcuno che amiamo. E mentre voi morivate tutti, egli l'ha salvata e si è salvato. Ecco la verità.

Agenore                        - Calmatevi, povero amico, calmatevi, siete molto scosso.

Il Fornaio                      - Oh, no, signor barone, non sono affatto scosso; anzi, fino a un certo punto sono per­fino contento. Io, ormai sono in pensione. Una volta morto, che cosa volete che io sia? Sono contento che quell'uomo abbia avuto tanta forza. In questo momento essi debbono essere vivi, su qualche altura.. Non basta volere, signor barone, bisogna potere Con me, mia moglie sarebbe affogata. Sì, sì, come me, come tutti voi, come gli altri. Noi saremmo forse morti affogati insieme, ma dopo tutto, anche questa non è una soluzione. Sì, sì, mi conosco, e ora anche meglio di prima. Volere? Ah, signor barone, volere, forse io lo avrei voluto più di quell'altro, ma la mia forza, no. (Le tre nipoti, vestite con costumi antichi e coi volti coperti da maschere di velluto nero, scendono la scala).

Agenore                        - Non vi turbate amico mio, non so che cosa significhi questa mascherata in ogni modo deliziosa, ma posso assicurarvi che ciò non ha alcun rapporto...

Il Fornaio                      - Il signor barone non conosce l'in­ferno. È come il signor curato. Tutto è in rapporto.

Agenore                        - Vi assicuro di no, sono le mie nipoti.

Il Fornaio                      - Ah! Avete un fratello?

Agenore                        - Sì, ho molti fratelli un po' dappertutto. Noi siamo tutti fratelli, non è vero? E voi, signore, avete scelto male il momento. Abbiamo qui un for­naio che non ha voglia di ridere.

Le Nipoti                      - È quello che non vuole più fare il pane?

Il Fornaio                      - No, signorine, è quello che non può più fare il pane. Non so come si faccia, perché non sono mai stato famoso per la mia intelligenza, ma ho l'impressione di conoscere l'inferno meglio di tutti voi.

Il Curato                       - Voi siete un empio, ve lo dico senza collera, perché non si può essere troppo esigenti con quelli che non sono andati a scuola abbastanza.

Il Fornaio                      - Signor curato, io vi amo. Avete due belle gote rosse, siete allegro come un passerotto, fresco come una rosa, grazioso come un cuore, vi agitate sempre come il vento, siete un miracolo! Ve lo dico perché forse, se vi lascio solo con voi stesso, non riuscirete a rendervene conto. Ed è proprio questo il miracolo. Lo sapete che cos'è un uomo? Non un uomo qualunque, signor curato, ma uno che è sulla terra per essere... Io guardo quelle gra­ziose signorine e dico: importunato. Davanti alle signore bisogna sapersi contenere. Voi siete un uomo, ma nessuno vi importuna. Per colmo, voi siete giovane. Allora cosa volete che vi dica? Un miracolo non comprende l'inferno, che è tutto il contrario.

Il Maestro                     - (al curato) Caro amico, ecco che il più umile degli uomini, sperduto in fondo a un villaggio, se vuole, ne sa più del Papa.

Il,Curato                       - Se vuole.

IlMaestro                      - Comunque, un Padre della Chiesa...

Il Curato                       - Un Padre della Chiesa...

Il Maestro                     - Sì, un Padre della Chiesa ha detto la stessa cosa. In un'altra maniera, lo riconosco; ma dopo tutto io non penso che il fornaio abbia letto...

Il Curato                       - No, lui non ha letto, e d'altronde io non capisco di quale Padre della Chiesa vogliate parlare. Ma voi avete detto: se vuole! Non è «se vuole »; ma ammetto che, in certe circostanze parti­colari, la disgrazia, il dolore...

Il Fornaio                      - (alle nipoti) Vi guardo con piacere, voi tre, signorine. Eppure vi manca tutta la parte superiore della testa. Deve esservi accaduta una spaventevole disgrazia. È molto tempo che siete morte? Dal vestito che indossate si direbbe che debbano essere passati dei secoli.

Le Nipoti                      - Ma non siamo affatto morte.

Il Fornaio                      - Lo so. Ecco, il signor curato ha parlato anche lui di disgrazia. Ebbene, vedete, finché non lo si sa, non è una disgrazia. Allora continuate a ignorare.

Le Nipoti                      - Ma non c'è stata nessuna disgrazia!

Il Fornaio                      - In ogni modo, ascoltate: non voglio farvi del male. Al punto in cui siamo, tanto gli uni che gli altri, se non c'è un po' di fratellanza ora, non vale la pena che ci si prepari il colpo di tutto ciò che chiamano la Terra. Ma c'è una cosa che è impossibile di nascondervi. A voi manca la metà della testa. Voi non avete fronte, né naso, e i vostri occhi stanno sospesi per aria da sé, puramente e semplicemente come se fossero stelle. Certamente non sarete nate così. Vostra madre avrebbe avuto una crisi di nervi. E, a meno che non siate bugiarde, cosa che non mi stupirebbe dato che vi è rimasta la bocca, non potrete dirmi che quando avete perduto quella mezza testa, non ve ne siate accorte.

Le Nipoti                      - Ma noi non abbiamo perduto niente, abbiamo sempre la nostra testa tutta intera.

Il Fornaio                      - Tuttavia, se non c'è inferno che tenga, io sono obbligato a credere a quel che vedo.

Le Nipoti                      - Basterebbe un gesto. Ora vedrete.

Il Fornaio                      - Non vi muovete! Non vi muovete. Scusatemi, signorine, se ho gridato. Ve ne prego, abbassate le mani, lasciatele ricadere lungo i vostri fianchi. Non toccate il vostro volto. E non serbate rancore a quel vecchio stupido che sono io. Ho rico­minciato a soffrire tutto a un tratto come se avessi ricevuto una coltellata nel costato. Comincia a pas­sarmi, aspettate. Sapete che cosa accade? Se per disgrazia fosse vero quel che dite, se tutto a un tratto i vostri volti ridiventassero quelli che furono, e un naso spuntasse sopra la vostra bocca, e i vostri occhi che vedo brillare nel vuoto apparissero ribaditi nella carne, vorrebbe dire... Signor barone, voi non dite niente? Aiutatemi un poco.

Agenore                        - Io non posso, amico; sono uno spetta­tore e assisto. Andiamo, signore, ve ne prego, non muovete le braccia e lasciate stare le maschere. Lasciatelo fare. Qui, vi ripeto, siamo in pieno Don Chisciotte. Voi non ci capite niente, io non ci capisco più di voi, ma i pazzi sanno dove vanno.

Il Curato                       - Non bisogna fingere.

Il Maestro                     - Ma non fingiamo affatto. Guar­datelo! Si direbbe che bisogna insegnargli tutto.

Perotte                          - Si direbbe che egli ritorna alla vita! Or ora sembrava che la trovasse amara, e ora si direbbe che gli appare più dolce. Io li conosco gli uomini. Scusatemi se ho parlato.

Agenore                        - A bassa voce potete parlare, Perotte.

Il Fornaio                      - Vi sento parlare di me come di qualcuno che non fosse presente. Avete ragione, sto per tornare sulla terra. Chi non ha sognato, a un dato momento, di cancellare la vita? Ammettiamo che sia domenica. Ammettiamo di tornare quattro o cinque giorni indietro e che quel che è accaduto, non sia ancora accaduto. Cancelliamo anche tutta la settimana che viene, per non correre il rischio di non cancellare tutta la disgrazia. Io l'ho sognato, lo sogno. La cosa noiosa è che la vita bisogna viverla tutta filata. Lei comincia, e a partire da quel momento tira diritto fino alla fine. Non si può scegliere. Se lei vi presenta qualcosa di troppo cattivo, bisogna mangiarlo. Voi non potete fermare il cucchiaio. « Ascoltatemi, signorine. Sono tornato sulla terra, in un batter d'occhio, quando ho veduto le vostre mani alzate e voi avete detto: vi mostreremo la nostra testa intera. Non vi fidate. Da quando mi sono impiccato, ho imparato una cosa: che si poteva provare piacere anche con la disgrazia. Non un gran piacere; non è una gran cosa, ma è un piacere. Mentre nel batter d'occhio che mi ha rigettato sulla terra, non ne ho provato nessuno. La vita è sempre pronta col suo cucchiaio d'olio di fegato di merluzzo. Non si è mossa: tale e quale era nel momento in cui mi ero passato la corda intorno al collo. Le prime parole che mi ha detto sono state: apri la bocca. No, voi capite, io non mi sono ammazzato per il re di Prussia, mi sono ammazzato per me. Soltanto, se è vero quel che voi dite, e cioè che con un gesto, la vostra testa ritorna, vi renderete conto di ciò che vorrebbe dire. Vorrebbe dire che si può passar sopra alle catastrofi ».

Le Nipoti                      - (senza muoversi) Si può, state per vederlo.

Il Fornaio                      - Fate bene attenzione a quel che dite. Non mi date false speranze. Se non fosse vero non avrei più nemmeno la risorsa di morire. Dite, signor curato, voi che vi intendete un poco di queste cose, quel che mi accade, la speranza che ho, la paura che ho, mescolate in questo modo, non è quel che voi chiamate i tormenti dell'inferno? Dite: io non sono stato cattivo, io; e non sarebbe giusto che ora ci si divertisse a farmi soffrire. Voi capite questo, signor curato. Parlate, difendetemi un poco voi.

Agenore                        - Aspettate...

Il Fornaio                      - Oh, signor barone, voi che siete un uomo ragionevole...

Agenore                        - Sì, venite, sedetevi sulla mia poltrona.

Il Fornaio                      - Questo somiglia a quel che ho letto sulle esecuzioni capitali; non mi piace affatto.

Agenore                        - Non vi agitate così, nelle esecuzioni capitali non vi sono poltrone.

Il Fornaio                      - Quel che mi fa paura, signor barone, non è la poltrona, è la vostra gentilezza.

Agenore                        - Sedetevi.

Il Fornaio                      - Signor curato, se mi fanno del male, siete responsabile voi.

Agenore                        - Non abbiate paura, ora vedrete. La vita s'impara a poco a poco, amico mio. Voi avete rag­giunto un'altissima filosofia.

Il Fornaio                      - Ma non l'ho fatto apposta, signor barone; io non l'ho fatto apposta.

Agenore                        - Vi siete giunto senza saperlo, ma ora vi sarà molto utile.

Il Fornaio                      - No, no, ascoltate ; lasciatemi sbro­gliare da me; io non sapevo che non bisognava toc­carla... non ne ho bisogno. Credetemi, io sono un galantuomo.

Agenore                        - Tenetegli le mani in modo che non possa coprirsi gli occhi. Non abbiate paura, è per il vostro bene.

Il Fornaio                      - Ah, signor barone, quando il bene ve lo fanno per forza...

Agenore                        - Toglietevi le maschere, signore. (I tre bellissimi volti appaiono).

Il Fornaio                      - Signor curato, io credo in Dio. Venite, fate presto. Venite con me, cerchiamo un angolo appartato e insegnatemi subito le preghiere. Tutte.

Agenore                        - Questo non vi farà male, amico mio; ma più tardi. Per il momento non bisogna più parlarne. Venite con noi, passiamo nella stanza accanto, e mangerete un bocconcino. Finirete così di rimet­tervi completamente.

Il Fornaio                      - Una parola. Non vorrei ritornare alla vita, per tutto l'oro del mondo. Ma sono contento che nulla sia accaduto. Il terribile, vedete, fu che lei scappò sopra un cavallo. Sapete che cosa avrei rimpianto, durante tutto il mio inferno? Sto per dire una cosa non bella: non avrei rimpianto mia moglie, ma di non avere avuto un cavallo, io! (Escono il barone e il fornaio, seguiti da Perotte).

Il Curato                       - lo non amo le bugie.

Il Maestro                     - Vivete, vecchio mio, vivete, e vedrete. (Tutti escono, tranne le tre nipoti).

Le Nipoti                      - Lei è sola, lassù?  Lui non rientrerà che a mezzanotte. È andato a cercare un nascondiglio tra gli stagni.

—Non bisogna che lei resti qui. " Hai chiuso bene la porta?

—Sì.

—Hai la chiave?

—Sì.

—Non potrebbe scendere che dalla finestra, lungo l'edera.

—Sei pazza! La vedrebbero...

—Bisogna che se ne vada.

—Che cosa possiamo fare?

—Venite, lei non ha che da vestirsi come noi e mettersi una maschera. E mentre tutti loro sono là dentro, andarsene. (Montano la scala correndo, ed escono. Entrano, per la porta di fondo, i tre uomini, poi Perotte).

I tre Uomini                  - Vi diciamo che si è visto.

Perotte                          - Chi, lei?

I tre Uomini                  - No, lui.

Perotte                          - Chi lui!

I tre Uomini                  - Il pastore.

Perotte                          - Dove?

I tre Uomini                  - Negli stagni. Lei, deve essere là dentro anche lei.

Perotte                          - Io mi domando, dite un poco, signori; in fondo noi ci immischiamo in una cosa che non ci riguarda. Sapete che cos'è l'amore?

I tre Uomini                  - Siete molto buona, voi. L'amore è una bella cosa, ma il pane? Dov'è il barone?

Perotte                          - Venite.

I tre Uomini                  - Bisogna circondarli prima di notte, poi accenderemo le torce. Si prenderanno come i cinghiali. Bisogna irritare le bestie. Noi sappiamo cacciare, signora. Bisogna dire al barone che porti le sue trombe da caccia. (Escono. Silenzio. Nella sala deserta, Aurelio mascherata scende la scala. È vestita con un ricchissimo costume campagnolo. Quando arriva all'ultimo scalino, il fornaio entra).

II Fornaio                      - Buongiorno, signora.

Aurelia                          - (parlando a bassa voce) Buongiorno,

signore.

Il Fornaio                      - Mi sembra di riconoscere questa voce.

Aurelia                          - È possibile.

Il Fornaio                      - Può anche darsi che non sia possi­bile, sapete. Non vi spaventate. Mi accadono cose talmente straordinarie!

Aueelia                          - Vorrei andarmene.

Il Fornaio                      - Non ve lo impedisco. Non l'ho mai impedito a nessuno.

Aurelia                          - Arrivederci, signore.

Il Fornaio                      - Arrivederci, signora. Voi non volete ritrovare il vostro vero volto?

Aurelia                          - Che volto?

Il Fornaio                      - Non eravate qui, or ora!

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Ah, credevo che foste una di quelle tre che mi hanno restituito la speranza.

Aurelia                          - Vi hanno reso la speranza?

Il Fornaio                      - Non lo credete?

Aurelia                          - Vorrei soltanto sapere di che speranza si tratta.

Il Fornaio                      - Voi siete la prima che mi parla bonariamente. Quel che dite, lo capisco sùbito. Infatti, o'è speranza e speranza.

Aurelia                          - Per certe cose sarebbe una pazzia nutrire della speranza.

Il Fornaio                      - Lo so.

Aurelia                          - È un atto di carità dirvelo egualmente.

Il Fornaio                      - Non vi date pensiero, ho fatto i miei conti e tornano bene.

Aurelia                          - Vorreste dirmi i conti che avete fatto?

Il Fornaio                      - Oh, è una storia da ubriaco, cantata da un pazzo in fondo a una cantina.

Aurelia                          - E credete che quella possa accomodare, che cosa?

Il Fornaio                      - Un'altra cosa che è ubriacatura, pazzia e ombra.

Aurelia                          - Tutto ciò che sta sotto il sole, voi lo trovate nero! Ebbene, sappiatelo, vi sono delle cose dorate.

Il Fornaio                      - Lo so, ma questo dipende dal luogo in cui ci troviamo. Dal punto in cui ora mi trovo vedo benissimo il vostro giubbetto di amoerro, il vostro gonnellino di seta e la crocetta, forse d'oro, che pende dalla collanina. Ma se vi guardo di fianco, dove voi siete nell'ombra, vi vedo tutta nera.

Aurelia                          - Non voglio parlare soltanto di quel che brilla.

Il Fornaio                      - Vedete, signora, se voi volete insegnarmi, credo che sarà difficile; io sono contento di avervi incontrata in questo luogo dove, ancora per un istante, non vi sarà troppo rumore. Fintanto che essi non avranno trovato il corno da caccia. Tutti si divertono con le cose dorate, anche i ciechi in piena notte. E so benissimo che non si tratta del sole di tutti, ma che ognuno si serve del suo come di una lampadina tascabile. Nella situazione in cui siamo tutti e due adesso, non è più questione di galanteria, non è vero? Noi siamo sotto un famoso cappuccio, non è vero? Ebbene, nella doratura che avete davanti a me, vi sono due o tre punti che, per me, sono più dorati di tutto il resto. Non bisogna credere che perché un uomo ha il naso a manico di biliardo... C'è il vostro ventre e il vostro petto. Ma sono nell'ombra. La vostra gonnella vi copre come un muro.

Aurelia                          - Il vantaggio è di chi possiede la luce più forte.

Il Fornaio                      - Nella vita, sì; ma la morte istruisce. Per forte che sia, il sole stesso non può illuminare tutte le cose. Avete guardato il sole? Non si può fissarlo, è un diavolo e tiene un posto considerevole: ricordatevene! E che cosa fa con la sua grandezza? Siete davanti a lui piccolo come un granello di farina, e non può illuminarvi tutto. Egli non è che da un lato. La farina del pane che cos'è? Nulla. Ne tenete un po' nel cavo della mano e soffiandoci sopra la fate volare. Polvere! Ma al sole anche lei fa ombra. Un lato solamente. Ricordatevi di questo, signora. Io dico questo a voi, signora, ma per voi, come per me, è troppo tardi; non è vero?

Aurelia                          - Avete sofferto molto?

Il Fornaio                      - Ebbene, anche questo, è tutt'un altro discorso. Ma io vi trattengo. Forse volete andar­vene?

Aurelia                          - Cade la notte; aspetto ancora un minuto. Preferisco che sia notte completa.

Il Fornaio                      - Sì, la notte ha molti vantaggi per chi ha il cuore stanco.

Aurelia                          - E ne ha molti anche per coloro che vogliono con un salto piombare in piena felicità.

Il Fornaio                      - Allora occorrono occhi di fosforo.

Aurelia                          - Guardate le volpi, i gatti, le donnole...

Il Fornaio                      - Non mi parlate che di animali che hanno denti come aghi.

Aurelia                          - Come fare senza lacerare? Lo sapete voi?

Il Fornaio                      - No, ma quando si hanno denti troppo appuntiti, alle volte si resta attaccati a quel che si morde; non si può più staccare la bocca e si soffoca.

Aurelia                          - Lasciate fare. Almeno si muore a pancia piena. L'importante è di sapere se voi avete sofferto.

Il Fornaio                      - Importante? Perche? Per ragioni di questo basso luogo, dell'inferno, volete dire? Deve essere molto sgradevole trovarsi in prigione con alcuni innocenti.

Aurelia                          - Ma no, non è per questo. Io me ne vado, le strade sono aperte, che voi siate innocente o colpevole, non ha grande importanza, dal momento che sono libera. (Si odono i corni da caccia).

Il Fornaio                      - Voi non avrete una gran notte, questa notte, signora. Sono partiti con le loro trom­bette e con le loro fiaccole. Ci vedrete troppo ad ogni passo, per èssere libera. La foresta, con tutte le loro fiaccole tra gli alberi sta per diventare un teatro. Danno la caccia a mia moglie.

Aurelia                          - Ma non la troveranno.

Il Fornaio                      - Sicuramente non la troveranno.

Aurelia                          - E voi lo sapete dov'è?

Il Fornaio                      - A che servirebbe che ella sia stata mia moglie per tanto tempo, se io non sapessi conti­nuamente dov'è? Io lo so, non dubitate. È su qualche altura. Sto per dirvi un segreto: non lo ridite a nesnuno. Credete che li avrei lasciati fare se, con tutto quel che faranno con le loro faci e con le loro trom­bette, avessero potuto disturbarla? Avrei trovato qualche strattagemma... Ma no, là dove essa si trova, possono farsi raschiare la gola a somare nei loro corni da caccia, lei non sentirà; e possono illuminare tutte le montagne circostanti, ella non vedrà neppure la più piccola scintilla.

Aurelia                          - Infatti avete l'aria di saperne più che non si creda.

Il Fornaio                      - Lei è come si direbbe al disopra delle acque, e tutto il fracasso che possono fare, le passerà di sotto, nelle profondità. Come pretendono che ella li senta? È una caccia di annegati. Voi non sapete nuotare? Io non più di voi. Ma ho sentito dire che nell'acqua, il minimo gesto costa una fatica terri­bile. Quando ci si annega, s'immagina di fare un chiasso di mille diavoli, di saltare gridando per farsi sentire dal mondo intero. Non è vero, siamo bagnati, tutti ricoperti, con la bocca piena d'acqua; è tanto se ci si muove ancora un poco come l'erbe, e nessuno ci vede.

Aurelia                          - Bisognerebbe imparare a nuotare.

Il Fornaio                      - Occorre di tutto, per fare un mondo. (Si odono i corni da caccia) La sentite, questa fan­fara di trote? Arrivederci, signora. Essi debbono credere di fare qualcosa di terribile nei grandi bo­schi, nelle foreste illuminate! Bisognava farlo prima! E bisognava far cose sottili come un capello. (Esce).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Nel bosco, sulle rive dello stagno, di notte. (Entra un uomo inseguito da una donna che porta una torcia accesa).

La Donna                      - Vieni qui, che ti dò uno schiaffo.

L'Uomo                         - Domani, aspetta!

La Donna                      - Puzzi di muschio. Ti sei strofinato a una femmina! Che cosa facevi tra i cespugli? Ti ho veduto, sai. Vieni qui, col tuo muso di maiale, bugiardo!

L'Uomo                         - Il colera delle femmine! Giù le zampe!  Questa mi strapperebbe gli occhi. Dopo tutto, ammet­tiamo!

La Donna                      - Ammettiamo che cosa?

L'Uomo                         - I tuoi cespugli, la tua donna, il tuo muschio, la tua storia; sì, ammettiamo tutto.

La Donna                      - Dammi le tue gote di bue, e sentirai le mie unghie!

L'Uomo                         - Aspetta, diavolo! Che cosa vuoi fare con i tuoi unghioli di coniglia? Aspetta un poco! Se fossi stato colpevole, avrei mentito.

La Donna                      - Che bugiardo! Se ti ho veduto!

L'Uomo                         - Giù le zampe, ti dico! È vero. Ma tu sai bene dove ci troviamo.

La Donna                      - Siamo nel posto in cui ti scorticherò.

L'Uomo                         - Aspetta, testa di mulo; che ore sono?

La Donna                      - È l'ora in cui ti scorticherò.

L'Uomo                         - Sei come tutte le altre; per il piacere d'un po' d'amore proprio, predichi contro la tua vita.

 La Donna                     - Cos'è questa nuova canzoncina? Credi di farmi paura?

L'Uomo                         - Io no. Cos'è questo luogo? Una foresta. Eri mai venuta qui di notte? No. Che ore sono? È quasi mezzanotte. Li senti ancora i corni da caccia? No. Hanno forse trovato la fornaia? No. Or ora, passando di là, sono rimasto impigliato coi piedi in un rovo e sono caduto. Ecco che cosa mi è successo. Pretendi forse di saperne più di me? Vedo qualcosa in terra e comincio a tastare. Sì, ho veduto che era una donna, un donnone, che soffiava come una balena. Stavo per rivolgerle la parola, quando sei arrivata. L'hai sentita scappare? Sembrava un elefante. Hai sentito come schiacciava tutto correndo? Lo vedi, bisognerebbe sapere, prima di parlare. Tu lo capisci, non sono cose che accadono tutti i giorni.

La Donna                      - Quel che capisco è che mi fai ridere. Tieni, prendi la torcia, tocca a te ora a reggere il moccolo. E a me di occuparmi un poco del mio lardo, anch'io. Lo troverò bene anch'io, un elefante, là dentro, per strofinarmi un po' a lui. Non credere che mi lasci soppraffare da te.

L'Uomo                         - Aspetta un po', diavolessa, vieni qui, ascolta. (Escono inseguendosi. Entra Agenore vestito da cacciatore seguito da Perotte che ha i capelli pieni di foglie secche).

Agenore                        - Soffiate come un mantice, Perotte.

Perotte                          - Vorrei vedere il signor barone al mio posto!

Agenore                        - A quale posto, Perotte?

Perotte                          - In questa maledetta situazione! Signor barone, in questa foresta c'è un odore... un calore... Che volete, signor barone, i corni da caccia mi hanno sempre fatto venire il brivido.

Agenore                        - Siete forse una specie di cervo, Perotte; volevo dire, una specie di cerva?

Perotte                          - Sicuramente una specie di cervo, signor barone.

Agenore                        - Sentite la stretta della morte?

Perotte                          - Sento la stretta, signor barone, pro­prio così.

Agenore                        - Siete forse il seguito d'Isotta, Perotte?

Perotte                          - Come, il seguito, signor barone?

Agenore                        - Come tutti i seguiti, ahimè, Perotte, in parecchi volumi.

Perotte                          - Il signor barone si burla di me.

Agenore                        - No, Perotte.

Perotte                          - Allora è insensibile.

Agenore                        - No, Perotte, è barone. (Entra il fornaio).

Il Fornaio                      - Il vento viene da Nord. La luna sorge e fra poco ci vedremo come di pieno giorno. Soffiatemi ancora un poco nei vostri corni. Si produce là a sinistra, un'eco che mi piace molto. (Suoni di corni) Se questo tempo continua, signor barone, tra poco avremo le mosche.

Agenore                        - Di che mosche intendete parlare, amico mio?

Il Fornaio                      - La caccia è cominciata, signor barone. Sono due ore che sentite i corni echeggiare nella foresta, e voi dovete pensare che si sia cambiato idea e che si vada a caccia al leone o al serpente boa. No, no, si caccia sempre un fantasma, signor barone. Ma questa volta, da cinque minuti, la caccia è veramente cominciata, si può dire. I cacciatori hanno scorto, pare, un tremolìo nell'acqua, da quella parte in cui lo stagno ha più acqua che alberi. Alcuni dicono che è il vostro pastore, altri dicono che è mia moglie, ma io credo che sia un pesce. Ma siccome io mi sono già ingannato parecchie volte su quello che avevo creduto, ora non dico più nulla. Lascia­moli fare. Soltanto vi garantisco che se questo tempo continua, avremo le mosche.

Agenore                        - Perché, caro amico? Che cosa sono queste vostre mosche?

Il Fornaio                      - Questa signora ha fatto una bella cera, signor barone. Malgrado la luna le si vede un volto che pare un rosolaccio a mezzogiorno. Ciò che non le si vedeva nemmeno alla luce delle fiaccole, le si vede ora, come se avesse acceso un fiammifero sotto un fazzoletto di seta rossa.

Perotte                          - Mi sento infatti tutta ravvivata, amico mio. Deve essere tutta quella gran massa d'alberi. Ho sempre amato le cose enormi io. Ma bisogna sempre che io comprima la mia natura. Il fatto è, signor barone, che io non ho più lasciato il castello dal 16 aprile 1913.

Agenore                        - Comprimete pure la vostra natura, mia bella amica; comprimetela, ve ne prego.

Perotte                          - Il signor barone ne ha sempre delle buone! È facile a dirsi. Vi sono momenti in cui la gemma si schiude.

Agenore                        - Non apprezzo i paragoni vegetali.

Il Fornaio                      - Ve lo dicevo, signor barone, noi stiamo per avere le mosche.

Perotte                          - Egli si spiega, signor barone, che lo si voglia o no. Vi sono momenti in cui non si è più se stessi. La natura parla. E io non son sorda, signor barone, ho buoni orecchi.

Agenore                        - Voi avete un orecchio diabolicamente buono, Perotte. Io sono pago di saperlo. Ma, mia bella amica, l'orecchio è un organo passivo. Egli ascolta, Perotte, egli ascolta e non parla mai. E quanto a me sono abbastanza soddisfatto di questo paragone fisiologico, Perotte.

Perotte                          - Vorrei dire soltanto al signor barone che ho buona memoria: quello che ho sentito non lo dimentico più, soprattutto quando si tratta di una buonissima musica. E il signor barone se n'è feli­citato sovente, oso dire. Anche se ci fosse il diavolo, quando la gemma comincia a sbocciare, sboccia. Non è possibile di fermarla con la carta gommata. Il 1913 è una data. Vi sono fiori che s'aprono ogni vent'anni, signor barone, ma quando s'aprono, si aprono. Forse il signor barone non ritrova stasera un po' dell'antico ardore? Ciò mi stupirebbe. Se io ho un buon orecchio, il signor barone ha ottimo fiuto.

Agenore                        - Elettrico, Perotte, elettrico, il naso: e vi ho spiegato che cosa significa.

Perotte                          - Le spiegazioni non soddisfano la memo­ria, signor barone. Virgilio dice: « Il frassino amato dalle cantaridi... », se il signor barone ricorda.

Agenore                        - Il signor barone non ricorda che quel che vuole. D'altronde quegli alberi sono come pila­stri, e la cantaride non ne ha merito.

 Perotte                         - Mio dolce Agenore, perché sei così taciturno quando tutto è di una provocante gaiez­za? Gli uccelli dormono sui rami, il rovescio delle foglie è verde malgrado la notte. Dammi il braccio come nel 1913, Agenore, e vieni nell'ombra mentre l'eco ripete in falsetto le armonie dèi corni come se si sentisse una doppia battuta di caccia. Vieni nell'ombra e dopo una mischia come quella di cui gioirono in altri tempi Didone e il suo principe errante, potremo, allacciati nelle nostre braccia, finiti i nostri passatempi, gustare un sonno dorato, mentre i corni saranno per noi come il canto della nutrice che culla il bambino per addormentarlo.

Agenore                        - Signora, se Venere governa i vostri desideri, Diana domina i miei, se voi sapete che vuol dire ragionare. Che cosa significa il mio sguardo tranquillo e la mia cupa malinconia? Perché i miei ultimi capelli sono come vipere che si snodano? No, signora, questi non sono sintomi di voluttuosi desiri. Il risentimento ha invaso il mio cuore. La generosità vi fermenta, signora Perotte. La vostra gemma si schiude, ma la mia generosità fermenta, cara signora ed amica, e io non sono legato che alla resurrezione di questo brav'uomo.

Il Fornaio                      - Signor barone, stiamo per avere delle grandissime mosche, Il signor barone mi per­doni, ma forse sono in procinto di potergli spiegare questa cosa.

Agenore                        - Adoro le vostre spiegazioni, amico mio. Confesso che per le mosche io non capisco nulla; manco forse di disposizione a capire. Tuttavia debbo dire che quando or ora sono entrato nel bosco alla luce delle torce, ho capito tutto a un tratto la vostra opinione sull'annegamento generale.

Il Fornaio                      - Oh, ma da allora ne abbiamo fatto del cammino, signor barone!

Agenore                        - Una calma meravigliosa, una dolcezza di paradiso, una luce acquatica; per cui suppongo, non avendo io mai abitato in fondo alle acque, imma­gino che il sole debba costruire, a traverso di esse, queste meraviglie coreografiche che le fiaccole susci­tano tra i rami. Acquatiche, diciamo la parola. Noi siamo entrati qui in punta di piedi come per sor­prendere un nostro infortunio. Quel che mi stupisce, Perotte, è che voi abbiate trovato, in queste foreste notturne, tutto il vostro calore.

Perotte                          - La memoria, signor barone; la memoria s'infischia dell'acquatico come della sua prima camicia, se il signor barone vuol passarmi l'espressione.

Il Fornaio                      - Signor barone, mi permettete di darvi un consiglio? Ritorniamo alle mosche. Questa signora ha l'aria di sapere quello che vuole, e non credo che voi possiate darglielo. Chi m'avrebbe detto un giorno che sarei giunto a dare consigli al signor barone?! Io sono un tipo fenomenale.

Agenore                        - Ebbene, amico mio, precisamente così; credo infatti che siate un fenomeno singolare. Da questo dopo pranzo mi domando se voi vi bur­late di voi, oppure vi burlate di noi. In ogni caso devo riconoscere che è un lavoro ben fatto. Un gioco di biliardo. Sapete, mio caro amico, che cosa significa giocare a biliardo? Significa destrezza, mano leggera, decisione, nervi calmi, forza giusta e ipocrisia. La ipocrisia, a biliardo, si chiama sponda! Signora Perotte, voi mi procurerete una delle ultime gioie della mia esistenza che ne ha già conosciute parecchie, se vorrete smettere di darvi quell'aria di «saldo di occasione » di una Leda che vuol deporre le sue uova. L'ipocrisia, amico mio, è una meravigliosa virtù che riesce a raddolcire la più avventurosa carambola.

Il Fornaio                      - Il signor barone è di una bontà terribile. Non vede più le differenze. Prende tutto alla lettera: eguaglianza e fratellanza. Ha torto. Ciò non farà di me un barone e non farà di voi un fornaio. Voi andate a cercare troppo lontano. Io non so giocare a biliardo, ma so giocare ai dadi. Questo sì. So anche un po' barare, ma appena appena. A volte annunzio dei terzigli che non ho, ma non sono mai riuscito a inventare quattro carte in se­quenza. Una volta che lo tentai, mi feci cogliere in fallo. Mi feci prendere come sotto un cappello. Tre carte, sì; ma quattro no. Io baro venti punti qui, venti punti là; ma mai cinquanta tutti insieme. Allora, quando per caso vinco (ma finora non ho mai vinto) non mi si può dire che io abbia rubato. No, signor barone, no, no; perché, signor barone, barare mi costa più fatica che giocare onestamente. È più difficile, lo so, giocare barando. Preferirei giocare onestamente.

Perotte                          - Noi siamo dei disgraziati, mio buon signore. Noi siamo molto piccini, noialtri! C'è sempre un padrone che ci comanda, noi. Se non è l'uno, è l'altro. E se qualche volta io non ne ho, bisogna che me ne fabbrichi subito uno. Ed è presto fatto: ecco il mio biglietto. Come le ragazzine che prendono tre stracci di trina per farsi una bambola.

Il Fornaio                      - Capisco, signora. Voi cercavate degli stracci di trina, quando stavate tra i cespugli a quattro zampe.

Agenore                        - A quattro zampe, Perotte?

Il Fornaio                      - Sì, signor barone. Gli stracci di trina stanno in terra. Il signor barone non ha mai raccolto nulla in terrai

Agenore                        - Sì, amico mio, qualche volta; ma io non mi metto a quattro zampe; mi abbasso sem­plicemente e poi mi rialzo. Sono un uomo, io, e non mi metto a quattro zampe come una bestia.

Il Fornaio                      - Perché voi non ne avete bisogno, signor barone. Quando se ne ha bisogno, ci si mette come si può. E se non basta mettersi a quattro zampe, ci si mette bocconi.

.Perotte                         - Voi esagerate, mio piccolo amico. Bisogna esser morti di fame! Vi sono ancora molti altri modi di fare, ringraziando Dio.

Il Fornaio                      - Oh, signora, il bisogno è una gran canaglia! Lo sapete bene come me. Ma le abitudini vi hanno montato la testa e volete dimenticare tutto quel che sapevate dalla natura quando avevate sedici anni. Guardate la vostra gonnella: avete il terriccio appiccicato sui ginocchi. È stata forse la terra che è saltata sui vostri ginocchi, oppure siete stata voi che vi siete abbassata come tutte, baronesse o non baronesse1!

Perotte                          - Dice bene il proverbio: se hai un grem­biale bianco, non avvicinarti al mercante d'olio.

Il Fornaio                      - Signora, e per di più, un bambino di sei mesi sa benissimo che non può mangiare con la bocca chiusa, né con le labbra strette.

Agenore                        - Corpo di Bacco, mio caro amico, mi sembra che voi attaccate le baronesse. State per farmi sguainare il mio sciabolone.

Perotte                          - Il signor barone non si disturbi per me; io sono abbastanza robusta, passatemi l'espres­sione, per poter fare la mia guerra da sola. Se avessi quest'uomo a quattr'occhi, sarebbe finita anche prima che lui si fosse accorto che era cominciata. Non ho che una cosa da aggiungere: quando si è vestiti da festa, non si va a dare ai maiali il pastone, con tutto il rispetto che vi debbo, signore.

Il Fornaio                      - Per me, signora, la cosa è molto più semplice: io non ho vestiti da festa, ho soltanto due maglie e ne porto una per un anno di seguito. Ciò è molto comodo, si può fare di tutto in qualunque momento. Ve lo consiglio, signora.

Agenore                        - Ora voi vi adulate, amico mio. Ciò manca un poco di dignità, debbo dirvelo.

Perotte                          - Perché avete veduto un po' di terra sulla mia gonnella, vi prendete molta libertà, signor fornaio! Se basta così poco per farvi perdere la testa, sopporterete molto male la vostra vedovanza, ve lo dico io. Io non sono che una debole donna, ma dal 16 aprile 1913 sono, per così dire, vedova, e in tutto questo tempo la mia debolezza non è stata che una forza di carattere. Sì signore, prendetene esempio. Voi siete vedovo soltanto da ieri, signor fornaio, e già la vostra sensualità vi dà alla testa. Ho avuto la Violetta d'Argento ai giuochi floreali di Tolosa, io, all'età in cui la vostra sensualità vi imbarazzava ancora, caro signore. Ecco una utilizzazione di voi stesso che vi consiglio: una scappatoia. Perché so benìssimo che non si può impedire a noi stessi di essere sensibili. Chi mi rimprovererà di essere sen­sibile1? Forse colui che ne ha profittato?

Agenore                        - Io non ho detto niente, cara amica, e non dico niente. E mi guarderei bene dall'aggiun-gere qualche cosa a un panegirico così perfetto. Non bisogna disturbare la tigre che si lava. È un proverbio cinese.

Perotte                          - Ma sì, signor barone, bruciate, bruciate, pure tutto ciò che avete adorato. Ammucchiate proverbi su proverbi, Agenore. Per quel che mi riguarda ve ne ha uno che dice molto bene quel che vuol dire, ed è: « Tanto va la secchia al pozzo che alla fin ci lascia il manico », perché essa va al pozzo dal 16 aprile 1913, Agenore, ossia da quando finì il contratto d'affitto. Ma io sono una buona figliola lo stesso e debbo dirvi in questo momento che c'è un altro proverbio francese che vi calza come un guanto: «Quando i gatti sono partiti...». Diffidate delle foreste al chiaro di luna. Le nostre tre signorine, hanno indossato i loro costumi sportivi. I pantaloncini, signor barone, strofinano dove non bisogna... Ve lo segnalo. E vi sono parecchi giovanotti che soffiano nei corni da caccia. (Si odono suoni di corno) E alla fine, quello che sto per dirvi, se non è un proverbio, è la saggezza dei popoli: « A buon intenditor... ».

Agenore                        - Dove andate, ora? Aspettate un poco. Che cosa significa questa incontinenza, mia cara amica? Il vostro buon senso rassomiglia al colera. Dove andate, perbacco?

Perottb                          - Vado nella foresta notturna. Non sono più nell'età in cui ognuno fa la sua vita, ma sono all'età in cui si fa volentieri un'ora di vita. Voi non volete darmela al sole, Agenore, ed io la prenderò all'ombra. Il corno suona per tutti. (Esce).

Agenore                        - Mi si dice talvolta che io ho qualcosa del leone. Ma quella là ha qualcosa del piccione! Di quelli che s'amano di tenero amore.

Il Fornaio                      - Vi avevo avvertito, signor barone; viene sempre un momento in cui si hanno le mosche.

Agenore                        - Quel che vedo soprattutto, amico mio, è una campionessa di quel che si potrebbe chiamare, con un eufemismo bucolico, un mulino a vento senza pudore; si tratta di uno sport femminile, me ne intendo, sono amatore. La conosco, sono stato amatore.

Il Fornaio                      - Signor barone, voi dimenticate che sono stati tutti invasati da una specie di neces­sità. Ieri sono stato tirato fuori dal mio fornile; io non lo desideravo, ma da allora ho dovuto immi­schiarmi in altre cose molto diverse dal pane. Sta­notte, è la loro volta. Si occupano tutti di una foresta al chiaro di luna. Si sono trovate delle buone ragioni, ma una volta nell'avventura se ne trovano altre che vi abbaiano ai piedi come lupi. Io ho pagato, per poterlo sapere. Sono arrivato qui a piccoli passi, come un borghese. Potete rigirarvela come vi pare, ma il chiaro di luna è un gran bello strumento.

Agenore                        - Comprendo il vostro stupore. Benché io non abbia da occuparmi di nessun fornile, salvo quello in cui ogni uomo fa i suoi pasticci, anch'io non conoscevo la foresta notturna. Di solito, a quest'ora, io sto nel mio letto con altre meraviglie. Lo riconosco.

Il Fornaio                      - Sono venuti qui, per cercare mia moglie. Su questo non c'è dubbio. Ma c'è una cosa alla quale penso e alla quale essi non hanno pensato: quando ho mia moglie con me, è assai facile per un estraneo, di prendermela; ma quando l'ho perduta, è molto difficile di cercarmela. Un vecchio curato diceva: se tu calpesti un bruco, lo schiacci, e ciò è molto facile. Provati un poco a rifarlo? È molto difficile. E aggiungeva: buon Dio, questo lo capi­scono anche i fanciulli. Io aggiungo: per un estraneo è impossibile.

Agenore                        - Ecco quel che chiamo pessimismo. Un ottimista vi rifa il bruco in quattro e quattr'otto.

Il Fornaio                      - Non è questo che volevo dire. Vedete, signor barone, io non so che cosa siano le Crociate. Ne ho sentito parlare quando si parlava di voi; ciò ha l'aria di qualcosa di molto « chic », di molto difficile a farsi, ma di molto « chic ». Noialtri non abbiamo Crociate, noi abbiamo un mestiere; alla lunga questo diviene facile e ciò non è mai «chic». E questo fatto ci dà una specie di abitudine; ora vi dirò quale: noi non c'imbarchiamo mai nelle cose difficili. (Si odono i corni) Essi si sono imbarcati nel trucco di cercarmi la moglie, ma hanno trovato subito qualche cosa di molto più facile.

 Agenore                       - Tutto sommato, amico mio, è che non bisogna farsi illusioni. Nulla è cambiato. Voi facevate loro il pane, e questo era molto comodo.

Il Fornaio                      - Capisco che fosse comodo. Anzi, era doppiamente comodo. Come giunta al pane essi avevano una fornaia... disoccupata. È un trucco di quella specie, quello che hanno trovato qua dentro.

Agenore                        - Vi hanno semplicemente trovato una notte libera.

Il Fornaio                      - Voi dite questo, signor barone, come qualcuno che è abituato alle notti libere. Essi, al contrario, si sono gettati là come sorci sopra un prosciutto. Sono tutti come la vostra signora.

Agenore                        - Caro amico, io non ho signora. Sono una specie di cavaliere diseredato, ho soltanto preso partito di non fare della mia decadenza un affare di stato. Io non ho signora, ho alcune signore.

Il Fornaio                      - Tuttavia, quella, è ben portante.

Agenore                        - Mi intimidisce.

Il Fornaio                      - Il signor barone non ha l'aspetto di intimidirsi facilmente.

Agenore                        - Più facilmente di quel che crediate, amico mio, di fronte a una certa età e a un certo volume.

Il Fornaio                      - Vuol dire che il concime del signor barone è troppo vecchio.

Agenore                        - Il concime? Quale concime? Io non ho concime!

Il Fornaio                      - Ciò mi stupirebbe. Io ce l'ho. Da ieri non faccio più il pane. A che cosa volete che pensi?  Ora vi racconto che cosa mi son detto. « Essi cercano tua moglie? Bagattella! Che cosa vogliono farne? Come prima? No, io non credo malgrado tutto che ella sia come il Dio che fa piovere; ed essi nemmeno. D'altronde, la cercano anche le donne: anzi, sono le più arrabbiate. E questo prova che è per altra cosa. Quale? Ah, già, mi sono detto, si tratta del pane! Notate questo: come fanno presto i loro calcoli, in questo villaggio, come sono bravi in aritmetica! È questo che vogliono; essi vogliono te! Come mi sono trovato bello, signor barone! Mi sono trovato bel­lissimo. Ho fatto quattro o cinque passi tranquilla­mente in largo e in lungo dondolandomi e curandomi bene la gola. Poi mi sono detto: Tu sei qualcuno. Ed è vero. Il tutto era di saperlo. Ora l'ho saputo. Mi sono detto: un momento miei carissimi amici, ora il padrone ' sono io ».

Agenore                        - Machiavelli!

Il Fornaio                      - Come?

Agenore                        - Niente. È il nome di un signore che è stato tradito prima di voi; non da una donna, ma un'idea. Egli aveva tratto dal suo infortunio i vostri stessi insegnamenti. Voi non siete il primo lo vedete bene, né sarete l'ultimo, al quale tutto ciò dà la disinvoltura della manica larga.

Il Fornaio                      - Signor barone, quel fatto dona disinvoltura; è una triste verità, ma ne dà più di quella che credete.

Agenore                        - lo non credo niente, guardo e ascolto.

Il Fornaio                      - lo, invece, ascolto me stesso. Mi son detto: va discretamente bene, con tutto questo zucchero! Il padrone! Uno m'ha domandato se avevo freddo. Un altro m'ha detto di non far lo stupido. È molto affettuoso, tutto questo, signor barone. Dovevate vedere che bocca di trota aveva fatto per dirmelo. Tuttociò voleva dire: fai attenzione al tuo corpo, alla tua testa, alle tue mani, al tuo ventre. Tutto questo è qualche cosa. E bisogna farvi atten­zione e conservarlo preziosamente nell'ovatta. Serve. Se ne ha bisogno. Mi sono detto: aspetta! Ho delle coliche, ho detto. Ed ecco uscir fuori, da tutte le case del villaggio, bottiglie d'Arquebuse di tutte le forme. Ed ecco che la testa mi gira, la testa gli gira, la testa gli gira! Come una sassata tirata in mezzo a un branco di passerotti. Mi hanno preso sotto le braccia, mi hanno sostenuto per le reni, mi hanno avvicinato alla poltrona; le donne si ammucchia­vano l'una sull'altra davanti a me per lasciarmi passare, come le spighe quando tira vento. « Ahi, mi sento male! » dicevo. E sentivo intorno a me un gemito generale come quello che fanno al patrono della parrocchia. È bello l'affetto, anche quando è interessato. A un certo momento mi è venuta una idea, signor barone. Ho pensato: « domanda loro di essere portato in processione ». Sarebbe bastato andare in chiesa, prendere la barella di San Pietro, il baldacchino della Madonna, i ceri e i mazzi di fiori finti. Io mi ci metto sopra, essi si mettono intorno a me, e io dico loro: «Andiamo, ragazzi, caricatemi sulle vostre spalle, mi sento mancare il cuore. Por­tatemi, fatemi vedere un poco questo villaggio per il quale io faccio il pane, portatemi un poco a spasso in queste strade per vedere se ritrovo il mio cuore, se debbo continuare a fare il pane; consolatemi figli miei, addolcite la mia collera e la mia disgrazia, mostratemi un poco questo villaggio di maiali, questi campi di maiali, questo paese di maiali, queste teste di maiali per le quali io faccio il pane ». Scommetto che in un istante anche il vostro giovane curato si sarebbe acconciato per la festa.

Agenore                        - Voi siete modesto, amico mio!

Il Fornaio                      - Ma sì, sono molto modesto, signor barone; rimpiango di non aver seguito quell'idea. Se veramente mi avessero portato sotto il baldacchino, tra i ceri, in processione a traverso il villaggio, ora sarei più felice di quel che sono. Perché io sono modesto e disgraziato. Se mi ricordassi di quel fatto, ora, fino a un certo punto mi sentirei felice, pacificato.

Agenore                        - Perché, non siete ancora placato?

Il Fornaio                      - Placato? Guardatemi, signor barone.

Agenore                        - Vi guardo e vi ascolto da ieri con mag­giore attenzione che non crediate.

Il Fornaio                      - E non vedete niente? -

Agenore                        - Niente di quello che volete dire.

Il Fornaio                      - Non voglio dir nulla, perché non dico nulla. Ma guardate l'occhio, la bocca, il mento, le mani. Prendetemi le mani: non avete notato questo movimento?

Agenore                        - No.

Il Fornaio                      - Signor barone, voi siete un tipo « chic ». Sì, sì, non protestate. Era di voi che temevo. Voi capirete bene che ho misurato il prò e il contro. Voi siete l'unico che possa comprendere chi son io. Voglio dire, chi sono ora: sono come un orso che balla da solo in mezzo a una foresta notturna, e voi sol­tanto potete darmi Fola! Se voi aveste voluto, potevate togliermi la pelliccia con due dita, sgusciarmi come un fagiolo. Avevo perfino pensato a offrirvi qualcosa.

Agenore                        - lo, abitualmente, offro, regalo.

Il Fornaio                      - Sì, ma in quel caso voi forse avreste ricevuto perché... si tratta di una cosa che voi siete abituato a ricevere. Volevo proporvi di fare il pane soltanto per voi, per voi solamente, per il castello. A condizione. Questo pensiero mi rende molto audace; non vi inquietate, voi siete barone, ma io sono becco e questo fatto mi permette di parlarvi da camerata; a condizione di non dire chi sono, a condizione di lasciarmi fare, a condizione, signor barone, di non dire a nessuno che il furetto è entrato nella conigliera.

Agenore                        - lo detesto le condizioni, amico mio, amo il medio-evo, ma voi non potete capire. Ma se io sono il solo del quale voi temevate, potete vivere tranquillo. Quantunque, ahimè, debbo dirvelo ancora una volta, il vostro aspetto fisico non sia particolarmente terribile: non vi si vede la lancia in resta, e nemmeno il furore alla bocca e l'orrore nei capelli.

Il Fornaio                      - Tanto meglio, signor barone. Nel dopopranzo ho passato una mezz'ora nel vostro salone. Sapete che cosa ho fatto? Mi sono guardato allo specchio. Volevo vedermi dalla testa ai piedi; per far questo voi avete uno specchio alto, molto adatto. Mi sono guardato tutto, di fuori e di dentro. Alla fine mi son guardato negli occhi e mi son detto: letamaio!

Agenore                        - L'indulgenza, amico mio, è una virtù dei ricchi.

Il Fornaio                      - Oh! mi son detto quello con molta cortesia, signor barone, e non potete immaginare come mi volevo bene in quel momento. Un con­cime fresco, signor barone. Talmente fresco che cola lungo il manico del forcone. Talmente fresco che non si può trasportarlo: bisogna utilizzarlo sul posto. E subito. Nel mio giardino. (Suoni di corni).

Agenore                        - Ecco che l'eco si risveglia. La foresta ha tante siepi, tante caverne, tanti antri sonori quanti ne ha il cuore. Non sentite anche voi, signor fornaio, in fondo a voi stesso il galoppo di qualche cerva profumata?

Il Fornaio                      - Io non ho foreste, signor barone; ho un orticello, io, tutto rastrellato, e dove le piante sono contate. Se una cerva si mettesse a correre là dentro, sarebbe un disastro.

Agenore                        - Allora state attento, amico mio, una processione fa più danni di una cerva.

Il Fornaio                      - Ma cammina molto più adagio, signor barone. Una cerva passa come un fulmine e guasta tutto. Se la si acchiappa, sarà per la prossima volta: il suo desiderio rimane. La processione va a passo lento e anche, secondo quel che si canta, si ferma. E questa si acchiappa come una lumaca. Si hanno più risorse.

Agenore                        - Perché voi, dunque, volete farvi pagare i danni?

Il Fornaio                      - Naturalmente, signor barone. (Silenzio).

Agenore                        - Vi dico addio.

Il Fornaio                      - Ci rivedremo, signor barone.

Agenore                        - Non credo, amico mio. Qui, i nostri destini si separano. Vi avrò conosciuto precisamente quanto mi basta. Ossia nel breve tempo in cui siete stato qualcuno che usciva dall'ordinario. Il resto si sa come va a finire. Ve ne sono stati tanti altri prima di voi che hanno fatto molto chiasso da principio e che dopo, appunto per questo, sono riusciti in tutto. Amico mio carissimo credete a me, non vi resta nemmeno una probabilità. Vi sono passati perfino dei figli di Dio, e non vi parlo di una folla di impe­ratori e perfino di un circum-navigatore; la cosa non mi interessa più, conosco la partita. Non interessa nemmeno l'Edipo del Caffè del Commercio.

Il Fornaio                      - Forse perché si tratta di una cosa molto semplice e molto naturale. (Suoni di corni che si avvicinano, richiami alla voce, rumori di cavalli al galoppo, riflessi di fiaccole).

Agenore                        - Ecco i nostri paesani che si avvi­cinano. Le cose semplici, amico mio, si regolano in cinque secondi, senza riflessioni e senza sorrisi. E si tratta sempre di coltellate nel ventre. Quando questo non avviene in un batter d'occhio, la cosa si orga­nizza. Non ci fidiamo. Il vostro popolo arriva, signor fornaio. E accade che tra quel popolo - me ne ricordo ora, vedete! - ho tre bene amate piccine dalle reni abbastanza turbolente. Lasciatemi andare a vedere.

Il Fornaio                      - Siete geloso, signor barone?

Agenore                        - No, amico mio, sono curioso. (Esce. Entra la popolazione del villaggio: i tre uomini, le tre vecchie vestite di nero, la donna giovane, il curato che calza gli stivali di gomma, il maestro. Torce accese, suoni di corno).

I tre Uomini                  - Ah, eccoti finalmente. Ti abbiamo cercato dappertutto!

II Fornaio                      - Io credevo che cercaste mia moglie.

I tre Uomini                  - Certamente. È ben questo che facciamo.

II Curato                       - Tuttavia, amico mio, voi capirete che si possa essere inquieti anche per voi: vi pen­savamo solo coi vostri poveri pensieri in mezzo a questa foresta piena dì trappole e di imboscate; piena di tentazioni e di seduzioni. Perfino noi che giamo illuminati, se non facciamo molta attenzione corriamo il rischio di romperci il collo ad ogni passo. Senza parlare dei bozzi d'acqua... Una disgrazia fa presto ad accadere!

Le tre Vecchie              - Il signor curato è delicato come un mattatore di bovi.

Il Curato                       - Voi tre vi tengo d'occhio. Una di queste mattine verrete a mangiarmi nella mano come giumente.

Il Fornaio                      - Signor curato, avete un paio di stivali formidabili.

Il Curato                       - Sì, vero» Me li hanno prestati.

I tre Uomini                  - Hanno avuto una splendida idea.

II Curato                       - Servono a camminare nell'acqua.

Il Fornaio                      - Ah, perché voi volete camminare a traverso le acque?

Il Curato                       - Sì, quando l'avranno ridotta nei suoi ultimi trinceramenti...

Il Fornaio                      - Oh! E di chi parlate?

Il Curato                       - Di vostra moglie.

Il Fornaio                      - Ne parlate come di un battaglione.

Il Curato                       - Caro amico, se voi foste abituato a combattere il male, e se voi non aveste quel candore ammirevole che vi rende così bello agli occhi miei, sapreste che il male è peggio di un battaglione.

Il Fornaio                      - Ciò non impedisce, signor curato, che i vostri stivali mi infastidiscano. Mi fanno pensare che voi non facciate per me tutto quel che dovreste.

I tre Uomini                  - Ascolta vecchio, non dire queste cose a noi. È passata mezzanotte e sono più di cinque ore che corriamo in tutte le direzioni, su tutte le strade buie, con fiaccole che bruciano gli occhi.

II Fornaio                      - Signor curato mi sembra che voi mi trascuriate. Insomma, è certo che voi non fate il gran gioco. Comunque, lo merito?

Il Curato                       - Ma, amico mio, mi sembra di fare tutto quel che posso.

Il Fornaio                      - No, signor curato, non insistete, fareste torto alla vostra intelligenza. Andrea, vedo che tu hai una cornamusa, non avresti per caso anche un tozzo di pane? Ho fame.

I tre Uomini                  - Ne ho un pezzetto, si di quello di tre giorni fa, ed è l'ultimo. Lo vuoi?

II Fornaio                      - Dammelo! L'ultimo, signor curato. Ecco l'ultimo pezzo di pane. Ne facevo cento chili alla volta; ma che dico? ne facevo esattamente trecentosessantaquattro chili ogni giorno, e di quello bianco. E non parliamo dell'odore. Ed ecco l'ultimo: un pezzetto, secco e duro. E se volete che vi dica la verità, sa di cavolo. Tieni, Andrea, te lo rendo. Fanne la tua domenica. No, signor curato, avrei creduto che per me faceste buon peso.

Il Curato                       - Non capisco, amico mio; provo una pena orribile a sentirvi parlare in questo modo.

I tre Uomini                  - Non avremmo dovuto lasciarlo solo. Ha ruminato a suo agio. Tanto più che non vi sono nella foresta rumori che somiglino a parole.

La Donna                      - Lo osservo da un momento. Dovreste lasciarmi sola con lui per un'ora o due. Si sarebbe dovuto far questo anche prima. Tanto più adesso che le ore della mattina sono più fredde.

Le tre Vecchie              - Il suo male viene da più lon­tano, chiudete le vostre bocche.

II Curato                       - Permettete che vi spieghi?

Il Fornaio                      - lo permetto tutto, signor curato. Nel mio stato,come volete che non permetta tutto? Si fa di me quel che si vuole. È appunto per questo che voi almeno, signor curato, spererei, vorrete mettere per me le cose in chiaro.

Il Curato                       - Non capisco che cosa potrei fare di più.

Il Fornaio                      - Ecco che cosa: voi avreste potuto camminare sopra le acque e non a traverso di esse coi vostri stivali. Si vanno perdendo le buone abi­tudini.

I tre Uomini                  - Non ti si è detto tutto; ora ti spiegheremo perché egli si è messo gli stivali.

II Fornaio                      - Voi volete spiegarmi ogni cosa, ma dal vostro lato si spiega tutto. È facile a capirsi, non v'inquietate: voi ci siete abituati e non avete bisogno di lasciare le vostre abitudini per rendermi un servigio. Certo che lo so perché egli si è messo gli stivali; perché non vuol camminare scalzo.

Il Curato                       - Ma no! Voi immaginate che tutti vi vogliano male.

Il Fornaio                      - Niente affatto, signor curato, constato semplicemente che voi non mi volete abba­stanza bene.

Le tre Vecchie              - O fornaio, ora sei tu che ti imbarchi sopra un grosso cavallo.

Il Fornaio                      - Voi vedete più chiaro delle donne giovani, voi tre. Tacete, se vi piace. Non dite nulla, voi 'avreste il retaggio.

Le tre Vecchie              - Non inquietarti. Non ci si ascolta mai. Noi da principio si tace, e nessuno fa attenzione a quel che dice. Ecco perché ora vogliamo parlarti chiaro. D'altronde è per il tuo bene. Immagino che sarai più contento quando avrai saputo che vi è chi si rende conto delle cose.

Il Fornaio                      - È un vero piacere avere a che fare con voi.

Il tre Uomini                 - Ascoltami, invece. Io posso informarti esattamente.

Il Fornaio                      - Perché tu credi che io non lo sia?

I tre Uomini                  - In ogni caso, non del tutto, almeno mi sembra, stando a quel che dici. È molto tempo che sei nella foresta?

II Fornaio                      - Poco. Sono arrivato qui prima della luna. Sono stato là finche è durata la tenebra. È dopo di allora che tu mi credi male informato?

I tre Uomini                  - Sì, poiché dici che ti abbiamo abbandonato.

II Fornaio                      - Io non lo dico, lo dimostro. Intendi, te lo faccio vedere. Bisognerebbe non prendermi per un imbecille.

La Donna                      - Non è per il fatto che una maglia si è aperta, che tutto il resto debba disfarsi. Questa non è una flanella, tutto al contrario. E... una per­duta, dieci trovate. Mi capisci, fornaio? Guarda: uno, due,tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, sol­tanto qui; ed io, nove.

Il Fornaio                      - Lo so sì, miei bèi coniglietti.

Il Curato                       - E questo non vi rassicura, amico mio?

Il Fornaio                      - Signor curato, voi usate parole terribili. Fortunatamente non lo fate apposta, perché voi siete innocente come un bambino appena nato. Ne avete conosciuti voi furetti rassicurati? I furetti non sono mai sicuri nemmen quando dormono. Volete che vi dica perché? Perché essi non sono bestie come i leoni, essi non uccidono, ma assassinano dolcemente.

Le tre Vecchie              - Diffida di te, fornaio. Se tu spieghi loro troppo bene il colpo, essi possono racco­gliere le loro carte e giocare contro di te. Si è già veduto altre volte.

I tre Uomini                  - Aspetta, fornaio. Di che parla­ vate voi tre? Lasciaci parlare. Se tu sei qui dalla fine delle tenebra, tu non sai niente. Siamo noi che possiamo insegnarti qualcosa, e non tu.

II Fornaio                      - Questo, allora, mi tronca le braccia e le gambe.

I tre Uomini                  - Ma sì, che cosa hai potuto vedere tu, stando qui? Niente. Hai respirato l'aria buona, hai sentito il vento tra gli alberi, hai sentito qualche buon odore che forse avrai fiutato a destra e a sinistra, e ti sarai goduto questa pace...

II Fornaio                      - Ma sì! Perché voi credete che io senta gli odori e che io veda quel che guardo?

Le tre Vecchie              - Al posto tuo, fornaio, io non giocherei nemmen più; è troppo facile. Bisogna vera­mente aver molto bisogno di tutto, perché il gioco conti in queste condizioni.

Il Fornaio                      - Essi hanno ragione, mie belle amiche! Che cosa posso loro insegnare, io? Niente.

Le tre Vecchie              - Salvo far loro passare il gusto del pane.

Il Fornaio                      - Voi vedete tutto nero. Esse vedono tutto nero. È vero che voi potete insegnarmi molte cose, voialtri. Sbrigatevi, e ditemi che cosa bisogna che io sappia.

I tre Uomini                  - Abbiamo quasi trovato tua moglie.

II Fornaio                      - Fino a che punto arriva questo « quasi »?

I tre Uomini                  - Abbiamo trovato il pastore.

II Fornaio                      - Di questo non me ne importa un fico.

I tre Uomini                  - Si sa dov'è.

II Fornaio                      - Me ne rallegro, ma non è mica con lui che vado a letto.

. I tre Uomini                - Siccome parli di andare -a letto, ascolta: là dove è lui, c'è anche lei.

Il Fornaio                      - Ahi! È giusto; voi non conoscete ancora bene la vostra situazione. Con me, in questa cosa, il vostro più gran torto è quello di avere ra­gione. Voi avete ragione. E allora?

I tre Uomini                  - L'abbiamo chiamata.

II Fornaio                      - Chi, lui?

I tre Uomini                  - Lei.

II Fornaio                      - Ha risposto?

I tre Uomini                  - No.

II Fornaio                      - Bel silenzio! E lui?

I tre Uomini                  - Lui t'interessa?

II Fornaio                      - Sì. Da cinque minuti.

I tre Uomini                  - Silenzio anche lui, ma lo abbiamo sentito nuotare.

Il Fornaio                      - Scapperà in qualche canale.

I tre Uomini                  - Vuoi che ti si conduca anche lui?

II Fornaio                      - Certamente. Ho riflettuto e voglio anche lui. Conducetemelo, lo voglio riguardare in faccia.

I tre Uomini                  - Questo sarà facile. In due parole, ascolta: essi si trovano a Castel Savardin. In una isola. Non possono più scappare perché li abbiamo accerchiati.

II Fornaio                      - Eccola, signor curato, una parola splendida; accerchiati. Ve ne rendete conto? Quel che si aspetta, quel che si desidera, quel che si cerca, quel che si vuole, è accerchiato. Si è giro giro come il cerchione di una ruota; qualunque cosa essi decidano, qualunque cosa facciano, non potranno rivolgersi a nessuno altro che a voi. Accerchiati. È la più bella parola del mondo.

Il Curato                       - Mio caro amico.

Il Fornaio                      - Che cosa aspettate?

I tre Uomini                  - Più nulla, ora che te lo abbiamo detto.

II Fornaio                      - Ora che me l'avete detto, bisogna farlo. Andate a prenderli e conducetemeli qui.

La Donna                      - Bravo, resta qui con tutto tuo agio. Aspetta, ci incarichiamo noi di tutto. E soprattutto non prender freddo. Vuoi il mio scialle?

Il Fornaio                      - Certo che lo voglio. Da qualche momento sento l'umidità che comincia a scendermi nella schiena.

La Donna                      - Eccolo. Legatelo. Ci stai bene?

Il Fornaio                      - Non c'è male.

La Donna                      - Tutti voialtri venite con me, andiamo subito là e facciamo presto.

I tre Uomini                  - Signor curato, signor maestro, andiamo. Sapete bene che abbiamo bisogno anche di voi. Vi sono momenti in cui una parola vale più di un gesto. Venite. (Escono tutti, meno le tre vecchie).

II Fornaio                      - Voi rimanete, se vi piace. Voi, posso guardarvi senza ridere.

Le tre Vecchie              - Ma sì, appena il tempo di guar­darti un poco a nostro agio.

Il Fornaio                      - Mi trovate bello?

Le tre Vecchie              - Bellissimo.

Il Fornaio                      - Vi piaccio?

Le tre Vecchie              - No. Somigli a quel che siamo state noi per molto tempo, ognuna a sua volta. Tutti siamo stati gloriosi, un giorno o l'altro, per forza. E abbiamo avuto lo sguardo che tu hai. E abbiamo fatto la bocca di trota. E abbiamo avuto il cuore selvaggio. Tutti hanno avuto il tuo cuore selvaggio a un dato momento. Piccino mio, una maestra di scuola mi diceva che la Terra è come un arancio. E sta bene. Poi da me stessa ho saputo che la Terra non è un arancio. Non si può farla girare tra le dita.

Il Fornaio                      - L'amarezza mette appetito.

Le tre Vecchie              - Sì, e in mancanza di tordi, si mangiano i merli.

Il Fornaio                      - Che cosa vorreste fare?

Le tre Vecchie              - Quel che fai tu.

Il Fornaio                      - E ora dove andate?

Le tre Vecchie              - Rincasiamo, zitte zitte, per le prime. Andiamo ad aspettarti al calduccio. Tutto sta per ricominciare. (Escono, e rientra il curato).

Il Curato                       - Una parola!

Il Fornaio                      - Terribile o splendida?

Il Curato                       - Semplice.

Il Fornaio                      - Mi stupite.

Il Curato                       - Il perdono delle offese.

Il Fornaio                      - Che cosa?

Il Curato                       - Scusatemi, non riesco a ritrovare il mio modo di esprimermi. Sono un po' scosso da tutto quel che accade.

Il Fornaio                      - È accaduto nulla di nuovo?

Il Curato                       - No, ma tutto ciò che è accaduto fino a ora, è nuovo per me.

Il Fornaio                      - Ad ogni nostra età, signor curato, s'impara sempre qualcosa.

Il Curato                       - Vedete, ho l'impressione che tutto ciò mi riguardi. A rifletterci bene, tutto questo è un lavoro per me. Il pane quotidiano, la donna adultera: è un soggetto facile, classico. Se non arrivo a sbrogliarmi in questa .faccenda, tanto vale che io ritorni in seminario. Non è che le parole e le frasi non mi vengano. Ecco, se non si tratta che di questo, potrei durare un'ora a parlare. Ho avuto il primo premio al concorso di eloquenza, contro due tipi di Besancon che erano stati lavorati dai Gesuiti. Quel che mi turba - ve lo debbo dire - è che, se vi parlo, voi siete qui per giudicarmi e per giudicarvi da voi.

Il Fornaio                      - E allora?

Il Curato                       - Ebbene, prima di tutto vi ringrazio e non mi tratterrò che due minuti, perché loro laggiù stanno per aver bisogno di me; voi siete molto gen­tile ad ascoltarmi. È stato necessario uno sforzo da parte mia per decidermi a venirvi parlare. Mi inti­midite molto.

Il Fornaio                      - Eppure, non sono terribile.

Il Curato                       - Ma sì, per me voi siete terribile: siete un fatto. Non si tratta più di una cosa inventata per la necessità della buona causa, mi capite? Si tratta di una cosa che esiste. Comunque, il vostro caso è classico, ve l'ho già detto. Non c'è che prendere il sermone numero 43, quello della domenica dell'Avvento. Basta cambiarvi appena tre parole. Vi metto il nome di vostra moglie. Come si chiama?

Il Fornaio                      - Aurelia.

Il Curato                       - Vi metto una volta o due Aurelia nel corso del testo, e, se permettete, metto nel prin­cipio del racconto della parabola, due o tre piccoli particolari di famiglia su voi. È tutto qui. Sembra fatto per voi su misura. Però mi rendo conto che è come mettere un cataplasma sopra una gamba di legno. Là dentro c'è una disgrazia che si tenta di accomodare e che si accomoda, bisogna riconoscerlo. Sulla carta si accomoda tutto. Qui, da ieri, vi sono dieci, venti, trenta, quaranta disgrazie che sono sempre la stessa, e non posso più uscirne.

Il Fornaio                      - Voi siete un bravo giovanotto.

Il Curato                       - Credo di sì. Ho un po' di buona volontà. Ma non ho fortuna.

Il Fornaio                      - Oh! Perché, signor curato?

Il Curato                       - Ma lo vedete da voi! Nel primo posto che occupo, mi si presenta l'occasione di ren­dere un servigio, e non posso farlo.

Il Fornaio                      - Gli stivali non vi danno noia?

Il Curato                       - No.

Il Fornaio                      - Ve lo domandavo a caso; è una cosa che accade quando ci mettiamo gli stivali di un altro.

Il Curato                       - No, sono larghi.

Il Fornaio                      - Ebbene, tanto meglio.

Il Curato                       - Vedete, sono ritornato sui miei passi, e, tutto sommato, non ho detto niente.

Il Fornaio                      - Non v'inquietate, signor curato; si dice sempre qualche cosa.

Il Curato                       - Mai però quel che bisognerebbe dire.

Il Fornaio                      - Chi lo sa?!

Il Curato                       - Voi siete molto gentile, ma io conosco la mia insufficienza. Quel che ho detto di meglio, in tutta questa faccenda, è stata la frase quando sono arrivato: il perdono delle offese. Vi confesserò che l'ho detta a caso, perché bisognava dire qualcosa trovandosi soli con voi e seduti nella stessa foresta.

Il Fornaio                      - E così, signor curato, l'un l'altro abbiamo parlato a caso. Sarà quel che sarà, non è vero? Lasciamo fare la Provvidenza.

Il Curato                       - Mi ritiro in punta di piedi.

Il Fornaio                      - Non v'incomodate.

Il Curato                       - Più ci penso e più credo che quella non era una cosa sciocca: il perdono. Pensateci. A tempo perduto.

Il Fornaio                      - Fate progressi, signor curato. Anche queste ultime parole non sono sciocche. (Esce il curato. Entra l'uomo che insegue la donna).

L'Uomo                         - Carogna, carnaccia, porcheria, vieni qui. Tocca a me a chiederti spiegazioni, ora!

Il Fornaio                      - Che cosa ti succede, Amedeo?

L'Uomo                         - Per colpa di quella cagna! Cerca tutti gli angoli oscuri, per flautare con questo e con quello!

Il Fornaio                      - Dàlie una pedata: è l'unico metodo. (L'uomo esce ed entra il maestro).

Il Maestro                     - Vi chiedo scusa. Dormivate?

Il Fornaio                      - No, signor maestro; ma non è perché me ne manchi il desiderio.

Il Maestro                     - Anch'io. Permettete che mi sieda un momentino accanto a voi? Di solito a quest'ora faccio il primo sonno.

Il Fornaio                      - Che ore sono?

Il Maestro                     - Quasi le tre. Gli uccellini finiscono di sognare. L'alba non è lontana.

Il Fornaio                      - Voi, di solito, vi addormentate così tardi, signor maestro?

Il Maestro                     - Eh, per tardi che sia, il sonno è sempre buono quando prende. Un tempo, anch'io, dormivo tutta la notte. Poi, invecchiando...

Il Fornaio                      - Non c'è soltanto l'età, signor maestro.

Il Maestro                     - Certamente no. Vi sono soprattutto i pensieri, le preoccupazioni. Prima dormiva come un ghiro. Poi, da quando ho perduto mia madre...

Il Fornaio                      - È morta in questo villaggio?

Il Maestro                     - No, in un brutto piccolo posto di montagna, dieci anni fa. Era una santa donna.

Il Fornaio                      - Ve ne sono.

Il Maestro                     - Oh, sì, molte. Sono quelle che non fanno rumore, ma quando vengono a mancare, ce se ne accorge. Da quando lasciai la scuola Normale, mia madre mi ha sempre accompagnato dovunque. Per sette anni ci siamo trascinati nei posti di tirocinio.

Il Fornaio                      - E non vi siete ammogliato?

Il Maestro                     - Non potevo perché non guadagnavo abbastanza. Il desiderio è bello, ma come potevo mettere una donna in simili condizioni? È questione di coscienza.

Il Fornaio                      - E siete rimasto solo con la mamma?

Il Maestro                     - Con lei, sì. Ma non solo. Poi l'ho perduta. Poi sono invecchiato. Poi ci si pensa.

Il Fornaio                      - Sì.

Il Maestro                     - Finche la notte tace, non si può impedire a se stessi di pensare. Poi arriva questa, ora...

Il Fornaio                      - E voi dormite.

Il Maestro                     - Sì, m'addormento.

Il Fornaio                      - E non pensate più a nulla?

Il Maestro                     - Ebbene, sì, da principio penso agli uccellini.

Il Fornaio                      - Questo deve essere molto piacevole.

Il Maestro                     - Sì, è un buon momento. Prima di tutto aspetto; ho al pianterreno una grossa pendola che sbuffa ogni volta che arriva al quarto. Prima suonava, ma io le tolsi i timpani. Dico a me stesso: ci siamo! Penso ancora un poco alle mie faccende. Mi dico: tu non hai più calzini, non hai più maglie di lana. Me ne faccio una da me. Bisogna comprare la lana da Eloisa. Ma non hai nemmeno quasi più soldi. E non ci vedi quasi più. Finirai per morir solo. Un mattino ti troveranno... e via! E che cos'è? Sento un piccolo scricchiolamento. Oh! mi dico, il verdone? Come, come! Ier l'altro erano andati tutti ad abitare vicino al mucchio del tritume di Giuseppe. Eccoli ritornati. Non è una cosa alla quale si accon­ceranno le cinciallegre. E via! Ecco appunto una parola o due a becchi serrati, poi tre parole,. poi quattro, cinque, sei sette otto nove, dieci: le cin­ciallegre! Esse parlano dormendo, ma hanno il becco appuntito come un ago. La parola è appena sognata che cola giù a goccia a goccia. La notte si è fatta più lieve, per gli uccelli. E bisogna credere che sia divenuta più leggera anche per me, perché sento benissimo quel che sta per accadere. Nel momento in cui, non diciamo il giorno, ma soltanto il timore del giorno, uscirà dalle montagne di Castel Savarin, gli uccelli voleranno via gli uni dietro gli altri con un fruscio di gonnelle. Eppure non mi riuscì mai di sentire quel rumore, perché mi addormento prima. E sogno che mia madre giovane corra al primo mat­tino da qualche lattaio.

 II Fornaio                     - E invece sono gli uccelli?

Il Maestro                     - Ma sì, sono gli uccelli. Si è così poca cosa sulla terra. Quella povera madre in carne ed ossa, che si trascinava da un angolo all'altro per servirmi, aveva gli occhi molto azzurri e le mani come ceppi di vite. Ora ho una madre in uccelli. Quando, alla mattina, gli uccelli prendono il volo tutti insieme a traverso i rami dei tigli, fanno con le loro ali il rumore di una donna che corra con le sue lunghe gonnelle. Non lo avete mai notato?

Il Fornaio                      - No.

Il Maestro                     - Non avete mai sentito vostra moglie camminare svelta per la casa con le sue pantofole? E il fruscio delle sue gonnelle? Sul momento non ci si pensa, ma provate un po' a pensarci.

Il Fornaio                      - Ci penso.

Il Maestro                     - Vi ricordate del rumore che faceva?

Il Fornaio                      - Sì, me ne ricordo.

Il Maestro                     - Vedete, noi non siamo gran cosa: un nulla c'inganna. Il rumore di una gonnella, può esser fatto da una gonnella o da alcuni uccelli; ma quando ci si rende conto finalmente che non si può domandare alla vita di essere diversa da quel che è si arriva a trarre vantaggio da quel che sembrava un inconveniente. Se si può pensare a una gonnella sentendo, un rumore d'uccelli, nulla c'impedisce di pensare agli uccelli sentendo il rumore di una gonnella. È già più difficile, ne convengo, ma quando si sa che, qualunque cosa si faccia, siamo soli, si ha il tempo di provare tutti i rimedi uno dopo l'altro, e si arriva presto all'ultimo: a quello vero.

Il Fornaio                      - È come cambiare nulla con nulla, mi sembra.

Il Maestro                     - In realtà sì; per se stesso no. Io capisco che cosa volete dire: è piacevole essere proprietario, non è vero?

Il Fornaio                      - Eccoci!

Il Maestro                     - Lo so. Per colui che ha il gusto delle barriere, della barricata e delle serrature, evi­dentemente. Ma sapete, passare tutto il tempo a piantare picchetti, a murare rottami di bottiglie sopra i muri di cinta o ad avvolgere da tutte le parti molle, catenacci che stridono, e paletti, quella non è più una vita. Luigi XVI era magnano e intanto...

Il Fornaio                      - Me ne infischio di Luigi XVI.

Il Maestro                     - Anch'io, beninteso; si fa per dire. Quando si è proprietari di qualche cosa, a un dato momento, se non è la gente che vi taglia la testa, è la cosa stessa. Mentre colui che può scambiare la gonnella per un uccello e un uccello per una gonnella, è padrone del mondo. E il padrone del mondo non ha bisogno di porta. Non sapreste più dove metterla, da una parte o dall'altra è tutto suo.

Il Fornaio                      - Voi parlate bene.

Il Maestro                     - Lo penso anch'io.

Il Fornaio                      - Voi ragionate bene.

Il Maestro                     - Non è vero?

Il Fornaio                      - Ma il vostro ragionamento, se lo fate per gli altri, lo farete anche per voi. Eppure non vi fa addormentare un'ora più presto.

Il Maestro                     - A dirvi la verità: no.

Il Fornaio                      - Come tutti i buoni ragionamenti.

Il Maestro                     - Oh, non crediate che io mi sia fatto delle illusioni! Lo sapevo bene che non avrei potuto fare gran cosa per voi. E sapete da che cosa viene questo fatto? Perché non vi ho avuto come allievo alla mia scuola quando eravate giovane. Se quando voi avevate sei o sette anni vi avessi insegnato la tavola pitagorica ora forse potrei insegnarvi l'altra tavola delle moltiplicazioni, quella delle cose. Ma voi state davanti a me come un conto già fatto.

Il Fornaio                      - Signor maestro voglio un po' spie­garvi il mio caso. Voi avete creduto sempre che fosse il fornaio quello che faceva il pane?

Il Maestro                     - Questa è cosa tangibile. Cade sotto i sensi.

Il Fornaio                      - I sensi di voi che mangiate il pane. Ma i miei? Ebbene, ascoltate. C'è una cosa che bisogna sapere. È la moglie del fornaio, che fa il pane.

Il Maestro                     - Lo so.

Il Fornaio                      - No, voi non sapete niente.

Il Maestro                     - Bisognerebbe che fosse il fornaio, a fare il pane; allora le cose andrebbero bene.

Il Fornaio                      - Allora, signor maestro, prendetemi un santo di legno in chiesa. Il signor curato me lo proponeva precisamente or ora. Prendete un santo qualunque. Mettetelo davanti alla madia. Riempite la sua casa di gonnelle d'uccelli finche vorrete, e aspettate il risultato. Può darsi che abbiate ragione, ma in ogni caso compratevi una cintola. (Passa la donna fuggitiva. Entra l'uomo che la insegue) Allora, Amedeo? Perché corri come un disperato?

L'Uomo                         - Quella sgualdrina!

Il Fornaio                      - Una buona pedata e lei è a posto. E sei a posto anche tu.

L'Uomo                         - Corre più di me.

Il Fornaio                      - E allora aspettala. (L'uomo esce) Quel che v'inganna, signor maestro, è che alle volte la donna può essere: un fucile da caccia, una canna da pesca, un paio di bocce, un gioco di carte, una bottiglia di vino, un intingolo di lepre, una buona pipa o anche la vostra gonnella d'uccelli, o, a volte, una cosa da niente, ma alla quale si ha diritto. (Richiamo un "po' rauco di corni da caccia. Entrano la giovane donna del villaggio, i tre uomini e il curato).

La Donna                      - Ve lo dicevo io? Eccolo là!

I tre Uomini                  - Signor maestro, abbiamo bisogno di voi. Questa volta li teniamo; fate presto a venire.

II Maestro                     - Non vedo in che cosa io possa aiutarvi.

I tre Uomini                  - A qualunque caccia si vada, se non si ha un fucile, occorre un po' di pania. Venite, voi parlerete con loro.

La Donna                      - Noi che cosa ci possiamo fare ora? Chiamarlo? Non si può dir nulla gridando.

II Fornaio                      - Parlate dunque, forse se sapessi di che si tratta... (Si alza) C'è qualche cosa di nuovo? Forse, alla fin del conto, sarà come voi dite.

I tre Uomini                  - È facile. Essi sono nell'isola. Noi siamo intorno alla riva dello stagno. Abbiamo acceso dei fuochi e abbiamo fatto una luce tale che si vede muovere una zampa di ranocchia a venti metri di distanza. Ma nell'isola c'è un nero di rovo che non si vede niente. Occorre andare 11 dentro. Non c'è più di un metro d'acqua.

II Fornaio                      - L'avete chiamata col suo vezzeg­giativo come vi ho detto?

I tre Uomini                  - Sì.

II Fornaio                      - E ha risposto?

I tre Uomini                  - No. Ha risposto lui.

Il Fornaio                      - E che cosa ha detto?

I tre Uomini                  - Ha risposto con degli insulti triviali.

II Fornaio                      - Buona. Molto buona, questa. Non facciamo i delicati. Vi dirò io quel che bisogna fare. Poiché, non è vero, voi mi dite che lei non ha risposto né in una maniera, né in un'altra. Non ha fatto nep­ pure un piccolo grido di sorpresa come quando si mette un piede nell'acqua senza saperlo, per caso? Nemmen questo, nemmen questo! Perché anche questo io lo chiamo rispondere.

I tre Uomini                  - No. Assolutamente nulla.

II Fornaio                      - Lei nulla e lui che vi dice le vostre quattro verità! È bello anche questo. Allora vi dico io quel che bisogna fare. Essi hanno ragione, signor maestro, bisogna andare là. E parlare, parlare a lungo.

Il Maestro                     - Il male è che nemmeno io ho una voce potente. Se sono in mezzo alle acque...

Il Fornaio                      - Sì, ma il signor curato ha gli stivali. Voi siete solido, signor curato.

Il Curato                       - Sono stato pilastro di mischia al rugby, nella squadra di Saint-Etienne.

Il Fornaio                      - Bene, vedete che tra tutto quel che sapete fare c'è finalmente una cosa che serve. Non avete paura del signor maestro?

Il Cubato                       - No.

Il Fornaio                      - Non siete in collera con lui?

Il Curato                       - No.

Il Fornaio                      - E voi, signor maestro, se vi si desse il signor curato legato mani e piedi, esitereste a farne un budino? Scusatemi, mi sento finalmente di buon umore. Bisogna approfittarne.

Il Maestro                     - Non esiterei affatto, corpo di Bacco! Avete uno strano buon umore, però! Gli scioglierei subito i piedi e le mani. Ho forse l'apparenza di un macellaio, io?

Il Fornaio                      - Allora, signor curato, abbassatevi.

Il Curato                       - Non capisco.

Il Fornaio                      - Giù, più basso. Bisogna darci il vostro largo dorso. Ora vedrete come me ne servirò. Signor maestro, ecco un pilastro che vi porterà a traverso le acque. Voi monterete sopra, e tutti e due formerete una bella macchina.

I tre Uomini                  - Sì, questo ci salva.

Il  Curato                      - Vi farò notare...

I tre Uomini                  - Che cosa volete farci notare di più? questo ci salva, signor curato. Il fornaio ha ragione, facciamo presto, venite. Non vogliamo restare per tutta la vita nella foresta.

Il Fornaio                      - (sedendosi) - Andate pure a parlare, ma parlate molto. Traversate l'acqua e parlate. Salite sull'isola e parlate. Se lei non risponde, parlate. Se nell'ombra scorgete qualche cosa che le somigli, parlate. Se trovate in terra qualche cosa che sia forse lei, sdraiatevi al suo fianco uno da una parte e uno dall'altro, e parlate. Parlate di tutto quel che sapete e fin che ne avrete voglia. (Essi escono. Entra l’uomo che insegne la donna) L'hai avuta?

L'Uomo                         - No. Corre come una saetta.

Il Fornaio                      - E allora mettiti a sedere a pie d'un albero e aspettala. (L'uomo esce. Entra il barone) Ah! Siete voi?

Agenore                        - Vi aspettavate che fossi qualche altro?

Il Fornaio                      - No.

Agenore                        - Mi ritiravo. Ma ho voluto, prima, darvi ancora una volta la buonasera.

Il Fornaio                      - Buona sera, signor barone.

Agenore                        - Dunque, le cose vanno bene?

Il Fornaio                      - Oh! sapete signor barone, si tratta di un piccolissimo incidente.

Agenore                        - Voi siete diventato molto abile.

Il Fornaio                      - Non ci lusinghiamo.

Agenore                        - Senza lusingarvi.

Il Fornaio                      - Voglio dire: non vendiamo la pelle dell'orso...

Agenore                        - Non vi contraddirò amico mio poiché adoro i proverbi. Sono come conserve, ma sono scritti molto bene. In certi casi, tuttavia, la pelle dell'orso bisogna venderla, senza di che rischia di costarvi una fortuna in naftalina.

Il Fornaio                      - Non vi preoccupate, signor barone. Ho ancora un berretto di pelle di coniglio, che fu di mio nonno; e mi serve sempre.

Agenore                        - Il padrone della situazione siete voi.

Il Fornaio                      - Signor barone!

Agenore                        - Ma sì, dico bene: il padrone siete voi. Il piccolo giro che ho fatto nella foresta è stato molto istruttivo. In altri tempi ebbi degli equipaggi di caccia, ma devo dire di non averne avuto uno completo e più devoto di questo.

Il Fornaio                      - È molto semplice, signor barone: si tratta del pane. Credete forse che sia per affetto?

Agenore                        - Amico mio, uomini come voi e come me non credono all'affetto. Al disinteresse, voglio dire. I miei battitori avevano stipendi da ministro. Or ora ho assistito a uno spettacolo che vi avrebbe dato un'idea della vostra straordinaria potenza.

Il Fornaio                      - Speriamo che non facciano qualche sciocchezza.

Agenore                        - Questo dipende. In ogni caso ecco che cosa ho veduto: il signor curato si era caricato sulle spalle il maestro. Ed erano in procinto di attra­versare l'acqua, gridando a squarciagola il bando e il controbando della loro saggezza coniugale.

Il Fornaio                      - Era previsto.

Agenore                        - È un colpo maestro nel quale io non mi raccapezzo più. Supera perfino, secondo me, la processione che progettavate. È molto facile di farsi Dio di una parte dell'opinione pubblica; ma farsi Dio di tutte e due le parti, ebbene, vuol dire saper giocare a biliardo. Avreste dovuto vedere quella scena! Vi avrebbe riempito di gioia il cuore.

Il Fornaio                      - Signor barone, credevo che noi ci si comprendesse soltanto a mezze frasi.

Agenore                        - Or ora voi avete parlato del vostro cuore...

Il Fornaio                      - Io parlo sempre del mio cuore, signor barone.

Agenore                        - Ebbene, questo villaggio che vi ha beffato, ve lo siete messo sotto i piedi. Quel pastore e la sua preda, voi, lo inseguite e lo accerchiate nella selva con tanti cani e con tanto fracasso da far loro correre i brividi lungo la schiena. Voi riportate una vittoria così completa che lo stesso ridicolo che si attacca alla vostre spalle, grava ormai le spalle dei poteri costituiti. Voi siete il Cesare di questi luoghi.

Il Fornaio                      - Io amo mia moglie.

Agenore                        - Malgrado tutto?

Il Fornaio                      - Naturalmente, signor barone.

Agenore                        - Permettete che mi cavi il cappello davanti a voi.

Il Fornaio                      - (si alza) Non c'è di che, signor barone.

Agenore                        - Permettetemelo. Io saluto in voi quegli che non ho osato di essere.

Il Fornaio                      - Non c'è nulla di straordinario.

Agenore                        - Non mi confondete. Voi avete ora di che soddisfare l'amor proprio più solleticante, fino alla fine dei vostri giorni. Colui che ha ottenuto ciò che avete ottenuto voi, può permettersi tutto. Una volta collocato lo stoino, ci si può pulire le scarpe tutte le volte che si vuole. Ecco a che cosa siete giunto. Bisogna perfino che uno diverso da voi se ne accorga.

Il Fornaio                      - Non sono arrivato a nulla, signor barone. Vi stringerò la mano perché voi siete molto gentile, e tornerò a sedermi ai piedi di quest'albero, per aspettare.

Agenore                        - Io saluto in voi l'accettazione della tolleranza, signore.

Il Fornaio                      - Io non accetto niente, signor barone.

Agenore                        - Sì, signore: la sorte comune. (Silenzio) Voi mi onorereste, signore, se voleste frequentare la mia casa.

Il Fornaio                      - Signor barone, ho paura che noi saremo troppo occupati.

Agenore                        - Rassicuratevi: non era un condizio­nale di cortesia; era un condizionale perfetto. (Esce. Ed entra Aurelia).

Aurelia                          - Onorato!

Il Fornaio                      - Aspetta! Arrivi un poco in anticipo. Quell'uomo mi ha fatto perdere la tramontana. Bisognerebbe che tu restassi un momento senza parlare. Ma sopratutto non andartene.

Aurelia                          - Ti ritrovo!

Il Fornaio                      - No, no, non rovesciare le parti: sono io che ti ritrovo. Era facile, come vedi; ma ora, dopo quel che hai detto, è un po' più difficile. Quel che so ancora è che tutto doveva venire da parte mia. Aspetta, aspetta, non ti dico niente.

Aurelia                          - Ma io non voglio farti del male.

Il Fornaio                      - No, vedi, tocca a me a dirlo. Avevo preparato qualcosa. Ma, prima di tutto non sapevo che stavi per arrivare da questa parte.

Aurelia                          - Non sono io che ho scelto.

Il Fornaio                      - No, tu non hai scelto. D'altronde che cosa dico? io non ne so niente. Vedi, ecco una altra cosa che mi confonde. Bisogna che ti risponda e non so più che cosa debbo dirti. È stupido: non avevo pensato che tu avresti parlato. Pensavo soprat­tutto che avrei dovuto parlare io.

Aurelia                          - Hai ragione.

Il Fornaio                      - Due minuti. Il tempo di riprendermi, capisci. Ah, bene, ecco vedi, mi riviene in mente. Ecco che cosa volevo dirti: togliti subito le calze bagnate, te ne dò un paio asciutte.

Aurelia                          - Ma io non sono bagnata.

Il Fornaio                      - Non bisogna lusingarsi, piccina, a che serve? Sta per prenderti il freddo. Non sono io che sto per aver freddo, sei tu.

Aurelia                          - Ti assicuro che non ho i piedi bagnati. Che cos'hai nella tasca che frughi?

Il Fornaio                      - Le tue calze, caspita. Le tue grosse calze di lana.

Aurelia                          - Dove le hai prese?

Il Fornaio                      - Nell'armadio.

Aurelia                          - Quando?

Il Fornaio                      - Ieri. Me le strascico in tasca da ieri.

Aurelia                          - È tutto quel che hai preso?

Il Fornaio                      - Eh, sì. Avevo pensato di prendere anche un po' di biancheria, ma io non me ne intendo. Non aveva l'aspetto di poter tenere molto caldo quel che ho trovato; e allora ho preso le calze. Sono grosse e mi son detto: almeno questa è lana. Quando si hanno i piedi caldi, si ha caldo dappertutto.

Aurelia                          - E non hai preso quel che si trova nella scatola piccina?

Il Fornaio                      - Nella scatola piccina? No. Che cosa c'è nella scatola piccina?

Aurelia                          - Il revolver.

Il Fornaio                      - Il revolver? No. Che cosa vuoi farne del revolver? Non vi sono bestie feroci qui. E poi ci sono io. Eppoi se ve ne fossero state, con tutto quel chiasso di trombette avrebbero abbandonato il campo. Hai delle buffe idee, Aurelia. No, a questo veramente non avevo pensato. Bisognava dirmelo, quantunque, ti assicuro, tu non corri nessun rischio. Tuttavia, se avessi saputo che quello ti avrebbe rassicurata....

Aurelia                          - No, hai fatto bene.

Il Fornaio                      - Vedi: hai avuto un brivido, io ti conosco. Ti conosco come le mie tasche. Non bisogna mentire, mia piccina. Tu hai freddo. Quando stringi le spalle in quel modo e fai quella smorfia, vuol dire che hai- freddo. Fai vedere i piedi, non credo alle tue parole. (Egli s'inginocchia e tocca le gambe di Aurelia) Era vero. Sei asciutta. Come hai fatto. Aurelia?

Aurelia                          - Ebbene, Onorato, non ti capisco. Che cosa ti sei immaginato?

Il Fornaio                      - Tutto ho immaginato, figlia mia: la verità, le fioriture, e ho anche inventato quel che non è vero. Quel che certamente non è vero. Non è una cosa straordinaria. Ma quel che era più facile, figlia mia, era d'immaginare che ti saresti bagnata i piedi. Non c'è mica bisogno d'essere andati a scuola fino a vent'anni per sapere che se ti metti a camminare nell'acqua, ti bagni i piedi.

Aukelia                         - Ma io non ho camminato nell'acqua.

Il Fornaio                      - Me ne sono accorto. Non so più cosa dire. Sono imbrogliato. Tu non puoi rendertene conto. Fino a che età sei stata a scuola?

Aurelia                          - Fino a dieci anni.

Il Fornaio                      - Sì, come me, press'a poco. Ascolta: bisogna arrangiarci tutti e due per vederci chiaro: te ne ricordi di quel che si diceva per l'isola?

Aurelia                          - Per l'isola?

Il Fornaio                      - Sì. Il maestro doveva essere venuto là. Che cosa fa, ora, quell'ingenuo? Te ne ricordi? Si diceva, mi pare: un'isola è... una distesa...

Aurelia                          - ...di terra.

Il Fornaio                      - Di terra circondata dall'acqua.

Aurelia                          - Da ogni parte.

Il Fornaio                      - Ecco, precisamente: da ogni parte. Ebbene, mia povera piccina, io ti domando come hai fatto a uscire di là... Da tutte le parti, sei tu che l'hai detto.

Aurelia                          - Non capisco, Onorato, di dove pretendi che io sia uscita.

Il Fornaio                      - Dall'isola, Aurelia, senza bagnarti i piedi. Non si può uscire da un'isola senza bagnarsi i piedi, non è vero, piccina mia?

Aurelia                          - Ebbene, no, non lo credo nemmeno io, Onorato.

Il Fornaio                      - È quello che dico. Io, capisci, posso inventare. Oh, questo è facile. Ma a partire da un certo punto, se non so come vanno le cose, non posso più immaginare. È così. Ho un bello sforzarmi, non c'è nulla da fare. Potrei dirmi: non si è bagnata i piedi perché è un uccello e ha volato sopra le acque. E me lo dico, ma non lo credo. Perché so che tu non sei un uccello. Disgraziatamente lo so.

Aurelia                          - Ma, Onorato, io non ho bisogno di essere un uccello. Io non sono andata nell'isola.

Il Fornaio                      - Ah! tu non sei andata!... Ebbene! Ecco, ecco la spiegazione. Questa almeno è veridica; questa la posso credere. Si va a cercare sempre troppo lontano... Tu non sei andata nell'isola. È semplicissimo. Ebbene, ne sono molto contento, vedi. Sapevo che sotto doveva esserci qualcosa che alla fine mi avrebbe fatto piacere. Questo spiega perché sei arrivata da questa parte, perché sei arri­vata in anticipo e perché hai i piedi asciutti. Spiega tutto.

Aurelia                          - Ascolta, voglio dirti la verità.

Il Fornaio                      - Oh, dolcemente, terra terra, cuo­ricino mio. Questo è un trucco come quelli del signor curato. Bisogna guardare le cose in faccia. Io non sono un astronomo, sono un fornaio. Un po' di verità, non dico di no. Ma quando la verità è troppa, bisogna rendersi conto delle cose. Invecchio, che cosa vuoi, una luce troppo viva m'infastidisce, mi punge gli occhi. Non ho più vent'anni, io, purtroppo. (Silenzio) ...Ebbene, vedi, alla fin dei conti abbiamo già detto molte cose. Va benissimo. Bene, forse, come se ci fossimo detti tutto, no, piccina? Che cosa ne pensi?

Aurelia                          - Che cosa hai fatto tu, in tutto questo tempo?

Il Fornaio                      - Io? Che cosa ho fatto io? Ah, sì, è vero. Non ti ho detto che cosa ho fatto. Ebbene, ho fatto la conoscenza del signor curato, e infine una più grande conoscenza. Noi non siamo della medesima età e perciò abbiamo avuto una piccola discussione alfine della quale non ci siamo trovati perfettamente d'accordo sopra alcune cose da nulla. Lo sai, l'età. E tu sai come questo mi fa diventare. Non si può essere ed essere stati. È quel che gli ho detto: ma tu sai, essi sono abituati ad aggiu­stare tutte le cose sopra un pezzo di carta, e allora gli ho detto: delle offese, signor curato, voi potete parlarne a vostro agio. Alla fine ci siamo tro­vati d'accordo. Tu sai che con me ci si accomoda sempre. Ho fatto anche la conoscenza col signor maestro. Mi ha parlato di sua madre. Molto bello. Bellissimo. Avrei voluto che tu Io sentissi, e mi ha fatto molto effetto. Sua madre, gli occhi blu, gli uccelli; una specie di uccelli che serviva a tutto. Disgraziatamente non ero completamente d'accordo con lui, ma io che non ho mai questionato con nes­suno, alla fine ci siamo lasciati da buoni amici. E poi chi ho conosciuto molto bene è stato il signor barone. Mi ha invitato ad andare in casa sua, sai. Oh, sì! E anche te, sì. È sembrato che gli piacesse molto stare con me. È vero che io non mi sono messo in soggezione, non ho fatto cerimonie. Ho fatto con lui come con tutti gli altri. In fondo, anche di più. È un barone, capisci, e allora bisogna fare un po' di più. Oh, niente riverenze, né salamelecchi; a che serve farsi migliori di quel che siamo? Gli ho detto: io in fondo non sono cattivo. Certo, se mi danno una pedata, rispondo e cerco di renderla. Anzi, di renderne due. Alla fine si ha un bell'esser pacifici, nasce una battaglia, tanto più che da quel momento non ci si capisce più nulla. Non è sempre chi le merita, quello che le riceve. Perché io non son buono, signor barone, non son capace. Levate-velo dalla testa. Oh, hai freddo! Questa volta hai veramente freddo, tremi tutta dalla testa ai piedi.

Aurelia                          - Sì, ho molto freddo.

Il Fornaio                      - È vero, io parlo, io. E tu sei in piedi da ieri. (La prende tra le braccia) Non hai mica il tuo solito dolore al ventre?

Aurelia                          - No.

Il Fornaio                      - Sono stato uno sciocco, non ho pensato a prendere l'aspirina.

Aurelia                          - Non ho bisogno di niente.

Il Fornaio                      - Lo dici. Ma sai bene che quando resti troppo tempo in piedi e quando sei contrariata, ti prende il dolore al ventre. Ora vedrai: farai la bocca quadrata e ti metterai a piangere. Bisogna fare attenzione, mia cara. Non è una cosa allegra vederti soffrire. Senza contare che non deve essere più pia­cevole, per te, il soffrire.

FINE