COMMEDIE
DI
JACOPO ANGELO NELLI
E notizie sin ora da me raccolte intorno a Jacopo Angelo Nelli sono poche e non tutte ben certe. Gli storici della nostra letteratura o non fanno di lui menzione o ne toccano di volo; Siena, sua città natale, ne serba scarsi ricordi. E nondimeno fu uomo di molta e varia dottrina ed erudizione, conversò o carteggiò familiarmente coi più ragguardevoli scienziati e letterati dell' età sua, quali i famosi abati Carli e Pasquini, il Gigli, il Sergardi, il Bsnvoglienti, il Fontanini, il Brancadori, il Capassi, il Lancisi, PAgazzari, il Marmi, il Forteguerri; e di quasi tutti fu intimo, specialmente in Roma, dove fece per molti anni dimora.
Compi, secondo si crede, il Vocabolario Cateriniano, lasciato interrotto dal Gigli alla parola: Raguardare; scrisse prose, sonetti, capitoli bernieschi, ebbe lode di poeta estemporaneo, compose una tragedia e insino una grammatica della lingua italiana. Nella commedia poi, come fu il più prossimo tra i percursori del Goldoni, cosi anche di gran lunga il più notabile; e tra i seguaci del teatro molieresco il meno servile, si che riusci quasi sempre originale e strettamente italiano. Ha lo stile comico spigliato, lucido e puro, il dialogo naturale e vivace, l'intreccio, se non peregrino, per lo più franco e verisimile: la pittura de' caratteri felice. Spesso, ahimè troppo spesso, urta nella farsa, ma abbonda di scene condotte con singolare maestria ; non rifugge da scherzi ed equivoci grossolani, ma d'ordinario è gentilmente arguto. La sua lingua infine è schietta, salvo qualche rara maniera che ai puristi non garberà forse del tutto, e tanto ricca, duttile e graziosa, da essere assai difficile l'emularla nella commedia, il superarla a pena possibile. Al signor professore Giosuè Carducci, che pensò a promovere questa ristampa e all'ardito editore Sig. Zanichelli debbono quindi aver obbligo gli studiosi che più non resti quasi sepolto in qualche biblioteca tanto tesoro, massime oggi che l' arte di scrivere ha grande bisogno di ritemprarsi alle antiche fonti, senza per questo cessare d'esser moderna. E glie ne saranno sopra gli altri riconoscenti gli autori drammatici, i quali vedranno quanto sia falsa l' opinione di chi afferma non avere l' Italia una lingua adatta al dialogo comico, si che sia forza ricorrere a quella de' cinquecentisti, dove pur e' è tanto da studiare e da scegliere, o portare su la scena una specie di gergo che non è nostro né di nessun popolo.
Ma tornando alla vita del Nelli, l'egregio Signor Dott. Curzio Mazzi ne trovò, fra i manoscritti della biblioteca comunale di Siena, un cenno brevissimo nella Raccolta biografica d 9 illustri Senesi, lavoro di Ettore Romagnoli; e l'illustre Sig. Comm. Luciano Banchi e il valente bibliotecario Sig. Dott. Fortunato Donati fecero per me altre scoperte non certo inutili né di poco momento, non però tali da acquetare chi tenti ritrarre la gaja e bonaria figura dell'abate commediografo. Sino la data della sua nascita, non sicura per alcun documento autentico, può essere messa in dubbio, perché, raffrontata a quella più certa della morte, mostrerebbe che il brav' uomo vivesse novantasei anni, longevità poco credibile, anche in un abate del settecento. Né mi sono mancati altri validi aiuti a siffatte indagini, e ne ringrazio cordialmente in primo luogo V insigne bibliografo bolognese sig. Dott. Alberto Bacchi Della Lega, poi alcuni amici carissimi: il Can. D. Gaetano Teloni, che mi donò anche il primo tomo delle' Commedie edite in Milano dall'Agnelli nel 1762; il Dott. Giovanni Federzoni e V Avv. Augusto Franchetti, dei quali misi a dura prova l' affettuosa pazienza. Mi sovvennero ancora d' informazioni i Signori Professori Isidoro Del Lungo, Giacomo Zanella, Pietro Canal, Fabio Nannarelli e Domenico Gnoli; l'eruditissimo Dott. Eduardo Alvisi, il dotto Sig. Co. Francesco Fiorenzi di Osimo e il notissimo bibliografo mantovano Sig. March. Ippolito Cavriani. Ancora il Comune di Siena mi diede ogni agio di consultare la sua ricca collezione di manoscritti, e il sindaco Signor Banchi su nominato anche le sue proprie, fra le quali, notabilissima quella già del Borghesi da lui ereditata. Mi fu altresì consentito di ricopiare, traendole dalla biblioteca senese, tre commedie cercate invano, ch'io sappia, insino ad oggi, e un bel numero di lettere autografe del Nelli o al Nelli. E tuttavia le cure amorevoli di tanti valentuomini e la mia diligenza non diedero quel frutto ch'era da sperarne. Quanto poi alle opere stampate del Nelli, io non ho potuto veder altro che le sue commedie, e pur troppo non tutte. Nella Bibliografia dei testi di lingua a stampa citati dagli Accade* mici della Crusca, opera di Luigi Ra^olini ed Alberto Bacchi Della Lega (Bologna, Romagnoli, 1878.) si citano due raccolte di esse commedie, Tuna, cioè l' edizione principe, incominciata in Lucca nel 1731, ripigliata in Siena venti anni dopo, poi interrotta di nuovo per quattro anni, e da ultimo condotta sino al volume sesto; l'altra uscita nel 1762 a Milano dalla tipografia dell'Agnelli in cinque volumi, contenenti le commedie, che sono ne' primi cinque dell' edizione Lucca-Siena, e solo mancanti di tre lettere dedicatorie. Se non che io ho ragione di dubitare che l'edizione senese non procedesse oltre al tomo quinto, e che il sesto non sia altro che il primo di una nuova incominciata a Lucca nel 1765, e rimasta proba bilmente in asso. Infatti questo tomo primo contiene appunto le commedie che la detta bibliografia assegna all'ultimo della prima edizione; ed ha il numero di pagine, il sesto, la data e il nome del tipografo, Filippo Maria Benedini, quali sono in essa descritti. Che se si ponga mente come il frontispizio non abbia numerazione di tomo, e soltanto in fondo all' ultima pagina del volume si legga: Fine del primo tomo, si dovrà forse concludere che era facile cadere in si lieve errore, e che ormai è cosa inutile il cercare più oltre un volume che pare non sia mai esistito; rallegrandosi di averne il contenuto in questo da me per grande ventura trovato. Ma d' altra parte lo stesso Nelli, in una lettera del 23 febbrajo 1756 all' Ab. Carli, cosi discorre dell' edizione Lucca-Siena : « Mi suppongo che Ella sappia che il primo tomo fu stampato in Lucca; e perché di questi non se ne trova più, lo stesso Rossi ne promette assolutamente la ristampa. ! Il secondo, stampato dal medesimo, può aversi, volendosi. Il terzo e il quarto sono gli stampati ultimamente, 3 il quinto si stampa Tenne poi la promessa? Ai bibliofili la risposta. al presente, e si anderà continuando sino all' ottavo. » Ma il fatto è che il quinto fu pubblicato soltanto due anni appresso, si che avea ragione l’Autore di scrivere: « Questo stampatore Rossi si piglia poca briga di stampare con sollecita* dine le mie commedie, delle quali in un anno e mezzo non ne ha stampati che due tomi 1 , di tre commedie per ciascuno; e ciò perché troppe cose intraprende a fare.
Oltre a ciò l'Allacci nella Drammaturgia cita un tomo settimo delle commedie, il che dimostrerebbe all'evidenza che vi fu un tomo sesto; ma, siccome gli assegna la data del 1755, anteriore di due anni a quella del tomo quinto, convien dire ch'egli abbia errato o nel citare il tomo, siccome io credo, o nel citare la data.
Infine ho sott' occhi il Manifesto, col quale il Rossi « avvisa a' letterati d'Italia avere in punto per metter sotto il torchio le Commedie inedite del Sig. Jacopo Angelo Nelli, che da molte parti vengono richieste da coloro, che hanno veduto e gustato le altre sei stampate in due tomi del oc medesimo; il primo in Lucca dal Marescandoli, del quale non se ne trova più in vendita, ed il secondo in Siena più modernamente dallo stesso Francesco Rossi. Queste che si promettono saranno quindici, che comporranno cinque tomi in dodici, e saranno tre commedie per tomo, conforme agli altri già stampati. Annunzia quindi P ordine con che saranno pubblicate, che è differentissimo da quello veramente seguito; onde, non potendosi supporre che siano uscite in luce da una stessa tipografìa due edizioni del Nelli nello stesso tempo, si dee credere che P Autore le ordinò poi altrimenti, né è cosa del tutto improbabile che P edizione giungesse, come prometteva il Maniiesto, al tomo settimo. Certo è che in quelP annunzio sono ricordate quasi tutte le commedie da me cercate in vano, cioè: V amante scaltra, Il Misantropo disingannato, Il mondo alla rovescia. Gli Sposi travestiti, Il Gentiluomo prudente; e vi mancano solo: / Duelli sti^ V Accademia delle false dame, I Ripieghi amorosi o La Dama scaltra: se pure non sono una cosa stessa / Duellisti e / Vecchi rivali, U Accademia delle false dame e La Dottoressa preziosa, I ripieghi amorosi e L'Amante scaltra. Se quindi l'edizione fosse mai stata compiuta, con quale ordine non importa, e se qualche copia fosse scampata al singolare naufragio delle commedie nelliane, poco o nulla mancherebbe alla loro piena resurrezione. In tanta scarsità di notizie biografiche e bibliografiche sarebbe temerità poco scusabile il voler discorrere de' casi e delle opere del Nostro, senza tentare nuove indagini. Per che, seguendo anche in questo il savio consiglio del Sig. Prof. Carducci, al quale mi lega infinita gratitudine, ho divisato differire ad altro volume la pubblicazione degli studi, quali essi siano, da me fatti sul Nelli, ed eccitare frattanto la cortesia degli uomini di lettere e degli eruditi a volermi comunicare quanto possa valere a darmi luce e conforto. Cosi, se il mio lavoro non riuscirà, pur troppo, degno del soggetto, non si dovrà almeno imputarne ad altro che alla mia insufficienza la colpa.
Mi resta a dire delle norme che ho tenuto e terrò in questa ristampa.
Il testo da me seguito è quello della edizione Lucca-Siena per le prime quindici commedie, per le tre ultime quello della lucchese: ma ho corretto qualche rara volta la prima con la edizione Agnelli, dove mi parve necessario, notando a pie di pagina le varianti. Né ho stimato dover tenere altro ordine da quello della prima stampa, fatta,, senz' alcun dubbio, sotto gli occhi dell' Autore. L' ortografìa ho conservata qual era, quando non m' abbattei a errori tipografici manifesti. Tuttavia mi parve scrupolo pedantesco, del quale non mi avrebbe saputo grado il lettore, mantenere le majuscole dove l'uso moderno a ragione le vieta; rispettare sempre, anche a costo della chiarezza, la punteggiatura disuguale e trasandata dell'Autore ; lasciare accenti e apostrofi dov' erano al tutto fuor di luogo, né porre gli uni e gli altri a loro posto, seguendo per quelli la pronunzia toscana, per questi l'ortografia moderna. Ma d'altra parte non mi è parso di aver diritto a scrivere diversamente da quel che allora si usava e da taluni si usa ancora, certe parole ; come jeri, noja, studj, doppo, ohibò e molte altre; e quelle che l'autore scrisse in modo singolare forse per ragione di prònunzia o di dialetto. Siccome poi il Nelli scrive non pochi vocaboli ora in una maniera ora in un'altra, cosi, quando l'una di esse mi sembrò erronea usai sempre la buona, quando l'una e l'altra fossero accettabili, le lasciai quali erano. Però si troverà ad esempio: obligare e obbligare, roba e robba, soprafare e sopraffare, incomodo e incommodo, caminare e camminare, e sr vedranno ora divise ora no le preposizioni articolate.
Ho aggiunto al testo note brevissime, e soltanto dove mi parvero strettamente necessarie a dichiarare qualche parola o frase difficili a intendere dai più anche con l' ajuto de' vocabolari. Resa cosi ragione dell' opera mia, auguro sì lettore benevolo, e vada anche per il malevolo, perché l'augurio non sia ristretto a pochissimi, la vita singolarmente lunga, che, sino a prova contraria, dobbiam credere che toccasse allo spiritoso e bizzarro abate senese.
Jesi, 26 maggio 1883.
Alcibiade Moretti.
LA MOGLIE IN CALZONI
commedia del Signor Dottore Jacopo Angelo Nelli
LETTERA DELL' AUTORE
IN RISPOSTA
ALL ILLUSTRISSIMO SIGNORE
UBERTO BENVOGLIENTI.
Illustrissimo Signore,
ENDO a V. S. Illustrissima grazie ben
distinte della pazienza e bontà, che ella
ha voluto avere, a mia preghiera, di leggere la mia
Moglie in Calzoni, e fare sopra la stessa quelle
osservazioni giudiziosissime, che ella mi trasmette,
delle quali parte mi è servita per emendar la me-
desima, ove era luogo alla correzione, parendomene
giusta la critica; e parte mi serve di motivo a di-
fenderla e giustificarla in quei luoghi, che, al giu-
dizio suo e di altri, appariscono difettosi, e che,
secondo me, ammettono difesa e giustificazione: la
qual cosa si farà da me con quella libertà litteraria
ch'elia mi permette, e di che il suo aoimo è tanto
giusto amatore.
Dirò dunque che la sua riflessione di aver io
mancato di ardimento, anche per la terza spezie di
commedie, nel carattere di Ciprigna, è una rifles-
sione ottima e giudiziosa: e l' assicuro che io pure
conosceva benissimo che, in dipingendo questo ca-
rattere, comecché di donna che si era usurpata ogni
autorità sopra del marito medesimo, conveniva toc-
care fatti e costumi più ovvj, e praticati giornal-
mente, per renderlo più plausibile ed accostante al
vero; ma il timore di far, anche involontariamente,
qualche ritratto troppo simigliante di persone, che
se ne sarebbero potute offendere, mi ha fatto at-
tenere alla caricatura, non cosi facile ad incontrarsi
nelle azioni famigliari e domestiche.
La sua disapprovazione al supposto, che si fa
nella scena quarta dell' atto primo, della real ces-
sione de' calzoni di Bonario alla moglie, per esser,
die' ella, questa una cerimonia fuori di uso, e me-
glio stato sarebbe farle dar le chiavi della casa e
degli scrigni, come altri han costumato in dimo-
strazione di autorità ceduta, non V ammetto intie-
ramente; anzi direi che per la sua particolarità e
stranezza, e perule circostanze del caso nostro, fosse
per esser più gustosa e plausibile; tanto più che
questa immagine è fondata sopra un fatto total-
mente simile, seguito in persona di un cavaliere
di naturai fièro e ardimentoso, il qulae, ritrovando
molte convenienze in un matrimonio con una ve-
dova dama, che per altro sapeva essere di carattere
altiero e soperchievole, e che colle sue oppressioni
e predominio aveva posto in disperazione il suo
primo marito, morto, si credette, per tal cagióne,
si servi la prima sera delle nozze di questo stra-
tagemma, del quale si fìnge si servisse Ciprigna con
Bonario, per intimorir con una tal risoluzione la
moglie, e renderla per sempre obbediente e soggetta.
La taccia d' inverisimilitudine data al fatto di
Raspa, allorché, nella scena X del medesimo primo
atto, manda le gioje all'orefice per Tanganetto,
goffo contadinello, è stata da me preveduta; e per-
ciò ho circostanziato talmente quella fidanza, che,
a mio credere, è renduta affatto verisimile. Primie-
ramente si pone il detto Raspa in molt' angustia
per la necessità di risolvere, o di portar le gioje
al mercante armeno, o di andare ad impedire V en-
trata di Clarice in monisterio, cose tutte due di
somma premura per lui, ed in quanto all'impor-
tanza della medesime, ed in quanto alla sollecitu-
dine. Stando egli in questa esitazione, sopraggiunge
Tanganetto; si fa nascere allora, e non premedita-
tamente, il pensiero in mente del padrone di man-
dar le gioje pel servo, affine di poter egli andare
ad impedir la detta entrata; si dà dimostrazione
ch'egli conosca la rozzezza si, ma insieme la fe-
deltà ed attenzione al servigio del medesimo servo:
dice che gli farà ben comprendere ciò che debba
fare: che l'Armeno è galantuomo, ed è solo nella
città: che ha parlato seco dell'affare. Inoltre si fa
che non palesi a Tanganetto ciò che sia nella sca-
tola, e questa se gli dia sigillata, con istruzioni e
cautele ben distinte, e con dimostrazioni assai in-
dividuali. Tali circostanze colle seguenti parole^
eh' ei proferisce nell' atto di rimovere ogni dub-
biezza : no, no, le gioje non si posson perdere, e
Clarice sarebbe perduta per sempre, pare a me
che tolgano ogni ombra d' inverisimilitudine.
La scena XVII e XVIII ( l ) dell'atto terzo non
sono punto superflue, come si dice: perché nella
XVII si mostra la passione di Bonario, per essere
stato trattato si malamente dalla moglie; il che fa
letto alla risoluzione da prendersi contro di essa;
e nella XVIII si narrano alcune cose necessarie a
sapersi da alcuni de' personaggi che vi sono, e vi
si dimostra esser tutti uniti in ciò che deve farsi
contro Ciprigna.
Accordo la lunghezza del terzo atto, non prò-,
porzionata agli altri due, ma non già quella di
tutta la commedia; poiché, non durando ella più
che tre ore di recita, non pare che in ciò sia di-
fettosa. La lunghezza in una commedia si attri-
buisce a difetto (quando questa non sia eccedente)
a cagione solamente del rincrescimento, che suol
nascere negli uditori per cose poco dilettevoli, di
maniera che una commedia, ancor di due ore sole
di rappresentazione, parrà lunga, e tedierà, se ella
sia disgustevole, o poco piacente. Al contrario poi
non ci rincrescerà la dimora ancor di quattr'ore
in un medesimo luogo, quando questa sia accom-
pagnata da diletto e piacevolezza. Una riprova di
ciò ne sono le nostre commedie del secolo XVI, 1
le quali si vedono quasi tutte eccedentemente lun-
ghe, e taluna di più di quattr'ore di durata'. Vero
è che io non giudico che il piacere di trattenersi
cosi lungo tempo nello stesso luogo procedesse sem-
pre, o totalmente, dalla vaghezza della commedia,
ma piuttosto dalla comodità di vedere o poter par-
lare a chi, fuori di tal congiuntura, non era per-
messo dal costume più ristretto e cautelato di quei
tempi, come par che possa dedursi da ciò, che si
legge nel fine del prologo della commedia degP In-
tronati, intitolata: d'Ingannati; ove dice, parlando
alle donne: Questi uomini se non avranno pia-
cere delle cose nostre, ci avranno da ringraziare,
che per quattr 9 ore almanco gli daremo comodità
di poter contemplare le vostre divine beitele. Dal
che si conosce che le commedie avevano quattr'ore
almanco di rappresentazione, e che non pertanto
gli ascoltanti non erano soliti lamentarsi di tal
lunghezza, a cagione del divertimento che in detto
tempo provavano, qualunque egli si fosse; perloché
resta provato ancora, che fa dimora di tre ore di
tempo in un istesso luogo, ove l'animo sia ben
divertito, non rincresce, e che una commedia, pur-
ché sia dilettevole, non può dirsi peccar di lun-
ghezza per la rappresentazione di tre ore di tempo,
o poco più. Confesso che questa regola non può
adattarsi generalmente a tutte le nazioni, poiché
ve ne sono alcune, che, pel fuoco loro naturale,
o pel òostume di esser sempre in moto' ed in
agitazione, non sono sofferenti di una quiete si
lunga ; ma non cosi è dell 7 italiana, e molto più
della spagnuola, che, per natura e per abito,
sono assuefatte a maggior sofferenza; alle quali,
pare a me, non son punto disdicevoli questi pre-
cetti. »
Il ristringimento poi e del tempo e degli attori,
e del picciol teatro, a cui sono stat' obbligato, in
componendo la presente commedia, che è servita
com' Ella sa, per un parti colar divertimento in cam-
pagna nel passato autunno, deve scusarmi, se per
essa non si vede tutta quella franchezza e libertà
poetica, che si ricercherebbe, ed averei voluto,' per
dar maggior fuoco e vaghezza a' caratteri, all'in-
treccio, alla scenatura ed alla decorazione medesima.
EU' avverta ancora che il parlar di Tanganetto v è
dialetto rusticale fiorentino, e non della plebe
della città.
Ciò che in queste mie riflessioni troverà Ella
discordante dal suo sentimeato, intendo correggerlo
e sottoporlo al giudizio suo purgati ssimo; e divo-
tamente le bacio le mani.
Di V. S. ILLUSTRISSIMA
Di villa 8 aprile 1728.
Divotissimo e obbligatissimo servitore
Jacopo Angelo Nelli.
LA MOGLIE IN CALZONI
commedia del Signor Dottore Jacopo Angelo Nelli
INTERLOCUTORI
CIPRIGNA, moglie m seconde nozze di Bonario.
BONARIO, vecchio.
VALERIO, 1 figli del primo letto
CLARICE, amante di Buonamico, ) di Bonario.
BUONAMICO, amante di Clarice.
RASPA, maestro di casa di Bonario.
TANGANETTO, contadinello fiorentino, servo di Raspa,
FIUTA,
VESPINA, Serva di Bonario
La scena si finge in Firenze.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala.
Bonario, e Valerio con abito da viaggio.
Val. Ho risoluto. (Esce con risoluzione, ed è ritenuto
da Bonario).
Bon. No, figliuol mio.
Val. Tutto tentate invano. In questo punto voglio partire.
Bon. E vorrai cosi abbandonar tuo padre?
Val. Non per abbandonar mio padre, ma per fuggir la
matrigna, ho destinato andarmene in lontani paesi.
Bon. Ma vedremo di porre qualche rimedio....
SCENA SECONDA
Clarice, Bonario e Valerio.
Clar. Signor padre....
Bon. Oh Clarice, sii pur benedetta, che siei venuta qui a
tempo per aiutarmi a levar di testa a Valerio la pazzia, che
ci si è fitta, di volersene andar fuori di casa e del paese.
Clar. Io, signor padre, son venuta per prender la sua be-
nedizione, prima di ritirarmi in convento, ove ho già disposto
le cose per esservi ricevuta.
Bori. Oh, com'a dire? Che novità' è questa! Tu ancora
vorrai. ...
Clar. Signor si. Ho determinato soffrir più tosto la clau-
sura di un monastero, che le stranezze della matrigna.
Bon. Ma la matrigna si farà far da madre, e cosi sarà
posto rimedio a tutto.
Val. Questo rimedio è impossibile, perciò la mia partenza
è inevitabile.
Clar. Ed il mio ritiro è sicuro, perché un male si perni-
cioso ed avanzato è senza rimedio.
Bon, a Clar. Dunque tu mi vuoi lasciare ? (A Valerio:)
E tu vuoi abbandonarmi? Ed io ho da restar cosi solo....
SCENA TERZA
Vespina, e poi Fiuta, e detti.
Vesp. Signor Bonario, se mai l'avessi fatto scandalizzare
in tutti questi mesi, che sono stata al suo servizio, glie ne
dimando perdono, e nel medesimo tempo le chiedo buona
licenza,
Bon. Come! ancor tu....
Fiu. Signor padrone, lo prego a darmi quel po' di salario
che avanzo, perché non voglio più stare al suo servizio.
Bon. Oh povero me! Tu, e tu, e tutti ve ne volete an-
dare? E questa casa se n'anderà ella ancora?
Fiu. Aspetti un poco V. S., che se n'anderà anch'essa,
giacché la aignora Ciprigna, vostra seconda moglie, ha co-
minciato a darle la balta.
Vesp. E perché io non ci voglio rimaner sotto, me ne
voglio andare adesso.
Bon. Ma che risoluzioni son queste vostre? Vi slete ac-
cordati tutti a volermi sotterrare?
Val. Anzi, perché viviate più quieto, ho risoluto partire.
Clar. Tale ancora è il mio sentimento, vedendo che dalla
mia dimora in casa prende ogni giorno più la signora madre
nuovi motivi d'inquietudini è di rancori.
Fiu. Ed io non mi vo' rompere ii collo con essa, ve'.
Fate bene, gli ha esser fatto male. Fate male, gli è fatto
male e peggio. Non si sa per qual verso pigliarla. *
Vesp. I diavoli non ci starebbero con questa signora Ar-
cigna. Credo che la pensi la notte a come inquietarci il
giorno.
Bon. Ma potreste avere un po'' di pazienza ancor voi, ve-
dendo quanta ce n'ho io.
Vesp. Oh voi bisogna che ci stiate, signor Bonario, e
che vi rasciughiate l'umidità, che avete fatta a letto (i).
Ma noi»...
Val. Questo è tutto il male, signor padre; l'aver avuto
ed aver tanta pazienza è cagione di tutti questi scandoli.
Bon. Ma ella dice che l'autorità in una casa....
Val. L'autorità in una casa deve stare appresso il capo
di essa, che siete voi; e non appresso di una donna sventata,
capricciosa, volubile, e. per dirla in una parola, senza punto
di giudizio.
SCENA QUARTA
Ciprigna e detti.
Cip. da parte. Bella combrìccola ! qui si dovrebbe parlar
di me. (Sta ascoltando.)
Fiu. A queste sue lodi avrei da aggiunger ancor io qual-
che cosare! la di più. Ma....
Vesp. Eh dillo pur, Fiuta, non ti peritare, no. Ma aspetta:
lo diro io per te. Chi ha visto mai una donna più vana, più
arrabbiata, più muffettina, più vendicativa di lei? Volevo
dire anche un po' civetta, ma non mi sono arrischiata.
Clar. La prudenza mi obt?lig' a tacere; ma.se io dovessi
parlare, potrei dir di belle cose.
Val. Qui non si finirebbe mai di raccontare le suescioc-
chezze ed i pessimi effetti dell'autorità, che si è usurpata;
perciò, signor padre, permettetemi che, senza perder più
tempo, me ne vada....
Bon. No, Valerio mio. (Lo ritiene. ) Non voglio in alcuna
maniera che tu parta. Dove vó' tu andare ora, nelle france
maremme? (i).
Clar. Date dunque licenza a me che entri nel monastero,
come ho destinato.
Bon. Né meno. Tu ancora devi restare; abbi un poMi
pazienza, e vedrai come rimedierò alle cose. 11 monastero ci
sarà anche di qui a un anno.
Vesp. Io poi non ci resterei, se mi copriste d'oro.
Fiu. Ed io se mi faceste imperadore.
Cip. entrando in mezzo con autorità e sussiego. Buon
viaggio a lor signori. (Restano tutti attoniti.)
Val. fa una profonda riverenza, e parte sen\a parlare.
Cla. le fa un grand' inchino, e- parte.
Vesp. fa lo stesso.
Fiu. anch' egli fa il medesimo.
Cip. a Bonario. Che commedia è questa, signor rime*
diator delle cose?
Bon. facendole ancor ei riverenza. Buon di a V. S. (Va
per partire, ed è ritenuto da Ciprigna.)
Cip. ironicamente. No, signor consorte mio, non voglio
in alcuna maniera ch'ella parta; eh dove vorrebb' ella an-
dare adesso? nelle france maremme?
*. Bon. Io ho da fare altrove. ( Vuol di nuovo partire.)
Cip. lo ritiene. Abbia un po' di pazienza, e vedrà come
rimedierò alle cose. Si vuol forse far monaca ancor lei? Il
monastero ci sarà anche di qui ad un anno.
Bon. facendo for\a di partire. Lasciatemi andare.
Cip. O se io la ricoprissi d'oro?
Boti, facendo la stessa f or ^a. Oh buono!
Cip. Ma se lo facessi imperadore, né meno farebbe grazia
di restare? (Lo lascia.)
Boti, da sé. Non vorrei che coloro partissero da vero.
( Vuol partire.)
Cip. V. S. non risponde? Venga qua.
Bori. Non ho tempo di badare a ciarle. ( Vuol partire di
nuovo.)
Cip. lo ripiglia con sdegno. O state a .sentir dunque
questo mio discorso, che non saran ciarle. Chi vi pensate
voi di essere in questa casa, che volete dar nuove regole e
riforme? E chi comanda qui, io, o voi?
Boti. Io ho creduto fin ora d* essere il vostro marito, e
come tale....
Cip. Voi siete stato e sarete sempre il marito della pa-
drona; e come tale, non dovete impacciarvi che del vostro
giubbone e delle vostre calze.
Bon. Oh, e de' miei calzoni?
Cip. Questi gli porto e gli porterò io, finché vivo. Non
bisognava che me gli aveste ceduti la prima sera, come me
gli cedeste, se gli volevate portar voi. Che se ne ha da fare
ogni giorno un nuovo contratto?
Bon. Ma io....
Cip. Ma voi non siete padron di nulla, ed a me tocca a
maneggiare e regolar le cose in questa casa, e non ad altri.
Bon. I miei figliuoli....
Cip. 1 vostri figliuoli staranno alla mia obbedienza, o se
Manderanno insieme colla cameriera ed il servitore, giacché
hanno voglia di andarsene. Si, se n' anderanno questo giorno,
né io voglio in casa tanti correttori ed esaminatori delle mie
operazioni.
Bon. Signora Ciprigna, di grazia, non vi alterate. Loro. . . .
Cip. Che non vi alterate? Ho sentito con questi miei
proprj orecchj in che maniera hanno parlato della mia per-
sona. Io non ce li voglio.
Bon. Supplichevole ginocchioni. Moglie mia cara, vi prego
per questa volta*... - '
Cip. Ora son la vostra moglie cara, ne 1 ? Andate, e se
niente niente mi state a stuzzicare, toccherà ancora a voi ad
uscir fuor di casa. (Parte.)
Bpn. aliandosi bel bello 'tutto confuso, guarda se è ve-
duto e sentito da Ciprigna. Oh diavolo, o versiera ! O po-
veri figliuoli 1 Povero Bonario! Povera casa mia! (Parte.)
SCENA QUINTA
Strada.
Valerio e Fiuta.
Val. E me lp assicuri per cosa certa?
Fiu. Oh buono! Che ve Io direi con tanta franchezza?
Val. Dimmi, come l'hai saputo?
Fiu. Jersera, prima d'andare a letto, mi venne voglia di
stare a usolare alla porta della camera di monsù Raspa,
maestro di casa, ove sentii gente.
Val. E chi vi era su quell'ora si tarda?
Fiu. La vostra amabilissima matrigna. Già io credetti che
fusse andata li colla scusa di riveder qualche conto, per poi
trattar d'altro, e non m'ingannai, perché intesi che i conti
si facevano sopra di voi e di vostra sorella.
Val. Questo furfante ha preso tropp' autorità in casa no-
stra, e troppa confidenza colla mia matrigna.
Fiu. Ogni astuto mugnajo tira l'acqua al suo mulino.
Egli è lesto e qualche cosa di peggio, onde si approfitta
della congiuntura.
Val. Se si contentasse di approfittarsi solamente negl'in-
teressi, ancora, ancora chiuderei gli occhi; ma troppe altre
cose io scorgo, che son cagione....
Fiu. Non dite più là, che io v'intendo. E la causa di ciò
eccola. Monsù Raspa comanda alla signora Ciprigna; la si-
gnora Ciprigna a vostro padre; e vostro padre a nissuno.
Val. Or bene; ed io per non impegnarmi a qualche strana
risoluzione, partirò con sollecitudine. Ma che conti facevan
eglino sopra di me e di mia sorella?
Fiu. Intesi che da loro si meditava fare un viaggio a Li-
vorno, ove, disposte ben le cose con un certo capitano fran-
cese, che ci è per far gente, senza vostra saputa, sareste poi
stato mandato a bordo della sua nave con qualche pretesto,
e li fatto arrestare, per mandarvi alla guerra, come vi dicevo.
Val. Si può dar malizia e perversità maggiore? E di mia
sorella che intendesti?
Fiu. Di Tei il discorso era già finito quando arrivai, e so-
lamente potei capire alla confusa che, se ella si fosse ostinata .
a quel matrimonio, 1' averebbon necessitata a farsi monaca.
Val E di che matrimonio parlavano?
Fiu. Questo poi non so. Ma mi suppongo del signor fìuo- '
riamico; giacché sanno qualche cosa de' loro amori.
Val. Or basti; mia sorella credo che avrà giudizio, ed io
non perderò tempo a partire, per togliermi da ogn' impegno
di far qualche grosso sproposito.
Fiu. Ma veramente volete lasciar libero il campo a costei
df rovinare affatto la vostra casa?
Val, Tant'è, il cielo ci porrà egli riparo. Tu, giacchi ti
sei offerto venir meco, va' prontamente a far venire i cavalli
dalla posta.
Fiu. lo sono all' ordine. Adesso vado.
Val. Aspetta. E meglio che venga ancor io; monteremo
a cavallo li, e passeremo da casa del signor Buonamico per
prender la mia valigia, che ho già là mandata.
Fiu. Ma a denari come si sta?
Val. Ne ho a sufficienza.
SCENA SESTA
Buonamico e detti.
Buon. Dove con si gran fretta ed in quest'abito, signor
Valerio? Si ha da far viaggio?
Val. Tale è la mia risoluzione.
Buon. E per dove, se è lecito? Non credo già per villa,
perché la valigia mandata da voi in mia casa, e I'. imbasciata
espostami, indicano un viaggio assai più lungo, e con del
mistero.
Val. La mia partenza, caro signor Buonamico, non è cer-
tamente per villa, ma per dove non saprei dirvelo.
Buon. Questo è ben strano. O chi vi muove a ciò fare?
Val. La disperazione.
Buon. Io m' immaginava di qualche cosa simile, attesa la
notizia che ho degli sconcerti di vostra casa, onde veniv' a
cercarvi, per offerirvi quell' ajuto e consiglio, che da me vi
si potesse prestare.
Val. Non meno poteva io aspettare dalla vostra amicizia,
e ve ne professo ben distinte le obbligazioni; ma ad altro
tempo riserverò le vostre grazie, non avendone io bisogno al
presente.
Fiu. O che sproposito! E quando ne volete aver maggior
bisogno che ora?
Buon. Amico, guardate di non vi lasciar sedurre dalla
passione. Inutile dopo il fatto riesce alle volte il pentimento;
apritemi liberamente il vostro cuore, e palesatemi le vostre
più particolari angustie. Può essere che vi si trovi qualche
rimedio.
Val. Che rimedio volete trovare al predominio di mia
matrigna, ed alla dabbenaggine di mio padre?
Fiu. La medicina io la saprei, ma sarebbe un pò 1 violenta.
Buon. No. Bisogna, per quanto è possibile, operar sempre
con mansuetudine e prudenza.
Val. Fin ora ciò non mi è giovato a nulla, e voi lo
sapete.
Buon. È vero, ma non perciò dovete stancarvi. II cielo
determina ben spesso il premio per lo nostra sofferenza ad
' un punto che noi crediamo impossibile o lontano, e che tal-
volta sarà probabile e vicinissimo.
- Val. Ma caspi te ra questa sofferenza alle volte ella scappa.
Tant'è, io non mi trovo provvisto di tanta virtù, da soffrir
più lungamente. Bisogna che io m'allontani dalla casa' e
dalla patria, per non mi trovare in necessità d'appigliarmi al
consiglio 'di Fiuta.
Buon. Né l'uno né l'altro dovete fare. Or non vedete
che qualunque di questi passi, che voi faceste, sarebbe la
total rovina vostra e della casa?
Fiu. Veramente il signor Buonamico non dice male.
Buon. La vostra presenza qui è necessarissima, se non
per altro, per tenere almeno in qualche soggezione la signora
Ciprigna.
Val. Io non saprei. Vada pur tutto in rovina, purché io
mi liberi da tante angustie ed inquietudini. Ho deliberato, e
voglio partire.
Buon. Ma a riflesso della signora Clarice, e mio, che sa-
pete che tanto amo, sarà possibile che non vi lasciate per-
suadere a cangiar risoluzione? (Qui Buonamico fa pausa, e
Valerio resta pensoso.) Lasciando lei cosi esposta ai capricci
della matrigna si poco prudente e punto amorevole, come
possiamo noi sperar buon esito pel matrimonio con essa, fra
voi e me di si buon animo concertato?
Val. Caro amico, mi do per vinto.
Fiu. Miracolo!
Buon. La vostra docilità mi obbliga al maggior segno.
Val. Ma vedete, bisogna che pensiamo di proposito a do-
mar l'alterigia di questa donna, ed a frastornar tutti i di-
segni che ella ha formati contro di me e di mia sorella.
Buon. Ciò si farà con ogni sollecitudine e premura; ma
che disegni ha ella formati contro di voi e della signora
Clarice ?
Val. Meglio che da me l' intenderete qui da Fiuta, che ne
ha sentito egli stesso il concertato.
Fiu. Oh io ve gli dirò a un puntino. Sentite. (Guarda
se è ascoltato.) Ma quella, che vedo passar per quella strada
e camminar tanto in fretta, non sarebbe già la signora Cla-
rice? E lei certo, e quell'altra è V espina.
Val. Non ci è dubbio. E ella senz'altro, che se ne va al
monastero, ove ha risoluto rinserrarsi.
Buon. Perché ciò ? Impediamole tal risoluzione. E se vi
piace, potremo ritirarci tutti in mia casa, per ivi stabilire ciò-
che convenga di fare.
Val. Ben volentieri. Intanto avremo l'onore di fere una
visita alla vostra signora madre non pera oche uscita di con-
valescenza.
Fiu. Si, ma se non ci sbrighiamo per raggiungerla, sarà
un lasciare i cani alla volpe che è intanata.
Val. Andiam pare. ,
Buon. Vi sieguo.
Fiu. Oh che gran zuppa! Almeno che la non si facesse
nel paniere.
SCENA SETTIMA
Bonario solo con agitazione.
O tapino me! la botta è ita. Se la son fatta, come ave-
van detto. Cerca di qua, cerca di là per la casa, non si trova
né Valerio, né Clarice, né il servitor, né la serva. E ora
dove darò io di capo per rintracciarli? Anderò al convento,
perché Clarice.... Ma chi sa qual convento sia questo, ove
ha detto d'entrare? È meglio ch'io vada alla posta per im-
pedire che Valerio.... Ma se egli è andato a pigliare i ca-
valli dal Fensi o da qualche altro, e che in questo mentre
se la batta ? Che farò ? dove anderò prima ? Uh i' mi sgraf-
fignerei il viso, mi strapperei i capelli e insino il naso dalla
disperazione. Oh che moglie! Oh che versiera! Se io po-
tessi.... Ma perché sto qui a cuocere il bu' (i), e non corro
alla (2) port'a S. Gallo, a S. Pier Gattolini, a S. Friano, a
S. Niccolò e alla port'al Prato? O sicuro egli è. per uscire
adesso a tutta posta da una di queste. Oh figli uol mio, va' più
adagio, aspettami, aspettami. (Parte infuriato, ed incontran-
dosi con Ciprigna, resta attonito).
SCENA OTTAVA
Ciprigna; roonsù Raspa e detto.
Cip. Molto infuriato, signor consorte! Che avete i bini
dietro ?
Boti. Di dietro Tei ho ...
Cip, Me, volevate dir, non è vero?
Bori. Chi dice questo? Pdico che ho bisogno.... (Vuol
partire, ed è sempre tenuto da Ciprigna ogni volta òhe lo
tenta.)
Cip, Questo bisogno non sarà poi tale, che vi pressi tanto,
da non poter restar due momenti colla vostra moglie»
Bon. Né due, né uno, né mezzo ci posso restare.
Cip. E si che ci resterete poi. Dovete riposarvi un poco;
non voglio che prendiate qualche scalmana.
Bon. — Oh meschino! ora Valerio.... — La riverisco, ci
rivedremo un'altra volta.
Cip. No, no, ho bisogno di voi adesso.
Bon, Serbate questo bisogno, perché io.... (Fa for\a
d? andare,)
Cip. con autorità. Olà! a chi parlo? (Bonario timido,)
Vorrei veder questa, che voi vi moveste!
Ras. Se la signora comanda, non ci è da replicare.
Cip. Signor si. Io comando, e voi dovete ubbidire.
Bon. con voce umile. Ma se avessi una necessità da do-
vermi muovre?
Cip. La necessità si fa aspettare.
Bon. Ma s'ella non potesse?
Ras. Quando la signora comanda una cosa, ogni vostra
necessità puzza d'impertinenza, se non vuole ubbidirle.
Bon, Eh, signor maestro di casa, potrebb' essére che puz-
zasse piuttosto....
Cip. Sappia di ciò che si voglia, voi per adesso dovete
restar qui, ed ascoltare i nostri discorsi.
Bon. Quanto sarann' eglino lunghi?
Cip. Quanto a noi parrà.
• Bon. — Io me ne ,vo in sudor freddo dalla pena. — ( Ci-
prigna parla basso con Raspa, il che osservandosi da Bo-
nario tenta andarsene ascosamente, ma veduto da Ciprigna
lo ritiene con sdegno.)
Cip. Come? ed avete ardire....
Bon. Oh io credevo che aveste già finiti i discorsi.
Ras. Finiti, quando si hanno ancor da principiare! Non
sarebbe poco che fosser finiti per un'ora.
Bon. con voce timida. Un'ora?
Cip. Un' ora, e due, e tre, se vorremo.
Bon. Sia fatta la vostra volontà. Principiamogli dunque.
Che cosa ho io da ascoltare?
Ras. Dovete ascoltare gli ordini della signora, ed esser
cieco in eseguirli.
Bon. — Eh io vorrei esser cieco e sordo da vero, ch'i' non
vedrei, né sentirei.... —
Cip. lo tira per un braccio. Sentite dunque. K vostri
figliuoli primieramente devono contare in questa casa, come
se, non ci fossero.
Bon. Oh, e' conteranno come voi dite, sicuro, perch' e' son
costi che covano.
Cip. Come?
Bon. Come, eh' e' non ci son più.
Ras. Non ci son più?
Bon. Signor no, non ci son più, perché son fuggiti. ( Vuol
partire, e Ciprigna lo f attiene.)
Cip. Venite qua. Che dite? Valerio e Clarice sono an-
dati via?
Bon. quasi piangendo. Oh, e' sono andati loro.
Cip. verso Raspa. Tanto meglio.
Boti. Tanto peggio.
Cip. a Raspa. Ora si viverà più quieti.
Ras. Voi non capite che voglia dire esser fuggiti fuori di
casa, e particolarmente Clarice.
Cip. Vuol dire che saranno tenuti per strani 0(1) capric-
ciosi. ( Mentre Ciprigna e Raspa parlano fra di loro, Bo-
nario a poco a poco si ritira ascosamente, e poi fugge.)
Ras. Che questa taccia non cada sopra di voi.
Cip. Io me ne rido; anzi vorrei che fosser partiti anche
di Firenze. Dite, son eglino.... f*Si volta per interrogar Bo-
nario.) Ma egli se n'è andato. Per questa volta ci ha bur-
lato ambedue. Ma non son la padrona, se non me la fo
pagare.
Ras. La padrona, a quel ch'io vedo, non siete per anco
arrivata ad esserla bene bene.
Cip. Son però arrivata a tanto, che posso servir d'esem-
plare a tutte le mogli del paese. Basta che voi rqi reggiate.
Ras. Voi sapete con che premura io V abbia fatto fin ora,
e di quanto si sia accresciuta la vostra autorità in questa
casa, dopo che ci son io. Vuol esser però che siamo d 7 ac-
cordo, e che facciate conto de' miei consigli, che saranno,
come pel passato, a voi sempre vantaggiosi.
Cip. Io ben lo conosco, e ve ne sono obligata; ontle se-
guiterò ciò che mi consiglierete, specialmente sul particolare
de 1 miei figliastri.
Ras. I vostri figliastri temo che ci voglian dar molto
da fare!
Cip. Se son fuori del paese, che abbiam da temere? Se
poi non lo sono, tanto e tanto non mi dan soggezione.
Ras. Non dite cosi. Valerio è giovane risoluto, ed ha
degli amici per la città, che posson molto. Fra gli altri Buo-
namico, il cascamorto di Clarice, il quale ha del credito alla
corte, e se l'intende ben co' ministri.
Cip. Che ci può fare?
Ras. Molto di male, vedete, se noi non avremo dell 1 ac-
cortezza in fare apparire il bianco per nero, e far lavorar
bene le nostre macchine.
Cip. Or io non mi perdo cosi facilmente d' animo. Son,
donna; vuol dire che mi son lecite molte cose, e la lingua
non mi. morirà in bocca.
Ras. Dite bene. L/ esser donna è di un gran vantaggio,
particolarmente quando si sa parlare e fìngere, inventar fal-
sità con apparenza di vero, e far valere i privilegj del sesso.
Cip. Oh, oh, l'hanno a far meco. Ma pensiamo un poco
alla gita di Livorno.
Ras. Se Valerio è partito, questa sarà svanita.
Cip. Come svanita?
SCENA NONA
Fiuta a parte, e detti.
Ras. Signora si, perché non dovendosi far questo viaggio
che al solo fine di metter Valerio nella rete, come si era
concertato, or che egli non ci è, sarebbe inutile.
Cip. Si in quanto a questo negozio, ma non in quanto al
mio gonio.
Ras. Il vostro genio bisognerà che abbia pazienza; non
compie lasciar la casa negl' imbarazzi, ne'quali sono per porla
i vostri figliastri.
Cip. Che mi hanno da tener essi in soggezione? Tant'é,
ho determinato veder Livorno, e Io voglio vedere.
Ras. — Separarmi da lei non lo vuol la politica de 1 miei
interessi, e andar senza Clarice non lo può soffrire il mio
amore. —
Cip. Che state pensando, che non mi rispondete?
Ras. Pensava che ci è un impedimento ancor maggiore.
Cip. E qual è?
Ras. Che io non posso venire.
Cip. La ragione?
Ras. La ragione è che non posso.
Cip. Oh a questo si rimedia facilmente. Anderò senza
di voi.
Ras. Senza di me ?
Cip. Perché no?
Ras. Voi andar senza di me?
Cip. Signor si.
Ras. Ho paura che burliate!
Cip. Dico da senno.
Ras. E come regolarvi in molte contingenze? E poi il
decoro.... Basta, questa non è cosa fattibile.
Cip. Ed io la trovo fattibilissima.
Ras. Ma questo non è un andar d'accordo, e seguitare i
miei consigli, come diceste.
Cip. Intesi di quei, che risguardano gli affari della casa,
e non di quelli, che si oppongono alla mia autorità ed al mio
genio, che voi dovete sostenere e secondare in tutte le con-
giunture.
Ras. — Non mi compie disgustarla; perciò metterò in
campo l'autorità di Bonario. —
Cip. Voi ancora sta t'esitando?
Ras. Eh io, in quanto a me, non ' ci replico, ma vostro
marito, vedrete che ci averà ben della difficolta.
Cip. Mio marito? eh, eh.... di lui me ne rido. ( Via.)
Fiu. — Manco male, il tempo si rabbrusca. —
Ras. — Bisogna che sia indiavolata bene di veder questo
Livorno, mentre si oppone cosi fuor del solito al mio vo-
lere; ma so ben per qual verso pigliarla. — ( Via. )
Fiu. O questo è di nido (1) ! È stato il Cielo, che mi ha
fatto passar di qui, perché io sia informato delle cose, acciò
possa servir bene i miei padroncini; ma, prima di ordir la
tela, mi convien vedere che capo averà la matasaa di u*> che
ho inteso. Come potrò io fare a entrare in casa per sa-
pere.... (Pensa.)
SCENA DECIMA
Bonàrio e detto.
Bon. Da S. Gallo non v' è passato, chi sa che non sia....
(Non conosce Fiuta.) Galantuomo, averesti voi visto....
(Fiuta si volta.) Oh sei tu Fiuta? Dimmi, Valerio è par-
tito? È anche in Firenze? Da che porta è passato? Dov'è?
Dimmelo presto. 'Non mi rispondi? (Dice tutto con pre-
sterà. )
Fiu. risponde nella stessa maniera. Io son io; Valerio è
partito; è anche in Firenze; dalla porta di casa; e in tasca
non ce l'ho.
Bon Ma che modo di rispondere è il tuo?
Fiu. Ma che modo d'interrogare è il vostro?
Bon. Tu rispondi tanto confusamente, ch'io non t'intendo.
Fiu. E voi mi domandate le cose tanto impicciatamente,
che non so quel che vi vogliate dire.
Bon. Io ti dimandavo se il mio Valerio era andato via.
Fiu. Ed io vi rispondo che di casa vostra è partito.
Bon. Eh questo lo so da me. Dico di Firenze io.
Fiu. Ed io rispondo: di Firenze, signor no.
Bon. Ah, tu m' hai rimesso il flato in corpo. Dimmi dun-
que, dove si trova?
Fiu. Egli presentemente dovrebbe essere.... .
Bon» E della Clarice ne sai nulla? È ella in convento
o dove?
Fiu. Signor padrone, vuol ella ch'io le risponda a tuono?
Bon. Sicuro, questo voglio.
Fiu. La mi domandi dunque una cosa fcer volta; perché
io non ho cento lingue da rispondere a cento cose a un fiato.
Bon. Compatiscimi. Il desiderio di saper nuova de' miei
figliuoli mi fa esser cosi pronto.
Fin. I vostri figliuoli per ora sono in Firenze, ed in una
casa, che stanno meglio che nella vostra.
Bon. Oh sia ringraziato il Cielo. E in casa di chi?
Più. Del signore Buonamico.
Bon. Manco male, sono in buone mani, via. Egli è un
galantuomo.
Fiu. E di che sorta ! Ma con tutto che gli abbia ricevuti vo-
lentieri e gli faccia cortesie, unto son risoluti d' andarsene dì
Firenze. La signora Clarice, essendo d'accordo ancor essa...»
Bon. Oh no, Fiuta mio, di grazia andiamo adesso ad im-
pedirglielo. Tu m'hai dato una coltellata.
Fiu. da sé. — Ora è il tempo. — Vedete, signor Bonario, ■
ogni tentativo che si uccia è gettato. Son troppo risoluti
di' andar via.
Bon. Oh! Come si potrebbe egli fare? Mi sento morire
dall'afflizione.
Fiu. Io veramente il modo per fermarli lo saprei, ma...*
Bon. Dillo su, che tu sii benedetto; qua! è?
Fiu. È impossibile potersi mettere in opera.
Bon. Dillo, che forse non sarà.
Fiu. Che occorre che io perda questo fiato, se tanto e
tanto sarà come se non l'avessi detto?
Bon. Ma dillo uria volta in tanta malora. Tu mi tieni sulla
eorda con pene di morte.
Fiu. Lo sposar la signora Clarice al signore Buonamico.
Ora eccolo detto. Vi par che questa sia cosa fattibile?
Bon. O perché no? fattibile, fattibilissima, ed io glie
V imprometto.
Fiu. ride affettatamente. Ah, ah, ah, ah.
Bon. Tu te la ridi?
Fiu. Signor si, vedete.
Bon. Oh perché?
Fiu. Perché la vostra promessa vai poco. La signora Ci-
prigna è quella che conta in casa vostra.
Bon. Ed io voglio far questo matrimonio, quando non
tese per altro, che per urla dare al diavolo.
Fiu. Ma vi riuscirà egli?
Bori. Oh, non è ella mia figliuola?
Fiu. Questo lo voglio credere; ma non basta. L'autorità,
che avevate sopra di essa e delle cose vostre, l'avete per-
duta, lasciando portare S calzoni a lei, che è una vergogna a
sentirsi dire.
Bori, Ma che ci faresti, Fiuta mio? Se la prima sera ch'io
la presi, quand' i' mi fui cavat' i calzoni per andare a letto,
la gli messe nel mezzo della camera, serrò V uscio a chiave,
si cavò di sotto due pezzi di bastone, me ne fece pigliar uno
a me, senza saper ciò che volesse fare, tenendo l'altro in
mano lei, e poi mi disse: Ora, marito mio, questi calzoni
hanno da esser portati da uno di noi solamente, e quello
gli porterà, che gli vincerà a forza di bastonate, quando non
me gli vogliate cedere amichevolmente.
Fiu. E voi allora, alzato il bastone, cominciaste a me-
nare alla peggio, e lei più forte di voi, e gli perdeste, eh?
Boti. Oh ti pare, Fiuta,, che quello fusse il tempo per
me di fare alle bastonate? Io glie li cedetti alla buona pel
meglio, e perché....
Fiu. Oh il mio buon uomo, perdonatemi se ve lo dico.
Bon. Tu di' il vero, e di poi m'accorsi ch'io lo fui, per-
ché dice che in quelli sta l'autorità della casa e di tutto il
maneggio. Ma dimmi, non si potrebb'egli procurar di ripi-
gliarglieli?
Fiu. A forza di bastonate. A me mi darebbe l'animo.
Bon. Eh, non dico cosi io.
Fiu. Oh che credereste di fare un peccato a bastonar una
moglie si diavola? Anzi ho inteso dire che ce ne son di
quelle, che se ne pregiano di essere state bastonate dal
marito.
Bon. Le non saranno di questi paesi.
Fiu. Come no! Conoscete voi la signora Lisciarda Vec-
chiardelli?
Bon. Pia conosco.
Fiu. Or cotesta andava mostrando anche a chi non se
ne curava certi lividi fattigli dal marito più giovane di lei di
venticinque anni, come sapete ch'egli è.
Bori. Ma bisogna eh 1 ella sia pazza a spopolarsi (i) cosi.
Fiu. Che spopolarsi? Ella lo faceva per sua gloria.
Bon. Oh ve 1 che gloria! Fammi veder questa.
Fiu. Gloria, signor si, perché diceva che il marito le
aveva dato per gelosia di un bel giovane, e pretendeva cosi
di spacciarsi ancor desiderabile e fresca, benché ella si tenga
su la pelle con cent' acque stillate e chiare d'uova.
Bon. Or tal sia di lei. Questi discorsi non fanno per me,
né pe' miei figliuoli. Ritorniamo un po' a loro. Tu credi dun-
que che facendo questo matrimonio sarebber tutti contenti, •
e non cercherebbero più d'andar via?
Fiu. Senza dubbio.
Bon. Il negozio dunque è fatto. Andiamo a trovarli.
Fiu. Ora non è tempo; ritiriamoci prima nelle vostre
stanze per discorrerla meglio.
Bon. Come tu vuoi.
Fiu. da se. Cosi entrerò in casa, per fiutar meglio le cose.
SCENA UNDECIMA
Valerio, Buonamico e Vespina.
Val. Egli è un furfante, e me la pagherà.
Buo, Flemma, signor Valerio. Non vi lasciate vincere
dalla collera.
Vesp. Oh il mio padroncino poi piglia fuoco per poco
ve 9 lui. Nulla, nulla che gli vada a traverso, subito, pù, pù,
pù. Addio girandole. Chi sa che il povero Fiuta....
Buon. Si, chi sa che egli non abbia avuto impedimento
tale, da non poter ritornare con tutta la sollecitudine?
Val. Non lo vogliate scusare, perché già so il suo natu-
rale. Egli non esce di casa, che non entri in venticinque bot-
teghe di barbieri; rifrusta tutti i caffè, e vuol fiutar quanti
cappannelli vede per strada.
Vesp. Ha giudizio, non vuol ismentire il suo nome.
Buon. Ma come credete che facciano gli altri servitori?
Val. Ma intanto non si fa il servizio del padrone. Voi sa-
pete pure con quanta premura gli ho ordinato di andare con
buona maniera ad intendere che effetto aveva fatto in casa
di mio padre la nostra partenza, e ritornare immediatamente
a ragguagliarmene, acciò potessimo pigliar le nostre misure
per ciò che si ha da fare.
Buon. Bene, ma per far un simil negozio, bisogna tal-
volta più tempo, che un non si supponeva.
Val. Ma son già qua tu*' ore che è partito.
'Vesp. Dico dieci iot Signor Valerio, il vostro pensiero
vola, ed il povero Fiuta camina a piedi.
Val. E tu fai più parole che* non ti si conviene.
Buon. Sentite, signor Valerio: niuno è senza qualche di-
fetto, e la servitù non senza molti; perciò quando si trova
che abbiano qualità buone nelle cose della maggiore impor-
tanza, conviene chiudere gli occhi ali 1 altre, "per non far peg-
gio. Fiuta per altro è buon servizio.
Vesp. Se lo è? Si mette infin a cavarmi le scarpe a me
il poveraccio.
Buon., Ed ha per voi e per vostra sorella un grande affetto.
Val. Non posso negarlo.
Vesp. Odia a morte la vostra matrigna, che non è poco,
e vorrebbe vedere impiccato monsù Raspa, con quel contadi-
nello del suo garzone.
Buon, Or, giacché siamo su questo particolare del mae-
stro di casa, lasciamo Fiuta, e parliamo di lui.
Vesp. O ci siam per un pezzo, se si ha da dir quel che
se ne sa. *
Buon. A me basta solamente di essere informato, oltre a
quel che me ne avete detto, di alcune particolarità neces-
sarie pel nostro fine.
Val. E quali son elleno?
Buon. Di dove, e chi egli sia, e come s'introducesse in
Tostra casa?
Val. Del suo paese e nascita non se ne sa nulla.
Vesp. Oh di birbi, vedete, sarà ; perché in casa ci venne
cencioso bene, e presto presto si rivesti come un cavalier
francese, che è la ragione perché fra noi lo chiamiamo
monsù Raspa.
Buon. Cattivo preludio. Ma, e in casa chi ve l'introdusse?
Val. Il capriccio, per non dire il genio, di mia matrigna.
Vesp. E quante diavolerie ci fumo anche allotta fra lei
ed il signor Bonario, che non ce laverebbe voluto! Emi ri-
cordo che quella sera era tanto indiavolata, che volle dormir
tre camere lontana a quella del padrone. *
Buon. E quel suo garzone che figura ci fa?
Vesp. Di mangiapane e di servitore del signor monsù te-
soriere maggiore: che mi burla?
Val. Ora, signor Buonamico, volete saper altro? perché
mi par che V ora si avanzi per condur Vesp ina ove si è de-
terminato.
Buon. No, tanto mi basta. Ora tu, Vespina, hai pur inteso
bene ciò che devi fare?
Vesp. Oh, che credete eh' io sia come ser Stolido, che la
prima sera delle nozze non si ricordava più d'aver moglie?
Non volete ch'io mi ricordi bene di tutta la lezione, se vi
ho proposto il negozio io ? Sentite se la so. Io mi ho da vestir
da Armeno mercante di gioje, per poi andar cosi travestita
dalla signora Arcigna....
Buon. Signora Ciprigna vuoi dire.
Vesp. E tutt'una. Per andar dunque da lei, a fine di le-
varle di mano, con pretesto di comprarle, quelle belle gioje,
che eran parte di dote della b. m. della vostra signora madre,
signor Valerio, ed in conseguenza vostre, e che la detta vo-
stra matrigna si è usurpate, e che vuol vendere. Non è cosi ?
Val. Cosi per appunto., le quali ho destinate per dote a
Clarice.
Vesp. E perché io mi rimetta un po' sul cinguettar al-
l'armena (giacché, quando stavo in Livorno con uno di co-
storo, la sapevo contraffare a perfezione ) mi volete condurre
a scuola da quel mercante armeno, che sta dal Ponte vec-
chio, con finzione d'andar li per contrattar qualche cosa.
Buon. Tu sei una ragazza di spirito, e spero riuscirai a
maraviglia nella tua opera.
Vesp. In altre* ancora mi darebbe l'animo di riuscir be-
none, se fussi sperimentata.
Val. Non perdiana più tempo, ed al nostro ritorno do-
vremmo trovar quel briccon del servitore a casa. (Parie,)
Buon. Andiam pure. (Par te. )
Vesp. Già mi par di sentirmi nascer la barba al mento,
e» crescermi attorno le brachesse all'armena. Bisogna che io
pensi a qualche bel nome da pormi. (Pensa.) Sta'... l'ho
trovato. Diarbec. ( Via.)
SCENA DUODECIMA
Raspa, e poi Tanganetto contadino.
Ras. Ciprigna per mio consiglio si è disposta a vender
quelle gioje, che erano dell'altra moglie di suo marito, e me
ne presi, giorni sono, io l'assunto. L'armeno, a cui ne ho
parlato, è galantuomo, e mi ha promesso farle vedere ad un
forastiero, che ne va in cerca, caso che non voglia applicar
egli a questa compra. Se il negozio riesce, il mio guadagno
non ha da esser di meno che della metà. Mi bisogna andar
da questo mercante, ma dall'altra parte troppo mi preme
adoperarmi a far ritornare in casa Clarice. Non vorrei.... Ma
sta' 1 Ecco qua il mio servitore, potrò mandarle per lui, per-
ché è fidato, e gli darò bene ad intender la cosa. Ma no, è
meglio ch'io vada da per me. Ma se la mia Clarice.... No,
no: le gioje non si posson perdere, e Clarice sarebbe per-
duta per sempre. (Chiama Tanganetto.) Tanganetto, Tan-
ganetto ?
Tang. Oh buon di a liei, signoria.
Ras. Vien'qua, ascolta. Già tu hai visto più volte il Ponte
Vecchio.
Tang. Ser no più voilte, V l'ho vist' una oilta sola, che
ghi era a senti canta 1 quii maggio, dove vo'mi menasti,
ch'enduro tanto.
Ras. Come a sentir cantar maggio?
Tang. Ser si, PaiUra sera in quella stanzona bella, dove
sionaano ghi zufoli e tanti liolini, e che ora venfa un mag-
giajolo a cantare, ora un ailtro, e po' se n' andaano, e poi
rieniano, e che uno voilse ammazzar i compagno, e una
maggiajola lo ritenne piagnendo, e cantando anche liei.
Ras. Oh scimunito ! Quella era una commedia in musica,
e non un maggio.
Tang. Basta i'io'eddi allotta ch'eghi er'accant'a mene.
Ras. Chi era accanto a te?
Tang. Quii.... come v'ate detto. s
Ras. Il Ponte Vecchio! O balordo che sei!
Tang. Pnon son balordo, s'i'lo senti 1 chiamar a più d'uno
signor conte Ecchi.
Ras. lo dico ponte, e non conte.
Tang. Oh i' credeo che e'fussi tutt'una.
Ras. Il Ponte Vecchio è quella strada sopr'Arno, ove
sono tante botteghe....
Tang. Che hanno quelle cassette di 'etro?
Ras. Si.
Tang. Oh cotesto eh' è costie, lo so; Pei so' stato più
voilte.
Ras. Or costi nella terza bottega a man mane 9 a andare
in là vi troverai un mercante armeno.
Tang. Oh chi è eghi questo mercante armeno?
Ras. Questo è uno che compra e vende delle gioje; un
uomo, che ha una gran barba, un berrettone in capo, una.
veste lunga di colore legata con una fascia in cintola, ed
un'altra sopra aperta.
Tang, E quand'io l'ho troato?
Ras. Gli hai da dimandar se è quel mercante, che ha
parlato meco questa mattina; egli ti dirà di si, ed allora gli
darai questa scatola, ( Gli dà la scatola. ) che è sigillata, di-
cendoli che ci è dentro quel negozio che egli sa, e che que-
sta sera o dimattina sarò da lui. Ma bada bene di non la
dare ad altri.
Tang. Ma e' sarà pur lui quello, non vorre'pighiar erro.
Ras. Non puoi sbagliare, perché de' mercanti vestiti come
lui, e che parlin com' egli parla, non ce n' è altri in tutta
Firenze.
Tang. Oh come parPeghi?
Ras. Non parla come noi.
Tang, Oh perchè non parPeghi come noi?
Ras. Perché è armeno.
Tang. F non lo 'ntenderò donche.
Ras. L'intenderai, l'intenderai. Va, e sbrigati, e sopra
tutto guarda di non perder la scatola, e di non la dare ad
altri; e se non ci russe, aspettalo.
Tang. Ser si. ( Via. )
SCENA DEC1MATERZA
Bonario e Fiuta.
Bon. Si farà, si farà questo matrimonio, e mia moglie bi-
sognerà che abbia pazienza.
Fiu. E se s'intesta di no?
Bon. E io m'intesterò di si.
Fiu. Ella farà il diavolo a quattro, e voi. ..
"Bòa. Ed io Io farò a sei.
Fiu. Bene, ma se ella vi volta il viso davvero, e vi dice
che non vuol queste teste dure per la casa?
Bon. Io le volterò il sedere, e le dirò che, se ho la testa
dura, me l'ha fatta indurir lei.
Fiu. O buono, cosi dovete fare, e star forte; perché, come
ho detto, con certa razza di donne bisogna farglisi avanti,
appuntar i piedi, e scaponirle.
Boti. Appunterò anche il capo.
Fiu. Cosi mi piacete. Questa superbetta bisogna domarla.
Bon. Se la domerò! Quando la fusse ancor più sfrenata
del cavallo di Troia, la metterò sotto, e terrò in briglia.
Fiu. Oh che bella prova, se vi riesce; al vostro esempio
chi sa quanti mariti babbei si riscatteranno dalla schiavitù
della moglie!
Bon. Vorrei- eh 7 ella venisse adesso, ed alla tua presenza
le vorrei far vedere che cosa sa fare un marito, quando gli
si solleva la bile. Le vorrei andare ini contro colle braccia al
fianco. ( Va incontro la scena in tal positura, e vedendo
venir Ciprigna, avvilito si volta a' Fiuta, dicendogli:)
Bon. Fiuta, vattene.
Fiu. Oh perché !
Bon. Perché si. Vattene presto.
Fiu. Ma che ci è di nuovo?
Bon. Eccola. che viene. La voglio a solo, a solo, perché.:. •
Vattene dico, vattene.
.Ftu. Ricordatevi che quando al marito gli* si solleva la
bile....
Bon. Ho inteso. Va 7 via in mal* ora, va' via.
Fiu. La scena non vuol esser brutta. Se mi riesce, 6tarò
ascoltando ìa disparte. (Si nasconde.}
SCENA DECIMAQUARTA
Ciprigna e Bonario.
' Cip. accennando colla mano a Bonario. Venite, un po' qua,
il mio galantuomo.
Bon. andando verso Ciprigna con viso affrettatamente ri*
dente, e intimorito. Buon di a V. S.
Cip. Chi era colui, col quale adesso discorrevi?
Boti, Quello era, era.... Egli è venuto qui, i' ci ero, e se
n'è andato.
Cip. L'ho veduto che se n'è andato; ma che affari ave-
vate voi seco?
Bori. Oh niente.
Cip. Come niente?
Boti. Signora no.
Cip. E ancora.... {Risentitamente.)
Bon. Signora si, signora si.
Cip. Voglio sapere che negozj avevate seco, dico.
Bon. Negozj! Io non.... Ecco: egli mi ha dimandato se
ero io il padrone di questa casa, perché ha trovato aperto,
è entrato dentro, e non ci ha veduto un becco. Io gli ho ri-
sposto che non facevo la spia, e l'ho mandato a cercar dei
becchi e de' padroni altrove.
Cip. Come? ed avete tanto ardire di dir bugfe? (Com-
parisce Fiuta non veduto, in atto di ascoltare i loro di-
scorsi, e fa gesti muti a proposito di ciò che ascolta). Vol-
tatevi in qua: guardatemi in viso; ancora non avete impa-
rato a conoscermi bene?
Bon. Eh, signora si. Io vi conosco pur troppo. — E so,
pe' me' peccati, quanto tu pesi. —
Cip. Che mi andate dunque vendendo frottole? QueHo
che parlava con voi mi è pur parso Fiuta, stato servitor
di casa; dico stato, perché qui non ci metterà più piede.
Bon. Fiuta è costi appunto. Egli adesso sarà lontan le
miglia, che se n'è andato via per le poste co' me' figliuoli.
( Neil' accennar alla scena si volta, e vede Fiuta^ che gli fa
segno di coraggio. )
Cip. Eh, i vostri figliuoli non sono tanto lontani, no, a
quel che ho saputo; ma ancor essi non occorre che pensino
di ritornar più in casa.
Bon. E chi ci pensa ? ( Bonario si volta verso Fiuta y che
lo sgrida co' gesti. )
Cip. Fate bene a non ci pensare, perché sarebbe tut-
t' una.
Boti. Ma la legge però dice che i figliuoli non si possono
mandar via, e che....
Cip. Cotesta legge è un'ignorante.
Bon. Ma pure ho inteso dire che Bartolo e Baldo di-
cono ....
Cip. Bartolo e Baldo devono star quieti, quando parlo io.
Bon. Ma se loro....
Cip. Ma se io la voglio cosi, m'intendete?
Bon. Oh povero me !
Cip. Povero voi? E di che vi lamentate? A vereste a rin-
graziare il Cielo, che vi ha dato una moglie, che si addossa
tutto sopra di sé il peso della casa. ( Fiuta accenna a
Bonario. )
Bon. Se vi paresse troppo....
Cip. Che la sostiene colle sue attenzioni e vigilanza; e che
non è come tante, che non pensano ad altro che a divertirsi
e spendere senza misura in vesti ed altre gale da donne, e
la mandano cosi in rovina.
Bon. Oh, i'avrei caro che voi vi divertiste un po' più, e
spendeste davvantaggio in gonnelle, e lasciaste portare un
poco anche a me e' me 1 calzoni.
Cip. Come? Avreste dunque più caro che io ricevessi in
in cks' ad ogni ora ogni sorta di conversazione....
Bon. Madonna si.
Cip. Me ne uscissi e di notte e di giorno, per andare a 1 di-
vertimenti, senza farvene saper nulla
Bon. Madonna si.
Cip. Far oggi un ritrovato in campagna in buona com-
pagnia; dimani un altro in città con giovanetti di genio?
Bon. Madonna si.
Cip. E far viaggi a capriccio con persone di bel tempo?,
Bon. Madonna si, madonna si; giacché tutte queste cose le
fate ad ogni modo, e i miei calzoni....
Cip. Con codesti vostri calzoni m'avete rotto il capo, ed
ora per sempre vi dico che, se più me ne parlerete, vi darò
questi calzoni nella bocca. (Con voce alta.)
SCENA DECIMAQUINTA
Raspa e detti.
Ras. Olà, olà, che rumore è questo ? ( a Bonario ). Voi
fate più fracasso in questa casa di quel che non farebbe la
signora. Che vergogna, che un marito abbia sempre da gridar
la moglie in questa forma?
Boti. Io ? Mi maraviglio.
Ras. Me ne maraviglio ancor io; perché le mogli vanno
trattate con piacevolezza ed amore, come compagne, e non
con strapazzo, come serve e schiave da catena.
Cip. Che non si crede ss' egli di volermi fare P uomo ad-
dosso, e trattarmi da servicciuola e sguattera di cucina.
Ras. Signor Bonario, siete fuor di strada; ed un uomo,
come voi....
Bon. Un uomo come me sarà sempre.... L'ho avuto a
dire. Se Tè* lei quella....
Ras. Ma che non mi credete capace di farvi ragione, senza
6tare a strepitare? Quali sono i motivi (A Bonario.) delle
vostre differenze?
Boti. Oh e' son tanti. Ma in quest' ultimo si diceva di gale
e di divertimenti da prendersi senza saputa del marito....
Ras. Avete il torto.
Bon. Di fare e disfare a suo modo ogni cosa....
Ras. Ancor qui avete il torto.
Bon. Dì aver ella tutto il peso della casa....
Ras. Il torto, signor Bonario, il torto.
Bon. Oh quando mi farete voi dunque aver ragione?
Ras. Seguitate, seguitate pure.
Bon. Di non rivoler i miei figliuoli in casa.
Ras. Qui poi bisogna parlar con distinzione.
Cip. Vedete che pretensione temeraria egli averebbe?
Voler rimettere in casa quei scimunitelli a dispetto mio!
Ras. Ei non ha tutti i torti, no; non vi alterate.
Cip. Come? Che io abbia da vedermi di nuovo intorno
quelP impertinente correttor di Valerio?
Rasp. Signora no.
Cip. Dunque Clarice....
Rasp. Signora si, Valerio è ben che stia fuori, e Clarice
ritorni in casa.
Cip. Che quella saputella ritorni?
Bon. Che il mio Valerio stia fuori?
Rasp.*Di che vi lamentate? Nessun di voi ne ha occa-
sione. (A Ciprigna: ) Voi non ce ne vorreste alcuno. (A Bo-
nario: ) E Voi ce li vorreste tutti e due. Se una torna e l'al-
tro no, mi par che possiate contentarvi ambidue.
Cip. Come, io contenta, quando mi si accorda la metà
solamente di quel che io voglio?
Fiu. a parte. Già. Le donne non si contentano mai a
metà.
Rasp. ritirando a parte Ciprigna. Signora, voi non capite
ben la cosa. Non è politica tenerli fuori tutti e due; primie-
ramente non sta bene che una fanciulla stia fuori di casa
del padre.
Cip. Che importa a me di questa fanciulla? Che l'ho
fatta io, che le abbia a far la guardia ?
Bon. a parte con Fiuta. Ma che posso fare ? hai pur sen-
tito che le ho detto le mie sillabe.
Fiu. Sono state sillabe, che non han concluso però una
parola di risoluzione.
Rasp. a Ciprigna a pa.rte. E pei non considerate che, non
rimettendo in casa Clarice, sarà creduto che tutto il male
venga da voi, né vi potrete far forte sulla stravaganza di
Valerio ?
Cip. Cosi farò conoscer meglio che la padrona son io.
Fiu. a Bonario. Bisognando, le si mette le mani addosso.
Bon. Ma se la le mette addosso a me ?
Rasp. a Ciprigna. Voi dovete fare a mio modo, e ve ne
darò le ragioni con più tempo.
Cip. Eh non m'insegnate.... ( Voltandosi, vede Bonario
parlare von Fiuta ; Sdegnata contro esso 🙂 Oh temerario, ed
anche ardisci entrare in questa casa?
Fiu. impaurito. Cibori venuto per le robe della signora
Clarice, che è quasi mezza entrata in convento.
Cip. Che convento, che panni, il mio ribaldone, ti farò
ben io.... (Fiuta si ritira, ella lo seguita.)
Bon. Uh poveretto! Ora è quando la gli rompe la testa.
(Parte.)
Rasp. Entrata in convento? Ci vuole astuzia » e solle-
citudine.
Fine dell'atto Primo.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Strada.
Vespina vestita da Armeno con barba.
Vesp. Chi ha lasciato scritto che noi altre donne non
siamo buone se non a far che il mondo non finiscale a far
disperar gli uomini; e che, a toglierci questa virtù, non siamo
altro che bestie, merita che i suoi libri* come tanti altri, ser-
vano a rivestir V acciughe e le sardelle. Come ? Le donne
non son buone che a far figliuoli ? Oh, e chi non gli sapesse
fare non ha da esser buona a nulla ? Ah, ah, io me ne rido;
e fanciulla, fanciulla, come mi sono, e senza aver mai detto
un no ad alcun uomo, voglio far vedere che questo autore
è una bestia lui. Che direbb' egli, se potesse cacciare il capo
fuori della sepoltura, e vedesse che Vespina è buona anche
a far da uomo, e a far disperare una donna ? Cosi è, io mi
son messa in capo di far dare al diavolo quella versiera della
signora Arcigna; e se ella ne ha fatte inghiottir tante a me,
ne farò inghiottir qualcheduna a lei, che varrà per tutte.
Questa di procurar di cavarle dalle mani quelle gio'e, che si
tien come sue, le vuol parere amara più che assenzio. Ho
consigliato questa cosa per avere il gusto di vendicarmi di
tante tirannie, e poi per non iscoppiare; perché una riten-
zion di vendetta è capace di far crepare noi altre donne, più
facilmente che una ritenzion d'orina. La scuola, che ho
presa dal vero mercante armeno, mi par che mi abbia cac-
ciata in corpo tutta l'Armenia. Proviamoci un poco.... ma
sta 7 .... quello è il servitor di Raspa. Vediamo di attigner
acqua, o torba o chiara che sia, se si può, per la nostra mi-
nestra. (Si ritira da parte ascoltando.)
SCENA SECONDA
Vespina e Tamganetto.
Tang. — La'este, barba lunga di sotto legata 'n cintola col-
l'ailtra'este sopra.... l' non credo di dir bene. — (Pensa.)
Vesp. — Che diamin dice costui ? —
' Tang. — Pnon isbaglio, e' m'ha pur detto ch'eghi ha
un berrettone, e che ghi è riendugliolo di gioje. —
Vesp. — Sta' a vedere che si vendon le gioje come le
castagne? Che vuol egli mai dire? —
Tang. — E eh' e' non parla come noi, perch' è un Ar-
madio. —
Vesp. — Dico una cassa io. —
Tang. — No, no, un Armadio, un Arm.... Arm.... me
meo, un Armeo. Basta, quii che compra e riende le gioje. —
Vesp. — Sta 7 : si comincia a far giorno. Questo è un bar-
lume che potrebbe farmi strada a qualcosa. —
Tang. — N 'i Ponte 'ecchio a man mancina do' botteghe
dopo la prima. —
Vesp. — Barba, veste lunga, berrettone, Armeo vuol dire
Armeno, mercante di gioje, Ponte Vecchio. Adesso mi si è
fatto lume chiaro. —
Tang. — Ghi ho da domandare se ghi è quii ctye ha par-
lato co i padroqe questa mattina; e se dice di si, ghi darò
questa scatola, eh' è suggellata, —
Vesp. — Mi piove appunto sul seminato. In quella sca-
tola non ci dovrebbon esser capi di chiodi. Rompiamo il
guado alla furberia. — (Si fa avanti con delle giqje in
mano, osservandole da sé, e mostrando non aver visto Tan-
ganetto. )
Tang. — E s' e' non e' è, i' V aspetterò. — ( Vuol andar
via, e vede Vespina.) Ma chi è costui? E' par tutto l'Armeo;
s' e' non cicala come noi, ghi è lui di sicuro. —
Vesp. fingendo parlar da sé.- Chesta star gioja, che baler,
baler.... millanta scuta.
Tang, — Oh, e' non cicala lui. Eghi è senz'ailtro. Ma
e' non è'n bottega (1). —
Vesp. — Cheste signor Raspa non benir, e mi non potir
aspettar. —
Tang, — Eghi ha raentoato i padrone, e non può esser
ailtri che lui; e poi se v' è lui solo 'n Firenze, i' ghi vo' un
po' cicalare, — (A Vespina:) Buon di' e buon anno, que-
gl' iomo.
Vesp. Bon sgiurna mammalucca.
Tang. Eh vo'sbaghiate: i'non son di Lucca, i'son da Le-
gniaja (2); e vo' donde siete voi?
Vesp, Mi star di Merdin.
Tang, Oh ve' di doe !
Vesp, Star ciutada bella, granda.
Tang, E come è lontano questo 'ostro paese?
Vesp. Quanto star lontano Culembac.
Tang. Che paesaccil — Ma questo non è i paese eh' e'
mi ha detto i padrone. —
Vesp. — O diavolo! Avevo fatto un buco nell'acqua. —
Chesta star (3) cittada dentro mi' paisà. Oh bella paisà ! bella
paisà 1
Tang. Oh, che paese donche è i vostro?
Vesp. Paisà armena.
Tang. Armeno? — Ghi è questo, ghi è questo. — E i
vostro mestiere», qual è eghi?
Vesp. Mi comprar e bendir gioja. Bidir, bidir (i). (Gli
mostra varie gioje che ha in una scatola.)
Tang. Uh le son luccichenti ! Questa come si chiama ella?
Vesp. Chesta star diamanta, e chesta star un rubbina.
Tang. Un rabbino! E questa più grossa?
Vesp. Star pietra preziosa cavat'al Gran Mogol.
Tang. Ma vo'non state a bottega.
Vesp. Chi aver ditta? Mi star bottega in Ponte Vecchia.
Tang. Ditemi, ate 'o' parlato stamattina co' i me padrone ?
Vesp. Chi star tu' patrona? come chiamar?
Tang. Si chiama i signor Raspa.
Vesp. Si, abir parlato chesta mattina, (2) e abir ditto che
aspettar, perché bolir portar gioja. (3)
Tang. Non accad 7 ailtro. Tenete: e 7 mi ha detto, ch'i 1 vi
dia (Gli dà la scatola.) questa scatola, e ch'i 7 vi dica che
e 7 v 7 è drento quii negozio, e che poi e 7 vi cicalerà da sé.
Vesp. Bena, bena. Star buona, star buona, mi far negozia.
Tang. — Di so 1 nome e 7 non mi par che m' abbia detto
nulla; ma ghe ne vo 7 domandar a ogni mo\ — Eh: i vostro
nome quàl è eghi?
Vesp. Mi 7 nomina?
Tang. Si.
Vesp. Diarbec, mercanta armena. Aver fretta andar bot-
tega. ( Via.)
Tang. A riedecci. O ve 7 che nomel Diaoilbecco!
SCENA TERZA
Valerio, Clarice, Buonakico e Fiuta
Buon. Abbi pazienza, Fiuta, bisogna condonar qual cosa
sì naturale un pò 7 focoso e subitaneo del signor Valerio.
Fiu. Voi avete un bel dire, signor mio, ma se io ho da
esser pagato di grida o di minacce, quando mi metto a ri-
sico di farmi bastonare per ben servirlo, vo' trovar altro pa-
drone, che paghi d'altro salario.
Clar. Oh via quietati. Valerio è veramente un po' riso-
luto e ardente ne' primi moti, ma poi tu sai pure che ei si
rimette, ed è tutto affetto e cortesia.
Fiu. La consolazione del Senza, che dopo esser stato fatto
eunuco, si rallegrava di aver voce in soprano 1 lo V ho 'n tasca,
che mi paghi il cerusico, dopo che mi ha fiaccato le braccia.
Perché non è egli tutto affetto e cortesia innanzi?
Val. Per questa volta compatiscimi. Lo sdegno mi aveva
fatto giudicar sinistramente del tuo indugio. ,
Fiu, Bisogna prima esaminar le cose, padron mio, e poi
entrare in bestia, se conviene; e non voler subito trattar di
romper braccia e fracassar ossa, sul fondamento di quel che
uno stortamente si è immaginato.
Val. Oh che correttore male a proposito!
Buon. Quietati, e termina il racconto che mi avevi prin-
cipiato.
Fiu. Per questa volta quietamoci; (1) ma chi sa ove io
ero restato?
Buon. Mi dicevi che il signor Bonario è portato di genio
ai miei sponsali colla signora Clarice, e che mostra volerli
anche a dispetto della signora Ciprigna.
Fiu. Signor si.
Clar. Questo sarà ben difficile ad accadere.
Fiu. A buon conto, alle persuasive del signor maestro
Raspa, ella si è lasciata andare a permettere che voi, signora
Clarice, ritorniate in casa.
Oar. E mio fratello?
Fiu. Per lui è spiovuto.
Clar. Senza di esso non ci ritornerò mai.
Fiu. Ecco fotta Cosi voi guasterete tutta l'orditura della tela.
Buon. No, signora, non è vostro decoro restar fuori dell»
casa paterna.
Clar. Più tosto entrerò in monastero.
Val. E necessario che voi siate in casa, almeno per dar
mano alle nostre macchine, se bisogna.
Buon. Senza dubbio.
Clar. E dovrò restar cosi esposta ....
Val. Non vi dubitate; non sarete da noi abbandonata, e
la nostra matrigna....
Clar. Eh, io temo più la perversità del maestro di casa,
che le tirannie della matrigna. Sappiate che in molti rincon-
tri mi ha fatto conoscere aver egli dell' inclinazione per me.
Val. Come ! Ah temerario ! In questo punto vado a fargli
imparare....
Clar. No, fratello. Non bisogna precipitarsi per questo, ed
io a solo fine ve l' ho palesato adesso, perché non vorrei che
mi lasciaste lungo tempo sola in casa, esposta alle noje di
costui; del rimanente siate pur sicuro che saprò ben difen-
dermi da' suoi insulti, quando ne tentasse contro di me.
Val. Ma ho da soffrire ....
Fiu. Si, avete da soffrire che io regoli questo affare. In-
tanto la signora Clarice ritornerà in casa, e noi farem lavorar
le nostre macchine per di fuori.
Clar. Signor Buonamico, lasciatevi almen qualche volta
rivedere.
Buon. Sarei troppo tiranno ancor di me stesso, se mi pri-
vassi di questa consolazione.
Fiu. Signori, qui non bisogna perder tempo in discorsi.
E necessario condurcela, prima che il tempo si rabbruschi»
• Buon. Noi P accompagneremo....
Fiu. Fino alla porta però, perché in casa sarebbe un sa-
crilegio mettervi piede.
Clar. Ma Vespina non ci è, converrà pure aspettarla.
Fiu. Vespina bisogna che stia quattro dita fuor dell'uscio
ancor lei. Oh se voi sapeste le belle cose che son seguite, e
che ho intese 1
SCENA QUARTA
Vespina vestita da Armeno, e detti.
Vesp. Diarbec, mercanta armena di Merdin, bolir comprar
gioja? Mi abir cavata pietra preziosa al Gran Mogol.
Cla. Oh, oh, la nostra Vespina.
Buon. E essa.
Fin. — Vespina 1 Oh che mascherata è questa? —
Val. E cosi, Vespina, hai fatto il negozio?
Vesp. Mi star negoziatora granda; bidir. ( Mostra le giqje).
Val. Brava la mia Vespina! Mostra.
Vesp. Bolir mancia, bolir mancia prima.
Buon. Come ti è riuscito presto e felicemente l'affare!
Clar. Di grazia, contaci come hai fatto.
Vesp. La fortuna mi ha soffiato nella pappa. Il caso è cu-
rioso, e ve lo conterò; ma ritiriamoci in qualche luogo, per-
ché qui....
Buon. Entriamo qua nel cortile di questo palazzo.
Val. Benissimo. (Partono.)
Fiu. a Vespina.. Vespina, che negozio è questo, che lo
sappia ancor io?
Vesp. Vieni, che riderai ancor tu. (Partono.)
SCENA QUINTA
Sala.
Raspa e poi Ciprigna.
Rasp. A buon conto Tanganetto mi ha assicurato. che il
mercante armeno ha avuto le gioje. Egli ne è a me e non ad
altri il debitore, avendogli io detto questa mattina che erano
mie proprie. Io me ne farò quella parte.... ( Viene Ciprigna.)
Cip. Ora eccovi contento. La mia figliastra verrà in casa,
né avrete più da inquietarmi su questo.
Rasp. Ma, signora, ancor non siete persuasa che vi ci ho
consigliata solamente per ben vostro? Voi sapete pure la
corrispondenza di affetti fra lei e Buonamico, e quante volte
si è discorso che bisogna impedirla, perché non ne segua il
matrimonio, al che Valerio par tanto inclinato.
Cip. In ciò vado d' accordo. Ma per questo era necessario
farla ritornare in casa, per ispiare tutti i nostri andamenti,
giacché se n'era partita?
Rasp. Dunque doveva lasciarsi in casa dell' amante, ove
Valerio imprudentemente l'aveva condotta?
Cip. Signor no, ma doveva lasciarsi entrare in monastero.
Rasp. In monastero? Peggio; come se in tali luoghi....
Cip. Ma, e qui in casa?
Rasp. Qui in casa bisogna averle gli occhi addosso, e te-
nerla guardata al possibile: io, per servirvi, mi ci adoprerò
quanto posso.
Cip. Tutto bene, ma se l'intenderà col padre.... -
• Rasp. Ma la padrona non siete voi?
Cip. La sono, e la sarò sempre. E però vero che nel tempo
che sarò a Livorno....
Rasp. A Livorno?
Cip. Si, a Livorno. Ve l'ho pur detto un'altra volta.
Rasp. Ed io vi ho pur detto più di una che vostro ma-
• rito non vuole. Oh, eccolo appunto, egli ve lo saprà dir da sé.
SCENA SESTA
Bonario e detti.
Rasp. va incontro a Bonario. Non è egli vero, signor Bo-
. nario, che avete risoluto onninamente che la signora non
vada a Livorno? (Piano a Bonario:) Dite di si, e fate da
padrone.
Bon. Io.... eh, eh.... (Si trova imbarazzato, e finge
tosse. )
Rasp. a Bonario. Animo, che vi sosterrò. (Forte.) Dite,
dite pur liberamente il vostro sentimento.
Bon, Signora si. Io veramente....
Cip. con risoluzione a Bonario. Che ! Voi avete tanto ar-
dire .... "
Bon. Eh, signora no.
Cip. Appunto vorrei veder che mi contrastiate in un ette.
Rasp. a Bonario. Coraggio. Ora è il tempo di farsi stimare.
Bon. a Rasp. Ma non vedete che mi vuol mangiar vivo ?
Cip. Che ci è da ridire adesso fra voi?
Rasp. Mi diceva che parlassi io per lui, è voglio, obbe-
dirlo. Il signor Bonario qui, suo marito e nostro padrone, ( Si
cava il cappello, e gli fa riverenza) avendo inteso che V. S.
aveva imprudentemente risoluto di fare un viaggio senza
conclusione a Livorno, mi è venuto a trovare, e mi ha detto :
Raspa, io non trovo ben fatto che mia moglie vada a Livorno.
Bon. piglia animo. Signora si, son io che ho detto tutto
questo.
Cip. Voi dunque.... (Sdegnata a Bonario, che si ritira
impaurito. )
Rasp. Adagio, signora: no perdinci (è lui che parla) no
che non voglio che partiate di Firenze.
Bon. Signora no.
Rasp. Ve lo proibisco assolutamente.
Bon. Assolutamente.
Rasp. La moglie bisogna che obbedisca al marito.
Bon. Al marito, signora si.
Cip. — La rabbia mi rode. —
Bon. E ci è ancor di più, ed è che voglio maritar Clarice
al signor Buonamico.
Rasp. Pian, piano. In quanto a questo la signora non se
ne contenta.
Bon. Oh se me ne contento io.
Rasp. Ella è la padrona, e me ne ha di già parlato.
Bon. Come?
Rasp. E mi ha detto: lo sciocco di mio marito vorrebbe
far lo sproposito di maritar Clarice a Buonamico; ma io non
lo voglio assolutamente.
Cip. Signor no, che non lo voglio.
Rasp. Poffare (è lei che parla) maritar Clarice senza mio
consenso !
Cip. Signor si; che ci son per una* di più in questa
casa io?
Bon. a Raspa. Ma non dicevi che il padrone....
Rasp. Bisogna aver pazienza, il marito deve obbedire alla
moglie, quando è padrona.
Cip, — Ti dia nel collo! —
Bon. a Raspa. Ma voi....
Rasp. accennando a Ciprigna. Eh: eccola costi da sé.
Cip. Misser si, voi mi ubbidirete a vostro marcio dispetto.
(Con disprezzo.) Guardate chi mi vorrebbe far l'uomo ad-
dosso. Foss'egli almeno un giovanotto d'armi, un capitano
di dragoni, pur, pure direi; ma un barbogio, col suo ferrajo-
lino e collare a grinze, farmi da bravo! A noi, via di costi.
Bon. se ne va umiliato. Oh pover a me ! Io non ho ri-
preso né men la stringa de' me' calzoni. ( Via.)
Cip. a Raspa. Non vi perdonerò mai il tiro che mi avete
fatto. (Parte.)
Rasp. Signora, non entri in collera contro di me; le cose
s'aggiusteranno.
SCENA SETTIMA
Fiuta solo.
Fiu. porgendo gli orecchi or dall' una or dall' altra
parte. In questo appartamento non si sente alcun fracasso;
bisogna che non ci siano donne, o che elle dormano. Ho ri-
condotto nelle sue stanze la signora Clarice, che ci è ritor-
nata volentieri, come il forzato in galera. La compatisco, la
poveretta sarebbe stata più volontieri in casa del signor Buo-
namico. La speranza del matrimonio con esso, e poi quel
bel visino l'hanno fatta impaniar malamente. Ah, che s'ha
da fare? La gioventù vuole il suo corso, e questo è il lor
tempo. Mal s' avviene questo mestiero a chi ha i suoi cin-
quanta o sessanta carnovali sul groppone. Ma de 1 matti ce
n'ha da esser di tutte le sorte. Chi furioso; chi mammeo ;
chi avaro; chi scialacquatore; chi maligno, e chi minchione.
Oh, a proposito de' minchioni, ecco qua il nostro sior Bo-
nario. Questo veramente n'è il patriarca. Ma bisogna pur
vedere se ci è modo di fargli la carità di riscattarlo dalla
«uà vergognosa schiavitù matrimoniale.
SCENA OTTAVA
Bonario e detto.
Fiu. Molto sopra pensiero, signor Bonario; che si fan
de' lunarj ?
Bon. Oh Fiuta. Non ti dubitare, la luna ha dato la volta
bene. ' '
Fiu. Male, la verserà malamente dunque; che ci è di
nuovo ?
Bon. Tutto il peggio che ci può essere. Quel briccone di
Raspa mi ha preso anche lui per izzimbello.
Fiu. Io non me ne maraviglio punto, perché so i fini di
quel volpone, e dove sta legato il bandile della sua matassa ;
ma si vedrà di strigarla me' che si può.
Bon. Oh se questo mi potesse riuscire! averebbe a an-
dare al Barone (1) isso fatto; e la signora Ciprigna....
Fiu. La signora Ciprigna avess'ella a far meco, che col
segreto, che adoperò un certo spadaccino amico mio colla sua
moglie, che era un diavolo, sto per dir quanto la vostra, la
vorrei far diventare un agnellino.
Bon. E che le fece?
Fiu. Ifi comparve avanti con due pistole accanto.
Bon. Due pistole!
Fiu. Signor si. Non lo sapete? Le donne hanno paura
dell' odor della polvere, quanto di un topo sotto la gonnella.
Bon. Seguita.
Fiu* Una spadona tanta (1) lunga al fianco, e con un ba-
stone alla mano.
Bon. E poi?
Fiu. E poi cominciò,...
Bon. A menare?
Fiu. Signor no. Cominciò a dirle che il padrone voleva
esser lui; che non ardisse fiatare, se no P sverebbe distesa
fredda li in terra; si fece dare tutte le chiavi di casa, e le
ordinò immediatamente che se n'andasse a letto.
Bon. E tanto bastò?
Fiu. E che ne dubitate? Eh, un uomo risoluto e col-
Parme alla mano farebbe tremare Biancon di Piazza (2), che
è di marmo; considerate una donnicciuola, che con un soffio
si butta là a gambe levate.
Bon. — Questa cosa mi ci va. — Non (3) maraviglia che la
mia mi ha detto: se almeno fussi un giovanotto d'.armi, un
capitano di dragoni, pur pure le potrei far paura; ma che
del mio collare e ferrajolo se la ride.
Fiu. Se ve lo dico. Ora, signor padrone, bisogna che io
vi lasci, perché il signor Valerio ....
Bon. Che dice il poverino di dover star fuora di casa?
Fiu. Ve lo potete immaginare.
Bon. E la Clarice, quando verrà ella?
Fiu. Oh che non V avete vista 1 L' ho già ricondotta eh' è
un* ora.
Bon. Si eh? E dove è ella?
Fiu. V ho lasciata nel suo appartamento.
Bon. Manco male. V corro da lei. Addio, Fiuta. (Parte.)
Fiu. La riverisco. Viaggi, matrimoni; figliuoli mezzi di
qua e mezzi di là; rimpastare il marito babbeo; disfar la
moglie diavola; scoprir e rovinare tutte le furfanterie del
maestro di casa.... Uh quanta carne a fuoco! Al cuocerla
ce n'avvedremo. ♦
SCENA NONA
Clarice e Raspa.
Clar. Io ve ne sono obbligata.
Rasp. Vi assicuro che mi ci sono affaticato bene; e se
non ero io, non sareste ritornata certamente in questa casa.
Clar. Sarei stata in qualche altra.
Rasp* — Tentiamo questa. — Non era però conveniente
che vi tratteneste lungo tempo in quella del signor Buona-
mico, adesso ch'egli attende in breve la sua sposa di Bologna,
Clar. La sua sposa di Bologna? Non ho mai. inteso che
egli sia sposo. Questa mi giunge nuova.
Rasp. Giunse nuova anche a me jeri, quando ne sentii
parlare per cosa certa da un cavaliere, che disse aver trat-
tato egli questo parentado.
Clar. Eh che sarà una falsa voce. — Potrebbe mai ciò
essere? —
Rasp. — La botta non è ita a vóto. — Il cavaliere è
degno di fede, del resto mi rimetto.
Clar. Ma chi è questo cavaliere ?
Rasp. Oh, in quanto a questo, perdonatemi, non posso
palesarlo, perché me ne parlò come in confidenza.
Clar. Ma se dite che è cosa stabilita, e che in breve verrà
la sposa, che repugnanza deve egli aver che si sappia ? E poi,
se avete rotto il segreto col palesarmi V essenziale, ben po-
tete dirmi ancora il rimanente.
Rasp. Giacché poi bramate saperlo, non ho difficoltà di
nominarlo per compiacervi, a condizione però che non di-
ciate averlo da me inteso.
Clar. Ve ne do parola.
Rasp. Questo è il signor marchese.... — che dirò? —
Clar, Il signor marchese, chi ?
Rasp. Ma mi promettete pur di non parlarne?
Clar, Se io già ve ne assicurai.
Rasp. Il signor marchese del Senso.
Clar. Non ho mai inteso nominar questo cavaliere.
Rasp. E facile, benché sia una famiglia assai nota, perché
egli è forestiero, e non è che pochi mesi che si trova qui
per alcuni affari del suo marchesato.
Clar. — E doverò crederlo ? — Voi dunque siete suo amico ?
Rasp. Confidentissimo. Principiai a conoscerlo in Venezia
da giovanetto. Ma ritornando a noi, che risoluzione inconsi-
derata fu mai la vostra di uscir di casa?
Clar. La risoluzione fu prudente, perché fu di ritirarmi
in un monastero.
Rasp. E perché una giovane come voi, bella, spiritosa e
gentile, cacciarsi, sto per dire, in una sepoltura?
Clar. Per fuggir da un inferno.
Rasp. V'intendo. Volete dire per isfuggire la soggezione
della vostra signora matrigna; ma che voi siate benedetta,
perché non venir piuttosto da me, che io.... (Si accosta a
ei affettuòsamente.)
Clar. Uh, il signor padre mi chiama. ( Vuol partire, ed
ei la prence per un braccio. )
Rasp. Sentite, signora Clarice, sentite.
Clar. si sbroglia sdegnata. Eh lasciate. Il signor padre;
non lo sentite? ( Via.)
Rasp. Seguiterò l'invenzione si bene incominciata, per
fomentar la sua gelosia, e renderle cosi (se è possibile) odioso
l'amante. Senza un tal fondamento, non mi lusingo di cor-
rispondenza. Adesso è il tempo di mettere in opera la mia
virtù di saper contraffare i caratteri.
SCENA DECIMA
Strada.
Buonamico e Vespina da donna.
Buon. Ti giuro, Vespina mia, che la notizia intesa dalla
signora Clarice che quel temerario di monsù Raspa abbia
dell'affetto per lei, 6 di più ardito farglielo conoscere, mi ha
posto in una grand* agitazione di spirito; e tanto più che
Fiuta mi ha riferito che la signora Ciprigna sia del tutto
contraria ai nostri sponsali.
Vesp. E voi vi pigliate pena di questo? Siete pur buono.
Buon. Non bisognerebbe che io l' amassi con quella tene-
rezza che io l'amo, per non ne provare angustia ed af-
fanno.
Vesp. Eh via, mandate .da banda ogni pensier malinco-
nico, e fidatevi sulla costanza e fedeltà della signora Clarice.
Io so che ella vi ama da vero, e ne potete star sicuro.
Buon. Fin ora ne ho tutte le riprove; ma il mio affetto
ed il saper che voi altre donne siete suscettibili, e facili a
farvi mutar di pensiero, mi fa temere.
Vesp. Diavolo! Che credereste che la signora Clarice
fosse per cambiar voi per quel baron rivestito di monsù
Raspa, che non si sa chi sia !
Buon, Io non sospetto di ciò, che le farei troppo gran
torto; ma temo che possano distoglierla dall' amarmi; però
io vorrei che tu procurassi in qualche maniera parlarle, per
corroborare la sua costanza a mio riguardo.
Vesp. Vi servirò per soddisfarvi, che del resto, crediatemi
che ciò è totalmente superfluo.
Buon. Ma come farai per abboccarti seco; perché vorrei
che ciò seguisse con sollecitudine?
Vesp. Lasciate fare a me, né ve ne pigliate pena. Cronica,
serva vecchia di casa, mi vuol bene, ed è mia confidente.
Considerate, discorrevamo, come si suol fare tra noi altre,
|e ore intiere sopra le scimunitaggini della padrona, della sua
superbiaccia, e de' mali trattamenti che fa alla povera ser-
vitù! E sapete, le si tagliavan bene i panni addosso. Ora io
non ho paura che lei non mi apra; ed entrata che sarò in
casa, me n' anderò ascosamente nelle stanze della signora
Clarice.
Buon. Ma se qualcuno ti vede entrare, che lo dica alla
signora Ciprigna?
Vesp. Sarà pensier del boja accomodar la scala alle
' forche, (i)
Buon. Dunque non penso più a quest' affare, fidandomi
della tua fedeltà e del tuo spirito.
Vesp. Oh, cosi va bene. Vado a fare il negozio. Fra poco
ci rivedremo. ( Via.)
Buon. Ti aspetterò con ansietà.
SCENA UNDECIMA
Valerio, Fiuta e detto.
Val. infuriato, e ritenuto da Fiuta. Lasciami, che non
posso contener il mio giusto sdegno.
Fiu. Eh, che date in spropositi ! Oh che diami n, siete
composto di zolfo, di salnitro, di razzi matti, che vi accendete
in un subito?
Buon. Oh, signor Valerio, che nuovi motivi di collera vi
son sopraggiunti?
Val. Perdonatemi, amico, sopraffatto dalla collera, non vi
aveva osservato.
Buon. Ma pure, che ci è di nuovo? ( Valerio mospra agi'
ta^ione, sen\a dir nulla.)
Fiu, Di nuovo che volete ci sia? Queste sfuriate in lui
. son cose già vecchie. Perché ha visto passar da lontano
mori su Raspa, sùbito ha preso fuoco la mina; e se non ci
ero io che la sventassi, mandava all'aria monti e montagne.
Voleva a tutt'i partiti dargli nella testa.
Buon. No, signor Valerio, non è questo il modo di ga-
stigar costui, ed arrivare a 1 nostri fini; ogni trasporto di col-
lera per vendicarsi, di attori ci fa rei, e ci trasmuta le nostre
ottime ragioni in gran torto.
Val. Ma come contenersi? Vedete se egli è temerario e
sfacciato. Mi vede venir incontro a lui, e mi fa la mala creanza
di svicolar per isfuggirmi.
Buon. Questo, perdonatemi, non è segno di temerità e
sfacciataggine, ma più tosto effetto della sua coscienza mac-
chiata, che non lo lascia soffrir la vostra presenza.
Fiu, Lo provo per me, che quando incontro un mio cre-
ditore, mi par d' incontrare il diavolo, e caccerei il capo non
so dove per non vederlo.
Buon. Lo stesso accade di chi deve risarcimento di offese
e di riputazione. Tutti son debiti.
Fiu. Uh quanti pochi se ne pagan di questi ancora! Ma
lasciamo un po' questi discorsi di debitori, e parliamo di
bestie. Qui bisogna vedere di trovar modo di domar T alte-
rigia della signora Ciprigna, e di farle diminuir l'autorità
che si è usurpata, se volete concludere il vostro matrimonio.
Buon. Ma qual contragenio e odiosità può ella aver meco,
per opporsi si ostinatamente a questi sponsali? Non so già
di averla offesa mai in cos' alcuna; anzi le ho' sempre mo-
strato rispetto, ed usato cortesia.
Val. Che ragioni volete voi che si possano addurre delle
azioni d'una donna, che opera senza ragione?
Fiu. Oh, oh, voi che siete tanto virtuosi non le sapete
trovare: ve le dirò io. Questa razza di donne son come
molti gran signori: vogliono essere adulate ed ingannate.
Non posson soffrirsi d'intorno un galantuomo, che conosca
i loro difetti, e gli dica la verità.
Buon, A questo costo non mi curo della loro amicizia.
Fiu. Ma se voi vi curate della signora Clarice, bisogna
batter forte su quel che v'ho detto.
Val. Qui bisognerebbe buttar giù buffa; entrare in casa
da padroni; se si trova opposizione, alzar le mani....
Buon. Eccovi alle solite levate, signor Valerio. Crediatemi
che non è questo il modo. Jo più tosto stimo bene levarle
quest'autorità per via giuridica.
Fiu. Ed io non approvo né l'una, né l'altra. Nella prima
uno si darebbe l'accetta ne' piedi da sé, e si medicherebbe la
cancrena con l'agliata e aceto forte. Nella seconda ci vuol
del tempo, quattrini, prove, amicizie e pazienza, e Dio sa poi
se se ne riuscisse a bene. Io direi che facessimo le cose fra .
noi quietamente, lavorando con astuzia sott' acqua.
Buon. Non mi dispiace il tuo pensiero, se però hai tanto
in mano che possa riuscire; perché talvolta è lecito vincere
o deluder l'inganno coli 1 inganno medesimo.
Fiu. Io non parlo in aria; col mio tanto fiutare e scal-
zare di qua e di là, son venuto a sapere molte cose che già
vi ho dette, e molte che vi dirò, sopra delle quali fabbriche-
remo le nostre macchine.
Val. Palesaci dunque quel che hai di nuovo e la tua
intenzione.
. Fiu. Andiamo in casa del signor Buonamico a discorrerla
con pace, perché non son cose da trattarsi per istrada.
Buon, Andiam pure.
Val. Vi sieguo.
Fiu. Per iscioglier tutta questa matassa, ci vorrebbe al-
meno un mese di tempo; ma pure bisognerà farlo in poche
ore. Cervello mio, allo stretto jo.
SCENA DUODECIMA
Raspa solo, con lettera in mano.
Rasp. Sull'esemplare di un biglietto che ho potuto rin-
tracciare, scritto dal signor Buonamico ad un suo confidente
per affari, ho formato questo con tale imitazione, che da lui
medesimo non si distinguerebbe non esser suo' il carattere:
fingo che egli scriva all'inventato signor marchese del Senso,
toccante il suo imaginario sposalizio di Bologna. Questo bi-
glietto poi farollo, come per accidente, pervenir nelle mani
della signora Clarice. Cosi senza dubbio ella si corroborerà
ne'conceputi sospetti, da' quali io spero ottenere il fine bra-
mato. Il pescar nell' acqua torbida è sempre di vantaggio a
chi sa ben pescare. E per intorbidar quest'acqua ci vuole
l'arte di saper metter male fra le persone, colle quali si ha
da trattare! nella disunione fra coloro, che una volta erano
amici, oh quanto (se si ha accortezza) si fanno bene i fatti
suoi! ( Vede Tanganetto.) Ma dove va costui?
SCENA DECIMATERZA
Tanganetto, con lettera in mano e denaro, e Raspa.
Tati. E' si guadagna più a stare 'ntorno alle signore, che
intorno alle pecore e alle somare; questi quattrini intanto....
Rasp. O là dove vai? ( Tanganetto asconde la lettera.)
Che cos' hai costi ?
" Tang. V v' ho una cosa, che non l' aete > da veder, né da
sapere.
Rasp. Come no?
Tang. Ser no, perché la signora Clarice la m' ha dato
questi quattrini, perché la porti senza che ve lo dica, e ve
la facci vedere.
Rasp. — Qui sotto ci è del mistero. In questo caso sarà
meglio servirsi dell'astuzia che dell'autorità. — Fai bene
adunque a non me ne dir nulla, e servir la signora Clarice.
Or via, vien'meco.
Tang. Ma s' i'ho da portar la lettera, come poss'io venir
con voi?
Rasp. Bisogna vedere dove tu l'hai da portare, perché
può essere che mentre tu vieni con me la possi lasciare.
Tang. l'I' ho da portare in via.... Oh diascoil maledetto ! -
non me n'arricordo piti come la si chiama.
Rasp. Come farai dunque a portarla?
Tang. La via i'ia so, ma d'i nome non m'arricordo;
ditelo voi.
Rasp. Come vuoi ch'io Io dica, se non so a chi va la
lettera ?
Tang. Oh la lettera la va a quell'amico d* i signo' Varelio*
Rasp. Che poss' io saper chi sia ! Egli ne ha tanti degli
amici.
Tang. Quello che va sempre collui.
Rasp. Se non mi dici il nome, io non ti posso intendere.
Tang. Dov' eghi sta i' lo so, ma d' i nome me ne sono
scordato, come di quello della via. Ma vo'la potete vede' da
voi, eh' i' credo eh' e 7 ci sia scritto qui sopra. ( Gli dà la
lettera. )
Rasp. dopo aver presa la lettera, e guardata alla sfug-
gita la soprascritta, finge ricordarsi non aver la scatola.
Oh mi sono scordato della mia scatola. Va 7 presto a pi-
gliarla, che ti aspetto qui, e poi vedremo a chi va la
lettera.
Tang. Adesso. (Ritorna.) Quella che è nello stanzino,
n' eghi 'ero ?
Rasp. Si, quella.
Tang. V ho 'nteso. ( Via.)
Rasp. La poca esperienza di questo ragazzo, unita alla
tua rozzezza naturale, mi giova in molti rincontri. L'ho al-
lontanato di qui con quel pretesto per vedere il - contenuto
di questo biglietto di Clarice. (Lo apre, e finge legger da
sé. ) La mia invenzione ha partorito V effetto che desideravo.
Ella lo rimprovera della sua infedeltà pel creduto matrimo-
nio. Giacché la sorte mi ha dato in mano quest'occasione,
penso contraffar ancor la mano di lei, e scriver altro bi-
glietto in cambio di questo, nel quale mostri non curarsi più
ella di lui, e gli proibisca di più vederla ed amarla, senza
.spiegargliene alcun motivo. In tal forma sarà maggiore la
.disunione, e più difficile rintracciarsene l' origine. Vado in que-
sta bottega vicina a scrivere, donde potrò veder quando ri-
torna il ragazzo.
SCENA DECIMAQUARTA
Vespina con differente gonnella, taffettà e scuffia.
In quest' abito non avrei a esser riconosciuta. Mi sono
ingrossata con de' panni, non potendo altrimenti, sicché a
non vedermi in viso avrei a parer madonna Patassia 'ricogli-
trice. Certo che la non è più grossa dir me. L'andatura poi
la farò cosi ( Cantina da donna grassa e vecchia. ) e la voce,
se bisogna, la farò in questa maniera. ( Altera la voce,) O via,
via, non mi riesce male. Quando si tratta di servir due po-
veri innamorati, non so quel che non facessi. Ma che fo io
a camminar cosi adagio, e non mi affretto a andare dalla si-
gnora Clarice? Poverina, le parrà mill'anni di vedermi, ed
aver nuova del suo caro Buonamico.
SCENA DECIMAQUINTA
Raspa e poi Tanganetto.
Rasp. Il negozio è fatto, ed ho composto il biglietto in
maniera, che dovrebb' essere un zolfìnello da accendere un
gran fuoco.
Tang. con una scatola da perrucche tutto ansante.
Eccola.
Rasp. Oh balordo, e che mi hai portato ?
Tang.^ La scatola che m'ate detto.
Rasp. Io ti ho detto la scatola da tabacco.
Tang. Oh quella non si chiama la tabacchiera? Ri-
tornerò....
Rasp. Oramai non occorre. Posa cotesta in bottega di
quello speziale, che tornerai a prenderla, e adesso va' a ser-
vir la signora Clarice, portando questa lettera.
Tang. A chi va ella?
Rasp, L scritta cosi male, che non l' ho saputa intendere.
Ma tu hai pur detto che sai dove la* devi portare.
Tang. V lo so sicuro.
Rasp. Va' dunque, e sbrigati, che io anderò senza di te a
far quel che ho da fare, e poi passerò a casa, ove ti starò^
aspettando. Ma avverti di venir sùbito sùbito che arrivi da
me, che ti vo' mandare in un luogo. Hai inteso?
Tang. l'ho carpito bene.
SCENA DÉCIMÀSESTA
Camera.
Clarice e Vespina travestita, e poi Ciprigna a parte.
Clar. Quanto desideravo vederti! e se fossi venuta uà
po' prima. ...
Vesp. Non ho potuto far più presto, compatitemi. Ma voi
siete molto turbata. Eh fatevi animo, che uscirete presto di
questa prigione. Il vostro signor Buonamico si è prote-
stato....
Clar. Non me ne parlare.
Vesp. Come? voi non volete dunque....
Clar. No, ti dico, non voglio né men sentir più no-
minarlo.
Vesp. Non burlate già?
Clar, Dico da senno. (Sentesi un po' di rumore, Clarice
si volta, e vede Ciprigna alla portiera.)
Vesp. E dov'è quel grand 1 affetto....
Clar. basso a Vespina. Taci; mia matrigna è alla por-
tiera; come faremo?
Vesp. Seguitate la mia finzione.
Cip, — Chi è costei che discorre con Clarice? —
Vesp. muta voce, e parla forte. Signora si. Ho inteso che
cercava una cameriera, e perciò ero venuta a vedere se avessi
potuto aver la fortuna di servirla io.
Clar. Qual è il vostro nome ?
Vesp. Ghita Serviziati, chiamata comunemente Ghita della
stufa.
Clar. Oh perché della stufa?
Vesp. Perché, per istufare una donna, non ci è stufajolo
che mi arrivi.
Clar. « Come stufare una donna?
Vesp. « Lavarla, ripulirla, attaccarle cornetti, e farle i
bagni d'acque odorifere secondo i bisogni. Quando te-
nevo bottega, chi serviva la maggior parte delle signore,
se non io?
Clar. Non sapeva che le donne andassero alla stufò.
Vesp. Oh ce ne va quelle poche; e da che venne
l' usanza che andassero in maschera alle stufe degli uo-
mini, mi convenne di smetter bottega, perché non si fa-
ceva più nulla.
Clar. « Di questa vostra abilità io non ne ho bisogno.
Vesp. « Non dica cosi no, signora, perché la pulizia sta
bene a tutti, ed i bisogni posson venire.
Clar. « guarda accortamente se Ciprigna è partita, poi
basso a Vespina. La matrigna ci è ancora.
Vesp. « basso. State forte.
Cip. « — Questa l'ho per una donna d'abilità. (1)
Clar. Ma in grado di cameriera non avete servito nes-
suno ?
Vesp. Quel che ella dice! (2) Sono stata nelle prime case,
e non mi ci son trattenuta lungo tempo, perché una signora
mi levava all'altra.
Clar. Ma ultimamente chi avete servito?
Vesp. Ultimamente son escita di casa di una signora, che
pretendeva in bella, quando averebbe fatto spiritar il Paura.
Poi la più difficile a servirsi del mondo. Un capello torto,
una piega un po' fuor di sesto del manto e il non mutarle
le saccoccia a proporzion delle giornate più calde v o più fre-
sche, uh figliuoli, sarebbe stato un crimanlesa !
' Clar. Bisogna che fosse strana davvero.
Vesp. Oh non si finirebbe mai, se si volesser dire tutte
le sue stramberie. Quel buon uomo del suo vecchio marito
lo sa, che non è padrone né di dire, né di far nulla in casa.
Vuol portare i calzoni lei, e Io mangia colle parole . e cogli '
occhi, tenendolo come uno schiavo in catena.
Cip. — Al sentire ce ne son dell'altre, che han giudi-
zio.
Vesp. Io però, che non ho questo vizio di ridir le- cose
de' padroni, come è solito di ^ tutta la servitù, non ne fiato
mai con alcuno.
Clar, Questa è una buona parte.
Vesp. Oh posso aver tutti gli altri vizj, ma da questo me
ne so guardare. Ch' io le dicessi che i suoi cicisbei ora le do-
navano una galanteria, ora una gioja e ora un abito, il Cielo
me ne liberi.
dar. Ed, a come me l'avete figurata, trova chi la serva
con tal carattere?
Vesp. A modo! Oggi giorno il buon gusto è andato a
apasso, e basta avere una scuffia per trovare avventori, o
aguajati o di garbo che sieno.
Clar. guarda nuovamente soft* occhio. Colei non se ne
va. {Basto.) Ma fin ora non mi avete detto gran cose della
vostra abilità per la camera.
Vesp. Qui, signora, è il mio forte, so far scuffie d'ogni
aorta; perrucchini all'ultima moda, dar ' buon) aria ad un
manto, far guardinfanti a vela....
Clar. Come a vela?
Vesp. Signora si, colle corde e colle girelle per ammai-
narlo, quando si vuole, come una vela di nave. In quanto
a busti poi, non la cedo a chi ne 'trovò l' arte. Datemi una
donna di gran panza, di spalle grosse, gobba e storpiata per
tutt'i versi, se non la fo tornare una pittura a fòrza di
apranghe di ferro e di guancialetti, ' non mi chiamale per
nome.
Clar. « Di spranghe di ferro!
Vesp. « Certo» E ne fo ancora a molle e manticetti. Que-
«c sta poi è un' invenzione delle più belle, e per molte delle
« più bisognevoli.
Clar. « E come è mai questa?
Vesp. « Eccola. Si accomodano due facilissime molle
e d'avanti al busto con due manticetti di gentilissima pelle
color carnicino, che nel respirare si vanno poi alzando e ab-
tassando^ a proporzione che si allarga più o meno la cassa
del petto, sicché 1' occhio ancor più fino >ed attento ci re-
sterà ingannato. Ed una che sia dalla Pieve Asciata, con
un di questi busti, se non la fo apparire che sia nata a (1)-
Poppiano, vo 7 che mi sia tagliato il naso.
Cip. « Gran cose dice costei ! v
Clar. « S 1 io n' avessi voglia, voi mi fareste ridere. L' in-
venzione è bella certo.
Vesp. « Delle più belle ancora ne ho. Pomate da ammor-
bidire e acque corruganti per la rilassazione della pelje, e
e poi dar rimedj con tal gentilezza ed arte, che a chi dor-
misse ancora mi dà l' animo dargliene mezza dozzina, senza
né men destarla.
Clar. Tutte queste son belle cose; ma io per grazia del
Cielo non mi par d' averne bisogno.
Vesp. Oh di che sorta sarebbero i suoi bisogni? Me gli
palesi, perché, se non la sono io, potrebbe esser che sapessi
trovar chi fosse abile a servirla.
Clar. Non dico per questo. Il vostro servizio mi piace-
rebbe molto. ( Basso a Vespina : ) Non se ne va ancora.
Vesp. basso a Clarice. Sarà meglio che me ne vada io.
Cip. — Ne vo' veder la hne. —
Clar. Come vi dicevo, il vostro servizio mi piacerebbe,
ma non sta a me a prender la servitù per questa casa.
, Cip. — Volevo stare a vedere se avesse avuto tanto
ardire. —
Clar. a Vespina. Vattene, e ritorna quando non sarà in
casa. (Forte.) Io ho il padre, ed a lui solamente tocca....
Cip. si fa vedere. Tocca anche alia madre, signora mia.
< Dice ciò con furia. Vespina si finge spaventata e fugge,
-e? Clarice fa riverenza e parte. )
Cip. seguitandola. Si, signora; a me e non ad «altri tocca
a pigliar la servitù, (Dentro alla scena.) e mandarla via.
M'intendete, signora mozzina?
SCENA DECIMASETTIMA
Cortile della casa di Bonario.
Fiuta e poi Bonario con brodiere sopra il giustacuore, una padrona (1),
un paro di pistòle, una spada rugginosa, un cappello a pan di zuc-
chero con penna di cappone, in somma vestito da soldato con
molta caricatura.
Fiu. Mi vuol essere un po' difficile il penetrare chi sia
guel capitano, che doveva imbarcar Valerio a Livorno. Se
potessi. ... Ma chi è costui ?
Bon. Viva Tarmi, viva la guerra. (Passeggia con ca-
ricatura.) ' *
Fiu. — Oh ve' chi è! O che cosa ridicola! Non è già
impazzito ! — Signor Bonario, signor padrone, che novità è
questa ?
Bon. Oh appunto ti desideravo. Ora che ne dici tu ? Ti
pare che io abbia preso il verso buono adesso, per farmi ub-
bidir da mia moglie?.
. Fiu. Ma che pretendereste di fare ?
Bon. Il segreto di quello spadaccino amico tuo, ve'.
Fiu. Ma ve ne darà l'animo?
Bon. Poffare ! Se tu sapessi che coraggio m' hanno messo
addosso quest' armi, ti stupiresti. Ora non ci è paura. Vorrei
affrontare Don Kerch, il gran Mogolle e i Dardanelli insieme,
che ho inteso dir che sien si forti.
Fiu. Ah, ah, ah, ah....
Bon. Tu te la ridi?
Fiu. Eh rido di quei Dardanelli e del gran Mogolle; e poi
ce la farem sotto.
Bori. Che sotto, che sotto ? Tu m' offendi.
Fiu. Ma siete risoluto davvero a farvi riconoscere e ri-
spettar come padrone a qualunque costo, ancorché biso-
gnasse alzar le mani?
Boti. Risoluto come un can mastino. Io non ho inteso a
sordo il racconto fattomi del tuo amico, e il discorso di mia • e
moglie. Non ci era altra strada che questa.
Fiu. — Chi può sapere che questa scioccheria non pro-
duca qualche buon effetto? — Orsù dunque venite qua. Vi
voglio dare un po' di lezione, se vi contentate.
Boti. Volentierjssimo. Questo è quel che ho caro.
Fiu. Primieramente affondatevi giù fino alle ciglia il cap-
pello con due mani; (Fiuta fa vedere in sé tutti i gesti che
insegna a Bonario, ed egli V imita con storpiatura.) Poi
alzate la testa con imperio e risoluzione; quelle ciglia incre-
spate, e quella guardatura brusca e minaccevole; la mano
manca sul fianco. No, no, cosi, cosi. ( Gli accomoda la testa,
lo fa mettere in positura colla mano al fianco. )
Bon. Ora? (Fiuta si ritira indietro a riguardarlo.)
Fiu. Non ci siete ancor bene.
Bon» In questa maniera?
Fiu. E passabile. La testa e la positura più franca, l'aria
più brusca* Ora cosi. Ma tenete a mente.
Bon. La vo' far cader morta solamente dalla paura.
Fiu. Oh, ma queste prove non bastano. Saprete voi ri-
sponderle a tuono, e con voce alta e risoluta?
Bon. Griderò come un (1). bruciata jo di mercato. Giurerò
e bestemmierò come un (2) treccone, o sensal di frutte, e
minaccerò come un (3) battilano arrabbiato. Lascia fare a me.
Fiu. Facciamone un po' di prova. Figuratevi che io sia la
signora Ciprigna, che vi venga a far da sopracapo al suo solito.
Boti. Si bene.
Fiu. Mettetevi costà. {Lo fa mettere da una parte, ed
egli entra, e poi riesce da una scena, imitando Ciprigna
alla voce ed a' gesti. )
Fiu. Che mascherata è cotesta il mio sciocco, il mio ba-
lordo, il mio pazzo? Che si è finito di dar la 'volta al cer-
vello, eh?
Boti, umiliato. Eh, signor no. Facevo cosi per mio spasso.
Fiu. Ohibò, ohibò. Se lo dicevo io che avresti dato in
cenci.
Bon. Ma....
Fiu. Ma le corna del Pazienza, che passa van le nuvole. Vi
pare che questo sia il modo di attutirla, e di mostrar la vo-
stra autorità sopra di lei ?
Bon. Oh come averei a rispondere?
Fiu. Che pazzo ? che balordo ? Balorda e pazza siete voi.
Io voglio far quel che mi pare, né vo' sopracapi ; m'in-
tendete?
Bon. Oh bravo. Si, si, questa è buona. Cosi farò.
Fiu. Seguitiamo. — Come? Impertinente, temerario. Cosi
mi si ha da rispondere a me, eh?
Bon. Madonna si, in questa maniera. E chi vi par d'es-
sere a voi?
Fiu. Buono. — La padrona e padrona assoluta, e voi do-
vete starmi sottoposto.
Bon. Che sottoposto, che sottoposto ? Io vo' portare i cal-
zoni, né so chi mi tenga che....
Fiu. Bravissimo; animo, animo. — Olà, cosi mi si re-
plica a me?
Bon. A te e a chi fa per te. Né mi stare a far da bellu-
xnore, che ti fo schizzare il cervello con questa pistòla. ( Gli
va sul viso.)
Fiu. O manigoldo ! ( Gli dà uno schiaffo. )
Bon. O canchero, Fiuta! Questo è un po' troppo. (Con
voce dimessa. )
Fiu. Si fa per prova.
Boti. Eh prova m' incupola. Lo schiaffo l'ho sentito da vera
io. Queste prove le non mi piacciono.
Fiu. Ma figuratevi che ve V avesse dato lei, come assolu-
tamente ve lo darebbe. Come le averesti risposto per so-
prafarla ?
Boti. Averei tirato mano alla spada....
Fiu. Benissimo, cosi per l'appunto. Oh vedete se non è
stato bene il provarlo! (Bonario a queste lodi vnostr' aver
preso animo, si agita e sbuffa.)
Fiu. da sé. Comincio a sperarne bene.
Bon. verso Fiuta con voce alta. Qua tutte le chiavi. Spo-
gliatevi, e andate a letto, e se ardite fiatare....
SCENA DECIMOTTAVA
Ciprigna e detti.
Cip. di dentro. Che strepito è quello? Chi fa in questa
casa da padrone?
Fiu. Eccola, ora é il tempo. Animo ve 7 . Mi ritiro qua da
parte. Minacciate, e alzate le mani, bisognando. ( Via.)
Bon. tremando. La vien davvero. ( Via )
Cip. fuori. In questo luogo a me tocca a gridare....
( Guarda, né vede alcuno. ) Ho pur sentito qui alzar la voce*
Non ci è nessuno» Sarà forse stato in qualcuna di queste
stanze a terreno. Vo'un po' vedere chi sarà cosi ardito di
voler padroneggiare in questa casa. ( Via.)
Fine dell'atto Secondo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Civile.
Raspa solo.
Rasp. Il cambiamento che mi è riuscito far delle lettere
di questi due innamorati, colla mutazione de' sentimenti ed
immitazione de' loro caratteri, dovrebbe aver messo tale scom-
piglio ne 7 loro animi, da non si poter riunire cosi per fretta.
Al ritorno di Tanganetto colla risposta di Buonamico, ho
cambiato quella con altra; e di più vi ho incluso, come per
isbaglio del medesimo Buonamico, il biglietto da me inven-
tato e scritto antecedentemente, diretto all' immaginario mar-
, chese del Senso: sicché Clarice non può non restare intie-
ramente persuasa della finta infedeltà del suo amante. La
fortuna in ciò mi è stata favorevole, lo confesso; ma l'iniqua
poi mi ha tradito nell' altro affare delle gioje, che era di
tanta importanza. L'Armeno mi giura e spergiura non aver
visto né gioje, né' ragazzo, e mi fa attestare da più d'uno
non esser egli in tutt'oggi uscito di bottega. Io ho gran ti-
more che Tanganetto non sia stato ingannato: mi bisogna
esaminarlo, per rintracciarne il vero, e far con sollecitudine
le diligenze... .
SCENA SECONDA
Ciprigna e detto.
Cip. Sia ringraziato il Cielo; pur una volta vi siete rag-
girato intorno casa. Mi sono affacciata cento volte alla fine-
stra, per vedere se vi vedeva venire, e sùbito che vi ho vi-
sto apparire sono scesa, perché bisogna che andiamo in que-
sto punto alla posta.
Rasp. Alla posta? ed a che fare?
Cip: È venuto il capitano di quella nave francese. An-
diamo, vi dico, senza perder tempo.
Rasp. Adagio, adagio, signora : bisogna prima intendere se
è vero che ci sia un capitano; chi egli sia; e che cosa si ha
da far da lui.
Cip, Oh, ecco sùbito le vostre solite difficoltà; me ne
sarei maravigliata. Questo è quel capitano di quella nave,
dove si ha da far imbarcar Valerio; e lui medesimo me l'ha
mandato a dire che vi è.
Rasp. Ma come sa questo capitano chi voi siate e le no-
tre intenzioni?
Cip. Come le sa ? Il Baruffi vostro corrispondente gli averà
detto tutto.
Rasp. Questa non mi par cosa probabile.
Cip. Se lo dico io che trovereste d'apporre al sale. (1)
Voi avereste a dire ancora che non è vero che questo capi-
tano vi sia.
Rasp. Via, concediamovi tutto. Ma perché volete voi an-
dare a tf ovario?
Cip. Sentite! Questa è l'altra adesso! Oh che non vi ri-
cordate della risoluzione di mandar per inganno Valerio in
Francia ?
Rasp. Bella cosa ! Primieramente non sta bene a voi l' an-
dare a cercar lui.
Cip. Eh che si fa alla francese: non ci si bada a queste
minute seccaggini.
Rasp. E poi, che assegnamento fate voi sopra la persona
di vostro figliastro, se egli non è più in casa, né in nostro'
potere?
Cip. Si discorrerà con lui, e si troverà qualche maniera
di far cadere Valerio nella trappola.
Rasp. Queste son cose da pensarle e ripensarle bene, prima
di proporle. Voi altre donne v'immaginate tutto facile, quando
si tratta di soddisfare a' vostri capriccj.
Cip. Questo è pure un capriccio tanto mio che vostro.
Rasp. È vero, ma le cose erano in altro piede quando fu
ciò risoluto.
Cip. Ora io non saprei. Voglio parlare a questo signor
capitano; se non per altro, per intendere come vi sono de'fo-
restieri in Livorno, e come vi si fanno di belle feste.
Rasp, — Conosco che ancora le sta in testa quel viaggio. —
Cip. — Quanto vi anderei seco volentieri 1 — Oh a propo-
sito: avete voi riscossi i quattrini di quelle gioje? Quanto
n'avete voi cavato? Meno di cinquecento scudi non vale-
vano.
Rasp. — Che dirò? — Le gioje.... Ma che credete, si-
gnora, che questi negoziati si faccino alla prima?
Cip. Sono pure parecchi giorni che le avete nelle mani.
E mi avete detto che un mercante armeno....
Rasp. Signora si, ma non ho avuto ancora risposta; e per
appunto adesso volevo andare per ricercarne. Ma chi sa se
averà fatto nulla?
Cip. E voi fatevi restituire le gioje; troveremo qualche
altro che le comprerà. — Questi denari verranno a proposito
pel viaggio. —
Rasp. Andate in casa, e lasciatevi regolare.
Cip. Ma dal capitano....
Rasp. Eh, ora non è tempo di pensare al capitano.
Cip. Vi dico che vi voglio andare io, e se non volete, ve-
nir meco, vi anderò da me.
Rasp. — Non mi compie adesso disgustarla. — Io vi ser-
virò, ma non si troverà in casa.
Cip. Vedremo. ( Via.)
Rasp. Questo capitano mi potrebbe mettere in nuovi
scompiglj; perciò guardiamo che non gli parli a solo.
SCENA TERZA
Buonamico e Fiuta.
Buon. Ah che i miei timori non sono stati vani. Io già
mi era supposto che Clarice non averebbe retto alle insinua-
zioni de' miei malevoli.
Fiu. Per dirvela, io non l'averei creduto mal, e sto per
dire, non lo credo né meno adesso. La signora Clarice mu-
tar di pensiero a vostro riguardo, e di più a persuasione....
Non saprei, non lo posso credere.
Buon. Ma questo, ( Mostra la lettere/.) l'hai pur veduto,
è suo scritto.
Fiu. Se ciò fosse, si potrebbe dir davvero che gli amori
delle donne sono come i lunarj, da non fidarsene punto
né poco.
Buon. Ma chi non si sarebbe fidato a' giuramenti ed al-
l'espressioni di Clarice? Quante volte mi ha ella assicurato
che mi averebbe amato fino alla morte, e che mai per qua-
lunque accidente o violenza....
Fiu. Ditelo a me, che non mi parlava mai d'altri che di
voi. E per questo io torno a dirvi che non posso credere in
lei questa mutazione: che non vi sia sotto qualche inganno.
Buon. Vorrei potermene lusingare ancor io; ma l'avermi
Tanganetto giurato che ella medesima gli ha data questa let-
tera, con ordine che a me la portasse a suo nome, non mi
lascia luogo da dubitarne.
Fiu. Tanganetto ve l'ha portata?
Buon. Si.
Fiu. Questo cornerò mi è sospetto.
Buon. Ma di chi volevi che si servisse, se in casa non ci
ha persona presentemente da potersi fidare?
Fiu. Di grazia, rileggiamola di nuovo, per vedere se vi si
potesse trovare attacco nissuno da rischiarire, la verità.
* Buon. Leggiamola. {Legge.)
Non vi rechi maraviglia, signor Buonamico, se il cuor
della vostra Clarice non può esser più a vostro riguardo
quel che è stato altre volte: egli ha giusti motivi di con"
giare affetti; onde non dovete più pensare a me, se non
per procurar di non trovarvi mai, ed in qualunque luogo
che sia, alla mia presenta : compatiiemi e datevene pace.
Clarice.
Or che ne dici?
Fiu. Qui ci son di gran cose, e son chiare; ma una tal
mutazione cosi subita, e senza dirne il perché, non mi par
che cammini.
Buon. Ah, che ne ho un'altra riprova convincentissima.
Vespina, che poco fa è stata per parlarle, senza saper nulla
di questo, mi ha asserito averla trovata tutta sdegno contro
di me.
FiUf Ma che ragioni le ha ella detto d'averne?
Buon. Non ne ha potuto indagare i motivi, perché, giusto
in quel tempo che glie ne ricercava, è sopraggiunta Ciprigna;
onde ella è stata necessitata a partirsi.
Fiu. Sentite, signor Buonamico, qui sotto ci è qualche
falsità e inganno. Io Voglio ritornare in casa, per rintracciar,
se posso, qualche lume maggiore pe' miei determinati rag-
giri, e nel medesimo tempo fiuterò sulla traccia di quel vol-
pone di Raspa; giacché tutto il vostro male credo che
venga di li.
Buon. Ma come ci potrai avere libero V ingresso?
Fiu. Adesso liberissimo. Sentite il bel caso che mi si è.
dato. Stavo col signor Bonario, dandogli lezione come doveva
fare a tener testa- contro la moglie, quando dia si è sentita
gridare dalle sue stanze. Io son fuggito in certe stanze a ter-
reno, e il diavolo, anzi la nostra buona sorte, mi ha fatto
intoppare in lei. Nel vedermi mi è venuta incontro, quasi vo-
lendomi mangiare colle parole. Sorpreso a quel modo, ho
dato spese al cervello (i), per trovar qualche invenzione? e
mi è venuto in testa il capitano della nave. Sùbito le ho
spiattellata la grossa bugia in questa forma : che passando io
dalla posta sono stato chiamato da un vetturino, che mi ha
presentato ad un certo signor Francese, di beli' aria guerriera,
che chiamavano signor capitano. Il vetturino gli ha detto:
signore, questo appunto è il servitore di quella signora, che
ella ricerca (credendosi che io stèssi ancor con V. S.); allora
egli m' ha interrogato con volto giojale : La signora Ciprigna
sta pur bene? Oh, ella è una bella signora, di gran spirito,
e della quale il nome fa un gran fracasso in Livorno; ella
vi era aspettata con gran desiderio: che vuol dire che non è
poi venuta? Io gli ho risposto che non ne sapevo la ragione;
ed egli mi ha replicato: Or basta, ditele che io sono arri-
vato in questo momento, e che averò l' onore di reverirla.
Gli ho domandato chi dovevo dire eh 1 egli era, e mi ha ri-
aposto: Ditele che sono monsù della Timonière, il capitano
di quella nave francese che ella sa : e si è ritirato a dar do-
gli ordini alla sua gente. A questo racconto appoco appoco
ella si è agevolata e fatta maneggevole, come la cera a fuoco
lento. Io allora ho preso più animo, e le ho ficcate dell 1 al-
tre carote di suo genio, alle quali ella è finita di calare, e
mi ha detto di ritornar da lei, che può essere che abbia bi-
sogno di me.
Buon. La tua astuzia ha saputo cavare l'antidoto dal ve-
leno, per ora: ma ella poi scoprirà facilmente la tua falsità,
Fiu. Di questo me ne rido; ma la non finisce qui. Ho
pensato da questo accidente cavarne qualche utile maggiore,
Io voglio fare la figura del capitano, e, secondo le carte che
sài verranno in mano, fare il gioco che potrò.
Buon. Ma per le mie disgrazie non ci trovo rimedio »i«-*w»
Fiu. Non vi perdete d'animo, penserò anche a voi, la-
sciate fere; anzi fate una cosa, venite con me; e ae la ai-
gnora Ciprigna non è in casa, voglio che parliate da voi alla
signora Clarice.
Buon. Ma ella mi proibisce....
Fiu. Ah, voi badate alle proibizioni delle donne
rate; eh? Si starebbe freschi. Le' fanno per sarci
V appetito, e per mostrare d'essere gelose che non si dea,
né si feccia.... Crediate a me chea ubbidire a queste proi-
bizioni si fa loro internamente del dispiacere, e ci ^ 4a *******ff
baccellacci e dappochi.
Buon. Temo di venire a incontrare un disp r ezz o mag-
giore; e credo esser meglio aspettar se fa replica alla mia
risposta, nella quale la prego dirmi quali sieno le mie man*
canze per potermi giustificare.
Fiu. La replica appunto! Gli occhi e la Bagna di un
amante hanno altra forza che la parole scarabocchiata sopra
una carta. Andiamo, andiamo. (Lo conduce.)
Buon. Il mio cuore non sa opporsi alle tue
SCENA QUARTA
Bonario solo.
Bisogna che quella me' moglie m'abbia fetto qualche
lia; che, quando la vedo, mi sento tutto abbassar l'orgoglio,
e distruggere tutte le buone risoluzioni che avevo fette* Oh
i'ia feci pur col manico la corbelleria quando la presi, E
pure un certo mio amico me V aveva detto che la moglie 4
come uno sbaglio di speziale, che dove si crede pigliare un
lattoario salutevole e grato, si piglia un* evacuazione avve-
lenata, che fa crepare. Ma e' incera riuscito si bene a quel*
P altra, ch'i' calai alla pania, e la presi fresca di età, perché
détti fede a quel proverbio che dice: a cavai giovane vec-
chio cavalcante : ma i 1 ho dato in una bestia pazza, che m' ha
tirato giù di sella in maniera, che non ho più coraggio di
rimontarci. Se tutto il male pò 1 poi fosse il mio, direi: ben
mi sta; e me lo succhierei con pazienza; ma que' miei po-
veri figliuoli che colpa ci hann' eglino? Uh i' non posso pen-
sare a quel me' povero Valerio, che non, me ne scoppi il
cuore. Fuor di casa; senza quattrini; con degli incomodi. Chi
sa il poverino quanto stenta. Pio vo cercando per Firenze,
e non V intoppo mai: vorrei pur trovarlo per dargli.... (S*. m-
contra in Valerio,)
SCENA QUINTA
Valerio e detto.
Bon, Oh sia ringraziato il Cielo: che fai, Valerino mio
eh' è tanto che non t'ho visto?
Val, Che vuol ch'io faccia, signor padre?
Bon, Triboli non è vero, poveretto, fuor di casa tua?
Val, Eh, signor no.
Bon, Si, si, non me l'hai a dare ad intendere, e dì più
senza quattrini : tieni. ( Gli dà un gruppo di denari, )
Val, La ringrazio, signor padre, ma non sono in tanta
necessità.
Bon, A vestiti, come stai?
Val, Competentemente. Ho portato meco tutti quei buoni
che aveva.
Bon, E poi saranno rotti, ve'? Piglia, fattene uno a tuo
gusto. (Gli dà un altro gruppo di denari.)
Val. Servirà per quando ne averò bisogno.
Bon. E la salute?
Val. Grazie al Cielo, la godo perfettissima.
Bon, Non hai né meno un dolor di capo?
Val, Sto perfettamente.
Bon, Ma se ti venisse? Poverino, non sveresti né meno
da pagare il medico, non è vero? Prendi, eccoti dieci doppie.
(Gli dà altro gruppo, ex lo ricusa.)
Val. Spero che ciò non accadere, ma quando accadesse
ho denari soprabbondantemente a tal bisogno.
Bon. Eh, non dir bugie. Prendi, prendi. ( Gli fa pigliare i
denari. )
VaL Faccio per non disobbedirla.
Bon. In casa d'altri, lo so, si sta male: quanto ti com-
patisco !
VaL In casa del signor Buonamico sto, posso dire, ancor
meglio che in casa propria.
Bon. Eh non me l' hai a dire a me. Se ti viene una vo-
glia d' una coppia d' uova o d' un piccione, tu non te la puoi
cavare.
Val. In quella casa non manca niente. E poi basterebbe
che io parlassi, per esser soddisfatto di tutto.
Bon. Ma la servitù....
Val. È obbedientissima ad ogni mio cenno.
Bon. Non importa, ci vogliono delle mance. Eccoti dieci
altre. doppie. (Glie le mette in mano.)
y Val. Signor padre, V. S. ha troppa tenerezza per me,
ed io....
Bon. Non voglio che tu patisca: queste son venti più per
la cioccolata e pel caffè.
Val. Ma ella....
Bon. Zitto, zitto, non parlare, e goditele per amor mio.
Se tu sapessi quanto mi dispiace che tu abbi a stare fuor di
casa. Uh, uh, uh. (Piange.)
Val. Non s' affligga per questo. Io sto bene, ed in breve T
come spero, si cangeranno le cose.
Bon. piangendo. Uh, uh, uh. Abbi pazienza, figliuol me 7
caro, uh, uh, uh. Quella benedetta donna.... uh, uh, uh.
Val. Le si farà mettere il cervello a partito.
Bon. Io non ci ho colpa, e vorrei.... uh, uh, uh.
Val. Non si tormenti in questa forma, le dico. Io sono
sicurissimo del suo affetto.
Bon. Bisogna che io me ne vada, perché mi sento scop-
piare il cuore. (Parte piangendo.) Sta 1 allegramente, figihiol
mìo. ( Via.)
Val. Faccia lo stesso ella pure. — Gran buon cuore che
ha mio padre verso di me, ed io sarei molto ingrato.... —
Bon. ritorna. Valerino mio, dimmi la verità: tu non hai
un quattrino?
, < Val Come, se me n'avete dati tanti voi adesso ?
Bon. Tu non me lo vuoi dire: tieni ancora questi; (Si
vota le tasche.) abbi pazienza, non ne ho più, (Partendo.) uh,
uh, uh. Gli è un figliuolo d'oro il poveretto. ( Via.)
Val. È un padre che merita ogni obbedienza ed affetto.
SCENA SESTA
Camera.
Clarice e Vespina.
* Clar. Non si può scusare in alcuna maniera il perfido, il
traditore.
Vesp. Se fosse vero ciò che mi dite, avereste ragione, ma
questo è impossibile. Il signor Buonamico sposo d'altri che
ài voi, quando non vede per altr' occhi, né sente per altre
orecchie che le vostre? Eh via.
Clar. Ma le notizie che mi ha dato monsù Raspa....
Vesp. E voi credete a quel birbone?
Clar. Io credo a' biglietti di Buonamico scritti di sua pro-
pria mano, che confermano ad evidenza le dette notizie. Sappi
che io sùbito che l'ebbi intese con tante verisimili circo-
stanze, entrai in gran sospetto della verità, e per certificar-
mene, scrissi un biglietto a quell'infedele, rimproverandogli
la sua fellonia.
Vesp. E lui vi ha risposto?
Clar. Si.
Vesp. E che dice? ve lo confessa?
Clar. Egli me lo nega.
Vesp. Oh vedete dunque.
Clar. Ma con termini equivoci e con freddezza tale....
Vesp. Eh che sarà la vostra paura, che ve lo farà pa-
rer cosi.
Clar, Volesselo il Cielo. Ma un altro suo biglietto scritta
di suo pugno al signor marchese del Senso....
Vesp. A chi? Al marchese del Senso? E chi è costui?
Clar. Il mezzano del suo matrimonio.
Vesp, Oh ve' chi ha preso per mezzano!
Clar, Questo biglietto, dico, scritto a questo signore, e
per isbaglio incluso in quello scrìtto a me, pone in chiaro
il suo tradimento, e lo rende più colpevole.
Vesp. Uh, quel che voi mi dite! Gli avete voi costi que-
sti biglietti?
Clar, Gli porto appresso di me, perché mi siano sempre
di stimolo ad abbonirlo.
Vesp. Di grazia leggetemeli, perché io gli possa dir le
mie sillabe. (1)
Clar, Questo è in risposta al mio. (Legge.)
Signora, niun può tener le lingue che non parlino, e se
U mio matrimonio fosse concluso, come dite esservi stato
significato, dovrei saperlo meglio di ogni altro. Per anche
som libero, e posso applicarmi ove mi porta il genio: ed in
testinionian\a di quanto vi asserisco, e per vostra quiete e
sicure\\a, vi mando qui accluso un attestato da me fatto, e
sottoscritto con mio giuramento, esser falsa la voce del ma"
trimonio palesatovi; e vi riverisco, Buonamico
Vesp, E dov' è questo attestato che vi manda ?
Clar, Il cielo che detesta i tradimenti, ha fatto si che si
•copra meglio il suo con quell' istesso inganno, ch'ei aveva
ordito per celarmelo. In vece di accluder quello nella lettera,
ci ha accluso per isbaglio un biglietto, che scrìve al sopra-
detto marchese.
Vesp. Ti dia nel collo! (2) E che gli scrìve?
Clar. Ascolta, e poi di' se non ho ragione di chiamarlo
un perfido, un traditore. (Legge nella soprascritta.)
Al signor marchese del Senso.
Caro amico,
La notizia che mi date, che la mia sposa sarà pronta
ad ogni cenno a partir di Bologna per a questa volta, mi
ha ripieno il cuore di giubilo. Io altresì mi disporrò con
sollecitudine per V incontro da farlesi, e sarò da voi per
accordare la giornata, e per ringraziarvi di tante vostre
premure per le mie consolazioni e vantaggi; il che farei
presentemente, se non mi trovassi carico di occupazioni. Te-
nete per anche segreto V affare ed amatemi.
Il vostro obi iratissimo amico e servo
Buonamico Fedeli.
Vesp. Ah scellerato! Se io lo potessi aver qui, me gli
vorrei mettere addosso co' graffi e co' morsi, peggio che una
cagna arrabbiata.
Clar. Può darsi perfidia maggiore?
Vesp. Né anche in Turchia si sentirebbe una cosa simile.
Oh vatti a fidare degli uomini ! Ah me lo diceva ve' la mia po-
vera mamma che son traditori, e che, per ottener qualche
cosa da noi altre ragazze innocentine, giurano e spergiurano;
fìngono spasimi, svenimenti, fuoco che gli abbruccia il cuore
e le viscere.... Il malanno che gli colga dove si senton me-
glio, i bricconacci scomunicati. Ma a me non me la ficcano.
Dell'erba trastulla ne so dar quanto loro.
Clar, Or, Vespina mia, tu vedi in che stato mi ritrova
Vesp. Vi compatisco; ma fatevi animo, che degli uomini
ce ne sono degli altri, né tutti saranno come lui.'
Clar. La mia maggior pena è di togliermi questo ingan-
natore, dal cuore.
Vesp. Eh, un chiodo scaccia V altro, e con un po' di
tempo anche ogni gran ferita si richiude. Ma io non glie la
posso perdonare. Non son tre ore che egli tutto tenerezze mi
diceva: Vespina mia, mi raccomando a te: va dalla signora
Clarice, dille che non mi abbandoni, se non mi vuol vedere
disperato: il mio grande amore mi fa temere.... le corna, che
ti sfondino, birbantone. Ma state, eccolo che vien di costà.
Clar. si volta. Ahimè! Vespina, non mi abbandonare.
SCENA SETTIMA
Buon amico, Fiuta e dette.
Vesp. a Clarice. Fate vista di non lo vedere. ( Clarice si
volta da altra parte.)
Buon, a Fiuta. Eccola l'infedele: vedi come mi volta le
spalle?
Fiu. a Buonamico. E voi voltatele il sedere.
Clar. a Vespina. Il perfido non ardisce accostarsi.
Vesp. a Clarice. E voi mostrate di non curarvene.
Buon, a Fiuta. Com'è possibile che si sia scordata si
presto di mei
Fiu. a Buonamico. Vien che le donne hanno poca me-
moria, non si ricordano punto oggi di quelli, a' quali fecero
jeri cortesie a sporte.
Clar. a Vespina. Mi par che egli sia molto inquieto: da
che può procedere?
Vesp. a Clarice. Ve lo dirò: perché egli averà dell 7 in-
quietudine.
Buon, a Fiuta. Osserva com'è ostinata nella sua al-
terigia.
Fiu. Oh non è donna?
Clar, a Vespina. Com'è mal creato! Mi avesse almeno
salutata.
Vesp. a Clarice. Che maraviglia! Non è uomo?
Buon, a Fiuta. Non posso più reggere. Vado. ... (Si muova,
e si pente.) Ma no, la farei troppo insuperbire.
Clar. a Vespina. Veniva per parlarmi, e si è pentito. An*
derò io....
Vesp. a Clarice. Abbiate pazienza, che calerà da sé a
darci di naso, non vi dubitate.
Clar. a Vespina. Non posso più contenermi. La mia pas-
sione mi spinge.... (Va, e si pente.) Ma no, troppo m'avvilire?.
Buon, a Fiuta. Voleva accostarsi, ma il saper d' esser rea
l'ha ritenuta.
Fiu. a Buonamico. Lassatela fare, che s' infilerà da sé
nella rete; ma no, siate voi il primo a rompere il diaccio, e
rimproveratela come si conviene.
Buon, a Fiuta. Ma che parole averò io....
Fiu. a Buonamico. Pigliate quelle del Mangia di Siena. (1)
Voi mi fareste dir qualcosa di bello.
Vesp. a Clarice. Fate una cosa: siate la prima voi a rom-
per visiera, e ditegli il fatto vostro fino a un finocchio.
Clar. a Vespina. Ed io devo azzardarmi....
' Vesp. a Clarice. O che credete che sia? S'azzardano
tant' altre.
Fiu. a Buonamico. Aspettate dunque: anderò io a par-
lare a Vespina, che mi par che la sfrontatella la tenga
dalla sua.
Vesp. a Clarice. Anzi no; lasciate andar me ad abbor-
dare quel furfantello di Fiuta, che m'ha cera d'essere del
suo partito.
Clar. a Vespina. Si, sarà meglio.
Buon, a Fiuta. Mi farai piacere. (Vespina e Fiuta si
muovono nello stesso tempo, e vanno ad abbordarsi, e par»
lano tutti due a un tratto.)
Vesp. Si potrebb'egli sapere da voi, signor consigliere ... v
Fiu, Si ha curiosità di intendere da voi, signora segre-
taria.... (Restano tutti e due a un tratto di parlare, fa-
cendo cirimonie a chi ha da parlar prima. )
Fiu. a Vespina. Dica, dica pure, signora avvocatessa.
Vep. a Fiuta. Eh, dica pur lei, signor procuratore.
Fiu. a Vespina. So il mio dovere.
Vesp. a Fiuta. Ed io le mie convenienze.
Fiu. a Vespina. Orso, da che cosi comanda, io m'avan-
zerò a domandarle da che procede.... (S' accosta a parlare
a Buonamico.)
Clar. a Vespina. Vieni, vieni, ho sentito gente, e credo
sia la signora madre. (Conduce via Vespina.)
Fiu. seguita il suo discorso, non avendo veduto partirle.
Si, da che procede nella vostra signora clientola.... ohi (A
Buonamico:) Che han fatto la sparizione?
Buon. Or che ne dici, può darsi un disprezzo maggiore?
Fiu. Sapete quello che io ne dico? Che ho paura che
quel furfanto n di Raspa abbia stregonato il padrone, la pa-
drona, la figliuola, la cameriera e tutti quanti ; perché io non
mi ritrovo....
Buon. Mi ritrovo ben io, ed attribuisco tutto alla volubi-
lità di quella infedele di Clarice.
Fiu. Sapete come s' ha da fare a corbellarla? Si ha da
operare che suo padre ve la faccia sposare, giacché ve l'ha
promessa, ed io vi prometto di fare in maniera che ciò segua.
Buon. Come? Io sposare una, donna che non mi pigliasse
di genio? Non sarebbe lo stesso che unirsi ad un demonio,
ad una furia?
Fiu. Eh, quando cominciano poi....
Buon. Non me ne parlare. Anzi ho risoluto di ringraziare
Valerio e il signor Bonario, e sciorre onninamente il trattato.
Fiu. Ma prima bisogna pure intendere....
Buon. Non voglio intender altro. Il signor Bonario potrà....
SCENA OTTAVA
Bonario e detti.
Bon, Eccomi, signor Buonamìco ; che dicevi di me ?
Buon. Io signore.... Fiuta.
Fiu. Che mi comanda?
Buon. Di' tu qui al signor Bonario.
Fiu. Io? Glie lo dica pur da sé.
Bon. Che cosa c'è? Vi vedo molto sottosopra.
Buon. Eh niente, niente. Fiuta?
Fiu. Signore.
Buon. Parla tu, e spiega....
Fiu. Io non so spiegare, vedete, e per questo sono stato
sempre un bu\
Bon. Ma non si può sapere quel che vo' avete da dirmi?
Buon. Si signore. Fiuta non ti far più pregare.
Fiu. Volete dunque che parli io?
Buon. Si, tu: fammi questo servizio.
Fiu. Oh, ora vi servo. (A Bonario:) Il signor Buonamìco
con tutto il rispetto immaginabile.... (A Buonamìco:) dico
bene?
Buon. Si, seguita. '
Fiu. E con tutti i più ossequiosi ringraziamenti per la
bontà che avete mostrato per lui, in quanto al matrimonio
della signora Clarice.... (A Buonamìco:) Cosi?
Buon. Bene, bene.
Fiu. Vi prega a volerlo scusare, se ardisce di dirvi aper-
tamente.... (A Buonamìco:) Va bene?
Buon. Benissimo. Tira avanti.
Fiu. Se ardisce di dirvi apertamente che qtiesta sera vor-
rebbe che la faceste sua sposa.
Buon. Non è questo....
Bon. Volentierissimo. Oh che vo' siate benedetto, perché
non me lo dir sùbito da voi ?
Buon. Io, signor Bonario....
Bon. Eh via, via, perché peritarsi, se già ve l'ho pro-
messa ? '
Buon. Io non intendo....
Bon. Non vo' cirimonie. Fo questo parentado di -troppo
buon genio. Anzi, ora, guardate, vi voglio far venir qui la
Clarice. [Via.)
Fiu. Ah, ah, ah. (Ride.) Non vi ho servito nel coscetto,?
Buon. Ancor tu vuoi prenderti burla di me?
Fiu. Eh via, state zitto. So bene che non potevo secondar
meglio i vostri desiderj.
Buon. Ma tu ... .
Fiu. Ma voi mi avete voluto far parlare. * •
Buon. La mia intenzione però non era che tu parlassi in
quella forma.
Fiu. Dovevate dunque parlar voi.
Buon. Ma il mio cuore non poteva ridursi ad una si do-
lorosa risoluzione.
Fiu. Oh vedete dunque.... Ma eccola la signora Clarice.
SCENA NONA
Bonario, Clarice e detti.
Bon. a Clarice. Va' presto a parlargli: voglio cosi io, e te
lo comando. Tu hai da essere la sua sposa. (A Buonamico:)
Eccovela qui, ve la lascio, perché le possiate parlare con
libertà. Cosi si fa a far da padrone. (Via.)
Fiu. Ancor io me ne vado. Strigatevela tra voi. Non vo-
glio che mi scappi il raggiro della capitaneria. ( Via. )
Buon. E bene, infedele, posso io sapere il motivo de 7 vo-
stri disprezzi?
Clar. Ah traditore! me tacciate d'infedele, ed a me ri-
cercate il motivo dei miei giustissimi rigori? Perfido, crede-
reste ancora abusarvi della mia troppo grande facilità in cre-
dere ad uno spergiuro?
Buon. Io spergiuro? Se non avete altra difesa della vo-
stra infedeltà, che accusare la mia innocenza di mancanza di
fede, troppo deboli saranno sempre le vostre ragioni.
Clar. Le mie ragioni hanno tutto l' appoggio di una retta
giustizia ; e non ho cessato di amarvi, se non dopo che vi ho
riconosciuto per traditore.
Buon. Me traditore! Oh Clarice, Clarice, cosi ricompen-
sate quel grande affetto e venerazione, che ho sempre avuta
pel vostro merito?
Clar. Iniquo, ed ancora pretendereste ingannarmi eoa
queste lusinghe?
Buon. Ma che prove avete voi della mia malvagità, de' miei
tradimenti ? •
Clar. Le più chiare, le più evidenti che aversi possano.
Quelle che avete firmato co' vostri stessi caratteri.
Buon. Se non ne avete altre, la mia innocenza non teme
alcun giusto rimprovero, né condanna. Io bensì co' vostri me-
desimi caratteri posso convincervi d'. una infedeltà senza pari.
Clar. Dove, dove sono questi caratteri che mi condan-
nano per tale?
Buon. Questi son dessi. Ma non già voi potrete colla stessa
evidenza sostenere le vostre mal fondate querele.
Clar. Come no? (Mostra i biglietti.) Questo è pur vo-
stro carattere: qui si parla pure di un vostro matrimonio
concluso con altra, che colla vostra tanto amata Clarice. {Irò-
nicamente. )
Buon. Di un mio matrimonio con altra che con voi? Ah
siete delusa. Io no che noi sono, mentre in questo biglietto
apertamente mi dite non volermi amar più.
Clar. Io ciò vi ho scritto? Mentite.
Buon, le dà il biglietto. Negatelo, se potete.
Clar. E voi, se potete, negate che questi non siano sen-
timenti segnati di' vostra mano. (Gli dà i suoi biglietti. da-
scheduno legge da sé, con atti di maraviglia ; nel qual
tempo ritornato Bonario, parla in disparte.)
Bon. — Che gusto che ho di vedere che si divertiscano
un po' insieme i poveretti. Questa è invenzione di mia testa.
Clar. — Non posso negare il carattere, ma questi senti-
menti non son miei. — (Rilegge.)
Buon. Che io non abbia ciò scritto è verità infallibile, ma
pure la mano.... Che confusione! ( Rilegge. )
Boti. — Quanto godo che si - voglin bene a dispetto di
mia moglie! Le verrà la rabbia; il matrimonio è fatto adesso.
Clar, a Buonamico. E bene, che avete da rispondere?. La
confusione non vi lascia inventare altr' inganni?
Buon. Signora, in questo fatto ci è un evidente tradi-
mento e falsità. Io giuro non avere scritto né l'uno, né l'al-
tro biglietto. -
Clar. Come? non è quella vostra mano?
Buon. Ne ha tutta la somiglianza, ma indubitatamente al-
tri formò questi caratteri.
Clar. Me ne assicurate?
Buon. Ne chiamo in testimonio il Cielo. (Clarice sta
pensosa, e Buonamico V osserva.)
Bon. — Vorrei che quella diavola venisse adesso, e gli
trovasse insieme, perché vedesse quel che so fare. —
Buon. Ancor ne dubitate? Siete molto pensosa?
Clar. Pensava che siamo stati ambedue traditi. La cer-
tezza che questo biglietto (Mostra il biglietto che ha in
mano.) non è stato- scritto da me, e P uniformità del carat-
tere al mio mi fa creder vera la vostra asserzione)
Buon. Come? Non lo scriveste voi?
Clar. No certamente. Il mio era dettato di sentimenti af-
fatto diversi. Io mi lamentava con voi del matrimonio, che
avevate concluso, a tenore dell'asserzione fattamene da Raspa.
Buon. Da Raspa? Non accade altro: egli è il macchina-
tore di quest'inganno.
Clar. Mi uniformo ancor io alla vostra credenza, per-
ché egli....
Cip. di dentro. Che tutto sia presto in ordine.
Clar. in voltarsi, vede Bonario. Oh, signor padre. (A Buo-
namico con agitazione:) Signor Buonamico, ecco mia matri-
gna. Partitevene, per isfuggire ogni contrasto.
Buon. Ma.ì...
Clar. Fate a mio modo: sarà meglio, non è vero, signor
padre?
Boti. Eh, io me ne rimetto, e direi di si.
Buon. Parto per obbedirvi. ( Via.)
Bon. Sbrigatevi, fate presto.
Clar. Se V avesse la signora madre veduto meco, Dio ne
guardi.
Bon. Eh, se avesse voluto far da bellumora, Paverebbe
avut' a far meco. Le averei detto che vi avevo messi insieme
io, e che la volevo cosi.
Clar. In tal caso poi, quando voi mi aveste sostenuta....
Bon. Se io t' averei sostenuta ! Vorrei che fosse seguito,
e averesti veduto.... Oh, eccola tutta infuriata. Non aver
paura, ve'. (Si ritira.)
Clar. Dove va? Non mi lasci.
Bon. Sto qui da parte in tuo ajuto.
SCENA DECIMA
Ciprigna, Bonario a parte e Clarice.
Cip. Buonamico uscito di queste stanze! Ah sfacciata,
pettegola, che potrebbe far di peggio una baldracca?
Clar. Signora madre, non imputate cosi la mia onestà.
Cip. Che onestà, che onestà? Oh vedete bella fanciulla
onesta, che introduce gli amanti in casa, per trattenersi seco
a solo a solo.
Clar. Io non ho introdotto alcuno in casa.
Cip. Voi no, eh? Oh chi dunque è stato questi?
Bon. a Clarice. Non dire che sono stato io.
Clar. A me basta non essere stata.
Cip. E di trattenersi seco sola, lo negherete?
Bon. a Clarice. Non le dir che ci ero anch'io.
Clar. Io sola?
Cip. Voi sola, signora si.
Clar 1 . Eh, mi maraviglio di lei.
Cip. Serve a poco il dire: mi maraviglio di' lei. Bisogpa
nominar chi era con voi, perché vi sia 'creduto.
Bon. a Clarice, Non glie lo dire.
Clar. Lo vuol sapere?
Cip. Signora si, che lo voglio sapere.
Clar. Glie lo dirò dunque.
Bon. — Oh povero me! —
Clar. La mia reputazione, il mio decoro e la mia pudi-
cizia. Oh veda quanti personaggi ci erano.
Bon. — Manco male. —
Cip. Bei personaggi che mi avete citato, e veramente di
grande autorità! {Ironicamente.) Eh, andatevi a vergognare.
Una fanciulla.... Basta, all'avvenire ci- piglierò rimedio, e
vi terrò serrata in una camera a più chiavi. ( Via.)
Bon. Brava, la mia Clarice. Ti sei portata bene, via.
Clar.. Vi siete ben portato male voi. In cambio....
Bon. Via, via sta' zitta, sta' zitta, non ne parliam più.
Clar. Non ne parliamo più; ma intanto mi avete lasciata
nell'imbarazzo maggiore; e la mia riputazione....
Bon. Ora bisogna che vada fuori, sai? Ci rivedremo. ( Via.)
Clar. Che uomo mai che è questo mio padre!
SCENA UNDECIMA -
Strada.
Valerio e Buonamico.
Val. E quel briccone di Raspa aveva egli tramato questo
inganno, per cagionar tali rotture?
Buon. Ne abbiamo indizj si chiari, che non può mettersi
in dubbio.
Val. E mia sorella gli aveva creduto?
Buon. Una giovane è sempre suscettibile, particolarmente
negli affari di amore; e tanto più per aver egli si ben circo-
stanziato il trattato da lui supposto.
Val. Ma voi pure colla vostra accortezza dar nella rete?
Buon. 11 grande affetto cagiona sempre timore, ed il ti-
more non va mai disgiunto da una facil credenza. Ma senza
questo ancora: chi non averebbe creduto a i caratteri cosi
bene imitati di vostra sorella?
Val. Ma come supponete che sia egli che abbia ciò fatto ?
Buon. Come i biglietti erano stati portati da Tanga netto,
mi è riuscito facilmente con diversi interrogatorj suggestivi,
fattigli con molta accortezza, farmi da esso confessare che
monsù Raspa ha egli prima avuto in mano .i detti biglietti.
Val. Essendo ciò, non è più da dubitar del suo inganno.
Buon. Questo, grazie al Cielo, non può più nuocerci, ma
un 7 abilità simile di contraffare i caratteri, unita ad un animo
perverso, come il suo, chi sa quanti altri mali potrà cagio-
nare, ed aver cagionati alla vostra casa?
Val. Un uomo iniquissimo, come questo, non va lasciato
vivere lungo tempo. Voi sapete pure che indignazione mi si
è suscitata nel cuore più volte contro di lui; e senza le vo-
stre persuasioni averebbe a quest'ora pagata la pena delle
sue perversità.
Buon. Non vi dispiaccia esservi contenuto.
Val. con indignazione. Eh che tanta continenza! Siimi
gente non va sofferta; ed or mi sento più che mai accendere
il sangue.... (Infuriato.) In questo momento vado....
Buon, lo tiene. No, amico....
Val.. Eh, voi siete troppo .buono. Non crediate che io sia
più per lasciarmi.... Ma eccolo l'iniquo.
Buon, lo tiene. Abbiate ancor flemma.
SCENA DUODECIMA
Raspa, e detti a parte.
Rasp. — O destino perverso, cosimi tradisci? Mostrarmi
una bella apparenza pel buon fine della mie industrie, e poi
farmele tutte svanire in un punto! —
Buon, ritenendo Valerio che fa for\a. Non vi movete,
compie l'ascoltarlo.
Rasp. — Clarice mi fugge, e schernendomi sopra l' inven-
tato matrimonio, conosco aver ella scoperto l'inganno. Ma
ordirò ben io altre trame. — ,
Val. E ho da avere ancor pazienza? -
Buon. Si. (Sempre tenendolo.)
Rasp. — Ciprigna mi ha mostrato volontà di volerla forse
sposare a quel capitano francese che è qui giunto, e che
non si è potuto sapere ove sia alloggiato; ma troverò modo
ben io perché non segua. —
Val. a Buonamico. Che capitano?
Buon. Lo saprete.
Rasp. — A questo ancor s'aggiunge la perdita oramai
delle gioje cavate di mano a Ciprigna ; poiché dal discorso di
Tanganetto ho compreso averle ei consegnate a qualche furbo
vestito da Armeno, mentre, per quante diligenze io abbia
fatte, non mi è riuscito trovare in Firenze altro Armeno,
che il mercante, che non le ha avute. —
Buon, a Valerio. Parla delle gioje riscattate da Ve spina.
Rasp. — Ah, stelle inique, vi detesto, vi abomino. —
Buon, ritien Valerio che fa for\a. Fermo.
Val. E quest'empio si ha da soffrire!
Rasp. — Ma tentate in vano di frastornare i miei gua-
dagni ed i miei piaceri. Saprò a vostro dispetto arricchirmi
colla roba di Bonario, e con inganno, o in altra forma, far
mia l'amata Clarice. ( Via.) —
Val. infuriato tenta scappare da Buonamico, che sempre
lo ritiene. Ah«empio, scellerato. ( A Buonamico 🙂 Lasciatemi.
Buon. Lo chiedete in vano.
Val. contro Buonamico. Siete un cattivo amico, rende-
temi voi soddisfazione colla spada....
Buon. Oh, signor Valerio, è possibile che la vostra pas^
sione possa tanto sulla vostra ragione?
Val. pensoso per poco. Perdonatemi, il furore mi aveva
Buon. Non v'imputo questo ad errore contro di me, ma
bensì contro di voi; perché questi vostri furori vi potreb-
bono essere un giorno di gran pregiudizio.
Val. Ma quell'iniquo si ha da lasciare impunito?
Buon. Non già, anzi è necessario che sia gastigato come
merita: ma questo gastigo non dalle nostre mani, ma dalla
Giustizia deve riceverlo.
Val. Questo sarà il modo o di non ne far nulla, o di an-
dare assai in lungo.
' Buon. V ingannate. Voi non avete ancora esperienza di
tali cose. Abbiamo un. principe, che è giusto, e che vuole la
prontezza e la rettitudine ne' suoi ministri: io poi ho confi-
denza con uno di essi, cui si aspetta una tal causa, e adesso
di questo passo vado a trovarlo, per rappresentargli le ini- .
quità. di costui, acciò vi ponga rimedio opportuno.
Val. Se cosi è, mi rimetto. Andate pure.
Buon. Ci rivedremo. ( Via.)
Val. Mi quieto, ma non di troppo buon animo, sulle pro-
messe dell' amico. Più soddisfazione averei avuto a gastigare
quell' empio celle mie mani. Prego il Cielo però che non mi
si presentì più davanti, che non so se potrò contenermi;
come non so se potrò frenare il mio sdegno contro la per-
versità della matrigna. Che viene a dire ? Voler maritare mia
Sorella a suo capriccio, e di più ad un forestiero, che non si
sa.... Ma chi è costui che viene a questa volta?
SCENA DECIMATERZA
Fiuta vestito da soldato
con caricatura alla francese, con baffi, e detto.
Fiu. sen\a aver visto Valerio. Vive les arme, morbleu.
Val. si fa avanti guardandolo. — Che strana figura! non
• sarebbe già costui.... Ma.... Ma.... —
' Fiu. — Non mi ha conosciuto; mi prenderò seco un
po' di spasso. — Belle sittade eh', è queste Florensia!
Val. — E Francese. Chi sa che non sia quel capitano. —
Fiu. Set un peccat che non sie à le bord de la mar, comme
Ligurne. (Mostra discorrer da sé.) Ma dove trovar la si-
gnore Siprigne?
Val. — Egli è desso senz'altro; mi sento agitare il cuore
per la collera.
Fiu. — Non sa nulla del 'travestimento; sarà più bello
lo spasso. -*-
Val. — Non posso contenermi. — ( Gli passa avanti, lo
guarda in viso, e dopo averlo esaminato da capo a piedi,
lo prende per la manica del giustacore, che sarà fuor di
moda, dicendogli con derisione:) E questa l'ultima moda di
Francia ?
Fiu. facendo il bravo. Uf, la mode, quest'è belle! La
mode, monsieù, la mode.
Val. Non sareste voi già un certo capitan 1 di nave fran-
cese venuto a Livorno...?
Fiu. Je sone le capitene de le navire franscese venut' à Li-
gurne. Che sci volet dir?
Val. E qui volete parlare ad una certa signora Ciprigna,
che ha un figliastro ed una figliastra....
Fiu. Serte. E chi me le vudrà impedir? Morbleu !
Val. lo guarda, e ride con ' aria dispreizante. Ah, ah,
ah; la bella figura!
Fiu. cacciandosi il cappello con due mani, e mettendo
poi la destra sulla spada. Comman sgerni diable ! A un '
homm' come moè? Par la mor!
Val. con fermerà e serietà. E che pretendereste di fare
di quella spada?
Fiu. in maniera raddolcita. La vender, monsieu, vulete
la comprar?
Val. tirando la spada. Gli uomini d'arme non sfuggono .
cosi vilmente le occasioni di battersi. Tjra quella spada, o
che t'uccido.
Fiu. Eh, signore, io sono uomo di lettere, e non d'armi;
che non riconoscete il vostro Fiuta?
Val. si ritiene perplesso, guardandolo. Ma perché in que-
st' abito, e perché non ti far conoscere sul bel principio?
Fin. Non averei avuto questo gusto, se mi fossi scoperto
da prima. La mutazion cieli' abito poi è per ingannare la vo-
stra matrigna. Che non ve l' ha detto il signor Buonamico?
Val. Mi ha detto volermi palesare non so che cosa del
capitano, ma poi non ha avuto tempo a parlarmene, per le
cagioni che ti si diranno.
Fiu. Vi racconterò io dunque tutte le mie macchine e
raggiri, che spero far giuocar bene a vostro profitto, ma non
è tempo di contarvele qui: si fa tardi, e mi conviene far la
visita in questa forma alla vostra matrigna, che so mi sta
aspettando.
Val. Ma se ti riconosce?
. Fiu. Mi avevi riconosciuto voi, che mi volevi sbudellare?
Val. Per dirtela, la bile....
Fiu. Si, si, la bile e la linfa. Voi sempre avete cinquanta
mine in corpo, e gli date fuoco a tutte a un tratto. Ma tor-
nando a noi., io mi trasfigurerò ancor di più, perché non mi
abbia da conoscere, e poi il nome che ho preso Della Timo-
nière, che ho saputo esser quello del suo capitano, e il par-
lar .tutto alla francese serviranno ad ingannarla di più, giac-
ché so che non le è noto che io sappia questo linguaggio,
Val. Ma che pretendi con ciò di fare?
Fiu. Andiamo, andiamo; lo saprete: adesso non ho tempo
da perdere.
SCENA DECIMAQUARTA
Sala.
Cipriota sola esce, parlando verso la scena.
Che si mandi a prendere dell' acque fresche e delle, cioc-
colate. Che il magnano ed il fornajo di casa, e quei due con-
tadini, che ho fatto Testare, stiano alla porta colle livree ad-
dosso, e siano preparate le torce in caso di bisogno* E sopra
tutto che quel gaglioffo di mio marito non si lasci vedere. ( Si
volta, parlando verso V udienza.) Il signor capitano Della Ti-
monière non dovrebbe star molto a venire a farmi la visita,
di che si muor di voglia ? a quel che mi ha detto oggi Fiuta.
Questo servitore, sottosopra, sarebbe un buon servizio, se
non l'avessero guastato i miei figliastri. E ritornato da me
con una premura, che non si può dir di più, per ringraziarmi
da parte di quel signore dell' avere io voluto visitarlo la
prima, e per significarmi il gran dispiacimento che ha avuto
che io non l'abbia trovato. E non 4i poteva trovar né meno,
perché dice che era andato a vedere alcuni palazzi, per fer-
marli per sua abitazione. Mi ha detto che è uomo franco, li-
bero e senza suggezione, giusto come sono i Francesi e di
più soldati, che non sta in galanterie, e che se ne va alla
militare; ma che però è uomo di coraggio e bravo soldato
per mare e per terra. Io ci ho già fatto due assegnamenti al-
meno, uno di andar seco a Livorno, e V altro di vedere se
gli potessi dar Clarice, quando egli è per tornarsene in Fran-
cia, e mandarci nello stesso tempo Valerio, per levarmegli
tutti e due d' intorno. Raspa non vorrebbe in quanto a Cla-
rice, ma spero di farcelo poi acconsentire, perché le sue ra-
gioni non mi paiono troppo forti. ( Si sente romore dentro,
come di gran gente.) Ma che romore è questo? Sicuro, sarà
il capitano: olà, chi è li? Non vorrei....
Fiu. di dentro. Mon ami, u è madame ?
Cip. tutf agitata. E lui certamente: chi sa come mi sto.
(Si accomoda. )
SCENA DÉCIMAQUINTA
Fiuta da capitano, con cerotto a un occhio,
zoppo da un piede, e detta.
Fiu. Madame, u eté vu'? Ah vus eté isf, ma prensesse;
suffrite che je vu confess, madame, che le curasge de ma
curiosité non ha potute tenir pie' ferme à le tambur battent
de votre merde.
Cip. Signor capitano, ella si compiace onorar troppo una
sua umilissima serva: e che può ella trovare in me che sia
plausibile?
Fiu. Pardi, madame. La renomé, la Fam de votre sciar-
mante bellesse a cosat (i) più de tampète e de nofrasge in
tutt' Ligurne, che le più fier sirocc in tutt' la mar.
Cip. La fama è spesso bugiarda, e V. S. I 1 a vera speri-
mentata tale adesso, che non trova in me le qualità che
supponeva.
r Fiu. Le diable m' àmporte, si le vostr' occh'insendiarj non
anne J fatt tjrescie à le prime sguard ne le più for baluard de
de mon chier.
Cip. Un si forte campione (\ì Marte, com' ella è, non è
credibile che abbia si presto ceduto ad attacchi si deboli.
Fiu. Vu vu trompat, madame; vu v' ingannat. Le più
bravi soldat'annebattut lo sciamade (2) à l?amur. Sesar de
brusche memorie randett la piasse de sa liberté à la batte»
rie des occh de Cleopatre. E je, chi ne he perdut un, comm
vu vedet, in un fier combatt, e non ha sedut punt le mie
bravur à les assalt de le nemic, me à le cólpi de votre bel-
lezze, sge tramble, madame, je treme.
Cip. Non averei mai creduto, signore, che, qualunque si
sia questa mia avvenenza, dovesse cagionare si terribili ef-
fetti. Ma per verità è stato un danno la perdita di quella vo-
stra pupilla.
Fiu. Eh, una bombe, madame, crepate subit .... eh, eh,
la gherre donne de quest regal. Je però me ne serve qual-
che volt, benché non si ved.
Cip. E a che mai se ne serve?
Fiu. Per lesger les escritture de le mie creditor. E subit
let, subit pagat.
Cip. Ed a cotesta gamba che strana avventura le è ac-
caduta ?
Fiu. Ma sgiamb veramente ha patit un poeti, perché vult
fer resistanse à une balle de cannon.
SCENA. DECIMASESTA
Bonario e detti.
Bon. a Ciprigna. Moglie mia cara, quella povera ragazza
cosi rinserrata....
Cip. a Bonario.. Via, zitto: chi v' insegna, scimunito, venir
qui a far mostra di voi, per far disonore a me e alla casa! 1
Bon. O come a dire? Non sono da vedere e da mostrare?
E poi io credo che il marito possa colla sua moglie....
Cip. Che moglie, che moglie? Via di qui. A chi dico io?
Bon. Ma....
Cip. Temerario, se non fosse il rispetto che porto a que-
sto signore, ti vorrei far vedere.. .'. A noi, vattene di qui. (Lo
spinge dentro.) Venire ad interrompere la conversazione d'un
signore di questa qualità!
Fin. Eh, madame, chi è quest barbosge là, s' é votre mari ?
Cip. Mio marito? Il ciel me ne liberi: mostrerei aver
avuto cattivo gusto.
Fiu. Me ho sentit che vu chiamar mie moglie.
Cip. Le dirò; questo é il maestro di casa, che da poco
in qua patisce di tanto in tanto di debolezze di cervello, né
sa quel che si dice.
Fiu. Quest' è le vostre metre de case, chi s' appelle Rasp ?
Cip. Come sa ella il suo nome?
Fiu. Il è conusciut par tutt: s'è le più gran frippon, le
più gran furb che sie sopre le terre. Je ne ho intes parlar à
Ligurne, ove an dett'che ha mandat à vender serten bisgiù.. .
Cip. Che cosa?
Fiu. Sert sgioje pur le press de sench sent escud.
Cip. Gioje per cinquecento scudi eh?
Fiu. Sertament.
Cip. E che gioje erano?
Fiu. Un ves (i) de perle: un otre de dia man, une baghe
sioè un anelle bellissime, bellissime, chi valev sent doppie;
me Va vendut par une bagattelle.
Cip. — Queste sono le mie gioje per l'appunto, e a me
mi ha detto che V Armeno non gli ha dato risposta. —
Fiu. — La bietta ci è calzata. —
Cip. — Comincio a sospettare. —
Fiu. Un mercant franscese vulev lo far meter an prison,
perché li ha derobat un orologie d'or d' Angleterre; me
come ha saput che vu serviv, non ha vulut vu disgustar.
Cip. Sono bene obbligata a questo mercante. Ora intendo
perché non voleva andare lui a Livorno*, e non voleva che
ci andasse io.
Fiu. E aspettav che vu medesim fussi venut à Ligurne,
pur vu ne parlar. Me à proposit, quando sci verret?
Cip. Io veramente ho pensato darci una scappata, ma....
Fiu. Ui, ui, madam, i fot i venir; bisógne venirsci pur
no far disperar tutt' quelli signor chi vus attende, e chi an
preparat tant bel féte pur vu divertir.
Cip. lo, come ho detto ( vi verrei, ma, non avendo eoa
chi venire....
Fiu. Parbleu, je vu terre compagnie.
Cip. Questo sarebbe un onore che io non merito.
Fiu. Pardi. ( Le porge la mano. ) Tuscé, madame, s' et un
affer fet. È negosie fatte; mete vus all'orden.
Cip. Ma quando pensarebbe di partire?
Fiu. Queste nott medesim, pur non me differir le piaser
de servir une si sciarmant perso a ne.
Cip. Cosi presto?
Fiu. Oh, oh, nus otre soldat siam spediti v.
Cip. Ma e dell' affare che ella sa del mio figliastro, quando
ne parleremo?
Fiu. A Ligurne.
Cip. Averei voluto anche trattar seco di un altro negozio
risguardante la sorella di lui.
Fiu. Farem tutt' a Ligurne avec comodité, con comodité.
Cip. Ma se questi non ci saranno?
Fiu, Farem le venir. Allon, allon, ma p re n sesse, non per-
diam terap, e partiam segretaman.
Cip. Si, ho caro anch'io di partire senza che alcuno lo
sappia, ma non averò i miei abiti tutti all'ordine.
Fiu. Non sci è bisogne di tant abiti. A Ligurne je vu ne
traverò de Franse medesfm; e pur le vojasge, comme vu
viasgeret con un Capitenne, vu devet andar abbiglié, vestit' an
amazone, messe homme e messe donne.
Cip, Questa vestitura mi piacerebbe, perché è sbrigativa
e propria da viaggio.
Fiu. E bien, ma sciarmant, je vad espedir un afifer, e in
un moment je ritorne.
Cip. Vada pure, starò attendendola.
Fiu. Frattant non vu scordat de chi vous estim' otant
ch'une impera trise. ( Via.)
Cip. Serva devotissima. (Chiama.) Olà: chi è li? Torce
al signor capitano della Timonière. La fortuna non mi po-
teva essere più favorevole: vado a Livorno con un signore
di qualità, che mi farà fare molti onori; manderò i figliastri
in Francia, e farò conoscere che io non' ho dipendenza da
alcuno, né meno dal marito medesimo. Quanto a Raspa co-
mincio ad esserne disgustata, e partirò senza sua saputa, per-
ché non m' intorbidi V affare. Quel che mi dà pena è il tro-
var cosi sùbito un abito, come diceva il capitano, da amaz-
zone. Credo d' averci qualche casacca da maschera, ma i cal-
zoni.... zitta, prenderò quelli che mi cedette la prima sera
quel babbeo di mio marito. Or bisogna òhe mi metta ali 7 or-
dine, non ho tempo da perdere.
SCENA DECIMASETTIMA
Strada, notte.
Bonario solo con lanterna.
Canchero, la cosa va peggiorando assai a quel eh 7 io veggo
Né meno son padrone di lasciarmi vedere a chi viene in casa
mia, e di chiamare la mia moglie: mia moglie. Oh da quando*
in qua è venuta l'usanza che l'aver marito a una donna sia
disonore, e quando è qualcuno a farle visita, il pover uomo
sia obbligato a fuggirsene come un appestato, né possa ve-
dere i fatti suoi né meno dal buco della chiave? O Va 1 a tor
donna a' tempi d'oggi! Prima si sentiva dire qualche volta
ne 1 matrimonj : gli hanno affogato quella povera fanciulla, ora
bisognerà sempre dire: quel pover uomo è affogato pel verso.
Ne poss'io veder di più? Una figliuola rinserrata come in pri-
gione, un figliuolo esiliato come un bandito, la servitù cac-
ciata come furfanti, e '1 marito trattato in modo, che io me
ne vergogno solamente a pensarlo. La disperazione mi ha
cacciato di casa, e la disperazione credo che mi farà. ... (S^ in-
contra in Buona mie o.)
SCENA DECIMOTT AVA
Buonamico, Valerio, Vespina e detto.
Buon. Oh dove si va, signor Bonario, su quest'ora?
Bon. A 1 pazzarelli, o a dare un tuffo in Arno.
Buon. Che cosa dite mai?
Bon. Oh,. vedete: una delle due m'ha da accadere; son
disperato.
Val. Cosa ci é di nuovo, signor padre?
Bon. O sei qui, figlio mio? La disperazione mi vuol far
fare qualche sproposito.
Vesp. Eh, signor padrone, se volete far qualche spro-
posito de' più piccoli, non cambiate almen quello di dare sulla
testa alla moglie, che per lo meno ne sarete lodato dalla mag-
gior parte de' mariti d' oggigiorno.
Bon. La lo farebbe ben lei di dar sulla testa a me, e la
me l'ha anche minacciato.
Val. Come? Ed ha avuto tanto ardire? Quando? In che
maniera?
Bon. In maniera, ch'ella mi ha minacciato e mandato via
come un ladro alla presenza d' uno, eh* ella chiamava signore,
e che a me pareva il bidello della Compagnia degli Storpiati;
e sé non me n' andavo, la m' averebbe anche messo le mani
addosso.
Buon. Non era già un capitano di nave?
Boti. Io ho piuttosto che e' lo fosse di galea. Basta, questa
la m'è scottata molto. Se fossimo stati a solo a solo, pur .
pure la non mi sarebbe giunta nuova, perché la me n' ha
fatte dell'altre delle billere a quattr'occhi; ma alla presenza
d'altri, e di più d'un forestiero....
Val. Signor padre, per questo capo non vi pigliate pena.
Boti. I'mi piglio pena pel capo e per le spalle io.
Vesp. Ma non sapete chi era quel capitano?
Boti. Che vo'tu ch'i sappia? Un brutto coso er'egli, poi.
Val. Quello era Fiuta.
Boti. Eh, Fiuta m' incupola! (1)
Vesp. Era lui davvero, davvero; non ci pensate.
Boti. Come diavolo!
Buon. Signor si, Fiuta, che si è travestito in quella forma,
per ingannare la signora Ciprigna, anzi per metterla a dovere
e nella buona strada.
Bon. Ed ho paura che voi altri siate fuori di strada e
ingannati pel verso.
Val. Signor padre, non ne dubiti, la cosa sta cosi certo.
Bon. Ma se egli era tutto storpio, con un occhio intassel-
lato, e poi era franzese.
Buon. Tutto ciò è stato da lui fatto ad arte, pel fine che
vi si è detto. (Bonario sta dubbioso.)
Vesp. Non ci pensate, vi dico. Era lui, luissimo; se l'ab-
biamo lasciato adesso, e ci ha raccontato in poche parole
tutta la scena fatta colla signora.
Buon. Cosi è, e ci ha istruito di ciò che è per fare, e di
quel che dobbiamo operar noi: ed ora appunto venivamo a
trovarvi in casa per farvene tutto il racconto, e dirvi che
Raspa sarà fatto prigione.
Bon. Prigione? O via,* dite su dunque perch'i 7 mi sento
far tanto di cuore.
Val. In casa, in casa la discorreremo, perché bisogna che
ci andiamo speditamente; anzi è necessario entrarci di na-
scosto, e perciò sarà bene passare per la porta dell'orto.
Vesp. Ma, e la chiave?
Val. Il signor padre la suole aver sempre appresso di sé.
Bon. Si, si, l'ho qui'n tasca.
Buon. Non perdiamo dunque più tempo.
Val. Andiamo pure. •
Bon. Tei corro come la gatt'al lardo.
Vesp. Ed io come il corvo alle carogne.
SCENA DECIMANONA
Raspa e Tanganbtto.
Rasp. E l'hai veduta uscir di casa col capitano?
Tang. Ser si. Con quel che ha un occhio solo, e che
fa lierenze (i) a ogni passo, che è stato in casa stasera a
i tardi.
Rasp. — E lui certamente, ed è probabile che la con-
duca a Livorno. — Ma hai inteso nulla di quel che dice-
vano?
Tang. Lui non lo carpio; ma liei ho carpito che ha detto:
A che ora ci sarem noi a Ligorno?
Rasp. — Non occorr' altro ; la cosa è come me la sono
immaginata. O diavolo, me la potevi far peggio? Son rovi-
nato, se ella parte: corro a vedere se posso trovarla, e im-
pedirglielo. — Tu vieni con me. (A Tanganetto.)
Tang. l'errò d'i sicuro; eh' are' io a far qui aibujo?
SCENA VIGESIMA
Prospettiva della casa di Bonario, con porta e ringhiera.
Fiuta, da capitano, e Ciprigna, vestita da nomo e inferrajolata, in
strada; e poi Bonario, Valerio, Clarice, Buonahico e Vespina
alla ringhiera.
Fiu. Je vu die che la é lassat en case vostre.
Cip. Averete sbagliato, signor capitano, perché non m'é
parso che ci abbiate lasciato né borsa, né altra cosa.
Fiu. Oh vantrebleu! pur chi me prendet vui? Pur un
busgtard ?
Cip. Io la stimo per quel signore ch'ella è; non entri in
collera, mi pareva cosi.
Fiu. Me vu sci fat de la difficulté.
Bon. comparisce cogli altri alla ringhiera. Vo' dite che
l'ha da venir qui in strada, eh? (Ciprigna e Fiuta parlan
basso fra loro.)
Buon. Senza dubbio.
Val. Cosi ci ha assicurato Fiuta.
Bon. Ma io non sento nissuno.
Vesp. Date tempo al tempo.
Fiu. Je la é lassat dan le votre cabinet, quand me aver
cambiat quelle dopie de Spagne.
Bon. Zitti, mi par di sentir gente.
Cip. Andiamo dunque; ma non vorrei che incontrassemo
qualcuno.
Fiu. Si je credess rancontrar le diable, volie riaver le mie
burse, u son soessant dopie e da vantasge.
Cip. Se ella è nel mio gabinetto, la riaverà senza fello.
Andiamo. ( S' incammina. )
Fiu. — Oh diavolo! Non sento alcuno alla ringhiera; bi-
sogna pigliar tempo. —
Cip. Ella non viene, signor capitano?
Fiu. Je scercav in mie saccosce, se. . . . ( Finge cercarsi in
tasca, e poi tosse e si spurga, )
Val. Son loro : quello è il segnale. ( Si spurga. )
Fiu. sentendolo spurgo. Allon, allori, madame, non me
son engannat; è in case votre sens dubie.
Cip. Ma mi pare....
Bon. State forti tutti, vedete; non mi abbandonate.
Fiu. Che vu par?
Cip. D'aver sentito gente.
Fiu. Che me import la sgent, le mie burse me import.
Cip. Ma l'entrare in casa adesso, si verrà, a scoprire....
Fiu. Queste son des escuse. Si je non ho le mie denar,
par la mor....
Cip. Non s'alteri, non s'alteri: apro adesso la porta. ( Va
per aprir la porta, e trova serrato).
Bon. Cu, cu, l'uscio è serrato, non s'entra più.
Cip. — O Cielo ! mio marito che* mi sbeffa. —
Fiu. Vui non uvrit?
Cip. È serrata la porta per di dentro.
Fiu. Che serrat, che serrat? Uvrit, 'vu die; o je con que-
st' espade ....
Cip. Adesso, adesso mi farò aprire. — Questa è una be-
stia, bisogna entrare in casa, e mandar tutti i riguardi da
parte. — (Bussa.)
Bon. Chi è?
Cip. Son io, aprite.
Bon. E chi siete?
Cip. La vostra moglie. Aprite, vi dico.
Bon. E io sono il vostro marito, e non voglio aprire.
(A Valerio:) Che ne dici, figliuolo?
Val. Bene, signor padre.
Cip. Olà, che risposte son queste? (Bussa forte più
volte. )
Bon. forte. Vespina, dammi il mortajo, che ne vo'fare
una cuffia alla me 1 povera moglie, acciò non infreddi a que-
st'aria notturna.
Fiu. che stava a parte, prende sdegnato Ciprigna. Me
quand vu disbrigat?
Cip. Le sessanta doppie glie le darò di mio.
Fiu. Me je sci ave v un anelle de sinchesent dopie.
Cip. Ma che ci ho da fare, se non voglion aprire?
Fiu. Comman, pardi! Je casserò le porte, je bruscierò le
meson. Je....
Cip. Signor capitano, abbia un po' di pazienza «...
Fiu. Che pasiens, che pasiens? Quest'è un assassinament.
(Si sbatte infuriato.)
Cip. — Oh povera me, in chi ho io dato? — Aprite,
(Bussa.) dico, aprite, e adesso.
Bon. Non voglio aprir, dico, non voglio aprir mai.
Cip. torna a Fiuta. Signor capitano, . non sente che non
vogliono aprire? Io non ci ho colpa.
Fiu. Vus ete d'accord. Ah par la vantrebleu! Sgerni-
diable! Je prendrò tutte quelle che pos. (Le porta via il fer-
raiolo, cappello, e resta in calzoni del marito, e con una
casacca a me\\a coscia.)
Cip. Signor capitano, signor capitano. Oh povera me!
È fuggito questo briccone : ahimè sono assassinata ! Chi sarà
ora per me ? Oh almeno il mio Raspa, dov' é il mio Raspa ?
SCENA VIGESIMAPRIMA
Raspa, Ciprigna, Tanganetto, e detti alla ringhiera.
Rasp. Questa è la voce di lei.
Cip. Ah traditore!
Rasp. Signora, ove siete? Che vi è accaduto?
Cip. O Raspa mio, siete voi? Il Cielo vi ci ha mandato;
sono stata tradita, sono stata assassinata.
Rasp. In che maniera? Da chi?
Cip. Quel capitano era un briccone, un ladro, che mi ha
tradito, e portato via....
SCENA VIGESIMASECONDA
II caporale degli sbirri con squadra, e detti.
// caporale. Ferma alla guardia.
Rasp. Che ci è di nuovo?
Buon. Gli sbirri, che ^cercano Raspa.
Capor. volta la lanterna a Raspa. Te volevo. (Agli
sbirri:) Legatelo, e conducetelo in segreta. {Lo prendono.)
Cip. Eh, signor caporale, non è questo il ladro : egli è fug-
gito per di qua.
Capor. Questo è Raspa del Truffa, e tanto mi basta.
Rasp. Ma il perché?
Capor. Il perché lo saprai poi. Legate anche quel suo
ragazzo.
Tang. Oh signori lustrissimi, ajuto, ajuto, io non ho fatto
nulla. (Piange.) Uh, uh, uh. (Gli sbirri partono co' pri-
gioni. )
Boti. L'han carpito il furfante.
Cip. Oh meschina! ancor questa mi mancava! Che farò?
dove anderò?
Vesp. Questa la non se V aspettava.
Clar. Non poteva giungere più a tempo.
Cip. Ma di tutto è cagione quel birbon di mi 1 marito.
( Va verso la porta ì arrabbiata. ) Dove sei, marito temerario ?
Aprimi questa porta. .
Boti. Chi è quella che comanda cosi a bacchetta?
Cip. Sono la tua moglie, che comanderò anche a bastone.
Bon. Vediamo un po' questo bel cesto, che vuol coman-
dare a bastone: datemi il lume. (Portano due candelieri.)
Buona sera a V. S.
Cip. si volta. — Che vedo ! Tutti si sono accordati a tra-
dirmi; ma se rimetto il piede in casa! —
Bon. Oh siete voi, signora consorte? Ben tornata di Li-
vorno: come avete auto buon viaggio? Sarete stracca pove-
rina! Ma siete molto vestita alla leggiera; che avete coreo
la posta?
Cip. Il malanno che il Ciel vi dia. Aprite la porta, altri-
menti ....
* j/. Pian piano, aignora matrigna: in questa casa V. S.
ha finito di comandare.
Buon, Se ne dia pace, signora Ciprigna: il signor Bonario
vuol egli alP avvenire far da padrone, com'è.
Clar. Ed egli, e non V. S., mi ha da tenere rinserrata,
se vorrà.
Vesp. Lui, e non altri, ha da pigliare, e mandar via la
servitù.
Cip. Ah, iniqui traditori! Giuro al Cielo....
SCENA ULTIMA
Fiuta vestito al suo solito, e detti.
Fiu. Oh, signora Ciprigna, come qui V. S. a quest'ora e
in quest'abito, e tutta sottosopra? Che l'è mai accaduto di
strano?
Cip Tutti mi hanno tradito, tutti mi scherniscono, e quel
traditore del capitano .... Ah perché non gli ho io fra l' ugne
e fra i denti?
Fiu. Il capitano....
Cip. Si, quel briccone del tuo capitano era un furbo, un
ladro, un assassino.
Fiu* Mio ? Dica pur suo. Ma che le ha fatto ? ( Fra loro. )
Bon. Oh gli è pur Taravo quel Fiuta.
Vesp. La sa tutta ve'.
Cip. Ecco qui come mi ha ridotta, e mi ha lasciata. Ah
iniquo, ah traditore!
Fiu. Ma perché in questa vestitura cosi impropria di lei
e del suo decoro?
Cip. Egli mi ha fatta vestir cosi con inganni, e poi mi ha
portato via il ferra jolo ed il cappello. Era un briccone, un
ladraccio, un manigoldo.
Bon. Lasciate fare a lui, che la ridurrà a segno.
Fiu. Vedete come vàn le cose. Chi non P averebbe cre-
duto un uomo di garbo? Eh se ne danno di questi marioli,
che studiano e campano su questi tiri.
Cip. Ah se io potessi.... Voglio con queste mie mani ... .
Perché non son io....
Fiu. Eh non s'agiti di più: se ne vada in casa, che non
sta bene qui fuori in questa forma.
Cip. Quei furfanti, quei traditori mi hanno serrata fuori,
e non vogliono....
Fiu. Serrata fuori? E chi?
Cip. Non gli vedi lassù, che mi stanno a sbeffare?
Fiu. Oh to', il signor Valerio in casa; Vespina e il signor
Buonamico ancora accanto alla signora Clarice di più. E
come mai ....
Cip. Ah che si son accordati tutti: tutti si sono accor-
dati a schernirmi.
Fiu. Eh, che non sarà poi vero. Ha ella provato a andar
seco colle buone, e raccomandarsi?
Cip. Io raccomandarmi?
Fiu. Oh, che lo averebbe a vergogna?
Cip. Io, che sono la padrona, raccomandarmi?
Bon. La padronanza è finita.
Vèsp. Eh, si : la padrona di starsene ali* uscio.
Fiu. Al sentire, signora mia, il padrone vuol essere il si-
gnor Bonario, e sottosopra credo che abbia ragione.
Cip. Ma se egli mi cedette....
Fiu. Eh, queste sono cessioni, che si rassomigliano ai giu-
ramenti degP innamorati ; tengon forte quanto la saliva. Creda
a me, ne 1 bisogni convien fare della necessità virtù.
Cip. — Proverò a raddolcirmi. — Orsù voglio fare a tuo
modo.
Fiu. Ora farà bene.
Cip. a Bonario. Signor consorte, la prego a volermi aprire.
Bon. Signora consorte, la prego a. stare un po' fuori.
Cip. Ma permetterà che la sua moglie stia cosi in istrada
a quest'ora?
Bon. Lo permetterò benissimo: chi l'ha fetta uscire?
Cip. Signor Valerio, signora Clarice, mi raccomando a voi.
Val. Il padrone è il signor padre.
Clar. A lui tocca a disporre di tutto.
Cip. Signor Buonamico, almeno lei voglia dire qualche
parola per me.
Buon. Le mie persuasive non han merito, che basti per
una risoluzione di tanta importanza.
Cip. Io darò dunque in disperazione, giacché tutti mi
hanno abbandonato, e tutti sono contro di me.
Fiu. Veda come vanno poi le cose, signora. Ella ha irri-
tato ogn' uno, e adesso non ha un cane che sia per lei: bi-
sogna mantenersi tutti amici, per aver poi chi ci aiuti nei
bisogni: Ma io non la voglio abbandonare.
Cip. Ti sarò bene obbligata, Fiuta mio.
Fiu. Lasci fare a me, purché però ella seguiti i miei con-
sigli.
Cip. Non mi partirò da quel che vuoi. Che farò meschina ?
Dove anderò cosi abietta e vile?
Fiu. va verso la ringhiera. Signor Bonario, almeno, in
grazia mia voglia aprire alla signora, che pentita....
Bon. Non ne voglio- saper niente.
Fiu. s'inginocchia. Eccomi qui umiliato a supplicarla, a
scongiurarla....
Bon. Cotesta donna costi, che è una spiritata, hai da
scongiurare, e non me.
Fiu. si a\\a. Eh via, si lasci piegare.
Bon. Lei s'ha da piegare, e non io.
Fiu. La signora Ciprigna s'accomoderà a tutto quel che
ella vuole.
Bon. I miei calzoni rivoglio.
Fiu. E lei glie li restituirà.
Bon. Ora in questo punto; che se gli cavin costi.
Fiu. Venga pur giù, che si accomoderà ogni cosa.
Bon. a quelli che sono appresso di lui. Eh, venite anche
voi altri, e statemi alle costole, ve".
- Val. Non si dubiti.
Buon. Siamo con lei.
Fiu. a Ciprigna. Ora, signora padrona, (che per tale la
riconoscerò sempre) bisogna che ella si spogli di tutta
quella autorità, che non se le conveniva, e la rimetta in
mano....
Cip. Come ? Io averò da esser sottoposta a' miei figliastri;
e il marito mi a vera da trattare come da schiava?
Fiu. Signora no, signora no; lei ha da esser rispettata
com'è dovere, ed in casa.... si rimetta in tutto e per tutto
in me, e poi si lasci servire.
Cip. Fiuta, non mi tradire.
Fiu. Non si dubiti; ella sentirà da sé quel che vo 1 fare
in suo favore; ma bisogna lasciar da parte V alterigia. w ( Va
verso la porta, d* onde vengono tutti.)
Cip. — Sono pur troppo umiliata e confusa. —
Bon. Eccoci; ora che si ha da fare?
Fiu. V. S. ha da abbracciare qui la sua signora consorte
umiliata e pentita, e che promette non si prender più mai
altra autorità di quella che piacerà a lei di darle; riconci-
liarsi con essa, e rimetterla amichevolmente in casa.
Bon. V rivo' prima e' me 1 calzoni, e sentire dalla sua bocca
se veramente si accorda a quel che tu dici.
Fiu. Ma che ne dubitate ? Non vedete che'ella piange per
pentimento?
Bon. Eh delle lagrime delle donne me ne rido: ho sen-
tito sempre dire che la natura glie le dà facilmente, per pur-
gar loro il cervello.
Val. Quando ne hanno però.
Fiu. Or questo della signora Ciprigna è ripurgato a ba-
stanza, e però venite qua. ( Unisce insieme Bonario e Ci-
prigna.) Abbracciatevi tutt' e due di buon cuore, e rifate
la pace. Voi, signora, avete a riconoscere il marito come
superiore, e voi, signor Bonario, la moglie come vostra
eguale.
Cip, s'inginocchia a Bonario. Eccomi, signor Bonario,
a 9 vostri piedi, domandandovi perdono degli strapazzi e dis-
gusti, che vi ho cagionati colla mia alterigia, promettendovi
che alP avvenire dipenderò onninamente dalla vostra volontà.
{Piange.)
Bon. comincia a piangere, e si vuole inginocchiare. Ed
io, moglie mia cara....
Val. Signor padre, senta una parola. ( Lo tira a parte,
impedendoli V inginocchiarsi, e poi sottovoce:) Che vor-
rebbe fare? Non si avvilisca.
Bon. a Valerio. Hai ragone; ma la poverina....
Val. Le faccia pur cortesia, ma con sostenutezza»
Bon. Moglie mia, alzatevi, e non piangete. Ecco che io vi
abbraccio, e voglio che si stia sempre in pace e allegrezza.
Fiu. O che voi siate pur benedetti. Avete da far conto
d'essere sposi della prima sera.
Bon. Ma la disputa de 1 calzoni non ci ha da essere?
Cip. Assicuratevi, signor consorte, che non mi verrà più
pensiero di mettermeli, e saranno a voi restituiti.
Fiu. Ora voi, signor Valerio, riconoscerete sempre la si-
gnora per vostra madre, ed ella vi amerà come figlio.
Val. Averò per essa tutto il rispetto immaginabile.
Cip. Ed io per voi tutta la tenerezza di madre.
Fiu. In quanto poi alla signora Clarice, giacché ella è
destinata in isposa al signor Buonamico, supposto ancora il
consenso della signora Ciprigna —
Cip. Non replico a quel che ha determinato mio marito;
tanto più che devo desiderare ogni contento e vantaggio di
lei, e presentemente riconosco che maggiore non può tro-
varne, che unirsi ad un giovane di tanto merito.
Clar. Signora madre, le protesto che sempre me le di-
mostrerò per figliuola.
Buon. Ed io riconoscente delle mie obbligazioni.
Vesp. E di me non se ne dice nulla, eh?
Val. Tu (se però ne siete 'contenti prima, voi, e poi il
signor padre e la signora madre) potrai prendere per tuo
sposo il nostro Fiuta, a cui dobbiamo tutta la pace 'di que-
sta casa.
Bon. Se io ne son contento ? Anzi lo voglio, e di più vo-
glio dar loro per regalo trecento scudi
Vesp. Fiuta, che ne dici? ,
Fiu. Io aveva voglia di non pigliar moglie, per non im-
pazzir colle donne; ma un* occasione si bella non mi par di
dovermela lasciare scappare: ma con questo però che i cal-
zoni gli voglio portar io.
Vesp. Ti darò anche la mia gonnella, se non vuoi altro.
Fiu. Noe, noe; questa voglio che la porti tu.
Bon. Orsù andiamo in casa, a cenar tutti insieme allegra-
mente.
Buon. Benissimo: e li si potranno discifrar molte cose, che
a qualcheduno restano oscure; e consulteremo che modo
possa tenersi per fare scarcerar Raspa con quel suo ragazzo,
a condizione però che il primo abbia V esilio, benché meri-
tasse assai peggio.
Cip. A vero caro sapere i suoi delitti, per illuminarmi mag-
giormente, ed usare maggior prudenza per l'avvenire.
Bon» Cosi si faccia. E dalla fatica, che ho provato io per
riavere i miei calzoni dalla moglie, ogn'uno impari a non
glie li cedere giammai.
Il Fine.