La moglie saggia

Stampa questo copione

la_pel_r.rtf

LA MOGLIE SAGGIA

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia

il Carnovale dell’Anno 1752.

A SUA ECCELLENZA

LA SIG. CAVALIERA

ELEONORA CAPPELLO

NATA DE’ CONTI DI COLLALTO

Allora quando mi fu recato, Eccellenza, il felicissimo avviso, che Ella in Roma con tanto vantaggio delle Opere mie parlasse, animando i Romani a leggerle non solamente, ma eziandio a promoverne le rappresentazioni in più di un Teatro, m’entrò nell’animo la maggiore allegrezza che io provassi giammai, e quasi fuor di me stesso, d’altro non sapea parlar che di questo; facendone parte agli Amici miei, come di cosa che mi arricchiva di gloria, e gli Emoli macerar potea nell’invidia. Come (dicea però fra me stesso) come mai una Dama di tanto spirito, e di così fino discernimento, può delle Opere mie compiacersi, e quasi fossero della sua approvazione degnissime, portarle fino colà in trionfo, dove delle produzioni novelle è più pericoloso l’incontro? Ringrazio Dio di cuore, che mai nella mente mia non succedesse a tal pensiero la vanità di me stesso, tutt’altra ragione figurandomi, fuor di quella che dal merito delle Opere mie derivar potesse, poiché quantunque le veda fortunatamente aggradite, conosco bastantemente, che ciò non accade perché sieno Opere buone, ma perché a’ dì nostri non vi è in simil genere chi voglia farne delle migliori. Pensai che l’E. V. volesse loro dar credito per esser elleno produzioni di uno spirito Veneziano, per quell’amore che molti sentono per la Patria loro, portandola da per tutto nel cuore, e l’onor suo, e quello de’ Paesani suoi promovendo. Che però (su tal proposito ragionando) chi mai alla Repubblica Veneziana ha procurato maggior onore di quello che dall’E. V. le vien recato? In Vienna, in Dresda, in Londra, ed in Roma fu Ella oggetto d’ammirazione, fu l’idolo delle genti, possedette il cuore delle Regine, la parzialità dei Monarchi, e non v’ha dubbio che dei grandi onori che a Lei si fecero, anche la Patria sua gloria e giubbilo non ne riportasse; poiché quantunque l’antichissimo albero della sua Casa abbia nel terreno della Germania piantate ancor le radici, sangue de’ Padri eccelsi della Repubblica è quello che nelle vene le scorre, e quanto cari a Cesare sono i congiunti suoi, altrettanto l’Augusto Senato della di lei Famiglia si pregia e vanta, e de’ sublimi onori l’ha in ogni tempo fregiata.

Ella ha colmato di felicità il più degno Cavaliere del mondo, dandogli il di Lei cuore e la di Lei mano, né più gioconda novella recar poteasi alla Patria loro comune, oltre quella del loro felicissimo maritaggio. L’Eccellentissimo signor Cavaliere Piero Andrea Cappello meritava ben Egli una sposa del di Lei merito e delle di Lei virtù fornita, ed anche in questo ha Ella dell’amore della Patria sua manifestato il peso, concedendo il tesoro della grazia sua ad uno de’ Patrizi più illustri della Repubblica, e ridonando al seno di una sì eccelsa madre la stia diletta figliuola.

Mentre che, contenta, Roma per la seconda volta l’ E. V. ammira e venera, Venezia ansiosa l’aspetta; e mentre colà nell’Ambasciata gloriosa del savissimo di Lei sposo, l’onorano le Persone illustri, e la benedicono le volgari, e gli Arcadi col nome di Palmira fra le virtuose pastorelle l’acclamano, l’Adria, gelosissima dell’onor suo, feste, dignità ed onori le va con sollecitudine preparando, e tutti i gradi sublimi l’aspettano, sino all’ultimo, che d’aureo manto il Consorte suo felicissimo brama di ricoprire.

Io  pure, miserabile come sono, sospiro veder l’aspetto di questa mia venerabile Protettrice,
e renderle quelle grazie ch’io posso per l’onor massimo alle Opere mie recato, e benedire quel
cuor magnanimo, che in mezzo alle mie afflizioni cotanto giubbilo mi ha procacciato.

Verrà quel giorno per me felice, che a’ piedi dell’ E. V. gettandomi, e de’ miei casi la strana serie narrandole, vedrà quanto bisogno io abbia della di Lei magnanima protezione; e che quell’amore che ha Ella per la sua Patria, e che io nutrisco per la medesima nel miglior modo che posso, non è lo stesso in tutti, e vi è pur troppo chi tenta deprimere il Cittadino e disonorarlo.

Ma fin che giunga quel dì, non darò io della umile mia riconoscenza alla benignità che ha per me l’E. V. una pubblica attestazione? Sì, darolla. Ma come? In qual maniera le anime grandi si ricompensano de’ benefizi loro? Pregandole di nuove grazie, e loro prestando il modo di segnalarsi, beneficando.

Ecco dunque, Nobilissima Dama, che per avere Ella le mie Commedie della generosissima grazia Sua onorate, una di esse alla di Lei protezione in modo particolarissimo raccomando, e col di Lei nome venerabile in fronte la mando al torchio.

Che se taluno me sì ardito credesse, che a titolo di dono offerirgliela io pretendessi, lo prego di me formare miglior concetto, assicurandomi che la infinita distanza so io conoscere dal merito dell’E. V. a quello delle Opere mie, e che soltanto per trarne gloria ed onore, ad una sì illustre Dama la raccomando.

La Moglie Saggia, che sotto gli auspizi dell’Eccellenza Vostra uscir deve alla luce, è costituita in tal grado di virtù oppressa, che degna la rende di laude e di compassione, ma per l’un motivo e per l’altro recherà al di Lei cuore diletto e consolazione. Per tre ragioni si rallegrano gli animi nelle comiche o nelle tragiche Rappresentazioni; allora quando esaltar vedono quelle virtù, che in se medesimi sono sicuri di possedere; quando puniti veggono i vizi, che son da loro abborriti; e quando dalle rappresentate disgrazie sicuri e fortunati si vedono.

Giustamente giudico io pertanto, che vaglia per tutte e tre le ragioni a rallegrare questa Commedia mia il bellissimo animo dell’ E. V., poiché considerando il carattere di Rosaura ripieno di un’eroica virtù, si consolerà di vedere in essa il di Lei ritratto; indi detestando il carattere di Beatrice, giubbilerà, incapace trovandosi del reo costume; e compassionando una Moglie maltrattata dal cattivo Marito, alzerà gli occhi al Cielo, e lo benedirà di cuore, che uno Sposo sì amabile e sì gentile le abbia meritamente conceduto. Altri due personaggi, Florindo e Lelio, al riso forse la proveranno. E sì che di tali scrocconi alle laute sue mense, a’ generosi suoi trattamenti, non ne avrà Ella in ogni parte veduti! Ma non però lungo tempo celato avranno agli occhi di V. E. sotto il manto dell’adulazione la frode, poiché la prontezza del di Lei spirito, la vivacità del di Lei talento li avrà riconosciuti ben presto, e qual vilissima feccia, li avrà da sé, cori vergogna loro, scacciati.

11             misero Pantalone, padre afflitto di una Figliuola sagrificata, moverà il di Lei animo a
tenerezza. Deh! in questo genitore dolente l’E. V. me raffiguri, padre di tante figlie, quante sono le
mie Commedie. Mi vo sgravando del peso che la tutela di esse potria recarmi, all’uno o all’altro
raccomandandole. Fortunatissima questa, che di una Protettrice sì grande potrà vantarsi! Più
fortunato me ancora se avrà l’onore che mi conceda l’ E. V. il prezioso titolo, con cui
ossequiosamente m’inchino,

                                                 Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Gran disgrazia è per una Moglie l’avere un Marito disordinato, ma questa disgrazia suol divenire ancora maggiore, quando manca nella Consorte quella prudenza, che in simili casi è necessarissima.

La gelosia, i rimproveri, le invettive non fanno che indispettire ed irritare gli animi maggiormente, e in luogo di movere a compassione, non inspirano che odio ed ostinatezza.

Non è che una donna onorata, e molto meno una dama, abbia da tollerare tranquillamente i torti che dal marito gli vengon fatti, e da trattare con amicizia una persona che intorbida la pace della sua famiglia: ha da cercare di rimediarvi, ma con prudenza.

L’uomo ha un certo grado sopra la donna di autorità e preferenza, che non soffre di essere da lei corretto, quando l’amore non gli facciano esser care le correzioni.

Se quest’amore vien corrisposto, la cosa è facile, ed il Marito non può essere che compiacente. Ma s’ei non ama la Moglie, ed è da qualche altra passion prevenuto, convien che la donna conservi l’affetto, ed adoperi la prudenza.

Questa è quella virtù che costituisce la Moglie Saggia, questa è quella virtù di cui ho arricchita la mia Rosaura, per esempio delle donne prudenti e per conforto delle misere tribolate.

Odiosi un po’ troppo compariranno i caratteri di Beatrice e di Ottavio. Ma Dio volesse che non ve ne fossero al mondo di simili, e di peggiori. L’azion del veleno è barbara, ma abbiamo pur troppo degli esempi di tale barbarità, non lontani dal nostro secolo. Le passioni acciecano, e l’uomo cieco è capace di tutto. Sagace è l’artifizio con cui si conduce Rosaura per impietosire il marito, e per far arrossire la sua nemica; ma tale sagacità è condotta dalla prudenza, e le fa ottenere il premio della bontà, dell’amore e della tolleranza. Un marito guadagnato per questa strada, convinto ed illuminato con tal condotta, si può credere realmente pentito e totalmente cangiato, e ciò che non avrebbero ottenuto né le querele, né i rimproveri, né i maneggi, conseguisce perfettamente la virtù, la docilità, la prudenza. Questa Commedia sarebbe una lezione troppo morale per un Teatro, se non fosse adornata di un competente ridicolo. Gli scrocchi formano un episodio altrettanto vero, quanto giocoso, e i servi, nell’atto che contribuiscono all’intreccio ed alla catastrofe della rappresentazione, divertono l’uditore, e conservano il loro proprio carattere.

Così ho pensato che debba essere, nell’atto di comporre quest’opera. Parmi di non mi essere totalmente ingannato. Fu ricevuta questa Commedia felicemente dal pubblico, e ne rimasi contento. Alcuni hanno criticato il veleno, ma finalmente non ne proviene che buon effetto, quantunque l’intenzione fosse cattiva. Io rappresento le azioni umane, né sono sì scrupoloso intorno ai precetti, che mi sembra di poter alterare.


Personaggi

Il conte OTTAVIO;

La contessa ROSAURA sua moglie;

La marchesa BEATRICE servita dal conte Ottavio;

LELIO amico dei suddetti;

FLORINDO amico dei suddetti;

PANTALONE de’ BISOGNOSI padre della contessa Rosaura;

BRIGHELLA servitore del conte Ottavio;

ARLECCHINO servitore della marchesa Beatrice;

CORALLINA cameriera della contessa Rosaura;

FALOPPA servitore di Lelio;

PISTONE servitore di Florindo;

Un altro SERVITORE della Marchesa;

Un altro Servitore del conte Ottavio, che non parla.

La Scena si finge in Montopoli.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Anticamera nel palazzo della marchesa Beatrice, con una tavola in mezzo con bocce di vino e bicchieri.

Brighella, Arlecchino, Faloppa, Pistone intorno la suddetta tavola, che bevono.

ARL. Salute, patroni. (beve)

BRIGH. Viva, compare Arlecchin. (beve)

PIST. Evviva. (beve)

FAL. Che possiate vivere tanti anni, quanti bicchieri di vino ho bevuto in tempo di vita mia. (beve)

ARL. Grazie, patroni. Evviva, e che la vaga. (beve)

BRIGH. Paesan, questo l’è un bon vin. (ad Arlecchino)

ARL. Eh, mi no son gonzo, l’è del meio che sia in cantina. Oe, l’è de quel che i beve de là in tavola della patrona.

BRIGH. Bravo, cussì va ben. Gode i patroni, godemo ancora nu. Alla vostra salute. (beve)

FAL. Il mio padrone si beverebbe il mare, se fosse vino.

PIST. E il mio per mangiare non la cede ad un parassito.

BRIGH. El mio el magna poco, el beve manco, ma l’è rabbioso co fa una bestia.

ARL. Per quest ghe piase la me padrona, perché anca ela l’è stizzosa come una vespa.

FAL. Sì, voi dite bene. Il signor conte Ottavio, padrone vostro, colla signora marchesa Beatrice,padrona vostra, fanno all’amore come i gatti. (a Brighella ed Arlecchino)

ARL. Anca el conte Ottavio colla me padrona fa cussì, el grida sempre.

BRIGH. L’è per altro una bella vergogna, che sto sior Conte me padron vegna qua a cicisbear colla signora Marchesa, e el fazza desperar quella povera signora contessa Rosaura so muier, che l’è bona come un agnello.

PIST. Sapete la cosa com’è? Il vostro padrone è pentito di avere sposato la figlia d’un mercante. L’ha fatto per amore, e adesso che n’è sazio, conosce che ha fatto male.

BRIGH. El doveva pensarghe avanti. Finalmente sior Pantalon l’è un marcante ricco e civil.

ARL. El to patron l’ha fatto mal a no sposar la me padrona. (a Brighella)

BRIGH. Perché?

ARL. Perché i è rabbiosi tutti do, e s’avarìa visto una nova razza de rospi.

BRIGH. E la mia padrona l’è tanto bona e paziente.

PIST. Il mio padrone, il signor Florindo, lo conosci? (a Brighella)

BRIGH. Oh se lo conosso.

PIST. Oh, quello è una buona limosina: si caccia per tutto, vuol saper tutto, e poi nelle botteghe conta tutto, e fa commedia di tutti.

FAL. Ed il mio padrone mangia e beve da questo e da quello, e fa l’adulatore.

PIST. Tale e qual come il mio, fa l’amico a tutti, e poi li sbeffa.

FAL. Il mio è una razza bella e buona.

BRIGH. El mio l’è un diavol, nol se pol sopportar.

ARL. E la me padrona? Maledetta! L’è insatanassada.

BRIGH. Orsù, bevemo. Alla estirpazion dei padroni cattivi.

ARL. Alla conservazion dei salari.

PIST. Alla salute della libertà. (tutti bevono)

SCENA SECONDA

Lelio, Florindo da una camera, e detti.

LEL. Faloppa.

FLOR. Pistone. (Tutti s’alzano. Faloppa e Pistone vanno ad accendere le lanterne)

FLOR. Andiamo.

ARL. Comandela torzo[1]?

LEL. Non importa.

ARL. Servitor umilissimo. (Manco fadiga, e più sanità). (da sé, parte con Brighella)

LEL. Che vi pare di questa cena?

FLOR. Per essere stata improvvisa, non vi è male.

LEL. Tutta roba cattiva.

FLOR. La Marchesa spende, ma è mal servita.

LEL. Non vi era salvaggiume.

FLOR. E quella zuppa? Pareva nell’acqua.

LEL. Non mi è dispiaciuto quel pasticcio.

FLOR. Sì, me ne sono accorto; l’avete mangiato mezzo.

LEL. E voi il resto.

FLOR. Noi ci siamo portati bene; mentre gli amanti rabbiosi taroccavano.

LEL. Che pazzo è quel conte Ottavio!

FLOR. E la Marchesa non è più savia di lui.

LEL. Fanno impazzire quella povera contessa Rosaura.

FLOR. Suo danno, non doveva sposare un cavaliere.

LEL. Io giuoco ch’ella se ne sta lavorando, mentre il marito si diverte.

FLOR. Andiamola a ritrovare?

LEL. Sì, andiamo. So che il conte Ottavio ha del prezioso vin di Canarie.

FLOR. Con questi pazzi è il più bel divertimento del mondo.

LEL. E chi vuol godere, bisogna secondarli.

FLOR. Oh! sempre. Ecco i nostri servitori col lume. Andiamo.

SCENA TERZA

Faloppa e Pistone colle lanterne, e detti.

FLOR. Dalla contessa Rosaura. (a Pistone)

LEL. Sì, dalla Contessa. (a Faloppa)

FLOR. Già il conte Ottavio non partirà di qui così presto.

LEL. Avete veduto con che cera brusca ci guardava? Volea restar solo.

FLOR. E noi andiamo a tener compagnia a sua moglie.

LEL. Oh, s’ella non fosse così scrupolosa!

FLOR. Eh! Chi sa?

LEL. Bravo: sempre sperare.

FLOR. Sperare, ma non ispendere.

LEL. Oh caro! Andiamo. (tutti partono)

SCENA QUARTA

Arlecchino e Brighella.

ARL. Caro camerada, za che i è andai via, deme una man a desparecchiar.

BRIGH. Sì, volentiera. Aspetta, sto vin no vôi che el vada de mal. (beve)

ARL. Presto, presto, vien zente; portemo via tutto. (portano via la tavola)

SCENA QUINTA

Ottavio e detti.

OTT. Brighella?

BRIGH. Signor.

OTT. Accendi.

BRIGH. La servo. (parte)

OTT. Sia maladetto il punto ch’io venni in questa casa.

SCENA SESTA

Beatrice dalla camera e detti.

BEAT. Arlecchino?

ARL. Signora.

BEAT. Il lume. Voglio andare a letto.

ARL. Gnora sì. (parte)

OTT. Si va a letto presto questa sera.

BEAT. Che cosa volete ch’io faccia, sola come una bestia?

OTT. Io vi lascio sola, per non vedervi andare sulle furie.

BEAT. Non andrei sulle furie, se voi non vi alteraste per niente.

OTT. Ma certe cose non le posso soffrire.

BEAT. Né io certe altre.

OTT. Che ora abbiamo? (guarda l’orologio) Quattr’ore.

BEAT. Il mio da camera non fa che tre ore e mezza.

OTT. Sarà così, il mio va presto.

SCENA SETTIMA

Brighella con lanternone, Arlecchino con lume, e detti.

BRIGH. Son qua, signor.

OTT. Vattene, è ancora presto. (a Brighella)

BRIGH. Che smorza?

OTT. Sì.

BRIGH. Recipe, un’altra bozza de vin. (smorza e parte)

ARL. Comandela? (a Beatrice)

BEAT. No, no, vattene, ti chiamerò.

ARL. Pazienza. A revéderve all’alba. (parte)

OTT. Sapete pure quanta stima ho per voi.

BEAT. Se aveste della stima per me, non mi fareste arrabbiare.

OTT. Ma se non volete ascoltarmi.

BEAT. Se dite cose che non si possono tollerare.

OTT. Dunque io sono un pazzo. (alterato)

BEAT. Ecco lì, subito si altera. Con voi non si può parlare. Siete una bestia.

OTT. Sì, sono una bestia. Brighella. (chiama)

BRIGH. Signor.

OTT. Accendi subito.

BRIGH. (Fumo in camin). (da sé, parte)

BEAT. Cose, cose, che se avessi due teste, me ne taglierei una.

OTT. Dico cose che non si possono soffrire.

BEAT. Eh, andate al diavolo. Arlecchino. (chiama)

OTT. Brighella. (chiama)

SCENA OTTAVA

Brighella col lume, Arlecchino senza, e detti.

BEAT. Presto, il lume. (ad Arlecchino)

OTT. Andiamo. (a Brighella, camminando per andarsene)

ARL. (Mar in borrasca). (da sé, parte)

BEAT. Bella creanza! (ad Ottavio)

OTT. Chi non sa che cosa si dica, non sa nemmeno cosa si faccia.

BEAT. Che signor delicato! Bisogna pesar le parole.

OTT. E con lei bisogna misurar i termini.

BEAT. Bel cavaliere! Si picca con una dama.

OTT. Ma sempre, sempre...

BEAT. Eh via, che siete volubile.

OTT. O voi, o io.

ARL. Son qua. (col lume)

BEAT. Io non fo quelle scene che fate voi.

OTT. Signora mia, perdonatemi; voi non mi conoscete.

BEAT. Oh, oh, se vi vedeste voi nello specchio.

OTT. Ah maladetta la mia collera!

BEAT. Anch’io sono un poco calda di temperamento, ma voi mi superate assai.

OTT. Sapete perché sono rabbioso, impaziente? Ve lo dirò io... Va via. (a Brighella)

BRIGH. Che smorza?

OTT. Sì. Va via.

BRIGH. (Manco mal, finirò la bozza!). (da sé, parte)

BEAT. Via, parlate. Va via. (ad Arlecchino)

ARL. No la vol?...

BEAT. Va via, asinaccio.

ARL. (Oh che maniera soave!) (da sé, parte)

OTT. Sapete perché son rabbioso? Perché vi amo.

BEAT. Vostro danno: non dovevate sposare colei.

OTT. L’ho sposata, e non vi è più rimedio.

BEAT. Sapete pure quel che vi ho detto prima che la sposaste.

OTT. Ero cieco.

BEAT. Chi vi aveva accecato?

OTT. Non so. Un fanatico amore.

BEAT. Vostro danno, torno a dirvi; godetevela.

OTT. Ah Marchesa, pietà.

BEAT. Che pietà? Che cosa volete da me? (alterata)

OTT. Via, via, non mi mangiate.

BEAT. Son una donna onorata.

OTT. Non mi mangiate, vi dico. (alterato)

BEAT. Ecco lì, subito alza la voce.

OTT. E voi niente.

BEAT. Io sono in casa mia, posso dir quel che voglio.

OTT. Ed io... ed io... me n’andrò.

BEAT. Andate.

OTT. Sia maladetto.

BEAT. Maladetto voi.

OTT. Brighella. (chiama)

BEAT. Arlecchino (chiama)

SCENA NONA

Brighella, Arlecchino e detti.

BRIGH. La comandi.

ARL. Son qua.

OTT. Andiamo via. (a Brighella)

BEAT. A letto. (ad Arlecchino)

BRIGH. Vólela che impizza?

OTT. No. Andiamo. Schiavo suo. (parte con Brighella)

BEAT. A rotta di collo.

ARL. Vólela el lume?

BEAT. Voglio il diavolo che ti porti. (parte)

ARL. Oh maladetta! (parte)

SCENA DECIMA

Camera della contessa Rosaura con lumi.

La contessa Rosaura con un libro in mano, poi Corallina.

ROS. Ah! pazienza. (siede, e legge)

COR. Signora padrona, avete sentite le ore?

ROS. Sì, le ho sentite.

COR. Quattr’ore, e il padrone non si vede.

ROS. Non è tardi, verrà.

COR. Sì, sì, verrà. Volete andare a cena?

ROS. No, aspettiamolo.

COR. Eh, il signor Conte avrà cenato.

ROS. Dove?

COR. Oh bella! Dalla signora Marchesa.

ROS. Credi tu che ci vada frequentemente dalla marchesa Beatrice?

COR. Io credo che vi sia a tutte le ore.

ROS. Come lo puoi tu credere?

COR. Domandatelo a Brighella mio marito, e lo saprete.

ROS. Ah pazienza! (si mette a leggere)

COR. Eh signora padrona, siete troppo buona.

ROS. Ma che vorresti tu ch’io facessi?

COR. Dite l’animo vostro.

ROS. Il Conte va in collera per niente, lo sai pure.

COR. E per questo avete paura?

ROS. Quando va in bestia, mi fa tremare.

COR. Oh, s’egli avesse a fare con me, non mi lascerei metter i piedi sul collo. S’egli alzasse la voce tre tuoni, ed io sei. S’egli alzasse le mani, ed io più alte di lui. Brighella mio marito fa a mio modo, e di me ha qualche soggezione; per altro starebbe fresco. Oh, s’egli avesse un’amicizia fissa, come il signor padrone, la vorressimo veder bella.

ROS. Orsù, bada a te, e lasciami leggere.

COR. Leggete, non parlo più. Compatitemi, signora padrona, parlo per amore, e non so quel ch’io mi dica.

ROS. Se mi vuoi bene, non mi parlare di certe cose.

COR. È stato picchiato.

ROS. Va a vedere chi è.

COR. Subito. (Così le vorrebbero le mogli gli uomini vagabondi. Essi a spasso, e la moglie a casa). (da sé, parte)

ROS. Ma! In due anni ch’io sono moglie del Conte, non ho mai avuto un giorno di bene. Mio padre ha voluto sagrificarmi. Pazienza. (Corallina ritorna)

COR. Signora, il signor Lelio ed il signor Florindo vorrebbero riverirvi.

ROS. Questa non è ora di visite. Di’ loro che non vi è mio marito.

COR. Lo sanno che non vi è. Dicono che hanno qualche cosa da dirvi.

ROS. Oimè! Non vorrei che fosse accaduta qualche disgrazia a mio marito. Fa che passino.

COR. (Tant’è: e più che il marito la maltratta, più gli vuol bene). (da sé, parte)

ROS. Una visita a quest’ora non dovrebbe essere senza motivo. Mi trema il cuore.

SCENA UNDICESIMA

Lelio, Florindo e Rosaura.

LEL. Servo, signora Contessa. (allegro)

FLOR. Riverisco la signora Contessa. (allegro)

ROS. Serva di lor signori. (Sono allegri, non vi saranno disgrazie). (da sé)

LEL. Povera damina! Sempre sola.

FLOR. Ecco la sua conversazione, i libri.

ROS. Certamente, mi diverto moltissimo con i libri.

LEL. Eh, lasciate di conversare coi morti.

FLOR. Coi vivi, signora Contessa, coi vivi.

ROS. Questa, per dir vero, è più ora da leggere, che da far la conversazione.

LEL. Amico, la signora Contessa ci dà il congedo.

FLOR. Noi non siamo venuti per disturbarvi.

ROS. M’immagino che qualche cosa di straordinario vi avrà qui condotti.

LEL. Per dir vero, siamo qui venuti per un motivo stravagante.

ROS. Lo volevo dire. Vi è qualche novità?

LEL. Eh, novità... Amico, ditelo voi, io non ho coraggio.

FLOR. Compatitemi, parlate voi. Io non voglio essere il primo.

ROS. . (Oimè! Mi mettono in apprensione). (da sé)

LEL. Sappiate, signora mia... Da galantuomo, non lo dico.

FLOR. Nemmen io certamente.

ROS. Via, signori, parlate. È accaduta qualche disgrazia?

LEL. Oh, signora no. Siamo venuti a bere una bottiglia di Canarie, sapendo che ne avete del perfetto.

FLOR. Io non avevo coraggio di dirlo.

LEL. Ecco, per causa vostra son divenuto rosso.

ROS. Mi avete fatto tremare. Ma non andate a cena?

LEL. Eh, abbiamo cenato.

FLOR. Se sapeste dove!

LEL. Se sapeste con chi!

ROS. Via, ora che mi avete posta in curiosità, parlate.

FLOR. Abbiamo cenato con la marchesa Beatrice.

LEL. Se sapeste chi vi era a cena!

ROS. Già me l’immagino: mio marito.

LEL. Basta, non so niente. Non voglio metter male.

FLOR. Povera damina! E voi qui a leggere un libro.

ROS. Questo libro val più della vostra cena.

LEL. Se provaste anche voi a godere un poco di mondo, non direste così.

FLOR. Che caro conte Ottavio! Una sposa di questa sorta, lasciarla qui con un libro in mano.

ROS. Signori miei, i gusti sono diversi. Vi prego lasciarmi nel mio sistema.

LEL. Oh sì. Non distolghiamo la Contessina dal piacer dei suoi libri. È una bellissima cosa veder una dama a leggere.

FLOR. Sì, in verità. Io godo quando ne vedo qualcheduna.

ROS. Sono forse poche le donne che sanno?

FLOR. Saranno moltissime, ma io non le conosco.

ROS. Perché di quelle non andrete in traccia.

LEL. Bravissima. Ah Florindo, ti ha trattato da ignorante. Gran Contessina! Siete la nostra delizia, siete la nostra gioia, la nostra consolazione.

FLOR. Poh! Andarsi a perdere colla marchesa Beatrice.

LEL. Ah! Che dite? Vi è paragone fra questa e quella?

ROS. Vi supplico, in grazia; in faccia mia non dite mal di nessuno.

LEL. Io non dico male d’alcuno. Ma non potete impedirmi di dir bene di voi.

FLOR. Se siete adorabile, non volete che si dica bene?

ROS. Io non merito le vostre lodi.

LEL. E se mi vien male a pensare quel che passa fra una certa persona e la marchesa Beatrice, non volete compatirmi?

ROS. Ma... Che cosa passa?

LEL. Eh! niente. Galanterie.

FLOR. Parliamo d’altro.

ROS. Voi mi mettete in agitazione.

LEL. Niente, madama, niente. Leggete il vostro libro, e lasciate fare. (con allegria)

ROS. E sempre peggio.

LEL. Contessina, beviamo questa bottiglia?

FLOR. Eh! Non ci vuol favorire... Non siamo degni.

ROS. (Son piena di sospetti). (da sé) Aspettate, signori miei. Corallina. (chiama)

SCENA DODICESIMA

Corallina e detti.

COR. Signora?

ROS. Porta una bottiglia di Canarie e dei bicchierini.

COR. Sì, signora. (Scrocconi!) (da sé, parte)

ROS. Favorite. Raccontatemi qualche cosa.

LEL. Il Conte non è ancora venuto a casa?

ROS. No certamente.

LEL. Ah? Sarà ancora lì. (a Florindo)

FLOR. Buon pro gli faccia.

ROS. Ma che credete voi ch’egli faccia?

LEL. Niente; leggerà un libro come fate voi.

FLOR. Oh, non pensate che vi sia male!

ROS. Così credo. Che male vi può essere fra un cavaliere ammogliato ed una dama onorata?

LEL. Voi che vi dilettate di leggere, saprete qualche cosa.

FLOR. Io certamente, in massima, non vi saprei rispondere.

SCENA TREDICESIMA

Corallina col vino e bicchieri, e detti.

COR. Ecco serviti questi cavalieri. (con ironia)

LEL. Oh! brava ragazza.

FLOR. Avete il tirabusson? (a Lelio)

LEL. Sì, lo porto sempre addosso.

COR. Ognuno porta i ferri del suo mestiere.

LEL. Come sarebbe a dire?

COR. Eh, dico per servir dama. (con ironia)

LEL. Spiritosa davvero.

ROS. Corallina, ritirati.

COR. Vado, vado. (Dare a questa gente il vin di Canarie, è come dare i confetti ai porci). (da sé, parte)

LEL. Amico, tenete. Viva la nostra Contessina.

FLOR. Viva; prego il cielo che la renda un poco più contenta.

ROS. Obbligatissima alle vostre grazie.

LEL. Ehi amico, vi ricordate a cena di quegli scherzetti?

FLOR. Sì. E di quelle occhiate furtive? (bevendo)

LEL. Cose da crepar da ridere. (bevendo)

ROS. Parlate ora di mio marito?

LEL. E poi, tutto in un tempo, tanto di grugno.

FLOR. Tuoni, lampi, saette.

LEL. Avete veduto mordersi le labbra?

FLOR. Sì, e ho anche sentito bestemmiare fra’ denti.

ROS. (Assolutamente parlano di mio marito). (da sé)

LEL. Oh che vino! Oh che vino!

FLOR. Non ho bevuto il meglio.

LEL. Da capo. (torna a empire i bicchierini)

ROS. Cari signori, vi supplico, per carità, se sapete qualche cosa di positivo, avvisatemi, perché mi possa regolare. Non temete ch’io parli. Son donna, ma so tacere.

LEL. Eh, non sono poi cose da farne stato. (bevendo)

FLOR. Un poco di parzialità. (bevendo)

LEL. Vi è della intrinsichezza, ma indifferente. (bevendo)

FLOR. Amicizia. (bevendo)

LEL. Amor platonico. (bevendo)

FLOR. Oh, oh, amor platonico! (ride e beve)

ROS. Ma parlatemi chiaro.

LEL. Chiarissimo.

SCENA QUATTORDICESIMA

Corallina e detti.

COR. Signora, è il vostro signor padre, che gli preme dirvi una parola.

ROS. Perché non viene?

COR. Lo sapete; quando vi è gente; non viene volentieri.

LEL. Signora, vi leveremo l’incomodo.

FLOR. Che prezioso Canarie!

ROS. E volete lasciarmi piena di curiosità?

LEL. Eh, state quieta. Leggete il vostro libro, e non pensate più in là.

FLOR. Già è tutt’uno. Felice voi, che siete docile e virtuosa.

LEL. Domani sarò a riverirvi. Parleremo, discorreremo.

FLOR. Sentirete, sentirete. Felicissima notte!

ROS. Serva loro.

LEL. Riposi bene. O che Canarie! Madama. (s’inchina e parte)

FLOR. Madama. (parte)

ROS. Fa che venga mio padre.

COR. Li conoscete quei signorini?

ROS. Perché mi dici questo?

COR. Perché, se non li conoscete, vi dirò in due parole chi sono: scrocconi, adulatori, maldicenti e cicisbei affamati. (parte)

ROS. Dubito che costei dica il vero. Non credo capace mio marito d’indegni affetti; né la marchesa Beatrice può essere capace di alimentare un sì tristo fuoco.

SCENA QUINDICESIMA

Pantalone.

ROS. Oh signor padre, a quest’ora?

PANT. Sì ben, cara fia, me giera sta dito che gieri sola, e son vegnù a farve un poco de compagnia.

ROS. Bravissimo, vi ringrazio di cuore.

PANT. Cossa fava qua quei do martuffi?

ROS. Sono venuti pieni di allegria, ed hanno voluto bevere una bottiglia.

PANT. Za i xe della bona lega. Cara fia, no i pratichè.

ROS. Io li tratto in una maniera che non li obbligherà a frequentarmi.

PANT. E vostro mario[2] dove xelo?

ROS. Mah! (sospirando)

PANT. El sarà al logo solito.

ROS. Sì, ha cenato colla Marchesa.

PANT. L’ha cenà? Come lo saveu?

ROS. Me l’hanno detto quei due signori. Sono stati a cena ancor essi.

PANT. I ha cenà anca lori? Lori i xe vegnui via, e vostro mario xe restà là? Ho inteso.

ROS. E per questo, che cosa pensate voi?

PANT. Gnente. I zogherà a picchetto. (ironicamente)

ROS. Caro signor padre, non mi affliggete, non mi accrescete i sospetti.

PANT. Ah pazienza!

ROS. Io ho bisogno di chi mi consoli, non di chi pianga.

PANT. Povera desfortunada!

ROS. Sapete ch’io mi sono maritata per obbedirvi.

PANT. Ah, pur troppo xe vero. Questo xe el mio rimorso. Questo xe el mio dolor. Veder una fia[3]sacrificada per amor mio. M’arrecordo, fia mia, sì m’arrecordo che con modestia ti m’ha fatto cognosser la poca inclinazion che ti gh’avevi per sto partio. Me son anca mi lassà acciecar dall’ambizion, credendo che el farte contessa bastasse per far la toa e la mia felicità. Me son lusingà che col tempo te podesse piaser el mario, e ho credesto che dovesse in elo durar quella tenerezza che el mostrava allora per ti. O poveretto mi! Ho pensà mal; adesso me ne accorzo, che ho pensà mal. Doveva prevéder che un signor grando, innamorà de una putta de grado inferior, l’ama fintanto che nol pensa alla so condizion e nol ghe pensa, se no quando l’è sazio dell’amor, e co l’è sazio, el cognosse el sproposito, e el se pente d’averlo fatto, e l’odia chi ghe l’ha fatto far. Povera putta! Povera Rosaura! Ti xe sacrificada per causa mia. Mi ho fatto el mal, e ti ti soffri la penitenza, ma se ti vedessi el mio cuor, ti vederessi che el mio dolor xe tanto più grando del too, quanto xe più grando d’ogni altro amor quello del pare, che supera tutti i amori del mondo.

ROS. Non mi fate piangere, per carità.

PANT. Rosaura, vien qua, fia mia, e ascolteme, e resolvi. Son ancora to pare. El vincolo del matrimonio no destruze quello della natura. To mario te pol comandar, ma to pare te pol conseggiar; e se el mario te tratta con crudeltà, no ti mancherà al to dover buttandote in brazzo d’un pare, che te aiuterà con amor. Vien con mi, fia mia, vien a star con mi, e no te dubitar, e non aver paura de gnente. Anderemo a Roma, dove che gh’ho casa e negozio. Se là el sior Conte ne vorrà tettar de mazo[4], anderemo a Venezia. Anca là gh’ho casa, parenti e capitali. Fin che vivo, ti starà con mi. Co sarò morto, ti sarà parona de tutto. Ti viverà civilmente, e ti sarà una regina.

ROS. Ah signor padre, prima di consigliarmi ad una simile risoluzione, pensateci meglio. Avete confessato voi stesso aver errato nel darmi lo sposo: nello staccarmi da lui, badate di non far peggio.

PANT. No, fia mia, no fazzo mal a far sta resoluzion, a levarte dalle man d’una bestia indomita, che tratta con ti, come se ti fussi una so nemiga.

ROS. Io sono stata sempre rassegnata e obbediente ai vostri voleri. Non ho mai opposto ragioni ai vostri comandi. Ma ora permettetemi che vi dica ciò che mi detta il mio cuore e la presente mia condizione. Io son moglie del conte Ottavio, ed ho acquistato quel grado di nobiltà che ha saputo innamorare voi stesso. Questa nobiltà deve essere un bene assai grande, se voi siete stato sollecito in procurarmelo, e avete arrischiato tutto per questa sola ragione. Io per altro considero un bene maggiore nell’acquistata nobiltà, che forse voi non considerate. Se il cielo mi concederà dei figliuoli, saranno nobili veramente, ed io averò la consolazione di averli dati alla luce, e voi giubilerete mirando in essi il maggior frutto delle vostre premure. Dovrei dunque perder io questo bene, farlo perdere ai miei figliuoli, per il solo motivo di non soffrire? Ditemi, signor padre, chi è al mondo che qualche male non soffra? Figuratevi i disagi della povertà, i dolori dell’infermità. Il cielo che mi libera da tai travagli, mi vuol mortificare col poco amore di mio marito. Pazienza! Sarà segno che io non merito di essere amata. Segno che il cielo mi vuol oppressa per questa strada, forse perché non m’insuperbisca soverchiamente della mia fortuna; ed io mi credo in debito di ringraziare i numi per il ben che mi fanno, e non irritarli, ricusando l’amaro delle mie pene, con cui temprar vogliono il dolce delle mie e delle vostre consolazioni.

PANT. Cara fia, ti me fa pianzer, e no te so cossa responder.

SCENA SEDICESIMA

Ottavio e detti.

OTT. Schiavo suo. (a Pantalone, con serietà)

PANT. Patron mio.

ROS. Oh consorte, ben venuto. (ilare)

OTT. Comanda qualche cosa? (a Pantalone)

PANT. Gnente, patron, fava compagnia a mia fia, perché no la stasse sola.

OTT. Perché non andate a letto? (a Rosaura)

ROS. Aspettavo voi.

OTT. Ve l’ho detto cento volte. Io non voglio soggezione. Andate a letto. (a Rosaura)

ROS. Ma se ho piacere d’aspettarvi.

OTT. Eh, seccature. (con disprezzo)

PANT. Ma, caro sior Conte, la vede; povera putta, la ghe vol ben.

OTT. Non voglio ragazzate.

PANT. Le finezze che se fa mario e muggier, no le xe ragazzade.

ROS. Via, mio marito so come è fatto. Non vuol carezze. È uomo serio. Vuol bene a sua moglie, ma non lo dice. Non è così, signor Conte?

OTT. Signora mia, favorisca d’andare a letto.

ROS. Voi non venite?

OTT. Verrò, quando vorrò.

PANT. (El me fa una rabbia, che lo scanneria). (da sé)

OTT. Ehi. (chiama)

SCENA DICIASSETTESIMA

Brighella.

BRIGH. Signor.

OTT. Da scrivere.

BRIGH. La servo. (E a letto mai!) (da sé, parte)

ROS. Caro signor Conte, è tardi; scriverete domani.

OTT. Non mi rompete la testa.

PANT. (Oh che bestia!) (Brighella ritorna con tavolino da scrivere)

ROS. Dunque anderò a letto. Marito, v’aspetto. Non dormo, se non venite. (vezzosa)

OTT. Brighella.

BRIGH. Signor.

OTT. Preparami il letto nella stanza terrena. (Brighella parte)

ROS. Volete che vada nell’appartamento terreno? Anderò.

OTT. Voi andate nella vostra camera. Voglio dormir solo.

PANT. (Oh siestu maledetto!) (da sé)

ROS. Solo!

OTT. Signora sì. (scrivendo)

PANT. (Povera creatura! Tolè, anca dormir sola). (da sé)

ROS. Ma perché questa novità?

OTT. Andate. (come sopra)

ROS. Avete male?

OTT. Ho il diavolo che vi porti. Andate via.

PANT. Ma questa, sior Conte, no xe la maniera... (alterato)

OTT. Come c’entrate voi?

PANT. La xe mia fia.

ROS. Zitto. Vado a letto. (a Pantalone)

OTT. In casa mia comando io.

PANT. E mi no posso véder a strapazzar el mio sangue.

OTT. Oh! un gran sangue!

PANT. Onorato, civil e senza macchie.

ROS. Zitto, per amor del cielo. Marito, vado nella mia camera. Signor padre, andate a casa.

OTT. Maledetto quando vi ho conosciuto! (a Pantalone)

PANT. Sia pur maledetto, co son vegnù in sto paese.

OTT. Tant’è. La vostra figliuola io non la posso più vedere.

PANT. E mi la torrò su, e la menerò via.

OTT. Sì, prendetela. Andate, andate con vostro padre andate. (la spinge, dopo essersi alzato)

PANT. Vien, vien, fia mia, andemo.

ROS. Eh via, quietatevi, non facciamo scene.

OTT. Andate, andate. (come sopra)

ROS. Son vostra moglie.

OTT. Pur troppo, per mia disgrazia.

ROS. Non dicevate così una volta.

OTT. Pazzo, pazzo ch’io sono stato!

ROS. Ma! Vi ha illuminato la Marchesina.

OTT. Giuro al cielo! (alza la mano)

PANT. Olà, patron, se alza le man? (si frappone)

OTT. Andate via di qui, vecchio insensato.

PANT. Andemo via. (a Rosaura)

ROS. Ah signor conte...

OTT. Andate, andate.

ROS. No, marito mio...

OTT. Sì, andate, non mi seccate. V’odio, v’aborrisco, non vi posso vedere. (parte)

ROS. Pazienza! (piange)

PANT. Andemo, fia mia.

ROS. No, signor padre, lasciatemi andar a letto.

PANT. Ti te ne pentirà.

ROS. Il cielo mi assisterà.

PANT. No ti vedi? El xe un basilisco.

ROS. Si ravvederà.

PANT. El te bastonerà.

ROS. Non lo ha ancora fatto.

PANT. El lo farà.

ROS. Se lo farà... Basta: è cavaliere, non lo farà.

PANT. Oh ghe ne xe dei altri, che petuffa[5] le muggier.

ROS. Signor padre, lasciatemi andare a letto.

PANT. Va là, fia mia, el ciel te benediga. Pénseghe ben, no te lassar strapazzar. Torna da to pare, torna dal to caro pare, che te vol tanto ben. (piangendo parte)

ROS. Sì, vi tornerò, quando non potrò fare a meno. Vo’ resistere fin ch’io posso; prima di abbandonare un marito convien pensarvi moltissimo. L’onestà, il decoro, sempre discapita; ed è assai meglio soffrire le domestiche dispiacenze, di quello sia esporsi alle dicerie, alle critiche, alle derisioni del mondo. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Altra camera con porta in prospetto, lume sul tavolino.

Brighella passeggiando.

BRIGH. Me pareria che fosse ora d’andar a letto. Tolì, a st’ora el padron scrive, e mi stago qua a gòder el fresco. Ho un sonno che casco, ma se m’addormento, povero mi. Se el me chiama, e che no sia pronto a responder, el me magna vivo. Oh, ecco qua mia muier! Cossa diavolo fala in quella camera? Ghe zogo che la vien a gridar. Sempre la brontola de qualcossa. Oh, la staria pur ben a servir la siora Beatrice! Ma mi son troppo bon, son troppo minchion. Bisogneria qualche volta che imparasse dal padron a tegnir bassa la muier. No digo strapazzarla come el fa lu, ma mortificarla; e mi ghe n’averia ben rason. La padrona l’è un agnellin, e Corallina l’è... Eccola qua, se la me sentisse, povero mi! Ma non l’anderà sempre cussì; un dì o l’altro me metterò i mustacchi; imparerò dal padron.

SCENA DICIANNOVESIMA

Corallina e detto.

COR. E così, questa sera non si viene a letto?

BRIGH. Signora no. (con sussiego)

COR. Oh bella risposta! Signora no!

BRIGH. Signora no. (passeggiando)

COR. (Costui ha qualche cosa per il capo). (da sé) Il padrone è a letto?

BRIGH. Signora no. (come sopra)

COR. Si potrebbe dirlo con un poco più di buona grazia. (Brighella prende il tabacco, e non risponde) (Che diavolo ha costui questa sera? Dubito che sia briaco). (da sé) Avete cenato?

BRIGH. Signora sì. (come sopra)

COR. Dove?

BRIGH. Non lo so.

COR. Non lo so? A me si dice non lo so?

BRIGH. Oh bella! Siora sì. A vu se dise, non lo so.

COR. (Oh, è briaco senz’altro; non mi ha mai risposto così). (da sé)

BRIGH. (Voio un poco principiar a parlar da omo). (da sé)

COR. Si può sapere, perché non me lo volete dire?

BRIGH. No conto i fatti del me padron.

COR. Me li avete detti tante altre volte.

BRIGH. Ho fatto mal, e no i dirò più.

COR. Sì, non li direte più, perché siete d’accordo, perché siete un briccone, un discolo come lui; gli farete il mezzano; la Marchesina avrà qualche cameriera. Il padrone colla padrona, il servitore colla serva. Ma se me n’accorgo, giuro al cielo, se me n’accorgo, povero voi, povero voi!

BRIGH. (Adess el saria el tempo de principiar). (da sé)

COR. Non lo so! Non conto i fatti del padron! Pezzo di asino.

BRIGH. A mi?

COR. A voi.

BRIGH. Porteme respetto, sa, pettegola impertinente.

COR. A me pettegola? Ah infame! Ah maledetto! A me pettegola?

BRIGH. Zitto, che el padron no senta.

COR. Sei briaco? Sei pazzo? Sei fuori di cervello? Mai più mi hai detto tanto. Ma se avrai più

ardire di dirmi una mezza parola, te ne accorgerai.

BRIGH. Cossa farala, patrona, cossa farala?

COR. Come? Minacce? A me? Temerario! A me? (forte)

BRIGH. Zitto, che el padron no senta.

COR. Ci verrai in camera, ci verrai a letto.

BRIGH. E così? Cossa sarà?

COR. Te n’accorgerai.

BRIGH. (Oh diavolo! Custia l’è una bestia, capace de scannarme in letto). (da sé)

COR. A me pettegola?

BRIGH. Oh via mo, no l’è una gran cossa!

COR. Bestiaccia! A me impertinente?

BRIGH. Le son cosse che se dise tra marì e muier.

COR. A me rimproveri, minacce, strapazzi?

BRIGH. Ma zitto, che el padron sente.

COR. Non me n’importa. Sei un briccone, m’hai strapazzata, e mi voglio sfogare. Ma niente, niente, a letto!

BRIGH. A letto?

COR. Sì, t’aspetto.

BRIGH. Eh via.

COR. Che via? Perdermi il rispetto? Strapazzarmi! Dirmi pettegola? insolente?

SCENA VENTESIMA

Il conte Ottavio di dentro nelle camere, e detti.

OTT. Brighella. (lo chiama, e non sente)

BRIGH. Via, tasi.

COR. A una donna della mia sorta, pettegola, insolente?

BRIGH. Mo tasi.

OTT. Brighella. (chiama di dentro)

COR. Non te la perdono più.

BRIGH. (Sia maledetto quando ho parlà). (da sé)

COR. Pettegola? impertinente? a me? Asino! asinaccio!

(Il conte Ottavio in veste da camera apre l’uscio di fondo ed esce)

BRIGH. L’è qua el padron. (a Corallina)

COR. Dirmi impertinente? Dirmi pettegola? Strapazzarmi? Che novità? Che temerità? A letto! A letto briccone! insolente! temerario! A letto. (parte)

BRIGH. Stago fresco.

OTT. Chiamo, chiamo, e non rispondi.

BRIGH. La compatissa, lustrissimo, no l’ho sentido.

OTT. Ti romperò le braccia, sai: asino! Quando chiamo, voglio essere sentito. Se non risponderai quando chiamo, ti taglierò le orecchie.

BRIGH. Lustrissimo, ghe domando perdon. Quella maledettissima de mia muier l’è vegnuda a tormentarme anca qua.

OTT. Che cosa voleva? Che cosa faceva?

BRIGH. Al so solito: gridar e strapazzarme.

OTT. E non la bastoni?

BRIGH. La vede ben...

OTT. Pezzo d’asino. Dagli, bastonala.

BRIGH. Ma bastonar la muier!

OTT. Un uomo ordinario, un servitore lo fa. Così lo potessimo fare anche noi.

BRIGH. Se alzo le man, la me coppa.

OTT. Tieni questo biglietto, e domattina per tempo portalo alla marchesa Beatrice; aspetta ch’ella si levi, e daglielo in proprie mani.

BRIGH. La sarà servida.

OTT. Avverti ch’ella si leva presto.

BRIGH. Anderò a bonora. Za debotto l’è l’alba.

OTT. Va a riposare un poco, e fra due ore al più trovati dalla Marchesa.

BRIGH. No la vol che la serva?

OTT. No, non voglio altro. Va a letto.

BRIGH. Eh non importa, dormirò qua su una carega.

OTT. Ma perché non a letto? Per dire ch’io ti faccio fare una vita da bestia?

BRIGH. Ghe dirò, lustrissimo... Ho gridà con me muier...

OTT. Sì, fai bene a mortificarla. Il maggior dispetto che si possa fare alla moglie, è quello di non andar con essa a dormire. (va in camera, e chiude)

BRIGH. Mi son l’omo più intrigà de sto mondo. Se vado a letto, l’è mal, se no vado, pol esser pezzo; no so quala far.

SCENA VENTUNESIMA

Rosaura e Brighella.

ROS. Ehi, Brighella. (sottovoce)

BRIGH. Lustrissima.

ROS. Di’ piano. È a letto il padrone?

BRIGH. L’è andà in camera giusto adesso.

ROS. Oh, che non mi vedesse!

BRIGH. No gh’è pericolo: perché el letto l’è dentro in quell’altra stanza. L’aspetta. (va a vedere dal buco della chiave) L’ha serrà, no se vede più el lume.

ROS. Ha detto niente di me?

BRIGH. Gnente.

ROS. (Pazienza!) (da sé) Dove siete stati iera sera?

BRIGH. Dalla signora marchesa Beatrice.

ROS. Ha cenato mio marito?

BRIGH. Signora sì. I ha cenà, i è stadi allegri. Gh’era el signor Lelio e il signor Florindo; ma védela? I è andadi via presto lori, e l’è restà el padron colla signora Marchesa; capissela?

ROS. Bene. Avranno giuocato.

BRIGH. Eh signora... altro che zogar!... Basta...

ROS. Via, voi altri sempre pensate al male. Vergogna! Un cavaliere con una dama, impegnato nel giuoco, non deve piantarla.

BRIGH. Mi no so se i zoga, o cossa che i fazza, ma se la volesse saver quel che passa tra de lori, mi gh’averia la maniera.

ROS. Come?

BRIGH. El padron za un poco el m’ha dà sto biglietto da portar domattina a bonora alla signora Marchesa; el bollin l’è ancora fresco; se la volesse, la se poderia soddisfar.

ROS. (Costui mi tenta). (da sé)

BRIGH. So che fazzo una mala azion verso el me padron; ma gh’ho tanta compassion del so stato, lustrissima padrona, che me faria impiccar per vederla quieta e contenta.

ROS. Ti ringrazio dell’amor tuo, ma non acconsento che tu tradisca il padrone. Fa il tuo dovere. Obbedisci chi ti dà il pane. Siccome giudico onesta l’amicizia di mio marito colla Marchesa, non ho curiosità di vedere il loro carteggio.

BRIGH. E pur, signora...

ROS. Vattene. Pensa meglio a te stesso, e impara a non formar giudizi del tuo padrone.

BRIGH. Basta... la perdoni... (No ghe digo più gnente. Vado... Ma dove? In letto per sta notte miamuier no me cucca[6]. (da sé, parte)

ROS. Sarebbe stata imprudenza aprir quel biglietto. Avrei accreditati i sospetti del servitore; gli avrei dato cattivo esempio, e avrei forse trovati dei nuovi motivi di rattristarmi. Bastami essere assicurata che l’amicizia continua, e si rende più frequente e impegnata. Studierò qualche via ragionevole e onesta per rimediarvi. Farò tutto il possibile, prima di distaccarmi da mio marito. Amo la sua riputazione egualmente come la mia. Il cielo mi assisterà. Il cielo non abbandona chi in lui sinceramente confida.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera della marchesa Beatrice.

Arlecchino.

ARL. Son curios de saver cossa diavol aveva sta notte la me padrona. La trava sospiri, che la pareva un mantese. Mi no cred che l’abbia mai dormido, perché me son sveià tre volte, e sempre l’ho sentida a smaniar. La s’è levada dal letto verde come un cogumero, ma da qua una mezz’oretta la vegnirà fora del camerin bianca e rossa come una rosa.

SCENA SECONDA

Brighella e detto.

BRIGH. Paesan, ho trovà la porta averta, e mi son vegnudo innanzi.

ARL. Ti ha fatto ben. Subito che son levà, averzo la porta, perché tra visite e ambassade, se no la fusse averta, ghe vorria un battaor al zorno.

BRIGH. Anca mi gh’ho un’ambassada da far alla vostra padrona.

ARL. A bonora, per el fresco.

BRIGH. El me padron m’ha dà sta lettera da portarghe.

ARL. Magnemio gnente su sto negozio?

BRIGH. Gnente affatto. Ti sa che al mio padron no ghe casca gnente.

ARL. Prego el cielo che ghe casca qualcossa.

BRIGH. Cossa mo?

ARL. La testa.

BRIGH. Perché tanto mal?

ARL. Perché el fa deventar matta la me patrona.

BRIGH. L’è la to padrona, che fa deventar matto el me padron.

ARL. Via, giustemola; concludemo che i è matti tutti do.

BRIGH. Bravo, ti m’ha dà gusto da galantomo. Quando bevemio un altro boccaletto de quel vin de iersera?

ARL. A casa ti ghe ne beverà quanto che ti vuol.

BRIGH. Oibò; no ghe n’avemo nu de quel vin.

ARL. E sì alla me patrona ghe l’ha mandà el to patron.

BRIGH. Sì, el meggio a ela, e a casa se beve el vin mezzo guasto.

ARL. No fazzo per dir, perché mi no son de quei servitori che parla; ma el gh’ha mandà un fornimento de merli sulla giusta[7].

BRIGH. E la mia padrona, poverazza, l’è tanto che la ghe n’ha bisogno, che l’ho sentida mi a pregarlo che el ghe li compra; e inveze de darli alla muier, el li porta qua... Le son de quelle cosse, che me faria dir... Ma dei padroni no vôi mormorar.

ARL. Ti fa ben, veh. Anca mi vedo e taso. L’altro zorno la me patrona l’ha perso vinti zecchini, e el to patron ghe li ha imprestadi; ma no gh’è dubbio che mi diga gnente.

BRIGH. Come mi, che so che el padron ha impegnà le zoggie della muggier, senza che ela lo sappia, e nol diria a nissun, se i me dasse la corda.

ARL. Oh, la secretezza l’è una bella cossa!

BRIGH. El nostro mazor capital l’è la fedeltà.

ARL. E cussì, vot darghe la lettera alla patrona?

BRIGH. Ridi, che l’è da rider; no me recordava più della lettera.

ARL. Anca mi, quando son coi amici, me scordo tutto. Dame la lettera, che ghe la porterò.

BRIGH. No; bisogna che ghe la daga mi in proprie man.

ARL. At paura che mi?...

BRIGH. No, caro paesan. El me padron vol cussì.

ARL. Anderò a veder se se pol, ma ho paura.

BRIGH. Perché?

ARL. Perché l’è drio adesso a menar la man.

BRIGH. A scriver fursi? A metter el negro sul bianco?

ARL. No; a metter el bianco su negro. (fa cenno che si belletta, e parte)

SCENA TERZA

Brighella, poi Arlecchino.

BRIGH. Ma! L’è cussì; le donne le ha sta bella felicità che se le son brutte, le se fa belle. No so cossa dir; le compatisso; anca a mi me piaseria una bella donna, bella naturalmente; ma se avesse da scieglier tra una brutta natural e una bella depenta, torria sempre una bellezza artifizial, più tosto che una bruttezza che stomega.

ARL. L’è qua che la vien.

BRIGH. Gh’at dito che gh’ho la lettera?

ARL. Siguro. E se non era per la lettera, no la vegniva.

BRIGH. L’è la calamita, che tira.

ARL. Ma l’è una gran calamita rabbiosa; i grida sempre.

BRIGH. Eh, qualche volta po i farà pase.

SCENA QUARTA

La marchesa Beatrice e detti.

BEAT. Va a preparare la cioccolata. (ad Arlecchino)

ARL. (Anca questa l’ha mandada el to patron). (piano a Brighella, e parte)

BEAT. Sei tu, che mi devi dare una lettera?

BRIGH. Illustrissima sì: eccola.

BEAT. Chi la manda?

BRIGH. El me padron.

BEAT. E ha dormito bene?

BRIGH. Ho paura de no.

BEAT. Perché?

BRIGH. L’ha smanià tutta notte.

BEAT. Come lo sai? Tu dormi lontano dalla sua camera.

BRIGH. Sta notte l’ha dormido da basso, e mi me son buttà su un canapè cussì vestido in t’una camera vesina, che sentiva tutto.

BEAT. Ha dormito in altro letto? Perché questa novità?

BRIGH. Perché l’ha volsudo dormir solo.

BEAT. Non ha dormito con sua moglie? Contami, contami, dimmi perché.

BRIGH. Mi no so gnente; ma credo che i abbia un poco gridà.

BEAT. (Rosaura è insoffribile, lo tormenta sempre. Non lo lascia mai stare). (da sé)

BRIGH. Gh’era el padre della padrona, i se son taccadi de parole... Basta, el padron l’ha dormido solo.

BEAT. (Ho piacere; fa bene a mortificarla). (da sé) Sai perché abbiano gridato?

BRIGH. Oh, mi no so gnente... e po anca se lo savesse...

BEAT. A me lo potresti dire.

BRIGH. Ah! un servitor no par bon...

BEAT. Già, se non me lo dici tu, me lo dice il Conte. Egli mi narra ogni cosa.

BRIGH. Lu l’è padron de dirlo, ma mi...

BEAT. Se me lo dici, ti fai merito, ed io posso farti del bene.

BRIGH. Ghe dirò, lustrissima, per quel poco che ho possudo capir, me par che tanto el padre, che la fiola, i se lamentasse...

BEAT. Di che?

BRIGH. Della condotta del padron, delle amicizie, delle conversazion... Che soia mi?

BEAT. Forse perché egli pratica in casa mia?

BRIGH. Me par... me par...

BEAT. Hai sentito nominarmi?

BRIGH. Me par de sì.

BEAT. Sì sì, lo so; quella temeraria parla male di me. Giuro al cielo, me la pagherà. Vanne, vanne...

BRIGH. Per amor del cielo, lustrissima...

BEAT. Va via, ti dico.

BRIGH. (Tolè, ho squaquarà no volendo; subito che se mette la livrea, se pia sto vizio de squaquarar). (da sé, parte)

BEAT. Colei non si ricorda più della sua nascita. Pretende che il Conte stia ad adorarla. Non è poco ch’egli l’abbia sposata. Sentiamo che cosa scrive il caro signor Conte. Si è partito da me con una bella grazia! M’immagino che mi chiederà scusa. (apre e legge)

Signora Marchesa gentilissima,

Il gentilissima è scritto con un altro inchiostro, ve l’ha aggiunto dopo. Sono partito dalla vostra... casa. Questa parola cassata che cosa diavolo diceva? Ma... la... det... ta. Sì, sì, aveva scritto dalla vostra maladetta casa. Era ancor sulle furie; poi gli sarà passata. Ieri sera son partito dalla vostra casa arrabbiato come un cane. Suo danno grida sempre. Quando penso all’alta stima che ho di voi, parmi impossibile che voi siate meco così crudele. Dice crudele di sopra, ma sotto che cosa diceva? Be... sti... a... le. Oh maladetto! Diceva bestiale. Io bestiale? Sei tu un ammalaccio. Andiamo avanti. Sfogo la mia passione in questo foglio, e l’ho quasi sfogata alle spalle di mia moglie. Sì? L’ho caro. Un giorno o l’altro gliele dà certo. Ah, se mi potessi sfogar con voi. Con me? Che ti venga la rabbia! Come? Se foste un uomo, vi vorrei sfidare alla spada. Pazzo! E perché son donna, a che cosa mi sfiderai? Mi avete dette le grandi ingiurie. O di grazia, l’avrò stroppiato! Dite avere della propensione per me, ma siete una... una... una... Diavolo, è cassato in modo che non capisco. Questo pare un b, e questo un u, e questo assolutamente è un g. Indegno! Finisce con un a, la penultima è un d. Vorrà dire bugiarda. A me bugiarda? Ma l’ha cassato, e dice: Siete una spietata. Si è pentito, vo’ perdonargli la collera, e mostrare di non aver intese le cassature. Verrò domani a vedervi, a pregarvi. Anche qui un’altra cassatura; tiriamo innanzi: ed ora mi consolo nello scrivervi, nel mandarvi... Bestia! nel mandarmi? ... i miei sentimenti. Ah, nel mandarvi i miei sentimenti: dopo il mandarvi evvi un punto, che non vi doveva essere; e frattanto sono, poi vi ha aggiunto, con tutto il rispetto, vostro servitore obbligato. Il conte Ottavio. Serva sua divotissima. Oh che bella lettera, da mettere in una commedia! Oh che bel pazzo! Oh che belle scene!

SCENA QUINTA

Servitore e detta; poi Lelio e Florindo.

SERV. Signora, il signor Lelio ed il signor Florindo vorrebbero riverirla.

BEAT. Passino. (Servitore parte) Vorrei poter rispondere a questa lettera.

LEL. Servo della signora Marchesa.

FLOR. Ben levata la signora Marchesa.

BEAT. Serva di lor signori. Presto, da sedere. (Servitore porta le sedie) Avete bevuto la cioccolata?

LEL. No signora, siamo venuti a berla da voi.

FLOR. Sappiamo che ne avete della perfetta.

BEAT. Subito: tre cioccolate. Ma di quella del cassettino. (al Servitore)

LEL. E bada bene, non fallare. (al Servitore)

FLOR. È con vainiglia? (a Beatrice)

BEAT. Sì, con vainiglia. (al Servitore)

FLOR. Avverti, di quella con la vainiglia. (al Servitore)

SERV. (Non dubiti, che gli farò spender bene il suo denaro). (da sé, parte)

BEAT. Ieri sera siete partiti presto.

LEL. Avevamo un certo impegnetto.

FLOR. Già Lelio non può tacere.

BEAT. Ditemi, ditemi, dove siete stati?

LEL. Da una che conoscete ancor voi.

BEAT. E chi è?

FLOR. Una vostra amica.

BEAT. Ma ditemi chi ella è.

FLOR. La contessina Rosaura.

BEAT. Contessina delle zucche! E dite che è mia amica?

FLOR. Mi pare di sì.

BEAT. Vada al diavolo. Non mi degno di quelle amicizie.

LEL. Basta; siamo stati un poco da lei.

BEAT. A che fare a quell’ora?

LEL. A bere una bottiglia di Canarie.

BEAT. Avete fatto bene, perché in casa mia avete bevuto male.

LEL. Oh scusatemi! Non per questo.

FLOR. Via, l’avete fatta. (a Lelio)

LEL. Vi dirò, eravamo invitati.

BEAT. Da chi?

LEL. Da lei, non è vero? (a Florindo)

FLOR. Sì, da lei.

BEAT. Maledetta! Fa la bacchettona, e poi fa gl’inviti quando non vi è suo marito. Se il Conte lo sa...

FLOR. Di grazia, non glielo dite.

LEL. No, per amor del cielo.

BEAT. No, no, non parlo. (Ma lo saprà). (de sé; Servitore con tre cioccolate, le dispensa, e parte)

BEAT. E che discorsi avete fatti da quella scimunita?

LEL. Oh! belli. (bevendo)

FLOR. Bellissimi! (bevendo)

BEAT. Ha parlato di me?

LEL. Non mi ricordo. Ah, Florindo, vi ricordate voi?

FLOR. Ho poca memoria. (ridendo)

BEAT. Già quell’impertinente l’ha sempre meco.

LEL. Che dite, Florindo, di questa cioccolata?

FLOR. Preziosa.

BEAT. Vorrei saper che cosa ha detto.

LEL. Cose che non hanno verun fondamento.

FLOR. Parla da pazza.

LEL. Avete sentito quando io le ho detto: Signora, parlate bene? (a Florindo)

FLOR. Io sono stato in procinto di dirle delle belle cose.

BEAT. Parlava dunque di me con poco rispetto?

FLOR. Io non dico che parlasse di voi.

LEL. Noi non mettiamo del male.

BEAT. Orsù, voi altri non volete per prudenza, ma io capisco bastantemente, che quella temeraria ha sparlato di me. (Servitore esce di nuovo)

SERV. Signora, è qui la signora contessa Rosaura, che vorrebbe riverirla. (prende le chicchere)

BEAT. Non la voglio riverire. (s’alza)

LEL. (Quest’incontro vuol essere un imbroglio per noi). (a Florindo)

FLOR. (Al ripiego). Fate dire che non siete in casa. (a Beatrice)

BEAT. No. Dille che passi. (Servitore via) Vo’ vedere che cosa pretende da me, e con qual ardire mi comparisce dinanzi.

LEL. Amico, leviamo l’incomodo alla signora Marchesa.

FLOR. Sì, lasciamola in libertà.

BEAT. Anzi vi prego di restare.

LEL. Signora, permettetemi.

FLOR. Torneremo.

BEAT. Se partite, mi disgustate. Due cavalieri, come voi siete, non mi daran questo dispiacere. Desidero che siate testimoni di questa visita, e del mio ricevimento.

LEL. (Siamo in un bell’impegno). (da sé) Signora, per obbedirvi resterò. Ma vi prego d’una grazia, non fate scene colla signora Rosaura. Se le dite qualche cosa in nostra presenza, crederà che noi vi abbiamo riportato, e ci porrete in qualche brutto impegno.

FLOR. Eh, la Marchesina è una dama prudente.

LEL. E poi in casa vostra che cosa le volete dire?

FLOR. Bisogna riflettere che anche il Conte se ne dorrebbe. Finalmente è sua moglie.

BEAT. Basta; sentirò come parla, e mi regolerò sul fatto.

SCENA SESTA

La contessa Rosaura e detti.

ROS. Serva della signora Marchesa.

BEAT. Riverisco la signora Contessa. (con i denti stretti)

LEL. Signora Contessa. (s’inchina a Rosaura)

FLOR. Signora Contessa. (s’inchina a Rosaura)

ROS. Serva loro.

BEAT. Ehi, da sedere. Accomodatevi. (siedono, e il Servitore parte) Volete la cioccolata? (a Rosaura)

ROS. Obbligatissima. L’ho bevuta.

BEAT. Che prodigio è questo, che voi venghiate a favorirmi?

ROS. Signora Marchesa, sono venuta ad incomodarvi, perché ho bisogno di voi.

BEAT. Che cosa posso fare per compiacervi? (con simulazione) (Mi aspetto qualche bella scena). (da sé)

ROS. Sentite: con licenza di lor signori. (alli due, poi s’accosta all’orecchio di Beatrice) (Desidero parlarvi da sola a sola).

BEAT. Ma perché? Non potete parlare alla presenza di questi due cavalieri? (a Rosaura)

ROS. (L’affare è delicato, bramo esser sola, altrimenti non parlo). (a Beatrice)

LEL. Amico. (fa cenno a Florindo di partire, e Florindo accenna di sì)

BEAT. (Basta, aspetteremo che se ne vadano). (a Rosaura) (Son curiosa di sentire che cosa sa dirmi). (da sé)

LEL. Signora Contessa, ha riposato bene?

ROS. Benissimo.

LEL. Che buon Canarie!

ROS. È vostra bontà.

FLOR. Il vino di Canarie della contessa Rosaura e la cioccolata della marchesa Beatrice sono due cose preziose.

BEAT. Ma pare che la bottiglia riesca migliore, quando si vuota mormorando.

ROS. Così si dice della cioccolata.

LEL. Signora Marchesa, vi supplico, permettetemi ch’io me ne vada. Ho un affare di premura. (s’alza)

FLOR. Anch’io devo andar coll’amico.

BEAT. Non so che dire, fate ciò che vi aggrada. (Ho curiosità di sentir Rosaura). (da sé)

LEL. Servo di lor signore.

FLOR. Mi umilio a lor signore.

ROS. Serva.

BEAT. Serva.

LEL. (Andiamo, andiamo, e lasciamole taroccar fra di loro). (a Florindo)

FLOR. (Così non entreremo in alcun impegno). (partono)

SCENA SETTIMA

La marchesa Beatrice e la contessa Rosaura, poi il servitore.

BEAT. (Se mi perderà il rispetto, se ne pentirà). (da sé)

ROS. (M’aiuti il cielo, mi dia valor la prudenza). (da sé)

BEAT. Ebbene, che volete voi dirmi?

ROS. Cara signora Marchesa, io sono la più afflitta donna di questo mondo. Vengo da voi per consiglio, per aiuto, per protezione.

BEAT. In quel ch’io posso, vi servirò.

ROS. Voi che siete una dama saggia e virtuosa, compatirete il mio stato. A mio padre istesso fatta non ho la confidenza che son per farvi, e nell’aprirvi il mio cuore, comprenderete la stima ch’io di voi faccio, e della vostra virtù.

BEAT. (Costei mi adula). (da sé)

ROS. Sarete ben persuasa, che non si dia in questo mondo un bene maggiore, oltre la domestica pace; cosicché, se dar si potesse vera felicità sulla terra, credo certamente che la pace, la tranquillità, la contentezza dell’animo sarebbe il sommo bene che si sospira. Io questa felicità l’ho perduta. Io sono in una perpetua guerra con mio marito. Guerra per altro, che da lui si promuove al mio povero cuore, il quale altro non cerca che compiacerlo. Il conte Ottavio, che mi amò un tempo colla maggior tenerezza, che faticò per avermi, che mi fu per un anno il più tenero, il più amabile sposo, ora non mi guarda, non parla, fugge l’occasion di vedermi, divide il letto, e mi tratta come s’io fossi la sua più fiera nemica. (piange)

BEAT. Compatisco il vostro stato. Ma per qual motivo venite da me a fare una simile lamentazione?

ROS. Oh Dio! Compatitemi. Vengo da voi, ed eccone la ragione. So che mio marito frequenta la vostra conversazione. So che voi avete la bontà di soffrirlo, e convien dire che siate buona davvero, se tollerar sapete il suo difficile temperamento. Siccome fa egli stima di voi, so che vi ascolterà con rispetto. Vi supplico pertanto, quanto so e quanto posso, vi supplico colle lagrime agli occhi, spremute dal più casto, dal più sincero amor coniugale, parlategli voi per me. Ditegli che un cavaliere onorato non dee maltrattare la moglie onesta; che il sacro vincolo del matrimonio dee escludere ogni altro affetto; che la carità, l’umanità, la coscienza, le leggi del cielo, quelle della natura insegnano amar chi ama, comandano amar chi si deve, minacciano i traditori, gl’ingrati. Ditegli... Oh Dio! Voi saprete dire e immaginare ragioni di queste mie più forti e convincenti. Voi direte cento migliori cose, che a me non possono essere dall’ignoranza mia suggerite. (piange)

BEAT. (Mi confonde; non la capisco). (da sé) Ma... vostro marito, se non ascolta voi, non ascolterà neanche me.

ROS. Talora fanno colpo i consigli de’ buoni amici.

BEAT. Credete voi ch’io sia buon’amica di vostro marito?

ROS. Sì. Di lui, di me, e di tutta la nostra casa.

BEAT. Come credete ch’egli pratichi in casa mia?

ROS. Come praticare si può e si deve con una dama savia, onorata e discreta, quale voi siete.

BEAT. Amica, ho piacer che mi conosciate. Non sono capace di operare diversamente.

ROS. È vana questa vostra giustificazione. So chi siete, e per questa ragione vengo a gettarmi nelle vostre braccia. Niuna meglio di voi intende i doveri della dama savia, della femmina onesta. A voi non è ignoto, che una donna che turbi la pace di una famiglia, è la più indegna femmina della terra. Che chi tenta sedurre i mariti altrui, merita uno sfregio sul viso. Che chi coltiva amori illeciti, amicizie sospette, conversazioni pericolose, è un’indegna, una perfida, una scellerata. Cara marchesa Beatrice, a voi mi raccomando.

BEAT. (Fremo di sdegno, e non mi posso sfogare). (da sé)

SERV. Signora, una parola. (a Beatrice)

BEAT. Con vostra permissione. (a Rosaura, e s’alzano)

ROS. Accomodatevi. (Parmi d’averle detto abbastanza). (da sé)

SERV. (È qui il signor conte Ottavio). (piano a Beatrice)

BEAT. (Digli che se ne vada, che è qui sua moglie).

SERV. Sì signora. (Oh i bei pasticci!) (da sé, parte)

BEAT. Eccomi da voi. (a Rosaura)

ROS. Ebbene, signora Marchesa, siete voi disposta a favorirmi?

BEAT. Gli parlerò.

ROS. Che cosa gli direte?

BEAT. Gli dirò tutte le vostre ragioni.

ROS. Gli direte qual sia l’obbligo di un marito?

BEAT. Sì, glielo dirò.

ROS. Qual sia l’impegno di un cavaliere onorato?

BEAT. Sì ancora.

ROS. Se mai scopriste ch’egli avesse qualche nuovo affetto, qualche nuova premura, soggiungetegli quel che v’ho detto.

BEAT. Sì, non dubitate.

ROS. Ditegli, che se qualche bella lo seducesse, sarebbe una scellerata, un’indegna. Marchesa, compatitemi, e vi son serva.

BEAT. Addio, Contessina, addio! (un poco confusa)

ROS. (Si vede che la coscienza la rimorde. Il rossore le verrebbe sul viso, se un altro rosso non l’impedisse) (da sé, e parte)

SCENA OTTAVA

La marchesa Beatrice sola.

BEAT. Che discorso! che maniera! che misto di rimproveri e di buone grazie! Costei mi ha confusa, mi ha avvilita. Una donna che tratta i mariti altrui, è un’indegna, una perfida, una scellerata? Ah, queste espressioni vengono a me! E ora me ne avvedo? E non ho saputo rispondere? Ah, giuro al cielo, non son chi sono, se non mi vendico. Vo’ farle pagar caro quel veleno, ch’ella mi ha fatto a mio dispetto ingoiare. (parte)

SCENA NONA

Camera in casa del conte Ottavio.

Corallina e Pantalone

COR. No, signore, non è in casa.

PANT. Dove xela andada?

COR. Non lo so in verità.

PANT. Con chi xela andada?

COR. Col suo bracciere e con i suoi servitori.

PANT. Xe un pezzo?

COR. Un’ora in circa.

PANT. Credeu che la possa star un pezzo a vegnir?

COR. Non lo so in verità.

PANT. Ma dove mai porla esser andada?

COR. Bisogna dire che abbia avuta una gran premura. Non esce mai.

PANT. So mario l’alo vista? Salo che la xe fora de casa?

COR. Egli è partito due ore prima. Non credo che lo sappia.

PANT. Elo andà via senza saludarla?

COR. Oh, si sa.

PANT. E ela no la xe andada a trovarlo?

COR. Voleva andare, ma egli ha tenuta la porta serrata.

PANT. Boazzo[8]! Cossa disevela mia fia?

COR. Sospirava.

PANT. Poverazza! (si asciuga gli occhi) Diseme, ghe falo mai nissuna finezza?

COR. Non la guarda mai.

PANT. Aseno! E ela ghe vala intorno, ghe fala carezze?

COR. Lo guarda sott’occhio, e piange.

PANT. Povera creatura! (con qualche lagrima) Ghe crielo[9]?

(8)S.

COR. Sempre le mangia gli occhi.

PANT. Ah can! E ela?

COR. Tace, e sospira.

PANT. Siestu benedetta! (piangendo)

COR. È tanto buona!

PANT. Me schioppa [10]el cuor.

SCENA DECIMA

Ottavio e detti, poi Brighella.

OTT. (Il vecchio è sempre qui). (da sé)

COR. Il padrone. (a Pantalone, poi fa una riverenza e parte)

PANT. La compatissa, se vegno a importunarla: son vegnù per dir una parola a mia fia. (con voce

bassa)

OTT. La vostra cara figliuola non c’è. (ironico)

PANT. La sarà andada poco lontan.

OTT. Eh, so io dov’è.

PANT. Ho piaser che la lo sappia. Tornela presto?

OTT. Così il diavolo non la facesse tornare.

PANT. Ma, caro sior Conte, cossa gh’ala fatto mia fia? Cossa gh’ala fatto?

OTT. Io non la posso vedere.

PANT. Mo perché?

OTT. Perché non la posso vedere.

PANT. Questo xe un odiarla senza rason.

OTT. L’ho amata senza ragione; non sarebbe strano che senza ragione l’odiassi.

PANT. Ma ghe vol i motivi, per cambiar in odio l’amor.

OTT. I miei motivi li ho.

PANT. La li diga.

OTT. Li dirò, quando sarò costretto doverli dire.

PANT. Che vol dir mo quando?

OTT. Quando vi rimanderò a casa la vostra figliuola.

PANT. La me la vol mandar a casa?

OTT. Sì, col braccio della Giustizia.

PANT. Zitto, la vegna qua. Senza tanti strepiti, senza ricorrer alla Giustizia, la me daga mia fia, e mi d’amor e d’accordo me la togo, e me la meno a casa.

OTT. Volentieri. In questa maniera saremo amici piucché mai. Come volete che noi facciamo?

PANT. Vorla restituir la dota, o vorla passarghe i alimenti?

OTT. Quanto vorreste ch’io le passassi all’anno?

PANT. All’anno... tre.. e do cinque, e do sette... Sie o settecento ducati all’anno.

OTT. Ebbene, le assegnerò dugento zecchini all’anno; siete contento?

PANT. Contentissimo, e mi penserò a mantegnirla decentemente, in maniera che no la fazza desonor gnanca a so mario.

OTT. Sì, bravo, avrò piacere che mia moglie sia ben trattata, che stia bene, che stia sana, e che comparisca decentemente.

PANT. Gh’importa se la meno a Roma?

OTT. Oh, non m’importa. Conducetela dove volete. Quando è con suo padre, son contento.

PANT. Quando vorla che principiemo?

OTT. Oggi, se volete. Quando ella vien a casa, ve la consegno.

PANT. Vorla che femo do righe de scritturetta?

OTT. A che motivo?

PANT. Per l’obbligo dei dusento zecchini.

OTT. Volentieri, subito. Chi è di là?

BRIGH. Signor.

OTT. Porta da scrivere.

BRIGH. Subito. (parte)

OTT. Avvertite: quando siete a Roma, scrivetemi. Voglio aver nuova di mia moglie.

PANT. No vorla? Ghe scriveremo. (Eh, te cognosso!) (da sé) (Brighella porta il tavolino da scrivere, e parte)

OTT. Sedete ancora voi.

PANT. Quel che la comanda. (siedono)

OTT. Come volete ch’io dica?

PANT. La saverà far meggio de mi.

OTT. Diremo così. (scrive) Desiderando il signor Pantalone de’ Bisognosi avere in sua compagnia la signora Rosaura sua figlia, moglie di me Conte Ottavio di Montopoli, ho io condesceso alle di lui premure, accordando che la Contessa mia moglie stia con esso lui sino ch’ei viverà; e per non aggravare il detto signor Pantalone di tutto il suo mantenimento, m’obbligo io sottoscritto pagarle ogni anno zecchini dugento, e ciò sotto obbligazione de’ miei beni presenti e futuri. Vi par che così vada bene?

PANT. Va benissimo. Ma chi ne darà sti dusento zecchini, se son a Roma?

OTT. Aspettate. Cedendole perciò tanti luoghi di Monte, che tengo in Roma di mia ragione. E per la riscossione vi darò la cartella.

PANT. Benissimo.

OTT. Siete contento?

SCENA UNDICESIMA

La contessa Rosaura che osserva, e detti.

PANT. Son contentissimo.

OTT. Saremo buoni amici?

PANT. Seguro.

OTT. Vi lagnerete più di me?

PANT. No ghe sarà pericolo.

ROS. (Mio padre e mio marito sono pacificati. Parlano amichevolmente fra loro. Lodato il cielo). (da sé)

PANT. No vedo l’ora che vegna a casa mia fia.

OTT. Quando verrà, la consolerete.

ROS. Eccomi, eccomi. Consolatemi, per carità.

PANT. Fia mia, vegnì qua. (s’alza)

OTT. (Mi si leverà dagli occhi). (da sé)

ROS. Via, che avete a dirmi? Marito mio, siete voi di buona voglia?

OTT. Sì; non vedete? (mostra ilarità)

ROS. Sia ringraziato il cielo.

PANT. Rosaura, vu sè sempre stada una fia obbediente, una muggier rassegnada. Adesso bisogna che sta ubbidienza, sta rassegnazion, la pratichè eroicamente. Qua ghe xe vostro pare, là ghe xe vostro mario. Tutti do d’accordo i ve parla, e coll’autorità che i gh’ha sora de vu, i ve comanda, che ve contentè per qualche tempo de vegnir a Roma con mi, de lassar per qualche tempo el consorte: (Rosaura piange) de uniformarve in questo alla volontà del cielo, e far cognosser al mondo che sè una donna de garbo, che sa superar le passion. Cossa me diseu?

OTT. Non crediate già ch’io vi abbandoni. Vi mando con vostro padre a divertirvi in una città magnifica. Non vi lascerò mancare il vostro bisogno. Vi assegno dugento zecchini l’anno, ed eccovi la mia obbligazione. (dà la carta a Rosaura)

PANT. Via, cossa respondeu?

ROS. Che sono moglie del conte Ottavio, che sol la morte mi potrà da lui separare, e ch’io non accetto patti ingiusti, obbligazioni scandalose. (straccia la carta, e parte)

OTT. (Maladetta! Te ne pentirai!) (da sé, parte)

PANT. Oh poveretto mi! oh poveretto mi! oh poveretto mi! (parte)

SCENA DODICESIMA

Brighella, poi Corallina.

BRIGH. Mi resto attonito, resto maraveià! Coss’è ste cosse? Che casa è questa? Dove ha d’andar a fenir ste smanie, sti gridori, ste male grazie? E per cossa grìdeli? E per cossa se dali al diavolo? Per una donna. Oh, donne, donne! Basta, anca mi per una donna g’ho la mia parte de casa del diavolo. Se la fusse una morosa, la manderia a far squartar, ma l’è muier, e bisogna soffrirla e bisogna che me la goda. Vela qua, vela qua, che la me vien a favorir.

COR. Signor consorte, le son serva.

BRIGH. Padrona mia riverita.

COR. Posso aver l’onore di dirle una parola?

BRIGH. Son qua, la comandi.

COR. Vedo che la mi sfugge, che la si nasconde, e da ieri sera in qua non ho l’onore di riverirla.

BRIGH. Son stà impedio per el padron...

COR. Anche la notte per il padrone?

BRIGH. Anca la notte.

COR. So però che ella ha dormito sopra una sedia.

BRIGH. Eh! un pochetto.

COR. Non ha favorito di venire a letto.

BRIGH. Ho fatto per non incomodarla.

COR. L’hai fatto perché tu sei una bestia.

BRIGH. (Dal lei semo sbalzadi al tu, senza passar per il voi). (da sé)

COR. Che cosa avevi paura, che non ci sei venuto?

BRIGH. (Se fusse stà minchion a andarghe). (da sé)

COR. Sai ciò che meriti, e per questo hai avuto timore.

BRIGH. (Mi no ghe rispondo certo). (da sé)

COR. Asinaccio!

BRIGH. (La se comodi).

COR. Dormir sopra una sedia? Lasciar sola la moglie? Maledetto!

BRIGH. (El ghe despiase un pochetto quel dormir sola).

COR. Bell’amore, bella carità!

BRIGH. (Oh, adesso che el so, ho imparà a castigarla).

COR. Se me la fai un’altra volta, meschino te.

BRIGH. (Oh, se te la fazzo).

COR. Ma bestia maledetta, almeno rispondi.

BRIGH. Parlela con mi?

COR. Sì, con te, disgraziato. Mi hai fatto fare una notte da bestia.

BRIGH. Me despiase in verità.

COR. Stassera voglio ricattarmi. Voglio andare a letto a due ore di notte.

BRIGH. Comodeve.

COR. E ci hai da venire ancor tu.

BRIGH. Oh, mi ho da servir el padron.

COR. Fingiti ammalato. (con più dolcezza)

BRIGH. Oh! figurarse!

COR. Eh via. (come sopra)

BRIGH. No certo.

COR. Caro Brighella. (amorosa)

BRIGH. Ma andè in letto quando volì, cossa v’importa de mi?

COR. Sola non posso addormentarmi.

BRIGH. Oh bella! Ve despiase star sola, e po me trattè cussì pulito?

COR. Che cosa ti ho fatto? Che cosa ti ho detto? Tu mi hai strapazzata, tu mi hai provocata, tu sei una bestia. (irata)

BRIGH. Orsù, dormo sulla carega.

COR. Via, via, ho burlato, sei il mio caro marito.

BRIGH. (Oh, sta medesina no la lasso più). (da sé)

SCENA TREDICESIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Oh de casa, gh’è nissun? (di dentro)

COR. Chi è costui?

BRIGH. Un me amigo...

COR. Voglio saper chi è.

BRIGH. Lassè, che anderò mi... (a Corallina)

COR. Come? Voglio sapere chi è, e voglio sentire ancor io.

BRIGH. L’è un servitor della marchesa Beatrice.

COR. Che cosa vuole?

BRIGH. Adesso anderò a sentir.

COR. Signor no. Fallo venir qui. Voglio sentir ancor io.

BRIGH. (Oh che pazienza!) (da sé) Vegnì avanti, compare Arlecchin.

ARL. Bondì, paesan. (esce)

BRIGH. Te saludo. Cossa gh’è da novo?

ARL. Chi è sta bella maschiotta? (verso Corallina)

BRIGH. No ti la cognossi? Me muier.

ARL. To muier?

BRIGH. Sì, me muier.

ARL. L’è so muier? (a Corallina)

COR. Signor sì, sua moglie.

ARL. Sia maledetto!

BRIGH. Cossa gh’è?

ARL. Me despiase.

COR. Perché vi dispiace?

ARL. Me despiase non averlo savudo prima.

BRIGH. Mo perché?

ARL. Perché saria vegnù a farghe conversazion, a servirla de cicisbeo.

COR. Io non ho bisogno di voi.

ARL. Grazie infinite. Padrona de tutto. (con ironia)

BRIGH. Caro paesan, sè un omo curioso.

ARL. La saria bella; semo paesani: avemo la patria in comun, podemo aver in comun anca la muier.

COR. Orsù, che cosa siete venuto a far qui, padron mio?

ARL. A reverirla devotamente.

COR. E non altro?

ARL. E anca qualcossa altro. Gh’elo el to patron? (a Brighella)

BRIGH. El gh’è, ma l’è sulle furie; no se ghe pol parlar.

ARL. Averia da farghe un’imbassada.

BRIGH. Per parte de chi?

ARL. Per parte della me patrona.

COR. (Oh che caro mezzano!) (da sé)

BRIGH. Dimel a mi, che vedrò se ghe posso parlar.

ARL. Senti. Con grazia, patrona bella. (a Corallina, tirando Brighella in disparte) (La me patrona me manda a dir al to patron, che sta mattina... Ma no, prima che la lo reverisse). (piano a Brighella)

BRIGH. Za el se gh’intende.

COR. Con sua licenza, voglio sentire ancor io. (s’accosta)

ARL. Padrona, la se comoda. Me manda la me patrona...

COR. La signora Marchesa?

ARL. La signora Marchesa, a reverir el sior Conte.

COR. Il signor Conte, non la signora Contessa?

ARL. Il signor Conte, non la signora Contessa. E la ghe manda a dir... (verso Brighella)

COR. Parlate con me.

ARL. E la ghe manda a dir che sta mattina...

COR. Brighella, senti. (Va a dire alla padrona segretamente, che venga qui). (piano a Brighella)

BRIGH. (Ma se no la vol...) (a Corallina)

COR. (Va là, fa a mio modo). (come sopra)

BRIGH. (No la vol sentir...)

COR. (Va, che ti caschi la testa).

BRIGH. (Guarda ben, che dormirò sulla carega).

COR. (Via, caro marito, fammi questo piacere, va a chiamar la padrona).

BRIGH. Ti me lo disi colle bone, anderò. (Oh che bel segreto!) (da sé, parte)

ARL. La favorissa, dove ala imparà la creanza?

COR. Compatite. Son qui da voi. Ho mandato mio marito a chiamar il padrone.

ARL. Brava; così farò a lu l’ambassada.

COR. Ma ditemi. Che cosa vuole la signora Marchesa dal mio padrone?

ARL. La ghe vol parlar.

COR. Viene spesso il signor Conte a ritrovarla?

ARL. Oh! spesso.

COR. E Brighella viene con lui?

ARL. Seguro.

COR. In casa vostra starete allegri, vi saranno delle belle cameriere.

ARL. Ghe n’è una, che no l’è el diavolo.

COR. (Ah maledetto! Per questo va volentieri). (da sé)

SCENA QUATTORDICESIMA

La contessa Rosaura e detti.

ROS. Chi è costui? (a Corallina)

COR. Il servo della signora marchesa Beatrice.

ROS. Che fai in questa casa?

ARL. La perdona... ero vegnudo...

ROS. Che fai colla mia cameriera? Va via di qua, non voglio che i servitori trattino colle mie donne di casa.

ARL. Ma mi son vegnudo...

ROS. Lo so; m’ha detto Brighella che sei venuto a far il grazioso colla di lui moglie.

COR. Eh no, signora...

ROS. Vattene di questa casa, o ti farò gettare dalla finestra.

ARL. Eh, anderò per la scala. Ma mi, signora...

ROS. Va via, e se ci torni più, ti farò romper le braccia.

ARL. Obbligatissimo dell’avviso. (Qua no i me vede più). (da sé, parte)

COR. Ma egli, signora mia...

ROS. Colui non lo voglio in casa mia, e non voglio ch’egli sappia il perché. Vieni meco. (parte)

COR. Ora la capisco. Ne sa più di me. Oh, questa sì è una moglie savia e prudente! (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Camera in casa della Marchesa.

La marchesa Beatrice, poi il servitore.

BEAT. Più che rifletto alle parole artificiose di Rosaura, più sento al vivo le punture del suo ragionamento. Sono offesa e non so il modo di vendicarmi. Il Conte potrebbe farlo, ma non vorrà o non saprà, e a me non conviene sollecitarlo. Orsù, per primo capo di mia riputazione, tronchisi questa pericolosa amicizia. Si congedi il Conte, e più non venga in mia casa. L’ho mandato a chiamare, e non viene. Anch’io con un viglietto gli spiegherò il mio sentimento. Ehi. (chiama)

SERV. Signora, è qui il signor conte Ottavio.

BEAT. Venga, venga (che viene a tempo). (da sé) Non voglio altro scrivere. (Servitore parte) Venga, ma per l’ultima volta.

SCENA SEDICESIMA

Il conte Ottavio e detta.

OTT. Signora mia...

BEAT. Conte, in casa mia non ci venite più.

OTT. Come!...

BEAT. Non voglio più rimproveri da quell’impertinente di vostra moglie.

OTT. Indegna! N’è ella forse...

BEAT. Tant è, non ci venite più.

OTT. Ma ditemi...

BEAT. M’avete inteso.

OTT. Giuro al cielo, ascoltatemi. (con voce alta)

BEAT. Che cosa vorreste dire?

OTT. Voglio sapere che cosa ha detto Rosaura.

BEAT. Ha detto ch’io sono una scellerata, un’indegna, una ribalda, che seduce gli altrui mariti, che turba la pace delle famiglie.

OTT. E voi le avete lasciato dir tutte queste cose? Con tutta la vostra furia pare che vogliate conquassare il mondo, e poi vi lasciate strapazzare così?

BEAT. Ah! Non so che mi dire... Ha legato il discorso in una maniera, che solo dopo mi sono avveduta de’ suoi rimproveri.

OTT. Dunque non vi ha maltrattata così chiaramente.

BEAT. La sarebbe bella! Se avesse avuto tanto ardire, meschina lei.

OTT. Dunque chi sa? Può essere che non abbia inteso parlar di voi. Rosaura non è di tal costume. BEAT. Sì, sì, difendete la moglie. Tenete da lei; andate al diavolo, non mi venite più d’intorno.

OTT. Eh via, signora...

BEAT. Sono risolutissima. La nostra amicizia è finita.

OTT. Ma io in che cosa ho mancato?

BEAT. Indegna! Son io che vi seduco? Chi vi chiama? Chi vi prega? Chi vi cerca?

OTT. E per causa di questa pazza mi discacciate da voi?

BEAT. Sì signore, andate a casa e ringraziatela.

OTT. Sì, la ringrazierò. (alterato)

BEAT. La ringrazierete di cuore?

OTT. La ringrazierò, la ringrazierò. (alterato)

BEAT. Come?

OTT. Lo sentirà quell’indegna, e se ne ricorderà per tutto il tempo di vita sua.

BEAT. Eh via! (schernendolo)

OTT. Non lo credete?

BEAT. Eh, che due carezze della moglie accomoderanno ogni cosa.

OTT. Delle sue carezze sono mesi che io non ne voglio. La batterò.

BEAT. Sì, acciò dica che l’avete battuta per causa mia.

OTT. La caccerò via.

BEAT. Peggio. Tutto il mondo contro di me.

OTT. Ma che ho da fare?

BEAT. Tralasciar di vedermi.

OTT. Ed avrete voi tanto cuore?

BEAT. Ah Conte! La mia riputazione vuole così.

OTT. Ah maladetta Rosaura!

BEAT. Vostro danno; l’avete voluta.

OTT. Farò una risoluzione bestiale.

BEAT. No, no, allontanatevi da questa casa, e tutto anderà bene. Privatevi delle conversazioni, e tornerete ad amare la cara sposa.

OTT. Ah! voi sempre più m’inasprite. Se qui fosse colei, le caccerei questa spada nel petto... Basta... Il cielo mi tenga le mani. Sono fuor di me stesso.

BEAT. Passerà, passerà. (schernendolo)

OTT. Voi mi mettete al punto.

BEAT. Passerà, passerà. (come sopra)

OTT. Mi porti il diavolo, s’io non fo le vostre e le mie vendette. (parte)

BEAT. L’ira del Conte scema in parte la mia. Apprende con senso nobile l’ingiurie recatemi da sua moglie. Qualunque risentimento egli faccia, non dirà che da me stato sia suggerito, ma non potrò mirar che con giubilo mortificata e punita la mia nemica. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa del Conte con tavolino.

Il conte Ottavio, poi Brighella.

OTT. Temeraria! Indegna! Andar dalla marchesa Beatrice? Maltrattarla? Mettermi in impegno? Farmi ridicolo? Me la pagherai. Io per te scacciato dalla Marchesa? Per te privato dell’unica mia conversazione? Per te vilipeso, per te disprezzato? Ah! la mia disperazione verrà a cadere sopra di te medesima. Non vuoi staccarti da me? Non vuoi allontanarti? Lo farai tuo malgrado; sì, lo farai. Brighella?

BRIGH. Lustrissimo.

OTT. Ha desinato colei?

BRIGH. Chi, lustrissimo?

OTT. Rosaura.

BRIGH. Ah, la padrona? L’ha magnà do bocconi de soppa. L’ha rotto un’ala de colombin, e appena la se n’ha messo un boccon alla bocca, gh’è vegnù da pianzer; la s’è alzada dalla tavola, e l’è andada via. (s’asciuga gli occhi)

OTT. (Pianga pure a sua voglia). (da sé) Ora dov’è?

BRIGH. La sarà in te la so camera.

OTT. Vi è suo padre?

BRIGH. Lustrissimo no.

OTT. Dimmi. Non è solita Rosaura a bere ogni dopo pranzo una limonata?

BRIGH. Sì signor, ghe l’ha ordenada el medego.

OTT. L’hai ancora fatta per oggi?

BRIGH. Lustrissimo sì: l’ho fatta, e l’è qua in tinello in fresco, in te la so caraffina.

OTT. E perché non gliela porti?

BRIGH. Me pareva ancora presto.

OTT. Dirà che la servitù non ha attenzione per lei, ch’io non voglio che sia servita. Di tutto mi carica, di tutto prende motivo d’irritamento. Presto, portale la limonata.

BRIGH. La servo subito. (Che premura estraordinaria! Bisogna ch’el voia far pase). (da sé; parte, poi ritorna)

OTT. Non vuoi andartene? Mi vuoi tormentar in eterno? Perfida! Te n’avvedrai.

(Brighella con sottocoppa, su cui evvi la caraffina ed un bicchiere)

BRIGH. Vado subito a portarghe la limonada. (ad Ottavio, passando)

OTT. Aspetta. Vammi a prendere la mia tabacchiera.

BRIGH. Dove, lustrissimo?

OTT. Nella camera dove ho dormito.

BRIGH. Ma... e la limonada?

OTT. Mettila lì; e vammi a prendere la tabacchiera.

BRIGH. Presto fazzo a portarla alla padrona...

OTT. Pezzo d’asino. Io voglio esser servito. Metti giù quella limonata, e vammi a prendere la tabacchiera.

BRIGH. La servo subito. (Oh che casa rabbiosa! Oh che casa del diavolo!) (mette la sottocoppa coperta sul tavolino, e parte; poi ritorna)

OTT. (Guarda qua e là, se è veduto) Ecco ciò che ti farà allontanare da me per sempre. (cava una cartuccia di tasca) Ecco la vendetta mia, e quella della Marchesa. (leva il coperchio alla caraffina) Sciolto ch’io sarò dall’odiato legame, sposerò la Marchesa, e questa polvere lo scioglierà ben presto; e lo zucchero con cui è mescolata, nasconderà l’amaro col dolce. Vien gente. Non vo’ dar sospetto. (si scosta dal tavolino e lascia scoperta la caraffina)

BRIGH. Eccola servita. (gli dà la tabacchiera)

OTT. Via, porta subito la limonata alla Contessa. (Indegna! domani non ti avrò più negli occhi). (da sé, parte)

SCENA SECONDA

Brighella solo.

BRIGH. Sempre in collera, sempre musoni, sempre se grida. Oe! la caraffina scoverta! Nissun la pol aver toccada, altri che el padron. Bevù nol ghe n’ha certo. La me par torbidetta. Oh, cossa che el diavolo me mette in testa! Sta premura che ghe porta la limonada, nol l’ha più avuda! Iersera i ha gridà, no i ha dormido insieme... No vorria... basta. A mi no me tocca... Sior sì che me tocca... Sior sì che me tocca... Mi fazzo la limonada, e se nascesse qualche desordene? Son intrigado. Ghe penserò suso. Ma co sto dubbio in corpo, no vôi metter a rischio la vita della padrona, e la mia riputazion. (prende la sottocoppa, e vuol partire)

SCENA TERZA

Corallina e detto.

COR. Sai che cosa t’ho da dire? Che in casa della marchesa Beatrice non voglio che tu ci vada più.

BRIGH. Ben, ben, no gh’anderò. (vuol partire)

COR. (Lo trattiene) Se il padrone ci va, o conduca un altro servitore, o ce n’andremo di questa casa.

BRIGH. Via, sì, ve digo. (ansante per partire)

COR. (Lo trattiene) Ho saputo che vi è una bella cameriera. Briccone! Per questo ci vai volentieri.

BRIGH. Eh, gh’ho altro in testa... (come sopra)

COR. Dove con questa furia?

BRIGH. No vedè? Porto la limonada alla padrona.

COR. È presto. Non è l’ora solita.

BRIGH. Cossa voleu da mi?

COR. Stassera anderemo a buon’ora?

BRIGH. Sì, a bonora... (vuol partire)

COR. Sentite.

BRIGH. Lasseme portar sta limonada.

COR. Date qui, la porterò io.

BRIGH. Siora no, vôi portarla mi.

COR. La mia padrona è nel suo gabinetto, gliela voglio portar io.

BRIGH. O gabinetto, o altro, voio andar mi.

COR. Asinaccio!

BRIGH. Stassera la discorreremo.

COR. Sempre a suo modo.

BRIGH. (Adessadesso ghe fazzo bever sta limonada). (da sé)

COR. Me la pagherai.

BRIGH. La carega. (minacciandola)

COR. Maledetto!

BRIGH. Se no ti gh’ha giudizio vago a dormir in un camerin de soffitta. (parte) COR. Ah! converrà andar colle buone: qualche volta sono un poco caldetta, ma vi vuol pazienza, son così di natura. (parte)

SCENA QUARTA

Camera in casa della Marchesa.

La marchesa Beatrice, Lelio e Florindo.

LEL. Eh via, signora Marchesa, calmate la vostra collera.

FLOR. In verità fate torto a voi stessa.

BEAT. Non vi è rimedio: ho risoluto così.

LEL. Ma che cosa mai vi ha detto la contessina Rosaura?

BEAT. Mille impertinenze, una peggiore dell’altra.

FLOR. E che colpa ha per questo il povero conte Ottavio?

LEL. Il povero galantuomo si è sfogato meco, e credetemi, è appassionatissimo per cagion vostra.

FLOR. Mi ha pregato colle lagrime agli occhi, che vi persuada rimetterlo nella vostra grazia.

BEAT. Non voglio esser maltrattata da quella impertinente di Rosaura.

LEL. Ma si può sapere che cosa vi ha detto?

BEAT. Mi ha detto tanto che basta per farmi fare una simile risoluzione.

FLOR. Ci ha raccontato il conte Ottavio che voi avete interpretate le parole della signora Rosaura dopo essere ella da voi partita; onde vi potreste anche essere ingannata.

BEAT. Vedete, se il Conte è d’accordo? Cerca giustificarla.

FLOR. No, non è vero, cerca placar voi, e medita anzi delle risoluzioni, che se hanno effetto, sarà liberato da tutte le seccature.

BEAT. Che cosa vuol fare?

LEL. Vuol mandar la moglie a star con suo padre.

BEAT. Veramente una gran cosa! Tanto e tanto non osserverà i di lui passi?

FLOR. Ma anderanno a Roma, sapete?

BEAT. A Roma?

LEL. Sì; il signor Pantalone anderà a star a Roma.

BEAT. E anderà seco Rosaura?

LEL. Così dicono.

BEAT. Non lo credo.

FLOR. In ogni modo, io dico che ci va del vostro decoro a dimostrare un simile risentimento.

BEAT. Dovrò soffrire di essere ingiuriata?

FLOR. Le ingiurie sono ideali.

BEAT. Ho fondamento di crederle a me dirette.

LEL. Ditemi un poco: se la contessina Rosaura si spiegasse non aver parlato per voi; se si disdicesse pubblicamente di quanto ha detto, o con malizia, o con innocenza, sareste voi soddisfatta?

BEAT. Sarei soddisfatta, ma non lo farà.

LEL. Lo farà senz’altro.

FLOR. Siamo noi mallevadori che lo farà.

BEAT. Vi potete impegnare?

FLOR. So quel ch’io dico. Il punto è che conviene far presto, prima che si traspiri per il paese. Se il conte Ottavio non viene questa sera da voi, la conversazione principia ad investigare il perché.

BEAT. E come s’ha da fare? Se Rosaura non si spiega, suo marito non lo voglio più in casa mia.

LEL. Facciamo venir qui la signora Rosaura.

BEAT. No...

FLOR. No, non va bene. La cosa sarebbe troppo affettata, o fuor di natura.

LEL. Dunque, come pensereste voi? (a Florindo)

FLOR. Favoritemi, signora, come vi siete separata colla Contessa?

BEAT. Io non ho fatta alcuna dimostrazione.

FLOR. Benissimo; né la contessa Rosaura sa finora che voi abbiate rilevate con senso le sue parole.

Ella vi può credere ancora amica, e indifferente. Direi che andassimo tutti uniti a ritrovarla.

BEAT. Oh, questo poi...

FLOR. Lasciatemi finir di dire. Potremmo andar uniti a ritrovarla. Far cadere il discorso a proposito; farla parlare, e farle far tutte quelle dichiarazioni che voi desiderate.

LEL. Bravissimo. Non si può pensar meglio. La cosa è accomodata.

FLOR. Poi sul fatto si passa dalla casa del Conte alla vostra. Chi vuol venir venga, chi non vuole venir, se ne stia. Facciamo la solita conversazione, e non se ne parla mai più.

BEAT. Rosaura non si piegherà.

LEL. La faremo piegare.

BEAT. Come potete compromettervi?

LEL. Noi abbiamo il segreto.

FLOR. Fidatevi di noi.

LEL. Via, consolate quel povero Conte, che dà la testa per le muraglie.

BEAT. Poverino! (deridendolo)

FLOR. Non siate così crudele.

BEAT. Mi fate ridere.

LEL. Animo, animo, presto, andiamo.

FLOR. Via, prima che si raffreddi.

LEL. Andiamo a far questa pace.

BEAT. Orsù, farò a modo vostro. Ma se sarò affrontata, voi due me ne renderete conto. Do alcuni ordini, e sono con voi. (parte)

SCENA QUINTA

Lelio e Florindo.

LEL. Se queste genti si dividono, abbiamo persa la più bella conversazione del nostro paese.

FLOR. Se qualchedun ci sentisse, direbbe che facciamo i mezzani.

LEL. Mestiere alla moda. Si fa di tutto per gli amici.

FLOR. Come riusciremo nel nostro impegno?

LEL. A maraviglia. Piglieremo le parole per aria. Le faremo giuocare a nostro modo; e poi, quando una volta hanno queste donne parlato insieme, ancorché la Contessa non si disdica, tutto si accomoderà.

FLOR. E noi rideremo.

LEL. E vin di Canarie.

FLOR. E cioccolata. (ridendo partono)

SCENA SESTA

Camera in casa del Conte, con tavolino e sedie.

Il conte Ottavio, poi Corallina.

OTT. Ma! finalmente forz’è che l’umanità si risenta. Rosaura sarà un perpetuo rimorso al cuor mio. Ma il bene che onestamente io spero dal cuor di Beatrice, farà scordarmi e l’amore e l’odio che per Rosaura ho provato, e il di lei nome, e il di lei volto, e le sue lagrime, e la stessa mia crudeltà. (siede pensoso)

COR. Signore.

OTT. Che cosa vuoi?

COR. La mia padrona...

OTT. Che fa Rosaura?

COR. Mi manda la padrona... (piangendo)

OTT. Perché piangi? Che hai? (alterato)

COR. No signore, non piango. (s’asciuga gli occhi) Manda la mia padrona a pregarvi, che le permettiate di venirvi a dire una cosa.

OTT. Ditele... che sono occupato.

COR. È una parola sola.

OTT. Sai tu che mi voglia dire?

COR. Signor no, in verità.

OTT. Al tardi sarò da lei.

COR. Signore, non andate in collera. Ha detto che, se non vi parla adesso, non vi parla più.

OTT. (Ah, Rosaura ha bevuto il veleno). (s’alza furioso)

COR. Via, se non volete, non verrà; che serve che v’infuriate?

OTT. (Povera sventurata!) (da sé, agitato)

COR. Le dico che venga?

OTT. (Negherò d’ascoltarla?) (come sopra)

COR. Sì, o no?

OTT. (Ma con qual cuore potrei soffrir di vederla?) (come sopra)

COR. (Oh, io le dirò di sì: buona notte). (da sé, e parte)

OTT. Fuggasi un tale incontro. Corallina... è andata senza dirmi nulla? Presto, presto; me n’andrò fuori di casa. Dov’è la spada? Dov’è il cappello? Brighella. Non v’è nessuno? (agitato)

SCENA SETTIMA

La contessa Rosaura e detto, poi Corallina.

ROS. Se avete bisogno di chi vi serva, son qua io, e niuno vi servirà con tanto amore, quanto la vostra sposa.

OTT. (Oh incontro fatale!) (da sé)

ROS. Marito mio, non temete ch’io voglia distrarvi da’ vostri affari. Due parole vi dico, se mi ascoltate. Caro Conte, non mi dite di no.

OTT. (È molto ilare. Tal non sarebbe, se avesse bevuto il veleno). (da sé)

ROS. Voglio esservi odiosa, voglio che le parole mie vi dispiacciano; finalmente si può fare un piccolo sagrifizio per acquistar la sua pace.

OTT. Per acquistar la mia pace?

ROS. Sì: per questo solo motivo vengo io a ragionarvi. Ho pensato con serietà alle vostre risoluzioni, e son pronta a rendervi soddisfatto.

OTT. Volete partire con vostro padre?

ROS. Voglio lasciarvi in libertà. Permettetemi ch’io sieda per un momento. (siede)

OTT. Avete voi qualche male?

ROS. No, per grazia del cielo.

OTT. Dacché bevete le limonate, parmi che stiate meglio della salute.

ROS. È vero, mi fan del bene.

OTT. Oggi l’avete bevuta?

ROS. Non ancora.

OTT. (Respiro). (da sé)

ROS. Via, sedete ed ascoltatemi, che resterete contento.

OTT. Parlate. Sono ad ascoltarvi. (siede)

ROS. Per principiare il discorso con ordine, dovrei rammentarvi che voi mi amaste, in tempo ch’io non sapeva che fosse amore...

OTT. Il ragionamento riuscirebbe assai lungo. Non avrei tempo per ascoltarvi.

ROS. Ciò direi solamente per farvi comprendere, che voi m’insegnaste ad amare.

OTT. Per dedurne poi che?

ROS. Che siccome principiai ad amarvi per rassegnazione ai vostri voleri, posso terminar di vedervi per obbedienza ai vostri comandi.

OTT. Tutto ciò vuol concludere, che avete risoluto di lasciarmi e di andare con vostro padre, non è egli vero?

ROS. Non siete ancora arrivato al punto. Corallina. (Corallina colla sottocoppa colla limonata)

COR. Comanda la limonata?

ROS. Sì, lasciala qui, e vattene. (Ottavio si turba)

COR. (Che brutto ceffo! Mi fa paura). (da sé, parte)

OTT. Che è questo? (alterato)

ROS. Questa è la solita mia limonata.

OTT. E perché la venite a bevere qui? (alterato)

ROS. Compatitemi. Non ho avuto tempo.

OTT. (S’alza agitato)

ROS. Fermatevi. (lo tiene per la veste)

OTT. Lasciatemi.

ROS. No, Conte, ascoltatemi. Misero voi, se non mi ascoltate.

OTT. Che volete voi dirmi?

ROS. Sedete.

OTT. Eccomi. (siede)

ROS. Conte mio, qui nessuno ci sente; siam soli, e possiam parlare con libertà. Voi siete sazio di me, voi amate la marchesa Beatrice; il nostro vincolo v’impedisce di possederla; il zelo mio vi tormenta nel conversarla; sono stata io stessa a rimproverarla, e per me forse da sé vi scaccia la vostra bella. Tutti motivi del vostro sdegno, tutte colpe di questa infelice, tutte ragioni che minacciano la mia morte. Eccola: voi, Conte mio, voi me l’avete preparata entro di quest’ampolla. Non voltate la faccia, non isfuggite mirarmi. So che quest’è un veleno; so che voi lo avete a me destinato: non ricuso di beverlo, ma far lo voglio in presenza vostra.

OTT. Eh, chi vi narra tai fole? Non credete... Non è... (vuol prender la caraffina)

ROS. Fermatevi, e lasciatemi dire. Se siete reo, compatitemi; se innocente, consolatemi. Deh torniamo a quel fatale principio, che vi dà pena di rammentare. Sovvengavi che voi foste il primo ed il solo amor mio. Deh rammentate a voi stesso per un momento le tenerezze che per un anno mi praticaste. Io era la vostra delizia, io il vostro bene, io la vostra consolazione. Oh cielo! Quando principiaste ad amarmi meno? Quando le mie luci, il mio volto, le mie parole principiarono a dispiacervi? Confessatelo da cavaliere. Allora solo che i vezzi della marchesa Beatrice v’istillarono il veleno nel cuore. Qual colpa ho io commessa, che meritar mi facesse lo sdegno vostro? Mi sono io allontanata mai dall’amarvi, dall’obbedirvi, dal compatirvi? Ah, dunque un nuovo amore mi rese odiosa ai vostri occhi. E voi vi lusingate, che sciolto dall’odiata catena che a me vi unisce, sareste colla mia rivale felice? No, v’ingannate. Farà altri le mie vendette, e soffrirete forse veder dimezzato quel cuore, che ora vi stimola ad allontanarvi dal mio. Ciò dicovi soltanto per l’amore che ancor vi porto, non per movervi a compassione di me. Odiatemi pure, uccidetemi, ve lo perdono; mentre piuttosto che vivere da voi lontana, a voi mi eleggo morir vicina. Sarete soddisfatto. Sarà Beatrice contenta. Recatele la novella della mia morte. Conte mio, sposo barbaro, ecco ch’io bevo... (in atto di prendere la caraffa)

OTT. Ah no, fermate, Rosaura mia... Vi domando perdono... Oimè... conosco il fallo... comprendo il torto... Sposa, compatitemi per pietà.

ROS. Oh cielo! E sarà vero che voi di cuor mi parliate?

OTT. Ah! che mi sento mille furie in seno, che mi sbranano il cuore.

ROS. Deh calmatevi.

OTT. Odiatemi, che ben lo merito.

ROS. No, caro, vi amerò piucché mai.

OTT. Sono un barbaro, sono un traditore.

ROS. No, siete il mio caro sposo.

OTT. Qual pena mi si conviene per un sì nero delitto?

ROS. Io vi darò la pena che meritate.

OTT. Sì, studiate la più crudele.

ROS. Abbandonate la conversazione di Beatrice.

OTT. Vada al diavolo. Sì, lo conosco: ella è cagion di tutto. L’aborrirò, l’odierò in eterno.

ROS. Bastami che non l’amiate.

OTT. Andiamo via di Montopoli.

ROS. Sì, ecco la maniera di non vederla mai più.

OTT. Perché non s’apre la terra, perché non mi fulmina il cielo?

ROS. Non date in questi trasporti.

OTT. Arrossisco in mirarvi.

ROS. Amatemi, e ciò mi basta.

OTT. Oh cielo! Come scopriste voi il veleno?

ROS. Il povero Brighella s’insospettì, m’avvisò. Perdonategli per pietà.

OTT. Sì, cara, con tutto il cuore. Datemi la mano.

ROS. Eccola.

OTT. (L’abbraccia stretta con tutte due le mani) Compatitemi, compatitemi, compatitemi.

ROS. Amatemi. (piange)

SCENA OTTAVA

Pantalone e detti.

PANT. (Vede li detti abbracciati) Olà! Come! Fia mia! Sior Ottavio! Rosaura! Sior zenero! Sieu benedetti! Oh cari! Oimei! Muoro dalla consolazion. (piange)

ROS. Consolatevi, signor padre, mio marito mi ama.

PANT. Distu da senno?

ROS. È tutto mio.

PANT. Oh caro! (bacia il Conte) Com’ela? Come vala? Alo lassà l’amiga? (a Rosaura)

ROS. (Sì, è tutto mio). (a Pantalone)

OTT. Ah! signor Pantalone, son confuso. Troppe cose si uniscono a rendermi stordito.

ROS. Via, non parliamo di cose tetre. Signor padre, volete che andiamo a Roma?

PANT. Come? A Roma? Senza to mario?

ROS. Oh! ha da venire anche lui. È vero, signor Come?

OTT. Sì, andiamoci quanto prima.

PANT. Oh magari! Tutti insieme. Pare, fia, muggier, mario, oh che compagnia! Oh che conversazion! Torno dies’anni più zovene.

SCENA NONA

Corallina e detti.

COR. Signori, è qui la signora marchesa Beatrice col signor Lelio e il signor Florindo.

OTT. Vadano al diavolo.

PANT. Bravo! Che i vaga al diavolo.

OTT. Ma no, di’ loro che passino.

PANT. (Tolè, semo da capo). (da sé)

OTT. Rosaura, non dubitate. Il tempo è opportuno per una forte risoluzione.

ROS. Mi fido della vostra virtù.

COR. Che passino?

OTT. Sì, t’ho detto.

ROS. Porta la limonata nella mia camera; e avverti non me la tocchino.

COR. Oh non dubiti! Nessuno ha mai toccato la roba sua. (ritira il tavolino indietro)

OTT. (Perché non farla gettare?) (a Rosaura)

ROS. (Lo farò senza dar sospetto). (ad Ottavio)

COR. (L’ampolla la lascio lì per ora; la prenderò poi. Ho d’andar a rispondere a quei signori coll’ampolla in mano?) (da sé, e parte)

OTT. Rosaura, ritiratevi con vostro padre.

PANT. (No lo lassar solo con culìa). (piano a Rosaura)

ROS. Vi ubbidisco. Andiamo.

PANT. (La lo farà zo). (come sopra)

ROS. Seguitatemi, se mi amate. (a Pantalone)

PANT. (O povera gnocca! Ti vederà). (parte con Rosaura)

OTT. Gli uomini, quando sono arrivati all’estremo dell’iniquità, o devono perire, o devono tornar indietro. Io era già sul punto di precipitare. Il cielo mi ha illuminato. Rosaura mi ha soccorso, la sua virtù mi ha assistito.

SCENA DECIMA

La marchesa Beatrice, Lelio, Florindo e detto.

LEL. Amico! Eccomi qui da voi. (al Conte)

FLOR. Ed eccomi con una bella compagnia.

BEAT. (Appena mi guarda. Pretenderà ch’io sia la prima a parlare). (da sé)

OTT. Amici, vi supplico, favorite passare dalla Contessa. Io devo dire qualche cosa alla Marchesa sola.

LEL. Volentieri, servitevi pure. (parte)

FLOR. Sì, senza cerimonie. (parte)

BEAT. Aspettatemi. (vuol seguirli)

OTT. Vi supplico, ascoltatemi, signora Marchesa. Io vi ho servito pel corso di due anni: voi per altrettanto tempo mi avete favorito. I nostri trattamenti sono stati onesti, degni di voi e degni di me. Circa alle intenzioni, esaminate le vostre, io lo farò delle mie.

BEAT. Che ragionamento mi fate voi?

OTT. Signora, il luogo, il tempo mi obbliga a parlarvi succintamente. Io vado a Roma, e non mi vedrete mai più.

BEAT. Perché una tale risoluzione?

OTT. Per distaccarmi da voi.

BEAT. Per distaccarvi da me? Chi sono io?

OTT. Una donna che mi aveva rapito il mio cuore.

BEAT. Un diavolo che vi porti.

OTT. Non vi alterate.

BEAT. Indegno! cavaliere malnato!

OTT. Non alzate la voce.

BEAT. Sì, siete un villano.

OTT. Ma giuro al cielo...

BEAT. Che giuro al cielo? Che direte? Che farete?

OTT. Dirò... farò... Eh... La riverisco. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Beatrice sola.

BEAT. Così mi lascia? Così mi tratta? Indegno, malcreato! Così una mia pari schernisce? Ecco dove mi hanno condotto quei savi giovani. Ecco a qual impegno mi hanno sagrificata. Misera me! Ottavio mi fugge; ma questo è il meno; il perfido mi deride, m’insulta, e la sua moglie trionferà, riderà di me quella vile, quella plebea. Chi sa ch’ella non sia a vedermi dietro a qualche portiera? Oh cielo! il dolore mi opprime, il furore m’assale, moro, non posso più. (cade sopra una sedia, svenuta)

SCENA DODICESIMA

Lelio, Florindo e detta.

LEL. Le cose vanno male. (a Florindo)

FLOR. Torniamola a condurre a casa. (a Lelio)

LEL. Signora Marchesa?

FLOR. Oh diamine! Ella è svenuta.

LEL. Il Conte le ha fatto qualche impertinenza.

FLOR. Avete niente da farla rinvenire?

LEL. Niente a proposito: non ho altro in tasca che il tirabusson.

FLOR. Andiamo ad avvisare il Conte e la Contessa.

LEL. Sì, andiamo. Che cosa è questa? (vede l’ampolla)

FLOR. Pare acqua.

LEL. È limonata.

FLOR. Spruzzatela in faccia. Intanto anderò ad avvisare qualcheduno. (parte)

LEL. Animo, signora Marchesa. (spruzzandola)

BEAT. Oimè!

LEL. Che cosa è stato?

BEAT. Niente. Torniamo a casa.

LEL. Volete bere una limonata, che vi farà bene?

BEAT. Sì, date qui. Muoio dalla sete. (beve)

LEL. Ma che cosa è stato?

BEAT. Niente, vi dico. A casa ragioneremo.

SCENA TREDICESIMA

Florindo, il conte Ottavio e detti.

OTT. È rinvenuta?

LEL. Sì.

OTT. Che cosa le avete dato?

LEL. Ha bevuto un poco di limonata.

OTT. Che limonata?

LEL. L’abbiamo ritrovata sul tavolino.

OTT. Oimè! Presto un medico. (a Florindo)

FLOR. Perché?

OTT. La Marchesa è avvelenata.

BEAT. Io avvelenata? (s’alza furiosa)

OTT. Sì, presto, soccorretela.

LEL. Ma come?

OTT. In quell’ampolla vi era il veleno.

BEAT. Ah scellerato, a me il veleno?

FLOR. Presto, un medico. (parte)

OTT. Non era preparato per voi. (a Beatrice)

LEL. Ma per chi dunque? (ad Ottavio)

OTT. Ah! Giacché il cielo non vuole che il mio delitto si celi, sì, lo dirò: era preparato il veleno alla mia povera moglie. Voi, signora, ne foste la cagione, e a voi medesima il cielo lo ha destinato.

BEAT. Misera me, son morta. Voi mi avete condotta al sacrifizio. (a Lelio)

LEL. Che cosa sapevo di quest’imbrogli?

OTT. Ah signora Marchesa! Noi abbiamo fatto piangere un’innocente.

BEAT. Ah sì, il cielo mi punisce a ragione.

SCENA ULTIMA

La contessa Rosaura, Florindo, Pantalone e detti.

OTT. Viene il medico?

ROS. Il medico sarò io.

BEAT. Sarete vendicata. Io morirò. (a Rosaura)

ROS. No, non morirete. In quell’ampolla non vi era il veleno. Non sono stata sì poco cauta a serbarlo. L’ho gettato; ho fatto il cambio con un’altra limonata innocente ed ho mostrato d’avvelenarmi, per osservare sin dove giungesse la crudeltà del mio sposo. Mi condannate voi per un simile inganno? (ad Ottavio)

OTT. No, cara; vi lodo, vi abbraccio, e rendo grazie al cielo di cuore.

PANT. Vedeu, siori? Queste xe le donne de garbo, muggier savie, femene de condotta e prudenza.

BEAT. Ah Contessa, a voi devo la vita. Compatitemi, se per mia cagione avete sofferto dei dispiaceri. L’amicizia mia col Conte vostro marito è stata onestissima; tuttavolta comprendo essere riuscita a voi di pena, a me di pericolo, al mondo di osservazione. Addio per sempre.

LEL. Vi serviremo a casa.

BEAT. No, non voglio più la vostra compagnia. Non avete fatto che eccitare il mio sdegno contro la Contessina.

ROS. E lo stesso hanno fatto meco contro di voi. (a Beatrice)

LEL. Servitor umilissimo di lor signore.

FLOR. Servo divoto.

OTT. Amici falsi, doppi, simulatori.

LEL. (Con un uomo bestiale non ci cimentiamo).

FLOR. (Andiamo, è fuori di sé). (partono)

ROS. Deh permettetemi che in segno di vera e rispettosa amicizia vi dia un abbraccio. (a Beatrice) Che vi assicuri con questo, essermi di tutto dimenticata, e che non mi resta un’ombra di sdegno, un’ombra di sospetto contro di voi. Signor padre, andiamo subito a Roma, e voi, caro sposo, continuatemi l’amor vostro, e abbiate compassione di me, che piansi tanto, che tanto per voi soffersi e penai. Consolatemi in avvenire, e quantunque io non sia né vezzosa, né amabile, amatemi perché son vostra; e assicuratevi che qualunque amore di donna non arriverà mai a quello di moglie, poiché in tutti gli altri, siccome vi è il delitto, vi può essere facilmente l’inganno; ma in questo vi è l’onestà, l’innocenza, la tranquillità, la consolazione, la pace.

Fine della commedia

[1] La torcia

[2] Marito.

[3] Figlia.

[4] Disturbare.

[5] Che bastonano.

[6] Non mi piglia.

[7] De pizzi bellissimi.

[8]  Somaraccio.

[9] La sgrida?

[10] Scoppia, crepa.