Di come la morte frantumi ogni piedistallo su cui poggino arroganza e potere.
(Ester Annetta
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Monologo
LA MORTE DEL PATRIARCA
C’è un ronzio intermittente appena percepibile nel silenzio di quella piccola stanza spoglia e gelida: un cubo di muri, soffitto e pavimento di un verde sbiadito, uguale a quello della lunga fila di camere al piano superiore.
Un forte odore di disinfettante serve a nascondere quello di letti sudati e piagati, della malattia, della morte. Penetra acuto nelle narici, sale ad intorpidire la mente e poi discende nello stomaco, a riempirlo di disgusto e nausea: è forse una studiata strategia per ridurre al minimo la permanenza in quel luogo di infelicità e dolore, che pare un affaccio sull’al di là del vivere.
Figure mute e riverenti sfilano con passo lento e silenzioso verso l’ingresso di quel cubo, una o due alla volta, il breve tempo di una preghiera e di uno sguardo che imprima nella mente quella figura, traducendola in consapevolezza.
Come se servisse quella verifica tangibile a sovrapporre la certezza all’incredulità.
Potere, rigore, astuzia, prestigio: mostri che ammantavano quel gigante, al cui strascico facevano seguito plotoni di servitori devoti e timorosi.
Uno sguardo per un monito; un dito per un’accusa; un palmo per una sentenza; una schiena possente per la condanna più temuta: l’indifferenza. I piccoli gesti di un grande uomo, di un’autorità, di un sovrano indiscusso.
Conquista impossibile un suo sorriso.
Quei pesanti attributi ora si dissolvono. Si scompongono e si impastano per tornare materia informe, privi del valore e della potenza che indicavano.
Smontano il timore e restituiscono il coraggio, riducendo all’infinitesima misura la distanza tra l’elevazione e la soggezione: ora è tutta lì, in quel metro appena tra l’ingresso del cubo e la sua bara.
Giace, ora, il patriarca in una diversa glaciale immobilità; non più quella superba della sua volontà, ma un’altra incontrastabile, inflittagli da quell’unica potenza – la morte - capace di sopraffarlo.
Non pare più nemmeno un gigante; il suo corpo si è fatto minuto, divorato da dentro da un’inesorabile male che ha sottratto in breve al suo tempo una consistente cifra di giorni.
Il suo volto è disteso, di cera levigato, quasi irriconoscibile senza la punta arcigna delle sopracciglia ed i solchi della fronte aggrottata. La nera dama, anzi, sembra essersi presa una beffarda rivincita, fissandogli col suo tocco, sull’arco della bocca, un lieve sorriso.
Sul dorso delle mani non traspare più il rilievo delle vene, lo scorrere della vita ha fermato il suo flusso nelle linee scure che le attraversavano. Sono ora candide, immobili e rigide nel gesto ultimo deciso dal pietoso protocollo del commiato: giunte, sul petto; le dita intrecciate ai grani di un rosario.
Spogliato della sua regalità, non indossa abiti preziosi.
L’ultimo viaggio deve compiersi con umiltà, senza pretesa di guida o comando su quel percorso sconosciuto, cui ci si accoda docili a schiere di altri simili, privi di marchi e medaglie, livellati dalla falce di un’indiscussa condottiera.
Solo un pigiama dunque, la veste più adatta a calarsi nel sonno eterno.
I piedi scalzi, che ormai più non necessitano di piedistalli né basamenti.
Un velo sottile lo ricopre, l’ultimo riguardo a quel monumento caduto, perché non sia umiliato dall’irriverenza di quella mosca che continua a ronzare a intermittenza, insetto volgare e sporco, che abita i fiori e lo sterco con la stessa disinvoltura ed ignoranza.
Gli ossequianti, dopo il saluto, si radunano in piccoli gruppi, conciliaboli pacati da cui capita che sfugga anche una sommessa risata, un esorcismo – forse - dell’atavica paura di un identico destino finale, tanto verificato ed attuale in un luogo come quello.
Poi l’orologio batte l’ultima ora del pomeriggio.
Un uomo triste d’abiti e d’aspetto rompe il bisbiglio con voce più marcata, annunciando che è tempo di andar via, di restituire quel corpo alla solitudine che da lì in poi sarà per sempre.
Un mesta nuova processione sfila, ora più rapida, davanti all’ingresso del cubo: qualcuno china il capo; qualcun altro libera un bacio sul trampolino delle dita; i più si segnano con la croce indugiando appena in un Amen.
L’ultimo ad avvicinarsi è il figlio.
E’ rimasto per tutto il giorno in quello spazio, a ricevere condoglianze, a stringere mani e rendere abbracci, mantenendo un contegno nobile e distinto, come quasi dirigesse la cerimonia di un passaggio di consegne.
E’ dunque forse questo il primo momento in cui davvero si accosta a quelle spoglie privato di ogni rivestimento, nella sua semplice, nuda umanità.
Il padre e il figlio, ora soli e di fronte nell’ultimo silenzioso dialogo, nell’ultimo confronto.
Il figlio poggia la sua mano su quelle ormai fredde del padre, ad infondergli un residuo di calore prima di prendere definitivo congedo.
Guarda a lungo quel viso, abbassando poi le palpebre sullo sgorgare di due sole lacrime, gonfie e pesanti che precipitano sul velo: gocce di vita che non possono rigenerare l’inerzia di un corpo finito, e che si asciugheranno, come col tempo si asciugheranno il rancore ed il dolore.
Quali pensieri, quali promesse, quali rimproveri o gratitudini si affacciano alla sua mente?
Libero ormai da un giogo, non più prigioniero di un dominio contro cui, a lungo, ha covato una compressa ed impotente ribellione, sente però forse più la paura, adesso, di essere rimasto solo, senza guida, senza esempio.
Ma è soltanto un brivido temporaneo.
E’ stato allevato con le stesse regole, ha mutuato le stesse formule: arroganza, prepotenza, superbia.
Erede della sua dinastia, dovrà ora scegliere se stabilire un esatto continuo con ciò che è stato, che ha invidiato e subito, che ha temuto e ammirato; o lasciare che rispetto, lealtà, giustizia e pietà stemperino la sua rabbia e schiariscano i lividi della sua anima.
Ecco il nuovo patriarca.
Sia fatta la sua volontà.
24 maggio 2015