MONOLOGO
Monologo
Di FELICIEN MARCEAU
Traduzione di Ugo Ronfani
PERSONAGGI
………………..
…………………
Commedia formattata da
Una stanza bassa, in una casa di contadini della campagna romana. Muri bianchi di salnitro, con macchie ocra. Una porta sul fondo. Un giaciglio sul quale, al levarsi del sipario, è steso Nerone. Il quale si alza e fa qualche passo.
Il conflitto! Pare che esista un conflitto, tutti i miei filosofi ne hanno parlato. Ma un conflitto fra chi e che cosa? Fra l'uomo e i suoi desideri? Fra l'uomo e i pericoli che lo circondano? Immaginate un uomo al sicuro dai pericoli. Ho voglia di uccidere, ma non oso: conflitto. Ho voglia di uccidere ma qualcuno si oppone: conflitto. Se però ho la forza di uccidere? Allora addio conflitto, no? La forza di volontà distrugge il conflitto. E l'uomo, nello stesso tempo. L'uomo è teatro del conflitto; togliere il conflitto: cosa resta? 11 teatro? Apparenza, gioco di luci, finzione, un'ombra nell'occhio: ecco l'uomo. Un niente ed è tolto di mezzo. Un grido, un gesto, un attimo di stanchezza. Meno ancora, un'occhiata al boia. Me lo dite cos'è l'uomo, se un negro in brache rosse - zacchete - può, con un fendente, farlo sparire dalla faccia della terrà? Quando mia madre ha fatto assassinare l'imperatore Claudio - eppure un imperatore è qualcuno, occupa uno spazio, pesa, fa ombra - cosa credete che le ci è voluto? Un medico capace di cacciargli in gola una piuma intinta nel veleno, un piccolo gesto così, con la scusa di aiutarlo a vomitare e oplà, finito l'imperatore Claudio, scomparso, annientato. Il più grande imperatore del mondo! Un ciarlatano, un po' di giusquiamo, una penna strappata al deretano di una gallina e l'imperatore non c'è più, sparito! Grazie a quella penna, soprattutto. Un garro più veloce, degli scudi percossi da un pugno di imbecilli ed io divento imperatore. Tumulto di folla, urla di legionari ed è finita: l'imperatore crolla nella polvere. Mi dite cosa rimane? Un uomo? Neanche. Per fuggire mi son dovuto travestire. Un uomo travestito resta un uomo? No, è già un'ombra, un'ombra nel cuore della notte, con la quale si confonde. Dov'è finito l'uomo? Le mie collere facevano tremare l'Impero, le mie sentenze provocavano esodi. E adesso un pugnale basterà per mandare tutto all'aria, per rompere quel legame fra me e i legionari, fra me e i gladiatori, i coloni di Metaponto, le vecchie della Basilicata; basterà per gelare il soffio che animava le statue erette in mio onore, per spegnere l'oro che faceva scintillare il mio nome, per distruggere la forza che trasformava in legge i miei capricci. Ero Nerone; sono un fantasma nelle mani del fato, sospeso tra la vita e la morte, e il piatto della bilancia ormai sta per inclinarsi. T legionari battono la campagna alla mia ricerca. Ho mandato Epafrodite a fare la guardia sulla strada. A quest'ora dev'essere là, fedele alla consegna, l'orecchio incollato a terra, pronto a sparire fra i cespugli anche se la notte è nera come sangue di leone. Incredibile, anche quando stanno per crollare gli imperatori più esecrati trovano uno schiavo che gli resta fedele. Ci si crede amati: errore. Ci si crede odiati: altro errore. O forse ci sono individui che hanno bisogno dì aggrapparsi disperatamente ad una causa, non importa quale, anche perduta. Se il caso avesse messo Epafrodite dall'altra parte, contro di me, probabilmente mi cercherebbe con lo stesso accanimento con cui adesso si sforza di captare, nella notte, i rumori dei cavalieri. Quando lo vedrò tornare saprò che la morte sarà alle sue spalle, come un'ala, una gobba, una ruffiana. Non avrà bisogno di parlare; sarà là, nel vano della porta, e sarà la morte. Ho pensato a lei tante volte, ma non mi ero mai immaginato che avrebbe avuto la faccia grassa, lustra di Epafrodite. Lustra di zelo. Strano, avete notato che lo zelo, su una faccia, fa sporcizia? Chissà se anche la morte ha questo zelo untuoso appiccicato sulla faccia... La morte? È dunque vero che devo morire? Io che sono esistito appena. Non ho semplicemente sognato che stavo vivendo? La mia potenza, intorno a me: il deserto. La mia potenza dentro di me: un cancro che divora. Dove sei, vita? Mi hanno fatto passare per imbecille. Poveri idioti! Quando sono stato il solo a capire'ciò che nessuno, prima di me, aveva compreso: che l'imperatore ero io, che dunque potevo tutto! Tutto, capite? Gli altri no, c'era sempre stato qualcosa che li faceva indietreggiare. Io mai, davanti a niente e a nessuno. Ho preso tutti i pupazzi che divertono gli uomini, che li stupiscono, che li terrorizzano; gli ho aperto il ventre e ho visto che dentro non c'era nulla. Tutti i pupazzi, il bene e il male, il vizio e la virtù, il sublime e il basso, lo spirito e la carne. Vi sorprende che Nerone parli del bene? Eppure ho provato, sapete? Ho provato, c'è stato un tempo in cui anch'io praticavo il bene. Sicuro; ho distribuito grano al popolo, ho diminuito le imposte. O almeno ho avuto l'intenzione di farlo: il che è un po' la stessa cosa. Sul piano, come si dice, morale? Al circo non ho mai decretato pollice verso; sotto il mio regno, sotto il regno di Nerone i gladiatori non morivano. Ho fatto ridurre i premi destinati ai delatori. Ho graziato dei criminali. È vero che ho condannato degli innocenti, ma questo... Chi è innocente, del resto: sapreste dirmelo? Sicuro; io, Nerone, ho fatto questo. Ma loro - i vermi che adesso, ancora afoni per avermi troppo acclamato, insultano il mio nome e sputano sulle mie effigi - loro hanno dimenticato tutto. Io no, non ho dimenticato. Brutto segno, del resto. Soltanto i vinti sentono il bisogno di ricordarsi del bene fatto. Ma insomma: è incontestabile che io, Nerone, ho fatto del bene; che l'ho pesato e l'ho trovato leggero, come l'aria. È troppo sopravvalutato, il bene, trovo. Come il resto. Prendete il desiderio, per esempio; il famoso desiderio che a sentire certa gente sarebbe il motore del mondo. Bene; anche il desiderio alla lunga illanguidisce, scompare. Semplice, basta assecondarlo, sistematicamente. Assecondarlo sempre: ed ecco il desiderio languire, consumarsi come la cera, sparire. È così, potete credermi. Non mi sono mai privato di niente, io. Ho provato tutto: donne, uomini, fanciulle. Tutto! Quel che restava, dopo, era come un ghigno, di dentro. Mi sono sposato. Tre volte. Prima una vergine, poi una vedova, poi una di cui avevo fatto fuori il marito. Per tutti i gusti. Ma che noia, vi assicuro! La seconda l'ho uccisa. Con un calcio. Era piuttosto malata. Sulle prime mi divertivo, le tenevo per ore la sua minuscola mano sudata nella mia. C'è nell'odore della febbre, trovo, qualcosa che dà tenerezza, che inclina al raccoglimento, non so quale voluttà. Come sentirsi buoni. Mi sono sentito buono nello stupro. E viceversa. Poi basta, mi sono stancato. Per di più era incinta; a me le donne incinte danno fastidio, trovo che sono indecenti. Allora l'ho uccisa. Con un calcio. Visto? La donna, l'amore, la famiglia: un calcio e tutto in aria, finito. Anche il bambino. Sparito con tutto il resto, il bambino. Un uomo come me non ha progenie. Dicevo? Ah, sì; mi sono concesso ben altri piaceri; cortigiane, orge, liberte, schiave. Ma fare l'amore con una schiava, francamente... Dov'è il gusto, con qualcuno che non ti resiste, che fa tutto come se zappasse, che non ha capricci, che non ha slanci, niente per ispirarti? Sempre gii stessi gesti, lo stesso sorriso ebete dell'estasi. Che cosa trovi, nel segreto dell'alcova? Sempre quel sorriso ebete. Ad ognuna di esse il mio desiderio diminuiva, fino al giorno che è sparito. Il desiderio? Che desiderio? Le donne? Che donne? Ci avete mai pensato? Un mondo senza donne... Bah, è vero che gli uomini non sono migliori. I veri invertiti forse, ma sono così rari. Tutti a fingere, a simulare, tesoro, gioia mia; oppure a fare la voce grossa, a prendere pose virili. Anche qui ho voluto lasciare la mia impronta, sicuro. Una volta mi sono sposato con un uomo; vere nozze, il velo, i fiori d'arancio, commoventissimo. Perché? Ma per farla finita anche col matrimonio; per seppellirlo nel ridicolo, mettergli la maschera: e com'era delizioso, intorno a me, il disagio viscido del sacrilegio. Un'altra volta, copertomi di pelli d'animali... è difficile da spiegare... Difficile? Ehi, indietreggi, Nerone? Avresti trovato qualcosa che non si può confessare? Dicevo che coperto di pelli di animali... Bah! in fondo... ha poca importanza... Il guaio è che alla lunga uno si annoia. Il letto, sempre il letto. Ci si guarda in uno specchio. Cadaveri trascinati dal vento. O così marci che si muovono da soli, per i vermi. Un corpo che non si desidera più ha sempre l'odore del cadavere, non so se avete notato. No, non credo che abbiate notato. Non siete mai andati al fondo dei desideri, voi; non potete sapere. Siete rimasti dietro le porte ad origliare, è un'altra cosa. Io no, le ho aperte. M'insultano: perché? Perché questo odio? Perché ho fatto quello che loro avrebbero voluto ma non hanno osato fare? Guardatemi negli occhi, ditemi la verità: mai pensato di uccidere? Confessate... Io sì, io ho avuto il coraggio. Il desiderio era appena nato e già volevo, mi gettavo su di lui come la tigre sul capretto. Non so come mi chiameranno i posteri, ma c'è un nome che credo di meritare: Nerone, il flagello dei sogni, il boia dei desideri, il persecutore delle chimere! Come il guerriero in battaglia ho sfiancato tutti i cavalli che l'uomo, prima di me, aveva cavalcato ebbro di gioia. Perché non avrei diritto, dico, ad un posto fra i grandi pensatori, che sono sempre stati, necessariamente, dei grandi distruttori? Nerone maestro di logica. Non ero io ad uccidere, era la mia dialettica. In fondo ad ogni sistema dialettico, in fondo ad ogni principio, la morte. Sento che un giorno l'umanità mi onorerà come un filosofo, il solo, colui che ha saputo tutto demolire con gli atti e, per conseguenza, tutto definire... Un artista, anche; il più grande. Veramente, ho un temperamento di attore, mi realizzo nel gesto, sono tutto nel gesto fino alle falangi. Mi piace tutto, dell'attore: i ceroni, i belletti, le matite grasse, la volubilità del suo carattere. C'è un solo attore che non abbia sognato di proibire gli schiamazzi in sala, quel va e vieni di spettatori che guasta gli effetti? Io l'ho fatto. Quando declamavo i miei versi, porte chiuse e ordine di restare immobili. Un attore, vi dico; così preso dalla parte che le finzioni della scena, di cui gli altri s'accontentano, gli sembrano insopportabili. « Muori, cane! », grida l'attore piantando un falso pugnale in un petto imbottito di stracci. Con me niente imbottitura, quando calava la tela i morti non s'alzavano più. Ma perché, perché, questo potere di realizzare qualsiasi desiderio? Tutto sommato la finzione mi sarebbe bastata. Soltanto che nessuno l'ha capito. Avrei potuto avere la gloria; mi sono accontentato degli applausi, che ne sono l'eco. E che applausi! Tutti i mendicanti di Roma prezzolati per acclamare Nerone, per gettare croco e alloro al mio passaggio. Ed io sapevo, sapevo che quei trionfi erano soltanto illusori. Eppure, umilmente mi accontentavo. Perché allora la gente ha preso sul serio le mie minacce, profferite nell'esaltazione? È vero, mi esaltavo, era come se sognassi, mi vedevo impegnato in un ruolo di attore; prendevo una donna che mi piaceva, le uccidevo il padre che voleva difenderla, respingevo la madre che mi supplicava aggrappata alle ginocchia. Declamavo, ragionavo ad alta voce, solo. Ma quando il sogno era finito, tutto, non so perché, era già consumato; il boia puliva la spada, la madre urlava davanti al cadavere del marito, la figlia era una preda facile nella mia alcova. Ala diventata piombo, donna di marmo, acqua trasformata in ghiaccio, sangue rappreso: ecco che i miei sogni ricadevano su di me pesanti della mia onnipotenza, dello zelo dei miei soldati. Avrei dovuto dire che non avevano capito, ma come? Così mi rassegnavo, la mia potenza s'abbatteva su Roma come la falce sulle spighe. Ho fatto il vuoto, ho sterminato, ho ucciso. Perfino la morte, la morte che prima di me era una cosa seria, è diventata una futilità, e l'infliggevo a capriccio. Peto Trasea giustiziato perché aveva l'aria dello iettatore. Cassio Longino liquidato perché la sua illustre schiatta m'annoiava. Ma era per ridere, facezie d'artista. Non vi è mai capitato di dire di qualcuno, uno zio o un vicino: « Perdio, com'è brutto, com'è rompiscatole, gente così bisognerebbe farla fuori ». Soltanto che se io dicevo cose del genere subito l'uomo stramazzava e dal suo petto sgorgava sangue vero. E allora come avrei potuto, dite, prendere sul serio un fantoccio che si lasciava distruggere così, senza opporre resistenza? Ah! Niente esiste, credetemi. Davanti alla potenza niente esiste, né l'amore, né l'onore, né il vizio, né la virtù. Poveri uomini! Mi bastava guardarli e diventavano cenere. Resta soltanto la mia onnipotenza, come un riflesso d'oro. Una parola, un gesto e la maschera sì spacca, il principio vacilla, la virtù tentenna, la viltà prende le armi, la temperanza s'attacca agli otri di vino. Alla battaglia! E i codardi volano. Baciami i piedi! E l'orgoglioso abbassa la schiena. Dammi tua moglie! E il marito consente, anzi insiste. L'imperatore non vorrebbe per caso anche mia sorella? Mia figlia? Mia madre? C'era un tipo di cui mi piaceva la moglie. Per levarmelo di torno gli offro un comando nelle mie legioni di Spagna. E lui a ringraziarmi, l'animale. Contento di rischiare la vita per la mia gloria e perché possa vedere più tranquillamente sua moglie, perché possa lavorare indisturbato il campo che era stato oggetto delle sue attenzioni maritali. Qualche volta - è vero - capitavo su un insolente. Allora lo facevo uccidere, naturalmente. Dovevo. Ero preso nell'ingranaggio. Come se Cesare, del resto, non ne avesse uccisi cento volte tanti con le sue stupide guerre, lo almeno non ho fatto guerre, o quasi. Cosa di cui, figuriamoci, non mi saranno grati. I popoli non apprezzano gli imperatori pacifici. Preferiscono gli attaccabrighe, gli ammazzasette che menano fendenti a destra e a manca. Avrei dovuto avere pietà, dite? Di chi, di questi patrizi che mi hanno tradito? Di questi teppisti che scrivono il mio nome insieme ad oscenità sui muri? Vedete che avevo ragione di essere in collera. Semplicemente, il mio risentimento precedeva l'offesa. No, non ho avuto pietà; e ve lo dico in tutta serietà, adesso che sto per morire: non me ne pento. Non mi pento di nulla, assolutamente. Tutto quello che potrei ancora desiderare, adesso, è una vecchia baldracca che se ne starebbe qui buona, in un angolo e farebbe finta di ascoltarmi, sgranocchiando delle noci. Mi piacciono le prostitute. Mi piacciono i loro quartieri, i vicoli verso il Tevere dove tutto l'inverno c'è umidità viscida, melmosa. Di notte ci andavo piuttosto spesso, con i miei pretoriani, travestiti da mercanti o da calzolai. Ci divertivamo, insultavamo i passanti. Poi, a un angolo, prendevo la prima che mi capitava sottomano e la seguivo nel suo antro di fango, dove un lume si agitava come una mosca nell'olio. Dovevo fare presto, non avevo tempo di guardare per il sottile, a dieci passi di distanza sentivo già le guardie che mi cercavano, preoccupate. Non erano mai riuscite ad abituarsi alle mie maniere alla buona, le guardie. Le sentivo chiamarsi fra loro, scalciare contro gli usci mentre io sparivo in una stanza umida, di tufo, dietro ad una donna di cui non conoscevo né volto né voce. Ecco una situazione che vi dà l'idea dell'infinito. Come confidare ad un viandante il proprio segreto più intimo. Perché in fondo « ogni amplesso è una confessione », non vi pare? Cito un mio verso, scusatemi; l'ultimo di un mio poema. Il resto l'ho dimenticato ma la chiusa non è male, mi pare. Bene, questo segreto io lo confidavo a quelle donne che, di tutte, erano le più indifferenti. Non conosco niente di più tonificante, in una parola di più filosofico, dell'indifferenza delle prostitute. Soprattutto quelle che andavo a cercare negli angiporti del Tevere, le più a buon mercato, quattro soldi. Puoi parlare, tacere, discorrere di quel che ti pare; loro se ne fregano, tutto quel che vogliono son i loro quattro soldi e basta. Dicevo ai miei amori da quattro soldi: « Amo mia madre, sai? ». Figuriamoci se le impressionava. Qualche volta capitava che una fosse di cuore tenero. « Anch'io amo mia madre », diceva. E io: «Non come me, stupida». Le invitavo a parlare, cominciavano a dire le porcherie del mestiere; poi a poco a poco tiravano fuori le loro vere preoccupazioni, la casa, il mercato, i prezzi. Sdraiato sul loro giaciglio ascoltavo quei discorsi di madri di famiglia, il silenzio notturno, a tratti la voce dì un pescatore sul Tevere o il va e vieni furtivo delle guardie. Chiudevo gli occhi. Mi rivedevo bambino, nella stanza di zia Lepida, intento a giocare fra le sue grosse gambe mentre lei manipolava belletti, pomate e barattoli, come una fattucchiera. Oppure, allungata sul letto, si faceva frizionare le cosce dal massaggiatore. Lo detestavo, quel massaggiatore con le sue dita affusolate, la sua puzza di unguenti, le smorfie che mandavano in estasi la zia. Più tardi, in confidenza, l'ho fatto uccidere. Idem zia Lepida, tolta dalla faccia della terra. Sparita, la cara grossa Lepida, sempre a ridere e a ingozzarsi di canditi d'Oriente. Me ne ficcava in bocca, rideva se mi sorprendeva a guardare le sue grosse cosce e allora mi rimandava dal precettore che era - figuriamoci - un parrucchiere. Non si preoccupavano molto della mia educazione, a quell'epoca; nessuno poteva immaginare che sarei diventato imperatore. Poi un giorno il fato... Cara Lepida, ha creduto che la sua ora fosse arrivata. Continuava a ingozzarmi di canditi ma non rideva più. Mi faceva vedere ancora le sue cosce ma pensava ad altro. Mi soffocava con i suoi enormi seni profumati, come un mare con le onde. Io facevo il tonto. L'accarezzavo, la cara zia Lepida; mi lasciavo accarezzare e dicevo: «Eh, che sono il tuo bambino?». 1 suoi seni così guizzanti s'afflosciavano. Non era precisamente quel che avrebbe voluto. Un po' baldracca la cara zia Lepida. Lei da una parte e mia madre dall'altra, tutt'e due a disputarsi il diritto di regnare sul mio giovane cuore innocente, tutt'e due violente, impudiche. Ero nutrito da scoppiare di femminili affetti, vivevo sprofondato in un mondo molle e sinuoso. Cara, cara Lepida; perché ti ho sacrificata? Cosa vuoi, mia madre lo esigeva; e non ha, un buon figlio, il dovere di sacrificare una zia ad una madre? E poi chissà; forse insieme a Lepida ho voluto uccidere anche la mia giovinezza, uccidere la riconoscenza, la tenerezza, il tepore della prima età. Dentro di me il rancore si torceva già come la murena che morde il piede alle donne. Teste a carico al processo, guardandola fissa negli occhi l'ho accusata di avere commesso incesto con mio padre. Dopotutto... Riflettiamo; avevo avuto voglia di lei, perché mio padre non avrebbe fatto altrettanto? Vi pare? Ma allora, confesso, credevo di mentire. No che non mentivo! Un giorno, più tardi, mi raccontano che l'incesto c'era stato sul serio. Calunnia l'umanità e ti troverai sempre in ritardo, un po' al di sotto della realtà. Divertenti, quei letterati da strapazzo che venivano a leggermi i loro capolavori. Per un niente, una parola un po' spinta o una situazione un po' speciale, a torcersi come anguille, a spiegare: « L'opera d'arte, capirete; l'opera d'arte non deve mai rifiutarsi alla realtà, qualunque sia». Poveretti! Non avete mai provato a vivere sul serio, per credere che la realtà, quella vera, si trovi nelle vostre storie da quattro soldi? Un bravo ragazzo di dodici anni ne pensa più crude di tutti voi messi insieme, quando di sera è nel suo letto e una zia Lepida viene a rimboccargli le coperte. Oh, Lepida; cara, molle e grossa Lepida! È strano, anni che non pensavo più a lei ed ecco che proprio adesso che sto per morire il suo ricordo viene a darmi come un senso di rimpianto. Dev'essere che ho avuto un po' troppo fretta, a farla sparire. Non bisogna mai sbarazzarsi di qualcuno prima di averne abusato fino in fondo. Altrimenti ecco cosa succede: sono qui, in questa tana, a pentirmi non per quello che ho fatto ma per quello che non ho fatto, da una parte l'ombra della cara zia e dall'altra quella della cara madre. La famiglia ha ancora di questi privilegi. È vero che ormai tutto l'Impero romano è soltanto una storia di famiglia, un piccolo mondo chiuso da soffocarci, tutti parenti, parenti da una parte e dall'altra, a sposare le cugine, ad andare a letto con le cognate, abituati a mescolarsi con lo stesso sangue esausto, imbastardito, incestuoso... Senza contare quello che non sappiamo. Io, per esempio: di chi sono figlio? Me lo sapete dire? Del legittimo marito di mia madre, di quel bruto di Domizio che lanciava la sua biga a tutta velocità perché gli piaceva schiacciare i bambini sotto le ruote? Di quello schiavo levantino che era sempre sdraiato in fondo al letto di Agrippina, a succhiare datteri? Di Tiberio, forse? Di Tiberio morto come per caso nove mesi prima della mia nascita? Coincidenza? Per un impostore la coincidenza diventa ipotesi, l'ipotesi certezza. Sangue incestuoso dei Cesari, perché io, il più insolente, non avrei dovuto andare ancora più in là? Tutta colpa mia, del resto? Niente sorelle, niente figlie; bisognava pure che mettessi gli occhi su mia madre. Come ci sarebbe stato incesto, altrimenti? Eppure no, mi è mancato il coraggio. Lo so, hanno raccontato delle storie. Il mio desiderio doveva essere appariscente. E anche lei, anche Agrippina avrebbe voluto. Perché non abbiamo osato, allora? Me lo domando ancora: perché? Quale dio, quale sotterraneo timore, quale inibizione o forza sconosciuta o paura ci hanno trattenuti? È dunque esistita una statua, nei templi, il cui marmo è stato più duro della spudoratezza di Agrippina e dei furori di Nerone? Eppure non ero mai indietreggiato davanti a nulla. Ho schernito la religione. Ho invitato i preti ai miei festini sacrileghi e loro, naturalmente, a vedere la mano di Dio in tutto quello che facevo. Ti ho bestemmiato, Giove, e come! (Gridando) Mi senti, Zeus? Mi senti grande posapiano, grosso cornuto, amoroso di una vacca? Dove sono i tuoi fulmini di latta, i tuoi petardi bagnati? Le vestali, Nerone le violentava. C'è stato un tempo in cui ho preso una cotta per una dea egiziana; le innalzavo altari di porfido e mi prosternavo davanti a lei per ore. Bene, un giorno - com'è vero che vi parlo - mi sono alzato e sono andato a pisciarle addosso, alla dea egiziana, fra le grida di orrore dei sacerdoti. Perché è così; Nerone aveva bisogno di demolire, devastare, uccidere. La mia potenza veniva fuori come una caligine, un fumo che intossica. È precisamente per questo che ho ucciso mia madre. Chi potrebbe rimproverarmelo, del resto? Era la mia norma fissa. I cristiani non dicono: « Se il tuo occhio è per te cagione di scandalo, strappalo »? Bene, mia madre mi induceva in tentazione e così l'ho uccisa. Mica male come spiegazione. Non ci avevo mai pensato; a volte uno si mette a parlare e così, parlando, gli vengono certe idee! Una parola tira l'altra e alla fine un osso da rosicchiare lo trovi sempre. Il problema è di sapere se questa storia di incesto non è un po' esagerata. Dopotutto Sofocle, il virtuoso Sofocle ne parla come di una cosa, diciamo, abbastanza naturale. (Citando in greco) « Su d'eis ta métros me phobaun numpheumata, polloi gar èdé cann cheirassinn brotaun mètri seunèhunastesann »: « Non inorridire all'idea di congiungerti a tua madre; nei loro sogni molti uomini hanno già preso posto nel letto materno». Dicono che nei sogni incestuosi i nostri avi vedessero presagi favorevoli. Fatto sta, però, che non ho osato. In fondo, mi è bastato avere contro di me le apparenze. Sono già qualcosa, le apparenze. Il principio della cosa vera; e poi sapere che ti attribuiscono piaceri che non hai osato non manca di attrattiva, trovo... Sì, Nerone si compiaceva dell'equivoco... Baciavo le mani di Agrippina; alzando il capo sorprendevo il suo sguardo, uno sguardo ansioso che non osava indovinare i miei pensieri. Le baciavo le braccia: affezione di figlio o passione di amante? Io stesso forse non lo sapevo. Quella serpe che mi si muoveva dentro: il meno confessatale dei desideri o il più naturale degli affetti? È talmente difficile riconoscerli? Nel buio del mio spirito c'era come una metamorfosi e avvertivo una strana voluttà a rasentare abissi nei quali un niente avrebbe potuto precipitarmi, uno sguardo, un tremore, un cambiamento di voce. Un giorno ho scoperto una schiava che assomigliava straordinariamente ad Agrippina. L'ho fatta venire nel mio letto, una sfida. Ma non è servito, Agrippina non ha compreso. Credo addirittura che non si fosse accorta che la schiava le assomigliasse; difatti, quando accarezzavo davanti a lei quel suo simulacro, nei suoi occhi non vedevo alcun turbamento. È diventato difficile riconoscere i propri sosia. Per forza, ci crediamo sempre migliori di come siamo. Un giorno mi hanno portato davanti un tizio che, a sentirli, era tutto il mio ritratto. Possibile, ma io non trovavo che mi rassomigliasse poi tanto. Gli amici, sorpresissimi. Io deluso. Mi vedevo diverso. È soltanto per sgravio di coscienza che l'ho fatto crocifiggere, mi son detto che sarebbe stato interessante vedere come avrei reagito al supplizio. Se però devo dire la verità, non mi sono particolarmente emozionato. No, trovo che piaceri cerebrali di questo genere siano piuttosto mediocri. E poi, ripeto, non c'era quella gran rassomiglianza. Sosia di un imperatore, quell'impia-stro si credeva obbligato a fare una bella morte, mentre io mi sarei rotolato ai piedi dei carnefici, ad implorarli. La parte del suppliziato io la vedo così, scusate tanto. Oppure al suo posto avrei declamato dei versi. Ho sbagliato a ucciderlo, del resto. Adesso mi sarebbe stato utile: avrei fatto in modo che lo prendessero al mio posto ed io me ne sarei andato in punta di piedi, invece di stare qui a consumarmi come della paglia in fiamme. Non me ne starei qui a cercare di dimenticare che devo morire, a cercare di mettere fra me e la morte questo muro di parole, a cercare di dimenticare la mia morte con quella delle mie vittime... Vittime? Ma no! Quali vittime? Ce n'era una, nel mucchio, degna di rimpianto? Ho avuto una sola vittima degna di me, l'unica. È stato il mio capolavoro. Non parlo della morte di Agrippina, ma del suo ultimo incontro con me. Rivedo la scena. La giornata era bellissima, il cielo di un azzurro perfetto, il sole appena tiepido. Alle prime luci dell'alba, quando la dolce allodola cominciava a cantare le sue pene d'amore nel cielo latteo, sono corso al tempio per interrogare gli auguri. Ho scrutato le viscere degli uccelli palpitanti come seni di donna, i loro fegati morbidi, le cistifellee così tenere che un graffio può lacerarle. Anche all'empio fa piacere sapere che gli dei sono con lui. Dopo la visita al tempio ho ispezionato minuziosamente la galera truccata sulla quale avrebbe dovuto imbarcarsi mia madre. Dio, che capolavoro. Un'impalcatura, un soffitto che ad un certo punto crolla su di lei e la trascina negli abissi marini. Ci ho improvvisato qualche verso, mica male. Poi ho fatto delle abluzioni e mi sono cosparso di profumi. Quando il destino batte alla porta bisogna essere in ordine. E poi eccola, è arrivata Agrippina la bellissima, la meravigliosa. (Citando) « All'èdè théaunn isonn ophtalmois phaos ormatai mètèr basiléaus basileia d'ime prospitnau »: « Ma ecco giungere, chiara come l'occhio degli dei, la madre del grande re, la mia regina, ed io cado in ginocchio». Quant'era bella! Com'era stato possibile che nascessi da una donna così? Come aveva potuto, quel corpo snello, nervoso e delicato, portarmi nelle sue viscere, grosso e pesante com'ero? Sorrideva, ma inquieta. Qualche giorno prima ci eravamo disputati, e non doveva essere sicura che l'accogliessi bene. Ingiusta! Non mi ero sempre mostrato il più devoto dei figli? La mia prima decisione d'imperatore non era forse stata, la sera stessa del trionfo, quella di scegliere come parola d'ordine per i miei legionari il motto « la migliore delle madri »? Gliel'ho ricordato, ha sorriso. Incantevole, quel sorriso sul volto magro ma espressivo, un volto inalterabile sul quale gli anni erano scivolati come., l'acqua di rosa, un volto il cui splendore era stato ravvivato, come dai pollici di un massaggiatore, dalle tempeste degli affanni, delle passioni, dei vizi. Si è seduta ed ho poggiato la testa sulle sue ginocchia. Le sue unghie laccate mi sfioravano le guance come le piccole zampe leggere dell'uccello mosca. A sentirmi così buono, così affettuoso gli occhi mi si sono riempiti di lacrime. « Mamma, ricordi quando mi cullavi sulle tue ginocchia? ». Lo sguardo lontano lei sorrideva. Chi mentiva di più, dei due? No, non mi aveva mai cullato sulle ginocchia, la cara madre adorata. Sempre presa dai suoi intrighi e dai suoi imbrogli. D'accordo, era per me che li tesseva; ma insomma, è come dicevo: non mi aveva mai cullato sulle ginocchia. Vi rendete conto, spero, che avevo pienamente ragione, che doveva morire. Ed io, curvo sopra le sue mani segnate da sottili vene azzurre, m'abbandonavo a lei come un figlio stanco della vita, come un marito che ha sfiorato l'adulterio e chiede perdono. Mi davo tutto a lei ed il mio piacere era di saperla - lei che stava per subire l'ultimo affronto, quello della morte - così sicura del trionfo. Vedendomi tutto tenerezza diventava ardita. Esigeva la guardia pretoriana che le avevo tolto. Ho promesso. L'esilio per le sue rivali. Promesso. La morte per i suoi denigratori. Promesso. Fa sempre bene promettere, soprattutto se la morte è a due passi di distanza, pronta a mantenere al vostro posto le promesse. Ma sì, Agrippina! Promettevo a man salva ed ogni promessa era una ragione di più per condannarla, e mi rallegravo di condannarla sazia, amata, adorata. Agrippina^ Agrippina! Ti sei resa conto, là negli inferi dove adesso ti trovi, che non ti ho mai amata tanto, che non ho mai provato per te tanta passione come quando, dopo il nostro colloquio, ti sei alzata per andare verso la galera funesta?... In fondo ai gradini il capitano aspettava. Ha fatto un cenno col capo per dirmi che tutto era in regola, che la morte stava già scendendo su di te e che su di me calava l'ombra di un delitto che turba anche gli dei. Con quale fervore, Agrippina, ho allora posato le labbra sulle tue palpebre. Ti guardavo partire seguita dalle schiave e dal tuo segretario storpio. Sulla passerella ti sei voltata indietro un'ultima volta a salutarmi col braccio. Sopra il tuo capo le vele gialle della nave si gonfiavano come una donna che s'apra all'amore, come un lottatore alle prese con un leone. Nel silenzio del molo sentivo il rumore degli argani, il cigolio dei paranchi, il grido rauco del pausarlo. Sei partita ed io, sul giaciglio dove ti eri stesa a riposare, ho ancora respirato il tuo profumo, profumo greve di donna matura che vuole ancora piacere, profumo malefico che cercavo di ritrovare sulla coperta. Aspettavo e nell'attesa parlavo a me stesso, declamavo dei versi che mi venivano come in delirio. Immaginavo già come avrei reagito dì fronte alla notizia. Finché ho udito un rumore e mi sono fatto di pietra, a capo chino, come l'uomo che aspetti i colpi del destino, o tremi per una vita preziosa. Batti, destino; colpisci il più miserabile degli uomini! Entra il segretario zoppo, ansimante, i capelli stopposi appiccicati in faccia, una maschera di fango. Parla! E già aveva la mano sul cuore. Parla, non avere pietà!... La notizia? Agrippina si era salvata. Viva, scampata al tranello! L'altera, l'arrogante, l'astuta, l'insolente, l'aspide, l'adorata! Sgusciata attraverso le maglie della rete d'acqua. E l'idiota che rideva nel darmi la notizia, contento... In quel momento ho capito che ero abitato da un dio. Sissignori, bisognava fare attenzione, o la partita era perduta. Dietro allo zoppo erano entrate guardie, schiave con secchielli d'acqua, ortolani. Che pubblico! Mi rivedo con un'espressione di falsa felicità che irradiava dal volto, rivedo lo slancio con cui ho abbracciato l'imbecille, il gesto con cui ho lasciato cadere ai suoi piedi un pugnale, lo stupore nello scoprire l'arma, sul subito fingere di non capire, esitare ad arrendersi all'evidenza, non credere ai propri occhi e poi veder chiaro di colpo, indietreggiare davanti all'orribile cosa, balbettare in un ultimo rifiuto di credere e infine esplodere: « Scellerato, volevi uccidermi! Uccidere me! Guardie, prendete quest'uomo! Perché, di', nascondevi questo pugnale nella tua manica? Uccidere me! L'imperatore! Chi ha armato la tua mano? Parla, infame; chi ti ha suggerito l'esecrando misfatto? Confessa! No, taci; non dire che ti ha mandato Agrippina. Mia madre! Giorno funesto, tremendo dolore! Taci, la tua confessione è inutile. Non sei forse il più fedele dei suoi servitori, il confidente prediletto, l'amante obbediente di una vecchia assetata di potere? Agrippina, madre infame, perché non sono riuscito a vincere il tuo odio col mio amore? Giorno infausto, cielo rosso di un sangue che mi sta soffocando! Il fato ha dunque voluto che vivessi soltanto per questo duro colpo? ». Nel mio furore finto alla perfezione ritrovavo le frasi preparate non per accusare, ma per piangere Agrippina. Le parole le tiri come vuoi, le stesse servono per il giorno e la notte, l'amore e la morte. Lo stesso per le espressioni del volto, identiche per l'assassino dopo il suo crimine, per il pastore chino sulla pecora morente, per l'atleta che termina sfinito la sua corsa nello stadio. Tutto uguale: che noia... In fondo, per esprimere il mio orrore davanti all'orrendo delitto di una madre snaturata ho dovuto appena alterare le smorfie studiate per manifestare il mio dolore. Quel volto arido per troppo piangere che avrei mostrato per disporre i funerali di Agrippina mi è servito per ordinare la sua condanna a morte. Le mie guardie sono partite, seguite dal boia in brache rosse. Ma intanto il mio fervore svaniva. Ero stanco. La passione, il furore: spento ogni slancio, tutto grigio come la cenere. Un supplizio prolungato, un morto che non vuol morire o i contrattempi del destino: tutto questo mi snerva. Mi sentivo vuoto. Anche stavolta la mia potenza, la potenza di Nerone, s'era abbattuta sul desiderio come fiamme su una catasta di rami e adesso restavano soltanto cenere e tizzoni, che un po' di pioggia avrebbe spento. (Un tempo) Ecco. Avrei dovuto prevederlo. Parlando avevo sperato di restare in questo stato di esaltazione di cui ho bisogno per morire. Ma la fatica mi ha fatto un brutto scherzo; tutto quello che vorrei è dormire, e basta. Impossibile non si può quando si sta per morire. Bisogna essere come ubriachi, per uccidersi. Ed ecco che invece proprio adesso, all'ultimo minuto questo slancio mi manca. Ubriacarsi di parole è facile, ma la sbornia dura poco, troppo poco... Nerone, coraggio. Nerone Enobarbo, imperatore dei romani, un po' di dignità. Pensa alla moltitudine che ti guarda, pensa ai posteri. Se i legionari ti prenderanno vivo le torture saranno tremende, cosa non inventeranno! Ho fatto il vuoto, la mia forza ha tutto distrutto. Non mi resta che la forza di distruggere me stesso e con me la mia morte. È così, non c'è scampo. Se vuoi negarla, la morte, se vuoi confonderla, farne una cosa assurda, distruggerla, non hai che il suicidio, Nerone. La morte è un'idea semplice; ma se t'uccidi ecco la porta spalancata su tutte le ipotesi possibili. Nerone sparisce ancora per la tangente, si dilegua, ridiventa inafferrabile per l'ultima volta. Se i cavalieri arriveranno qui e mi troveranno vivo la verità entrerà con loro in questa tana, e allora sarà finita. Perché la verità io l'ho sempre distrutta, schernita, truccata. Sempre. E volete che mi facciano confessare proprio adesso? Ho parlato, molto. Ma tutto quello che ho detto sul bene e sul male, su Lepida, su Agrippina: perché non potrebbe essere un sogno? Il sogno del mio spirito errante. (Epafrodite appare sulla soglia. Nerone non lo vede subito) Ho parlato ma senza confessare. È così, non ho confessato. Cosa credevate? La mia verità è un'altra. Finora mi sono divertito a imbrogliare le carte, nient'altro. La verità... (S'accorge della presenza di Epafrodite. Un breve «Ah »; poi più piano) La verità, anche lei la si può distruggere. (Alza il pugnale) Quale artista, mondo, stai per perdere! Quale artista! (Si colpisce, vacilla. Comincia a calare il sipario. Nerone fa un passo, due, s'aggrappa alla tela e la trascina nella caduta).
FINE