La nostra fortuna

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LA NOSTRA FORTUNA

Commedia in tre atti

di ELIGIO POSSENTI

a RUGGERO BUGGERI

PERSONAGGI

AUGUSTO PARATI

FEDERICO, suo figlio

ENRICA, moglie di Federico

GIULIA, figlia di Federico

SILVIO, cugino di Federico

ROLANDO TRE MONTI

ALDO COTELLI

IL FATTORE

TERESINA, cameriera di Augusto

CATERINA,

cameriera di Federico.

 (Augusto e Federico debbono essere interpretati dallo stesso attore)

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

 (Salotto in casa del professor Federico Parati. Porta a destra, porta a sinistra, comune in fondo. Pomeriggio di giugno).

Enrica                            - (è seduta accanto alla radio che trasmette un jazz).

Giulia                            - (poco dopo entra da sinistra. Indossa sul vestito la toga d'avvocato, ha il tocco in testa e una busta di cuoio giallo sotto il braccio) Mamma, come ti pare?

Enrica                            - Brava! Sei un'avvocatessa magnifica!

Giulia                            - Mi sta bene, vero?

Enrica                            - Ti dico che mi fai soggezione!

Giulia                            - Chiudi la radio, ti prego.

Enrica                            - L'ho appena aperta. Lo sai che vado matta per il jazz.

Giulia                            - Ma non si può discorrere.

Enrica                            - Mi distraevo un poco. Ho letto il gior­nale...

Giulia                            - ... e ti sei affaticata.

Enrica                            - Mi è venuto il batticuore. È per i fat­tacci: i giornali fanno a chi ne stampa di più!

Giulia                            - Non li leggere.

Enrica                            - Mi ci diverto! Ci hanno imbestiato l'olfatto. Ci fanno annusare l'odore del sangue. Tu non li guardi?

Giulia                            - Per me è dovere professionale. È di lì che escono i clienti di noi penalisti.

Enrica                            - Ma a te piace proprio la tua professione?

Giulia                            - Sempre di più. Domani ho finalmente una difesa importante. Sono felice.

Enrica                            - Chi l'avrebbe immaginato. Mia figlia a tu per tu coi delinquenti.

Giulia                            - Imputati, prego. Quando vengono da me, sono imputati.

 Enrica                           - Imputati, delinquenti, fa lo stesso.

Giulia                            - Lo dici tu. Ma non stiamo a discutere. La toga mi sta bene? Sì? Domani farò un figurone. (Solenne) Signori del Tribunale! (Ironica) Ah, il Pub­blico Ministero crede di mettere la difesa nell'imba­razzo?! (Patetica) Guardatelo l'imputato. Ha forse lo sguardo torvo dell'omicida? No, signori del Tribu­nale, ha quello limpido dell'innocente, che pensa ai suoi due bimbi che lo attendono a casa, pronti a cor­rergli incontro e a buttargli le braccia al collo dicendo: « Oh, papà... ». Eh, farò effetto, no?

Enrica                            - Sei formidabile.

Giulia                            - E adesso vado a levarmi il manto della legge. Gran comodità avere lo studio annesso alla casa. Papà non voleva. « No; basta che io abbia il laboratorio al piano di sotto ». Invece l'ho spuntata e sono contenta.

Enrica                            - Ma torna, che ti devo parlare.

Giulia                            - Di che?

Enrica                            - Non di che: di chi.

Giulia                            - L'ho capito. Di papà. Ogni due giorni hai bisogno di domandarmi che mi pare dell'aspetto di papà, dello sguardo di papà; e se mi sembra di cattivo umore, se nasconde qualche preoccupazione... Mi fai quasi pensare che temi qualcosa... È una mania. Vado e torno. (Esce a sinistra. Squilla il telefono).

Enrica                            - (all'apparecchio) Pronto?... Chi parla?... Eh?... Dica... Se sono Giulia? Veramente... (Decisa) Giulia, sì, sono Giulia... Non riconosce la voce? C'è qualcosa nell'apparecchio che la altera... Come?... (Dolce) Che cosa ti devo dire... (Morbida) Ma noo... Al telefono, nooo... Se ricordo?... Dirti che?... Oh, non è possibile! Sì, c'è gente. Domani no, ho il processo... Dopodomani alle 18... Sì. Se sono felice?... Felicis­sima... Addio. (Depone il ricevitore e passeggia ner­vosa) Ah, questa!

Giulia                            - (rientra da sinistra) Dunque, il papà?...

Enrica                            - (irritata) No. Parliamo di te, invece.

Giulia                            - Ma non è del papà?...

Enrica                            - Più tardi. Il papà più tardi. Ora a te.

Giulia                            - Perché questo tono?

Enrica                            - Sai chi ha telefonato?

Giulia                            - No. A meno che non sia un cliente.

Enrica                            - Non era un cliente!

Giulia                            - E allora?

Enrica                            - Era un uomo!

Giulia                            - Tutti i clienti sono uomini.

Enrica                            - E tu lo conosci!

Giulia                            - Ne conosco tanti.

Enrica                            - Ma quello più degli altri. Quello lo conosci troppo. (Marcando) Troppo!

Giulia                            - Non capisco.

Enrica                            - Ti aspetta dopodomani alle 18.

Giulia                            - Grazie. Ma dove?

Enrica                            - Grazie di che?

Giulia                            - Dell'informazione.

Enrica                            - Non scherzare. Ti aspetta per ripetere il convegno di ieri alla stessa ora. Il « dove » lo sai. Sarà un « dove » con tendine rosa.

Giulia                            - E con ciò?

Enrica                            - (a terzi immaginari) Domanda « con ciò! ». (A Giulia) Mi meraviglio.

Giulia                            - Che io sia una donna? 0 non mi hai fatto donna, tu?

Enrica                            - Ti ho fatto una donna come si deve.

Giulia                            - E cioè?

Enrica                            - Una donna che si rispetta.

Giulia                            - E io non mi rispetto?

Enrica                            - Non ti rispetti e non ti fai rispettare.

Giulia                            - Da chi voglio sì.

Enrica                            - Ah, perché da quello non hai voluto?

Giulia                            - No.

Enrica                            - E me lo spari a bruciapelo?

Giulia                            - Non varrebbe la pena d'aver preso una laurea per poi non aver la lingua sciolta.

Enrica                            - Te l'hanno insegnato all'Università?

Giulia                            - Ho imparato a dir le cose come stanno.

Enrica                            - (affermativa) Adesso!

Giulia                            - Come adesso?

Enrica                            - Dopo che io ho sorpreso la telefonata. Perché, prima, muta. È una franchezza in ritardo.

Giulia                            - Te lo dovevo forse dire io?

Enrica                            - Sì.

Giulia                            - Quando mai si va dalla madre a dire: « Sai, mamma, mi son fatto l'amico? ».

Enrica                            - Invece ci voleva, questo coraggio.

Giulia                            - Confesso, non l'ho avuto. Lo vedi che, per quanto innanzi, sono ancora indietro.

Enrica                            - Si nascondono le cose illecite.

Giulia                            - No: si tacciono le superflue.

Enrica                            - Ah, sapere che fa mia figlia è superfluo?

Giulia                            - La mia vita intima appartiene a me. Ciascuno è padrone di se stesso.

Enrica                            - Quando vive solo, quando non ha rap­porti con la famiglia, quando quello che fa non può aver riflessi su chi gli vive vicino...

Giulia                            - Nessun riflesso per voialtri.

Enrica                            - Ah no? E la gente? E le chiacchiere? E il disonore che ne potrebbe venire a me, a tuo padre? Le colpe dei figli ricadono sui genitori.

Giulia                            - Sei ibseniana! Lo ripeterò in un'arringa!

Enrica                            - Non m'impressioni con le tue arringhe. Poche frasi quello sconosciuto mi ha detto al tele­fono, ma rivelatrici. È il tuo amante.

Giulia                            - Non me ne vorrai rimproverare.

Enrica                            - Anzi me ne congratulo!

Giulia                            - Io agisco come mi pare.

Enrica                            - Male.  Agisci male. Anche come profes­sionista hai delle responsabilità. Ma ci pensi? Un'av­vocatessa che...

Giulia                            - Oh, per questo, « un'avvocatessa che » ... avrebbe lo studio gremito di clienti.

Enrica                            - Può darsi, ma lo studio avrebbe un altro nome.

Giulia                            - Mi regolo da me.

Enrica                            - Ma se tuo padre lo sapesse!

Giulia                            - Mio padre lo ignora.

Enrica                            - Fino a questo momento.

Giulia                            - Glielo riferirai tu?

Enrica                            - Vedrò. Ci rifletterò. Non gli vorrei dare un dolore. Per lui sarà un dolore. Ti adora. Ti pone in alto. Ti crede... La notizia lo dispererebbe.

Giulia                            - Ma non lo sorprenderebbe.

Enrica                            - Un padre si sorprende sempre quando scopre che la figlia è una donna.

Giulia                            - Ma lui no. Lui è moderno. « Che una ragazza abbia un amante è un fatto naturale ». Sono parola sue.

Enrica                            - Sì, quando si tratta delle altre.

Giulia                            - Ma tu non gli dirai nulla.

Enrica                            - Ah, dovrei portare da sola il peso di un segreto simile?

Giulia                            - Non è un gran peso.

Enrica                            - Ah no? Diglielo tu: «Senti la bella novità: ho un amante». Prova.

Giulia                            - Farei una sciocchezza. Queste notizie non si danno ancora direttamente. Tanto più che c'è sempre qualche zelante che un giorno o l'altro le comunica.

Enrica                            - Ma tu hai previsto il caso che tuo padre lo venga a sapere?

Giulia                            - L'ho previsto.

Enrica                            - E non ti preoccupa?

Giulia                            - Non dico di no: ma che ci potrei fare? Siamo impastati così.

Enrica                            - E hai studiato.

Giulia                            - Appunto per questo.

Enrica                            - La toga non ti autorizza a fare il co­modo tuo.

Giulia                            - Ma non me lo vieta.

Enrica                            - Sei una spudorata.

Giulia                            - Mamma, bada alle parole!

Enrica                            - Sono quelle giuste!

Giulia                            - Non farmi perdere la calma, mamma. E poi ho da fare. Te l'ho detto: domani ho il mio primo processo importante.

Enrica                            - Un delitto... E il tuo non è un delitto?

Giulia                            - Che diavolo dici?

Enrica                            - Dico quello che ti deve dire una madre. Sono tua madre, no? Dunque parlo da madre. E sai che altro ti deve dire tua madre? Che, delitto o no, lo è sempre verso tuo padre. Lo sai che lavora, che ti procura ogni agio... che è orgoglioso di te. « Mia figlia avvocatessa ». Quando lo dice, si gonfia. Ti crede seria e leale, soprattutto leale. Ecco: è questo che lo farebbe soffrire di più. Tu non hai pensato a tutte queste cose.

Giulia                            - Non si pensa mai a queste cose quando si fanno quelle altre.

Enrica                            - Ma ci dovevi pensare.

Giulia                            - Nessuno ci pensa. Anche le Carlini, le Franti...

Enrica                            - Quelle sono ragazze oziose. Tu, no. Senti, Giulia, io non dirò niente a tuo padre, ma tu tronchi tutto.

Giulia                            - Quando ne sarò stufa; per ora no.

Enrica                            - E allora lo informo!

Giulia                            - Tu non lo informerai di niente.

Enrica                            - Chi me lo proibisce?

Giulia                            - Io.

Enrica                            - Tu mi...

Giulia                            - Sì, io.

Enrica                            - Vorrei vedere.

Giulia                            - Mamma, non andare troppo oltre.

Enrica                            - Mi parli così?

Giulia                            - Eh, m'intossichi l'anima. Mi piace, non so se lo amo, ma mi piace. Chiamala follia, capriccio, quello che vuoi. Ma me lo tengo.

Enrica                            - (pausa) Perché non lo sposi?

Giulia                            - Non ho voglia di accasarmi. C'è tempo. E non desidero figliuoli. Da moglie finirei con l'averli.

Enrica                            - Non vuoi diventare mamma!

Giulia                            - No: almeno per un po' di anni. Poi si vedrà.

Enrica                            - O non si vedrà: tu non hai cervello e io dico tutto a tuo padre. È il mio dovere. A qua­lunque costo. Devo fare la mia parte di madre fino in fondo. Qui, sono la madre.

Giulia                            - Sei decisa?

Enrica                            - Decisissima.

Giulia                            - Tu non tacerai?

Enrica                            - Gli dirò tutto com'è vero che tu ti chiami Giulia e io Enrica.

Giulia                            - E allora parlerò anch'io. Ho anch'io qualcosa da dire al papà.

Enrica                            - Che? Che cosa?

Giulia                            - Che anche tu hai un amante!

Enrica                            - Tu osi...?

Giulia                            - Oh, non per rivalsa. Soltanto per farti uscire dalla tua parte di madre.

Enrica                            - (con una risata falsa) E tu l'hai cre­duto subito.

Giulia                            - Non mi far precisare. Ne ho la certezza.

Enrica                            - Falso! Tutto falso.

Giulia                            - Ti ripeto che ne ho la certezza.

Enrica                            - (capitolando) Se tu sapessi!...

Giulia                            - Non ti spiegare, non ti giustificare. Donne, tutt'e due, ecco tutto. E dunque, zitta io, e zitta tu.

Enrica                            - Tu mi ricatti.

Giulia                            - Io ho taciuto e seguiterò a tacere. Ma tu farai altrettanto per me. Il babbo non sa nulla, non ha da saper nulla né di me, né di te. Lui vive fuori del mondo. È uno studioso. Sta intere notti in laboratorio. Lavora sull'atomo. Non lo mettiamo sossopra. È un uomo superiore.

Enrica                            - È un santo della scienza, e, ahimè, come tutti i santi, è un casto.

Giulia                            - I nostri segreti teniamoli per noi. .

Enrica                            - Più per noi che si può.

Giulia                            - Ma non per le meschine ragioni che credi tu; per ragioni più alte, per rispetto e per affetto.

Enrica                            - Il risultato è lo stesso.

Giulia                            - Ma il motivo è nobile.

Enrica                            - Figurati se non lo condivido.

Giulia                            - Almeno questo: che non abbia a soffrire per causa nostra.

Enrica                            - Bisogna tenerlo all'oscuro di tutto.

Giulia                            - (equivoca) Non per noi, naturalmente.

Enrica                            - (idem) No no, per lui, che diamine!

Giulia                            - Tanto, lui spazia in ben altre luci.

Enrica                            - Allora, silenzio.

Giulia                            - Silenzio. Tomba tu, tomba io.

Enrica                            - Un abbraccio? Me lo dai un abbraccio!

Giulia                            - Alla madre?

Enrica                            - No, per una volta no; a una donna, come tu dici. (Si abbracciano).

Giulia                            - Ma che mi volevi dire di lui?

Enrica                            - Lo trovo un po' pallido, sciupato.

Giulia                            - Sfido: stanotte ha lasciato il laboratorio alle quattro. Parrebbe un controsenso ed è la verità: noi gli vogliamo un gran bene.

Enrica                            - Nonostante tutto.

Giulia                            - E faremo l'impossibile per non angu­stiarlo. Intese?

Enrica                            - Intese.

Caterina                        - (entra da destra) Questo signore chiede di essere ricevuto. (E dà un biglietto di visita a Enrica).

Enrica                            - (legge il biglietto. A Giulia) Silvio Ferlani. Humm! Tu lo conosci?

Giulia                            - Affatto.

Enrica                            - (alla cameriera) E che cosa vuole?

Caterina                        - Parlare col signore.

Giulia                            - Il signore è nel suo laboratorio. Non lo si può disturbare.

Caterina                        - Ma lui insiste. Dice che si tratta di cosa che interessa il signore. E dice che non se ne andrà finché non lo avrà visto.

Enrica                            - Questi seccatori! Non danno tregua. Fallo passare: gli parlerò io. (Caterina esce a destra).

Giulia                            - Io vado nel mio studio. Se hai bisogno, mi chiami. E intesi, eh? Zitta io e... (Esce).

Silvio                             - (entra da destra. È un uomo sulla cinquan­tina, veste sdrucito e malmesso ma con le tracce di una certa eleganza passata).

Enrica                            - Lei è il signor Silvio Ferlani?

Silvio                             - Eh, fra tanti nomi e cognomi, mi son toccati quei due. Non mi piacciono, ma me li porto in giro lo stesso.

Enrica                            - Lei sa che mio marito...

Silvio                             - Ah, lei è la signora Parati? (S'inchina).

Enrica                            - ... mio marito è in laboratorio.

Silvio                             - A far l'atomo a pezzettini. Lo immagino.

Enrica                            - Bè, quando lavora non lo si può inter­rompere.

Silvio                             - Ma chi dice d'interromperlo. Io lo aspetto: un'ora, due, ventiquattro, quarantotto... Ho due giorni liberi. Dunque!

Enrica                            - È cosa urgente?

Silvio                             - Urgentissima.

Enrica                            - Non può tornare domani?

Silvio                             - Se le dico: urgentissima. E domani sarebbe come oggi. Gli scienziati coi loro aggeggi sono come i bambini coi giocattoli. Quando giocano non la vogliono smettere.

Enrica                            - Parli con maggior riguardo del pro­fessore.

Silvio                             - Io mancargli di riguardo? Non me lo permetterei mai. Il professore è il professore... e io sono io, per amordiddio, non facciamo confronti.

Enrica                            - Anche lei si occupa di atomi?

Silvio                             - Nossignora. Io gli atomi non li avrei mai toccati. Io ai dieci comandamenti ne aggiungerei un undicesimo. Subito dopo « Non desiderare la donna d'altri » scriverei « Non spezzare l'atomo ». Tutte le nostre ansie vengono di là.

Enrica                            - Non so che dirle. Provi ad attenderlo. (s'avvia).

Silvio                             - Signora, scusi, mi potrebbe offrire un caffè (lo prende) un giornale illustrato (lo prende) una bella poltrona... (Si sdraia in una pol­trona. Caterina entra).

Enrica                            - Un caffè al signore. (La cameriera esce).

Silvio                             - Ah, ora posso aspettare un mese. Lei vada pure per le sue faccende: io qui mi ci trovo benone.

Enrica                            - Faccia i comodi suoi.

Silvio                             - Come vede, ho bell'e incominciato. (S'alza e si inchina).

Enrica                            - Ha un modo curioso lei di entrare in una casa.

Silvio                             - È il mio. Sono forestiero. Vengo da lontano. Da anni vivo negli alberghi e sui piroscafi. Quando mi trovo in una casa, mi pare di sognare. Una. poltrona, un sigaro, un caffè, un ambiente acco­gliente, confortevole... sono seduzioni. Non ci si resiste. Le dispiace?

Enrica                            - A me no, si figuri.

Silvio                             - E allora non ci faccia caso, e mi lasci in libertà.

Enrica                            - Se riesce a veder mio marito, non gli rubi troppo tempo. È talmente occupato!

Silvio                             - Non dubiti. Non sarà un discorso compli­cato. Non sono né matematico né fisico, né, Dio mi scampi, un filosofo.

Enrica                            - Tanto meglio! (Esce a sinistra).

Caterina                        - (entra da destra col caffè).

Silvio                             - Metti qui. (E le indica un tavolino vicino alla poltrona) È bollente? A me piace bollente. (E si accinge a bere).

Caterina                        - Brucia!

Silvio                             - (mentre beve) Meglio. E, qui, avete una camera per gli ospiti?

Caterina                        - Il signore la inviterà a rimanere?

Silvio                             - Non lo so. Ma se non compare fino a domani, io farei conto di passare la notte qui. Il posto c'è?

Caterina                        - Sissignore. Ma io, senza ordini...

Silvio                             - Capisco. Se mai i tuoi signori non mi offrissero la camera, potresti rimediare tu.

Caterina                        - In che maniera?

Silvio                             - Ospitandomi nella tua.

Caterina                        - Signore! Nessuno mi ha mai detto una cosa simile!

Silvio                             - Non ti credo. Ma non ti impressionare. Ottimo, il tuo caffè. (Le rida la tazza).

Caterina                        - Non m'impressiono neanche di un reggimento. (Esce a destra).

Silvio                             - Me l'ero immaginato!

Federico                        - (entra di fondo, rapido e nervoso) M'ha detto mia moglie...

 Silvio                            - (si alza) Le ha detto bene.

Federico                        - Che vuole da me?

Silvio                             - Non si affanni. Voglio una cosa che richiede alcune premesse.

Federico                        - Molte? Perché non ho gran tempo...

Silvio                             - Per via dell'atomo?

Federico                        - Già.

Silvio                             - L'atomo può aspettare. Tanto è solo.

Federico                        - Mentre lei...?

Silvio                             - Io sono un complesso di atomi boc­cheggianti.

Federico                        - Se è venuto per... niente da fare.

Silvio                             - Ho capito. Ma io non sono venuto per... come dice lei: io sono venuto sicuro che lei mi aiuterà.

Federico                        - Senta, signore, lei è entrato di là, vero?

Silvio                             - Sì.

Federico                        - Bè, si esce dalla stessa porta.

Silvio                             - Ma io non esco.

Federico                        - Dica dunque. Si sbrighi.

Silvio                             - So come si parla agli scienziati.

Federico                        - E allora?

Silvio                             - Mi ha osservato bene? Mi osservi. Il naso, il mento, la fronte... Non le dicono niente, non le richiamano niente?

Federico                        - Niente.

Silvio                             - Non ci vede lo stampo di famiglia?

Federico                        - Cioè?

Silvio                             - Sua moglie le ha detto Ferlani? Silvio Ferlani? L'ho scritto io sul cartoncino, per simulare un biglietto dì visita. Ma io mi chiamo Parati. Silvio Parati. Ancora niente?

Federico                        - (più calmo) Lei si chiama come me?

Silvio                             - Naturale. Siamo figli di fratelli.

Federico                        - Il figlio dello zio Giacomo.

Silvio                             - Precisamente.

Federico                        - Io l'ho conosciuto lo zio Giacomo, quand'ero bambino.

Silvio                             - Alla partenza dei miei per l'Argentina io non avevo alcuna idea di venire al mondo. Anzi, se fosse dipeso da me, me ne sarei ben guardato. È la sorte comune. Una notte, una coppia legale o no, ci fa questa bella sorpresa.

Federico                        - Non ne ho saputo nulla. Non credo neanche che tuo padre e mio padre si scrivessero.

Silvio                             - Mai scritti. Lo so di certo. E come sta tuo padre? So che è ancora vivo.

Federico                        - Ha compiuto i novanta.

Silvio                             - Salute! Il mio invece è morto da sei anni. La mamma è invecchiata presto. Si è spenta prima, in un soffio. E in sei anni, eccomi qua, così. Non ho l'aspetto di un miliardario di sicuro.

Federico                        - Vita dura?

Silvio                             - Che? Vita allegra. Mio padre s'era fatto un monte di quattrini. Carni in scatola. Io m'ero sposato, ma la moglie m'ha piantato. La bambina l'ho tenuta io. Tanto bellina, un amore. È morta. Disperato, che fare? Mi sono buttato a giocare. Una scalogna! Son qua asciutto come un torrente dopo un anno di siccità. Ho creduto di trovar più fortuna nelle case da gioco italiane. Che! Un disastro definitivo!

Federico                        - Ci dovevi ragionare.

Silvio                             - Col dolore della bambina?

Federico                        - Il dolore non deve essere una scusa.

Silvio                             - Ma è una causa. E poi con tutti quei milioni. Il danaro, quand'è molto, dà alla testa.

Federico                        - Così mi persuadi di più.

Silvio                             - Ma adesso ho la testa libera.

Federico                        - E le tasche vuote.

Silvio                             - Esatto.

Federico                        - E sei venuto da me per...

Silvio                             - Non mi lasciar naufragare! Altrimenti a che servirebbero i parenti?

Federico                        - Naufragio più volontario che neces­sario.

Silvio                             - Volontario o, no, ho bisogno di quattrini. Tu ne hai.

Federico                        - Hai chiesto mie informazioni alle Banche?

Silvio                             - Tu guadagni. Tuo padre ha duemila pertiche di terreno. A me basta mezzo milione.

Federico                        - Appena?

Silvio                             - Mi dai mezzo milione e io scompaio.

Federico                        - Non ti dò niente e tu scompari lo

Silvio                             - Con mezzo milione, mi metto in società con altri, e apriamo un locale notturno. Son di moda i locali notturni. Una piccola cantina trasformata in bar, un'orchestrina straziaorecchi, un po' di don­nine platinate e un po' di scemi... Si guadagna.

Federico                        - E io dovrei?!...

Silvio                             - Tu devi: non dovresti: devi.

Federico                        - Io non ti dò un soldo.

Silvio                             - Tu devi. Bada bene al verbo: tu devi!

Federico                        - Se si dovessero aiutare tutti i parenti rovinati dai vizi!

Silvio                             - Ho puntato su di te.

Federico                        - Hai sbagliata carta.

Silvio                             - No, caro: questa volta ho indovinato.

Federico                        - Bravo! Ma adesso te ne vai e non ti fai più vedere.

Silvio                             - Ti imbratto la casa?

Federico                        - Mi disgusti. Tutti gli uomini inutili mi disgustano.

Silvio                             - Oh, scusa. Ho importunato lo scienziato! Oh, lo so che sei celebre, che il tuo nome splende dovunque, ma stai attento a non offuscarlo.

Federico                        - Non ti preoccupare.

Silvio                             - Invece lo vedo un po' appannato.

Federico                        - Che vai farneticando? Vattene, ti dico.

Silvio                             - Non aver fretta di mandarmi via; dopo, avresti la noia di richiamarmi.

Federico                        - Sembri la Sibilla.

Silvio                             - Cumana. Io sono la Sibilla Cumana.

Federico                        - Smettila. E poi come posso esser certo che la storia della bambina...

Silvio                             - Non offendere un dolore simile!

Federico                        - E chi mi assicura che sei tu?

Silvio                             - Ecco il passaporto. (Glielo dà).

Federico                        - (legge) Silvio Parati, fu Giacomo e fu Lidia, nato a...

Silvio                             - Persuaso adesso? Non penserai che... C'è la mia fotografia. Guardala bene. Mi dai i quat­trini?

Federico                        - No. Io lavoro, ho sempre lavorato. I miei quattrini non li dò a un ozioso. Nella mia casa tutto è pulito: io non tratto che persone pulite.

 Silvio                            - Ah sì? E tratti anche tua moglie e tua figlia?

Federico                        - Spiegati. Adesso ti devi spiegare.

Silvio                             - Chiedevo per chiedere.

Federico                        - Poverino! Sei di un candore!

Silvio                             - Quanta pulizia qui dentro! Uno specchio. Tutti specchi.

Federico                        - E schizzalo questo veleno!

Silvio                             - Tanto peggio. Tu ti consumi in labora­torio e loro se la spassano.

Federico                        - (una pausa) Lo so. L'ho saputo, subito, di tutt'e due. Ma la è rimasta pulita lo stesso.

Silvio                             - Ah, contento tu!

Federico                        - Contento no, consapevole! Non sa­remo arrivati a metà del secolo per non capire che una moglie trascurata ha diritto di vivere... e che una figlia giovane... E lo capisco. Io so, e taccio: loro fanno di tutto per nascondermelo. Anche questo, rispetto alla casa. Perciò ti dico che la casa è pulita.

Silvio                             - È questione di opinioni.

Federico                        - Questa è la mia.

Silvio                             - Figurati se ti voglio contraddire. Tu sei tu e io sono io, per l'amordiddio, non facciamo con­fronti. Dunque tu non mi aiuti.

Federico                        - Non aiuto gente come te. Sciupando i quattrini di tuo padre tu insulti la sua memoria.

Silvio                             - Oh, guarda: ti prendi a cuore mio padre.

Federico                        - Ne ho un vago ricordo. Doveva essere una brava persona.

Silvio                             - Troppo. Per questo io ristabilisco l'equi­librio. Meglio non fosse stato una brava persona. Se ne sarebbe infischiato e non sarebbe partito, cinquant'anni fa, per l'Argentina. (Quasi commosso) 12 luglio 1900. È una data che mia madre maledi­ceva spesso: pativa, poveretta, una nostalgia tor­mentosa per il suo paese. (Aere) Sono partiti tutt'e due per colpa vostra.

Federico                        - Per noi?

Silvio                             - Per tuo padre, per quello che era successo.

Federico                        - Che cos'era successo?

Silvio                             - Fingi o sei sincero?

Federico                        - Allora ero piccino...

Silvio                             - E in seguito nessuno ti ha mai raccon­tato...?

Federico                        - Sono stato assente molti anni. Ho studiato all'estero.

Silvio                             - Tua madre è morta presto, vero?

Federico                        - Per l'appunto compivo gli otto anni.

Silvio                             - Qualcosa rammenterai.

Federico                        - Come in una nebbia... Mi hanno con­dotto via da casa, hanno detto al bimbo che ero, che lei era salita in cielo. Poi, subito mi hanno messo in un collegio svizzero.

Silvio                             - Ecco. In seguito a ciò mio padre e mia madre hanno lasciata l'Italia.

Federico                        - Per la morte della mamma.

Silvio                             - Precisamente.

Federico                        - Si sono litigati con mio padre?

Silvio                             - No. Per le voci che correvano.

Federico                        - Quali voci?

Silvio                             - C'è stato anche un processo.

Federico                        - Che diavolo dici? Un processo?

Silvio                             - Me l'ha raccontato mio padre. Un processo.

Federico                        - Ma di chi? Contro chi? Per quale ragione?

Silvio                             - (ambiguo) Non mi domandare di più. Perché te lo dovrei dire? Storia antica... C'è passato sopra mezzo secolo... Mezzo secolo è una spugna che cancella molte cose... (S'avvia).

Federico                        - Eh no! Ora no. Non mi si pianta una spina e poi si va. Fermati. Che processo?

Silvio                             - Mah... Pare che la poveretta non si fosse spenta...

Federico                        - Continua!

Silvio                             - ... non so come dire... di morte naturale.

Federico                        - Una disgrazia?

Silvio                             - Peggio.

Federico                        - Suicida?

Silvio                             - Peggio ancora!

Federico                        - Assassinata?

Silvio                             - Oh, che parolaccia. Uccisa.

Federico                        - Da chi?

Silvio                             - Ecco: questo era il punto. Da una donna no.

Federico                        - Da un suo... No, che mi fai dire?

Silvio                             - Escluso anche quello.

Federico                        - E allora!... (Lo guarda) Da chi?

Silvio                             - Mistero! Almeno... al primo momento...

Federico                        - E poi?

Silvio                             - Poi si sospettò ancora che qualcuno...

Federico                        - Ma chi?...

Silvio                             - Eh chi? (Lo guarda. Si guardano) Sì.

Federico                        - Mio p... (Negativo) Ah! Che mi fai pensare.

Silvio                             - Si disse, si insinuò... Sai com'è... 'Ipotesi. Si fanno sempre ipotesi.

Federico                        - E ci fu proprio un processo?

Silvio                             - Eh, un processone.

Federico                        - E alla fine?

Silvio                             - Alla fine che?

Federico                        - Che avvenne? Che risultò?

Silvio                             - Nulla. Non risultò nulla.

Federico                        - (con sollievo) Ah!

Silvio                             - Ma il dubbio rimase.

Federico                        - Il dubbio? Mio padre!

Silvio                             - Sì, la Corte d'Assise...

Federico                        - Corte d'Assise?!...

Silvio                             - La Corte d'Assise... (Un gesto per indi­care l’assoluzione) ... ma l'opinione pubblica... sai com'è l'opinione pubblica... Insomma mio padre che aveva iniziato con fortuna la carriera politica si trovò a disagio, con tanta pubblicità che si era fatta sul nome di famiglia... I guai di un fratello si riflet­tono sull'altro... La politica è intrisa di tossici... E con quella pubblicità... Fu allora che si decise a lasciare l'Italia e tutte le sue ambizioni di qui e si fece agricoltore laggiù. Io nacqui in Argentina, in una fabbrica di carni conservate. Ho dovuto poi occuparmi di macellazioni e di spedizioni... Tutte cose che mi ripugnavano. Altri gusti! Poi, la disgrazia. E allora, divertirmi, godermela, per dimenticare. Che donne laggiù! Tuo padre invece è rimasto, s'è ritirato nelle sue terre e tu sei diventato un fisico illustre... Tutto sommato è una brutta storia. Certo nonsarebbe bello per te, rivangarla ora che sei in auge.

Federico                        - Bada eh! Se è tutta una impostura per spillarmi danaro, per vendicarti del mio rifiuto...

Silvio                             - Vai piano, caro. Non ti gioverebbe rimet­tere fuori quella pagina... Tutti l'hanno dimenticata... Forse anche lui, tuo padre... Tanti fatti grossi e piccoli l'hanno sepolta... Ma quanti tuoi rivali go­drebbero a vedere il nome che hai reso celebre, risuscitato da vecchi giornali.

Federico                        - Mascal...!

Silvio                             - Non perdere le staffe. Che diamine, studi il modo di fulminarci tutti quanti e ti spaventi di cose tanto vaghe e lontane?

Federico                        - Tu menti!

Silvio                             - Domanda a tuo padre.

Federico                        - Certo che glielo domando. Domani ci vado.

Silvio                             - Vedrai che ho detto la verità. Dopo ne discorreremo ancora... Se mi umilii chissà... potrei prendermi il lusso di fare un po' di chiasso... Tuo padre ormai ha varcato ì limiti del tempo... Può darsi che si decida a parlare.

Federico                        - Mentre allora?

Silvio                             - Ha sempre taciuto. Così mi disse mia madre. Si è salvato tacendo.

Federico                        - Come salvato?

Silvio                             - Io ho detto?...

Federico                        - Sì, l'hai detto. Va via, va via! (Lo sospinge verso la porta di destra).

Silvio                             - Ma dopodomani mi ritrovi qui. Sono rovinato. Ho una donna con me. Una disgraziata, profuga dalla Bulgaria, conosciuta in treno. Ma,, oh, una donnina prelibata. Bada!

Federico                        - Vattene! Fuori! (Silvio esce. Bimane un attimo pensieroso, poi, rudemente negativo) Tutte frottole, perfidie... (Riflette ancora) E io mi. son la­sciato!... Sciocco. (Rimettendosi) Non ci pensiamo più!

Enrica                            - (dal fondo) Ho visto dalla finestra quel signore che se ne andava...

Federico                        - Speriamo che perda la strada.

Enrica                            - Noie?

Federico                        - Uno scroccone. Un parente. (Gesto per dire: senza importanza) Uno stoccatore. (Pausa) Figurati: è venuto a dirmi che hai un amante.

Enrica                            - Chi?

Federico                        - Tu!

Enrica                            - È pazzo!

Federico                        - Ma io ne ero al corrente perfettamente.

Enrica                            - Federico!

Federico                        - Comandi?

Enrica                            - Federico...

Federico                        - Non mi dire niente. So anche di Giulia.

Enrica                            - (fingendo meraviglia) Giulia? Che ha fatto Giulia?

Federico                        - Ha fatto come te. Con l'attenuante che lei non ha tradito nessuno.

Enrica                            - Federico!

Federico                        - Non mi chiamare ogni due minuti. Soltanto me lo potevi dire.

Enrica                            - Com'era possibile?

Federico                        - Forse non mi volevi dare un dispia­cere?

Enrica                            - Ecco.

Federico                        - Invece, vedi, dispiaceri non ne ho.

Enrica                            - Non te ne importa niente?

Federico                        - Niente.

Enrica                            - Allora non mi ami.

Federico                        - Ti amo, ma sono un marito passato al filtro di decine di generazioni. L'oggi non è altro che la trasformazione in ordinarie delle cose straor­dinarie di ieri. Soltanto, ti ripeto, me lo potevi dire.

Enrica                            - Se avessi immaginato che tu avresti esclamato: «Hai un amante? Bene», non te l'avrei taciuto di sicuro. Se sapessi che fatica a nascon­dertelo!

Federico                        - E Giulia? Magari sapevate l'una dell'altra!

Enrica                            - Io, di lei, l'ho appreso dianzi, per caso.

Federico                        - Ah, la custodivi bene tua figlia.

Enrica                            - Non bisognava farle prendere una laurea.

Federico                        - E tu sei laureata? (Pausa) Chiamala.

Enrica                            - Non sarebbe meglio evitare un incontro increscioso?

Federico                        - Ma io non voglio rimproverarla. Tutt'altro. Vai a chiamarla. (Enrica esce a sinistra. Federico suona).

Caterina                        - (entra da destra).

Federico                        - Sono arrivati quei signori?

Caterina                        - Sissignore, in questo momento.

Federico                        - (guarda l'orologio) Puntuali.

Caterina                        - Stavo per annunziarli.

Federico                        - Pregali di attendere qualche minuto. Quando suono li lasci entrare.

Caterina                        - Sissignore. (Esce a destra).

Enrica                            - (entra di fondo, seguita da Giulia. A Federico) Giulia ha da parlarti.

Giulia                            - (ha indosso la toga) Papà, ascoltami.

Federico                        - Non mi vorrai improvvisare una difesa.

Giulia                            - Mi stavo esercitando. (Si toglie la toga) Ti vorrei raccontare, giustificarmi...

Federico                        - Vedo che tua madre ti ha detto tutto.

Giulia                            - Sì, ma io invoco...

Federico                        - Che cosa? Gli articoli del codice? La mia clemenza? Ma io non sono né un giudice no un giurato. Io sono semplicemente un padre che sa, e un marito informatissimo.

Giulia                            - Anche di lei? (Accenna alla mamma).

Federico                        - (a Enrica) Non gliel'hai detto che sapevo?

Enrica                            - Mi pareva di cattivo gusto.

Federico                        - Da parecchio tempo volevo dissipare le ombre fra noi. Niente sotterfugi, come ha da essere fra gente che vive nella realtà. E la realtà d'oggi è che le cose sono quelle che sono senza fronzoli e paraventi. Tutto allo scoperto. Anzi ho pregato di venir qui anche i vostri amanti.

Enrica                            - Chi?

Giulia                            - Come? Che dici?

Federico                        - Non vi spaventate. Userò loro ogni riguardo. Sono quasi di famiglia, no?

Enrica                            - Che vuoi fare?

Federico                        - Discorrere un poco con loro e con voialtre. Uno scambio di idee fra le cinque persone più direttamente interessate in questa faccenda.

Giulia                            - E loro sanno che li hai convocati per questo?

Federico                        - Fossi grullo! Non ci venivano. Gli amanti non s'incontrano volentieri coi mariti per parlare della stessa donna. Invece, ignari, sono di là.

Enrica                            - Di là, dove?

Federico                        - In anticamera.

Giulia                            - (pronta) Io vado a deporre... (S'avvia).

Federico                        - La puoi deporre anche qui. (Giulia depone la toga su una sedia. Federico suona) Ce la sbrigheremo presto.

Enrica                            - Mi par meglio che io... (Si avvia).

Federico                        - No, resta anche tu. Non è di tutti i giorni una riunione di quésto genere. Vorresti per­dere un'occasione così rara?

Rolando e Aldo            - (entrano. Rolando è un uomo biondo sui 40, franco e marziale, elegante. Aldo è sui 25, capelli neri e barbetta, timido, impacciato, trasandato, vestito di chiaro con cravatta nera. Si fermano sul­l'uscio e s'inchinano).

Federico                        - S'accomodino. (A Rolando) Lei è il signor Cotelli?

Rolando                        - Signornò!

Aldo                              - (timido) Sono io. Cotelli sono io. Aldo Cotelli.

Federico                        - Ah! (A Solando) Lei è il signor Tremonti?

Rolando                        - Ai suoi ordini, signore.

Federico                        - Io sono il professor Federico Parati...

Rolando                        - Oh, il celeberrimo Parati!

Federico                        - Bontà sua. Le signore non le presento perché loro le conoscono. Rettifico. A lei, signor Cotelli, presento mia moglie. (Aldo s'inchina a Enrica) E a lei, signor Tremonti, presento mia figlia Giulia.

Rolando                        - Onoratissimo.

Federico                        - (a Enrica) Ti piacciono i biondi. Non lo sapevo. Indovinarli i gusti delle donne! (A Molando e Aldo) Ma s'accomodino. Enrica, Giulia, offrite da fumare. (Solando e Aldo siedono. Enrica e Giulia si scontrano nel cercare la scatola delle siga­rette: Giulia la prende ma le rovescia. Solando e Aldo si chinano a raccoglierle) Oh, che sbadate. Non sarete turbate, spero! Non c'è di che. È un convegno inso­lito ma tanto simpatico! (Solando e Aldo hanno finito di raccogliere le sigarette) Grazie, signori. Sie­dano. Anche le signore. Mi sono permesso di invi­tarvi oggi qui per una comunicazione che vi riguarda. E riguarda anche me. E anche le signore. (A Giulia) Ora posso chiamare signora anche te, no? (Agli altri) Io non conoscevo lor signori prima d'oggi. (A Solando) Lei, invece, conosceva mia moglie, e lei   - (a Aldo) conosceva mia figlia. Le conoscevano tutti e due oltre i limiti di una buona educazione.

Rolando                        - (balza in piedi) Signore!

Aldo                              - (s'è alzato e s'avvicina lentamente alla porta).

Federico                        - Non s'inalberi, signor Tremonti. Non è il caso. Si sieda, la prego. (Solando siede) Preferisco il signor Cotelli che se la batterebbe volentieri. Ma non è necessario neanche questo. Sieda anche lei. (Gotelli siede in fondo) Volevo dirvi che io so di voi e (indicando Enrica e Giulia) di loro.

Enrica                            - Questa umiliazione, Federico!

Giulia                            - È un tranello indegno!

Federico                        - Non vorrete far le offese voialtre adesso! State a dovere. Come faccio io. Desidero semplicemente informarvi tutti quanti che io ho sempre saputo e che mi sono mosso soltanto ora nel timore che l'illusione che io fossi ignaro non vi inducesse a pubbliche imprudenze tali da costrin­germi ad agire, verso di voi, in tutt'altro modo. Non per me, ma per la platea. C'è ancora gente retrograda che impone con la loro antiquata mora­lità, abusati provvedimenti.

Rolando                        - (in piedi) Io sono a vostra disposizione.

Federico                        - E che me ne faccio? Lasciamo queste vecchie frasi. Vi ho insultato? Vi ho rimproverato? No. Desideravo semplicemente di non passare, ai vostri occhi, da babbeo. Con ciò io vi libero tutt'e quattro da ogni rimorso. Siccome io lo sapevo, voi non mi avete ingannato. L'inganno presuppone l'igno­ranza. Ma ora che sapete che io so,, le cose non pos­sono continuare come prima. L'amante non è ancora una persona da iscrivere nello stato di famiglia. Ci si arriverà. Ancora una guerra e un dopoguerra e ci si arriverà. Per ora ci troveremmo tutti e cinque a disagio leggendoci sulla faccia la nostra qualità. Bisogna dunque modificare tutto il sistema di vita. Il mio e il vostro. Ciascuno rifletta e poi ne discor­reremo d'amore e d'accordo.

Enrica                            - (si alza) Per me è finita. Tradirti col tuo consenso, non mi è possibile.

Federico                        - Non ti parrebbe nemmeno più inte­ressante.

Giulia                            - E io? Far l'amore col permesso di papà? Mi sentirei come sorvegliata, spiata nella mia intimità.

Federico                        - E i signori? Che cosa dicono i signori?

Rolando                        - (si alza) Dico che questo è un agguato. Non eravamo preparati a una cosa simile. Ho tro­vato or ora il suo biglietto in portineria. Noi due ci siamo conosciuti dianzi nella vostra anticamera. Certo che, adesso, io non ho più la soddisfazione di portar via la donna di un altro. La moglie altrui pare sempre migliore della propria.

Federico                        - Ah, lei è ammogliato?

Rolando                        - Sissignore. (Pausa) Con prole.

Enrica                            - (a Rolando) E me l'aveva taciuto che aveva una famiglia!

Rolando                        - Tanto, sono sempre via, in aria.

Federico                        - Come in aria?

Rolando                        - Sono stato pilota di guerra, ora lo sono nei servizi aerei.

Federico                        - (a Aldo) E lei?

Aldo                              - (si alza) Io sono pittore. Ho fatto una mostra personale che ha avuto successo. Erano qua­ranta pezzi. Li ha comprati tutti la Croce Rossa per toglierli dalla circolazione. Insomma, dipingo.

Federico                        - Che cosa?

Aldo                              - Nature morte.

Federico                        - Tutte morte?

Aldo                              - Tutte.

Federico                        - Per questo porta la cravatta nera.

Giulia                            - Papà, ti prego, questo colloquio...

Federico                        - Io ho finito.

Enrica                            - Fateci il favore di ritirarvi.

Aldo                              - (s'inchina rapido, fila via ed esce a sinistra) A chi lo dice!

 Rolando                       - Soltanto per ossequio alla signora. (Esce a destra).

Federico                        - Soddisfatte?

Enrica                            - Ci hai svergognate.

Giulia                            - Me lo ricorderò per un pezzo.

Federico                        - Lo dite adesso. Ma domani sarà diverso. Tempo ventiquattro ore, li cercherete tutti e due. E se non cercherete quei due lì... (Siede).

Enrica                            - Basta, Federico. Io qui non posso restare. L'idea di averti dinanzi... No no. La tua magnanimità mi fa più male d'una scarica d'inso­lenze. Non mi oriento più. Ho bisogno di quiete, di riposo, di silenzio. Soprattutto di silenzio. Vado in campagna da tuo padre per qualche tempo. E Giulia verrà con me.

Giulia                            - Io non posso: ho un'udienza, lo sai.

Enrica                            - Ti precederò. Tu mi raggiungerai. Ma cambiar aria! Cambiar aria! Partirò domattina.

Giulia                            - (a Federico) Mi hai sbalordita. (Prende la sua toga ed esce).

Federico                        - Ottima la tua decisione. Aria più pulita laggiù. Anzi ho un incarico da darti per mio padre. Non tanto facile, ma forse tu... Quel parente... quel brutto tipo... mi ha messo un tarlo nel cervello... Menzogne, lo so, volgari menzogne per strapparmi denaro... Ma il tarlo c'è e rode... Ecco qua: dice che mia madre non è morta...

Enrica                            - Vive ancora?

Federico                        - Ma noo... Che non è morta di malattia.

Enrica                            - Una sciagura?

Federico                        - Diciamo sciagura. Dice anche- ma sono infamie- che mio padre è stato indiziato... processato e assolto per insufficienza di prove.

Enrica                            - Che pazzie sono queste!

Federico                        - Io ho sempre ignorato ogni cosa. Elementari, ginnasio, liceo, università, tutto fra Sviz­zera e Inghilterra. Sono tornato già uomo.

Enrica                            - Malvagità, non sono che malvagità.

Federico                        - Ma lui mi ha sfidato. Ha gridato «Domandalo a lui». Ma come posso io?... Quel caro vecchio!

Enrica                            - Tu pensi che lui?...

Federico                        - Ma nooo...

Enrica                            - Lo pensi, lo pensi. Altrimenti non mi daresti un incarico così penoso, ingrato.

Federico                        - Potrei frugare nei giornali del tempo, ma sarebbe indegno. Io cercare... su una delazione... Mi ripugna. Eppure anche i padri sono uomini... I figli li credono sempre perfetti. Quanti padri sono peggiori dei figli... Tu tenterai... Ti regolerai...

Enrica                            - E se rifiutassi?

Federico                        - Eh no! Non puoi rifiutare a me, ora.

Enrica                            - Mi presenti già il conto delle tue generosità.

Federico                        - Non farmene pentire.

Enrica                            - Ebbene mi proverò. Ma sarà così diffi­cile... Oltre tutto ti assomiglia in un modo... persino la voce... Mi pare sempre di parlare con te, Fede­rico, con te invecchiato, si capisce. Ma se vedo che non è il momento o che non vuole, svio il discorso.

Federico                        - In questo caso mi deciderò a guardare nelle cronache del tempo. Preferirei sapere dalle sue labbra. Non una confessione: un sì o un no. Tocca a te riuscirci.

Enrica                            - Mi metti in croce.

Federico                        - E tu non hai messo me?

Enrica                            - Ma tu conservi sempre la tua calma. Mi dici come fai? A volte mi fai paura. Sai che io ti tradisco, sai che tua figlia fa quello che fa, accusano tuo padre... Oh, ma è enorme!... e tu ci ragioni. Sì sei uno scienziato, un cervello positivo, sai dominare i tuoi nervi, sei abituato a frenare le smanie e a mettere a dura prova quotidiana la pazienza, ti inquieti, ti crucci, ma non hai un sentimento, un risentimento, una imprecazione, una ribellione. Guarda, io avrei preferito che tu avessi buttato fuori di casa me, mia figlia, preso a ceffoni il tuo parente, insultati gli altri... Invece niente. Non ti stupisci di niente. Ammetti tutto e dubiti di tutti. Persino di tuo padre. È spaventoso! Che cos'è questa tua indifferenza, apatia, nausea, rassegnazione, disperazione? Mi dici come spieghi, come giustifichi questa tua terribile impassibilità? (Federico sta zitto) Taci? (Federico c. s.) Una parola, almeno una parola. Non la trovi una parola?

Federico                        - (si alza, allarga le braccia, e con ironia) Millenovecentocinquanta!

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

(Stanza di soggiorno nella modernissima casa di campagna di Augusto Parati. Finestra e comune in fondo, porta a destra che mette nella casa e a sinistra che mette nei servizi. La mattina dopo).

Teresina                         - (introducendo dal fondo) S'accomodino. Che bella sorpresa!

Enrica                            - (in abito da viaggio, dopo un'occhiata signi­ficativa a Giulia che è entrata con lei con aria affa­ticata) Ma sì. Ieri sera ci siamo dette: «È un po' che non andiamo a trovare papà Augusto. Se ci andassimo domattina? ». Non siamo potute venire quando ha compiuto i novanta...

Giulia                            - (pure in abito da viaggio) ...ed eccoci qui adesso.

Teresina                         - Vado a togliere le valige dalla mac­china. (Esce di fondo)

Enrica                            - (siede) Sono stanca morta.

Giulia                            - E io? Non ho potuto chiudere occhio.

Enrica                            - Tutte le ore ho sentito suonare. La sorpresa di ieri sera mi ha levato il respiro. Fortuna che ti hanno rinviato il processo e sei partita con me.

Giulia                            - Comincio ora a riavermi. In macchina non avevo la forza di parlare. E neanche tu del resto.

Enrica                            - Papà, al contrario, stamane ci ha salu­tate come nulla fosse. « Buon viaggio, buon viaggio! ». Davvero non lo capisco.

Giulia                            - Tutto mi sarei aspettato... Ma come ha potuto ideare un incontro simile!

Enrica                            - Questi scienziati pare che pensino agli studi loro, invece tengono d'occhio i fatti nostri.

Teresina                         - (entra con due valige) L'autista chiede se le signore ripartono nel pomeriggio.

Enrica                            - No, ci fermiamo. Mi son dimenticata di avvertirlo.

Teresina                         - Glielo dico io.

Giulia                            - E il nonno?

Teresina                         - Si sta vestendo. Sono le undici, ma iersera ha fatto il tocco a poker. Il sindaco, il curato, il dottore e lui, quattro viziosi. Le sue dieci ore le vuol dormire. Se non le dorme tutte, sta benone lo stesso, ma si stizzisce all'idea di non averle dormite.

Giulia                            - Sempre in ottima salute, vero?

Teresina                         - Una meraviglia. Un fenomeno.

Giulia                            - Nessun disturbo?

Teresina                         - Nessuno.

Enrica                            - E l'umore?

Teresina                         - Variabile, ma tendente al sereno.

Giulia                            - Fa le sue passeggiatine?

Teresina                         - Tutti i giorni. E ogni volta rimpiange i viaggi che faceva ogni anno a Parigi.

Enrica                            - Va in paese?

Teresina                         - Mai. Non si vuol mostrare. Anche quando ci passa in automobile per recarsi a Milano sta sprofondato nella macchina.

Giulia                            - Ancora quella sua ostinazione?

Teresina                         - Non ammette che lo vedano così com'è: vegeto e arzillo.

Enrica                            - Strano. Dai cinquanta in su tutti gli uomini ambiscono di apparire ben conservati.

Giulia                            - È l'unico a desiderare l'opposto.

Teresina                         - Sapesse quanto gli giova questo suo metodo! Non comparendo mai in pubblico, nessuno gli immagina quella salute di ferro. A novant'anni gli acciacchi sono come i francobolli sulle lettere. Bè, lui è una lettera senza francobolli. Ma con chi non lo conosce, quando gli fa comodo, finge di averli. Diventa sordo con gli importuni, asmatico con chi non gli garba, e miope quando non vuol leggere cose sgradevoli. E ci tiene a vestire con eleganza. Qui da agricoltore, potrebbe mettersi alla buona. Che! Non c'è verso. Un figurino... Per amordiddio, non gli dicano che abbiamo parlato dei suoi segreti. Mi licenzierebbe di colpo.

Enrica                            - E tu ci resti volentieri al suo servizio?

Teresina                         - Altro che! È un padrone simpatico e la pensa alla bersagliera. Io ho servito parecchi padroni giovani in città. Bè, lui è più giovane di tutti. Quando gli dico: « Stanotte dormo fuori di casa », lui mi risponde: « Brava! Stai sveglia più che puoi!». E mi dà cinquecento lire di regalo. (Altro tono) Vogliono rimanere qui ancora un momento? Io porto su le valige e dò aria alle loro camere.

Giulia                            - Oh brava! Che io mi possa sdraiare un momento. Ho le ossa rotte.

Teresina                         - Ne ha tutto il tempo. (Esce a destra con le valige).

Enrica                            - Io non riuscirò nemmeno a buttarmi sul letto. Sono troppo inquieta. Mi seguito a doman­dare: Che farà Rolando - oh, scusa - il signor Tremonti?

Giulia                            - Ormai, lo puoi chiamare per nome.

Enrica                            - L'hai visto. È un uomo energico. È un leone. Ieri si è dominato. Ma i suoi occhi sprizzavano faville. Quello non è uno che incassa. Reagirà. Ne sono sicura. Ma in che modo? Dio mio, non provo­cherà il papà, a volte! È un ex militare bellicoso che non ricorda mai di essere diventato un pacifico borghese. Ah, povera me. Vivo sospesa a un trapezio.

Giulia                            - Meglio il mio pittore. È docile come un timone.

Enrica                            - È vero. Ha sempre un'aria così spaventata.

Giulia                            - Naturale: è un artista moderno.

Enrica                            - E con ciò?

Giulia                            - Tutti gli artisti moderni sono spaventati di quello che fanno. Ma chi sa, l'amore, l'offesa potrebbero trasformarlo in tigre.

Enrica                            - Ci mancherebbe altro. Non mettiamo insieme un serraglio!

Teresina                         - (entra da destra) Le camere sono pronte. (Esce a sinistra).

Giulia                            - Ah, non ne posso più.

Enrica                            - Speriamo che non piombi in casa durante la nostra assenza!

Giulia                            - Chi?

Enrica                            - Il Tremonti.

Giulia                            - Non gli sarebbe facile farsi ricevere. Andiamo di sopra. Non vorrai che il nonno ci sor­prenda con queste facce.

Enrica                            - Chi sa la mia come è accesa!

Giulia                            - Tutt'altro.

Enrica                            - Sono pallida? Lo vedi che mi sciupo? (Esce a destra seguita da Giulia).

Il Fattore                       - (entra di fondo e va alla porta di sinistra) Ohe, Teresina!

Teresina                         - (entra da sinistra) Oh, buon giorno, signor fattore.

Il Fattore                       - Il padrone è alzato?

Teresina                         - Ci sono guai?

Il Fattore                       - Sempre la questione dei braccianti.

Teresina                         - Starà a minuti.

Il Fattore                       - Aspetterò.

Teresina                         - Sarebbe meglio aspettare una bella ragazza, eh?

Il Fattore                       - Te, per esempio.

Teresina                         - Aspetterebbe un pezzo! (Esce di fondo).

Augusto                        - (dopo un momento entra da destra. È un bel vecchio elegante, vestito di chiaro, coi capelli d'ar­gento, ben pettinati, fiore all'occhiello. Entra cantic­chiando, ritto della persona, con passo incerto ma vigi­lato, reggendosi appena su una canna. Parla lievemente biascicando) « Frou-frou del Tabarin... ». Oh, buondì, fattore. Chiedo scusa del ritardo.

Il Fattore                       - La partitina?

Augusto                        - Eh! Di giorno giuro di non giocare e la sera regolarmente spergiuro. La vita non è altro che un rosario di promesse non mantenute. Tutto bene?

Il Fattore                       - Tutto male.

Augusto                        - Ah sì? Allora mi faccio portare la colazione. A stomaco vuoto non si combina nulla. (S'avvia per suonare il campanello).

Teresina                         - (entra di fondo prima che Augusto suoni) Le porto il tè?

Augusto                        - (al fattore) Sentito? Capisce a volo.

Teresina                         - Ci sono visite.

Augusto                        - (seccato) Non voglio vedere nessuno. (Curioso) Chi sono?

Teresina                         - La signora Enrica e la signorina Giulia.

Augusto                        - Tò! E chi le aspettava? Dove sono?

 Teresina                        - Di sopra. Si ristorano un po' dal viaggio e scendono. (Esce a sinistra).

Augusto                        - (al fattore) Dicevi?

Il Fattore                       - Eh! Siamo ancora in alto mare!

Augusto                        - Come? I braccianti non sono soddi­sfatti?

Il Fattore                       - Ieri pareva di sì, stamane pare di no.

Augusto                        - È logico. L'accordo di oggi è il disac­cordo di domani. Questo è il sindacalismo.

Il Fattore                       - Non sono contenti degli aumenti. Vogliono di più.

Augusto                        - Logico anche questo. Chi non ha vuole avere, e chi ha non vuol mollare. Questa è la questione sociale. (Teresina entra da sinistra col vassoio) E questa è la colazione! Ho un appetito! Oh, fattore, sempre fidato lei, eh? Sempre muto sulla mia salute? (Teresina esce a sinistra).

Il Fattore                       - A chiunque me ne domanda, ri­spondo come m'ha insegnato lei: « Campa, poveraccio. Si difende. Gli anni ci sono. E poi soffre di una inappetenza! ».

Augusto                        - (mentre mangia avidamente i biscotti e beve il tè) Bravissimo. Non è bene che gli altri sappiano. Mi invidierebbero troppo. Non farsi invi­diare è una gran furberia. Eh, arrivare alla mia età, così come sono, vuol proprio dire averle scampate tutte... Pensi un po' quanti pericoli... Malattie, auto­mobili, tegole sulla testa, bombardamenti... E gli uomini? ...E le donne?... Schivato tutto... (Pensieroso) 0 quasi. (Altro tono) E le guerre? Avevo dieci anni al momento della Breccia di Porta Pia; compivo i vent'anni quando Garibaldi, sotto una pioggia di fiori, inaugurava a Milano il monumento ai caduti di Mentana. C'ero anch'io a battere le mani. Ero già anziano alla prima guerra d'Africa; toccavo i cinquantuno alla guerra di Libia; i cinquantaquattro alla prima guerra mondiale; i settantacinque alla seconda guerra d'Africa e gli ottanta alla seconda guerra mondiale. Mai partecipato a una guerra! Non me ne vanto per un riguardo a tutti quelli che, pove­retti, ci hanno lasciato la pelle; ma non me ne lagno. (Mangia un biscotto) Del resto, l'abbiamo visto... a che cosa sono servite! Si crede sempre di risolvere tutto e non si risolve mai nulla. Si disfà tutto quello che è stato fatto e si fa quello che verrà poi disfatto. Anche ora, vede, i braccianti. Dica che mi unifor­merò alle decisioni degli altri agricoltori.

Il Fattore                       - Gli è che... I braccianti sono ragio­nevoli... È il capolega che... È uno nuovo, fegatoso, mai visto da queste parti. Gli dovrebbe parlare lei.

Augusto                        - Dov'è? È lontano?

Il Fattore                       - Nossignore. L'ho visto dianzi in paese. All'osteria.

Augusto                        - Ah! Nel suo ufficio. Vallo a cercare.

Il Fattore                       - Ci vado subito. (Esce dal fondo).

Teresina                         - (entra) Finito, signor padrone?

Augusto                        - Sì, sparecchia. (Teresina accudisce al vassoio) Strana questa visita di mia nuora e di mia nipote.

Teresina                         - Strana non direi. Inaspettata.

Augusto                        - Appunto per questo è strana.

Teresina                         - Nulla di grave.

Augusto                        - Che ne sai, tu?

Teresina                         - Eh, si vede, se una persona è preoc­cupata.

Augusto                        - Ne sei sicura?

Teresina                         - Sempre. Le signore non lo sono. Stanche, sì. La vita di città consuma. Hanno bisogno di riposo. Ma niente fastidi.

Augusto                        - Tanto meglio.

Tekesina                        - (che ha preso il vassoio con le mani e s'avvia) Così non ne avessero i nostri vicini.

Augusto                        - Ah, che è successo?

Teresina                         - I Vitalbi? Lo sa che, ieri sera, la moglie del maggiore, del signor Francesco, è andata a dormire dai suoi?

Augusto                        - Ecco la pettegola!

Teresina                         - Io dico sempre la verità. (E depone il vassoio su un tavolino) Oh, perdiana!

Augusto                        - Sai che non mi piacciono le chiacchiere.

Teresina                         - Lui, il marito, avrebbe scoperto delle lettere...

Augusto                        - (suo malgrado incuriosito) Ah, delle lettere?

Teresina                         - Sissignore. In uno stipo.

Augusto                        - Non era chiuso a chiave?

Teresina                         - Sì, ma lui ha chiamato il fabbro.

Augusto                        - E c'era anche lei?

Teresina                         - Lei chi?

Augusto                        - La moglie.

Teresina                         - Sicuro che c'era.

Augusto                        - (s'incupisce) E allora lui, il marito, che ha fatto?

Teresina                         - Ha gridato come un ossesso. La cameriera è accorsa. L'ho saputo stamattina da lei.

Augusto                        - E poi?

Teresina                         - La signora, ha strappato il pac­chetto di lettere dalle mani del marito...

Augusto                        - E lui?

Teresina                         - Lo vede, signore, che dà di pette­gola a me, ma a lei piace di sapere queste cose?

Augusto                        - Oh, così per celia.

Teresina                         - Per celia o non per celia, tutte le volte che io le racconto una scena di gelosia, lei vuol sapere ogni cosa dall'a alla zeta.

Augusto                        - Mi diverte.

Teresina                         - Non direi, dalla sua espressione.

Augusto                        - (seccato) E invece mi diverte moltissimo. Avanti.

Teresina                         - (riprendendo il suo racconto) Il marito cercò di riacciuffare le carte... ma quella via come il vento, ha infilato la porta e chi s'è visto s'è visto. E adesso sarà un bello scandalo.

Augusto                        - Perché siamo in un paese. Fossimo in città! (Accennando al vassoio) Sparecchia.

Teresina                         - (prende il vassoio e andando verso l'uscita, a sinistra, guarda alla finestra) Vien qualcuno.

Augusto                        - È il capolega. Lasciaci soli. (Teresina esce a sinistra).

Silvio                             - (entra di fondo) Si può?

Augusto                        - (voltandogli le spalle) Oh, avanti il signor capolega.

Silvio                             - Buondì, zio!

Augusto                        - (rivoltandosi) Chi zio?

Silvio                             - Ma tu!

Augusto                        - Lei non è il capolega?

 Silvio                            - Non mi guardare così. Sono il figlio di tuo fratello Giacomo.

Augusto                        - Che?... Tu sei?... (Lo osserva) Si, forse lo richiami, ma poco. Si vede che tu matrizzi.

Silvio                             - Tutto qui? Non ti commuovi a vedermi?

Augusto                        - Non t'ho mai visto.

Silvio                             - Appunto per questo.

Augusto                        - No...Ti devo confessare che non mi commuovi. Anzi, mi irriti... mi risusciti dolori, ran­cori... No, non mi fa piacere di vederti.

Silvio                             - Almeno la sorpresa.

Augusto                        - Questa sì. Se calcolavi sulla sorpresa, ci sei riuscito. Come mai?

Silvio                             - Come mai che?

Augusto                        - Sì, dico, come mai qui. Non eravate tutti laggiù?

Silvio                             - Sì, e i miei ci sono rimasti per sempre.

Augusto                        - Neanche questo m'avete fatto sapere. Le notizie le ho avute da estranei.

Silvio                             - Quand'è morta mia madre, non l'ha voluto mio padre: quando è morto lui, non ci ho pensato io. Ora mi sono ricordato di te.

Augusto                        - Ti potevi risparmiare lo sforzo. Non sarai venuto in Italia per questo.

Silvio                             - Alla lunga potrebbe anche essere. Son venuto perché nato all'estero voglio morire in Italia. Era un desiderio di mia madre. La voglio acconten­tare, povera donna.

Augusto                        - Non è una cattiva idea.

Silvio                             - Ma c'è una difficoltà.

Augusto                        - A morire qui?

Silvio                             - No, a viverci. Io sono qui perché tu mi aiuti a viverci.

Augusto                        - In nome di che?

Silvio                             - Non sono tuo nipote?

Augusto                        - Tuo padre mi è stato così poco fra­tello che tu non mi puoi essere neanche un principio di nipote.

Silvio                             - Mi ripudi?

Augusto                        - Oh che verbo solenne. Mi sei indiffe­rente, ecco tutto.

Silvio                             - Si vede che le leggi di natura sono state abolite.

Augusto                        - Ci sono, ci sono sempre. La natura è l'unico regime che non si può cambiare. Ma le sue leggi non possono creare gli affetti quando non ci sono o riaccendere quelli spenti.

Silvio                             - Quand'è così mi posso anche ritirare.

Augusto                        - Io non ti trattengo.

Silvio                             - Perdinci! Credevo che tu fossi migliore di tuo figlio.

Augusto                        - Ah, sei già stato da Federico?

Silvio                             - Sì, ma ho sbagliato. Mi ha accolto male.

Augusto                        - Non ti conosceva neanche lui.

Silvio                             - Ma più mi son fatto conoscere e peggio è stato.

Augusto                        - Gli sei indifferente, più che a me. Colpa di tuo padre... Tuo padre ti parlava di me?

Silvio                             - Mai.

Augusto                        - Naturalmente.

Silvio                             - Mia madre sì.

Augusto                        - Spesso?

Silvio                             - Piuttosto.

Augusto                        - Ne avrà detto peste.

Silvio                             - In verità, sì.

Augusto                        - Egoisti.

Silvio                             - Chi? Loro o tu?

Augusto                        - Io? Che c'entro io? Non li ho mandati io in Argentina. Ci sono andati di spontanea volontà.

Silvio                             - Diciamo meglio: per le circostanze. E le hai create tu.

Augusto                        - Tu sei al corrente?

Silvio                             - Di tutto.

Augusto                        - E sei venuto da me a chiedere quattrini.

Silvio                             - Come fai a saperlo?

Augusto                        - (indicando il suo aspetto) Lo vedo.

Silvio                             - Ebbene sì.

Augusto                        - Mio figlio te li ha rifiutati...

Silvio                             - Le azzecchi tutte.

Augusto                        - Eh, se sei qui!...

Silvio                             - Tu sei più umano di tuo figlio.

Augusto                        - Secondo con chi.

Silvio                             - Ma con me sì. Con me... ti conviene.

Augusto                        - Altrimenti tu racconti la mia storia. È così?

Silvio                             - Sei un portento d'intuizione.

Augusto                        - Sei tu che hai tutto stampato sul volto.

Silvio                             - Un po' di biglietti di banca e me ne vado zitto zitto come sono arrivato.

Augusto                        - Molti?

Silvio                             - Quelli che ho chiesti a Federico: mezzo milione.

Augusto                        - Un'inezia.

Silvio                             - Mi salvi.

Augusto                        - Ma tuo padre non aveva guadagnato?

Silvio                             - Ti supplico.

Augusto                        - E tu hai speso. Certo sperperato. Ci penserò.

Silvio                             - Ma io non posso aspettare. Ieri, dopo il rifiuto di Federico, ho firmato un assegno a vuoto e l'ho dato all'albergatore del Palace. Aveva minac­ciato di denunciarmi. Me e la mia amica. Un mese senza pagare. Per rimediare almeno a questo tu mi dai centocinquantamila lire.

Augusto                        - Fossi matto. Mai buttato i quattrini dalla finestra.

Silvio                             - Te ne pentirai.

Augusto                        - Minacci adesso?

Silvio                             - Mi difendo. Non ho altra arma che la parola. La adopero.

Augusto                        - Tu, mosca! Altrimenti avviso subito il Palace dell'assegno. Anzi telefono subito a mio figlio per avvertirlo. (Stacca il ricevitore).

Silvio                             - No, non lo fare.

Augusto                        - Ti mando in galera.

Silvio                             - Per poco non ci sei stato anche tu!

Augusto                        - Ma tu ci vai di sicuro.

Silvio                             - Tacerò. E tu non mi denunciare.

Augusto                        - Sta bene. (È depone il ricevitore) Ma guai a te se m'inganni. Va!

Silvio                             - Dammi almeno qualche foglio da mille.

Augusto                        - (leva dal portafogli qualche biglietto da mille) To', l'elemosina si fa anche agli sconosciuti.

Silvio                             - (prendendoli) Ma io sono del tuo sangue.

 Augusto                       - Mai fatto vivo. Mai! Nemmeno una cartolina illustrata. Allevato nell'odio contro di me.

Silvio                             - Sei stato tu a rovinarci la vita.

Augusto                        - Io? Tuo padre piuttosto, mi ha pian­tato in asso senza nessuna solidarietà fraterna. In un momento tremendo non ha pensato che a se, alla sua carriera! La politica! Bella carriera! Fatta di veleno. Non ha visto che la politica. Non ha visto me, sbandato, disperato... travolto da una inesplica­bile sciagura... Tutto s'incendiava e m'ha lasciato qui solo a bruciare, solo, nelle fiamme... Non ha pensato che a mettere fra me e lui acqua, tanta acqua... tanta acqua!... E tu vieni da me a... Ma perché sei venuto? Mi sommuovi tutto dentro... Mi fai risuonare nelle orecchie le infauste parole di tuo padre... Lo sai che mi disse, lo sai? Questo mi disse: « Io me ne vado. Tu arrangiati. Hai rovinato tutto ». Come se io l'avessi fatto di proposito, come se io... Ma va! Va! E non mi salutare: non mi far sentire la tua voce. Assomiglia alla sua, alla sua...

Silvio                             - Ascoltami...

Augusto                        - Non la posso sentire! Non la posso sentire!

Silvio                             - Maledetto vecchio! (Esce di fondo).

Augusto                        - Maledetto tu che mi hai svegliato il mio inferno! (Scrolla la testa. Teresina entra da sinistra tenendo in una mano dietro la schiena un bicchier d'acqua) Un bicchier d'acqua!

Teresina                         - Eccolo. (Glielo dà).

Augusto                        - (beve, poi la guarda e sorride) Sei straordinaria!

Teresina                         - (riprendendo il bicchiere) L'ho sentito, alzare la voce. Ormai la conosco bene... (Esce).

Il Fattore                       - (entra di fondo) Il capolega viene, domani. Ora non poteva.

Augusto                        - Aveva un comizio?

Il Fattore                       - No. Credo, ma resti fra di noi, sa, sono voci che circolano, ma non voglio avere dispiaceri. Aveva un appuntamento...

Augusto                        - (si rasserena del tutto e ride) Ah, ah, ah! Mi metti di buon umore. È giovane?

Il Fattore                       - Direi sui venticinque.

Augusto                        - E con chi?

Il Fattore                       - Con la figlia dei Borleni. Ma, mi raccomando...

Augusto                        - Bionda o nera?

Il Fattore                       - Una volta era nera. Ora è bionda.

Augusto                        - Ah, tipo diva del cinema.

Il Fattore                       - Press'a poco. Conquista fulminea. Lui è qui da due giorni. Pare che in due giorni sia andato molto innanzi.

Augusto                        - Naturalmente. È un progressista! Ah, come mi rallegra quest'avventura. Speriamo che la ragazza non me lo faccia arrabbiare.

Il Fattore                       - Domani glielo accompagno.

Augusto                        - Grazie. (Fuma più serenamente. Il fattore esce di fondo).

Enrica                            - (da destra) Oh, papà Augusto!

Giulia                            - (da destra) Nonno!

Augusto                        - (sorridente) Oh, care figliuole. Qui, qui, che vi abbracci. (Eseguisce) Bene arrivate. Qua] buon vento vi ha condotte? Federico sta bene?

Giulia                            - Desideravamo vederti.

Enrica                            - E passare qualche giorno con te.

Augusto                        - Non vi annoierete qui? Senza pastic­cerie, senza «coktails», senza teatri? C'è però un cine­matografo, piccolo, ma c'è. Ormai in tutti i paesi c'è il municipio, la chiesa, il cimitero e il cinematografo.

Enrica                            - No no. Ogni tanto il silenzio è una medicina.

Giulia                            - A me giova. Fra sei giorni ho un proces­sone.

Augusto                        - Ah già: maestra in giurisprudenza.

Enrica                            - Batte gli avvocati maschi.

Augusto                        - Non ne dubito. Ma non dev'essere piacevole frequentare i tribunali. Brutti luoghi dove ci si fanno brutte cose.

Giulia                            - Mi appassiona tanto difendere gli imputati.

Augusto                        - Ah sì? E se sono colpevoli?

Giulia                            - Ancora di più.

Augusto                        - Ma come fai a difenderli se sai che non se lo meritano?

Giulia                            - Se lo meritano sempre. Quando uno commette un reato, nel momento in cui lo commette non sa quello che fa.

Augusto                        - Ma, ragionando così, li assolvi tutti.

Giulia                            - (lievemente declamatoria) È giusto condannare? Chi può sapere per quali vie, per quali atavismi, per quali aberrazioni psichiche uno compie un misfatto?

Enrica                            - La senti? Non è un campione?

Augusto                        - Ragiona bene la piccina, o scusa, l'avvocatessa! Hai detto una cosa sacrosanta... (Pen­sieroso) 0 quasi. (Pausa) A parte i codici, niente di nuovo?

Enrica                            - Di che?

Augusto                        - Nessun fidanzato alle viste?

Giulia                            - Non mi voglio sposare.

Augusto                        - (risentito) Eh, eh! Qui sbagli! Una ragazza deve desiderare il matrimonio, la famiglia, i figlioli. Almeno al tempo mio era così. Ora è diverso. Perciò non ti rimprovero. (Ironico) Anzi ti do' ra­gione di non volerti sposare. Se ti capiterà deve essere contro la tua volontà. I matrimoni migliori sono quelli in cui la volontà è assente. Ci si casca dentro come in una botola. E buona notte! (A Enrica, accennando a Giulia) E neanche un amoretto?

Enrica                            - Domandalo a lei.

Giulia                            - Uno ogni tanto. Mi piace cambiare.

Augusto                        - Ah no, questo no. Troppa autonomia. Che diamine! Le esperienze le facciano gli uomini. È così bello che le ragazze abbiano tutte le sorprese. Ah, la poesia delle sposine che arrivano ignare alle nozze! (Ironico) Ma siccome ormai ciò non accade quasi più, fai benissimo a metterti in regola.

Enrica                            - Sei l'uomo più giovane che esista.

Augusto                        - Sì, cara, non potendo più avere la gioventù degli anni, ho quella delle idee e dei senti­menti. Io non ho, come tanti altri, paura di una rivoluzione sociale. Sai perché? Perché la rivolu­zione c'è già: nei costumi, nei modi di sentire, di vivere, di amare. Ed io li approvo. Data la mia età dovrei dire di no, che non va, dovrei dire, che so? che bisogna disprezzare chi ammassa danaro, chi fallisce in commercio, chi inganna in amore e nella amicizia; invece, no, faccio tanto di cappello a tutti, persino a chi calpesta ogni affetto... E sai perché? Perché ciascuno di costoro non se ne accorge nemmeno più d'essere spregevole. Amorali senza saperlo.

Giulia                            - Sei di una attualità sorprendente.

Enrica                            - E magari anche tu non ti meravigli più di niente.

Augusto                        - Difatti. Anche se mi venissero a dire - che so? che tu Enrica hai un amante e che tu Giulia ne hai un altro non mi stupirei. Quasi mi stupirei del contrario.

Enrica                            - Che diavolo dici?

Giulia                            - Ma nonno!

Augusto                        - Non è vero? Pazienza. Due belle donnette come voi...

Enrica                            - Ma non pensi a Federico?

Giulia                            - E che io sono nubile?

Augusto                        - Bè, Federico ha il suo da fare. Quanto a te, Giulia, l'esser nubile vuol dire esser libera.

Enrica                            - Sono cose enormi.

Augusto                        - A dirle. Ma a farle!... Insomma se fosse vero, io non mi scandalizzerei.

Enrica                            - E ci proteggeresti?

Augusto                        - Molto volentieri. Ma siccome non è il caso... Vado nel mio studio a fare un po' di conti. Oh, una mezz'oretta e poi sono tutto per voi. (Si avvia a destra).

Enrica                            - Papà Augusto...

Augusto                        - Che c'è?

Giulia                            - Nulla.

Augusto                        - Come? Se tua madre mi chiama, se mi rispondi tu e non lei... vuol dire che qualcosa c'è.

Enrica                            - Ebbene, avrei da parlarti.

Augusto                        - Oh, così va bene.

Giulia'                           - E anch'io.

Augusto                        - Insieme o separate?

Enrica                            - Insieme.

Giulia                            - Separate.

Augusto                        - Mettetevi prima d'accordo!

Enrica                            - Sì, ha ragione Giulia: separate.

Augusto                        - Chi la prima?

Enrica                            - Giulia. È meglio che cominci lei. Per me è più difficile.

Augusto                        - E allora Giulia se ne va e comincia Enrica. Sempre meglio affrontare subito le cose più difficili.

Giulia                            - Poi mi chiami. (Esce a destra).

Augusto                        - Dunque?

Enrica                            - Siamo qui perché è avvenuto un fatto grave.

Augusto                        - Sentiamo il fatto grave.

Enrica                            - Veramente sono due fatti gravi.

Augusto                        - Ohilà, troppa grazia.

Enrica                            - Papà Augusto, io non ero felice. Tuo figlio è un uomo di grande talento, ma...

Augusto                        - Ho capito tutto: hai un amante. (Enrica china il capo. Augusto scatta) Ah! Che proprio tu!... Non mi piace. È vergognoso. (Più calmo) Vediamo. Perché l'hai fatto?

Enrica                            - Papà Augusto...

Augusto                        - Sì, comprendo. Ma l'hai fatto per dispetto a Federico?

Enrica                            - No, questo no. Anzi! Io stimo e venero Federico. Lo pongo molto in alto...

Augusto                        - Così in alto che rinunci ad arrivarci.

Enrica                            - Ecco.

Augusto                        - (ironico) Quasi quasi si può dire che l'hai fatto per lui.

Enrica                            - Questo è troppo.

Augusto                        - Voglio dire, per non importunarlo, per lasciarlo ai suoi studi. Eh? Diciamo addirittura che l'hai fatto per il suo bene. In questo caso non ho nulla da lamentare.

Enrica                            - Ma io ho tradito.

Augusto                        - Tutti tradiamo qualche cosa o qual­cuno. Cominciamo col tradire noi stessi, facendo quello che non amiamo di fare. Tutti ci lagnamo del nostro mestiere, o arte o professione, tutti avremmo preferito esercitarne un'altra. Io, ad esempio, avrei voluto fare l'attore. Credo che ci sarei riuscito. Ma le circostanze, le condizioni di famiglia, la povertà o la ricchezza, ci sospingono da una parte invece che dall'altra. E io non tradisco la mia generazione? Io dovrei biasimare le nuove architetture insulse, glabre e tristi come penitenziari, le coppie che spu­doratamente si baciano per le strade, i giovani che non rispettano i vecchi, i quadri che capovolti sono più belli che diritti, la musica che spacca le orecchie, il cinema che guasta la vista, la follia che prima era di guerra e ora è di pace: invece tutte queste cose le accetto e, se non mi piacciono, me le faccio piacere. Tu, ad esempio, alla luce del neon, non sei più una moglie infedele, sei una moglie che sa vivere.

Enrica                            - Ma...

Augusto                        - C'è dell'altro?

Enrica                            - Federico sa.

Augusto                        - Meglio.

Enrica                            - Come meglio?

Augusto                        - Non hai la preoccupazione che glielo vadano a dire.

Enrica                            - L'ha detto egli stesso a me e a lui.

Augusto                        - Presenti entrambi?

Enrica                            - Precisamente.

Augusto                        - Una scenata?

Enrica                            - Macché. Un colloquio... a cinque.

Augusto                        - Ohilà! Ne hai tre?

Enrica                            - C'erano Giulia col suo.

Augusto                        - Anche Giulia? Ah, veramente impa­gabili! Chi sa gli improperi di Federico!

Enrica                            - Tutt'altro. Ci ha detto soltanto, a tutt'e quattro, che lui sapeva. Bè: non gliene è importato nulla.

Augusto                        - Naturalmente. Ti tradisce anche lui.

Enrica                            - M'inganna? Dimmi con chi.

Augusto                        - La scienza, è una rivale pericolosa.

Enrica                            - Tu scherzi!

Augusto                        - Ci sono cose che a vent'anni fanno un effetto, a cinquanta un altro, e a novanta non ne fanno più.

Enrica                            - Quali cose?

Augusto                        - Tutte.

Enrica                            - Ma non ti ho detto il peggio. Io e Giulia abbiamo desiderato di rifugiarci qui, da te, per con­sigliarci... Temiamo che quei due... facciano qualche gesto odioso... per ripicco, per dignità...

Augusto                        - Ma no, che non faranno nulla. Hanno protestato ieri?

Enrica                            - No, erano tutt'e due sorpresi, sbalor­diti. La novità della situazione li aveva intontiti.

Augusto                        - Bè, non faranno niente domani o domani l'altro. (Va a destra e chiama) Giulia!

Giulia                            - (entra da destra).

Augusto                        - I miei complimenti. Alla buon'ora! Tu non sei di quelle ragazze che hanno paura dell'amore. Tu lo affronti a viso aperto. Già che c'è questo amore, vediamolo più da vicino. È almeno un bel giovanotto?

Giulia                            - A me pare di sì.

Augusto                        - Se non lo è ritiro i complimenti.

Giulia                            - È un artista. È pittore.

Augusto                        - Spero sia di quelli che non sanno né dipingere né disegnare.

Giulia                            - È di quelli.

Augusto                        - Mi rallegro ancora di più.

Enrica                            - È un po' timido.

Augusto                        - La timidezza è dei veri artisti. Ad ogni modo, (alludendo a Giulia) contenta lei, contenti tutti. Ho visto, a volte, donne innamorarsi di certi tipi... Sono cose inspiegabili.

Giulia                            - Qui non c'è niente da spiegare. Ci amiamo con l'animo sereno.

Augusto                        - Sarebbe a dire?

Giulia                            - Con la certezza che ne io gli parlerò mai di matrimonio, né lui chiederà mai di sposarmi.

Augusto                        - Amore senza vincoli.

Giulia                            - No: avventura senza pensieri.

Augusto                        - Speriamo che non sia senza scrupoli. (A Enrica) E tu, non sei capace di farla rigare diritto!

Enrica                            - Ormai ho perduto ogni autorità. Molte madri l'hanno perduta.

Augusto                        - Si vede che non ne sono più degne.

Enrica                            - L'educazione dei figli è difficile.

Augusto                        - Lo è assai più quella dei genitori. Ma insufficiente l'una, bislacca l'altra, c'è compen­sazione. Le madri hanno i figli che si meritano e viceversa.

Giulia                            - Ma sei tu che ci vedi insufficienti e bislacchi. Noi ci vediamo normalissimi.

Augusto                        - Sì, ma non recrimino affatto. Da mezzo secolo vi si sta manipolando il figurino di modello: voi lo indossate e non ve ne rendete conto. Io me n'accorgo, lo guardo con simpatia e cerco di adattare ad esso anche i miei vestiti. E non mi ci trovo male.

Enrica                            - Bravo nonno che ci capisci.

Augusto                        - E che vi imito per quel che posso.

Teresina                         - (entra da sinistra).

Augusto                        - Che c'è?

Teresina                         - Il Malerbi vorrebbe parlare con la signorina. È in lite col Borisi. Credo voglia un con­siglio.

Augusto                        - (a Giulia) Che ne dice l'avvocatessa?

Giulia                            - Veramente non ne ho molta voglia.

Teresina                         - (a Giulia) Se permette... sa, qui ci tengono a sentire la signorina... Il Malerbi non si può muovere, per certi suoi dolori alle gambe... Per questo vorrebbe che la signorina...

Augusto                        - Accontentalo.

Giulia                            - (a Teresina) Dov'è?

Teresina                         - La conduco io. (S'avvia di fondo).

Enrica                            - (a Giulia) Pai presto.

Giulia                            - (sulla soglia) Nonno, sei un amore! (Esce di fondo).

Augusto                        - (all'indirizzo di Giulia con affetto) Canaglia! Ma simpatica.

Enrica                            - Che devo fare?

Augusto                        - Di che?

Enrica                            - Di lui.

Augusto                        - Di Federico?

Enrica                            - No, dell'altro. Quando l'ho veduto ieri alla presenza di Federico...

Augusto                        - Ti sei domandata: come mai io?

Enrica                            - Precisamente.

Augusto                        - E allora, tanti saluti. Non c'è altro.

Enrica                            - E se mi fa qualche scenata?

Augusto                        - È celibe?

Enrica                            - No. Ha moglie e figli.

Augusto                        - E allora scenate non ne fa.

Enrica                            - Fossi certa!

Augusto                        - Segui il tuo sentimento, il tuo im­pulso. Che cosa ti suggerisce il tuo sentimento?

Enrica                            - Di liberarmi di lui.

Augusto                        - Per prenderne un altro?

Enrica                            - Oh no! Mi basta questa esperienza.

Augusto                        - Era la prima?

Enrica                            - Sì.

Augusto                        - Lo puoi giurare!

Enrica                            - Sulla testa di...

Augusto                        - Basta! Abbi pietà del designato.

Enrica                            - Ma io, a Federico, gli voglio bene.

Augusto                        - (siede) E tu credi che se non ne fossi sicuro, ti starei ad ascoltare? E ti darei dei con­sigli? Il migliore di tutti è quello che ti ho detto dianzi: segui il tuo impulso. Io l'ho sempre seguito e me ne sono trovato sempre bene.

Enrica                            - Proprio sempre?

Augusto                        - Perché questo « sempre »?

Enrica                            - Una curiosità.

Augusto                        - Ma con una intenzione.

Enrica                            - No no. Ho domandato, tanto per discorrere.

Augusto                        - Dicevo che ogni volta che mi son trovato a decidere, non ci ho mai pensato due volte. E non me ne sono mai rammaricato.

Enrica                            - Mai? Proprio mai?

Augusto                        - Da capo? Perché questo «mai»?

Enrica                            - Scusami se ti faccio domande sciocche.

Augusto                        - Non imbrogliare, cara. Prima hai chiesto « sempre », e adesso «mai » con la stessa incredulità. Ti assicuro che io ho agito senza riflettere in ogni occasione bella o brutta, specialmente brutta. E ho fatto bene. (Pensieroso) O quasi.

Enrica                            - Vedi? Aggiungi un « quasi ».

Augusto                        - Una volta sola avrei fatto meglio a riflettere. Può darsi... Ma lasciamo andare...

Enrica                            - Se ti inquieti... non ne parliamo.

Augusto                        - Perché mi dovrei inquietare?

Enrica                            - Tubai detto... lasciamo andare... credevo...

Augusto                        - Guardami bene, figliuola. Non am­metto, capiscimi bene, non ammetto che tu appro­fitti della tua familiarità. Nuora sì, vivace sì, libera di fare quel che ti pare, sì: ma non varchiamo il limite fra quello che sono io e quello che sei tu. Confidenza fra noi, giustissimo; che tu mi metta a parte dei tuoi amori, passi, tu sei giovane e io sono vecchio, ma che tu voglia sondare i miei d'un tempo... eh, piccina, questo è troppo.

Enrica                            - I tuoi amori?... Ma chi ci pensa ai tuoi amori?

Augusto                        - (con dolore) Io ci penso. Ci ho sem­pre pensato. Anche ora che si erano assopiti me li hanno ridestati. E tu vorresti sapere. Tu sai. Quel disgraziato che è venuto da me è stato prima da Fe­derico. Non l'hai incontrato a casa tua, un parente?

Enrica                            - Ieri, sì.

Augusto                        - Vuoi che quel tristo non gli abbia detto nulla? È un'arma di cui dispone. Non l'hai visto il tipo? Un uomo in quello stato è capace di tutto. Anche di deformare la verità, di calunniare...

Enrica                            - (con calore) Ah, non è vero!

Augusto                        - Lo vedi? Sai tutto. Da lui?

Enrica                            - Da Federico.

Augusto                        - E vorresti che io...

Enrica                            - Federico non ha osato...

Augusto                        - Non ha osato? Doveva gridar subito a quel disgraziato: non è vero! Non può esser vero! Doveva sentir così, da figlio. Qualunque cosa gli avessero detto di me, non doveva dubitare un mo­mento. Questo fa un figlio. Invece ha mandato te... ora capisco la tua improvvisata... Sì, anche per altro... Ma che cos'è tutto il resto, al confronto di questa mia "angoscia? Cinquant'anni che mi stringe il fiato. L'ho combattuta in tutti i modi. Anche con la maschera della giovialità...! Io e lei, giovani, con un bimbo...

Enrica                            - (in un soffio) Federico...

Augusto                        - Io l'adoravo la mia donna. Quella sera... venerdì grasso... Veglione della Scala... Lei era una meraviglia... Abito di raso bianco... Una collana... uno smeraldo... il colore dei suoi occhi... Folla, alle­gria... A un certo punto la perdo di vista. La cerco, dappertutto... ad un tratto, là, in un corridoio dei palchi... Un uomo mascherato la baciava... Mi pre­cipito... gliela strappo... L'altro grida: «Una signora, al veglione, deve essere disposta a tutto! ». Io lo schiaffeggio. Ci dividono. Afferro lei per un braccio, la trascino fuori, la getto in una carrozza... A casa...

Enrica                            - (in un soffio) A casa...

Augusto                        - Lei corre in camera da letto, infuriata, urla di rabbia, offesa... Era una creatura nervosa... altre volte per nulla aveva avuto crisi penose... Quella notte strepitava, mi gridava: «Pazzo! Bruto!»... Io ancora accecato dalla gelosia, le ribatto... Non so quello che ho detto, che ci siamo detti... Nemici. L'ira ci fa selvaggi... Lei smania e, di scatto, apre un tiretto, ne toglie la rivoltella, se la punta alla tempia... Io, d'un balzo, allungo la mano... ghermisco la sua per strapparle l'arma... Un colpo... Lei cade riversa... e io, in ginocchio, a urlare come un bam­bino, a piangere come un bambino... a chiamarla... disperato... a chiamarla... La rivedo distesa, col capo presso il piede della poltrona e un rivolo di sangue che cola sul tappeto... rosso, sottile... sottile...

Enrica                            - (in un soffio) Morta?

Augusto                        - Ho gridato? Ho chiamato, chi sa? Sono accorsi... venne gente... l'hanno portata via... E da quel momento per anni e anni, a ricostruire attimo per attimo quel minuto terribile... E la domanda angosciosa: è stata lei a... o la mia mano a provo­care il...? Non sono mai riuscito, non riesco a rispon­dere... (Pausa) Poi gli anni, tanti anni... troppi anni... Ma ancora adesso... mi sveglio di soprassalto e rico­mincio a sgranare attimo per attimo i secondi di quel momento... ricostruisco la scena, i movimenti, ad,uno ad uno, risento le parole... i gridi... la rabbia di prima... i lamenti di dopo... Ma ancora il buio, sempre il buio... e la domanda terribile: « Si è uccisa o l'ho uccisa? ». (Pausa) Dopo, tutti i miei sforzi furono perché Federico non sapesse... L'ho man­dato all'estero a studiare... ce l'ho lasciato a lungo... ci sono riuscito.

Enrica                            - Tutto questo per un incidente così da poco?

Augusto                        - Eh, allora, era da molto!... Onore, onestà, cose grosse... Beati voi che dell'onestà e del resto... (Un gesto per dire che non contano) Beati voi!... Oh, ma anch'io ho camminato... anch'io mi affianco ai giovani, per cambiar tutto, per allontanarmi sempre più da quell'ora tremenda, perché la vita che si rinnova intorno, bella, brutta, migliore, peggiore, comunque sia, mi faccia dimenticare quella in cui io ho vissuto i miei minuti più spaventosi... Sì, ho avuto il processo... assolto... ma mi posso assolvere io? (Con scatto vibrato) Ma lui, Federico, non doveva dubitare di me, non ti doveva mandare a... Questa non gliela perdono!

Teresina                         - (entrando) Signore, è arrivato suo figlio, il professore.

Augusto                        - (con veemenza, balzando in piedi e muo­vendo con le braccia alzate verso la porta di fondo) Non lo voglio vedere, non lo voglio vedere. Via via via!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(La stessa scena del primo atto. La sera dopo).

Enrica                            - (in abito da sera, chiama a sinistra) Giulia!

Giulia                            - (entra da sinistra, in abito da giorno) Già vestita?

Enrica                            - Eh, gli ordini di papà sono precisi. Stamane quando mi ha telefonato là, mi ha detto che tornassimo subito perché doveva accompagnare all'Opera un suo illustre collega straniero di pas­saggio e voleva che ci fossimo anche noi. Un palco senza signore è un vaso senza fiori.

Giulia                            - Non me l'avevi detto.

Enrica                            - Scusami. Ma sono così frastornata. Queste corse, su e giù... Per fortuna abbiamo già cenato.

Giulia                            - Mi vado a cambiare.

Enrica                            - Un po' di musica mi farebbe bene. In questi giorni ho i nervi bombardati.

Giulia                            - Temi che non si esca?

Enrica                            - Non sarebbe la prima volta che ci fa preparare e poi, all'ultimo momento, tutto all'aria. , Anzi mi voglio assicurare. (Suona) Su, presto, sono le otto e mezza.

Giulia                            - Speriamo che non ci siano contrattempi. (Esce a sinistra).

Caterina                        - (entra da destra) Comandi, signora!

Enrica                            - Va un po' a vedere se il signore è pronto.

Caterina                        - Subito, signora. (Esce di fondo).

Federico                        - (entra da destra) Buona sera.

Enrica                            - Vieni di fuori?

Federico                        - Ho pranzato col Ferretti, il diret­tore della banca. Mi aveva mandato a chiamare per un assegno... e mi tratteneva in chiacchiere... Ed io non ne potevo più di sentire da te... Mio padre non mi ha voluto ricevere. Ti avevo raggiunta proprio per parlargli io. Teresina mi ha detto: « Il signore non la vuole vedere ». « Non è possibile », ho risposto. Ma quella ha insistito ed io, seccato, ho voltato la macchina e sono filato via. Giulia ha saputo?

Enrica                            - No.

Federico                        - Non ti dico che volata dal dispetto. Mi sfogavo sull'acceleratore. Poi ti ho telefonato di tornare in città con la scusa del collega straniero.

Enrica                            - Non è vero?

Federico                        - No. Ti ho offerto un pretesto per poter venir via subito. M'hai detto che papà ti ha parlato. Smanio di sapere.

Caterina                        - (entra dal fondo) Non c'è. (Lo vede) Ah, scusi. (Esce a destra).

Enrica                            - Allora non si va all'Opera?

Federico                        - Altro in mente che l'Opera.

Enrica                            - E io che ci contavo, e mi son vestita... Ne valeva la pena per dirli quello che ti devo dire...

Federico                        - È stato penoso farlo parlare?

Enrica                            - No. Come spesso avviene quando si teme una difficoltà insormontabile, si trova il con­trario. Ha parlato quasi col bisogno di liberare l'animo.

Federico                        - Ed è vero?

Enrica                            - Sì e no.

Federico                        - Come sì e no?

Enrica                            - Ti racconterò. Ma non qui. Adesso torna Giulia e tu mi hai raccomandato al telefono di non farle sapere nulla.

Federico                        - Ah sì! Che almeno lei ignori questo passato.

Enrica                            - A proposito, la devo avvertire che si resta in casa. (Chiama a sinistra) Giulia!

Giulia                            - (compare in vestaglia) Che c'è? Buona sera, papà.

Federico                        - Addio, cara.

Enrica                            - Non si esce più.

Federico                        - Cambiato idea.

Giulia                            - : Ho fatto bene io a non vestirmi.

Federico                        - È stato un equivoco. Al telefono tua madre non ha capito o io non mi sono spiegato bene. Non era per stasera ma per domani sera.

Giulia                            - Per me fa lo stesso. Io sono ai tuoi ordini. Oh, di te ho più soggezione di prima.

Federico                        - Oh guarda! Ma per fartela coi gio­vanotti non ne hai.

Giulia                            - La soggezione dell'imputata dinanzi al giudice. Un padre è sempre un po' il presidente del tribunale della famiglia.

Federico                        - Adesso esageri. Io non ti considero colpevole, dunque!

Giulia                            - Saresti un giudice rivoluzionario.

Federico                        - Tutt'altro. Applico un codice diverso da quello che ci hanno tramandato.

Giulia                            - E dici poco? Ma... ho interrotto una conversazione? Io mi ritiro. Quando mi vorrete, mi chiamerete. (Esce a destra).

Federico                        - Dunque è vero?

Enrica                            - Disgraziatamente.

Federico                        - Mia madre?...

Enrica                            - Proprio così.

Federico                        - Ma da chi?

Enrica                            - Mistero.

Federico                        - E non hanno cercato, non hanno...

Enrica                            - È un mistero che rimarrà mistero.

Federico                        - Non mi raccapezzo. Non mi...

Enrica                            - Lei ha minacciato di suicidarsi...

Federico                        - Ma perché?

Enrica                            - Ti dirò,

Federico                        - E lui?

Silvio                             - (irrompe) Cos'è questa storia di non lasciarmi passare? (Caterina lo segue) Per poco non mi leva un occhio quella stupida.

Federico                        - (irritato d'essere stato interrotto) Avevo messo io il veto.

Silvio                             - E io son passato lo stesso.

Federico                        - (a Caterina) Vai pure. (A Silvio) Sei capace di tutto.

Silvio                             - Può darsi.

Federico                        - Hai falsificato la mia firma.

Silvio                             - Per forza. Tu non mi avresti firmato un assegno. L'ho firmato, io.

Federico                        - Col mio nome.

Silvio                             - E cognome.

Federico                        - E l'hai presentato proprio alla banca di cui io mi servo. La mia firma è troppo conosciuta. Torno adesso di là. Sei un falsario in erba.

Silvio                             - Crescerò.

Federico                        - Ma prima che tu diventi pianta ricorro alla polizia.

Silvio                             - E io mi farò difendere da tua figlia. Fa l'avvocatessa, no?

Federico                        - (a Enrica) Scusa, lasciaci soli. (Enrica esce a destra) Tu, mia figlia, non la nominare.

Silvio                             - To'. Io le volevo parlare. Per un con­siglio, per un consiglio legale.

Federico                        - Tu non la vedi. Non voglio, inten­dimi bene, non voglio che lei sappia di mio padre...

Silvio                             - Ah, ti sei persuaso? Te l'ha confessato lui?...

Federico                        - Non ti riguarda. Ma Giulia non deve saper nulla. Ella adora mio padre, venera la memoria di mia madre... Niente; non le si deve profanare niente. Nel marciume che c'è intorno non ci sono che gli altari di ieri!

Silvio                             - Belli altari davvero!

Federico                        - Sì, non tutti modelli neanche allora... ma chi non era galantuomo, veniva segnato a dito, evitato... spregiato... Eccezioni! E chi ci si trovava o arrossiva, o si ritirava come ha fatto mio padre, o partiva come ha fatto il tuo. Ma questo non conta. Piuttosto lascia in pace Giulia.

Silvio                             - E sia, ma ad una condizione.

Federico                        - Non accetto condizioni.

Silvio                             - Io te la espongo lo stesso. Io non ho nulla, non possiedo nulla, non posso vendere nulla. Vendo il mio silenzio. Al punto in cui sono, è l'unica mia risorsa. Quanto me lo paghi?

Federico                        - Nemmeno un centesimo.

Silvio                             - (alza la voce) E allora griderò che mi sentiranno tutti.

Federico                        - Non gridare, che le donne sono di là. .

Silvio                             - Che mi sentano pure! E poi, quelle, non si spaventano più di nulla.

Federico                        - (lo prende per un braccio con violenza) Vieni nel mio studio. Muoviti. (Lo sospinge ed esce con lui di fondo).

Giulia                            - (entra da destra, è sempre in vestaglia) Ti dico che litigavano. Dove sono ora?

Enrica                            - (entra con lei sempre in abito da sera) Saranno di là, da papà.

Giulia                            - Ma chi è questo tale?

Enrica                            - Un brutto individuo.

Giulia                            - Ma come può farsi ricevere?

Enrica                            - È un parente e un prepotente. Usa la prepotenza.

Giulia                            - Ci vado io.

Enrica                            - Non è il caso. E poi in vestaglia? Met­titi un abito almeno.

Giulia                            - Bene. Mi vesto poi li raggiungo. Non vorrai che abbia paura di un seccatore. (Esce a sinistra).

Caterina                        - (entra da sinistra) C'è il comandante Tremoliti.

Enrica                            - Oh Dio! Anche quello, adesso! Che faccio? Avanti avanti.

Rolando                        - (entra rigido) Buona sera. Vorrei parlare con tuo marito.

Enrica                            - È occupato. Ha gente.

Rolando                        - Peccato. Ho riflettuto a quanto ci ha detto ieri. Volevo proporgli due separazioni legali: la mia e la tua.

Enrica                            - E così distruggi due famiglie.

Rolando                        - Tutt'altro. Io con te; mia moglie non so con chi, ma già c'è, e tuo marito a lungo, solo, non ci resisterà. Non distruggo le famiglie: le moltiplico: da due ne faccio tre.

Enrica                            - Ma tutte extra legali.

Rolando                        - Non è colpa mia se la legge, al capi­tolo matrimonio, sancisce regole che ben pochi osservano, e che molti fingono di osservare.

Enrica                            - E il signor Aldo?

Rolando                        - Non ha voluto venire. Dice che lui è un artista e come tale, non risolve le cose, lascia che si risolvano da sé.

Enrica                            - E se anche tu, dopo quello che è suc­cesso, facessi come lui? Tu puoi rompere il tuo matri­monio quanto ti pare. Che cosa perdi?

Rolando                        - Perdo mia moglie.

Enrica                            - Ma lei, come tu hai detto dianzi, ha già qualcuno... E quindi perdi ben poco.

Rolando                        - E la prole? Dove la metti la prole?

Enrica                            - Sei sicuro che è tua?

Rolando                        - Non è generoso che tu...

Enrica                            - Non sei sempre in aria?

Rolando                        - Questo è vero.

Enrica                            - Non voli anche di notte?

Rolando                        - Spesso.

Enrica                            - Dunque?

Rolando                        - Non mettermi anche questa idea nella testa.

Enrica                            - Tanto non ne devi aver molte.

Rolando                        - Molte o poche, io ti ho dimostrato a che punto ti amo. Ti amo al punto da distaccarmi dai miei figli. Più di così...

Enrica                            - Che credi? Che questo mi faccia piacere? Mi fa orrore. E mi preoccupa. Io mi domando che cosa non mi potrebbe succedere, se io ti seguissi, con un uomo dal cuore duro e spietato come il tuo.

Rolando                        - È amore, Enrica, è vero amore.

Enrica                            - Ma quale amore? Un amore comodo, facile. Eh sì, perché per te è una cosa semplice, ma per me?

Rolando                        - Tale e quale. Io lascio la moglie e tu il marito.

Enrica                            - Ma quale marito! L'opinione pubblica sarebbe tutta contro di me.

Rolando                        - Se ti preoccupi dell'opinione pubblica!

Enrica                            - Nel caso mio l'opinione pubblica ha un gran peso.

Rolando                        - Io non vedo tante difficoltà.

Enrica                            - Si capisce: tu te ne potresti vantare... Esser preferito a una celebrità... Ma io?

Rolando                        - Te ne dovresti forse avvilire?

Enrica                            - Avvilire è troppo. Ma, insomma, io dovrei lasciare un uomo famoso, cessare di essere sua moglie per diventare la compagna di un bravo uomo, di un uomo valido, vigoroso, ma qualsiasi... Tua moglie, scusa, è una donna come un'altra, ma mio marito non è un uomo come un altro, primeggia... Che figura ci farei?

Rolando                        - Ah, complimenti. Tutt'è due sì... Uno per la vetrina e uno per la bottega... Ma se devi scegliere preferisci quello per la vetrina. Sei perfet­tamente aggiornata. Prima l'interesse - dico l'inte­resse dell'ambizione, delle vanità, del censo - poi il resto, senza curarsi se il resto può far male a qual­cuno. Ti ho capito, ora, cara mia, e davvero mi do­mando che cosa ci ho visto in quei tuoi occhi azzurri che erano così invitanti e promettenti e che adesso sono ostili, freddi, sprezzanti. È bastato che tuo marito si mostrasse un uomo superiore anche di fronte al tuo inganno, perché tu sia capitolata. Voi donne non subite che il più forte. Siete nate schiave e sarete sempre schiave, anche se sedete in parla­mento e indossate la toga. Tua figlia insegni! Addio, signora. Ma sta bene in guardia. Se niente niente poi te la fai con un altro, che io non me n'accorga, altrimenti ti svergogno dinanzi a tutti! Addio! (Esce a destra).

Giulia                            - (in abito da giorno) C'era qualcuno qui?

Enrica                            - Rolando.

Giulia                            - Ah, mi pareva.

Enrica                            - L'ho messo alla porta.

Giulia                            - Hai fatto bene. Adesso che se n'è andato, lasciamelo dire. M'era antipatico. Sempre impettito, un paracarro.

Enrica                            - Non credere che Aldo sia meglio. Io non lo posso soffrire. Sempre ciondoloni. Pare fatto di vaselina.

Giulia                            - (gesto di rassegnazione) Questione di gusti. Papà è sempre di là con quel...?

Enrica                            - Sì. Anzi sono inquieta. Quel tipo non mi piace. Ha nello sguardo qualcosa... Porse baste­rebbe allargare la borsa... Ma sai com'è papà. Dete­sta i fannulloni. Aiuta magari uno che già guadagna piuttosto che un disoccupato professionale.

Giulia                            - Meglio andarci. (S'avvia di fondo).

Enrica                            - (la ferma) Aspetta. Sai che papà non tollera d'essere interrotto. Facciamo così. Se tarda ancora e se avverto qualcosa...

Giulia                            - Che cosa vuoi avvertire? Lo studio di papà ha la doppia porta imbottita.

Enrica                            - Non ci pensare: vigilo io. Se hai da fare, fai pure. Al caso ti chiamo.

Giulia                            - Sta bene. (S'avvia per uscire a sinistra).

Aldo                              - (entrando da destra) Buona sera. Ho atteso Rolando in istrada; mi ha informato d'esser venuto e di non tornarci più.

Giulia                            - E tu?

Aldo                              - Io non sono salito con lui perché mi opprime. Sono qui adesso per definire.

Giulia                            - Che cosa vuoi definire?

Aldo                              - La nostra situazione.

Giulia                            - È già definita.

Aldo                              - E cioè?

Giulia                            - Come prima.

Aldo                              - Tu non mi elimini?

Giulia                            - Affatto. Sono anche capace di trasfor­marti in fidanzato.

Aldo                              - E come faccio adesso?

Enrica                            - Non è contento?

Aldo                              - Contentissimo. Ma ho giurato.

Giulia                            - Con chi?

Aldo                              - Con Rolando. Mi ha fatto giurare che anch'io avrei fatto come lui. Insomma, lui licenziato, io dimissionario.

Enrica                            - Non sarebbe meglio che usciste un po' a discorrere insieme? L'aria snebbia i cervelli.

Aldo                              - Io non ne avrei bisogno.

Giulia                            - Ne ho bisogno io. Andiamo. Non mi metto nemmeno il cappello.

Aldo                              - Non l'ho neanche io.

Giulia                            - A fra poco, mamma.

Aldo                              - (a Enrica) Signora, io la saluto. Non so se il mio saluto è l'ultimo della serie o ne precede degli altri. In ogni modo ci tengo a dirle che se lei volesse un giorno posare per una testa io sarò lieto di riprodurla sulla tela in moda da renderla irrico­noscibile. Buona sera, signora. (Esce a destra).

Federico                        - (entra di fondo; ha il viso stravolto e sembra un sonnambulo).

Enrica                            - Federico, che c'è?

Federico                        - (cupo) Voleva dir tutto a Giulia... voleva dirle che mia madre era una sgualdrina... e che mio padre l'ha uccisa per questo.

Enrica                            - (allarmatissima) E tu?

Federico                        - (atono) Non ci ho visto più. Gli son saltato al collo...

Enrica                            - (spaventata) Che hai fatto?

Federico                        - (atono, guardandosi le mani) È là.

Enrica                            - (disperata) Nooo! Federico!

Federico                        - (atono) È là. (Una pausa).

Enrica                            - (senza voce) E ora"?

Federico                        - (atono, allarga le braccia, alza gli occhi al cielo) Non c'è che Dio!...

Enrica                            - (senza voce) Che faremo? (Federico si lascia cadere su una sedia).

Silvio                             - (appare di fondo, ha il colletto slacciato e la cravatta sfatta, pallido e senza fiato) Ah, guardalo lì. Tale il padre, tale il figlio... (Girandosi un dito nel colletto) Per poco non mi... Ma ho la pelle dura io... Hai fatto male a non finirmi... ancora una stretta.. Guarda (mostra un libretto di assegni) ho aperto un cassetto... La fortuna!... Ho trovato questo libretto di assegni... Volevi... E invece mi salvi... Io avrei chiuso malamente una vita disgraziata, ma avrei finito di andare sempre più giù... Mentre tu... eh... non ti saresti trovato bene... E neanche lei... tua moglie... e neanche tua figlia... Tò, avresti potuto prenderla come avvocato difensore... Chi sa... Io userò di questi assegni... falsificherò la tua firma... tu non farai nulla per accorgertene... È il meno che ti può chiedere un superstite delle tue mani... Acci­denti che morsa! Stai attento... È un brutto vezzo di famiglia... Non ti manca che l'occasione... ma se viene... Speriamo che non arrivi... Te lo auguro di cuore... Io non comparirò più... stai tranquillo... Qui (e mostra il libretto) ho da scialarla per un po'... Non ne abuserò... Saluti alla piccola... No... non ci pen­sare... Non le scriverò nulla... Lo vedi? Se mi davi spontaneamente un po' di denaro non saremmo a questo punto... Ah, un'ultima cosa... I tuoi studi per distruggere... Anche lì c'è l'istinto dell'assassino. Tale il padre, eh?... Tu più moderno... più scien­tifico... Mah... siamo lì... E salutami lo zio! (Esce).

Federico                        - Io?... Assassino io?

Enrica                            - Non ti impressionare. È finito tutto bene. Sì, i quattrini. Ma ci si potrà difendere.

Federico                        - Bisognerebbe dir tutto a Giulia e io non voglio. La memoria di mia madre, di mio padre devono essere almeno per lei, puri. Un angolo azzurro dobbiamo pur averlo.

Enrica                            - Non ti ho mai visto così... Mi sembri smarrito.

Federico                        - Sono smarrito... Non so più... Hai visto, dianzi, che grossa sciocchezza stavo per com­mettere? Ho detto: non c'è che Dio. Dio mi ha fer­mato... Non ti sembro più io?

Enrica                            - No. Sei lì, spaventato, incantato...

Federico                        - Spaventato, spaventato: come un bambino, come un selvaggio, dinanzi a un fenomeno della natura.

Enrica                            - Non ti capisco.

Federico                        - Neanche io lo capivo. Mi si rivela adesso.

Enrica                            - Tu con la tua sapienza?...

Federico                        - Quale sapienza? La fisica, le leggi fisiche... Che cosa sono? Noi, il nostro essere, la nostra verità. Queste sono le scoperte da fare.

Enrica                            - Su, su, rimettiti! Hai una faccia! Dove è andato l'uomo che capiva tutto, che non si stupiva di nulla, che s'era fatto la mentalità d'oggi, la men­talità, dicevi, del 1950?

 Federico                       - C'è, c'è sempre, non dubitare. Per gli usi che mutano, per i sentimenti che si modifi­cano, per i gusti che si trasformano, c'è. Ma tutto questo non vale più quando sono colpite le radici dell'esistenza. Un fatto ti schianta all'improvviso, e tutto dilegua: resta l'uomo. L'uomo di sempre. La fine di mia madre, quella fine, ha rimesso in circolo il mio sangue col suo. Che ti ha detto ancora mio padre?

Enrica                            - Non ti perdona di aver dubitato di lui.

Federico                        - E io non gli perdono d'aver fatto morire mia madre. Noi siamo tutti pezzi di madri, staccati. Questo è. Tradimenti coniugali, amori leciti o no, variano a seconda del nostro istinto di possesso e del nostro orgoglio; ma la madre uccisa no, il padre che forse l'ha uccisa no. Ci si lacera alle viscere... Ma com'è avvenuto? Perché è avvenuto? Dimmi.

Enrica                            - Calmati. Andiamo nel tuo studio. Giulia è uscita, potrebbe rientrare da un momento all'altro. Di là ti racconterò. Ma tu non ti devi tormentare. Diamine, sembri un bambino. (S'avvia verso il fondo).

Federico                        - Eh, mi sento così uomo!

Enrica                            - Vieni. (Escono).

Giulia                            - (entra da destra con Caterina) Dove sono?

Caterina                        - Non so. Credo nello studio del signore.

Giulia                            - Di' alla signora che sono rientrata. (Si avvia a sinistra).

Caterina                        - Bene, signorina.

Giulia                            - (si ferma) Tu ormai sei da tempo nella nostra casa.

Caterina                        - Oh, sì. Dieci anni.

Giulia                            - Ci conosci bene tutti.

Caterina                        - Oh sì, signorina.

Giulia                            - Se c'è qualcosa che non va te ne accorgi subito.

Caterina                        - Certo, signorina.

Giulia                            - Ecco: io volevo sentire da te se c'è qualche cosa che non va.

Caterina                        - Posso dire?

Giulia                            - Come no? Sei ormai della famiglia: tu sai tutto di noi.

Caterina                        - Oh sì. Tutto. (Con intenzione) E anche di più.

Giulia                            - Bè, il di più te lo regalo.

Caterina                        - Dicevo per dire...

Giulia                            - Secondo te, c'è qualcosa di diverso qui dentro?

Caterina                        - Sì, signorina, c'è.

Giulia                            - E da quando?

Caterina                        - Dalla venuta di quel signore.

Giulia                            - Quale?

Caterina                        - Il signore che è venuto ieri ed è tornato oggi.

Giulia                            - Da che cosa lo arguisci?

Caterina                        - Da tutto e da niente. C'è un'inquietudine nell'aria: ecco. Mi posso anche sbagliare.

Giulia                            - Non ti sbagli perché l'avverto anch'io. Te l'ho chiesto proprio per riscontrare la mia impres­sione. Tutt'e due l'abbiamo uguale. Brutto segno!

Caterina                        - Saranno fantasie nostre.

Giulia                            - Lo penso anch'io. È strano però che tutt'e due, nello stesso giorno... (Squilla il telefono) Senti un po' chi è.

Caterina                        - (all'apparecchio) Pronti... sì... Chi parla? Eh? Più forte, prego... Oh scusi... Buona sera, signor Augusto... No, il signore non è qui...

Giulia                            - Da' a me. (Prende il ricevitore) Pronto... Nonno... Sei tu? Sì, benissimo, viaggio ottimo... Chi vuoi? Papà? Ora te lo chiamo. (A Caterina) Va' a chiamare il signore. (Caterina esce. Al telefono) Sì, siamo in casa. No, non stasera. È stato un equivoco. Lo spettacolo all'Opera è domani sera. Ora viene papà. (Depone il ricevitore accanto all'apparecchio).

Federico                        - (entra dal fondo) Chi mi chiama? (Caterina entra dal fondo ed esce a sinistra).

Giulia                            - Ti voglio lasciar la sorpresa.

Federico                        - No: al telefono non ci vado se non so chi parla.

Giulia                            - È il nonno.

Federico                        - Ah no! (Prende il ricevitore e lo aggancia con forza).

Giulia                            - Bè, che ti succede?

Federico                        - Niente di straordinario.

Giulia                            - Non mi pare, scusa. Non ti ho mai visto far così col nonno.

Federico                        - Dipenderà dall'umore.

Giulia                            - Tutte le volte che ti ho annunziato le telefonate del nonno per te era una festa.

Federico                        - Anche ora.

Giulia                            - Non direi.

Federico                        - Potrò avere un giorno in cui non ho voglia di telefonare!

Giulia                            - Nemmeno con lui?

Federico                        - Nemmeno con lui.

Giulia                            - Senza scusarti, senza dire a me di rispon­dergli qualcosa...

Federico                        - Non ci ho pensato.

Giulia                            - E hai troncato bruscamente.

Federico                        - Santiddio, che mi fai? Un interro­gatorio?

Giulia                            - No no. Tacerò. Sei veramente nervoso.

Federico                        - Oh! Finalmente l'hai capita.

Giulia                            - E la mamma?

Federico                        - La mamma che?

Giulia                            - Lo sa che sei in questo stato?

Federico                        - La mamma è andata in camera sua. Era stanca e s'è ritirata. Perché anche questo non ti garba? O ci voleva il tuo permesso?

Giulia                            - Lo vedi? Tratti male anche me.

Federico                        - Non faccio eccezioni. Il nonno... te... A tutti lo stesso trattamento. Quando si hanno i nervi, ce n'è per tutti.

Giulia                            - Non ti capisco.

Federico                        - Non c'è nulla da capire.

Giulia                            - Sono sbalordita!

Federico                        - Addirittura?

Giulia                            - Sbalordita. Tu, calmo, sereno, superiore, che non fai caso di nulla, che prendi le cose per quello che sono senza ricami e senza drammi, all'improvviso... Quasi non ti riconosco più.

Federico                        - Studio, lavoro, passo le notti in calcoli e diavolerie e tu sbalordisci se un giorno non ho il mio solito umore.

Giulia                            - Non ti ho mai visto così.

Federico                        - Non so davvero che cosa ti sei messa in testa. Ho troncato una comunicazione, ho deposto un ricevitore... Tu non l'hai mai fatto?

Giulia                            - Con te mai. Con le persone che amo mai.

Federico                        - Cosa vuoi dire adesso? Che io non voglio bene a mio padre?

Giulia                            - Non lo so più.

Federico                        - Per un gesto, uno scatto, in cui mio padre non c'entra.

Giulia                            - Non mentire, adesso.

Federico                        - Giulia, ti prego.

Giulia                            - Tuo padre ci deve entrare per qualcosa nel tuo gesto. L'hai fatto quando hai saputo che dall'altra parte del filo c'era lui. Dunque. Perché mi vuoi ingannare?

Federico                        - Ho agito con lui come con chiunque altro. Non ho voglia di telefonare. Ecco tutto.

Giulia                            - Intanto il nonno non è « chiunque altro » e se non avessi avuto voglia di telefonare non saresti neppure venuto qui.

Federico                        - Insomma tu vuoi che io abbia tron­cato di proposito.

Giulia                            - Tutto me lo dimostra.

Federico                        - E perché l'avrei fatto? Vediamo.

Giulia                            - Questo non lo so. E neanche mi riesce di immaginare che cosa ci possa essere fra te e il nonno di così grave da indurti a un atto tanto odioso. Sì, scusa, odioso.

Federico                        - Che vuoi che ci sia? Nulla. Assoluta­mente nulla.

Giulia                            - Può darsi.

Federico                        - Non l'hai veduto tu due ore fa? Non ci sei stata tu? Hai notato qualcosa tu, laggiù?

Giulia                            - Appunto perché non ho notato nulla che non mi spiego il tuo modo di fare.

Federico                        - Senti, Giulia, ti consiglio di smet­terla con questa storia. Non ho poi ammazz... (Si interrompe spaventato e stupito della parola).

Giulia                            - Bè, perché ti fermi?

Federico                        - Come mi fermo? Non ho poi ammaz­zato nessuno. Questo volevo dire. È successo meno di niente; un ricevitore è tornato al suo posto. Il silenzio s'è ristabilito in casa. E, dunque, buona notte.

Giulia                            - Anche per te sarà buona?

Federico                        - Come al solito. In laboratorio.

Giulia                            - Ma con quei nervi non potrai concludere molto.

Federico                        - Pazienza. Più vanno lenti i nostri studi meno sono i pericoli per l'umanità.

Giulia                            - Buona notte. (Falsa uscita) Ah, scusa, ti volevo chiedere... Non eri tu oggi in quella mac­china che è arrivata dinanzi alla casa del nonno e poi è voltata subito e se n'è andata?

Federico                        - Io? Nemmeno per sogno. v

Giulia                            - Ancora bugie, papà. Eri tu. Ti ho visto. Non ho detto nulla alla mamma, perché volevo indagare...

Federico                        - Ti proibisco! Io non voglio essere spiato.

Giulia                            - Oh che parolona! Io stavo parlando là fuori, con un tale che voleva da me un consiglio legale, quando ho visto una macchina. La nostra l'avevamo usata noi. Una macchina da noleggio. E dentro c'era un signore. Non so se ad arte o no, non si lasciava scorgere bene. Poi ho visto Teresina cor­rere in casa, uscirne subito, parlare col signore. E la macchina è ripartita. Eri tu.

Federico                        - E perché hai finto di nulla?

Giulia                            - Scusa, viaggi di nascosto, rincasi in silenzio, parli con la mamma, non vuoi parlare col nonno e, me, mi tieni all'oscuro di tutto. È lealtà questa? Non sono una bambina, sono una donna, sono più di una donna, perché ho una professione da uomo.

Federico                        - E tu, mi hai visto là, arrivare, par­tire immediatamente, sei tornata e non mi hai chiesto nulla. Sei sleale anche tu.

Giulia                            - Siamo eguali. E allora buona notte.

Federico                        - Buona notte. (Falsa uscita) Oh, scusa, ti volevo dire... bè, a domani, rimandiamo a domani. Buona notte.

Giulia                            - Che cosa c'è da rimandare a domani?

Federico                        - Questa conversazione.

Giulia                            - Mi pare inutile. Siamo arrivati a un punto morto. Tu sei reticente, io non parlo. È pro­prio una conversazione finita. Buona notte.

Federico                        - Giulia!

Giulia                            - Che c'è ancora?

Federico                        - Cosa credi tu?

Giulia                            - Di che?

Federico                        - Di quanto è avvenuto?

Giulia                            - Io non credo niente. Io suppongo.

Federico                        - Che cosa supponi?

Giulia                            - Non so, che ci sia un fatto nuovo, fra te e tuo padre.

Federico                        - Nuovo? Che fatto nuovo!

Giulia                            - E se non nuovo, vecchio!

Federico                        - Ma cosa dici?

Giulia                            - Perché ti allarmi? Ho detto « vecchio » come avrei detto qualunque altra cosa.

Federico                        - Tu mi nascondi i tuoi pensieri. A me si può dire tutto: te ne ho dato la prova.

Giulia                            - Chi ti dice che io nascondo?

Federico                        - La tua faccia, i tuoi occhi, il suono delle tue parole. Tutto è poco chiaro.

Giulia                            - E tu credi di essere limpido?

Federico                        - Insomma: che vuoi sapere da me?

Giulia                            - E tu da me?

Federico                        - Senti, Giulia, io non riesco a indo­vinare che cos'hai nell'animo, ma quello che ho io... Avrei voluto che tu non lo sapessi mai. Ma le tue insistenze mi inquietano. Sei troppo intelligente per rinunciare alle tue indagini. Ho bisogno di diminuire il peso distribuendone un po' anche agli altri, a, te specialmente che sei la donna che sei... Ma non trovo le parole... o almeno le parole diverse da quelle che mi vengono alle labbra e sono troppo crude... Giulia, c'è una sciagura che io ignoravo e che sol­tanto da due giorni... È una pena enorme per me dirtelo. Mi pare di denunciare... di insudiciare... È una sciagura che ti spoglia, di colpo, delle vesti del tempo e ti lascia nudo... Mi capisci? (La guarda e poi) Io ero indifferente, cinico, spregiudicato... E invece sono qui disfatto... Noi moderni ci accorgiamo, sotto certe percosse, di essere antichi... È la nostra condanna... non ci possiamo mai mutare veramente, profondamente... Ed è la nostra fortuna... ci conser­viamo umani nonostante tutto... Giulia, mia madre, la tua nonna...

Giulia                            - Taci. Durante alcune ricerche profes­sionali mi sono capitate sott'occhio le rubriche giudiziarie di allora, e...

Federico                        - E non me ne hai mai parlato?

Giulia                            - L'ho creduto un tuo pesante segreto. L'ho rispettato.

Federico                        - E tu gli hai potuto fare ancora buon viso?

Giulia                            - Io, donna, mi sono subito convinta che lei, poverina, offesa, sconfortata, in un accesso di disperazione si è uccisa... Tu, uomo, pensi che lui, inferocito dall'ira abbia potuto...

Federico                        - (ripensando a guanto è capitato a Imi con Silvio) Già, ci si annebbia la vista, non si sa e... (Fa l'atto di allungare le mani ma si frena) Non sa neanche lui... ed è la sua tortura da cinquanta anni...

Giulia                            - E tu non gli hai voluto parlare! (Accenna al telefono).

Federico                        - È stato lui a non volermi ricevere... Adesso, temo di vedere fra me e lui un corpo disteso... Il dubbio che ha tormentato lui, tormenta ora me... Triste eredità.

Giulia                            - (accarezzandogli il capo) Su su. Non lasciarti angosciare dalle voci remote. Ormai sono spente. Ascolta soltanto quelle che risuonano ora. Sì, il colpo è stato forte, ma tu sei più forte... L'uomo moderno, come tu dici, deve vincere l'antico.

Federico                        - Devo essere di oggi? Uscire dal cerchio dei ricordi, dei sentimenti di prima? (Con energia e amarezza) E sia. (Si raddrizza) Mi rimetterò il vestito... all'ultima moda. Va bene? Accetto tutto, ammetto tutto. Le cose dentro e fuori di noi sono più grandi di noi. Se non posso perdonare posso compatire. Me, lui, gli altri. Tutti poveri uomini!

Caterina                        - (entra da destra) Signorina, vuol venire un momento...

Giulia                            - Vengo. (Esce).

Federico                        - (a Caterina) C'è qualcuno?

Caterina                        - Sì, ma... Ora le dirà la signorina.

Federico                        - Cosa sono questi misteri?

Caterina                        - (sorridendo) Nossignore. Tutto è chiaro come il sole.

Federico                        - Perché sorridi?

Caterina                        - Quando si ha in gola una buona notizia non si può non sorridere.

Federico                        - Insomma, chi c'è?

Giulia                            - (rientra) C'è il nonno. Dice che ha telefonato da un posto pubblico, appena in città, per avvertirti del suo arrivo, ma che è saltata la comunicazione. Ti vuol parlare. Dice che si vuole scusare di ieri... Coraggio... su!

Federico                        - (un attimo di indecisione, poi di slancio va verso destra) Avanti, avanti, papà.

FINE