La putta onorata

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Personaggi

LA PUTTA ONORATA

COMMEDIA VENEZIANA

di Carlo Goldoni

Rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnovale dell’Anno 1748

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR CONTE DON

GIUSEPPE ARCONATI VISCONTI

regio feudatario di arconate, lomazzo, cerimedo, fenegrò, guanzate e rovelasca, gentiluomo di camera ed intimo attual consigliere di stato delle loro maestà imperiali, consigliere nel supremo consiglio d’italia e commissario generale de’ confini dello stato di milano, altro de’ signori lx. decurioni di quell’eccellentissimo general consiglio e regio l. t. del v. spedal maggiore della medesima città di milano ecc.

Io, per dir vero, del numero di quei non sono, che possano la ragione della fortuna lagnarsi. Ella mi ha fatto sempre del bene, e me lo ha fatto anche quando meno lo meritavo, e mi ha ella porta la mano più d’una fiata a risorgere, qualora ingrato a’ suoi doni le voltai, per così dire, le spalle.

Pregiatissimo dono della fortuna rimarco io l’onor massimo dell’alto Patrocinio vostro, Eccellentissimo Signore, onore e dono che io confesso non meritare, e che di custodir mi prefiggo gelosamente quanto la mia medesima vita, giacché del pari nell’animo mio risento il piacer di essere, e quello di essere cosa vostra.

Quelli che hanno l’immagine della fortuna nell’oro e nell’argento e nella vita comoda collocata, si rideranno di me, che in mezzo alle fatiche e alli stenti, e assai mediocremente in arnese, e incerto sempre del mio destino, fortunato mi vanto; ma io conosco me stesso, e so di meritar molto meno, e assaissimo mi compiaccio di quel cortese compatimento, che dall’Universale esigono le mie fatiche; e molto più di consolazione mi empie e di giubilo, quello che degnossi di accordarmi l’E. V., Cavaliere di tanta scienza ripieno, e di sì fino discernimento, i di cui giudizi possono assicurar chi che sia nel dubbio e incerto cammino della Virtù e del Merito.

Fu nel mese di Giugno dell’anno scorso ch’io ebbi la prima volta l’invidiabil contento di baciarvi la mano, e di vedere cogli occhi miei nel vostro venerabile aspetto i raggi luminosi di quella grand’anima, che ripiena di tutte le morali virtù rende Voi la delizia della vostra gran Patria, l’esempio dell’uomo nobile e del vero Cavaliere Cristiano.

Oh qual giornata per me felice fu quella! Non so ricordarmene senza novello giubilo, facendo in me una tal rimembranza l’effetto che suol produrre nei ciechi l’immagine delle più belle e più rare cose vedute.

In fatti, se io sapessi descrivere le delizie della vostra Villa di Castellazzo (ove in quel felice giorno vi trovai), cose avrei a scrivere degne di maraviglia, né poche pagine basterebbono a dare altrui un’idea vera di tutte quelle magnifiche cose, che formano un soggiorno degno di Voi.

La vastità del palazzo, la ricchezza delle suppellettili, la estensione del gran giardino, in cui si vedono variamente architettati e distinti i più bei verdi d’Italia; la quantità delle fontane e de’ giochi d’acqua, tuttoché procurata dall’arte ed estratta di sotterra a forza di macchine, e mantenuta con una eccedente spesa; il parco de’ cervi; il serraglio delle fiere, il grato e scelto pomario; la biblioteca, ricca di scelti e copiosi libri; la camera delle Matematiche, in cui si vedono tutte le più scelte macchine che servono allo studio ed alle esperienze della meccanica Filosofia; una Statuaria di antichi celebrati marmi, fra’ quali ammirasi la magnifica statua colossale di Pompeo, la quale dal Campidoglio di Roma con immensa spesa fu trasportata dal vostro grand’Avo ad arricchire la Lombardia con uno de’ più preziosi avanzi dell’antichità, cose queste son tutte che richiederebbono altro luogo per essere scritte, ed altra mano che le scrivesse; cose elleno sono, che richiamano tutto giorno e i lontani e i vicini all’ammirazione, e voi con tanta umanità e cortesia trattar solete i quotidiani numerosi Ospiti vostri, ai quali non manca mai, nel tempo della Vostra villeggiatura, né lauta mensa, né agiato riposo, né musica, né altri piaceri di questa vita, il condimento dei quali si è la Vostra erudita, graziosa, amabile conversazione.

E non dovrò io render grazie alla mia fortuna per avermi ella fatto partecipe di tante sì rare cose ? Sì, che le sarò sempre grato, ed or piucché mai, poiché fortuna sola, e non grado alcuna di merito fa sì ch’io possa porre in fronte ad una delle miserabili mie Commedie il nome grande, il venerabile nome di V. E., e fregiando in sì alto modo le imperfette Opere mie, tentar gloriosamente gli auspici di un Protettore eccelso e magnanimo.

Ma no, non è questo puro dono della fortuna; egli è, Eccellentissimo Signore, un tratto della vostra benignità, la quale non sa che spargere a larga mano le beneficenze e le grazie, e Voi formate la fortuna di quelli che vi servono, riconoscono, e ammirano da vicino le Vostre peregrine virtù.

Che manca in Voi di ammirabile e grandioso? Non la antichità del sangue, il quale sino nel decimoquarto Secolo sparso fu da’ gloriosi Vostri Antenati a pro della Patria, ed in servigio di Filippo Maria Visconti Duca di Milano.

Non grado e dignità, poiché tante ne ha profuse in Voi l’imperadore Carlo Sesto, e tante la Invitta e Gloriosa Regina Vostra Sovrana, che vi rendono in altra guisa noto al Mondo e ragguardevole per ogni dove.

Non virtù, non valore, non ottima, regolata prudenza, onde negli affari economici, politici e militari, e nei Consigli e nei Governi ove foste con tanto merito destinato, deste saggio mai sempre di pronto spirito e di robustezza di animo, e sopra tutto di dolce adorabile benignità, la quale siccome è a Voi medesimo la virtù prediletta, così porge a me la dolce lusinga, che aggradire vi degnerete quest’umile offerta dell’ossequioso rispetto mio, concedendomi ch’io possa in faccia del Mondo gloriarmi di essere, quale con profonda umiliazione ho l’onore di protestarmi

Di V. E.

Torino, il primo di Maggio 1751.

Umiliss. Devotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


LETTERA DELL’AUTORE

AL BETTINELLI

Scrittagli l’anno 1751 da Turino, mandandogli la presente Commedia.

Dappoiché pare a voi che la Putta Onorata possa apportarvi qualche utilità coll’essere data al pubblico, io voglio compiacervi anche di questa, quantunque non abbia quella opinione di essa, che voi avete. Sia stata qual si voglia la sua riuscita sul Teatro, non potrà certamente ritrovare quel gradimento fra’ Leggitori fuori di Venezia, che ritrovò fra gli Spettatori sulle Scene Veneziane. Otto personaggi, che dentro vi favellano nel nativo linguaggio di quella Città, mi fanno dubitare che perdendosi nella non bene intesa lingua il sapore de’ sentimenti, rimanga scipita e forse rincrescevole. Né mi sgomenterei gran fatto, se la favella in essa usata fosse stata tratta dal parlare degli uomini colti, perciocché non si discosterebbe lungo tratto da quella, che per tutta l’Italia è intesa; ma avendo io in più luoghi imitato le azioni e i ragionamenti della minuta gente, mi convenne attenermi a que’ modi di dire, che più a tal qualità di persone si confanno. È a ciascheduno palese, quanto sia diverso in ogni Città il ragionare degli uomini qualificati da quello delle genti d’altra condizione, e che queste ultime sì dagli altri lo hanno diverso, che quasi nati sembrano in altro Paese; perciocché oltre alla differenza di molti vocaboli e della pronuncia ancora, hanno altresì certe forme particolari o di sentenze, o di proverbi, o di diciture in gergo, che piacevolissime sono a chi le intende, ma riescono a chi non è più che pratico oscurissime. Fra tutti quelli che hanno grandissima copia di sì fatte forme di favellare, sono i Gondolieri di Venezia, i quali furono da me nella presente Commedia imitati con tanta attenzione che più volte mi posi ad ascoltarli, quando quistionavano, sollazzavansi o altre funzioni facevano, per poterli ricopiare nella mia Commedia naturalmente. Questa stessa esattezza, che fece così grata la mia fatica in una Città, dove tali cose sono sotto gli occhi ogni dì, e tali vocaboli si odono sempre; temo che la renderà forse noiosa a quelli che, nati lontani da essa, non intendono la proprietà de’ vocaboli Veneziani. E più mi conferma l’osservazione che ho fatta nel vederla a recitare; poiché in Venezia dovete ricordarvi quante e quante sere fu replicata la prima volta, e come in calca venivano le persone per aver luogo nel Teatro ad udirla, e nell’anno susseguente ancora non ebbe peggior fortuna; né minor piacere fece agli ascoltanti di Verona, come quelli a’ quali quel ragionare non è affatto nuovo; ma allontanata di là, non ebbe la stessa riuscita; appunto perché, rimanendo oscura per metà, non poteva più essere gradita interamente. Quello ch’io vidi quando fu rappresentata dubito che accada quando sarà venuta alla luce, e tanto più perché nel leggere il movimento dell’azione è perduto; che pur talvolta dà tanto spirito anche alle cose non affatto evidenti, che le fa comprendere agli ascoltanti. Con tutto ciò, poiché voi così desiderate, io non sono per contrastare alla vostra volontà; ma in ciò solamente a Voi mi raccomando, che i più oscuri modi di favellare sieno almeno, come nel primo tomo si è fatto, con alcune postille dichiarati; e quanto si può venga aperto il senso di quelli, acciocché il non intenderli non disgusti altrui dal leggere. In questa forma facendo, son certo che, se non darà tutto quel diletto a’ Forestieri che può dare a’ Leggitori Veneziani, si renderà almeno men faticosa, e perciò più facilmente si potrà ritrovare chi la legga senza rincrescimento. Non dubito che adoprerete in ciò tutta la diligenza, e promettendovi pel venturo ordinario la Buona Moglie, che a questa, quasi secondogenita, vien dietro, col cuore vi abbraccio.


Personaggi

Ottavio, marchese di Ripaverde.

La marchesa Beatrice, sua moglie.

Pantalone de’ Bisognosi, mercante veneziano creduto padre di Lelio e protettore di

Bettina, fanciulla veneziana.

Catte, lavandaia moglie di Arlecchino e sorella di Bettina.

Messer Menego Cainello, barcaiuolo del marchese, e creduto padre di Pasqualino.

Lelio, creduto figlio di Pantalone, poi scoperto figlio di messer Menego.

Pasqualino, creduto figlio di messer Menego, poi scoperto figlio di Pantalone.

Donna Pasqua, da Pelestrina moglie di messer Menego.

Brighella, servitore del marchese.

Arlecchino, marito di Catte.

Nane, barcaiuolo.

Tita, barcaiuolo.

Un giovane, caffettiere.

Un ragazzo, che all’uso di Venezia accenna ad alta voce dove si vendono i viglietti della commedia.

Scanna, usuraio.

Un capitano di sbirri con i suoi uomini.

La scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera del Marchese.

Il marchese Ottavio in veste da camera al tavolino scrivendo

e la marchesa Beatrice in abito di gala.

OTT. Sì signora, v’ho inteso; lasciatemi scrivere questa lettera.

BEAT. Questa sera vi è la conversazione in casa della Contessa.

OTT. Ho piacere. Amico carissimo.  (scrivendo)

BEAT. Spero che verrete anche voi.

OTT. Non posso. Se non ho risposto alla vostra lettera...

BEAT. Ma a casa chi mi accompagnerà?

OTT. Manderò la gondola. Vi prego perdonarmi, perché...

BEAT. E volete ch’io torni a casa sola?

OTT. Fatevi accompagnare. Vi prego perdonarmi, perché gli affari miei...

BEAT. Ma da chi mi ho da far accompagnare?

OTT. Dal diavolo che vi porti. Gli affari miei me l’hanno impedito.

BEAT. Andate là, marito mio, siete una gran bestia.

OTT. Per altro non ho mancato di servirvi...

BEAT. Con voi non posso più vivere.

OTT. E voi crepate. Ho parlato al consaputo mercante...

BEAT. Bella creanza!

OTT. E mi ha assicurato, che quanto prima...

BEAT. Quanto prima me n’andrei da questa casa.

OTT. Oh volesse il cielo! Quanto prima vi manderà la stoffa...

BEAT. Questa è una commissione di qualche dama.

OTT. Sì, signora. (scrive)

BEAT. Me ne rallegro con lei.

OTT. Ed io con lei. (scrive)

BEAT. Fareste meglio a provvederla per me quella stoffa, che ne ho bisogno.

OTT. Cara signora marchesa, favorisca d’andarsene.

BEAT. Meritereste d’aver una moglie come dico io...

OTT. Peggio di voi non la troverei mai. (scrive)

BEAT. Poter del mondo! Che potete dire di me?

OTT. Andate andate, fatemi questo servizio.

BEAT. È nota la mia prudenza...

OTT. Gnora sì. (scrive)

BEAT. Si sa la mia delicatezza.

OTT. Gnora sì. (scrive)

BEAT. Son una donna d’onore.

OTT. Gnora sì. (scrive)

BEAT. Siete un pazzo.

OTT. Gnora... no. (scrive)

SCENA SECONDA

Brighella e detti.

BRIGH. Lustrissima, l’è qua el sior conte, che l’è venudo a prenderla per servirla alla conversazion.

BEAT. Signor consorte, comanda niente?

OTT. Gnora no. (scrive)

BRIGH. Vuol venire con me?

OTT. Gnora no. (scrive)

BEAT. Vuol ch’io resti?

OTT. Gnora no. (scrive)

BEAT. Dunque vado.

OTT. Gnora sì, gnora sì, gnora sì.

BEAT. (Vado, vado, e non mi faccio pregare. Questa è l’arte nostra. Fingere col marito di amar ciò che si odia, e di non voler tutto quello che si desidera). (da sé, e parte)

SCENA TERZA

Il marchese Ottavio e Brighella.

OTT. Maledetta costei! Non la posso vedere, e pretenderebbe ch’io fossi geloso. Sarei tre volte pazzo. Pazzo, perché non è una bellezza da far prevaricare. Pazzo, perché io non le voglio bene; e pazzo, perché la gelosia non è più alla moda. Brighella, hai tu veduto Bettina?

BRIGH. Lustrissimo sì, l’ho vista. Gh’ho dito le parole ma ho paura che no faremo gnente

OTT. Perché?

BRIGH. Perché l’è una puta troppo da ben.

OTT. Di chi è figlia? L’hai saputo?

BRIGH. So padre el giera un patron de tartana, ma l’è morto e no la gh’ha né padre, né madre.

OTT. E ora chi l’ha in custodia?

BRIGH. Una so sorela maridada, che ha nome siora Cate, mugier d’un certo Arlechin Batocchio, che xe veramente un batocchio da forca.

OTT. Si potrebbe vedere d’introdursi per via di costoro?

BRIGH. La lassa far a mi; parlerò a sta siora Cate; so che la xe una dona de buon cuor, e spero che col so mezzo se farà qualcossa.

OTT. La ragazza mi piace. La terrò sotto la mia protezione.

BRIGH. La protege un certo vecchio mercante, che i ghe dise Pantalon dei Bisognosi.

OTT. Un mercante cederà il luogo ad un marchese.

BRIGH. Ma lu lo fa a fin de ben, e solamente per carità.

OTT. Eh, me ne rido di questa sorta di carità. Basta, oggi anderemo a ritrovarla.

BRIGH. La sappia, lustrissimo, che ho scoverto un’altra cossa.

OTT. Che è innamorata?

BRIGH. La l’ha indivinada.

OTT. Già me l’immaginava. La modestina! Andiamo, andiamo.

BRIGH. E sala chi è el so moroso?

OTT. Qualche rompicollo.

BRIGH. Pasqualin, fio de Menego Cainello, barcariol de casa de V.S. illustrissima.

OTT. Buono, buono! ed egli le corrisponde?

BRIGH. L’è morto per ela.

OTT. Dunque si potrebbe fare questo matrimonio... E poi colla mia protezione... sì, sì. Va là, chiamami Cainello e fa che venga da me.

BRIGH. La servo subito. (Matrimoni fatti per protezion? Alla larga). (da sé, e parte)

SCENA QUARTA

Il marchese Ottavio, poi Menego.

OTT. Così è. Potrei servirmi di quel giovane o per barcaiuolo, o per staffiere, o per cameriere; e della ragazza per donna di governo. È una giovane che mi piace assai.

MEN. Lustrissima, son qua ai so comandi.

OTT. Ditemi, come siete contento del mio servizio?

MEN. Contentissimo. Quando a la fin del mese scorre le monee([1]), mi no cerco altro. De ela no me posso lamentar. La xe un zentilomo de buon cuor, tagiao a la veneziana([2]); ai so tempi la vien zoso co la molente, e mi per ela starave in pope tre dì e tre notte senza magnar. Ma quela lustrissima de la parona, la me compatissa, no la gh’ha gnente de descrizion. La matina apena zorno la me fa parechiar. Presto, Menego, in pope. Andè da la conzateste, fe che la vegna subito. Animo, andè a levar el miedego, che la parona gh’ha el mal de mare. Cerchè el barbier, che ghe vegna a meter un servizial. A mezza matina: Menego, in pope. La parona in ziro per mezza Venezia. Dopo disnar in Piazza, e Menego co la barca a Reduto. La sera a la comedia; se torna a casa a sett’ore; sona la mezza note, ma el mezzo ducato no se usa.

OTT. Povero Catinello, vi compatisco. Siete solo, e solo non potete supplire a tutto. Ditemi, non avete voi un figlio?

MEN. Lustrissimo, sì.

OTT. Che mestiere gli fate fare?

MEN. Mi vogio ch’el fazza el mestier de so pare, ma elo nol gh’ha gnente de genio. Una volta ho provà a farlo star in pope, e el xe andà in acqua a gambe levae.

OTT. Ma bisogna veder d’impiegarlo.

MEN. Se el se vol impiegar, mi ghe posso comprar un batèlo e ch’el s’inzegna. Mi me sfadigo, e lu no vogio ch’el fazza el zentilomo. Chi lo vede, tuti i dise che a mi nol me somegia gnente; e ghe xe dei baroni che parla e che dise, se la m’intende. Ma dona Pasqua mia mugier, no ghe digo per dir, la xe sempre stada, in materia de ste cosse, sutila come l’ogio([3]).

OTT. Vive vostra moglie?

MEN. Lustrissimo sì, per grazia del cielo.

OTT. Dove si ritrova?

MEN. A Pelestrina, dove la xe nassua([4]). La xe andada a trovar i so parenti; sta sera o domatina l’aspeto.

OTT. Orsù, mandatemi vostro figliuolo, che lo voglio vedere.

MEN. Vussustrissima sarà servida. Ma adesso no saveria in dove trovarlo.

OTT. E bene, lo manderete da me, quando l’averete ritrovato.

MEN. Ancuo comandela la barca?

OTT. Per me no. Guardate se la vuole la marchesa.

MEN. Eh, a ela no ghe manca barche. Ogni zorno ghe ne xe tre o quatro che fa regata per arivar a la machina. Sta matina sior conte ha buo el primo([5]). Dopo se gh’ha calumà drio([6]) el secondo e eil terzo, e per quel che vedo, a vussustrissima ghe toccherà el porcheto([7]). (parte)

OTT. Quanto sono piacevoli questi barcaruoli! Ma quanto per altro è bella la mia Bettina! Se la prendo in casa, non vorrei che nascesse qualche strepito con mia moglie. Procurerò di maritarla con questo giovinotto. Intanto... basta... il danaro fa tutto. Argent fait tout. (parte)

SCENA QUINTA

Strada con veduta di un’altana annessa alla casa di Bettina.

Bettina sull’altana facendo le calze.

BET. Oh caro sto sol! Co lo godo! Sia benedeto st’altana([8])! Almanco se respira un puoco. Mi, che no son de quele che vaga fora de casa, se no gh’avesse sto liogo, morirave de malinconia. E po qua semo fora dei petegolezzi. In sta corte no ghe sta nissun; nissun me sente, nissun me vede. No posso veder pezo, quanto quel star in compagnia de certe frasche, che no le fa mai altro che dir mal de questa e de quela. Anca de mi le dirà qualcossa, perché me pratica per casa sior Pantalon; ma che le diga quel che le vol; el xe vecchio, el me fa da pare, el me agiuta per carità. Dise el proverbio: mal no far, e paura no aver. El m’ha anca promesso de maridarme; ma se no me tocca Pasqualin, no vogio altri marii. Velo qua ch’el vien, siestu benedio. Caro quel muso! caro quel pepolo([9])! Co lo vedo, se me missia([10]) tuto el sangue che gh’ho in te le vene.

SCENA SESTA

Pasqualino col tabarro alla veneziana, e detta.

PASQUAL. Tiolè([11]), chi la vol veder, sempre su l’altana a farse veder da tutti, a recever i basamani.

BETT. Vardè che sesti([12])! Stago qua per vu, caro fio. No podè dir che m’abiè visto a parlar co nissun.

PASQUAL. Mi no vogio che stè in altana. Sè troppo bassa.

BETT. Se passerè, no ve vederò.

PASQUAL. Co passerò, subierò. No me fe andar in còlera.

BETT. No, vissere, no andar in còlera, che farò a to muodo.

PASQUAL. Ma ogio mo da star sempre qua impalao([13])?

BETT. Cossa voressistu far?

PASQUAL. Vegnir in casa.

BETT. Oh, in casa no se vien.

PASQUAL. No? Per cossa?

BETT. Le pute da ben no le receve in casa i morosi.

PASQUAL. Me la disè ben granda! Toni, el segondo zorno che l’ha fato l’amor con Pasquetta, el xe andà in casa de più de diese, e Tonina ghe ne tiol in casa quanti ghe ne va.

BETT. Se le fa mal, so dano. Mi son una puta da ben.

PASQUAL. E mi cossa songio? Qualche scavezzacolo([14])?

BETT. No, no digo questo. Sè un puto bon e modesto; ma in casa no se vien per adesso.

PASQUAL. Quando donca ghe vegnirogio?

BETT. Co m’averè dao el segno([15]).

PASQUAL. El segno ve lo dago anca adesso.

BETT. M’aveu gnancora fato domandar?

PASQUAL. Mi no; no gh’avè né pare, né mare.

BETT. Gh’ho ben mia sorela maridada. Ela la me xe in liogo de mare.

PASQUAL. Ben, parlerò mi con ela.

BETT. Fe quel che volè; ma sentì, bisogna dirlo anca a sior Pantalon.

PASQUAL. Gossa gh’ìntrelo quel vecchio? Xelo vostro barba?

BETT. El xe un mio benefator, che m’ha promesso la dota.

PASQUAL. Piase? Gh’avè un benefator? Ho inteso. So che ora che xe.

BETT. Coss’è, sior pezzo de strambazzo? Cossa credeu? Che sia qualche frasca? Son una puta da ben, onorata. Se gh’ho un benefator, el xe un vecchio, che lo fa per carità. Me maravegio dei fati vostri.

PASQUAL. Mo via, no andè in còlera.

BETT. Co i me intaca in te la reputazion, no varderia in tel muso a mio pare.

PASQUAL. No me par d’aver dito...

BETT. Avè dito anca tropo.

PASQUAL. Eh via, averzì, che faremo pase.

BETT. Se sè mato, andeve a far ligar.

PASQUAL. Cussì me strapazzè? No me volè ben?

BETT. Ve vogio ben anca troppo; ma me preme la mia reputazion sora tuto.

PASQUAL. Donca cossa ogio da far?

BETT. Parlè co mia sorela.

PASQUAL. Co vostra sorela parlerò volentiera; ma no voria che ghe fusse quel aseno d’Arlechin vostro cugnà.

BETT. Aspetè, la manderò in corte.

PASQUAL. Sì ben, pol esser che femo groppo e macchia([16]).

BETT. Come sarave a dir?

PASQUAL. Che vegna in casa con ela.

BETT. Vegnirè, co sarà el so tempo. No vogio far come ha fato tante altre. Le ha tirà in casa i morosi, i morosi s’ha desgustà, e ele le ha perso el credito. Me arecordo, che me diseva mia mare povereta:

«Pute da maridar, prudenza e inzegno:

No stè a tirar i moroseti in casa;

Perché i ve impianta alfin co bela rasa,

E po i ve lassa qualche bruto segno». (parte)

SCENA SETTIMA

Pasqualino e poi Catte.

PASQUAL. Brava, cussì me piase. Se vede che la xe una puta da ben. Ho fato per provarla; ma se la me averziva la porta, mai più meteva pie in casa soa. So anca mi come che la va co le pute, e so che quando le averze la porta, la reputazion facilmente la va drento e fuora. Ma vien siora Cate so sorela. Se ho da dir la verità, me vergogno un puoco; ma bisogna farse anemo e parlar schieto.

CAT. El tempo se va iscurindo; ho paura che vogia piover. (osservando il cielo)

PASQUAL. Patrona, siora Cate.

CAT. Oh bondì siorìa, sior Pasqualin.

PASQUAL. La gh’ha paura de la piova?

CAT. Sì ben, perché ho fato lissia([17]). Vorave destender, ma no me fido.

PASQUAL. Se la fusse una puta, dirave che el so moroso ghe vol poco ben.

CAT. Ah, lo savè anca vu quel proverbio:

«Quando la puta lava, e vien el sol,

Segno ch’el so moroso ben ghe vol».

Ma ve dirò, no gh’ho miga lavà mi, savè. Ha lavà Betina, mia sorela; e se piove, xe segno che el so moroso la minchiona.

PASQUAL. E sì mo, el so moroso ghe vol ben e el dise dasseno.

CAT. Ma chi èlo sto so moroso? Lo cognosseu?

PASQUAL. Pussibile, siora Cate, che no lo sapiè?

CAT. Mi no, da dona onorata.

PASQUAL. Mi ve lo dirave; ma me vergogno.

CAT. Oh via, via, v’ho capìo. Ve cognosso in ti occhi. Vu sè quelo che ghe vol ben.

PASQUAL. Sì ben, xe la veritae. Betina xe la mia morosa.

CAT. Ma diseme, che intenzion gh’aveu?

PASQUAL. Intenzion bela e bona.

CAT. Come sarave a dir?

PASQUAL. De sposarla. E za che no la gh’ha né pare, né mare, e che vu sè so sorela e che sè maridada, ve la domando a vu per mugier.

CAT. Disè, fio, missier Menego, vostro pare, saralo contento?

PASQUAL. Mi no gh’ho dito gnente.

CAT. Che mistier gh’aveu per le man?

PASQUAL. Mio pare el voleva che fasse el barcariol; ma mi no lo vogio far. Piutosto meterò suso una botegheta e m’inzegnerò.

CAT. Botega de cossa, fio mio?

PASQUAL. No so gnanca mi. Me giera vegnù in testa de far el strazzariol([18]). Ghe n’ho visto tanti a scomenzar a vender de le scatole rote, dei feri vecchi e de le strazze su le balconae de le boteghe serae, e in poco tempo i ha messo peruca, i ha averto botegoni spaventosi, e i ha comprà de le masserie intreghe.

CAT. Sì, disè ben; ma la farina del diavolo la va tuta in semola. Co i vede che uno ha bisogno de vender, i paga do quelo che val sie; e co uno gh’ha vogia de comprar, i vende per dodese quelo che val quatro. E po quel nolizar la roba a certe fegure; fornir casa a certe squaquarine([19]). Basta, el xe un mistier che no me piase gnente.

PASQUAL. Meterò suso una botega da caffè.

CAT. Oh, caro fio, ghe ne xe tanti, che i se magna un con l’altro. Fuora dei primi posti e de le boteghe inviae([20]), credème che i altri i frize([21]). Quando un zovene averze botega da niovo, specchi, quadri, piture, lumiere, caffè d’Alessandria, zucchero soprafin, cosse grande. Tuti corre, per far aventori se ghe remete del soo, e po bisogna siar([22]); i aventori v’impianta e se canta la falilela([23]). Per far ben, bisognerave aver la protezion d’un per de quele zentildone salvadeghe([24]), che fa cantar i merloti: ma po no basta el cafè e le acque fresche. Chi vol la so grazia, bisogna baterghe l’azzalin([25]), e la botega da caffè la deventa botega da maroni.

PASQUAL. Donca cossa ogio da far?

CAT. Ghe penseremo. Mia sorela no gh’ha gnente a sto mondo. Ma un certo sior Pantalon dei Bisognosi gh’ha promesso, co la se marida, dusento ducati. Co queli v’inzegnerè.

PASQUAL. Caspita! Con dusento ducati posso averzer mezzà.

CAT. Saveu lezer e scriver?

PASQUAL. Un puoco.

CAT. Gh’aveu bona chiaccola?

PASQUAL. Parole no me ne manca.

CAT. Sì ben, in poco tempo farè la vostra fortuna. Presto presto deventè lustrissimo. Che bela cossa veder el pare in pope, e el fio sentà in trasto! Mia sorela de lavandera deventar lustrissima! Oe, de sti casi ghe n’ho visto più che no gh’ho cavei in testa. Pasqualin, stè alegramente, e no ve dubitè: parlerò a mia sorela, parlerò a sior Pantalon, e credo che faremo pulito. Parecchiè un bel anelo e a mi parecchieme la sansaria. (Povero puto, el me fa pecà! Son proprio compassionevole de la zoventù. Se no fusse maridada, mia sorela poderave forbirse la bocca. Varè([26]) co belo ch’el xe; se nol fa proprio cascar el cuor!) (da sé; parte ed entra in casa)

PASQUAL. Oh che cara siora Cate! La val un milion. Gh’ho speranza che per mi la farà pulito. Dusento ducati per qualcun no i xe gnente, ma per chi gh’ha giudizio i xe qualcossa. Certo che chi vol meter a l’ordene una novizza a la moda, ghe va la dota e la soradota; ma mi no farò cussì. Un per de manini, la so vesta e el so zendà, una vestina da festa, e basta. Disnar? Gnente. Nozze? Via! El pan dei minchioni xe el primo magnà. (parte)

SCENA OTTAVA

Camera in casa di Bettina

Bettina e Catte.

BETT. E cussì, coss’alo dito?

CAT. Ch’el ve vol per mugier.

BETT. E vu cossa gh’aveu resposo?

CAT. Che vederemo.

BETT. Dovevi dirghe de sì a dretura. Coss’è sto vederemo? La saria bela che el se pentisse. Sentì, se el me lassa, povereta vu, varè.

CAT. Ih! Ih! Sè molto insatanassada. Gh’avè una gran vogia de mario.

BETT. V’aveu maridà vu? Me vogio maridar anca mi.

CAT. Ben, abiè un poco de pazienza.

BETT. In sta casa no ghe vogio star più.

CAT. Se no volè star, andè via.

BETT. Vardè che risposte da mata! A una puta, se no volè star, andè via? Sentì, me vôi maridar, ma no vôi miga far come avè fato vu.

CAT. Cossa voressi dir? Come ogio fato mi?

BETT. Eh, ben ben. la fornera m’ha contà tuto. Taso perché sè mia sorela, no me vogio tagiar el naso e insanguenarme la boca([27]).

CAT. Senti sa, frasca. Te darò de le slepe([28]).

BETT. A mi slepe? Oh, la xe morta quela che me le podeva dar.

CAT. E mi te son in liogo de mare. Mi te dago da magnar.

BETT. Seguro! Vu me dè da magnar? Quel povero vecchio me manda la spesa a mi, e con quela vivè vu e vostro mario.

CAT. Certo, siora, ve fazzo anca la massèra.

BETT. E le mie scarpe? Vu me le avè fruae. Tuto el zorno in rondon([29]) co la mia vesta e col mio zendà. De boto no ghe n’è più filo.

CAT. E ben, fèvene far un altro.

BETT. Certo, i se impala i bezzi. Povero sior Pantalon. Ghe vuol descrizion.

CAT. Se el vol vegnir qua a seccarme la mare, sto vecchio minchion, ch’el spenda.

BETT. Se lo desgusterè, nol vegnirà più.

CAT. Cossa importa? Ghe ne vegnirà un altro.

BETT. Oh, questo po no.

CAT. Se ti savessi, minchiona; ghe xe un marchese che te vol ben.

BETT. Mi no ghe penso gnente.

CAT. Altro che sior Pantalon! El gh’ha i zechini a palae([30]).

BETT. Che el se li peta.

CAT. Nol vol miga gnente de mal; ghe basterave vegnir qualche volta a brusar un fasseto.

BETT. No, no, no, ch’el vaga, che el diavolo lo porta.

CAT. Uh povera mata! L’altro zorno l’è passà per cale, e tute ste done le ghe lassava suso i occhi. Se ti vedessi quant’oro ch’el gh’ha su la velada!

BETT. Voleu fenirla, o voleu che ve manda?

CAT. Via, via, frasconcela, un poco più de respeto.

BETT. E vu un poco più de giudizio.

CAT. Adesso adesso i pavari i mena le oche a bever([31]).

BETT. Siora sì, quando che le oche no le gh’ha cervelo.

CAT. Siora dotoressa de la faveta! Oh via, la se consola che xe qua el so vecchio. L’ho cognossuo in tel tosser. El me fa voltar el stomego.

BETT. Mi ghe vogio ben come s’el fusse mio pare, e lu el me trata come fia.

CAT. Gnanca a ti no te credo ve, mozzina maledeta!

BETT. Chi mal fa, mal pensa, sorela cara.

SCENA NONA

Pantalone e dette.

PANT. (Di dentro) Pute, se pol vegnir?

BETT. La vegna, la vegna, sior Pantalon.

PANT. La nostra casa xe deventada una galarìa. Sempre antigaggie.

PANT. Cossa feu, fie mie, steu ben?

BETT. Mi stago ben, e ela?

PANT. Cussì da vecchio.

CAT. Caro sior Pantalon, nol diga sta bruta parola. Lu vecchio? S’el par un omo de quarant’ani! In verità ch’el fa vogia, el consola el cuor. Giusto adesso disevimo ben de elo. Certo no gh’ho lengua bastante de lodarme de la so carità. Se nol fusse elo, poverete nu. Mio mario no vadagna. I vadagni de le done se sa cossa che i xe. No me vergogno a dirlo, ancuo no savemo come far a disnar. El ciel l’ha mandà. Sìelo benedeto! Me dónelo gnente?

BETT. (Oh che gaìna([32])! Oh che finta!) (da sé)

PANT. Cara fia, dove che posso, comandeme; savè che lo fazzo de bon cuor; tiolè sto mezzo ducato, andeve a comprar qualcossa.

CAT. El cielo ghe renda merito. La resta servida, la se comoda. Betina gh’ha da parlar. Vago a comprar una polastra. Bondì a vussustrissima. (Per mezzo ducato se pol far manco che minchionar un vecchio?) (da sé, parte)

SCENA DECIMA

Pantalone e Bettina

PANT. (Sta dona va via e la ne lassa soli. Vardè che poco giudizio. Sta puta no la sta ben in sta casa; ghe remedierò mi). (da sé)

BETT. Xelo straco? Che el se senta.

PANT. Sì ben, fia mia, me senterò; senteve anca vu.

BETT. Sior sì; farò la mia calza.

PANT. Eh, no importa che laorè. Senteve qua, e parlè un pocheto con mi.

BETT. Se parla co la boca, e no co le man. Vogio mo dir che se pol parlar e laorar.

PANT. Brava, sè una puta valente: ma diseme, cara vu, voleu sempre star in casa co vostra sorela?

BETT. Oh questo po no.

PANT. Cossa mo gh’averessi intenzion de far?

BETT. Mi, sior Pantalon, no me vergogno gnente a dirghe la verità. Mi me voria maridar.

PANT. No la xe gnanca cossa da vergognarse. Megio maridada, che puta. Diseme, fia mia, gh’aveu mo gnente che ve daga in tel genio?

BETT. Sior sì, gh’averave mi un caeto che no me despiase.

PANT. Cara fia, chi xelo?

BETT. Oe, mi no posso taser. El fio de missier Menego Cainelo.

PANT. Sentì, Betina, mi no ve digo che quel puto no sia da ben e de boni costumi; ma bisogna considerar che nol gh’ha mistier. A far i maridozzi se fa presto, ma po bisogna pensar a quel ch’ha da vegnir. Co no gh’è da magnar, l’amor va zoso per i calcagni([33]).

BETT. Pazienza! Se incontrerò mal, ghe penserò mi. I me dirà: astu volesto, magna de questo([34]).

PANT. Oh, quante che ho sentio a dir cussì, e po, co le s’ha visto in miseria, piene de fioi e de desgrazie, le ha maledio l’ora e el ponto che le s’ha maridao. No, fia mia, no vogio che ve precipitè. Savè che ve vogio ben, ma de cuor; non abiè tanta pressa. Chi sa, pol esser che ve capita qualche bona fortuna.

BETT. Eh, sior Pantalon, a una povereta no ghe pol capitar fortuna.

PANT. Una puta onorata pol esser sposada da chi se sia.

BETT. Xe passà el tempo che Berta filava. Me recordo che me contava la bon’anema de mia nona, e anca de mia mare che ai so zorni se stimava più una puta da ben, che una puta rica. Che quando un pare voleva maridar un fio, el cercava una puta de casa soa, modesta e senza ambizion, e nol ghe pensava né de nobiltà, né de bezzi, perché el diseva che la mazor dota che possa portar una mugier, xe el giudizio de saver governar una casa. Ma adesso se vede tuto el contrario. Una povera puta da ben, anca che la sia bela, nissun la varda. Per maridarse ghe vol do cosse: o assae bezzi, o poca reputazion.

PANT. No, Betina, no bisogna giudicar segondo le apparenze del mazor numero. Se fa anca adesso dei matrimoni a l’antiga, ma no i se sa, perché se parla più dei mati che dei savi. Chi se marida a forza de bezzi, se compra una galìa in vita. Chi se marida senza reputazion, se acquista la berlina per sempre; e chi fa far sta sorte de matrimoni, meriterave la forca. Via, non ve vogio sentir a far sta sorte de descorsi. Sapiè che fazzo tanta stima de vu, che se no fusse avanzao in etae, Betina... sì ben, no gh’averave difficoltà de tiorve mi per mugier.

BETT. Ben, ben, la ringrazio del so bon amor. (si scosta un poco)

PANT. Coss’è? Cossa vol dir? Ve tirè da lonzi([35]). Aveu paura de starme arente([36])?

BETT. (No voria che la carità de sto vecchio deventasse pelosa). (da sé)

PANT. Orsù, parlemose schieto. Mi v’ho tiolto a proteger per carità. V’ho promesso de maridarve; v’ho promesso dusento ducati; son galantomo, ve ne darò anca tresento, ma no vogio butarli via, no vogio che ve neghè. Ve torno a dir, colona mia, che se no ve despiasesse sta etae... se no v’importasse tanto d’un zovene che ve poderia rovinar, e fessi capital d’un vecchio che ve voria tanto ben...

BETT. Ancuo xe un gran vento. Con grazia, cara ela, che vaga a serar el balcon.

PANT. (Ho inteso, no femo gnente). (da sé)

BETT. Oimei, se sta megio.

PANT. Coss’è, fia mia, el mio descorso v’ha fato vegnir fredo? Che cade, parlerne schieto; respondeme con libertà.

BETT. Co la vol che ghe parla schieto, ghe parlerò. Mi fin adesso ho lassà che el me vegna per casa, perché no m’ho mai insunià che cussì vecchio el se avesse da inamorar: da resto, ghe zuro da puta onorata, che no l’averave lassà vegnir. Se el ben che el m’ha fato, el l’ha fato per carità, el cielo ghe ne renderà merito; ma se el l’ha fato con segondo fin, ghe protesto che l’ha speso mal i so bezzi. Se i dusento ducati per maridarme la me li vol dar de bon cuor, da pare e da galantomo, aceterò la so carità: ma se el gh’avesse qualche segonda intenzion, l’aviso che mi vecchi no ghe ne vogio.

PANT. Quel che ho fato, l’ho fato volentiera e lo farò in avegnir. Sì ben, sarò mi vostro pare; ve tegnirò sempre in conto de fia. Me consolo de véderve cussì bona, cussì sincera. Me vergogno de la mia debolezza, e bisogna che pianza, no so se per causa vostra o per causa mia.

BETT. Oh via, sior Pantalon, la vaga a Rialto, che xe tardi.

PANT. Sì ben, vago via, ma tornerò. Ve contenteu che torna?

BETT. Come che l’è vegnù fin adesso, el ghe pol vegnir anca per l’avegnir.

PANT. Sì ben, careta. (le fa uno scherzo)

BETT. Animo, un poco de giudizio. Se vede ben che i vecchi i torna a deventar puteli.

PANT. No so cossa dir. Ve vogio ben, ma no ve credè miga che ve vogia ben per malizia. Ve vogio ben de cuor, e vederè quel che farò per vu. Aspeto Lelio, mio fio, da Livorno. I me scrive ch’el xe riuscio più tosto mal che ben, onde subito ch’el vien, fazzo conto de maridarlo e ritirarme in ti mi loghi, sul Teragio. Se vorè, sarè parona de tuto.

BETT. Mi no vogio tante grandezze. Me basta quel che el m’ha promesso.

PANT. Fia mia, no ve ustinè in te la vostra opinion. Ascoltè i vecchi, e sapiè che la zoventù se precipita per voler far a so muodo. Più che se vive, più s’impara. Mi che ho vivesto più de vu, ve posso insegnar. Ve prego, acetè i mi consegi, se no volè acetar el mio cuor. Sième una fia obediente, se no ve degnè de deventarme mugier. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Bettina, poi Catte

BETT. Vogio el mio Pasqualin e no vogio altri. Quelo xe da par mio. No vogio entrar in grandezze. Ghe ne xe pur tropo de quele mate che per deventar lustrissime no le varda a precipitarse. I titoli no i dà da magnar. Quante volte se vede la lustrissima andar per ogio, con un fasseto sotto el zendà e un quarto de farina zala in t’un fazzoleto? Ghe n’è de quele che incontra ben e che de poverete le deventa riche; ma po le xe el béco mal vardà([37]). La madona no le pol veder; le cugnae le strapazza: la servitù le desprezza; el mario se stufa e la lustrissima maledisse la scufia e chi ghe l’ha fata portar.

CAT. Uh, sorela cara, son intrigada morta.

BETT. Cossa gh’è? Cossa gh’aveu?

CAT. Oh sia maledeto quando ho lassà quela porta averta.

BETT. Xe stà portà via qualcossa?

CAT. Eh giusto! Quel sior marchese che ve diseva, l’ha trovà averto, e el xe vegnù drento a dretura.

BETT. El xe un bel temerario. Presto, fèlo andar via.

CAT. Oh, figureve! El vien su per la scala. Gh’ho un velen che crepo.

BETT. E mi gh’ho paura che vu, siora...

CAT. Velo qua ch’el vien.

SCENA DODICESIMA

Il marchese Ottavio e dette

OTT. Buon giorno, giovinotte.

CAT. Strissima, sior marchese.

OTT. Siete voi la Catte?

CAT. Siora Cate, per servirla.

OTT. E quella è la Bettina vostra sorella?

CAT. Lustrissimo sì.

BETT. (Suo come un vovo fresco). (da sé)

OTT. Che vuol dire che non mi saluta nemmeno? (a Catte)

CAT. Povereta! La xe zoveneta, la se vergogna.

BETT. (Sia malignazo sta casa. Se ghe fusse un’altra porta, anderave via). (da sé)

OTT. Bella ragazza, vi riverisco. (a Bettina)

BETT. Strissima. (con rustichezza)

OTT. Ma perché così poco cortese?

BETT. Trato come so.

OTT. Se siete bella, siate anche buona.

BETT. O bela o bruta, no son per ela.

OTT. (Eppure questa sua sprezzatura mi alletta). (da sé)

BETT. (Sielo maledeto in te la peruca([38])). (da sé)

OTT. Signora Catte.

CAT. Lustrissimo.

OTT. Beverei volentieri un cafè.

CAT. Caffè nu no ghe ne avemo. Qualche feta de polentina.

OTT. Ma la bottega non è molto lontana. Potreste fare il favore d’andarlo a prendere. Tenete. (le dà del denaro)

CAT. Volentiera, lustrissimo.

BETT. (No no, no stè andar in nissun liogo). (piano a Catte)

OTT. Fate portare de’ bozzolai.

CATT. La vol dir dei buzzolai. Lustrissimo sì. Cari sti foresti! I gh’ha delle parole che fa inamorar. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Il marchese Ottavio e Bettina

BETT. (Gran poco giudizio de sta mia sorela). (da sé)

OTT. Venite qua; sedete. (il Marchese siede)

BETT. Mi no son straca.

OTT. Ma perché volete star in piedi?

BETT. Perché vôi vegnir granda.

OTT. Grande siete abbastanza. Sarebbe bene che diventaste un poco più grossa.

BETT. A ela no gh’ho da piaser.

OTT. Forse sì.

BETT. Oh, mi ghe digo de no.

OTT. No certo?

BETT. No seguro.

OTT. Ma sedete qui un poco.

BETT. Non posso in verità.

OTT. Non potete? Perché?

BETT. Perché no vogio.

OTT. Bene. Dunque mi leverò io.

BETT. (E mia sorela no vien). (guardando la porta)

OTT. Ditemi, sono d’oro quei smanigli? (accostandosi)

BETT. Sior sì, d’oro. (con cera brusca)

OTT. Lasciateli un poco vedere.

BETT. Che el vaga a veder la roba soa.

OTT. Non siate così ruvida.

BETT. Per lu no son né ruspia, né molesina.

OTT. La mano si tocca per civiltà.

BETT. Mi no son civil, son ordenaria.

OTT. Dunque datemi la mano per obbedienza.

BETT. Che el vaga a comandar a le so massère.

OTT. Io non pretendo comandarvi; ma vi dico bene, che un cavaliere par mio merita più rispetto.

BETT. Mi no so più de cussì, e se no ghe comoda, che el se la bata.

OTT. Mi mandate via?

BETT. Oh! l’ho mandà che xe un pezzo.

OTT. E non pensate che io posso fare la vostra fortuna?

BETT. Povera la mia fortuna! Sì ben, sti siorazzi co i ha speso diese ducati, i crede de aver fata la fortuna de una puta.

OTT. Voi non mi conoscete, e perciò parlate così.

BETT. Ma, el diga, me vorlo fursi per mugier?

OTT. Io no, perché ho moglie.

BETT. El gh’ha mugier, e el vien in casa d’una puta da ben e onorata? Chi credelo che sia? Qualche dona de quele del bon tempo? Semo a Venezia, sala. A Venezia ghe xe del bagolo([39]) per chi lo vol, ma se va sul liston in Piazza; se va dove ghe xe le zelosie e i cussini sul balcon, o veramente da quele che sta su la porta; ma in te le case onorate a Venezia no se va a bater da le pute co sta facilitae. Vu altri foresti via de qua, co parlè de Venezia in materia de done, le metè tute a mazzo; ma, sangue de diana! no la xe cussì. Le pute de casa soa in sto paese le gh’ha giudizio e le vive con una regola, che fursi fursi no la se usa in qualche altro liogo. Le pute veneziane le xe vistose e matazze; ma in materia d’onor dirò co dise quelo:

«Le pute veneziane xe un tesoro,

Che no se acquista cussì facilmente,

Perché le xe onorate come l’oro;

E chi le vol far zoso, no fa gnente.

Roma vanta per gloria una Lugrezia,

Chi vol prove d’onor, vegna a Venezia».

OTT. Brava la mia Bettina. (accostandosi)

BETT. Ghe digo che la tenda a far i fati soi.

OTT. Guardate questi orecchini. Vi piacciono? (tira fuori di tasca uno scatolino con un paio di pendenti di diamanti)

BETT. Gnente affato.

OTT. Se li volete, sono vostri.

BETT. Che el se li peta.

OTT. Sono diamanti, sapete?

BETT. No me n’importa un figo.

OTT. Oh via, v’intendo. Vorrete comprarli a vostro modo. Tenete questa borsetta di zecchini. (le mostra una piccola borsa)

BETT. A mi i bezzi no me fa gola.

OTT. Ma che cosa vi piace?

BETT. La mia reputazion.

OTT. Pregiudico io la vostra riputazione?

BETT. Sior sì; un cavalier in casa d’una povereta se sa che nol va per fogie de pori([40]).

OTT. Vi mariterò.

BETT. No gh’ho bisogno de ela.

OTT. Credete che io non sappia che siete innamorata di Pasqualino, figlio di Catinello?

BETT. Se el lo sa, gh’ho gusto che el lo sapia. Vogio ben a quelo, e no vogio altri.

OTT. Ora sappiate che Catinello è mio barcaiuolo.

BETT. De questo no me n’importa gnente.

OTT. Vedete che io posso contribuire alla vostra felicità.

BETT. In tel nostro matrimonio no la gh’ha da intrar né poco, né assae.

OTT. Io vi posso anche dare una buona dote.

BETT. Ghe digo che no gh’ho bisogno de ela.

OTT. Ah sì, avete il vostro mercante. Di quello avete bisogno. Quello vi gradisce.

BETT. Quelo xe un omo vecchio. El m’ha cognossua da putela, e la zente no pol pensar mal.

OTT. Orsù, meno ciarle. Viene egli in casa vostra? Ci posso e ci voglio venire ancor io.

BETT. In casa mia?

OTT. In casa vostra.

BETT. La sarave bela!

OTT. La vedremo.

BETT. Me ne rido de ela e de cinquanta de la so sorte. Qua ghe xe bona giustizia, e no gh’ho paura de bruti musi, sala? E se no la gh’averà giudizio, sta doneta, sti do soldi de formagio([41]), ghe lo farà acquistar, e farà che la se recorda, fin che la vive, de Betina veneziana.

OTT. (Costei è un diavolo). (da sé) Ma ecco il caffè.

SCENA QUATTORDICESIMA

Giovine col caffè e biscottini, e detti.

GIO. Strissima.

OTT. Favoritemi. Bevete un cafè. (a Bettina)

BETT. Mi no gh’ho bisogno del so caffè. Gh’ho un tràiero anca mi da cavarme una vogia.

OTT. Ma bevetelo per farmi piacere.

BETT. Giusto per questo no lo vogio bever. E ti sa, toco de sporco, se ti vegnirà più in sta casa, te buterò zo per la scala. (al Giovine)

GIO. M’ha mandao siora Cate...

BETT. Siela maledia ela, ti, e sto lustrissimo de faveta.

OTT. Eh via, siate buona, bevete il caffè, e poi me ne vado subito.

BETT. No vogio bever gnente. Credeu che no sapia l’usanza de vualtri siori? Subito per le boteghe: oe, sono stato dalla tale, gh’ho pagato il caffè; sono stato in conversazione; gh’ho toccato la mano. Eh, poveri sporchi! Betina no se mena per lengua.

OTT. Ma io non sono di quelli.

BETT. O de quei, o de quei altri, batevela, che farè megio.

OTT. Bevete il caffè.

BETT. No vogio.

OTT. Non mi fate andare in collera.

BETT. Varè che casi!

OTT. Quest’è un affronto.

BETT. No so cossa farghe.

OTT. Me la pagherete.

SCENA QUINDICESIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Coss’è sto strepito? Coss’è sto negozio? (osserva il caffè e i biscottini)

OTT. Chi siete voi?

ARL. Son el patron de sta casa.

OTT. Il marito forse della signora Catte?

ARL. Per servirla.

OTT. Oh caro galantuomo! Lasciate che io teneramente vi abbracci. Siete arrivato in tempo da farmi ragione. Vostra cognata con poca civiltà ricusa di bevere un caffè, ch’io mi son preso la libertà di far portare in casa vostra.

ARL. Nostra cognata ricusa de bever el caffè? Via, senza creanza, bevì quel caffè. (a Bettina)

BETT. Uh, puoco de bon! Me maravegio dei fati vostri. No vôi bever gnente.

ARL. Orsù, sta differenza l’agiustarò mi. Èla contenta? Se remettela in mi? (ad Ottavio)

OTT. Benissimo, in voi mi rimetto.

ARL. Dà qua quel caffè, qua quei buzzolai. (al Giovine) La osserva e la considera la prudenza dell’omo. Mia cugnada no vol gnente, e quando la donna no la vol, ustinada, no la vol. Mandarli indrio sarave un affronto a vussustrissima, onde per giustar la facenda de sto caffè e de sti buzzolai, me ne servirò mi; e che sia la verità, la staga a veder e la giudichi del spirito de sto toco d’omo. (va mangiando i biscottini bagnati nel caffè)

OTT. Bravo, mi piace. (Costui mi pare a proposito per il mio bisogno). (da sé)

BETT. Postu magnar tanto tossego.

OTT. (Sarà meglio che mi vaglia di lui, che ha della autorità sopra la cognata).

ARL. (Seguita il fatto suo)

BETT. (No vedo l’ora d’andar via da sta zente). (da sé)

OTT. Amico, buon pro vi faccia. (ad Arlecchino)

ARL. Védelo? Adesso xe giustà tuto. Gh’ala con mia cugnada qualche altra differenzia de sta natura? (il Giovine caffettiere parte)

OTT. (Ho da parlarvi da solo a solo). (piano ad Arlecchino)

ARL. Siora cugnada, poderessi far la finezza de andar via de qua?

BETT. Mi stago qua de casa.

ARL. No la vol andar via? Femo una cossa; troveremo un altro mezzo termine per giustar anca questa. Anderemo via nu. (ad Ottavio)

OTT. Farò come volete. Andiamo pure.

BETT. (Magari a quarti, co fa la luna). (da sé)

OTT. Bettina, vi saluto.

BETT. Strissima. (con sprezzatura)

OTT. Siete pur vezzosa.

BETT. (El xe pur mato). (da sé)

OTT. Eppure vi voglio bene.

BETT. (E pur no lo posso veder). (da sé)

OTT. Spero che un giorno vi moverete a pietà.

BETT. (Spero che un zorno i lo ligherà a l’ospeal). (da sé)

OTT. Amico, andiamo.

ARL. La vaga, che la perseguito.

OTT. Bettina, vi lascio il core. (parte)

BETT. Magari ch’el lassasse anca la coraela.

ARL. Vardè se sì mata! Recusar el caffè, recusar i regali. Una povera puta recusar le finezze d’un cavalier! Eh, cugnada cara, se farè cussì, farè la muffa. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Strada.

Bettina sola.

BET. Gran desgrazia de nualtre pute! Se semo brute, nissun ne varda; se semo un puoco vistose, tuti ne perseguita. Mi veramente no digo d’esser bela; ma gh’ho un certo no so che, che tuti me corre drio. Se avesse volesto, saria un pezzo che saria maridada, ma al tempo d’adesso ghe xe puoco da far ben. Per el più la zoventù i xe tuti scavezzacoli. Ziogo, ostaria e done, queste xe le so più bele virtù. Tanti se marida per quela poca de dota, i la magna in quatro zorni, e la mugier, in vece de pan, tonfi([42]) maledeti. E pur anca mi me vôi maridar, e credo che el mio no l’abia da esser compagno dei altri. Basta, sia come esser se vogia, no me n’importa. Dise el proverbio: Chi se contenta, gode. Xe megio magnar pan e ceola con un mario che piase, che magnar galine e caponi con un omo de contragenio. Sì ben, soto una scala, ma col mio caro Pasqualin. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Strada.

Il marchese Ottavio incontrandosi con Pasqualino

PASQUAL. M’ha dito sior pare che vussustrissima me cercava. Son qua a recever i so comandi.

OTT. Ah, siete voi figlio di Catinello?

PASQUAL. Lustrissimo sì, per servirla.

OTT. Bravo, mi piacete. Siete un giovine ben fatto.

PASQUAL. Tuta bontà de vussustrissima.

OTT. Ditemi, avete verun impiego?

PASQUAL. Lustrissimo no. Fin adesso mia mare m’ha mandà a scuola. Ho imparà a lezer e a scriver, e un puoco de conti, ma mio pare vuol che fazza el barcariol. Mi no so vogar. Sto mistier no me piase, onde me racomando a la protezion de vussustrissima, che la me fazza la carità d’impiegarme in qualcossa anca mi, gramo zovene, che me possa inzegnar.

OTT. Avete abilità da tener una scrittura?

PASQUAL. M’inzegnerò.

OTT. Avete buon carattere?

PASQUAL. No fazzo per dir, ma scrivo stampatèlo.

OTT. E bene, vi terrò al mio servizio. Averete due incombenze. Copierete le lettere, e terrete i libri della scrittura di casa.

PASQUAL. Grazie a la bontà de vussustrissima. Spero che no la s’averà da doler de mi.

OTT. Ma ditemi, caro... Pasqualino, non è vero?

PASQUAL. Ai comandi de vussustrissima.

OTT. Vorrei che mi parlaste con sincerità.

PASQUAL. Mi la sapia che busie no ghe ne so dir.

OTT. Mi è stato detto che siete innamorato, è vero?

PASQUAL. Gh’ala paura che no fazza el mio debito? Anca che fusse inamorà, no ghe saria pericolo che abandonasse el mezzà.

OTT. Non dico per questo; ma anzi, amando io la vostra persona, bramerei di sapere se siete innamorato con idea di ammogliarvi e stabilirvi in casa mia colla moglie ancora.

PASQUAL. (Oh magari!) (da sé) Per dirghela, lustrissimo, ho fato l’amor a una puta e ghe vogio ben, e se podesse, la tioria volentiera.

OTT. È giovine da bene e onorata?

PASQUAL. Come l’oro.

OTT. Non occorr’altro. Sposatela, e assicuratevi della mia protezione.

PASQUAL. Oh sielo benedetto! Vedo veramente che la me vol ben.

OTT. Ha dote questa ragazza?

PASQUAL. Un vecchio gh’ha promesso dusento ducati.

OTT. Non è bene che cotesto vecchio le dia la dote. I dugento ducati glieli darò io.

PASQUAL. Oimè! Sento che l’alegrezza me sera el cuor.

OTT. In casa mia vi sarà destinata la vostra camera. Vostra moglie terrà le chiavi di tutto, e voi, se averete giudizio, sarete più padrone che servitore.

PASQUAL. Mi resto incantà.

OTT. Addio, Pasqualino, portatevi bene. Andate a ritrovare la vostra sposa e sollecitate le vostre nozze. I giovani stanno meglio colla moglie al fianco. Badano più al loro dovere. (O per una via, o per l’altra, Bettina verrà senz’altro nelle mie mani). (da sé)

PASQUAL. Lustrissimo, no so cossa dir. Vedo che la me vol un gran ben.

OTT. Oh, se sapeste quanto bene vi voglio! Basta, un giorno lo saprete. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Pasqualino, poi Menego

PASQUAL. Cossa mai porlo far de più? Darme do cariche in t’una volta, tiorme in casa, maridarme, darme la dota! Porlo far de più? De ste fortune se ghe ne trova poche.

MEN. Coss’è, sior canapiolo([43]) dal tabarielo? Seu gnancora stufo de sticarla([44]) da cortesan? Me par che sarave ora de meterve la valesana, la vostra baretina rossa, e col vostro cievoleto([45]) in man trarve fuora e laorar per el mastego([46]).

PASQUAL. Eh, missier pare, altro che valesana e bareta rossa! Deboto me vederè co la peruca, col tabaro de scarlato e co la pena in rechia.

MEN. Comuodo? Senza che mi sapia? Coss’è sta novitae? Caro sior, la me la conta.

PASQUAL. El lustrissimo sior marchese, nostro paron, m’ha tiolto in tel so mezà.

MEN. E a mi no se me dise gnente? Cossa songio mi? Un pampano([47])?

PASQUAL. Col ve vederà, el ve lo dirà. No gh’avè gusto, missier pare, che sia impiegao?

MEN. Gh’averave gusto, se te vedesse montà su una pope; se te vedesse a un tragheto, o in casa de qualche paron; e far el mistier che fa to pare, che ha fato to nono, to bisnono, e tuta la nostra famegia. Cossa credistu, toco de frasca, ch’el mistier de barcariol no sia onorato e civil? Pezzo de mato! Nualtri servitori de barca in sto paese formemo un corpo de zente, che no se trova in nissun altro paese del mondo. Servimo, xe vero, ma el nostro xe un servir nobile, senza isporcarse le man. Nualtri semo i secretari più intimi dei nostri paroni, e no gh’è pericolo che da la nostra boca se sapia gnente. Nu semo pagai più dei altri, mantegnimo le nostre case con proprietà; gh’avemo credito coi boteghieri; semo l’esempio de la fedeltà; semo famosi per le nostre bote([48]), e per la prontezza del nostro inzegno; e sora tuto semo tanto fedeli e sfegatai per la nostra patria, che sparzeressimo per ela el sangue, e faressimo custion co tuto el mondo, se sentissimo a dir mal de la nostra Venezia, che xe la regina del mar.

PASQUAL. Xe vero, disè ben; lodo el vostro mistier, ma mi no lo so far.

MEN. Se no ti lo sa, imparelo; nissun nasse maestro, e l’omo fa tuto quelo ch’el vol.

PASQUAL. Ma v’ho da dir un’altra cossa, missier pare.

MEN. Dì suso mo.

PASQUAL. El paron me voria maridar.

MEN. Via, sporco! Maridarte! Come! Con che fondamento? Co la protezione del paron? Sì ben, ghe ne xe tanti e tanti che se marida co la dota de la protezion, ma po cossa succede? El protetor se stuffa; la dota va in fumo; la mugier la xe mal usada, e el mario patisse el dolor de testa. Tra de nu no se fa sta sorte de matrimoni. Le nostre mugier le xe poverete, ma da ben; polenta, ma a casa soa; sfadigarse, ma viver con reputazion; portar la bareta rossa, ma col fronte scoverto, senza che gnente ne fazza ombra. Abi giudizio: no far che te senta mai più a dirme che ti te vol maridar. Parechiete a montar in pope d’una gondola o d’un batelo, o a rampegarte su le scale de corda a piantar la bandiera sul papafigo. (parte)

PASQUAL. Che vol dir, in bon venezian, andar per mozzo su una nave. Pazienza. Tuto soporterò, ma xe impossibile che lassa la mia Betina. Mio pare me fa paura, ma se vol el paron, bisognerà che anca lu el se contenta. El me dise de la protezion, del dolor de testa, e de la reputazion. So benissimo cossa che el vol dir, ma mi digo che una mugier onorata pol star anca in mezo d’una armada; e ho leto a sto proposito un poeta venezian, che dise:

«L’omo sora la dona gnente pol,

Se la dona co l’omo gnente vol.»


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada con veduta di canale e casa di donna Pasqua.

Vedesi un battello carico d’erbaggi, che arriva con dentro donna Pasqua

e due barcaruoli di Pelestrina; poi Pasqualino di casa.

PAS. Qua, qua, fioi; arivè qua a sta riva. Olà, creature, ghe xelo mio mario? Bara Menego. (chiama verso la casa)

PASQUAL. Dona mare, seu vu? (esce di casa)

PAS. Sì, fio mio, vien qua, agiuteme che desmonta. (scende in terra)

PASQUAL. Cossa fali a Pelestrina? Stali ben?

PAS. Tuti ben, fio, tuti ben. Oe, portè in tera quele zuche baruche. (ai barcaruoli che scaricano gli erbaggi) Senti, ho portao de la farina zala e dei semolei, che faremo dei meggioti. (a Pasqualino)

PASQUAL. Brava, dona mare, brava.

PAS. Cossa fa to pare? Dove xelo ficao?

PASQUAL. El sarà dal paron. Oh, se savessi quanto che avemo criao!

PAS. Perché? Cossa xe intravegnuo? Co so via mi, sempre se cria.

PASQUAL. El vol che fazza el servitor de barca e mi no lo vogio far. No posso, no gh’ho genio, e no gh’ho abilità.

PAS. (Poverazzo, lo compatisso. Se vede che no l’è de razza de barcaroli. Oh, s’el savesse de chi l’è fio, povereta mi!) (da sé)

PASQUAL. Sior marchese me vol impiegar, e missier pare no vol.

PAS. To pare xe mato; lassa far a mi, fio mio, che lo farò far a mio muodo.

PASQUAL. Dona mare, mi me voria maridar.

PAS. Poverazzo! Sì ben, le mie raìse, maridete pur, se ti ghe n’ha vogia. Ho fato cussì anca mi, veh. De quindes’ani gh’aveva un putelo.

PASQUAL. Missier pare no vol.

PAS. Povero mato! I fioi, co i xe in ti ani, bisogna maridarli, se no... Basta, no digo altro. Dime, fastu l’amor?

PASQUAL. Sì ben.

PAS. Chi xela la to morosa?

PASQUAL. Betina lavandera, una puta da par mio.

PAS. (Se ti savessi chi ti xe, no ti diressi cussì). (da sé) So che la xe una bona puta, la cognosso, no la me despiase.

PASQUAL. Oh cara mare, me consolè tuto. Vago a dirghe a la mia novizza, che vu sè contenta. Ma se me volè ben, fe contentar missier pare. Ah, veramente xe la veritae, le mare le xe quele che gh’ha più compassion dei fioli. L’amor de mare supera tuti i altri amori del mondo. (parte)

SCENA SECONDA

Donna Pasqua sola.

PAS. Pur troppo xe la veritae, che l’amor de mare l’è grando. Per questo ho fato quel che ho fato. Per questo ho arlevà mio fio Pasqualin, che no xe mio fio, e scambiando in cuna el mio vero fio... O là, o là, paroni, con quela gondola, vardè che no me butè a fondi el batèlo (si vede arrivare una gondola, che obbliga il battello a ritirarsi) Toffolo. (al barcaruolo del battello) Daghe liogo. Sti barcarioli no i gh’ha gnente de descrizion. Mare de diana! Che se i vien a Pelestrina, vogio che ghe demo de le remae.

SCENA TERZA

Viene la gondola alla riva, da cui sbarcano Lelio, mezzo spogliato per aver remigato

in gondola, e Tita barcaruolo. Donna Pasqua in disparte.

LEL. Oh che gusto! Oh che gusto! Oh quanto mi piace questo vogare! Camerata, voglio che ci divertiamo. Venitemi a ritrovare, che daremo delle buone vogate.

PAS. (Vardè, un ricco che ha vogao; el sarà qualche solazier([49])). (da sé)

TIT. La xe ancora grezo([50]) in tel vogar, ma col tempo la se farà.

LEL. A Livorno vi è il porto di mare, e una parte della città si chiama Venezia nuova, perché vi sono alcuni canali. Là pure si remiga, cioè si voga, come dite voi altri, ma però in altra maniera.

TIT. Eh, lo so anca mi. I voga in drio schena a mo galioto.

LEL. Io ci aveva tutto il mio gusto. Era tutto il giorno col remo in mano.

TIT. Ma, la diga, no xela venezian ela?

LEL. Sicuro che son veneziano. Io son figlio del signor Pantalone de’ Bisognosi.

PAS. (Cossa séntio! Oimè, se me missia tuto el sangue). (da sé)

TIT. Ma perché no parlela venezian?

LEL. Perché sono andato a Livorno da ragazzo, e non me ne ricordo più.

TIT. Da mi comandela altro?

LEL. Ditemi, dov’è la miglior osteria di questa città?

TIT. Perché no cerchela la casa de so sior pare, e no l’osteria?

LEL. Oh, io ho tutta la mia passione per la bettola; anzi non voglio lasciarmi vedere da mio padre per qualche giorno, per godermi Venezia con libertà.

TIT. Ma se so sior pare lo vede, el se n’averà per mal.

LEL. Né egli conosce me, né io conosco lui. Sono andato a Livorno da ragazzo.

TIT. Mi sior Pantalon lo cognosso.

LEL. Caro camerata, non gli dite niente.

TIT. La perdona, cara ela, cossa fàvela a Livorno?

LEL. Mio padre mi ha posto colà a imparare la mercatura; ma io non ho imparato altro che a vogare, a pescare, a bevere, a bestemmiare e a menar le mani.

TIT. Se vede che l’ha fato del profitto. Me ne rallegro.

PAS. (Tiolè, velo là! Tuto so pare col giera zovene). (da sé)

LEL. Andiamo a bevere, che ho una sete che crepo. Ma, sentite, non voglio già pagar io; ce lo giocheremo alla mora. (parte)

TIT. Questa xe una vertù de più, che no l’aveva dito. (parte)

PAS. Vardè in che ponto che son vegnua! Povereta mi! Ho fato, ho fato, e non ho fato gnente. Ho baratà el putelo al sior Pantalon; gh’ho dà sto mio fio in vece del soo, credendo che el sia ben arlevao, e de vederme alegrezza; ma, tiolè su, el s’ha arlevà un baron; el xe pien de vizi, e adesso me vergogno che el sia mio fio. Ma taserò, no dirò gnente a nissun. Se el fusse bon, parlerave; ma za che el xe cativo, che sior Pantalon se lo goda. Mi vogio ben a Pasqualin, come che el fusse mio fio; se no l’ho fato, gh’ho dao del mio late, e sti petti el me li ha consumai tuti elo. Vogio andar a trovar mio mario; no posso più star, no vedo l’ora de butarmeghe a brazacolo. (parte)

SCENA QUARTA

Strada.

Pantalone, poi Pasqualino

PANT. Eppur quela cara puta no me la posso destacar dal cuor. Fazzo tutti i sforzi per tralassar de volerghe ben, e no ghe xe caso. L’ho cognossua da putela; l’ho bua in brazzo da pichenina. So mare, povereta, me l’ha racomandada; la ho assistia, e l’assisto per carità; ma son deboto in stato de domandarghe misericordia. El continuo praticar, la confidenza, la familiarità a poco a la volta la deventa amor, e co se scalda i feri, la prudenza la xe andada. Me fa da rider quei che vuol dar da intender che i va, che i pratica con indifferenza, senza passion, con amor platonico. Mati chi lo dise, e ispiritai chi lo crede. La pagia, arente el fuogo, bisogna che la se impizza. L’umanità se resente, e l’ocasion de le volte fa l’omo ladro.

PASQUAL. Patron, sior Pantalon.

PANT. Bondì sioria, sior.

PASQUAL. Èla contenta, che ghe daga un poco d’incomodo?

PANT. Za so cossa che volè dir. Sè inamorà de Betina, e la voressi per mugier.

PASQUAL. La l’ha indivinada a la prima.

PANT. E mi in do parole ve sbrigo. No ve la vogio dar.

PASQUAL. Mo perché no me la vorla dar?

PANT. Mi no v’ho da render altri conti. Ve parlo schieto, e batèvela.

PASQUAL. Songio fursi qualche baron?

PANT. Sè uno che no gh’ha pan da magnar.

PASQUAL. La sapia che me son liogà.

PANT. Sì, bravo; cossa feu, caro vecchio; andeu a vender zaleti caldi?

PASQUAL. Stago in casa de sior marchese per soto scrivan.

PANT. Me ne ralegro: el ve darà un bon salario; poderè meter su casa; traterè la mugier come una zetadina.

PASQUAL. Mi no gh’ho da pensar gnente. La menerò in casa del paron, e lu farà tuto quelo che bisogna.

PANT. Ah, la menerè in casa del paron! Vu no gh’avè da pensar gnente! Lu el farà tuto quelo che bisogna! Ah, ah, ah, che caro puto! Me piase, avè trovà un bon impiego, gh’avè un bon paron.

PASQUAL. Sior sì, e no gh’è bisogno che la s’incomoda dei dusento ducati, perché el paron el li vol dar elo.

PANT. Megio! Oh che garbato cavalier! Oh che puto de garbo! Oh che spirito! (Oh che aseno! Oh che minchion, se el lo crede!) (da sé)

PASQUAL. Donca xe fato tuto?

PANT. Oh! tuto.

PASQUAL. Posso andar...

PANT. Sì, andè.

PASQUAL. A tior...

PANT. Sì ben, a tior...

PASQUAL. La mia cara Betina.

PANT. El vostro diavoleto che ve strassina.

PASQUAL. Com’èla?

PANT. Come ve la digo.

PASQUAL. A mi?

PANT. A vu.

PASQUAL. Nol me la vol dar?

PANT. No ve la vogio dar.

PASQUAL. Ghe lo dirò a sior marchese.

PANT. Diseghelo anche a sior conte, che no ghe penso.

PASQUAL. Varè che sesti!

PANT. Varè che casi!

PASQUAL. No la xe vostra fia.

PANT. E gnanca la sarà to mugier.

PASQUAL. Anca sì([51])?

PANT. Anca no?

PASQUAL. Sior Pantalon, la se varda da un desperà.

PANT. Eh via, sior sporco, che i omeni de la to sorte me li magno in salata. Siben che son vecchio, me bogie el sangue in tel stomego, e la gamba ancora me serve per recamarte el canaregio([52]) de peae([53]).

PASQUAL. A mi peae?

PANT. A ti, toco de furbazzo.

PASQUAL. Sangue de diana! (si morde il dito, minacciandolo)

PANT. Co sta mula te vogio romper i denti. (gli vuol dare con una pianella)

SCENA QUINTA

Il marchese Ottavio e detti.

OTT. Olà, buon vecchio, portate rispetto a quel giovine, che è mio dipendente.

PANT. Coss’è sto bon vecchio? Chi xela ela, paron? El prencipe della Bòssina?

OTT. Sono il marchese di Ripaverde.

PANT. E mi son Pantalon dei Bisognosi.

OTT. Ah! Pantalone dei Bisognosi? Voi siete il protettore di quella ragazza che si chiama Bettina, non è così?

PANT. Giusto quelo per servirla.

OTT. Oh, bene, sappiate che quella giovine ha da esser moglie del mio scrivano.

PASQUAL. Che son mo mi. (a Pantalone)

PANT. Ha da esser?

OTT. Ha da essere.

PANT. Sior marchese, la vaga a comandar in tel so marchesato.

OTT. Tant’è, la ragazza è contenta, il giovine la vuole, e voi non lo potete, né lo dovete impedire.

PANT. Lo posso e lo devo impedir. Lo posso impedir, perché no la gh’ha né pare, né mare. So mare, che xe stada sempre beneficada da casa mia, me l’ha racomandada co la xe morta; mi l’ho sempre agiutada e mantegnua, però onoratamente e da galantomo, e mi gh’ho promesso de maridarla. Senza la mia aprovazion lo devo impedir, perché sta sorte de matrimoni i omeni onesti no i li ha da lassar correr. Sto povero gnoco([54]) no se n’acorze de la fegura che l’ha da far. Nol sa che el gh’averia da far in sto matrimonio, come la pertega co la vida. La pertega sostenta la vida fin che vol el paron; ma quando el paron ha magnà l’uva, e che la vida perde le fogie, anca la pertega se trà sul fuogo. A bon intendidor poche parole. Sior marchese, la m’ha capio. Ghe serva de regola, e la sappia che Pantalon dei Bisognosi, siben che l’è marcante, el sa le bone regole de la cavaleria, e siben che porto sta vesta e sto pistolese([55]), a le occasion so anca manizar la spada. (parte)

SCENA SESTA

Il marchese Ottavio e Pasqualino

OTT. Vecchio pazzo, senza giudizio. Ora son più che mai impegnato. La voglio vedere, se credessi di rovinarmi. Lo farò bastonare. Dimmi, vuoi tu veramente bene a Bettina?

PASQUAL. La se imagina! No ghe vedo per altri ochi che per i soi.

OTT. La desideri per moglie?

PASQUAL. Piutosto sta sera, che domatina.

OTT. E bene, va subito alla casa di lei, sposala e conducila a casa mia. Lascia poi a me la cura d’accomodar ogni cosa.

PASQUAL. Ma, la vede ben...

OTT. Non replicare, non perder tempo.

PASQUAL. Ghe xe un’altra difficoltà...

OTT. Non voglio sentire difficoltà.

PASQUAL. Ma, se Betina no vol...

OTT. Che non vuole? E tu hai d’avere soggezione d’una donna? Le donne si fanno fare a nostro modo.

PASQUAL. Ma la xe una puta...

OTT. Putta o non putta, è l’istesso. Va là, sposala subito: conducila a casa, o a te pure darò un carico di bastonate.

PASQUAL. Bastonae?

OTT. Sì, bastonate.

PASQUAL. Vago subito.

OTT. E fa la cosa con risoluzione.

PASQUAL. Sfazzadon, càzzete avanti([56]).

OTT. Diavolo! La gioventù de’ nostri dì non ha bisogno di questi stimoli.

PASQUAL. Se gh’ho da dir la verità, son inamorà: ma son un poco poltron. (parte)

SCENA SETTIMA

Il marchese Ottavio, poi Lelio

OTT. Mi basta che sia spiritoso in questo, poi mi saprò prevalere della sua dabbenaggine. Ma gran temerario di quel vecchio! Deridermi? Minacciarmi? Ed io soffrirò una simile ingiuria? Non sarà mai vero, mi voglio vendicare. Voglio fargli vedere chi è il marchese di Ripaverde. Dirmi che sa maneggiare la spada? Come non vi fosse differenza fra lui e me? Come se un mercante potesse sfidare alla spada un cavaliere? Gli farò romper le braccia, e poi metter mano alla spada.

LEL. Oh che vino! Oh che vino! Dicevano che a Venezia non v’è vino buono; ed io dico che il vino vicentino è migliore del vino di Chianti, che si beve a Livorno.

OTT. Costui mi pare una certa figura... Galantuomo, vi saluto.

LEL. Servo di vostra eccellenza. (Questo sarà qualche gran signore). (da sé)

OTT. Siete forestiere?

LEL. Livornese, ai suoi comandi. (Non mi voglio dar a conoscere). (da sé)

OTT. Se è lecito, che mestiere è il vostro?

LEL. Il vagabondo, per servirla.

OTT. Bel mestiere!

LEL. Bellissimo. M’è sempre piaciuto.

OTT. Ma come lo esercitate?

LEL. Come posso.

OTT. Giocate?

LEL. Qualche volta.

OTT. (Costui all’aria dovrebbe essere qualche sicario). (da sé)

LEL. (Mi dispiace che non ho più danari, e se vado da mio padre, ho finito il buon tempo). (da sé)

OTT. Perdonatemi la confidenza con cui vi parlo: come vanno presentemente le vostre faccende?

LEL. Male assai.

OTT. Avete bisogno di denari?

LEL. (Non ne ho bisogno, ma necessità). (da sé) Vi dirò, signore: io, in un mese, fra giuoco, osteria e qualche altro picciolo divertimento, ho mangiati cento zecchini, la spada, l’oriuolo, i vestiti, la biancheria; e non ho altro che quello che voi vedete.

OTT. Dite, amico, come vi piace menar le mani?

LEL. Quando porta l’occasione, non mi faccio stare.

OTT. Avreste difficoltà di dar quattro bastonate ad un vecchio?

LEL. Niente affatto.

OTT. Bene, se risolvete di farlo, vi darò un paio di doppie.

LEL. (Un paio di doppie nel caso in cui sono, mi danno la vita). (da sé) Io non lo faccio per interesse; ma per non parere superbo, le prenderò.

OTT. La sorte ci favorisce. Eccolo che viene. Bastonatelo, ma non lo ammazzate, e ditegli che il marchese di Ripaverde lo riverisce.

LEL. Sarete servito. Ma poi...

OTT. E poi venite al caffè qui vicino, che segretamente vi darò le due doppie. Vecchio pazzo, conoscerai chi sono. (parte)

SCENA OTTAVA

Lelio, poi Pantalone

LEL. Si può far meno per guadagnare due doppie? Ne ho fatte tante a Livorno! Mio padre pochi denari mi mandava, e se non mi fossi ingegnato col mio giudizio e colla mia abilità, non avrei potuto mantenere i miei vizi. Ma ecco l’amico. Povero vecchio, mi fa compassione.

PANT. (Sto mio fio no vien; cossa vol mai dir sta tardanza! Xe pur vegnua la coriera de Fiorenza). (da sé)

LEL. (Se lo bastono così all’improvviso, ho paura che caschi morto. Sarà meglio farlo con un poco di buona maniera). (da sé)

PANT. (Oh, che bruto muso!) (da sé, osservando Lelio)

LEL. Servitor divotissimo.

PANT. Patron mio reverito.

LEL. Se si contenta, avrei da dirle due parole.

PANT. La se comoda pur.

LEL. Sappia, signore, ch’io son un galantuomo.

PANT. Cussì credo. (Ma a la ciera no par). (da sé)

LEL. E mi dispiace avergli a fare un brutto complimento.

PANT. Come sarave a dir?

LEL. Conosce ella il signor marchese di Ripaverde?

PANT. Lo cognosso.

LEL. Ha ella avuto niente con lui?

PANT. (Ho inteso; so che ora che xe). (da sé) Ghe xe stà qualcossa.

LEL. Ora, per dirgliela in confidenza, d’ordine suo io devo bastonarla.

PANT. La diga, no la poderave mo sparagnar sta fadiga; e più tosto chiappar un per de filippeti, e andar a bon viazo?

LEL. Oh, questo poi no; son un uomo d’onore. Ho promesso, voglio mantener la parola; ma senta, io non intendo di volerle romper l’ossa. Quattro sole bastonate; vossignoria caschi in terra, ed io me ne vado.

PANT. No sarà mai vero, che vogia soffrir sto affronto.

LEL. Ma chi è ella, in grazia? Qualche gran signore?

PANT. Son Pantalon dei Bisognosi.

LEL. (Oh diavolo! Mio padre!) (da sé)

PANT. Son cognossuo in sta città.

LEL. (Maledetto destino!) (da sé)

PANT. Affronti no me ne xe stà mai fati.

LEL. (Mi scopro, o non mi scopro?) (da sé)

PANT. E fin che gh’averò fiao, me defenderò. (mette mano allo stocco)

LEL. (Se mi scopro, dirà che son un figlio di garbo). (da sé)

PANT. (Me par che el gh’abbia paura). (da sé) Via, sior cagadonao, andè via de qua. (minacciandolo)

LEL. Signor, perdonate...

PANT. Via, furbazzo, che te sbuso el corbame.

LEL. (Mi conviene fuggir l’impegno). (da sé, parte)

SCENA NONA

Pantalone, poi Tita barcaruolo.

PANT. Ti scampi? Te ariverò, desgraziao. (volendo inseguir Lelio)

TIT. Saldi, sior Pantalon, con chi la gh’ala? (lo ferma)

PANT. Lassème andar; lassè che lo mazza colù.

TIT. Cossa gh’alo fato?

PANT. Un affronto.

TIT. Mo sala chi xe quelo?

PANT. Mi no. Chi xelo?

TIT. Quelo xe sior Lelio, so fio.

PANT. Come? Mio fio? Quelo? Eh via, no pol esser.

TIT. Ghe digo che el xe elo senz’altro.

PANT. Ma quando xelo vegnuo? Come? No so in che mondo me sia.

TIT. El xe arivà sta matina co la coriera de Fiorenza. L’è montà in gondola a Povegia, e l’ha vogà a mezzo fin a Venezia.

PANT. E nol vien da so pare?

TIT. Poverazzo! El se voleva un poco devertir.

PANT. Devertirse? Far el sicario? Bastonar so pare? Ah furbazzo! Ah infame! Ah desgrazià! Poveri i mi bezzi mal spesi! Sto bel mistier l’ha imparà a Livorno? L’anderà in galìa, l’anderà su la forca; e mi, povero pare, averò da suspirar. Andè là, trovelo, menèmelo a casa. Diseghe che  no son in còlera. No lo lassè andar via. Caro amigo, no me abandonè. Presto, corè. Dove saralo andà? Oh che fio! Oh che gran fio! (parte)

TIT. Pare e fio i me par do mati. Mi no ghe ne vogio saver. Dise el proverbio: chi gh’ha la rogna, se la grata([57]). (parte)

SCENA DECIMA

Camera di Bettina.

Bettina, poi Pasqualino

BETT. Tiro le rechie, e no sento a subiar. Pasqualin no vol che staga in altana, e gh’ho paura ch’el passa, e no sentirlo. Gran cossa xe sto amor. Tute le note m’insonio de elo. Tuti i mi pensieri i xe là con elo. Senza de elo son in tel fuogo, e col vien elo, me giubila el cuor. No vedo l’ora ch’el possa vegnir in casa liberamente. Gh’ho speranza che sior Pantalon se contenterà. El dise che nol vol, ma el xe tanto bon, che el farà po a mio muodo.

PASQUAL. Betina, seu sola?

BETT. Cossa védio! Vu qua? Chi v’ha dao licenza che vegnì in casa?

PASQUAL. Compatime, no ho podesto far de manco. Qua no gh’è tempo da perder. Bisogna che vegnì con mi.

BETT. Pian pian, sior, co sto bisogna che vegnì con mi. No son miga vostra mugier.

PASQUAL. Sarè mia mugier, se vegnirè con mi.

BETT. Moda niova. Prima andar col novizzo, e po sposarse? No, fradel caro, l’avè falada.

PASQUAL. Dove credeu che ve vogia menar?

BETT. Sposème, e po vegnirò dove che volè.

PASQUAL. Via, destrighemose, demose la man.

BETT. Sì ben, maridemose co fa i cani. Me parè un bel mato.

PASQUAL. Se savessi tuto, no diressi cussì.

BETT. Cossa ghe xe da niovo? Ho ben da saverlo anca mi. Senza de mi, no se fa la festa.

PASQUAL. Mio pare no vol che ve sposa. Sior Pantalon no vol che me tiolè. Gh’avemo tuti contrari.

BETT. Donca cossa voleu far? Menarme per el mondo a cantar de le canzonete?

PASQUAL. Ve menerò in casa de sior marchese.

BETT. Bravo! Pulito! M’imagino che sior marchese sarà contento.

PASQUAL. Anzi el me l’ha dito elo. L’ha tacà lite per causa mia co sior Pantalon; el me vol un ben de vita, e el me aspeta a casa co la novizza.

BETT. E mi ho da vegnir in casa de colù?

PASQUAL. Sì ben. Perché no?

BETT. El xe vegnù in casa mia a far el squinzio([58]); el me voleva dar un per de rechini, el me voleva tocar la man, e me voressi menar a casa soa?

PASQUAL. Oh, cossa séntio? Marchese maledetonazzo! Adesso intendo el ben che el me vol. No no, fia mia, no ve meno più, no ve dubitè. Mi, povero gonzo, ghe credeva; ma vu m’avè fato averzer i occhi, e mio pare sa quel ch’el dise. Donca l’è vegnù qua... el voleva sior sì, e ste cosse.

BETT. Sì ben, ma el se podeva licar i dei([59]).

PASQUAL. Oh, che cagadonao de marchese!

BETT. El l’aveva pensada ben lu, ma no la ghe xe andada fata.

PASQUAL. Ma donca cossa avemio da far? Se gh’avemo contra mio pare e sior Pantalon, e se me manca la protezion de sior marchese, no so che ripiego trovar.

BETT. Pazenzia, caro fio, el cielo ne assisterà.

PASQUAL. Ho paura de perderve.

BETT. No ve dubitè.

PASQUAL. Ah Betina, se me volessi ben!

BETT. Sto cuor xe tuto vostro.

PASQUAL. Anemo, adesso xe el tempo de farme veder che me volè ben. Semo soli, nissun ne vede, nissun ne sente. Tiolè suso la vostra roba, e scampemo via.

BETT. Mi scampar via? Betina far un azion de sta sorte? Pasqualin, no m’avè gnancora ben cognossua. Ve vogio ben de tuto cuor, con tute le viscere, ma no vogio perder per causa vostra la mia reputazion. No serve, che me disè: andemo, che ve sposerò. Co s’ha fato el mal, col matrimonio se ghe remedia; ma no bisogna far mal, per aver po da cercar el remedio. Anca che fusse vostra mugier, tute me mostrerave a deo, tute le dirave: varè quela che xe scampada de casa soa. Manco mal che el l’ha sposada. E anca vu, con tuto el ben che me volè, co fussi in còlera, me daressi de le botonae([60]), e me crederessi capace de far coi altri quelo che avesse fato con vu.

PASQUAL. Ma, care raìse, cossa avemio da far?

BETT. Volerse ben e aver pazenzia.

PASQUAL. Sior Pantalon ve mariderà con qualchedun altro.

BETT. Oh, questo po no.

PASQUAL. Missier pare me manderà via de Venezia.

BETT. Bisognerà che l’obedì.

PASQUAL. E Betina?

BETT. E Betina v’aspeterà.

PASQUAL. No, cara, ve stuferè([61]).

BETT. Piutosto morirò, che lassarve.

PASQUAL. Sento che me crepa el cuor.

BETT. No me fe pianzer, per carità.

PASQUAL. Ve vogio tanto ben.

BETT. Me sento morir.

PASQUAL. Ah, Betina, se destruzemo in lagreme, e poderessimo esser contenti.

BETT. Come?

PASQUAL. Se volessi vegnir con mi.

BETT. Se me volè ben, no me lo disè mai più.

PASQUAL. Sè troppo ustinada.

BETT. So una puta onorata.

PASQUAL. Ve sposerò.

BETT. E alora vegnirò con vu.

PASQUAL. E intanto?

BETT. E intanto vogième ben.

PASQUAL. E se intanto morisse?

BETT. Morir piutosto, ma se salva l’onor.

SCENA UNDICESIMA

Menego Calnello e detti.

MEN. Olà, sior fio, v’ho trovà sul fato mi. Cossa feu in casa de sta petegola?

PASQUAL. (Rimane mortificato)

BETT. Via, via, no strapazzè, che finalmente son una puta da ben e onorata.

MEN. Sì ben, sì ben, onorata. La va via la barca de Padoa([62]), la va via! Anemo, sior desgrazià, fuora de qua subito, e a casa sta sera faremo i conti.

PASQUAL. Missier pare, ve domando perdonanza...

MEN. Adesso, adesso te dago la perdonanza co una dozena de pugni. Batevela, sior puoco de bon.

PASQUAL. (Povera Betina! Me despiase per ela! Me sento el cuor ingropà). (da sé, piangendo parte)

SCENA DODICESIMA

Bettina e Menego

MEN. Fifa, fifa([63]), bernardon maledeto. (dietro a Pasqualino)

BETT. (L’ho dito, che se el vegniva in casa, nasceva qualche precipizio). (da sé)

MEN. E cussì, siora, che pretension gh’ala sora quel puto?

BETT. Mi? Gnente.

MEN. Cossa vienlo in casa vostra?

BETT. Mi no l’ho chiamà.

MEN. Se no l’avè chiamà sta volta, l’averè chiamà un’altra.

BETT. In casa mia nol ghe xe mai più vegnù.

MEN. Eh via!

BETT. No, da puta.

MEN. Zito, no disè ste brute parole.

BETT. Ma, caro missier Menego, sento che me tochè sul viso, e no posso più taser. Sì ben, vostro fio me fa l’amor, lu me vol ben a mi, e mi ghe ne vogio a elo, e s’avemo anca promesso; e giusto per causa vostra, siben in casa mia nol ghe xe mai vegnù, el s’ha tiolto sta libertà. Sì ben per causa vostra tuto lagreme e desperà, el xe vegnù a tentarme de scampar via. No l’ho volesto far, perché son una puta onorata; e vu me botizè, me strapazzè, me tiolè in cativo conceto! Pazenzia, tuto sofrirò per amor del mio Pasqualin. (piange)

MEN. (Poverazza! Adesso adesso pianzo anca mi). (da sé) Se lo volevi per mario, l’aveva da saver anca mi.

BETT. Tocava fursi a mi a vegnirvelo a dir? Nualtre povere pute cerchemo onoratamente de maridarse. Se vien un zovene a parlarne, e se el ne vol per mugier, no gh’avemo miga l’obligo de saver se el pare sarà contento. Contenteve, missier Menego, che avè da far con una puta da ben, che un’altra fursi a st’ora la v’averave fato deventar nono, avanti che deventessi missier([64]).

MEN. Fia cara, no so cossa dir. Ve compatisso, ma vedè che mio fio nol xe in stato de maridarse. El xe ancora zovene, e nol gh’ha muodo de mantegnir la mugier.

BETT. Mi no gh’ho pressa. Aspeterò quanto che volè.

MEN. (El babio([65]) no xe cativo, el moto no me despiase. Adessadesso el pare scomenza a vogar sul remo([66]) a so fio). (da sé)

BETT. (Me par ch’el vaga un pocheto molando([67])). (da sé) Via, caro missier Menego, abiè compassion de mi, no me lassè morir da la desperazion. So che sè un omo proprio, un omo da ben: gh’ho speranza che con mi no sarè crudel.

MEN. (Per diana, che ste lagreme le me muove per un altro verso). (da sé)

BETT. Sì ben, ve cognosso che me volè ben. Caro missier, lassè che ve basa la man.

MEN. Tiolè pur, fia mia.

BETT. Diseme niora, se me volè consolar.

MEN. Tuto quel che volè.

BETT. Oe, no strenzè tanto, che me fe mal.

MEN. Sè cussì delicata?

BETT. Via via, no me tochè i brazzi.

MEN. Se sarè bona con mi, mi sarò bon con vu.

BETT. Come? Cossa intenderessi de dir?

MEN. Mio fio no gh’ha né bezzi, né giudizio. Piutosto tendeme a mi.

BETT. Vostro fio el gh’ha più giudizio de vu, sior toco de vecchio mato. Andè via subito de sta casa. Gran cossa de sti malignazi omeni, che se i vede una dona, subito i se ingaluzza, e se i ghe toca una man, subito i perde el giudizio; e i vecchi i xe pezo dei altri. Vardè qua el bel sugetto! El cria al fio; nol vol ch’el fio fazza l’amor e po, chi ghe tendesse, el saria capace de far elo, quelo che el fio no xe capace de far. Sentì, o tardi, o bonora, Pasqualin sarà mio mario, e vu ve renego de missier, de parente e de prossimo.

MEN. Via, via, siora, no la se scalda el figao([68]). Credeva de trovar bonazza([69]), e per questo sperava anca mi poder dar una scorsizada per sto canal; ma perché vedo che s’ha levà vento, e la barca fa maresei, e perché no me piase vogar co la corente contraria, dago una gran siada. No ve pensè però miga che vaga a desparechiar, o che me cazza in t’una cavana a dormir; me ligherò a un palo; intresserò co la barca el canal, aciò, se no vogo mi, paroncina cara, no vegna gnanca a vogar mio fio. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Bettina sola.

BETT. Qua in sta casa nissun no voga. Sto canal nissun lo cognosse; e se ghe xe qualchedun che se creda de vegnir a chiapar i freschi, quando manco el se lo pensa, la bissabova lo porta via.

SCENA QUATTORDICESIMA

Catte, Pasqualino e detta.

CAT. Povereto! Vien qua, fio mio. (a Pasqualino)

BETT. Oh povereta mi! Coss’è sta cossa? So pare xe andà via adesso. No l’avè incontrà?

CAT. Eh, sì ben che l’ho visto. Giusto vegniva mi a casa, che Pasqualin voleva andar via. El pianzeva come un desperà. El m’ha fato pecà, e mi l’ho serà in magazen. So pare xe andà via, e mi l’ho tornà a menar de su.

BETT. Presto presto, ch’el vaga via.

PASQUAL. Ah cagna! Me volè veder morto.

BETT. Ma, cossa ogio da far? No sentìu che sussuri?

CAT. Uh, mata che ti xe! Senti, sorela, co l’è fata, l’è fata. Co sarè sposai, se giusterà tuto.

PASQUAL. L’è quela che digo anca mi.

BETT. Ma come avemio da far a sposarse? Voleu che lo femo qua? Qua no se pol; no ghe xe né compari, né testimoni.

CAT. Fe una cossa, Pasqualin, deghe el segno, e domatina ve andarè a sposar.

PASQUAL. Betina, se ve lo darò, lo tioreu el segno?

BETT. El segno?

PASQUAL. Sì ben; ve darò sta turchese.

BETT. Quela turchese?

CAT. Via via, no far la vergognosa, che ti ghe n’ha più vogia de elo.

PASQUAL. Deme la man.

BETT. Mi no.

PASQUAL. Come voleu che fazza a meterve el segno?

BETT. Me lo meterò mi da mia posta.

CAT. Vegnì qua, vegnì qua. Cussì se fa. (aiuta Pasqualino a metter l’anello in dito a Bettina)

PASQUAL. Oh cara! (le stringe la mano)

BETT. Via, sior baron.

PASQUAL. Semo promessi.

BETT. Ma no semo sposai.

CAT. De diana! avemo dao el segno senza far un puoco de nozze? Gnanca se fossimo tanti pitochi.

BETT. Eh, gh’ho altro in testa che nozze!

PASQUAL. Se missier pare el savesse, povereto mi!

CAT. Vostro pare el xe andà via e nol se insonia che siè qua. Adesso gh’avemo un puoco de libertà. Poderessimo star un pocheto alegramente. Disè, Pasqualin, gh’aveu bezzi?

PASQUAL. Mi no gh’ho altro che do ducati d’arzento; ve ne darò uno, tiolè.

CAT. Cossa voleu? Anca questo xe qualcossa. Tioremo un poco de moscato e un poco de buzzolai. Dèmelo, e lassè far a mi.

PASQUAL. Xe tanto che ghe fava le spese.

CAT. E co niovo che el xe.

PASQUAL. Ma no voria che perdessimo tempo, e che vegnisse zente.

CAT. Fe una cossa. Se volè, andè via. Se tioremo qualcossa per nu. Un bel galan([70]) per la novizza.

BETT. (Maledeta! La gh’ha magnà el ducato). (da sé)

PASQUAL. E a mi del ducato no m’ha da tocar gnente?

CAT. Oh che caro mato! Sì, fio, tuto; ti xe paron de casa! Evviva i novizzi; evviva i novizzi.

SCENA QUINDICESIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Bravi! Evviva i novizzi, evviva.

CAT. Tasè, stè zitto, che nissun ha da saver gnente.

ARL. Se magna?

CAT. S’ha fato le cosse cussì in scondon, e per adesso no se pol far gnente.

ARL. E vegnì in casa mia a far le cosse in scondon? Me maravegio dei fati vostri. In casa mia a maridarve senza portar da magnar? E ho anca da taser? Adesso vogio andar per tuta Venezia. Vogio trovar vostro pare, vôi trovar sior Pantalon, vôi chiamar tuta la comunità, aciò che se sapia che vu, sior poco de bon, vegnì in casa mia a maridarve, senza portar da magnar. (a Pasqualino)

BETT. Oh che scavezzacolo! Caro cugnà, abiè giudizio.

ARL. Che giudizio? Co no se magna, no gh’è giudizio che tegna.

PASQUAL. Abiè pazenzia.

ARL. No vogio aver pazenzia. Sti torti no li vôi soportar.

PASQUAL. Sarè el nostro precipizio.

ARL. No me n’importa gnente. Olà, zente. Sapiè che in casa mia... (va verso la porta)

BETT. Zitto. (ad Arlecchino)

CAT. Zitto. (ad Arlecchino)

ARL. In casa mia ghe xe uno... (va sulla porta)

PASQUAL. Zitto per carità.

ARL. El se fa novizzo, e no se magna. (come sopra)

BETT. Mo zitto.

CAT. Zitto.

ARL. El sposa mia cugnada. L’è Pasqua... (come sopra)

PASQUAL. Tiolè sto ducato, e stè zitto.

ARL. Zitto.

BETT. Seu contento?

ARL. Zitto.

CAT. Fareu più strepito?

ARL. Zitto.

PASQUAL. Seu contento che staga qua?

ARL. Zitto, zitto, zitto. Sè paron, comodeve, e fe pulito. (parte)

CAT. Anca questa l’avè giustada. (a Pasqualino)

PASQUAL. Sì, ma no gh’ho più gnanca un soldo.

CAT. Cossa importa? Ghe ne farè.

PASQUAL. Za che Arlechin m’ha portà via quel ducato, me faressi un servizio a darme indrio quelo che v’ho dà? (a Catte)

CAT. Siora, chiàmela? Vegno, vegno, siora Tonina, vegno. Siorìa fio. Stè qua, che adesso torno. (fingendo esser chiamata da una sua vicina) Questo no ti me lo cuchi([71]).

SCENA SEDICESIMA

Bettina e Pasqualino

PASQUAL. Vostra sorela la me par una bela dreta([72]).

BETT. No la xe storta certo, vedè. Ma via, via; curte le azze([73]). Andè a far i fati vostri.

PASQUAL. Tiolè; anca adesso me mandè via?

BETT. No se salo?

PASQUAL. No v’ogio dà el segno?

BETT. E per questo?

PASQUAL. Posso star co la mia novizza.

BETT. Sior sì, se no fussimo soli, se ghe fusse mia sorela, ghe poderessi star.

PASQUAL. Mi no me par che sta cossa nissun la usa?

BETT. Sior sì, che i la usa. Anzi ho sentio dir che le pute se varda più co le xe promesse, che avanti; perché co le xe novizze, i novizzi co la cossa de dir l’ha da esser mia mugier, i se tol de le libertà che no sta ben. Me recordo mia mare, povereta, che la me lo diseva: senti, se ti te maridi, no vogio brui longhi([74]); no vogio deventar mata a farte la guardia.

PASQUAL. Donca domatina se sposeremo.

BETT. Farò quel che volè.

PASQUAL. Me lo disè co la boca streta.

BETT. Certo che a farlo cussì, no gh’ho tropo alegrezza de cuor.

PASQUAL. Ghe vol pazenzia; almanco saremo sposai.

BETT. E po?

PASQUAL. E po... No so cossa dir.

SCENA DICIASSETTESIMA

Catte e detti.

CAT. Puti, puti, povereta mi! Xe qua sior Pantalon.

BETT. Oh, ve l’ho dito. No la finivi mai d’andar via. (a Pasqualino)

PASQUAL. Dove xelo?

BETT. L’ho visto ch’el vien in gondola. L’ariva giusto adesso su la fondamenta.

PASQUAL. Cossa ogio da far!

BETT. No so gnanca mi.

CAT. Fe una cossa. Caleve zoso da quel balcon.

BETT. Certo, povereto! Che vogio che el me se copa!

PASQUAL. Eh, el xe basso, no gh’abiè paura.

BETT. No vogio, no vogio.

CAT. Velo qua ch’el vien.

PASQUAL. Varè come che se fa. (corre, e salta dalla finestra)

BETT. Oh povereta mi! (corre alla finestra)

CAT. Lassa ch’el vaga, che dei omeni no ghe ne manca.

SCENA DICIOTTESIMA

Pantalone e dette.

PANT. Creature, dove seu?

CAT. Semo qua sior Pantalon.

PANT. Cossa fala al balcon Betina?

CAT. La varda el tempo.

PANT. Oe, bela puta, gnanca?

BETT. Oh, la xe ela, sior Pantalon? No l’aveva miga visto.

PANT. Gran attenzion a quel balcon! Bisogna che ghe sia qualcossa de belo.

BETT. Cossa vorlo che ghe sia? Mia nona in cuzzolon([75]).

PANT. Vogio mo veder mi cossa ghe xe. So mi quel che digo.

BETT. Che rabia ch’el me fa. Via, no se varda i fati d’altri.

PANT. (Va verso la finestra)

CAT. (Lassa ch’el vaga). (piano a Bettina)

BETT. (El tabaro?) (a Catte)

CAT. (Che tabaro?) (a Bettina)

BETT. (Pasqualin ha lassà el tabaro). (a Catte)

CAT. (Varè che mato!) (da sé)

BETT. Via, alo visto?

PANT. Siora sì; de chi xe sto tabaro? (lo porta con sé)

CAT. Varè che casi! De mio mario.

PANT. Mi no gh’ho mai visto tanto.

CAT. El se l’ha comprà l’altro zorno; ghe giera qualche machia, e mi l’ho messo al sol.

PANT. Orsù, vegnì qua, siora Betina, che v’ho da parlar.

BETT. La diga pur.

PANT. Quel vostro caro sior Pasqualin xe vegnù a parlarme per vu.

BETT. E cussì?

PANT. E cussì gh’ho dito de no.

BETT. Pazenzia.

PANT. Mo pazenzia, seguro. Ma ho savesto tuto. Ghe giera de mezzo un certo marchese. Basta, ghe remedierò mi. (osserva in dito a Bettina l’anello) Olà? Coss’è sto negozio? Aneli, patrona? Aneli?

BETT. (Oh povereta mi!) (da sé)

PANT. Lassè veder mo sta bela turchese?

CAT. Nevvero, sior Pantalon? No xela bela?

PANT. Seguro che la xe bela. Xelo qualche regalo? Xelo qualche segno?

BETT. Oh giusto! Segno. Varè cossa ch’el dise!

CAT. Nol la cognosse! La xe la mia turchese. Mio mario me l’ha scossa.

PANT. Bisogna che vostro mario abia sassinà qualchedun. Nol laora mai.

CAT. No la sa? L’ha eredità dai so parenti de Bergamo.

PANT. Sì, me consolo. E perché mo la vostra turchese ghe la feu portar a Betina?

CAT. Perché la man me xe vegnua grassa, e no la me sta più ben.

BETT. (Mi no so dove la le trova fora([76])). (da sé)

CAT. Anzi la vogio vender. A mia sorela la ghe sta tanto ben. Sior Pantalon, la ghe la doverave pagar a Betina.

PANT. La tioressi? (a Bettina)

BETT. Sior sì.

PANT. Quanto voleu?

CAT. Oe, l’ho comprada co m’ho fato novizza da quel orese de la Fortuna, che sta per andar a Castelo, e gh’ho dao vintioto lire, che ghe giera presente mio compare Tita, che anzi el m’ha imprestà cinquanta soldi che me mancava. Ho podesto tocar diese volte un zechin anche da la pistora([77]). La ghe domanda, se la xe la veritae; ma per esser elo, e acioché la gh’abbia mia sorela, per un zechin, se el la vol ghe la dago.

PANT. Tiolè, questo xe un zechin; e vu godè la turchese per amor mio.

BETT. Grazie, sior Pantalon.

CAT. (Anca questo xe bon. Chi no se agiuta, se niega([78])). (da sé) Senti, sorela, vògighe ben sa a quelo che t’ha donà la turchese.

BETT. E come che ghe vogio ben!

CAT. Puol esser che un zorno el sia to mario.

BETT. Cussì spero.

PANT. Comuodo? Olà? Diseu da seno?

BETT. Via via, sior Pantalon, nol staga subito a montar sui zimbani([79]).

PANT. Basta, la descoreremo. Sapiè, fia mia, che con quel sior marchese, che v’ho dito, avemo tacà barufa. El s’ha protestà che, per amor o per forza, el ve vol menar via; e so che ghe xe zente pagada, che sta note ha da vegnir a butarve zoso la porta. Son stà avisà da un dei so omeni che me cognosse, e che me vol ben.

BETT. Oh povereta mi! Cossa séntio?

PANT. Donca ho risolto che vu e vostra sorela montè in t’una barca con mi, e che andemo da vostra amia caleghera. La sta zo de man: nissun saverà gnente, e là sarè più segura.

BETT. Ma mi, sior Pantalon...

CAT. Sì ben, sì ben: el dise ben; no bisogna rischiarse. Andemo da nostra sior’amia. (No dubitar, che a Pasqualin ghe l’aviserò mi). (piano a Bettina) Gh’averemo più libertà.

PANT. Se no, precipitarè vu, e me farè precipitar anca mi.

BETT. No so cossa dir. Farò quel che la vol ela, sior Pantalon.

PANT. Brava, cussì me piase. Meteve la vostra vesta, el vostro zendà, e vegni via anca vu, siora Cate. Sta sera vegniremo a tior la roba.

CAT. Sior sì, sior sì, come che el vol.

BETT. Vago a vestirme.

PANT. Andè, intanto farò zirar la barca.

BETT. (El cielo m’agiuta. No vorave andar de palo in frasca([80]). Caro Pasqualin, dove xestu, anema mia. No te vorave perder; no vorave, che ti t’avessi fato mal). (da sé, parte)

CAT. Betina ghe vol ben, sala, sior Pantalon.

PANT. Diseu da seno, fia mia?

CAT. Sì, in veritae anca.

PANT. Credeu che col tempo...

CAT. Perché no? La lassa far a mi. A le pute bisogna farghe dei regali. Za, la senta, a sto mondo semo tuti compagni. L’amor vien da l’amor, e l’amor vien da l’utile, diseva una certa lustrissima che cognosso mi. Dàtoli fa mandàtoli([81]). (parte)

PANT. Pur troppo la xe la verità. A sto mondo tuti opera per interesse, e le done principalmente le xe pezo de le sansughe. No le se contenta mai. Mi spendo volentiera, acioché Betina se conserva una bona puta, e co la speranza che un zorno la me diga de sì. Chi sa? Le done le gh’ha certi momenti, certi ponti de stela, che no le pol dir de no, anca che le vogia. Tuto sta a conoscerli. Ma mi, che son volpe vecchia, anderò tastando, e una volta che troverò tenero, ghe impianto subito l’anelo matrimonial. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Strada.

Il marchese Ottavio e Brighella

BRIGH. Caro signor padron, no so cossa dir. Ho fato de tuto, ma non ho fato niente. Betina la xe ostinada, e so sorela, che saria una dona de giudizio, no la pol far far Betina a so modo. A le curte, in casa no se pol andar.

OTT. Se non vagliono le finezze, mi valerò della forza. La rapirò.

BRIGH. Questa xe la più facile per aver el so intento. Za, secondo quel che la m’ha comandà, ho trovà i omeni e i xe in barca che i n’aspeta. Poco ghe manca a la sera; se la vol, andemo, e destrighemose avanti che la ne scampa.

OTT. In questa occasione avrei meco volontieri condotto un certo livornese, che per menar le mani vale un Perù. Egli ha bastonato fieramente quel vecchio temerario di Pantalone.

BRIGH. Oh bravo, gh’ho gusto da galantomo.

OTT. Se si potesse rinvenire, sarei contento della sua compagnia.

BRIGH. Xelo quelo che ha parlà al caffè con vussustrissima?

OTT. Appunto quello, a cui ho date le due doppie.

BRIGH. La lassa far a mi, che se lo vederò, lo farò andar in barca.

OTT. Vanne subito, che anch’io, per non dar sospetto, verrò per altra parte.

BRIGH. La dise ben. Ghe la faremo veder a sta petegola. (parte)

SCENA VENTESIMA

Il marchese Ottavio, poi la marchesa Beatrice e Tita barcaiuolo.

OTT. Quando sarà nelle mie mani, si acquieterà.

BEAT. Tant’è, io non posso sofrire il moto dell’acqua. Mi sento venir male, e mi conviene andar più tosto a piedi.

TIT. Adesso, lustrissima, la lassa che liga la barca de là del rio, per no intrigar la riva. Desmonto a la fondamenta, passo el ponte, e son subito da ela.

BEAT. Fate presto, non voglio restar sola. (Tita parte)

OTT. (Ecco quella cara gioja della mia signora consorte). (da sé)

BEAT. (Ecco quel capo d’opera di mio marito). (da sé)

OTT. Bella figura, signora marchesa, per Venezia a piedi!

BEAT. Lo sapete, l’acqua mi fa male. Non poteva più: se non scendeva, assolutamente crepava.

OTT. (Oh almeno fosse stata in alto mare, non averebbe potuto scendere!) (da sé)

TIT. Son qua, lustrissima, son a servirla. (torna)

BEAT. Signor consorte, mi favorirà d’accompagnarmi?

OTT. Signora no, davvero.

BEAT. Ella è molto disobbligante.

OTT. Quanto ella è graziosa!

BEAT. Dunque dovrò andare a casa sola, a piedi, col barcaiuolo?

OTT. Dov’è il signor conte? Dove sono i di lei serventi?

BEAT. Sì, so perché ricusate di venir meco. Perché avete delle male pratiche.

OTT. Io? Pensate! Ho molto che fare ad attendere alla economia della casa.

BEAT. Sì, sì, alla economia. So tutto, signor marchese.

OTT. Di me?

BEAT. Di voi.

OTT. Male lingue, signora, male lingue.

BEAT. Se io posso vedere quella cara vostra Bettina, le voglio dare un buon ricordo.

OTT. Orsù, signora, badate voi ai fatti vostri, che io bado ai miei. Ecco qui, queste signore mogli vogliono fare a modo loro, vogliono frequentare le conversazioni, cicisbeare, divertirsi, e poi pretendono esser gelose dei loro mariti.

BEAT. Basta, so quel ch’io farò.

OTT. Signora marchesa, vien sera, vada a casa, che l’aria non l’offenda.

BEAT. Mi favorisca di venire con me.

OTT. Non posso servirla.

BEAT. Stassera si va alla commedia.

OTT. Buon viaggio.

BEAT. Siete aspettato anche voi.

OTT. Aspettino pure.

BEAT. Non verrete?

OTT. Signora no.

BEAT. Signor marchese, ho perduto dieci zecchini.

OTT. Perdesse la testa!

BEAT. E li ho perduti sulla parola.

OTT. Mi dispiace.

BEAT. Bisogna ch’io li paghi.

OTT. Li paghi.

BEAT. Bisogna che voi me li diate.

OTT. Servitor umilissimo. (parte)

BEAT. Bella maniera di trattar colla moglie! Quando i mariti si reggono così male, che cosa hanno a fare le donne? Una dama della mia sorta non ha da poter perdere dieci zecchini? Sì, ne perderò cento, dugento; e se a mio marito premerà l’onor della casa dovrà pagarli. Spende il marchese, voglio spendere anch’io; getta egli denaro, voglio gettarlo anch’io. Se va in rovina la casa, voglio poter dire d’aver avuta la mia giusta porzione. (parte col barcaiuolo)

SCENA VENTUNESIMA

Veduta di canale, colla gondola di Tita legata dalla parte opposta alla riva.

Vengono nel medesimo tempo due gondole, una condotta da missier MenegoCainello e l’altra la Nane barcaiuolo; e venendo una da una parte e una dall’altra, s’incontrano, e per la ristrettezza del canale, per ragione anco della gondola di Tita, non possono passare, e si fermano. Ciascheduno dei due pretende che l’altro retroceda, e dia luogo.

NAN. Sia ti, che vago de longo.

MEN. Anca mi vago de longo: dà indrio do vogae, che passemo tuti.

NAN. Mi indrio? Dà ti indrio, che ti va a segonda.

MEN. Mi so cargo, fradelo, no posso siar.

NAN. Gnanca mi no me movo: ghe n’ho tre in barca.

MEN. Se ti ti ghe n’ha tre, e mi ghe n’ho cinque.

NAN. O cinque, o sie, toca a ti a darme liogo.

MEN. Chi lo dise che toca a mi? Ti xe mato in te la testa. No ti vedi? Se dago indrio, gh’ho più de cinquanta barche per pope; bisogna che vaga fin in canal. Ti, co ti ha scapolao tre barche, ti me dà liogo.

NAN. Via, paron Menego, no ve fe nasar.

MEN. A mi ti me voressi insegnar? A mi che xe vint’ani che vogo in regata?

NAN. Se ti ti voghi in regata, e mi so el mio mistier, e te digo che a ti te toca siar.

MEN. Eh via, mòleghe.

NAN. Se no ti fussi più vecchio de mi, te vorave far siar a forza de remae.

MEN. Co quel muso?

NAN. Sì ben, co sto muso.

MEN. Via, va a vogar in burchio.

NAN. Via, va a vogar in galiota.

MEN. Xestu da Cavarzere, o da Pelestrina? Ah dindio!

NAN. Vustu zogar, che te buto la bareta in acqua?

MEN. Senti, gh’ho prudenza, perché gh’ho el paron in barca, da resto...

NAN. Anca mi gh’ho el paron, e vogio tirar de longo.

MEN. Credistu che no te cognossa, che ti xe barca da tragheto?

NAN. E cussì? Chi spende i so bezzi, xe paroni.

MEN. Olà, me dastu liogo?

NAN. No, stago qua fin doman.

MEN. Gnanca mi no me movo.

NAN. Piutosto a fondi, che siar.

MEN. Piutosto in tochi, che dar indrio.

NAN. Dà indrio, fionazzo d’una quinta in cope.

MEN. Sia ti, semenza de buovoli.

NAN. Mi so inchiodao, vara.

MEN. E mi incastro el remo. (pianta il remo in fondo del canale)

NAN. Cossa disela? Che daga indrio? Gnanca se la me dà diese zechini. Se la vol desmontar, che la desmonta, ma mi de qua no me movo. (si abbassa a parlare colle persone che sono in gondola)

MEN. Ma caro lustrissimo, ghe va de la mia reputazion; no vogio che colù con quela mozza, me la fazza veder a mi. (anch’egli parla con chi ha in gondola)

NAN. Coss’è sta mozza, sier omo de stuco?

MEN. Vustu zogar che te buto el fero in aqua?

NAN. Gh’ho dito, che se la vol desmontar, che la desmonta, che a mi no me n’importa del nolo. La vogio mo veder mi co sto sior da regata. (parla come sopra)

MEN. Lustrissimo sì, sarà megio che la vaga in terra. No dago indrio, se credo de perder el pan. (come sopra)

NAN. Vara! Per causa toa i mi spazizieri desmonta. Ti me la pagherà.

MEN. Son omo de darte sodisfazion.

NAN. Me parerave de rider a butarte in rio.

MEN. No gh’ho paura né de ti, né de diese de la to sorte.

NAN. Oà. Oà.

MEN. O aseno!

NAN. Ah porco!

MEN. Ah manzo!

SCENA VENTIDUESIMA

Sbarcano dalla gondola Nane, Pantalone, Catte e Bettina, ambe in zendale, e i detti.

PANT. Vardè, che diavolo de vergogna! Costori, per no siar; i obliga i spazizieri a vegnir in tera.

BETT. Oh, che paura che ho buo!

CAT. Anca mi tremo tuta, varè. Mai più vago in barca. Sior Pantalon, no vorave che el spasemo me fasse vegnir qualche mal, andemo a bever do soldeti de garba?

PANT. Perché no? Volentiera.

MEN. Lustrissimo, xe megio che la desmonta anca ela. Sto musso no vol dar liogo.

NAN. Tira el fiao.

SCENA VENTITREESIMA

Sbarca dalla gondola di Menego il marchese Ottavio con i tre uomini, Lelio e i detti.

OTT. Che vedo! Qui Bettina con sua sorella! Questa è quella che vado cercando. Prendete quelle donne e conducetele dove sapete. (prendono le due donne per le braccia)

BETT. Agiuto, agiuto!

CAT. Misericordia! (sono condotte via dagli uomini e dal Marchese)

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Pantalone, Lelio ed i due gondolieri.

PANT. Zente, soccorso, fermèli.

LEL. (Questi è mio padre). (da sé)

PANT. Ti ti è qua? Toco de desgrazià. Ti meriteressi che te mandasse in galìa; ma vien qua, agiùteme in sta ocasion, e te perdono tuto.

LEL. Cos’è questo tu? Che confidenza è questa?

PANT. No ti me cognossi che son to pare?

LEL. Voi mio padre? Che diavolo dite? Io sono di Toscana, e voi di Venezia; come potete esser mio padre?

PANT. Ma no seu vu Lelio Bisognosi?

LEL. Eh pensate! Io son Aristobolo Maccaleppi.

PANT. Me gera stà dito... basta, no sarà vero. (Me pareva impussibile ch’el fio volesse bastonar el pare). (da sé)

SCENA VENTICINQUESIMA

Tita barcaiuolo, e detti

TIT. Oh, sior Lelio caro, giusto vu ve cercava.

LEL. Zitto, in malora.

TIT. Sior Pantalon, ala fato pase co so fio?

LEL. Oh maledetto!

PANT. Con qual mio fio?

TIT. Qua, co sior Lelio.

PANT. Questo xe Lelio?

TIT. Oh bela! Questo.

LEL. Che ti venga la rabbia, barcaiuolo del diavolo. (parte)

PANT. Ah furbazzo! Ti me minchioni? Te chiaperò, desgrazià. E Betina? Povera colomba! La xe in te le man del falcon. E sto infame de mio fio? Povero pare! Povero Pantalon! Tra l’amor e la rabia me sento crepar el cuor. (parte)

SCENA VENTISEIESIMA

I tre gondolieri.

NAN. Anemo, adesso che ti xe vodo, dastu indrio? (a Menego)

MEN. Sia ti, che ti xe vodo come che son mi.

NAN. Vustu zogar che co sto remo te spaco la testa?

MEN. Vien a mezzo, se ti vol che te daga gusto.

NAN. In tera, se ti è galantomo.

TIT. Zito, fradei, zito, fermeve. Lasseme vegnir in barca, che ve darò liogo. Perché no l’aveu desligada? (va alla sua barca, passando per le altre due)

MEN. Me meravegio, fazzo el mistier come ch’el va fato. Le barche dei galantomeni no le se desliga, no le se manda a torzio. (a Tita)

TIT. Tiolè, andè, ch’el cielo ve benediga. (parte colla gondola)

NAN. Ti gh’ha rason che quel galantomo m’ha fato liogo; da resto, viva cochieto, che ti andavi a casa senza testa. (s’incammina colla gondola)

MEN. Te voleva tagiar a tochi, vara; e voleva ch’el pezzo più grando fusse una rechia. (fa lo stesso)

NAN. Spacamonti! (allontanandosi colla gondola)

MEN. Capitan Covielo! (allontanandosi colla gondola)

NAN. Ah musso!

MEN. Ah dindio! (maltrattandosi partono colle loro gondole)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa del Marchese con tavolino e lumi.

La marchesa Beatrice e Scanna usuraio.

BEAT. Venite, signor Scanna, venite in questa camera, che parleremo con più libertà.

SCAN. Mi vegno dove che la comanda.

BEAT. Ho premura di venti zecchini. Li ho perduti al gioco sulla parola. Mio marito non me li vuol dare; ed io, che sono una dama d’onore, voglio in ogni forma pagare.

SCAN. Benissimo, la gh’ha rason. Ma come vorla che femo a trovar sti vinti zecchini?

BEAT. Far un pegno.

SCAN. Gh’ala zoggie?

BEAT. Ho il mio fornimento. Non lo vedete?

SCAN. Ben. Su quello troveremo i vinti zecchini.

BEAT. Ed ho da privarmene?

SCAN. Se la vol i bezzi.

BEAT. (Oh maledetto gioco). (da sé)

SCAN. Cossa disela?

BEAT. (Se non pago il debito, non potrò più giocare, non potrò più andar alla conversazione). (da sé)

SCAN. (Eh, la vien zo senz’altro). (da sé)

BEAT. Via, tenete, vi darò gli orecchini. (Già si usano anco di perle false). (da sé)

SCAN. Oh! i recchini no basta. Cossa porli valer? Vinti ducati?

BEAT. Il diavolo che vi porti! Vagliono cento scudi.

SCAN. Ma i diamanti un zorno i val, un zorno no i val.

BEAT. E così, che facciamo?

SCAN. La me daga anca el zoggielo.

BEAT. Vi darò per venti zecchini il valore di cento doppie?

SCAN. Ben, se la vol de più, ghe darò anca de più.

BEAT. Io non ho bisogno d’altro che di venti zecchini.

SCAN. Questi la li ha da pagar; e no la vol gnente per tentar de refarse?

BEAT. Via, ne prenderò trenta, ma quanto vi darò di usura?

SCAN. Usura! La me perdona, mi no togo usura.

BEAT. Dunque...

SCAN. La farà el solito, quel che fa i altri. Sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi per ducato i altri mesi per un anno, con patto che se no la le scode drento de l’anno, le zoggie sia perse.

BEAT. E se io le riscotessi in tre o quattro giorni?

SCAN. Tant’e tanto bisogna pagar i sedese soldi per ducato del primo mese.

BEAT. E non è usura?

SCAN. El xe negozio.

BEAT. Vi vuol pazienza. (Maledetto gioco!) (da sé)

SCAN. Se la vol i so bezzi, ghe li dago subito.

BEAT. Mi farete piacere.

SCAN. La vegna qua, zecchini tutti de peso. (I cala almanco sie grani l’un). (da sé)

BEAT. Mi fido di voi.

SCAN. Uno, do, tre, quattro... (numerando i zecchini)

SCENA SECONDA

Il marchese Ottavio e detti.

OTT. (Mia moglie con un ebreo! Vediamo). (in disparte)

SCAN. Cinque, sie, sette, otto... (come sopra)

OTT. (Buono! E sono zecchini!) (osserva in disparte)

SCAN. Nove, diese, undese, dodese... (come sopra)

OTT. Signora moglie, mi rallegro con lei.

BEAT. (Che ti venga la rabbia! È venuto a tempo). (da sé)

OTT. Zecchini in quantità! Brava.

BEAT. Ma! quando il marito non ha discrezione, conviene che la moglie s’ingegni.

OTT. Fa qualche buon negozio?

BEAT. Impegno le mie gioje.

OTT. Fa bene. E per quanto, se è lecito?

BEAT. Lo saprete quando le averete a riscuotere.

OTT. Ma non si potrebbe sapere adesso?

BEAT. Signor no.

OTT. Galantuomo. Voi che avete più giudizio di lei, ditemi la verità, quanto le date?

SCAN. Trenta zecchini.

OTT. Ed ella vi dà in pegno le gioje?

SCAN. Lustrissimo sì.

OTT. Bene. E quanto paga d’usura?

SCAN. Non posso sentir sto nome d’usura. Avemo fatto el negozio de sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi i altri mesi per un anno.

OTT. Sì, questo è un negozio che l’ho sentito a proporre ancora, e so che in un anno si viene a pagar d’usura il trenta per cento; e riscuotendo il pegno il primo mese, si paga in ragion d’anno il cento cinquanta per cento. Signora marchesa, ella fa de’ buoni negozi.

BEAT. Il bisogno me lo fa fare.

OTT. E tutto per il giuoco.

BEAT. Quando la cosa è fatta, è fatta. La riputazione vuole che io paghi.

OTT. Ma è una bestialità il pagar tanto di usura.

SCAN. Maledetto quel nome di usura!

BEAT. Ma cosa si può fare?

OTT. Direi... piuttosto venderle quelle gioje.

BEAT. E poi?

OTT. E poi ne compreremo dell’altre.

BEAT. Ho paura di non vederle mai più.

OTT. Sapete che ho messo in vendita il mio palazzo. Vi comprerò gioje molto più belle di queste.

BEAT. Ma a venderle vi vuol tempo.

SCAN. Se la vol, mi le comprerò, e ghe darò i so bezzi subito. Quando domandela?

OTT. Bisogna farle stimare.

BEAT. Io non ho tempo da perdere.

SCAN. Se la vol, ghe darò intanto i trenta zecchini.

BEAT. Datemene quaranta.

SCAN. Che ghe li daga? (ad Ottavio)

OTT. Sì, contentatela.

SCAN. La toga; dodese la ghe n’ha avudo, e questi altri vintiotto fa quaranta.

OTT. Andiamo a far stimar le gioje.

BEAT. E il resto chi l’avrà?

OTT. Poco resto vi può essere, è vero, signor Scanna?

SCAN. Oh, poco seguro. Fazzo riverenza a vussustrissima. (Che bon matrimonio!) (parte)

OTT. (Son arrivato in tempo. Il resto non è tanto poco; servirà per i miei bisogni, e per procurar di rasciugar le lagrime di Bettina). (fra sé, parte)

BEAT. Chi sa? Con ventidue zecchini posso ritentar la mia sorte. Ma se il marchese non mi ricompra le gioje, ha da sentire. Chi è mai questa creatura che piange? Pare che sia in questa casa. Mi sembra che la voce venga da qualche altra camera. Qui vi è qualcheduno senz’altro. Alla voce sembra una donna. Sarebbe bella che mio marito... Non sarebbe la prima volta. Voglio chiarirmi. Se la porta sarà serrata, la farò buttar giù. Sugli occhi miei? In casa mia? Se vi è una donna, si pentirà di esser venuta. (parte)

SCENA TERZA

Altra camera del marchese con due porte, con tavolino e un lume.

Bettina sola.

BETT. Oh povereta mi! Cossa mai sarà de mi? Dove songio? In che casa songio? Chi mai xe stà che m’ha menà via? Mia sorela dove mai xela? Cossa dirà sior Pantalon? El mio Pasqualin cossa diralo? Cossa faralo, le mie raìse? Povero Pasqualin, dove xestu, anema mia? Perché no viestu a agiutar la to povera Betina, che te vol tanto ben? Se el lo savesse dove che son, son segura ch’el se buterave in fuogo per mi. Chi mai xe stà quel can, quel sassin, che m’ha fato sta baronada? Gh’ho paura ch’el sia stà quel marchese. Ma pussibile che in sta casa no ghe sia nissun? Oe, zente, agiuto, averzime, muoro. Maledeti sti omeni! O co le bone o co le cative, i la vol venzer seguro. Ma co mi nol farà gnente sto can. S’el me vegnirà intorno, ghe darò tanti pizzegoni e tante sgrafignaure, che ghe farò piover el sangue. (si sente sforzar una porta) Oimei! Coss’è sta cossa? I buta zoso la porta. Agiuto per carità, che no posso più.

SCENA QUARTA

La marchesa Beatrice e detta.

BEAT. Chi siete voi?

BETT. Una povera puta.

BEAT. Che fate qui?

BETT. Gnente.

BEAT. Chi v’ha qui condotta?

BETT. No so gnanca mi.

BEAT. Chi aspettate?

BETT. Nissun.

BEAT. Ma chi diavolo siete?

BETT. Mi gh’ho nome Betina, e son...

BEAT. Non occorr’altro; so chi siete. Siete la cicisbea del mio signor consorte.

BETT. E chi xelo sto sior, che nol cognosso?

BEAT. Cara! Nol conoscete? Il marchese di Ripaverde.

BETT. Sielo maledio, che nol posso veder, né sentir a minzonar.

BEAT. Nol potete vedere, e venite di notte in sua casa?

BETT. Questa xe casa de sior marchese?

BEAT. Per l’appunto.

BETT. Adesso vegno in chiaro de tuto. Elo xe sta quelo che m’ha tradio. Donca ela xe mugier de sto sior marchese?

BEAT. Sì, son quella. Che vorreste voi dire?

BETT. Cara lustrissima, no la me abandona, ghe lo domando per carità. Mi son una puta onorata. So mario ha fato de tuto per tirarme zozo. No ghe xe riuscio co le bone, e lu m’ha fato robar.

BEAT. Posso creder veramente quanto mi dite?

BETT. Ghe zuro da puta da ben, che la xe cussì; e se no la me crede, la lo vederà.

BEAT. Quand’è così, m’impegno di proteggervi e di darvi soccorso.

BETT. La sapia, lustrissima, che son promessa con un puto che la cognosse anca ela.

BEAT. Chi è questi?

BETT. Pasqualin, fio del so barcariol.

BEAT. Ed egli vi corrisponde?

BETT. Assae; ma tuto el mondo ne xe contrario.

BEAT. Lasciate far a me, che prometto di consolarvi. Or ora devo uscire di casa. Sola qui non vi voglio lasciare. Verrete con me.

BETT. Farò quel che la comanda, lustrissima.

BEAT. Verrete meco alla commedia.

BETT. Oh, la me perdona, no ghe son mai stada. Le pute no le va a la comedia.

BEAT. Le putte non devono andare alle commedie scandalose; ma alle buone commedie, oneste e castigate, vi possono, anzi vi devono andare; e se verrete meco, sentirete una certa commedia che forse vi apporterà del profitto.

BETT. Farò quel che comanda vussustrissima. Ma sior marchese?

BEAT. Mio marito verrà, non vi troverà più, e averà da far meco.

BETT. E el mio povero Pasqualin?

BEAT. Lo farò cercar da suo padre...

BETT. Oh, anca quel omo, se la savesse co contrario ch’el me xe!

BEAT. Non saprà per qual causa io lo cerchi.

BETT. Oh siela benedeta! La me farà una gran carità.

BEAT. Avete fame? Volete mangiare?

BETT. Eh, lustrissima, no, grazie. Più presto che andemo via, xe megio.

BEAT. Quand’è così, andiamo. Ma sento aprire quest’altra porta.

BETT. Giusto per de qua i m’ha ficà drento anca mi.

BEAT. Sarà mio marito, senz’altro.

BETT. Adesso stago fresca; scampemo via, per amor del cielo.

BEAT. No, faressimo peggio.

BETT. Velo qua ch’el vien.

BEAT. Spegniamo il lume. Fate quello che vi dico io, e non dubitate. (spegne il lume)

BETT. Adesso sì che me vien l’angossa.

SCENA QUINTA

Il marchese Ottavio dall’altra parte, e dette.

OTT. Bettina, ehi Bettina. (cercandola al buio)

BEAT. Rispondetegli. (a Bettina, sotto voce)

OTT. Bettina, dico. (come sopra)

BETT. Lustrissimo.

OTT. Perché avete spento il lume?

BEAT. (Parla nell’orecchio a Bettina, insegnandole cosa deve rispondere)

BETT. L’ho stuada, perché me vergogno. (ad Ottavio)

OTT. Dove siete? Ehi, Dove siete?

BEAT. (Come sopra)

BETT. Son qua.

OTT. Datemi la vostra manina.

BEAT. (Come sopra. Bettina non vorrebbe, ed ella la spinge)

OTT. Oh cara questa bella manina! (crede Bettina, ed è la Marchesa) Mi volete voi bene?

BEAT. (Come sopra)

BETT. Sior sì.

OTT. Sarete mia?

BEAT. (Come sopra)

BETT. Sior sì.

OTT. Avete avuto dispiacere, che io v’abbia condotto via?

BEAT. (Come sopra)

BETT. Sior no.

OTT. Dunque avete gusto?

BEAT. (Come sopra)

BETT. Sior sì.

OTT. Voi mi consolate, la mia cara Bettina.

BEAT. (Tira in disparte Bettina, e le parla come sopra)

BETT. Caro elo, son stufa de star al scuro. Vorave che l’andasse a tor una luse. (ad Ottavio)

OTT. Chiamerò qualcheduno.

BETT. No no, che no vogio esser vista.

BEAT. (Come sopra)

BETT. Che el vaga elo a torla.

OTT. Volentieri; vado subito. (Guardate come si è facilmente piegata. Eh, così è: colle donne bisogna usar violenza). (da sé, in disparte)

BETT. El xe andà via. (a Beatrice)

BEAT. Venite, venite meco. Passate in quest’altra camera, ed aspettatemi.

BETT. Ma no voria che nascesse...

BEAT. Non dubitate, lasciate la cura a me.

BETT. Se no moro sta volta, no moro mai più. (entra nell’altra camera)

SCENA SESTA

La marchesa Beatrice, poi il marchese Ottavio col lume.

BEAT. Oh, che caro signor consorte! Se l’aveva rinserrata in casa l’amica; ma eccolo che viene col lume.

OTT. Oh, eccomi qui... (crede trovar Bettina, e vede Beatrice)

BEAT. Che mi comanda, signor consorte?

OTT. Niente. (guardando qua e là per la camera)

BEAT. Che cerca vossignoria?

OTT. Niente. (come sopra)

BEAT. (Mi pare alquanto confuso). (da sé)

OTT. (Come diavolo è qui venuta costei!) (da sé, osservando come sopra)

BEAT. Ha perduto qualche cosa?

OTT. (Io ho pur parlato con Bettina). (da sé) Sì, signora, ho perduto.

BEAT. E che mai?

OTT. Ho perduto una gioja.

BEAT. La gioja che avete perduta, l’ho ritrovata io, ed è in mio potere. E voi, signor marchese, pensate meglio, che non si portano di quelle gioje in casa; che alla moglie si porta rispetto, e non le si dà questa sorta di mali esempi. (entra nella camera ove è Bettina, e serra la porta)

OTT. Io resto stordito, come la marchesa abbia saputo di questo fatto! Come ha potuto penetrare... Ma! Io all’oscuro ho parlato con Bettina; e ora dov’è andata? Ah sì, la marchesa me l’ha involata! Ma prima ch’ella me la faccia sparire da questa casa, vo’ ritrovarla, vo’ meco condurla. Son nell’impegno; se vi andasse la casa, voglio superare il mio punto. (parte)

SCENA SETTIMA

Segue notte. Strada.

Catte in zendale.

CAT. Dove songio? Dove vaghio? Co sto bocon de scuro no cognosso gnanca le strade. Almanco i impizzasse i ferali; ma s’aspeta la luna, ghe vuol pazenzia! Dove mai sarà la mia povera sorela! Chi mai l’ha menada via? Ah, certo no pol esser stà altro che sior marchese. Ma senza farne morir de spasemo, no podevelo dirmene una parola a mi, che ghe l’averave menada fin a casa? Me despiase de mi, poverazza, che no so dove andar, e gh’ho paura de dover star tuta sta note a chiapar i freschi. Almanco passasse qualche bona creatura, che se movesse a compassion.

SCENA OTTAVA

Lelio e detta.

LEL. Quanto mi piace la mia cara Venezia! Non me ne ricordavo più, perché son tanti anni ch’io manco. Ma queste donne particolarmente, queste donne, queste veneziane farebbero innamorare i sassi. Dove si trova mai tanta grazia? tanto brio? tanto garbo? Anco le brutte fanno la loro figura. Si sanno così bene accomodare, che incantano. Veder quelle che chiamano putte, puttazze. Oh, che roba! Oh che aria! Che vite! Che visi! Che balsamo! Che vitello da latte!

CAT. (Questo el me par un foresto). (da sé)

LEL. Parmi di vedere una donna. A tutte l’ore s’incontrano di queste buone fortune. Mi dispiace che son senza denari.

CAT. Vogio passarghe darente, per veder se lo cognosso. (s’accosta a Lelio)

LEL. Signora, così sola?

CAT. Pur tropo, per mia desgrazia.

LEL. Che cosa l’è succeduto?

CAT. Ho perso la compagnia, e no so andar a casa.

LEL. Vuol che io l’accompagni?

CAT. Magari.

LEL. Ha ella cenato?

CAT. Sior no.

LEL. Né anch’io.

CAT. Cénelo la sera?

LEL. Quando posso.

CAT. Come, quando el pol?

LEL. Intendo dire quando ho denari.

CAT. Sta sera xelo senza?

LEL. Son asciutto come esca.

CAT. (Ho trovà la mia fortuna). (da sé)

LEL. Vuol restar servita a bevere un bicchiere di moscato?

CAT. Mo se el dise che nol gh’ha bezzi?

LEL. Io mi fido di lei.

CAT. Che paga mi?

LEL. Pagheremo una volta per uno.

CAT. (Siestu maledetto!) (da sé) El moscato me fa mal.

LEL. In casa averà del buon vino.

CAT. Piccolo, la veda, piccolo.

LEL. Oh quanto mi piace il vino picciolo!

CAT. (L’è un sior degnevole. Oh, che bel forestiero che m’ho trovà!) (da sé)

LEL. Vuol che andiamo?

CAT. (Per no andar sola, bisognerà che gh’abia pazenzia). (da sé)

LEL. Io son così colle donne: quando ne ho, ne spendo; quando non ne ho, lo dico, e se me ne danno, ne prendo.

CAT. Mo a Venezia el ghe ne troverà poche, che ghe ne daga.

LEL. Favoritemi della mano.

CAT. Son qua. (Podevio trovar de pezo?) (da sé)

SCENA NONA

Pantalone con lanterna, e detti.

PANT. Ah cagadonao, ti xe qua? (a Lelio)

LEL. (Maledettissimo incontro! Mio padre ha preso a perseguitarmi). (da sé, fugge via)

PANT. Siora Cate, cossa vedio? Qua sè a st’ora? Cossa xe de Betina? Cossa fevi qua co mio fio?

CAT. Oh, caro sior Pantalon, quante lagreme che ho trato! Quanta passion ch’ho abuo! Semo stae chiapae tute do, come che l’ha visto. I n’ha menà no so dove, e i m’ha desligà mi, e i ha fato che vaga via. De mia sorela no ghe n’ho mai più savesto né niova, né imbassada.

PANT. E co mio fio cossa fevi?

CAT. So fio el xe quel martuffo([82])? Mi gnanca no lo cognosso. A st’ora no ghe vedo, e no so andar a casa. El s’aveva esebìo de compagnarme, e mi m’aveva tacà al partìo.

PANT. Gran desgrazià che xe colù! Siora Cate, mi gh’ho do gran travagi. Uno xe aver un fio cussì baron, che de pezo no se pol dar. L’altro aver perso cussì miseramente Betina. Per el primo sta note ghe remedierò. Ho trovà i zaffi, gh’ho dà la bona man, acciò che i lo liga, e che i ghe fazza per sta volta un poco de paura, e un’altra volta po ghe la farò dasseno. Per el secondo no so cossa dir; no so da che cao principiar. Gh’ho suspeto sul marchese. Dubito de Pasqualin. Gh’ho dei omeni che zira per mi. Farò tanto, che vegnirò in chiaro de la verità; e chi me l’ha fata, zuro da mercante onorato, che me l’averà da pagar. (parte)

SCENA DECIMA

Catte sola.

CAT. Oh che zuramento che l’ha fato! No digo che no ghe sia dei mercanti onorati, ma mi so, che se ho volesto sta carpeta in credenza, ha bisognà che la paga do lire al brazzo de più de quel che la val. Sto zendà i me l’ha venduo per zendà dopio da Fiorenza, e el xe da Modena; e co ghe porto el laorier indrio, i dise sempre che cala el peso, per tegnirme qualcossa su la fatura. No se pol più viver; i vol tuto per lori. Ma intanto stago qua al fresco, a parlar da mia posta co fa le mate. Vedo a vegnir un feral; sel va da le mie bande, ghe vago drio.

SCENA UNDICESIMA

La marchesa Beatrice mascherata in bauta, Bettina in vesta e zendà colla moretta,

zervitore col lampione, e detta.

BEAT. Così è. L’acqua mi fa male: non posso andar in barca e vado per terra.

BETT. Dove andemio, lustrissima?

BEAT. Alla commedia.

BETT. La me compatissa, no me par che la sia sera da andar alla comedia.

BEAT. Vi dirò: vado al teatro e vi conduco meco appunto per consegnarvi ad una mia parente, che troverò colà senz’altro.

BETT. Se me trova sior marchese, povereta mi!

BEAT. Se siete meco, non ardirà né men di mirarvi.

CAT. Betina, xestu ti?

BETT. Oimei! Tremo tuta. Chi è che me menzona?

CAT. No ti cognossi Cate to sorela?

BETT. Vu sè?

CAT. Son mi, sorela.

BETT. Oh cara, lassè che ve chiapa a brazzacolo.

CAT. Sì, vien qua che te basa. (si abbracciano)

BEAT. Chi è questa?

BETT. Mia sorela.

CAT. Son una dona da ben, sala? Cossa gh’ala paura? (alla Marchesa)

BETT. Coss’è de Pasqualin? (a Catte)

CAT. Oe, no l’ho gnancora visto. M’ho perso in sta cale, e no so né dove che sia, né dove che vaga.

BETT. Sorela cara, no posso più. Se no lo vedo, muoro seguro...

CAT. Dime, come xela andada?

BETT. Te conterò. Oh che cossazze!

CAT. E el marchese?

BETT. Giusto elo, quel bogia.

CAT. Ghe xe radeghi([83])?

BETT. In materia de che?

CAT. Se ti m’intendi?

BETT. Oh, gnente.

CAT. No xe puoco.

BETT. Gramarzè a sta lustrissima.

CAT. Chi xela?

BETT. So mugier.

CAT. Oh, cossa che ti me conti!

BEAT. E così, l’avete ancora finita? (a Bettina)

BETT. Adesso, lustrissima, vegno. E de sior Pantalon?

CAT. L’è passà de qua giusto adesso. El deventa mato.

BETT. Poverazzo! El me fa pecà.

BEAT. L’ora vien tarda. La commedia sarà principiata. (a Bettina)

CAT. Ti va a la comedia? (a Bettina)

BETT. Sì, per forza.

CAT. Oh, se podesse vegnir anca mi!

BETT. Lustrissima, se contentela che vegna anca mia sorela?

BEAT. Senza maschera?

CAT. Eh, m’imbaucherò col zendà, no la se indubita.

BEAT. Andiamo. (s’avanza col servitore)

BETT. No ghe n’ho gnente de vogia. (a Catte)

CAT. Vien via, che rideremo.

BETT. Pianzerave più volentiera.

CAT. Uh, che cossa freda!

BEAT. Andate avanti, ragazza.

BETT. Lustrissima sì. Quanto più volentiera andarave a filò col mio Pasqualin!

CAT. Anca mi, lustrissima?

BEAT. Sì, anche voi.

CAT. Siela benedetta!

BEAT. Voglio vedere se in questa notte posso terminar quest’affare. Già Pasqualino è avvisato. (partono tutte tre col servitore)

SCENA DODICESIMA

Veduta del Canal Grande con gondole. Da una parte il casotto di tavole, che introduce in teatro. Più in qua la porta per dove si esce di teatro, ed il finestrino ove si danno i viglietti della commedia. Un ragazzo, che grida di quando in quando: A prendere i viglietti, siore maschere; diese soldi per uno, e el pagador avanti, siore maschere. Dall’altra parte una banchetta lunga per quattro persone.

Ed i fanali qua e là, come si usa vicino ai teatri.

Passano varie maschere, e vanno alcune a prendere viglietti, indi entrano nel teatro, e alcune vanno senza viglietti; poi passa Nane barcaiuolo col lampione conducendo maschere al teatro; poi il servitore con il lampione, conducendo la marchesa Beatrice, Bettina e Catte al teatro; poi Menego Cainello con il Marchese e quattr’uomini, che vanno al teatro. E il Ragazzo di quando in quando grida: a prender i viglietti ecc.; poi si sente di dentro gridare: Qua, se la va fuora. S’apre una porta, da dove escono Menego e Nane coi lampioni

MEN. Compare Nane, sioria vostra.

NAN. Sana, compare Menego.

MEN. Olà, v’èla passada?

NAN. De cossa?

MEN. De quel bocon de criada.

NAN. No me ne recordo gnanca più, varè.

MEN. Co semo in pope, nemici, co semo in tera, amici e fradei carnali.

NAN. Bisogna de le volte criar per reputazion, siben che no se ghe n’ha vogia.

MEN. Per cossa credistu che no abia dà indrio? Per el paron? Gnanca in te la mente. Made. L’ho fato, perché ghe giera cinquanta barcarioi che me vedeva, e se siava, i me dava la sogia.

NAN. Gh’astu el paron a la comedia?

MEN. Compare sì.

NAN. Anca mi son con un foresto, che xe arivao sta matina. L’ho servio de l’altre volte, e nol me fa torto.

MEN. La stichelo?

NAN. Aria granda.

MEN. Gh’alo la machina([84])?

NAN. No se salo.

MEN. Caro ti, cóntime.

NAN. Andemo al maga.

MEN. Made, tiremose a la bonazza([85]).

NAN. El zagnuco refila([86]).

MEN. Che cade. Con un scalfo de chiaro([87]), la giusteremo. Vien qua, picolo dai boletini. (al Ragazzo)

RAG. Piase?

NAN. Chiò sto da vinti, vane a chior un boccal de quel molesin. Dighe al capo che te manda Cainelo; ch’el te daga de quelo che el dà ai so amici. Astu inteso?

RAG. Sì ben.

MEN. Fa presto; no te incantar, che te darò una gazzeta([88]).

RAG. In do salti vago e vegno. (parte)

MEN. Sentemose, camerata?

NAN. Son qua.

MEN. Dime, com’èla de sto foresto?

NAN. Ben. El me dà a mi solo un ducato al zorno, e da magnar e da bever; e col vol andar a do remi, el paga lu quel de mezo.

MEN. Bisogna ch’el sia molto rico.

NAN. Ho sentio da un camerier de la locanda, ch’el xe del so paese, che i soi no i gh’ha pan da magnar.

MEN. Donca, come la stichelo?

NAN. Oe, co le sfogiose([89]).

MEN. E el mantien la machina?

NAN. O ela lu, o lu ela.

MEN. Tienla conversazion?

NAN. Flusso e reflusso.

MEN. A la locanda?

NAN. Sì ben, a la locanda. Cossa credistu che sia le locande?

MEN. Xela bela sta to parona?

NAN. O de so piè o de so man([90]), la fa la so maledeta figura.

MEN. Abitazzi?

NAN. Aria e ganzo.

MEN. Zogie?

NAN. Diamanti da Muran([91]) superbonazzi.

MEN. El paron xelo zeloso?

NAN. Sì ben, zeloso. El se leva la matina a bonora, e el dà liogo a la fortuna.

MEN. Senti, anca el mio paron xe de bon stomego.

NAN. Ma la to parona no xela so mugier?

MEN. Sì ben, ma cossa importa? I usa cussì. Moda niova, moda niova.

NAN. Come stalo de bezzi el to paron?

MEN. Giazzo tanto che fa paura([92]).

NAN. E sì mo, tanto lu che ela i fa una fegurazza spaventosa.

MEN. Senti, un de sti zorni: ora mi vedete, ora non mi vedete.

NAN. Vorlo falir?

MEN. Eh, sti siorazzi no i falisse, i se tira in campagna, i licenzia la servitù, i zuna un per de ani, e po i torna a Venezia a sticarla.

NAN. I dise che so mugier la zioga a rota de colo.

MEN. E chi ha d’aver, aspeta.

NAN. L’altro zorno m’è sta dito che i ha fato un disnar spaventoso.

MEN. Domandeghelo al galiner, che ancora l’ha d’aver i so bezzi del polame.

NAN. E ti i to bezzi te li dali?

MEN. Piase! Se i vol che laora.

SCENA TREDICESIMA

Il ragazzo col vino, e detti.

RAG. Oe, son qua col vin.

MEN. Bravo.

RAG. Me deu la gazzeta?

MEN. Che cade! Son galantomo. Tiò, vate a tior tanti pomi cotti. (gli dà due soldi)

RAG. A prender i viglietti, siore maschere. Oe, me lasseu vegnir drento? Xe deboto quattr’ore. (al portinaro che apre, ed entra)

MEN. Sana, capana([93]).

NAN. Pro fazza.

MEN. A vu, compare. (a Nane)

NAN. Salute. (beve)

MEN. Vostra.

SCENA QUATTORDICESIMA

Tita dalla porta del teatro, e detti.

MEN. Compare, vegnì a nu. (a Tita)

TIT. Compare, pania?

NAN. Degneu vegnir a nu? (a Tita)

TIT. Son qua.

MEN. Senteve, che tanto se paga. (gli danno da bere)

TIT. Bon da amigo, ma bon do volte. (bevendo)

MEN. A sti musi cussì i ghe lo dà.

NAN. Calcossa ve l’avè godesta in teatro.

TIT. Mare de diana! Che ho ridesto.

MEN. Gh’è zente?

TIT. A marteleto([94]).

MEN. Piaseli?

NAN. Poverazzi! i se inzegna; ma ti sa cossa xe sto paese. Qua se fa acceto a tuti; lori se sfadiga, e la zente ghe dà coragio. (si sente di dentro in teatro batter le mani, e dir bravo, bravo)

MEN. Oe, senti che bocon de fracasso! (si torna a sentire l’applauso)

TIT. Via, che la vaga.

MEN. Ghe xe assae barcarioi drento?

TIT. Pi de cento.

MEN. Co la piase ai barcarioi, la sarà bona. Nualtri semo queli che fa la fortuna dei comedianti. Co i ne piase a nu, per tuto dove ch’andemo, oh, che comedia! oh, che comedia! oh, che roba squesita! In teatro, co nu sbatemo, sbate tuti, e anca a nu ne piase el bon. No ghe pensemo né de diavoli, né de chiassi; e gh’avemo gusto de quele comedie che gh’ha del sugo.

SCENA QUINDICESIMA

Un capitano degli sbirri co’ suoi uomini, poi Lelio, e detti.

NAN. Oe, la peverada([95]).

TIT. Fali la sguaita a qualchedun?

NAN. Chi sa, i va cercando el mal co fa i miedeghi.

MEN. Eh gnente. I va per tuti i teatri, e i fa ben. Cussì i tien neto dai ladri.

LEL. (Oh cari! Tre barcaruoli che se la godono assieme! Oh che bella conversazione!) (da sé)

MEN. Chi èlo sto sior, che ne va lumando([96])? (a Nane)

TIT. Comandela barca?

LEL. Padron Tita, siete voi?

TIT. Oh sior Lelio, la xe ela?

MEN. Chi èlo? Qualchedun de queli de la marmotina? (a Titta)

TIT. El xe patrioto nostro venezian, arlevao a Livorno.

NAN. Col xe venezian, ch’el vegna. Comandela? (a Lelio)

MEN. Via, a la bona; e viva la patria. (a Lelio, e gli danno da bere)

LEL. Questo vin el ghe xe bon, el ghe me piase assai([97]). (vuol parlar veneziano, e non sa)

MEN. Me ghe xe consolo tanto. (burlando)

LEL. Quando voleseu che andesemo a vogar in palugo?

MEN. Sala voghesar? (come sopra)

LEL. Una volta ghe xera bravo.

NAN. Oh che caro papagà!

LEL. Quanto che me piaseu! Me lasseseu che me sia sentao?

MEN. Mi lasso che ve comodar. (Lelio siede)

LEL. Caro vechio, dasemene un altro fiao. (torna a bere)

NAN. Comodeve, compare desnombolao.

SCENA SEDICESIMA

Una spia va dagli sbirri e accenna aver scoperto Lelio. Essi vanno per prenderlo. I barcaruoli lo difendono; e col boccale, coi sassi e colla banca fanno fuggire gli sbirri, dicendo: Via, cagadonai. Via, lassèlo, furbazzi, dai ecc. Dopo fuggiti gli sbirri:

NAN. Vittoria, vittoria.

LEL. Bravi, bravi, ve ghe son obligao.

MEN. E viva nu.

TUTTI E viva i barcarioli, e viva.

SCENA DICIASSETTESIMA

La marchesa Beatrice mascherata cogli abiti di Bettina, Bettina con quelli della marchesa, in bauta, e il servitore col lampione escono dal teatro.

BETT. Perché mai ala volesto far sto barato? Mi sti abiti no li so portar.

BEAT. Siamo state vedute da mio marito: mi sono accorta che ci ha conosciute, e per questo, serrato il palco dinanzi, ho fatta la mutazione degli abiti.

BETT. Mo perché?

BEAT. Il perché lo saprete poi.

BETT. Mia sorela dove xela andada?

BEAT. L’ho mandata a casa mia colla contessa mia cugina, acciò non frastorni quanto abbiamo colla medesima concertato.

BETT. (Gran note per mi xe questa!) (da sé)

SCENA DICIOTTESIMA

Pasqualino e detti.

PASQUAL. Oh fortuna traditora, dove mai xe andada la mia Betina?

BETT. (Caro el mio ben, se te podesse dir che son mi!) (da sé)

BEAT. (Ecco appunto Pasqualino; l’ho mandato a cercar apposta). (piano a Bettina)

BETT. (A posta? Per cossa?) (piano a Beatrice)

BEAT. (Apposta per voi).

BETT. (Per mi? Ma cossa ghe n’ogio da far?)

BEAT. (Non vi ha promesso?)

BETT. (Lustrissima sì)

BEAT. (Bene, andate con lui).

BETT. (Oh, questo po no. No l’è gnancora mio mario)

BEAT. (E per questo?)

BETT. (Son una puta onorata).

BEAT. (Bel carattere ch’è costei!) (da sé)

PASQUAL. La parona m’ha mandao a cercar. La m’ha fato dir che l’aspeta qua. Cossa mai vorla? Ah dove xe mai andada la mia Betina? Xela scampada via? M’ala tradio? M’ala abandonà? Sento che me manca el respiro.

BEAT. (Miratelo, se non fa compassione). (a Bettina)

BETT. (Se podesse, lo consolarìa).

BEAT. (Perché non potete?)

BETT. (Perché no son so mugier).

BEAT. (Almeno datevi da conoscere).

BETT. (Se me dago da cognosser, lu me vol ben a mi, mi ghe vôi ben a elo, no so cossa che possa succeder).

BEAT. (Siete troppo rigorosa).

BETT. (Son una puta onorata).

BEAT. (Costei è rara come la mosca bianca). (da sé)

PASQUAL. Quele do maschere le me varda. Saravela mai la parona? Me par che quelo sia el so tabaro. E quel’altra co la vesta e col zendà e co la moreta saravela mai Betina? Oh, el ciel volesse che la fusse ela! (da sé)

BEAT. (Eh via, finiamola). (a Bettina)

BETT. (No certo, più tosto scampo via). (a Beatrice)

SCENA DICIANNOVESIMA

Il marchese Ottavio dalla porta del teatro con i quattro uomini, e detti.

OTT. Ecco mia moglie con Bettina. Amici, state pronti se vi è bisogno. (agli uomini)

BETT. Oh povereta mi! Chi è ste maschere?

BEAT. Non vi muovete.

OTT. (Prende con forza per mano la Marchesa, credendola Bettina, e dice ) Vi ho finalmente trovato. Ora non mi fuggirete più dalle mani. E voi, signora maschera, (a Bettina, credendola la Marchesa) se non avrete giudizio, averete a far meco. Pasqualino che fate qui?

PASQUAL. Giera... cussì... andava a la comedia. (confuso)

OTT. Date braccio alla marchesa, e accompagnatela a casa. Giuro al cielo, me la pagherete. (a Bettina non conosciuta) Venite, anima mia, andiamo a felicitare il nostro cuore. (parte colla Marchesa e cogli uomini)

SCENA VENTESIMA

Pasqualino e Bettina

PASQUAL. Lustrissima, son qua a servirla. La me favorissa la man. Come! No la vol? No la se degna? El paron me l’ha comandà, da resto... Almanco la me diga per cossa la m’ha mandà a chiamar. Gnanca? Pazenzia. Quela maschera col zendà chi mai gièrela? Betina? No credo mai. Ah, che ho perso la mia Betina! no so più in che mondo che sia. Se no la trovo, prego el cielo che me manda la morte per carità. Ghe vien da pianzer? (Bettina piange) La varda, le lagreme ghe corre su la bauta; la se cava el volto, e la se suga. No la vol? No so cossa dir. No la vol andar a casa? (Bettina fa cenno di sì)Sì? La servirò. No la vol man, no? (Bettina ricusa la mano) Pazenzia! Se no trovo Betina, son desperà. (parte)

BETT. Desmascherarme? No certo. Do morosi de note soli? Se el me cognoscesse, no so come l’anderave. (parte)

SCENA VENTUNESIMA

Camera terrena in casa del marchese Ottavio.

Menego col lampione, e Lelio

MEN. Donca vostro sior pare ve vol far cazzar in preson?

LEL. Pur troppo.

MEN. Mo perché?

LEL. Perché è pazzo. Pretenderebbe che io facessi a suo modo, e sento che la natura vi repugna.

MEN. Sentì, sior, mi v’ho defeso e v’ho liberao da le man dei zaffi, perché no i gh’aveva ordene de chiaparve, e perché la xe tropa temeritae de colori vegnir in t’un bozzolo([98]) de galantomeni a far un afronto. Da resto ve digo che i fioi i ha da obedir so pare: e co i buta tressi([99]), el pare fa ben a castigarli e no filarghe el lazzo, perché col tempo i fioi cattivi i se scusa col dir ch’el pare li ha mal usai.

LEL. Ma se tutto quello che piace a mio padre, non piace a me? S’io fossi, per esempio, vostro figlio, e avessi a fare la vita che fate voi, sarei tutto contento.

MEN. Poderia esser che ve stufessi, perché la xe una bela cossa vogar per spasso e per devertimento; ma vogar dì e note, a piove, a giazzi, a neve, col vento, col scuro, con quei malignazi calighi: el xe un devertimento, che se podesse, ghe ne farave de manco volentiera.

LEL. Tant’è; ognuno ha la sua passione, ed io ho questa.

SCENA VENTIDUESIMA

Donna Pasqua e detti.

PAS. Bara Menego, dove seu ficao? Tuto ancuo che ve cerco, e no ve trovo.

MEN. Oh mugier! Ben vegnua.

PAS. Vegnì qua, caro fio; xe tanto che no ve vedo, tochemose la man.

MEN. Sì, cara la mia vechieta, se cocoleremo([100]), no ve dubitè.

LEL. (Quanto mi piace questa buona vecchia!) (da sé)

PAS. Cossa feu de sto bel zovene? (a Menego)

MEN. Ve piaselo?

PAS. Mi sì, varè.

MEN. Se volè, comodeve.

PAS. Lo poderave anca basar.

MEN. Che cade! Fe vu; aveu paura che sia zeloso?

PAS. (Se ti savessi chi l’è, no ti diressi cussì). (da sé)

SCENA VENTITREESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Messier Menego, se pol vegnir? (di dentro)

MEN. Chi è? Vegnì avanti.

LEL. Meschino me! Mio padre.

PANT. Ah, ti è qua, desgraziao? Me maraveggio de vu, messier Menego, che tegnì terzo a sta sorte de baroni, a sta sorte de scavezzacoli. Me xe stà dito, ch’el xe vegnù qua. Ho domandà de sior marchese. I m’ha dito che nol ghe xe, ma non ostante ho volesto vegnirme a sincerar. L’ho trovà sto desgrazià, sto furbazzo.

PAS. Sior Pantalon, cussì la parla de so fio?

PANT. Cara nena, se savezzi co mal che l’ha butà, me compatiressi. Quanto che giera megio che l’avessi sofegà in cuna.

MEN. Mo cossa gh’alo fatto?

LEL. Niente, niente affatto.

PANT. Gnente ti ghe disi, volerme bastonar?

LEL. Io non vi conoscevo.

PANT. E andar tutt’el dì all’osteria a ziogar a la mora, a bever sempre con zente ordenaria, no ti ghe disi gnente?

LEL. In questo avete ragione; ma io non ne posso far a meno.

PANT. Oh, ben. Co la xe cussì, parechiete de andar lontan da to pare. Za ho parlà col capitan d’una nave, che xe a la vela. Ti anderà in Levante; ti farà el mariner; cussì ti sarà contento.

PAS. (Oh povereto! No voria che ghe sucedesse sta cossa). (da sé)

LEL. Io in Levante? Quanto siete buono!

PANT. Vu in Levante, sior sì; e se no gh’anderè per amor, gh’anderè per forza. Aspetto che vegna a casa sior marchese per usarghe un atto de respeto, e po, sier poco de bon, vederè cossa ve sucederà.

LEL. Eh, giuro al cielo, non so chi mi tenga... (minacciando Pantalone)

MEN. Alto, alto, fermeve. (si frappone)

PANT. Come! A to pare? Manazzi a to pare? Adesso. Presto. I zaffi i xe da basso; oe, dove seu? Mio fio me vol dar. (verso la porta)

PAS. (Povero mio fio, son causa mi de la so rovina). (da sé)

MEN. Mo via, la se quieta, che giusteremo tuto.

PANT. No gh’ho bisogno dei vostri consegi. Quando un fio ariva a perder el respeto a so pare, nol merita compassion. Vogio che el vaga in preson.

PAS. Ah sior Pantalon, quieteve per carità.

PANT. No me stè a secar.

PAS. Volè in preson vostro fio?

PANT. Sì ben, in t’un cameroto.

PAS. Mo nol gh’anderà miga, vedè.

PANT. No! per cossa?

PAS. (Cossa fazzio? Parlio, o no parlio? Se taso, el va in preson. Oh povereta mi! Bisogna butarla fuora). (da sé) Perché nol xe vostro fio.

PANT. Nol xe mio fio? Oh magari! Come xela, nena, come xela?

PAS. Adesso che lo vedo in sto gran cimento, no posso più taser. Sapiè che mi ve l’ho baratà in cuna.

PANT. Mo de chi xelo fio?

PAS. De mi e de mio mario.

MEN. Piase? (a donna Pasqua)

PAS. Sì ben, caro vu, ho credesto de far ben. Ho fato aciò che el fusse ben arlevà; che no ghe mancasse el so bisogno; e che el deventasse un puto cossediè([101]).

MEN. Brava! Avè fato una bela cossa.

PANT. E del mio cossa ghe n’aveu fato?

PAS. El xe Pasqualin, che crede d’esser mio fio.

PANT. Pasqualin? Sì ben. Ve credo. La sarà la verità. Pasqualin gh’ha massime civili e onorate, e costù gh’ha idee basse e ordenarie. Se cognosse in Pasqualin el mio sangue; in Lelio el sangue d’un servitor. Tegnive donca la vostra zogia, e lassè che me vada a strucolar([102]) el mio caro fio. A costù ghe perdono, perché vedo che nol podeva operar diversamente da l’esser soo, e la natura no podeva sugerirghe gnente in mio favor. No ve domando mazor testimonianza del cambio; no meto in contingenza sto fato, perché cognosso da ste do diverse nature la verità. Ve digo ben a vu, dona mata, che meriteressi che la mia colera se revoltasse contra de vu, per esser stada la causa de sto desordene: ma el cielo v’ha castigà, perché tentando co ingano de aver un fio vertuoso e ben educà, el xe riuscio pezo assae che se l’avessi arlevà in casa vostra. Onde xe la veritae, che l’ingano casca adosso a l’inganador, che dal mal no se pol mai sperar ben, che de le done tanto xe cativo l’odio quanto l’amor, e che tute vualtre bisognerave meterve a una per una in t’un morter, e pestarve, come se fa la triaca. (parte)

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Lelio, Menego e donna Pasqua

LEL. Madonna, avete detto il vero, o l’avete fatto per liberarmi dalla prigione? (a donna Pasqua)

PAS. No, fio mio, pur tropo ho dito la veritae.

LEL. Io son l’uomo più contento di questo mondo.

MEN. No son miga contento mi.

LEL. Caro padre, perché?

MEN. Perché no me par de star tropo ben, aquistando sto bel fior de vertù.

LEL. Sentite, io ho fatto poco buona riuscita, perché mi volevano far fare una figura lontana dalla mia inclinazione. Datemi una berretta rossa, un remo in mano e una buona barcaruola al fianco, e vederete se riuscirò bene.

MEN. E ti voressi far el barcariol col linci e squinci?

LEL. El ghe xe, parlerò anca mi veneziano.

MEN. Via, che ti fa stomego. Siora mugier, l’avè fata bela.

PAS. Caro vecchio, no so cossa dir. Ho fato per far ben.

MEN. Sangue de diana, che me faressi vegnir caldo.

PAS. Via, caro mario, no andè in colera. Vogième ben che son la vostra vecchieta.

MEN. Se avesse perso un fio bon, me la lassarave passar: ma averghene trovà un cativo, la me despiase. Quanto giera megio che avessi tasesto, e che l’avessi lassà andar in tanta malora. (a donna Pasqua, e parte)

LEL. Questo mio padre mi vuole un gran bene.

PAS. Col tempo el ve vorà ben.

LEL. O bene o male, poco m’importa. Mi pare di esser rinato. Il dover far da signore mi poneva in una gran soggezione. Non vedo l’ora di buttar via questa maledetta perrucca. (parte)

PAS. Voleva taser, ma no ho podesto. A la fin, son so mare, e se perdo sto fio, no so se ghe n’averò altri. Chi sa! Se poderave anca dar. No son tanto vecchia; e el mio caro Menego me vol ben. Causa sto mio fio, che no se avemo malistente([103]) vardà; ma dopo cena me lo chiapo, e me lo strucolo co fa un limon. (parte)

SCENA VENTICINQUESIMA

Altra camera del marchese Ottavio con lumi.

Il marchese Ottavio e la marchesa Beatrice, mascherata come sopra.

OTT. Via, la mia cara Bettina, siate buona, non siate così austera con me, che vi voglio tanto bene. Di che avete paura? Orsù, conosco la vostra modestia; mi è nota la vostra onoratezza. So che sdegnate di amoreggiare un ammogliato; e so che fin tanto che io non son libero, sperar non posso la vostra grazia. Non dubitate. Ve lo confido con segretezza. Mia moglie ha una certa imperfezione, per cui morirà quanto prima. (Convien lusingarla per questa strada). (da sé)

BEAT. (Si smaschera) Obbligatissima alle sue grazie. Uomo perfido, scellerato che siete! A questo eccesso vi trasporta una brutale passione? Desiderar la morte di vostra moglie, e forse ancor procurarla per non avere chi vi rimproveri d’un amor disonesto? Eccovi per la seconda volta scoperto, deluso e mortificato. Ma io questa volta ho rilevato l’indegno animo vostro. Voi aspirate alla mia morte, ed io prevalendomi di un tale avviso, ricorrerò per il divorzio; mi dovrete restituire la dote; mi dovrete dar gli alimenti, e lo sapranno i miei e vostri parenti; lo saprà tutta Venezia. Pensateci, che io ci ho pensato. (parte)

OTT. Ah, vedo che questo amore vuol essere la mia rovina. Mia moglie è indiavolata. Sarà meglio lasciare questa ragazza. Veramente io son un gran pazzo; far tanti stenti per una donna, in tempo che le donne son così a buon mercato. (parte)

SCENA VENTISEIESIMA

Altra camera del marchese Ottavio, senza lumi.

La marchesa Beatrice, conducendo per mano al buio Bettina mascherata.

BETT. Cara lustrissima, dove mai me menela?

BEAT. In un luogo, dove sarete sicura dalle persecuzioni di mio marito.

BETT. E Pasqualin dove xelo?

BEAT. Ditemi, se Pasqualino venisse a star con voi qui al buio, lo ricevereste volentieri?

BETT. Oh, lustrissima, no. No la fazza ch’el vegna, per amor del cielo.

BEAT. Possibile?

BETT. No certo.

BEAT. (Eppure io non lo credo). (da sé) Oh via, state qui un poco, che or ora verrò da voi.

BETT. E ho da star a scuro?

BEAT. Sì, per un poco. Fino che il marchese va a letto.

BETT. Oh povereta mi! Sta note m’ispirito.

BEAT. Abbiate pazienza, che sarete consolata. (parte)

BETT. (Si pone a sedere) Oh pazenzia benedeta, ti xe molto longa! So cossa ch’ho patio a vederme arente del mio Pasqualin e star imascherada, aciò che nol me cognossesse. Me sentiva strazzar el cuor. Ma l’onor xe una gran cossa!

SCENA VENTISETTESIMA

La marchesa Beatrice con Pasqualino al buio, e detta.

BEAT. Pasqualino, trattenetevi in questa camera fin che io torno; e acciò non abbiate paura, vi serrerò colla chiave. (forte, sicché Bettina possa sentire)

PASQUAL. Ma perché ogio da star qua?

BEAT. Lo saprete poi. Addio, buona notte. (parte, e chiude l’uscio)

BETT. (Oh povera Betina! Adesso stago fresca). (da sé)

PASQUAL. Anca questa la xe bela. La me cazza in t’una camera a scuro, senza dirme el perché? Cossa ogio da far qua solo e senza luse? Oh, se qua ghe fusse la mia Betina, saveria ben cossa far! Ma sa el cielo dove che la xe. Eh, senz’altro quela cagna sassina la m’ha abandonà, la m’ha tradio.

BETT. (Oh povereta mi, no posso più!) (da sé)

PASQUAL. Credeghe a le done! Tanti pianti, tanti zuramenti, tante mignognole([104]), e po tolè, la me l’ha fata, la m’ha impiantà.

BETT. (No, anema mia, che no t’ho impiantà). (da sé)

PASQUAL. Ma chi l’averave mai dito! Una puta tanto da ben, che no la me voleva in casa mi per paura de perder la reputazion, che gnanca dopo che gh’ho dà el segno, no la me voleva tocar la man, andar via, scambiar vita, precipitarse, perder l’onor?

BETT. (Oimè, che dolor! Oimè, che tormento!) (da sé)

PASQUAL. Ah Betina traditora! Ah ladra, sassina del mio cuor!

BETT. (piange forte)

PASQUAL. Olà, coss’è sto negozio? Zente in camera? Qua ghe xe qualche tradimento. Agiuto. Chi è qua? (trova Bettina) Una dona? Oh povereto mi! Creatura, chi seu? Che fusse l’anema de Betina? Ma el xe un corpo e no la xe un’anema. Me sento che no posso più. Almanco per carità parleme, diseme chi sè. No la me responde. Coss’è sto negozio? Vedo passar una luse per el buso de la chiave. Oe, zente, agiuto, averzime.

SCENA VENTOTTESIMA

La marchesa Beatrice con lume, aprendo la porta e detti.

BEAT. Che c’è, Pasqualino? Cos’avete?

PASQUAL. In camera ghe xe zente.

BEAT. E per questo?

PASQUAL. M’ha parso una dona.

BEAT. E bene?

PASQUAL. Mo chi xela?

BEAT. Guardatela.

PASQUAL. Ti ti xe, anema mia! (si getta ai piedi di Bettina)

BEAT. (Or ora muoiono tutti due dalla consolazione). (da sé)

PASQUAL. Mo perché no parlar?

BETT. Perché son una puta onorata.

BEAT. Veramente ora conosco che siete tale. Non avrei mai creduto che in una giovane e sposa, come voi siete, si desse tanto contegno.

PASQUAL. Come seu qua? Come via de casa?

BEAT. A suo tempo saprete tutto. Su via, premiate la sua onestà. Datele la mano di sposo.

PASQUAL. Son qua, viscere mie, se ti me vol.

BETT. Senza dota, come faremio? Sior Pantalon no me darà i dusento ducati.

PASQUAL. Sior Pantalon? Velo qua.

SCENA VENTINOVESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Vien qua, fio mio, lassa che te strucola e che te basa. (a Pasqualino)

PASQUAL. A mi, sior Pantalon?

PANT. Sì, dime pare, no me dir Pantalon. Dona Pasqua no xe to mare, la giera la to nena, e la t’ha baratà in cuna. Sì, che ti xe el mio caro fio. (lo abbraccia e lo va baciando)

BETT. Un’altra desgrazia per mi. Pasqualin no xe più mio mario.

PASQUAL. Oimè! Xe grando el contento, che gh’ho trovà un pare de sta sorte, rico, civil e amoroso; ma sto mio contento vien amarizà da un dolor che me dà la morte.

PANT. Per cossa, fio mio? Parleme con libertà.

PASQUAL. Savè quanto ben che mi vogio a la mia Betina; e sperava de averla per mugier, ma adesso che son vostro fio...

PANT. Adesso che ti xe mio fio, ti l’ha da sposar subito imediatamente. Betina merita tuto; no averave riguardo de sposarla mi, molto megio ti la pol sposar ti; fin che ti gieri un povero puto, fio d’un barcariol, no la voleva precipitar; adesso son contento, te la dago, e mi medesimo unisso la to man co la soa. (si avvicina)

PASQUAL. Oh cara! Oh che contento! (toccandole la mano)

BETT. Ahi, che moro da l’alegrezza! (sviene sulla sedia)

PANT. Acqua, zente, agiuto.

SCENA ULTIMA

Il marchese Ottavio, Catte, Lelio, Arlecchino, Brighella e detti.

Tutti corrono a vedere cos’è. Tutti procurano farla rinvenire con qualche cosa.

PANT. Aspettè, lassè far a mi, che gh’ho speranza de farla revegnir subito. Vien qua, caro fio. (a Pasqualino. Tira fuori una forbice, taglia un poco de’ capelli a Pasqualino, li abbrucia e li mette sotto il naso di Bettina, che riviene) No ve l’ogio dito? Tiolè, imparè. L’odor de l’omo fa revegnir la donna. Sior marchese, za l’averà savesto...

OTT. So tutto. So che Pasqualino si è scoperto vostro figlio. So che è sposo di Bettina, ed io ne son contento. Anzi vi prego far sì che mia moglie mi perdoni le mie debolezze.

PANT. Ala sentio? (a Beatrice)

BEAT. Basta che mutiate vita, io vi perdonerò. (ad Ottavio)

OTT. In quanto a questo poi, se s’ha da mutar vita, l’abbiamo a far tutti due.

BEAT. Io m’impegno di farlo.

OTT. Ed io giuro di secondarvi.

MEN. (Zuramenti de zogadori e de marineri). (da sé)

LEL. Signori sposi, mi rallegro con voi. Amico, possiamo far negozio. Abbiamo cambiato condizione, possiamo ancora barattar gli abiti. (a Pasqualino)

PASQUAL. Tuto quel che volè; me basta la mia Betina.

LEL. Da qui a una settimana non direte così.

CAT. Siori, xeli contenti che diga do parole anca mi?

OTT. Sì, parlate pure.

CAT. Se fa le nozze senza un puoco d’alegria? No ghe xe quatro confeti con un puoco de cicolata? Almanco un goto de vin da bever.

PANT. Questa xe la solita lezion.

PASQUAL. M’arecordo del mio ducato.

OTT. Via, Brighella, fate portare quattro dolci del mio deser, un fiasco di vino buono. Messer Menico, andate anche voi.

BRIGH. (Parte)

MEN. Mi? A cossa far, lustrissimo?

OTT. A portar qualche cosa.

MEN. Mi a portar? La me perdona. I servitori de barca de la mia sorte no i porta. Fazza chi toca. Mi tendo a la mia barca. Ognun dal canto suo cura si prenda.

PANT. Xe la veritae, sala. I barcarioi che sta sul ponto d’onor, no i vol far altro che tender a la so barca.

OTT. Bene, io mi rimetto.

BRIGH. (Viene con altri servi con dolci e vino)

OTT. Date da bevere agli sposi, alla signora Catte, a tutti.

CAT. E viva i novizzi. (beve)

LEL. E viva gli sposi. (beve)

BETT. (Prende un bicchier di vino in mano, e rivolta all’udienza, recita il seguente

SONETTO

Co sto vin dolce un prindese vôi far,

Come el debito corre, a chi me sente

E un sonetto dirò, che no val gnente,

Ma che par sta occasion me pol bastar.

Vogio co le mie rime ringraziar

Chi xe verso de mi grato e indulgente,

E savendo che son insuficiente,

Tuti i difetti mii sa perdonar.

E se Puta Onorata adesso son,

A le pute voltar vogio el mio dir,

E dirghe do parole, ma in scondon.

Pute, da amor no ve lassè tradir:

Se onorate sarè, parerè bon,

Piuttosto che far mal, s’ha da morir.

Fine della Commedia.


([1]) Quando sono pagato.

([2]) Uomo alla mano e generoso.

([3]) Dilicatissima in cose d’onore.

([4]) Nata.

([5]) Aver el primo. Modo di dire, tratto da chi vince gli altri concorrenti nella gara del vogare che dicesi regata.

([6]) Calumarse drio. Calarsi dietro a uno.

([7]) Aver l’ultimo premio nella regata, ch’è un porcellino.

([8]) È una fabbrichetta di tavole sopra il tetto, e sporta in fuori dalla facciata d’alcune casette, sulla quale si mettono ad asciugare i pannilini.

([9]) Uomo bassotto.

([10]) Si mescola.

([11]) Ecco qua.

([12]) Che modi.

([13]) Ritto in piedi.

([14]) Rompicollo, scorretto.

([15]) L’anello.

([16]) Stabilire e eseguire a un tratto.

([17]) Il bucato.

([18]) Rigattiere, venditore di panni vecchi e robe adoperate.

([19]) Femmine di mondo, ma delle più vili.

([20]) Che hanno concorso.

([21]) La fanno male.

([22]) Fermarsi, tirarsi indietro.

([23]) Si fallisce.

([24]) Cortigiane, che menano pel naso gli uomini semplici.

([25]) Batter l’azzalin, significa ruffianare.

([26]) Vedete.

([27]) Dicesi di chi ha da sparlare d’un congiunto, che dicendo male di lui, svergogna anche se stesso.

([28]) Schiaffi.

([29]) Qua e là.

([30]) In grande abbondanza.

([31]) I paperi meneranno le oche a bere, è proverbio toscano. Significa, i più giovani daranno norma ai più attempati.

([32]) Scozzonata.

([33]) Si dimentica, viene a noia.

([34]) Chi così ha voluto, così abbia. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

([35]) V’allontanate.

([36]) Appresso.

([37]) Essere il mal veduto da tutti in casa.

([38]) Maledizione che si usa da certi della plebe ai signorotti.

([39]) Pasatempo.

([40]) Non ci va per nulla o per poco, come sono le buccie de’ porri.

([41]) Figura e persona di piccolo conto.

([42]) Pugna.

([43]) Signorino, galante, ridicolo.

([44]) Ingegnarsi d’apparire da qualche cosa.

([45]) Remo.

([46]) Per aver di che mangiare.

([47]) Pampino, e significa qui: uomo da nulla, da non farne caso.

([48]) Motti, facezie.

([49]) Con questo vocabolo si chiamano quelli che vogano per passatempo.

([50]) Imperito.

([51]) E che sì.

([52]) Canaregio, disse uno, è il viso sotto. Pare un viso di sotto, quando stilla quel che nel ventre smaltito si serba.

([53]) Calci.

([54]) Maccherone, goffo.

([55]) È una specie di stocco all’antica.

([56]) Fa lo sfacciato, datti animo.

([57]) Ci pensi chi ha l’impaccio.

([58]) Il galante, l’innamorato.

([59]) Far a meno.

([60]) Vale a dire qualche parola mordente, sbottoneggiare.

([61]) Vi verrete a noia.

([62]) Come la barca di Padova è comune a’ passeggieri, così qui il gondoliere intende di dire a Bettina, che sia donna comune.

([63]) Piangi, piangi.

([64]) Suocero.

([65]) Viso.

([66]) Comincia ad essere rivale.

([67]) Cedendo.

([68]) Non s’adiri.

([69]) Tutto questo ragionamento allegorico, tratto dal vogare e dalla barca, significa ch’egli credea trovare amor per sé; che vedendo la donna brusca, si ritira, ma contrasterà agli sponsali di suo figliuolo.

([70]) Nastro.

([71]) Cavi di mano.

([72]) Accorta.

([73]) Sbrighiamola.

([74]) Lungagnole, indugi.

([75]) Significa: non ci può essere cosa veruna; perché a dire che vi sia una vecchia coccoloni, o che siede sulle calcagna, è quanto dire non v’è nulla.

([76]) Donde tragga le invenzioni.

([77]) Venditrice di pane.

([78]) Chi non s’aiuta, s’annega. Conviene adoperarsi, e affaticarsi, e ghiribizzare per cavarsi di stento.

([79]) A mettersi in isperanza, e gloriarsene.

([80]) Andar dalla padella sui carboni, o da un luogo all’altro, come gli uccelli.

([81]) Il donare fa che altri dia.

([82]) Allocco, uomo grossolano.

([83]) C’è mancamento? C’è che dire?

([84]) Donna di partito.

([85]) Dove non si sente aria.

([86]) Tira vento, è freddo.

([87]) Con un boccale di vino.

([88]) Due soldi.

([89]) Colle carte da giuoco.

([90]) O naturalmente, o per artifizio.

([91]) Vetri.

([92]) È al verde, non ha quattrini.

([93]) È un brindisi.

([94]) In grandissima quantità.

([95]) I birri.

([96]) Guardando.

([97]) Il parlre di Lelio è qui veneziano contraffatto da lui, per acquistar grazia dalla compagnia, e mostrar che sa parlare.

([98]) In un cerchio.

([99]) Di mal costume.

([100]) Ci faremo vezzi.

([101])Come si dee. Di garbo.

([102]) Ad abbracciare stretto e baciare.

([103]) Appena.

([104]) Vezzi, moine.