La reina di Scozia

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La reina di Scozia

La reina di Scozia

Di Federico Della Valle

PERSONAGGI

OMBRA del re di Francia

REINA di Scozia

CAMERIERA

CORO di damigelle

SERVO

CONSIGLIERO della Reina d'Inghilterra

CONTE di PEMBROCIA CONTE di COMBERLANDIA

MAGGIORDUOMO della Reina di Scozia

MESSO

CARNEFICE

MAZZIERO

PROLOGO

OMBRA

Monte è ne l'aria, e il sostengon nembi, al cui penoso piè s'aggiran spirti; spirti, che stolti e lenti errando già fra voi, foglie cadenti, trassero i falli lor dal giorno a l'anno, senza sentirne affanno; alfin con un sospiro di consigliato senno falli e vita finiro: or piangono l'error e la tardanza in disperato duol, ma con speranza. Di gente tal, di region sì ignota è questa, ch'or udite e mal vedete, ombra o spirto o fantasma. Pur, qualunque io sia detto, certo fui alcun tempo un di voi, senonché mi distinse regia corona e manto, gravi a portarsi, ahi quanto! A me tributo diêr Senna e Garonna e lungo lido verso il ciel de l'Orse, con altro opposto, ov'acque morte amare il Rodano fan mare. Ma che giovò? Cesser tributi e scettri a poca terra oscura, chiamata sepoltura: orrida stanza, pur tanto ha di degno, che 'n lei riposan cheti mendicitate e regno, aspri contrari ai riposi mortali. In lei lasciai di me quel che si vide; l'invisibil portai e meco stassi, chiaro no, qual pria l'ebbi, ma tinto in ombra di terrene cure, fatte or lagrime dure. Amai donna reina, e fu l'amarla giusto, perché fu moglie e ossa mie: ma 'l dolor di lasciarla, come soverchio fu, così fu colpa. Di questa e d'altre or sento più viva la ferita, quanto, morto il mortale, ha più viva la vita. Tal erro e tal mi doglio, e talor miro dei mondani successi il variabil giro. Lasso, e il non veder fôra assai meglio, poscia che miro in loro d'ogni sciagura il peggio! Veggio la carne e l'ossa, che morendo io lasciai vive fra voi, lasciai regnanti con corone eccelse, or prigioniere, or serve, e, quel ch'è 'l sommo di lagrime e sventura, condursi al colpo estremo di ferro feritor infame, avezzo al sangue solo di malnati rei. In tanto eccesso, a chi parer dee strano che voce di pio amante si faccia udir a lamentarne il danno? Sorga pur di tomba anco il braccio morto a vendicarne il torto! Ma di là appar la sventurata donna, ahi, ahi dissimil quanto a quel ch'io la lasciai, a quel ch'io la sperai! Rimanesti, o mia carne, di regia pompa e d'aureo manto adorna: or ti cinge, mendica, miserabil gonna! Rimanesti a regnar, a regnar nata: or, qual serva, dannata da vent'anni di misero martìre, verrai tratta a morire! Deh, chi giunge a veder gli alti consigli, o chi scerner può 'l fine? Adorate e tremate, o d'Eva errante miserissimi figli!

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

REINA, CAMERIERA

REINA

Se pur è alcun, che nel volubil giro

de le cose mortali

cerchi come si caggia o si ruine

da nubi di fortuna alte e felici

a dolorosi abissi

di sorti infelicissime, meschine,

senta me che ragiono, e me rimiri.

Rimiri me, che già reina adorna

di due chiare corone e di due scettri,

che resser ad un tempo Franchi e Scoti,

figlia di re, moglie di re possente,

discesa per lungo ordine da regi,

e di re madre ancora,

or chiusa in mura anguste, or prigioniera,

legata a l'altrui forza, a l'altrui voglia,

priva, non dirò già di maestade

o d'impero real, ché di ciò 'l nome

a pena mi rimembra,

misera, ma priva anco

di quel che dà natura aere sereno

a nodrir quanto ha vita,

passo le notti e i dì fra i rischi e i danni

e di morte e di vita.

Ma s'è pur ver che con incerta norma

e con vario costume,

or doloroso, or lieto,

volve lo stato umano

possente ascosa mano,

com'esser può che dopo 'l lungo corso

di vent'anni infelici al fin non giunga,

o non si muti almeno,

la miseria o la vita? E pur non posso,

se ben rincorro le sciagure e i mali,

a tormentar avezzi

miseri mortali,

non posso ritrovar quel che più manchi

al colmo del mio affanno,

al sommo del mio danno:

reina prigioniera,

vedova sconsolata, abbandonata

madre d'inutil figlio,

signora di rubella infida gente,

donna senza consiglio,

povera, inferma ed in età cadente.

Poss'io più dir, o può formar la vita

altre nuove sciagure?

O non ha luogo, lassa,

ove le impieghi, se non in me sola?

Sola, e tutto al tormento;

Nulla, ahi nulla al contento!

Deh, come oscuro e crudo

rotasti, o sol, quel dì che l'empio lido,

empio lido e spergiura infame arena

d'Inghilterra, toccò l'infausto piede,

che me portò con nome di reina

coronata, onorata,

e con destin di serva

rapita, catenata!

Lassa me! Dunque nacqui,

nacqui figlia di re, fui poscia erede

d'antichissimo regno,

d'eccelso re fui moglie, e son madre anco

di re, che da me prende

manto e scettro e corona:

a tanto colmo alzar mi volse il Cielo,

perch'io cadendo poi precipitassi

a non esser più donna

neanco di me stessa,

e da mano tiranna

ritener questa vita,

quasi grazia e mercede

d'un'empia mia nemica.

Ahi ria sorte, ahi sventura,

ahi affanno, ahi dolore,

come non spezzi il core?

CAMERIERA

Deh, quai memorie dure

a la memoria torni,

per raddoppiare il male!

Il qual, se ben ci affligge e ci tormenta,

par che col non parlarne

assai meno si senta.

Pur, poscia che col duol sen va il lamento,

come con nube vento,

alcun non sia ch'accusi,

donna e reina mia, le tue querele;

né questa serva tua tanto presume

o tanto ardisce. A me dolermi tocca

col tuo dolor e accordar al suono

dei tuoi sospiri i miei sospiri e 'l pianto;

ma se talor concede

bontà reale e fedeltade antica

dir quel che sente affezionata voglia,

per scemar in te 'l duolo e in me l'affanno,

rimembrerò fra le memorie acerbe

le tue dolci speranze e quei secreti,

ch'a me sola confidi e ch'io nascondo,

se far si puote, al mio medesmo seno,

per tornargli a te sola. A' quai pensando,

che debb'io dir, reina amata e cara?

Sorgon nuove cagioni a nuovi lai,

e tu le ascondi e taci? O pur ti duoli

di lunga antica doglia, e dài principio

a più gravi lamenti, allorché 'l male

è per giungere al fin? Ché ben al fine

è per giungere il male,

se 'l vero a me dicesti, o se 'l ver dice

quei che ne scrive il re, caro tuo figlio.

Il qual promette certa

la guerra al regno inglese, aggiunte insieme

l'armi scote a l'ispane;

e più anco promette:

il suo sangue e la vita

per sacrificio e prezzo

de la tua libertà, quando la cruda,

che qui ti tien rinchiusa,

non ti renda al tuo regno e ai tuoi Scoti

libera e sciolta per accordo o pace;

la qual forse or si tratta o è conchiusa.

Così sperar debbiam! Né già conviene

stimar ch'aspra tiranna, e poco cara

al popol suo, diviso in parti e 'n sètte,

e che femina imbelle,

sol fra la pace avezza a tesser frodi,

volontaria riceva anzi la guerra

di due regni possenti insieme uniti,

che da terra e da mar ponno assalirla,

che liberar colei, ch'ella ritiene

oltra ogni dritto, contra ogni costume

d'umanità, di fé, contra ogni legge

o barbara o gentil. O, se pur chiude

man dura a lei gli orecchi e toglie i sensi

di senno e avvedimento, ond'ostinata

la guerra aspetti, quinci forse ordisce

Providenza divina a lei la pena

dovuta a tante colpe, a tanti inganni,

a la perfidia, ai torti, a la rubella

e falsa opinion, al falso culto

d'empia religion nemica al Cielo.

E quinci libertà veggio promessa

sicura e certa a te, che ben la merti,

dopo sì lunga prigionia e sì dura.

Giransi i tempi, e raggirando seco

s'aggiran nuove sorti, e quel che sembra

impossibil un dì, ne l'altro fassi.

Continui preghi e umil sofferenza

al Ciel fan violenza:

così dice e promette

santa voce fedel; e tu molt'anni

sofferente, pieghevole e dimessa

sotto 'l peso fatal sostieni e preghi.

Manchin l'armi a la terra, e manchi 'l dritto

e la pietà qui fra le menti umane:

mancherà forse a le celesti menti

la fede a le promesse?

Segue a questo che l'aspra tua nemica

offre condizioni, onde tu possa

liberarti, se vuoi; che se son dure

e le ricusi tu, vagliano almeno

per speranza di ben fra tanti mali:

di nulla si disperi,

chi aver può cosa, in cui refugio speri.

Oltreché, t'assicura ella la vita

con le lettere sue, come vedesti

pochi dì son, né consentir promette

che la real persona tua s'offenda

fuorché di prigionia. La qual è ingiusta,

né già si può negar, è acerba e grave:

ma che? Luogo non resta

né a forza, né ad inganno? Resti dunque

a sofferenza, a speme, e se si niega

la libertade al corpo, non si tolga

a l'alma l'aspettarla. Il dritto e 'l vero

mai non rimaser vinti, ed è vittoria

bellissima, che ben ristora i danni

con fregi alti di gloria,

quella che sorge e nasce

dai campi degli affanni.

REINA

Mia vittoria sarà la sepoltura!

Ivi alzerò il trofeo

de l'altrui crudeltade e del mio danno

con poca terra oscura.

E tu, ch'or mossa da fedele affetto,

gradito e caro inver, ma inutil forse,

argomenti e discorri e ragion cerchi

dal variar de le mondane cose,

da le promesse altrui, dai merti miei

e dal dritto e dal ver non vinto mai,

forse altro pensi e altro parli. O pure

non ti sovien del dì, che a me veniro,

or quattro mesi son, Lord e Beelle,

empi ministri di donna empia e cruda,

con superbe parole a tôrmi i segni

e gli arredi reali,

e, s'esser puote, il titol di reina,

pronunziandomi morte, a seder posti

a lato a me, come a privata donna.

Lassa, che disser essi, e io che intesi?

Quai furon le parole e quali i modi,

arroganti, Dio buono, aspri e villani!

Rispos'io sì, conoscer fei l'offesa

e l'ingiustizia d'Isabella iniqua;

ma fu l'udirmi a lor grazia e mercede,

a me pena il parlar con gente tale,

ed è mortale affanno,

anzi occide ogni speme il rimembrarlo.

CAMERIERA

Infausto, acerbo dì fu veramente;

e m'adiro, e mi doglio, e temo, e tremo,

qualor vi penso. Pur, nulla è seguito

in nostro danno poi; anzi men aspra

ci s'è mostra fortuna da quel tempo,

con aprirci alcun calle onde possiamo

avisar e spiar qualche ombra almeno

de le cose di fuor; e carte amiche

ci pervengon talor, onde consigli

e conforti ricevi e lume ancora

al tuo deliberar; e quinci avuta

hai la lettera cara,

che ci tornò la vita,

la lettera del figlio, dolce figlio

e caro re, che ti promette l'arme

e la vita in tuo pro', come conviensi

verso reina e madre. Forse volse

fortuna far quel dì l'ultima prova

di tua virtute, e dar l'estremo assalto

de la sua crudeltà: così crescendo

poggia ogni mortal cosa, e giunta al colmo,

si ferma e scema e cade,

cadendo e scemando,

giunge a la fine al nulla.

REINA

Io così stimo

che fia di me!

CAMERIERA

Anzi de la sventura,

che presente ti preme. Volga il Cielo

in meglio i tuoi presagi, e l'alma vinta

da l'affanno sollevi a le speranze,

che son soave cibo

a cor, di ben digiuno

e già sazio di male.

REINA

Son nemiche fra loro

la miseria e la speme,

ch'essendo lieta, mal germoglia o nasce

nel terren del dolore.

CAMERIERA

Ma se virtù l'irriga,

e nasce e cresce e pasce.

REINA

Arida vien virtù, se non ha umore

da celeste rugiada, e per me il Cielo

cessa or, credo, da l'opre e fermo stassi,

forse a mirar quel che farà alfin donna

misera abbandonata.

CAMERIERA

Ohimé, che sento!

e tu che dici, o mia reina! Torni,

torni 'l tuo saggio cor, dove star suole,

dove tu 'l riponesti!

In mano, in grembo a Dio tu 'l riponesti,

ch'è vivissima speme:

or, perché scende o cade

in disperati abissi?

REINA

Riconosco l'errore,

e già ne piange il coro;

ma 'l mal, che preme, a la memoria toglie

il ben, che può venir, e ne la vita

infelice ch'io passo,

provo che male a male

malamente succede,

tal ch'io non ho di ben né di speranza

più memoria né fede.

Pur, non s'aggiunga anco l'errore al danno:

sollevisi quest'alma, e tu l'aita,

o Re, che la cercasti,

o Re de la mia vita!

E se per colpa mia cadder le membra

in tenebroso affanno,

s'alzi per tua pietà l'anima almeno

nel tuo dolce sereno!

CAMERIERA

Ascolti Dio le voci, e loro impetri

grazia e mercé la sua bontade immensa;

né spiri sol di libertà la speme,

ma ci mandi anco il bene!

E perché abbia conforto

anco da cose umane

l'anima sconsolata,

concedi, o mia reina, ch'io ti torni

a la memoria, scorsa in lamentarsi,

quel che qui ti condusse

da le stanze riposte.

REINA

Men soviene

e miro se pur veggio

mover di vêr la porta de la rocca

il soldato, che sol, fra tanti e tanti

che fanno argine e muro a questa inferma

a vietarle la fuga,

fatto pietoso del mio danno indegno,

d'aiutarmi procura.

In su quest'ora ieri

promise ei di venir, né pur appare.

Deh, che qualche accidente non recida

la sua pietosa cura!

CAMERIERA

Se commandi,

poiché per tôr sospetto a te non lece,

passerò io più oltre o aspetterollo.

Ma star qui tu sì lungamente, parmi

malsicuro e dannoso.

Forse v'è chi ci vede, e nol veggiamo,

e l'accrescer sospetti a gente ria

può poi ne l'avenir chiuder la via

a mille aiuti e mille.

REINA

È ragion vera;

ma questo luogo pur mi si concede

per respirar al cielo, e più o meno

ch'io vi stia, non devrebbe

far sospettar altrui; pur, se v'è il dubbio,

com'è possibil forse,

assicuriamo l'opra, e io men vado.

Tu qui aspetta: e se viene,

già sai quel ch'io vorrei saper da lui.

CAMERIERA

Sòllo, e ho anco cura

d'adempier quel che vuoi, come conviensi

a fedel serva umìle.

REINA

Anzi, pur come

a misera compagna

di sventure e d'affanni.

CAMERIERA

Misera, sì, ma misera contenta,

poiché sorte m'elesse,

o mia dolce reina,

ad esserti consorte

ne la tua acerba sorte,

e del giogo fatale,

ch'è troppo indegno e grave

al bel collo reale,

sostengo io quella parte,

che sostener può cuore,

colmo di fedeltà, colmo d'amore.

Né mai placida spiri

aura, né sol risplenda

ned acqua sorga mai, se non amara,

a chi fra i mali di fortuna acerba

lascia l'amico petto,

e solo al ben riserba

l'infido, indegno affetto;

ma folgore dal Ciel giusto discenda,

o 'l terren s'apra, ovunque l'orma imprime

chi legitimo prencipe abbandona,

cui fedeltade e servitù si deve

anco senza corona!

SCENA SECONDA

CORO, CAMERIERA.

CAMERIERA

Ma voi, figlie, che fate,

che tutte uscite Resta dunque sola

la reina là entro?

CORO

Ella c'impose

il venircen qui fuori, a l'aria, al cielo,

che sì raro veggiam; e s'è rinchiusa

sola là, ne la stanza più riposta,

dove orar suole.

CAMERIERA

Impetrino i suoi prieghi

pace a l'alma affannata. Or qui vi lascio,

e darò un giro sin dove è permesso

dal capitan custode

che 'l prigioniero piè scorra ed arrivi:

fra poco qui ritorno. Voi quest'ora

datavi a respirar, spendete, prego,

lodando Dio e pregando, e accompagni

la lingua il vostro affetto: umil affetto

e devoto conviensi a gran sciagura,

ch'alfin si piega il Cielo.

CORO

Non fu stanca giamai

né la lingua né 'l cuore

ad opra sì devuta,

in tanto di miserie acerbo orrore.

Immutabile, immota,

in luminoso velo

di candida caligine s'asside

l'alta Mente, onde pende

quanto stassi e s'aggira,

e de l'eternità l'antico stile

in diamante durissimo la legge

impresse, onde si regge

quel che là su risplende

e quel che qua giù spira:

ma se prega e sospira

aggiunta a pura voglia anima umìle,

la voce il Ciel percuote

e imperiosa scuote

il gran decreto, che si volve e piega,

ov'è chi chiama e prega.

Tal legge a sé prescrisse

Potenza alta, infinita,

ch'essendo invitta contra quanto ha vita,

in dar ad un sospir di sé vittoria

si compiace e si gloria.

Odi, o Pietade immensa,

antiche prigioniere,

a cui Tu sola per rifugio resti;

d'infelice reina,

o gran Re, miserere!

E s'a lei scettro desti,

o forte, o giusto, o pio,

libertà non le tolga

imperio ingiusto e rio

d'empio voler maligno.

O pietoso, o benigno,

soccorri ai nostri danni,

e di guerra crudel fra tanti affanni

sia la vittoria mia;

il merto a te si dia!

Ma di là vien a lungo passo e lieve

un de' nostri nemici:

misera me, non venga

autor di nuove cure

a le nostre sciagure!

ATTO SECONDO

SCENA UNICA

SERVO, CAMERIERA e CORO.

SERVO

Donne chi mi conduce ov'io ragioni

a la vostra reina? Ove si trova?

O forse è qui tra voi?

CORO

Qui non è, ma lontana

esser molto non può. La sua fortuna

picciol cerchio le ascrive. Tu che chiedi?

Che porti frettoloso?

SERVO

A lei mi manda

il mio signor, ch'è capitan custode

di questa prigion vostra e de le genti,

che vi fan siepe intorno.

CORO

Ufficio acerbo!

SERVO

Ma dolce è 'l commandar. Su tosto, i' debbo

parlar a la reina.

CORO

Qui vien la cameriera: a lei ragiona.

CAMERIERA

Amico, a me puoi dire

quel che dir devi a lei, e io ben tosto

gliel'andrò a riferir.

SERVO

Nulla m'importa

parlar teco o seco: sappia solo

che 'l capitan l'avisa che venuti

son ministri reali, uomini eccelsi,

dei maggiori del regno.

CAMERIERA

E ciò, ch'importa

a la reina mia? Se son venuti,

tornino o stien, come a lor pare.

SERVO

Io credo

che così possan far.

CAMERIERA

Così potesse

con altri chi t'ascolta!

SERVO

A varie sorti

vario è 'l poter: ma tu par che sdegnosa

mi rimiri e ascolti;

e pur apporto cose

dolci e care ad udirsi.

CAMERIERA

L'anima inacerbita dal dolore

forma imagini acerbe o ne la voce,

o negli atti e nei modi; e il costume

vince spesso la voglia. Ciò discolpi

il mio parlar, che forse amaro sembra;

o 'l sembran le maniere,

ma contra te non è già tal la mente:

il fastidio, l'affanno

fronte ritrosa fanno.

Ma che apporti, ti prego?

SERVO

A la reina

mi manda il capitan.

CAMERIERA

Già ciò detto hai.

SERVO

E son venuti i conti, i' non so quali,

ma quattro o cinque sono...

CAMERIERA

Segui il resto:

che però dice il capitan?

SERVO

Ch'ei stima

e ha sentito cose, onde si puote

congetturar che rechin ordin seco

di liberar la tua reina.

CAMERIERA

O voce

soavissima, amata

quanto poco sperata!

SERVO

E perché speri,

mi manda il capitan a la reina

con la cara novella.

CAMERIERA

Deh, s'ella fie mai vera,

alta mercé n'aspetti il capitano,

che con cortese ufficio, anzi pietoso,

affretta a la reina

quel soave conforto,

che nel suo cuor già lungamente è morto!

Né tu sarai senza mercé devuta,

amato apportatore

di novelle amatissime e soavi:

il titolo di servo,

duro e grave a sentirsi,

durissimo a provarsi,

ti fie tolto, te 'l giuro!

E serviranno a te forse migliori

degli avuti signori.

È liberal la mia reina e grata,

e più 'l sarà, quanto in se stessa ha appreso

come sia grave il peso

di sorte sventurata.

SERVO

Io da buon zelo spinto

ho affrettato a mio poter il passo,

né tanto m'ha spronato

la servitù devuta al mio signore,

quanto 'l desio di far che la reina

sentisse tal novella; la qual stimo

che cara le sarà.

CAMERIERA

E quanto cara!

SERVO

Però venir vorrei

io stesso a riferirla, oltra che anco

altro ho da dir, che altrettanto fie

caro ad udirsi.

CORO

E perché 'l taci, lassa!

Perché dividi 'l bene,

di cui quel che ritieni a te non giova

e 'n me scema le pene?

SERVO

M'affretta a la reina

l'obligo mio e la voglia;

pur, perché breve spazio

fie lungo assai a dir quel che mi chiedi,

sappi che fra noi tiensi e s'ha per fermo

che 'l vostro re sia armato,

e sì forte, che quando la reina

nostra non sia per far di propria voglia

quel ch'egli chiede, in liberar la madre,

forse 'l farà cacciata da la forza.

Questo fra noi si dice; ma chi 'l dice

sol fra le labra parla: la paura

è maestra al silenzio. Io, pure, a voi

tacer non l'ho voluto: il compiacervi

so ch'utile mi fie.

CORO

Così potessi

quel che poter devrei, come sarebbe

certa la tua credenza!...

CAMERIERA

Or io me n'entro

con due care novelle,

fonti di due speranze.

Io me ne vado a lei: tu puoi seguirmi,

amico, se ti pare, e tu sarai

il nunzio e 'l relator. Io non ti debbo

invidiar il ben ch'aspettar puoi

del caro ufficio tuo, benché bastante

fôra il mio riferir, per conseguirti

la mercé, che n'aspetti.

CORO

Ei ben la merta!

Or tosto vanne, amico,

segui la cameriera; ella se n'entra.

Entri con ambi voi

ne l'infelice albergo,

anzi nel sen de l'alta mia reina,

quel placido contento,

che non v'entrò giamai

dal dì che fu rinchiusa

la sconsolata donna,

ch'è d'ogni nostro ben seggio e colonna.

Movi da l'auree stelle

chiara, alata, ridente,

o cara lusinghiera,

o miel soave de l'afflitta mente,

e 'l piacer desta, ove 'l dolor si cria

ne la reina mia!

A te parlo, o speranza,

a te, dolce reliquia utile e cara,

reliquia di quell'urna acerba, amara,

onde 'l seme si sparse

(s'antico dir ha fede)

nei campi de la vita,

anzi 'l frutto crudel di tutti i mali.

O miseri mortali,

ove ci trasse curiosa voglia

di donna troppo ardita!

Ma tu, dolce, gradita,

medicina soave d'ogni doglia,

scendi con rapide ali,

e 'l cor regio conforta,

ove letizia è morta.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

SERVO, CORO.

SERVO

Felice me, se giunge ad esser vera

la portata novella! I' men ritorno

sì carco di speranze e di promesse,

che nulla ho da bramar, se non l'effetto

a quanto il capitano a dir mi diede.

Oh, com'è liberal, com'è cortese,

com'è soavemente e grave e saggia

la reina ch'io lascio, e quanto indegna

di sì misero stato! Ahi, pur è vero

ch'ove cresce valor scema ventura,

e ch'a l'alme migliori

giran sorti peggiori!

CORO

Mesce le cose il fato

in invisibil urna,

e versa poscia il ben sparso di male

ne lo stato mortale.

Così, se porge altrui

doni d'alta presenza o d'intelletto,

con l'uno e l'altro è mista

sorte che l'alma attrista;

ad altri accorti meno

con felici successi

si volge il ciel sereno.

Ad un manca l'ardire

e soprabonda l'arte;

altri forte e audace

ha consiglio fallace;

così nel vario aspetto

de la natura torbida e incostante,

nulla è senza sciagura,

nulla è senza difetto,

e felici coloro,

a' quai con lance eguale

si parte il bene e 'l male.

Ma troppo, ahimé, s'avanza

ne la reina mia

la parte acerba e ria!

Troppo, troppo è un affanno

giunto al ventesim'anno!

Ma tu, come la lasci?

Come resta là entro?

È consolata, è lieta

con la novella lieta?

SERVO

Entrai, come vedeste, e fosca scala

solitaria, ahimé quanto, e quanto indegna

di regio albergo, a le sovrane stanze

mi trasse, dietro a quella debil vecchia,

che di qui si partì. Quivi passata

la maggior sala e quinci l'altro albergo,

mi ferma la mia guida e: — Qui m'aspetta,

dice, ch'or qui ritorno. —

Indi con una chiave,

ch'al lato le pendeva, ha un uscio aperto,

ed entrata il riserra: ma sì tosto

non l'ha potuto far, che colà entro

non mi si sia scoperta la reina,

che ginocchion premea lastrico nudo

senza coscin, senza tapeto, e gli occhi

fissi alti in una croce al muro appesa.

CORO

Gli occhi tien a l'insegna

e 'l core al capitano,

e a pugnar per lui l'anima è accinta,

benché debil la mano.

SERVO

La vecchia entrata dentro,

sento un alto sospiro, e quinci a poco

si riapre quell'uscio e 'n vista grave

e con occhi tranquilli, ancorché cinti

di purpureo color e molli ancora

de le lagrime scorse, esce, si ferma

la reina e mi mira. Io, riverente

quanto più so, l'inchino, ed ella: — Amico,

a che vieni? — mi dice — o quai novelle

mi manda il capitan? — Liete, — rispondo, —

alta reina, e nel mio volto il vedi,

se così basso mira occhio reale. —

Quinci tutto le narro: e come i conti

son qui venuti, e a che fin si stimi,

e 'l figlio armato, come ho detto a voi.

Ella grave m'ha udito e senza segno

d'interno movimento: alfin, veggendo

ch'io più nulla dicea, gli occhi ha rivolti

in verso 'l ciel, e: — Gloria — dice — a Dio!

Poi seguane che vuol. Ma tu ritorna,

amico, al capitan, e a mio nome

il saluta cortese e digli ch'io

del suo benigno ufficio

quelle grazie gli do, che dar gli puote

donna di grazie priva.

Pur, quanto posso, do con voglia viva

di mostrar anco un dì, quanto a sé giovi

chi giova altrui, e più quando s'impiega

l'opra in sangue real, che per se stesso

benignamente è liberale e dona.

A te, s'io posso mai, sarà mercede

quel che sperar non puoi ne la fortuna

angusta, ove ti trovi: alto palagio

e larghi campi e selve a tuo diletto

ti fien mio dono. Intanto la promessa

ti sia mercede, e godi la speranza,

se speranza può dar d'opra terrena

chi per sé sol l'ha in Cielo. —

Con sì soave voce e sì benigne

maniere espresse ha queste sue parole,

ch'io, confuso dal suono e da la vista,

poco sapea che dir, poco ho risposto,

e nulla forse ho detto.

CORO

Stupor e riverenza

desta nei petti altrui real presenza:

ma se l'avessi vista

in ricco seggio assisa

fra le pompe lucenti,

allorché 'l fior degli anni

tocco non era ancor dai duri affanni,

ahi, che vista era allor dolce e superba!...

Ahi, che memoria acerba!

Pur, il nembo dei mali

intorbidò, ma non oscura in lei

le sembianze reali.

SERVO

Del matutin colore

ne la languida sera

scopre imagine il fiore.

Or io men vo, ché la dimora mia

a voi non giova e a me nuocer potrebbe;

la servitù richiede

prontezza: al suo signor chi tardi arriva,

con suo periglio arriva.

CORO

Ma l'amistà non parta,

se ben si parte il piede.

Ritorna a rivederci, e quel che senti,

rapporta a noi, che sconsolate e sole

sol possiamo obliar le cure acerbe

col sentir nuove cose.

SERVO

Quel che senza mio rischio in util vostro

potrò adoprar, tutto farò. Ma ecco

che sen vien la reina: o donne, a Dio!

SCENA SECONDA

REINA, CAMERIERA e CORO.

REINA

Spero, lassa, o non spero?

O che creder debb'io de la novella

dolcissima bramata,

dolce e bramata inseme,

quanto fra i duri mali

ai miseri mortali

dolce e cara è la speme?

La qual da lunge or si dimostra al core

ed ei voglioso la vagheggia e mira,

ma non sa l'arte il petto

di darle in sé ricetto.

La lunghezza del male

toglie la fede al bene,

che frettoloso viene!

CAMERIERA

Quasi lieve rugiada matutina,

ch'invisibil ci bagna,

vien quel ch'il Ciel destina,

e più volte ne sentiam gli effetti,

pria che vederne i segni.

Ma se segno veggiam di bene o male,

esser più certo a noi debbe il successo,

quanto è più certo il tuono,

poi che s'è visto il lampo.

REINA

Ma sovente balena,

e taciturno poi

il ciel si rasserena.

Così, spesso anco suole

apparirci l'aurora,

e poi non segue il sole.

CORO

È cosa sì comune la speranza,

che non v'è stato umano,

o misero o felice, o vile o altero,

a cui ella si tolga.

Anzi pur soavissima e benigna,

per l'aria nubilosa o ver serena

dei vari avenimenti

volando, a l'alme s'offerisce e porge,

e di se stessa è donatrice larga,

ov'ha chi la riceva.

E se la speme ha luogo

fra le cose ch'han titolo di bene,

di bene anco si priva

chi di speme si priva,

e al danno congiunge anco l'errore;

s'è pur error privarsi

d'un ben, ch'a noi vuol darsi

senza fatica o prezzo,

d'un ben, che mai non nuoce

e può sempre giovarci.

REINA

Volar può la speranza,

come tu dici, ed offerirsi altrui;

ma nulla è ch'ella s'offerisca e voli,

se non v'è chi la veggia.

Né può vederla il misero fra i mali,

ché la somma dei mali

l'imagine dei beni anco confonde

e 'nvolve in cieco velo

a l'infelice il cielo.

CAMERIERA

A me par, se la speme

è aspettazion di bene,

più si conviene a l'infelice, quanto,

alternandosi il giro

ne lo stato mortale,

il male al ben succede,

e il ben succede al male.

Quinci potrebbe dirsi

che la speme del misero esser debbe

del felice la tema.

REINA

Vuoi tu dunque ch'io speri?

CAMERIERA

Anzi 'l vuol la ragione!

Né tu potrai negar, o mia rena,

ch'a grande alma real non si sconvegna

lasciar il cor sì pienamente ai mali,

che 'n sé non abbia loco almeno al bene

che da speranza viene.

Se la novella è vera,

la ragion dice: spera;

se sarà falsa poi,

l'aver sperato invano,

che può nuocer a noi?

Ma non vaglia ragion, vagliano i prieghi

di queste serve tue:

consolaci, ti prego,

con la vista bramata

di fronte consolata!

Tu nostro sol, tu nostra speme sei:

se 'n te la luce e la speranza è sgombra,

noi solamente siamo

disperazione e ombra.

REINA

Speri l'alma al voler de l'altrui voglia,

s'al mio voler non puote! Io spero, o donne;

e vuo' stimar che la girevol ruota,

fissa già lungamente

col chiodo del mio danno,

or dal fondo si mova in vêr la cima,

se non per trarmi al seggio

de la fortuna prima,

ov'io nacqui, ov'io fui,

almen perch'io trar possa

l'aria, ond'han nodrimento e spirto e vita,

sotto libero cielo.

CORO

Ciò ti conceda il Cielo;

ch'a conseguir il resto

fia duce ed arme il dritto.

REINA

Oh, se fia mai ch'io giunga

a riveder i campi

de la mia patria amata,

del regno, ove già lungo, antico rivo

del sangue mio ben glorioso corse

fra scettri e fra corone;

ove 'l cenere giace

di tant'ossa onorate,

ond'ebber carne queste carni stanche,

che dirò? Che farò? Qual sarà il core?

Quai saranno i pensieri?

Vedran questi occhi gli occhi

di tante amate genti a sé rivolti

e la letizia mia

partita in mille fronti, in mille cori.

Onorerò onorata,

più gradirò servita;

perdonerò, tornerò il seggio a molti

de la prima fortuna;

ascolterò, risponderò, donando

or grazie ed or mercedi:

ahi, opre lungamente tralasciate,

come in lieve speranza

or fra dolci ed acerbe

a l'alma mi tornate!

CORO

Di colà viene uomo straniero in vista

e 'n autorevol passo.

Forse altre volte l'ho veduto, o pure

m'inganna il debil occhio:

faccia Dio ch'egli venga amica stella,

messaggiera de l'alba, anzi del sole

de la libertà nostra!

REINA

Il riconosco,

e fu già un tempo conoscenza acerba;

non so quel ch'or sarà: quel volto ancora

m'affligge in rivederlo!

CORO

Egli è Beel, il consigliero, amico

de la nostra nemica.

Forse per sodisfar passata offesa

di disprezzo e d'orgoglio, ha preso il carco

d'esser ministro a cortese opra e cara.

REINA

Anima bassa e vile

mal può farsi gentile.

Tacciam, ch'egli s'appressa. O pur è meglio

ch'io men rientri. Il cor troppo si scuote,

s'addolora, s'adira.

SCENA TERZA

CONSIGLIERO, REINA, CAMERIERA e CORO.

CONSIGLIERO

Già quattro lune da l'acute corna

per l'intorto sentier son giunte al cerchio

e 'n varii volti si son colme e sceme,

dal tempo ch'io qui venni, onde partimmi

lasciando te grave e sdegnosa troppo

incontra me, contra i decreti giusti

de l'alta mia reina. E si conceda

al natural affetto, che c'inchina

verso noi stessi e spesso toglie il senso

di vera opinion, che tu formassi

parole amare, acerbe ad onta mia

e de la mia reina. Or io ritorno,

torno con alma placida e tranquilla;

così anco ricerco

da te la mente luminosa e sgombra

da le nebbie comuni e dagli affetti,

che soglion oscurar la ragion chiara.

La mia reina, mossa da l'affanno

de le miserie tue, dove t'addusse

colpa di voler troppo ed ostinata

e falsa opinion, onde traevi

teco mill'alme e mille ai ciechi abissi

de le tenebre eterne, a te mi manda.

E prima, com'è dritto e com'è giusto,

chiede e vuole che 'l titolo di erede

del regno d'Inghilterra, che presumi

a te deversi, ti sia tolto e sia

da te negato, rinunziando al dritto,

che 'n ciò pretendi; e quinci che ti spogli

del nome di reina e lasci al figlio

la corona e lo scettro e 'l regio manto,

sì ch'egli senza te regga e governi,

e tu viva soggetta a quelle leggi,

che 'l Consiglio imporrà; Consiglio eletto

da la reina mia. Poscia vuol anco

che tu confermi le passate cose

in Scozia fatte e già colà introdotte

con nuova religione e nuovo culto

nei misteri divini, promettendo

tu per te, per tuo figlio e per lo regno

ch'osservate saranno illese, intatte.

Anzi, che quanto tocca ai sacri riti,

a le sacre persone, ai sacri uffici,

tanto fie sol, quanto fie voglia e legge

di chi tiene o terrà titolo giusto

di rege d'Inghilterra, conoscendo

solo il seggio real dei regi inglesi

per legitimo seggio, onde proceda

la vera autorità del sacro culto;

e si pronunzii Roma empia e fallace

nei secoli avenir ai re scozzesi,

ai popoli, a le genti, a Scozia tutta.

Tal ministro vengh'io: questo t'apporto,

e ciò ti manda la reina mia,

reina pietosissima e possente.

Eleggi tu e rispondi. Io messaggiero

sarò del tuo voler a cinque eletti

da la mente real, già qui condotti

con regia autoritade e regio scettro

ad essequir quel che fie poscia giusto.

REINA

E chi manda e chi viene e quel che dice,

egualmente è crudel: così fie ingiusto

quel che n'ha da seguir. Ma s'è crudele

e chi manda e chi parla, io che l'ascolto

misera son, e misera altrettanto,

quanto più vivo or mi ritorna a l'alma

il gravissimo error, commesso allora

ch'io diedi fede a chi la fede nega

anco a Chi la creò: fui sciocca allora;

or sarò condennata, i' me n'accorgo.

Ma sia che può. Tu ch'a ricever vieni

le mie parole, ascolta e riferisci.

Tôrre a me stessa quel che Dio mi diede,

né 'l debbo, né 'l consento. Ei, sua mercede,

nascer mi fe' reina: anco reina

mi riceva morendo. Il regio segno

segua l'anima sciolta: s'altri stima

di potermen privar, venga e 'l si tolga!

Lasciar il regno al figlio opra è devuta

e bramata anco, ma lasciarlo allora

ch'imporrà Dio ch'io lasci regno e vita.

E s'egli sarà saggio

e forte eguale agli avi, assai gran cura

avrà la tua reina in ritrovarsi

per sé 'l consiglio, senza darlo a lui;

né così imbelle è Scozia o così stolta,

che non basti a produr regi a se stessa.

Che d'Inghilterra erede i' mi pretenda,

negar nol voglio: il sangue, onde son donna,

a quel regno mi chiama. Pur, se fie

voler comun del popolo ch'io lasci

il mio dritto, ecco 'l lascio; egli s'elegga

re di stirpe miglior, se la ritrova

miglior de la Stuarda.

Ma ch'io confermi poi

il culto rinovato

de la religion del regno mio,

o ch'io consenta ch'egli prenda altronde,

fuor che del roman seggio, ordini e riti

nei sacri uffici, è empia la dimanda

e sciocca la speranza d'impetrarla.

E se 'l mio contradir ha da pagarsi

col sangue, eccoti 'l sangue, ecco la gola;

non sì amica son io di questa vita

o del regno, ch'io brami o l'una o l'altro

con l'empietà congiunta! Queste cose

rapporta tu a chi devi, e più, soggiungi

a la reina tua ch'a passo tale,

ch'a udir dimande niquitose ed empie,

a viver vita prigioniera e indegna,

m'ha tratto quella fé ch'ella mi diede:

però ch'ella me stimi

sciocca, se la credetti,

ché con ragion lei stimar posso e stimo

e perfida e spergiura.

Questi titoli aggiunga al titol chiaro

di reina e al nome d'Isabella,

e sian invece di quel ch'ella brama

di reina di Scozia! Or io men vado

con quella libertà, che sol mi lascia

la tua reina, di poter entrare

in questo indegno albergo e uscir poi

a trar l'aria a misura.

CONSIGLIERO

Vanne, ché qui verrà fra spazio poco

chi la superbia domi e 'l regio fasto

di bassissima donna!

CAMERIERA

A dimanda crudel, risposta acerba

non si dica superba.

Giusto è che chi ricerca

quel che cercar non dee,

trovi quel che non vuole.

CONSIGLIERO

A la fortuna

sian pari le parole:

altro ha da dir chi serve, altro chi impera!

CORO

Serva solo è del giusto anima grande,

e servitute tale

è imperio reale!

Ma tu, che vedi l'ingiustizia e 'l torto

(né già negar il puoi, s'hai senso umano)

de la reina tua

ver la reina mia, conceder déi

che 'l dolor de l'offesa

si sfoghi almen col dimostrarsi offesa.

Consentasi a reina prigioniera

misera di vent'anni

in durissimi affanni,

poter chiamar crudele

chi del regno la priva,

chi la ritien cattiva.

E taci, o riferisci le parole,

le vere sì, s'a ciò ti sforza l'opra,

a cui mandato sei,

ma non ridir l'acerbe!

Deve fedel ministro

giovar quanto più puote al suo signore,

ma non nuocer altrui con quel che vede,

che, scoperto o taciuto,

al suo signor non giova;

e soavi, e acerbe

formar si ponno le medesme cose,

come son riferite.

CONSIGLIERO

Non nuoce o giova ch'io più dica o meno;

né venn'io qui, perché da le parole

de la padrona tua

ordin nuovo si fesse,

o si cangiasse il fatto.

Già è fisso il consiglio; e qual ei sia

ben tosto il sentirà la testa altiera,

che magnanima parla e 'l regio serba

fra le mendicità. Fui mandat'io

sol per udir quel che s'è udito e quinci

confermar il giudicio e la sentenza

de la reina mia:

e s'altro rispondea la sventurata,

umiliando l'anima superba,

riso era l'umiltade e s'aggiungeva

a la pena lo scherno.

CORO

Ahi, pensier crudo

e d'anima maligna!

CONSIGLIERO

A te si lasci

giudicar con parole il crudo o 'l pio

dei pensier nostri: noi de l'altrui vita

giudicherem coi fatti.

CORO

Sopra me si disfoghi

l'odio ingiusto e crudele, e il mio sangue

spenga l'ingorda sete

di donna, anzi di furia, coronata

di gemme il capo e l'alma di serpenti.

Sen va il ministro fiero

di reina più fiera,

e porta ne la mente il rio veneno

(e 'l trarrà per la bocca),

il veneno morta, che già molt'anni

ci va temprando il Cielo!

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

REINA, CAMERIERA e CORO

REINA

Udite avete le dimande ingiuste,

amiche, e la maniera di spiegarle,

so, con vostro dolor e con pietade

de la sventura mia, veduta avete.

Peggio è quel che s'aspetta, s'ancor peggio

resta fra i mali umani o s'altro ancora

può pensar alma cruda in danno altrui.

E se la morte forse a me sì tarda,

pietà non n'è cagion, ma crudeltade.

Breve pena è 'l mio danno di vent'anni

a l'insaziabil voglia

di chi mi tiene in forza; e certo m'ebbe

già per nemica un tempo, or m'ha per scherzo.

Ma scherzo fie d'aspro leon, che tiene

fra gli artigli cervietta;

ch'or la costringe al fianco, or la rallenta

e la volge e rivolge, or due o tre passi

sciolta la lascia e quinci a lei s'aventa

e ratto la ghermisce: alfin la squarcia

e di sangue empie le voraci canne.

Non si fermerà prima

il vario raggirar di questa ruota

sul duro campo, ove la mia nemica

mi fa continua guerra,

che 'l mio sangue sarà tragico inchiostro

a dolorose carte,

e l'altrui crudeltade

nel danno mio fie celebrata alfine

con orror e pietade.

CAMERIERA

Da l'incostanza del tuo vario stato

argomentar si deve in chi t'aggira

voglia indeterminata; e come febbre

che varia il corso e 'n furor vario assale,

rare volte è mortale,

così anco debbiamo,

ne l'aspra infermità de la tua sorte,

sperar salute.

REINA

Io la salute spero,

non già qual tu la speri! Ma che dici

de l'udite dimande? E che ne stimi?

CAMERIERA

Crude son le dimande e sono ingiuste:

e qual occhio nol vede?

Ma chi chiama, non toglie,

e la risposta acerba è medicina

al dolor di chi ascolta acerbe cose.

Or, quel ch'io penso e stimo,

è che la tua nemica ora si veggia

stretta da qualche rischio o per tuo figlio

o per l'ispano re, e perciò tenta

quel che può trar da te, pria che sforzata

ti disciolga e sprigioni.

REINA

Sprigionerammi, credo,

ma a l'alma prima fia

tolta la prigionia.

CAMERIERA

Misera me, con quai duri presagi

mi tormenti la mente! Il tuo temere

nulla val, se no al danno, o mia reina.

A te si chiede la corona e 'l legno,

che s'impieghi nel figlio; de la vita

si tace, o se minaccia audace lingua

di ministro crudel, talvolta scorre

l'arroganza servile ove non giunge

il signoril impero; e già conosci

chi venne, chi parlò: fortuna vile

inalzata è superba ed insolente.

Più dirò, mia reina,

e dirò veramente

quel che l'anima sente.

Queste udite novelle,

le quali esser denno

in qualche parte vere, il lungo corso

dei nostri mali, il variar del cielo,

che pur anco per noi debbe girarsi,

queste dimande poi, fatte a tal tempo,

al tempo, dico, che sappiam ch'armato

è 'l nostro re, e quel di Spagna forse,

contro la cruda ria che c'imprigiona,

ai miei languidi spirti, a l'egro sangue

di questo cor vinto da danni e anni

spiran vigor che mi rinforza l'alma.

E spero e credo, e imagino soavi

e dilettosi tempi; e già mi fingo

ne la camera tua, reina mia,

chiamar or conti, or duci, ed essi uscirne

lieti d'alte speranze e di mercedi.

Quinci anco te parmi veder assisa

in alto seggio ornato a gemme e oro,

cui faccian genti armate ampia corona,

e da un lato, vaghissima, la schiera

di damigelle e donne in varia mostra,

per abito ricchissime e per forma;

da l'altra, in grave e maestevol riga,

intenti ai cenni tuoi, uomini eccelsi

da la fronte spirar senno e consiglio;

e te benigna ora ricever liete

gratulazioni e offerte da reali

messaggier, quinci e quindi a te condotti

per lunghissime vie da varii lidi,

or ascoltar del popol tuo fedele,

di nobili e plebei, richieste umili,

e graziosa te conceder parte,

parte negar, seguendo il dritto e 'l giusto

de le dimande lor; ma dolce sempre

concedendo e negando. Oh, se questi occhi,

anzi ch'ombra mortal li acciechi o copra,

giungon mai a veder quel ch'io ne spero:

soavissimi tempi, ore felici!

Felicissima me, serbata ancora,

col grave incarco d'anni egri e infermi

a servitù sì cara, a sì dolci opre,

a veder benignissima reina,

reina da me amata al par de l'alma,

fatta di prigioniera e infelice

signora e donna fortunata e grande!

Splenda ancor una volta, un giorno, il sole

al fortunato ben, ch'or fingo e formo,

e chiuda morte poi rapida o lenta

i languidi occhi in sempiterna notte;

ché soave fie 'l sonno e caro letto

il feretro e 'l sepolcro.

CORO

Dolci campi di Scozia e piagge care

de la mia patria amata,

col presagio soave e con la speme

d'anima saggia, accorta,

cui raro falle antivedenza vera,

anch'io vedervi spero!

Spero veder ancor Cluda e Fortea

trar l'acque a l'oceàn più che mai chiare,

e mescer d'oro le minute arene.

Vedrò il sassoso e duro Cheviota

a freddo Borea, quasi ad aura estiva

di tepid'Austro o Noto,

ornar l'orrida chioma

di sconosciuta palma

e d'insolita oliva.

Torneranno le perle

a le neglette mie squallide chiome,

e variando vesta,

or candido ornerammi,

or verde, or giallo, or perso,

or purpureo colore.

Seguirò vaga la reina mia

ai sacri tempi, ai vaporanti altari

di caro arabo odore.

E vedrò in ampia e frequentata via

chi m'inchini e m'onori.

Mirerò rimirata;

ma fie vario lo sguardo:

cupido in altri forse,

e 'n me semplice fie.

Tesserommi ghirlanda al dolce suono

di voce innammorata,

che cantando m'adombri i suoi desiri,

e a me fien dolce riso

misti fra 'l canto i languidi sospiri.

Ma ciò sia nulla, e sol mi si conceda

versar acque odorate

da vasi aurei gemmati

a le mani reali,

e 'l cibo trarre a la reina mia

chiuso in lucido argento,

e di varia vivanda

secar a regia mensa

le parti più soavi:

ella le accetti e prenda

dolce, grave e ridente,

da mano riverente.

REINA

Deh, quai cose ti fingi, e quali agogni!

Tal nel sonno vaneggia

mendico, a cui colma appresenti il sogno

mensa di gemme e d'oro.

Ma concedasi ad alma travagliata

da verissimi affanni

sollevarsi con l'ombre

di dilettosi inganni.

Spera pur, fingi, amica:

s'altro dar non ti posso in tua mercede.

fingerò quel che fingi,

crederò quel che credi;

ma nel vero avenire

solo la gloria sia

del mio Signor, non mia.

CORO

Il disusato riso, che s'è aperto

ne la tua cara bocca

or, al formar di tai dolci parole,

quanto soavemente

a me l'anima ha tocca!

E quasi peregrin, che 'n su la sera

miri nembo piovoso diradarsi,

onde si scopre imagine di sole,

promettendosi bella e chiara aurora,

al camin si rincora;

tal io tra fosche e nubilose cure,

del tuo riso al sereno

premo men grave la penosa via

de l'aspra prigionia,

discoprendomi il riso

cara imagine e grata

di libertade amata.

REINA

Pasciamci pur d'imaginate larve!

CAMERIERA

Mira, di là sen torna a lunghi passi

il servo ch'a noi venne ha poco d'ora:

che sarà? Che dirà? Liete novelle

già ci ha portato, e or con altre forse

lietissime ritorna. La fortuna

suol raddoppiar gli effetti, e rare volte

si ferma nel primiero, o buono o reo.

SCENA SECONDA

SERVO, REINA, CAMERIERA e CORO.

SERVO

Reina, a te mi manda il capitano,

per dirti com'or qui saranno i conti

venuti a trattar teco. Io già gli lascio

usciti de l'albergo, e tardar poco

potranno a giunger qui.

REINA

Vengan felici;

me n'entro ad aspettarli.

SERVO

Anzi per altro

mi manda il capitan, a cui par bene

che tu scendessi ad incontrargli, s'eri

ne le stanze sovrane.

REINA

Si conceda

questo anco a la mia sorte, e grazie a Dio,

cui piace umiliarmi. Io qui li aspetto,

poiché qui sono; e se richieggon anco

onori da reina prigioniera,

riverente vêr lor moverò il passo:

accetti il Signor l'opra! Ma che stimi?

Che portan seco? Hai nulla udito poscia,

più di quel che dicesti?

SERVO

Nulla invero; ma gravi cose certo

rivolgon ne la mente. Il tornar spesso

a ragionar fra loro, e negar questo

e quell'altro affermar, come si scorge

dai cenni e movimenti, indizio chiaro

son di pensier ch'aggiri dubbie cose

e difficili e grandi.

REINA

Oh, sian pur anco giuste!

CAMERIERA

Duramente

si congiunge con l'utile l'onesto:

e ciò sospesa tien la mente, ch'abbia

risguardo a l'un e l'altro. Il liberarti

è giusta cosa, ma non util forse

al consiglio di donna ambiziosa,

avida del tuo regno.

REINA

E, quai proposte

mi propongh'io d'udir, a la risposta

aiutimi il mio Dio.

CORO

Il liberarti

sia tuo fine, o reina, e la tua lingua,

quasi arco teso, scocchi le saette

de le parole tue solo nel segno

di ritornar al regno.

REINA

Di ritornarvi bramo, perché è giusto;

così quel che potrò dir senza offesa

del Regno eterno e de la regia stampa

impressa nel mio sangue,

tutto dirò, per sodisfar a voi,

e al giusto, e a me medesma.

SERVO

Sento ch'è saggia cosa

farsi conformi agli accidenti e ai tempi.

Con vela or bassa, or alta

varca il nocchier l'onde sonanti, infide,

come gli detta il vento:

purché si giunga in porto,

ogni arte è buona e dritta. Or ecco i conti;

quei che vengon davanti e argenteo scettro

han su le spalle son ministri loro

e segno dan d'autorità reale.

CORO

Tali d'alta fenestra

di dorato palagio

vedev'io già venir con lunga schiera

più diletti ministri e più fedeli

a la reina mia.

REINA

Con regio fasto

vengon a donna misera e mendica!

CAMERIERA

In ciò dimostran segno

d'onor e riverenza: a regia donna

regio culto conviensi, e di reina

già ti portan l'insegne.

REINA

Io qui mi fermo

ad aspettarli.

CAMERIERA

A mio parer, ben fôra

moversi lentamente

inverso lor. Può maestà serbarsi

ed onorare altrui.

REINA

Moviamci dunque.

SCENA TERZA

C. di PEMBROCIA, REINA, CAMERIERA, C. di COMBERLANDA e CORO.

C. di PEMBROCIA

Come ci aggiri, o Ciel, come travolvi

queste cose mortali! In quale stato

ti riveggio or, o donna! In qual ti vidi

ha già molt'anni!

REINA

E questo esempio sia

a chi vive, a chi regna; e miri quanto

sia sdrucciolo il terreno, ove s'imprime

l'orma del piede umano: è mobil cerchio

la vita che corriamo, ove ci aggira

mano or placida or dura, or alto or basso.

C. di PEMBROCIA

Di quel che dici, tal imagin veggio,

che non più vivo può mostrarsi il vivo.

REINA

Grazie a chi 'l fa; perdono a chi n'ha colpa

e a chi 'l mal supporta.

C. di PEMBROCIA

Per te sola

parli, poiché tu sola il mal supporti

e sola n'hai la colpa.

REINA

Oh, così sia;

non sia di duo l'error, e sia la pena

di sol una. Ma 'l fallo si divide

e n'ha parte maggior chi men devria!

Errai, confesso, e mille colpe e mille

aggravan l'alma, ma chi me condanna,

non è innocente forse.

C. di PEMBROCIA

È giusta e pia!

REINA

In me si vede: io testimonio sono

e son giudice e reo!

C. di PEMBROCIA

Così mi pesa

dirti ch'anco sei tu la condennata.

REINA

Già di molt'anni 'l son: purtroppo il sento.

C. di PEMBROCIA

Dove cresce l'error, cresca la pena.

REINA

È giusta la sentenza, io la confermo.

C. di PEMBROCIA

Fallo ostinato è doppio, e doppio aggrava.

REINA

E cresce quanto ostinazion s'invecchia.

C. di PEMBROCIA

Così in te crebbe, o donna, a cui molt'anni

durissimi a portarsi e prigion lunga

non han potuto l'indurata mente

o smover o piegar; anzi ostinata

più neghi, allorché più conceder déi.

REINA

Nulla nego io, che consentir si possa

da mente giusta e pia.

C. di PEMBROCIA

Ma contradici

a dimanda real d'alta reina,

cui sconviensi negar, non quel che chiede,

ma quel che accenna o pensa.

REINA

Ove la real voce ha giusto impero

questa legge s'osservi e s'ubidisca.

Chi nacque re commandi e sol soggiaccia

a le leggi e al dritto.

C. di PEMBROCIA

Io servo chiamo

chi è in altrui poter e di se stesso

sol può quel ch'altri vuole.

REINA

Anzi, chi vuole

quel che non deve è servo: anima torta

è catenata e schiava. E la corona

porta re ingiusto in capo; al collo, ai piedi

ha catena, ha capestro.

C. di PEMBROCIA

E pur ha forza

d'assolvere e punir com'a lui pare.

REINA

Tal ha forza anco masnadiero in selva,

che puote armato tôrre e manto e vita

al maggior re, se disarmato e solo

ne le sue insidie cade.

C. di PEMBROCIA

Ma non si chiami ingiusto chi 'l consiglio

d'uomini giusti adopra, anzi che scioglia

al giudizio la voce.

REINA

Io tal nol chiamo.

C. di PEMBROCIA

Non chiamerai dunque la mia reina

ingiusta.

REINA

Io nulla dico, ma risponda

per me questa prigione ove son chiusa.

C. di PEMBROCIA

E perché non risponda lungamente

noi ten veniamo a sciôr.

REINA

N'è tempo omai,

e grazie a voi, che qui giusti venite

ministri a sì giust'opra!

C. di PEMBROCIA

di quella autorità ch'a noi è data

di poter essequir quanto ti dico.

Questo è regio sigillo e queste note,

le riconosci, son de la reina,

formate di sua mano.

REINA

E l'uno e l'altro

riconosco: già molte n'ho veduto.

C. di PEMBROCIA

Or spiega tutto e leggi.

CORO

O cara carta

che libertà ci apporti!... Ma si turba

la reina leggendo e impallidisce...

REINA

Disusata allegrezza

turba come dolore. Ma tacete,

infin ch'io tutto legga: è caro e dolce

il principio, e se tal è 'l mezzo e 'l fine,

libere sarem tosto.

CAMERIERA

O Cielo, o Dio,

grazie di grazia tanta!

C. di COMBERLANDA

Anzi, perché si tolga a te la noia,

che leggendo aver puoi, senti e ascolta

in brevissime note

la via di liberarti: è dura via,

ma pur utile e dritta. — Si discioglia

dal collo quella testa, e l'alma voli

poi dove deve, e 'n libertà sen vada,

ché ciò le si concede. —

REINA

Da tal mano

tal colpo s'aspettava.

Togli le carte tue: mente infedele

le scrisse; non più stian in man fedele!

CORO

Ohimé, ohimé, che veggio!

REINA

Ben par che vaga e ingorda

è de l'umano sangue

chi te manda e qui scrive,

poiché non basta a l'avida sua sete

il sangue pio di tanti e tanti occisi,

(con qual giustizia, in ciel giudichi Dio!)

ché 'l sangue anco a me chiama,

a me, che sangue sono

del sangue ond'ella nacque!

CORO

Ahi, dura voce!

Di che sangue si parla?

REINA

Che fec'io, che diss'io,

perché s'aprisse il varco

a tanta crudeltade?

C. di COMBERLANDA

Altro conviensi

or, ch'incolpar altrui o che dolersi.

REINA

Morir conviene, il veggio!

Ma non si torrà almeno

il dir che chi m'occide

empiamente m'occide.

CORO

Misera, quai parole

sento! O reina mia,

chi morirà, chi occide?

REINA

Io, io sarò l'occisa,

o figlie! E micidiale

de la vostra reina

è la donna crudele,

di cui son giusta erede!

CAMERIERA

Occisa te, mia donna,

te, mia reina e vita?

occisa te? Misera me, che dici?

REINA

Questa testa si chiede,

e dove già mi cinse aureo monile

passerà il ferro acuto.

Tale strada s'insegna

a la mia libertade!

CORO

Passi per questo cor, per questa gola,

e dal collo disciolta

sia la mia testa, dono

di chi testa dimanda!

C. diCOMBERLANDA

Vada la pena onde la colpa venne.

REINA

Da me la colpa venne;

colpa di creder troppo

a chi meno devea!

Ma pur creder devea donna a donna,

e reina a reina,

a la zia la nipote.

C. diCOMBERLANDA

Vane son le parole,

ove necessità costringe a l'opra:

l'ora, che lamentando

spendi e incolpando altrui,

in ufficio più utile consuma.

Pensa a quel che conviene

per l'altra vita; ché di questa breve

poco spazio t'avanza.

REINA

O consiglio pietoso

di consiglier crudele!

Ma sì poc'ora resta

a la misera vita,

ch'anco non abbia tempo a voglia mia

di pianger la mia morte?

C. diCOMBERLANDA

Questo sol, che tu miri

precipitando già cader nel mare,

sarà l'ultimo sole

che veggian gli occhi tuoi.

CORO

O fiera crudeltade,

o crudeltà di tigre,

cui giungere a ferire

e ferir e occidere è un sol punto,

e 'n un punto confonde

con la vita la morte!

REINA

Già lungo spazio, veggio

pender sul capo mio l'acuta punta

di così ingiusto ferro.

E quasi peregrin, ch'al far de l'alba

si consigli lasciar notturno albergo,

fra le tenebre ancor s'adatta e veste

il duro piede e a l'incurve spalle

impone il picciol fascio, ove ravolte

porta le sue fortune, indi, ripresa

la sua compagna verga, solo attende

che s'apra l'oriente; tale anch'io

ne la notte acerbissima e indegna

de le sventure mie, solo aspettando

al mio estremo camin l'ora prescritta,

di sofferenza l'anima vestita,

e posto il fascio dei miei gravi errori

sovra gli omeri amici di Chi volse

sopra sé tôrlo, con la verga forte

de la speranza nata in mezzo al mare

d'infinita pietade, apparecchiato

ho 'l piede al duro passo che m'ascrivi.

Ma perché orrido è troppo e dubbio 'l varco

e più falle chi più vi si assicura,

qualche spazio maggior chiamo al viaggio.

Non s'allunghi la vita, ma s'allunghi

il tempo di pensar come son vissa

o come ho da morire.

Lieve grazia dimando, e nulla toglie

a chi darla mi può: piangan questi occhi

un altro sole ancor le colpe mie,

e la testa infelice, che mi chiami,

sia poi mercé de la mercé ch'io chiamo.

C. diCOMBERLANDA

Lungo spazio s'è dato e lungo rischio

ha corso testa de la tua più degna:

tolgasi omai del volto la vergogna

de l'alta mia reina,

che donna prigioniera

e misera e mendica

ardisca contra lei di tesser frodi

e perigli di vita.

REINA

Ahi, com'è vero

che cor ingiusto, in oltraggiando altrui,

a sé sicurtà toglie! Il proprio fallo,

credimi, fa temer la tua reina,

non arte o insidia mia.

C. diCOMBERLANDA

Ancor ardisci

di gettar biasmi, ove tu devi onori?

Vanne tosto là entro, e vedrai tosto

se 'l fallo è altrui o tuo!

CORO

Ahi, empia mano,

così sospingi e premi

real persona, e vivi? Soccorriamla,

vendichiamla, sorelle, o moriam seco!

REINA

Amiche mie, il soccorso

e la vendetta sia pregar perdono

a lui, ch'ora m'offende,

e a me, che son offesa.

Quetisi 'l vostro cor; e se 'l mi deste

un tempo ubidiente,

dàtelmi or, vi prego,

placido e sofferente.

Io me ne vo a morir, io vo a finire

l'aspra miseria mia;

men vo contenta e lieta,

se non quanto vi lascio

vergini abbandonate, e in man a cui

no 'l so, né so che fie poscia di voi,

poi che v'avrò lasciate.

Accettivi quel Dio che tutti accetta:

Ei vi sia guida e schermo:

di ciò umilmente e caldamente il prego,

fra le preghiere estreme.

CAMERIERA

Ove ne vai, reina?

Ove ne vai, mia vita? Ove mi lasci?

Me, che sempre fui teco

nel corso de la vita,

dunque or senza te lasci

nel passo de la morte?

Crescesti in queste braccia, in queste braccia

morrai, s'hai da morire;

né di qui ti trarrà se non il ferro.

Il ferro, che crudele

s'apparecchia al tuo danno, ohimé, ohimé,

quel ferro me trafigga e me recida

in mille squarci e mille,

pria che da te mi svella!

REINA

Madre, assai lungamente m'hai mostrato

che tu m'ami, e tal fede io n'ebbi sempre;

e m'è stato il tuo amore

caro e utile un tempo:

or m'è caro e dannoso, poiché veggio

ch'ho da darten mercede

di pianto e di dolore.

Perdonami, e ricevi

quel che mi dà per darti

miserissima sorte.

Non m'accrescer più male;

non veggian gli occhi miei nei guardi estremi

sì dolorosa vista,

che tu divelta a forza

dal corpo, ch'or abbracci e 'n vano stringi,

caggia a terra, e la chioma

canuta e riverenda si disperga

sul venerabil volto!

Assai hai fatto, assai

hai amato, hai servito:

lasciami ch'io men vada

ove 'l mio Dio commanda,

e solo aggiungi a questa guancia mia

la cara guancia tua.

Ciò ricevi per segno

ch'io gradisco il volere:

questo sia 'l dono estremo

a te d'una tua amica,

a me d'una sorella.

CAMERIERA

Ciò ti darò ben tosto,

ma morrò poscia teco, o mia reina:

così vogl'io! Se tu no 'l vuoi, perdona.

Ahi guancia! Ahi guancia cara!

Quanto lieta t'amai,

quanto fedel t'ornai,

quanto mesta or ti bacio! Ahi, ahi, ahimé!

REINA

Or mi lascia e mi segui, se seguirmi

ti concede chi forza ha sovra noi.

Seguimi al duro passo

e con prieghi m'aita.

Nulla più puoi tu darmi

che più mi vaglia o giovi. O cielo, o sole,

non vi vedrò più mai

da prigion infelice!

CAMERIERA

Seguirò, mia reina;

e che poss'io più far, che più mi piaccia?

Seguiran questi piedi i passi tuoi

sin a la morte, e poi

seguirà l'alma tua l'anima mia,

sciolta da queste carni.

CORO

E noi non seguiremo?

Rimarrem vive noi,

se muor il nostro core,

se muor la mia reina?

Andiam, moriam con lei!

C. diCOMBERLANDA

Ferminsi queste donne! E tu, soldato,

vieta loro l'entrata.

REINA

O figlie, a Dio,

a rivederci altrove,

in più libera stanza e più serena,

a rivederci in Cielo!

CORO

Crudel, perché ci togli

poter veder morire,

anzi morir con chi ci tenne in vita,

mentre ci restò vita?

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

MAGGIORDDUOMO e CORO.

MAGGIORDUOMO

Signor, io so che là su regni e vivi,

e sei dovunque è vita.

Questo credo, ed è vero

che giusto insieme e pio

volvi le cose umane, e premi e pene

libri con lance a le nostr'opre eguale.

E pur vidi sovente

oppresso l'innocente

cader, e la sua sorte

sì bassa e vil, che, col terren congiunta,

pur quasi fango si calpesta e preme.

E d'altra parte sorge,

e con le nubi mesce

l'altiera testa, e vuole, e chiama, e impetra,

e dice, e impera, e volge il dritto e 'l torto

con man superba e forte,

l'ingiusto e l'empio; e come di sua voglia

fa de la vita e de la voglia altrui.

Che poss'io dir, se non che i tuoi giudìci

e le leggi, con cui l'opre governi,

sono altissimi abissi,

al cui sacro profondo

virtù nostra non giunge,

e stolta cade, se poggiarvi tenta?

Muore Maria di Scozia e Isabella

d'Inghilterra l'occide!

CORO

Ohimé, che sento!

È morta la mia donna,

è morta la mia vita!

MAGGIORDUOMO

Vive ancor, o sorelle,

la misera reina

di genti miserissime e meschine:

vive, ma de la vita

solo le resta il fine.

Anzi le restan solo i danni e i mali,

di che piena è la vita.

CORO

Già molt'anni corr'ella

in sì duro viaggio,

sotto sì duro incarco!

Ma che dicon? Che fanno colà entro?

MAGGIORDUOMO

Che so io? Tutto è male,

tutto è lagrime e doglia,

tutto è disprezzo e scherno.

CORO

Ahi, empie e crude genti!

ahi, scelerate menti!

MAGGIORDUOMO

Dato le han poco spazio ancor di vita:

ed ella, poiché dentro

venne seguita da la cruda schiera,

che qui veduto avrete, essendo giunta

a la più interna stanza, rivolgendo

gli occhi placida e umìle a quei che seco

venian a par, ch'autorità maggiore

hanno in quest'opra, ha detto: — Qui finisca,

amici, prego, il vostro venir meco,

e lasciate me sola

questo poco di vita che m'è data.

Apparecchiate voi

quel che conviensi per la morte mia,

ch'io farò l'apparecchio

per l'altra vita. Ciò dato mi sia

per grazia, se volete,

o per pietade umana. —

— Ciò — detto ha l'un di lor — dato ti sia;

ma sia breve lo spazio

a l'opera che chiedi. — Ella con gli occhi

gravi e tranquilli ha consentito e, dentro

entrata, spinto ha l'uscio per serrarsi,

ma n'è stata sospinta; e quindi queta

ritiratasi a dentro, il volto tinto

di dolor e pietade,

me, che l'era vicino, ha rimirato.

Avev'io gli occhi pregni

de le lacrime sorte a l'aspra vista,

al misero spettacolo; ma scorse

son allor per le guance

con così larga riga, ch'ella, accorta

del mio pianto, serena, ha detto: — Che hai?

Piangi tu la mia vita

o la mia libertade? —

CORO

Ohimé, ché vita tale

e cotal libertade

è mia prigione e morte!

MAGGIORDUOMO

— I' piango — ho detto,

e altro volea dir; ma 'l duol m'ha tronca

la parola e la voce.

— Prega per me, amico,

ha soggiunt'ella allora,

quest'è ufficio più pio

ed è d'util maggiore. —

Non ha potuto dir queste parole

senza rossor negli occhi, e la nascente

lacrima s'è scoperta.

Quinci, lasciato me, volgendo il guardo

a la croce, ch'è appesa a capo al letto,

vêr lei s'è mossa con le braccia aperte

e al giunger le ha dato un bacio ardente,

figgendo al piè la bocca, ove gran pezza

s'è ferma. E poi, se stessa abbandonando,

caduta ginocchion, con gli occhi fissi

in lei, alti singulti, alti sospiri

ha dato, e quinci declinando il capo,

sì che quasi a toccar giungea la terra,

a più poter con la man destra il petto

s'è percosso più volte e ripercosso,

sospirando e gemendo.

CORO

Plachino l'ira tua questi sospiri,

Signor, e li ricevi

per prezzo di pietade!

MAGGIORDUOMO

Alfin, volendo

levarsi, grave dal dolor e forse

da quella debiltà, che già contratta

ha lungamente, è ricaduta sopra

la man sinistra, e con lei dato ha in terra,

e 'n cader s'è rivolta. Io, ciò veggendo,

son corso ad aiutarla, e me seguito

ha 'l conte di Pembrocia, il qual l'ha presa

sotto l'un de le braccia, io sotto l'altro,

e 'n sollevarla, a noi volgendo il volto,

placidissima ha detto: — Il mal e gli anni

vi dànno or questo peso, peso grave

d'inutil donna. Iddio merto vi dia

di quest'ultimo ufficio in util mio! —

Sorta, bacia la croce e riverente

dal chiodo la discioglie, ove pendea,

e strettalasi al petto:

— Amici, andiamo: — dice — ecco la guida,

ecco 'l cibo e 'l ristoro

a quel poco viaggio, che mi resta,

a cui son pronta. Ma se puote ancora

misera peccatrice aver mercede

di poc'ore di vita, si conceda

a questa che 'l vi chiede

qualche spazio maggiore, il qual si spenda

in ufficio pietoso. Un re, figliolo

di madre sventurata,

riceva da sua madre, anzi che mora,

se non gli estremi baci

e l'estreme parole,

almen gli avisi del camin estremo.

Spazio chiamo e inchiostro

a scriver poche note,

ch'esser potran da voi vedute e lette,

per mandarle a mio figlio.

Nulla è questo a chi dona,

a chi dimanda è molto. — In dubbio han posto

i conti la richiesta; pur, al fine

han permesso che scriva, e io la lascio

or assisa scrivendo.

La lascio a forza; poich'a forza m'hanno

cacciato di là entro.

CORO

E dove resta

la fida cameriera?

MAGGIORDUOMO

La meschina

caduta è di dolore in grave ambascia.

Or riman sovra un letto e a lei sopra

piange la vecchia serva.

Ma già di là discende la famiglia

dei conti, e dietro lor mira i ministri

con l'argentate mazze.

CORO

Ahi vista acerba e dura!

Tremo, tremo, mirando,

aspettando che segue, ohimé, ohimé!

Mira la mia reina,

mirala in mezzo a duo ministri crudi

con gli occhi fissi al cielo.

Ahi, che la croce ha sovra 'l petto affissa!

Vedi or come la bacia:

ohimé, chi la consola

ne l'orribil sciagura?

Mira, misera, come

move languida il passo:

ahi, ch'a pena la regge

il debil piè cadente; ma la fronte

nulla scopre di doglia o di paura.

Ahi regio cor, ahi alma

d'alta virtute ornata!

Ohimé, ch'ella mi guarda:

deh, qual dolor deve assalirla, lassa,

in veder care serve abbandonate,

e sé sul passo de la morte, ohimé!

SCENA SECONDA

MAZZIERO, REINA, C. di COMBERLANDA, MAGGIORDUOMO, C. di PEMBROCIA e CORO.

MAZZIERO

Traetevi in disparte:

lascisi aperto il varco

a chi viene, a chi segue.

CORO

Lascia ch'io m'avvicini

ad aiutar la mia reina, o almeno

a toccarla, a vederla, ohimiei, ohimiei!

Reina, ove ne vai?

REINA

Io me ne vo a la vita,

figlie, e anzi ch'io vada,

ritorno a rivedervi:

questa grazia m'è data in sul partire.

Fortunata, se come

vi veggon volentieri questi occhi miei,

così vi vedessi anco in altro stato!

Questo a me toglie il Cielo;

ma a voi non torrà forse il rivedervi,

ove pria me vedeste:

quest'ultima speranza al cor mi resta.

Rimanetevi in pace,

e se 'l mio mal vi duole,

raddolcite il dolore

con la libertà vostra;

con quella libertade,

che voi non eravate

per aver meco mai.

Questa fie la mercé che dar vi debbo

di tanta servitù, di tanti mali

meco passati e corsi.

I fratei vostri, i padri

avran di voi più aventurosa cura,

ch'aver non ha potuto

una vostra reina!

Perdonate, mie figlie,

i disagi sofferti,

le fatiche, gli affanni,

per donna, che sì mal può darne il merto!

Altra era la mia voglia e la speranza:

a Dio piace altrimente.

CORO

O Dio, pietoso Dio,

lasciala solo in vita

e raddoppia in me i mali!

REINA

Volgete pure i preghi

a chiedermi la pace,

sì poco avuta in terra

e nulla meritata

dov'io la spero, in Cielo.

E fra i preghi anco vostra cura sia

(questa è la grazia estrema

ch'io vi dimando, amiche e figlie care)

che quest'ossa, da voi amate un tempo

e amate, credo, ancora,

abbian con opra pia la sepoltura

da le man vostre; a me fie l'opra cara

anco ne l'ossa estinte.

Traetele con voi,

là dove vi trarrà benigna cura

del Signor nostro e Dio.

La cameriera mia,

ch'io lascio non so come,

sia vostra guida e scorta:

onoratela, prego, e ubidite

ai suoi consigli. Ella è benigna e saggia,

e v'ama quasi madre:

amatela anco voi

e rimirate in lei che con voi resta,

me, già vostra reina,

che v'abbandono e lascio.

Ricordevoli siate

ch'io fui vostra padrona per natura,

ma per affetto madre

e per sorte compagna

di sventure e d'affanni.

CORO

Ahimiei, ahimiei!

Per me risponda il pianto,

se non può la parola.

Ohimé, ohimé, ohimé!

C. diCOMBERLANDA

Assai s'è detto; vanne!

Che più qui si ritarda?

REINA

Amico, io vado;

ma chi le membra aita,

sì che il piè infermo vada? I' più non posso.

MAGGIORDUOMO

Ahi, reina, ahi padrona!

REINA

Dopo sì lungo strazio ancor ti duoli?

Che hai, fedel? Che senti?

Porgimi 'l braccio, e sia

questa l'opera estrema

de la tua servitù cara e amata,

ma mal guiderdonata.

C. di PEMBROCIA

Porgile il braccio, aiuta

la debil tua padrona.

MAGGIORDUOMO

Ahi, ufficio crudele

di sventurato servo,

sventurato e fedele!

Io, dunque, ti conduco, o mia reina,

ti conduco a la morte!

REINA

Vieni, caro, vien meco.

Nulla più potrai far, che caro sia,

se non questo ch'or fai.

Sempre m'accompagnasti

nel corso de la vita o buona o ria;

accompagnami or anco

nel passo de la morte,

e movi con il piè la lingua meco,

e pregarmi virtute e sofferenza,

in così orribil varco.

MAGGIORDUOMO

Ahi, che 'l petto si serra,

ned altro posso, ohimé, se non dolermi!

Lagrime e pianto, ohimé,

sono, ahi, sono miei prieghi!

CORO

Ella sen va, sorelle,

e seco van questi occhi e questo core,

che con gli occhi la segue.

Ancor la veggio, ancora;

ancor la testa miro,

ancor ne veggio il velo...

Ahi, ch'ella mi s'è ascosa,

ahi, ahi, sparito è 'l sole!

SCENA TERZA

CAMERIERA, CARNEFICE e CORO.

CAMERIERA

Dove, dove sen va la mia reina?

Dove l'anima mia?

Dove la trae mano rapace ed empia?

Dietro le vo, la seguo,

e vo seco a morire.

Ahi, piè debile e infermo,

come lenta mi scorgi!

Ahi, mio forte dolore,

come ratta mi spingi!

CORO

O madre, o cara madre,

fedel è l'opra, ma soverchia certo:

di quanto avemmo un tempo

sol ci resta il dolore.

CAMERIERA

E ci resta il morire,

ch'esser prima devea;

ma non fie tardo or anco,

morremo con lei.

CORO

Moriam, ma chi ci occide,

se 'l dolor non ci occide?

Ma senti che risuona

l'aria di tristi lai... è fatto, è fatto!

Fatto è 'l colpo crudele,

l'ho sentito ne l'alma.

Non è più, non è più la mia reina,

m'ha lasciato, è partita!

E qual orrido aspetto

di ministro crudele

veggio a quella fenestra,

che m'accenna ch'io miri?

CARNEFICE

Viva Isabella, altissima reina,

e lungo corso regni! E caggia e pera

in questa forma, chi d'oprar presume

contra lei, contra i suoi giusti decreti

e le sue giuste leggi!

CORO

Ahi, che veggion questi occhi,

ahi, che mi mostra il crudo!

La testa, ahimé, la testa,

la testa amata e cara!

Riconoscola, ahimé,

se ben tinta di morte

e senza occhi la fronte.

Ahi, vista tenebrosa!

I caggio, io più non posso

sostener il dolore.

Ahi, che la cameriera

sen cade tramortita:

danno a danno s'aggiunge

e dolore a dolore;

s'altro dolor sentire

può 'l disperato core.

Aiutala, soccorri,

o portiamla là entro.

È meglio ch'io m'assida

e 'l capo prenda in grembo.

SCENA QUARTA

MAGGIORDUOMO, CAMERIERA e CORO.

MAGGIORDUOMO

Io vivo, lasso, io vivo;

vive la vita mia,

e vedut'ha la morte

de la reina mia!

Crudel io, crudo il Cielo!

Crudel io, se pietà non ha potuto

in così acerbo caso

spezzar, romper il core;

crudo il Ciel, che tant'anni m'ha serbato

a sì grave dolore!

CORO

Ohimiei, ohimiei, ohimiei!

Meschina me! Se miri

questi occhi e questa fronte,

testimonio vedrai che ben sentiamo

il dolor che tu senti.

MAGGIORDUOMO

Ma tanto meno senti,

quanto hai veduto meno.

Ahi, che non visto male

è sol metà di male!

CORO

Dolor sent'io, quanto sentir può un core;

ma se stimi che cresca

veduto mal, dipingimi parlando

l'orribile accidente.

Son le parole imagin de le cose,

e ne l'imagin forse

sentirò quel che tu nel ver sentisti.

CAMERIERA

Ohimé, misera e trista!

I' ti riveggio, o cielo,

ti riveggio nemico

d'ogni mia voglia.

CORO

Madre!

Torna, madre, in te stessa;

prendi cor, prendi spirto.

CAMERIERA

E l'uno e l'altro

m'ha tolto l'altrui morte.

Deh, lasciami morire!

A chi porgi tu aita?

A chi non è più nulla.

CORO

Anzi, sei nostra guida,

sei nostra madre e donna,

e sei nostra reina.

MAGGIORDUOMO

Solleva, o donna antica,

le membra abbandonate!

Sollevati e ascolta.

CAMERIERA

Deh, che mi puoi tu dire,

se non ch'ho ragion, lassa,

ho ragion di morire?

MAGGIORDUOMO

Altre cose t'apporto

da chi solea già commandarti viva:

or morendo ha pregato.

CAMERIERA

Ahi, cara pregatrice,

dove sei, dove andasti?

Ma che, lassa, che preghi?

Ch'io ti segua, ch'io venga

per le tue orme amate?

Verrò, verrò, reina,

verrò, anima cara!

MAGGIORDUOMO

Appoggiata al mio braccio,

come partir di qui vista l'avete,

con la sinistra mano, anzi con tutte

le membra, che da sé si reggean male,

salito ha lunga scala. E in salendo,

con bassa voce, ma con alto affetto

espresso nei sospiri,

pregava e invocava il Padre e 'l Figlio,

lor rimembrando la pietà infinita,

la bontà eterna, il sangue e l'aspra morte

e i merti de la Madre,

che fu Vergine Sempre. Indi salita

a la sala crudel, veduto ha incontro

orribile apparecchio: alto s'ergeva

per non so quanti gradi, intorno cinto

e coperto di panni oscuri e neri,

un catafalco, e 'n mezzo a duo gran faci

pendea da sottil corda, infra due legni

ampio ferro lucente. Èssi fermata

alquanto a rimirar; indi, rivolta

a me, che non avea spirto né sangue

e la reggea tremante: — Eccoti — ha detto —

la real pompa e 'l seggio di reina

di duo gran regni a un tempo. Così piace,

amico, a Chi creommi, e così sia.

Andiamcene a sedervi. Tu rinforza

nel tuo dolor con la mia voglia, e l'alma

coi preghi aita e con le braccia il peso

di queste membra languide e cadenti. —

Così dicendo, andava, e giunta al piede

del crudo tribunal, non potend'io

più sostenerla: — Qui ti ferma, — ha detto —

— s'anco tu m'abbandoni,

se ti spiace seguire

i pochi passi ancora

d'una reina tua.

Fratello, io qui ti lascio;

né mi pesa lasciarti

per me, che vo a lasciar ora la vita:

per te mi pesa e per molti altri, a cui

bramava altra mercé che doglie e danni,

ch'io veggio apparecchiarsi. Quelle figlie,

la cameriera mia, mi stanno al core.

Tu gli estremi saluti

porta loro in mio nome;

di' lor ch'io vo a morire,

bramosa di vederle,

bramosa d'abbracciarle;

e a la cameriera

che per quanto m'amò, per quanto cara

ebbe la sua reina,

ebbe la sua Maria,

giamai non abbandoni

le figlie abbandonate

da me, cui più toccava

il non abbandonarle.

Ella sia lor consiglio,

lor conforto e sostegno,

se restan prigioniere;

e sia lor guida, andando:

di ciò la prego con gli spirti estremi.

Ricordevoli siate

di me nei vostri prieghi. —

Ciò dicendo, affannata

di sen s'è tratta questa lettra. — Questa —

ha detto — darai tu, se mai là giungi,

al mio figlio, al mio sangue, molto amato

e ben poco goduto. Ad altro tempo

la potrai legger poi; leggala teco

la cameriera e sia veduta ancora

da le mie damigelle. Restin esse

sodisfatte di me, con l'opra ch'io

potuto ho far per loro. —

CAMERIERA

Veggiamla, ahimé, veggiamla!

Sentiamo ragionar dopo la morte

chi così dolce ci parlava in vita.

Ahi, cara carta! Ahi, care

forme di cara mano,

come vi conosch'io, come vi veggio,

lacrimosa e bramosa di vedere

la man che vi dipinse!

Leggi tu, ch'io non posso,

sì debil è la vista.

MAGGIORDUOMO

Ned a me resta lume,

tanto s'empion di lagrime questi occhi,

con la memoria amara.

Ma pur leggerò il meglio:

— Tua madre more, o figlio,

e morendo ti scrive:

sian queste note invece di parole

e vaglia questa carta per la mano

che ti darei sì volentier morendo.

Com'io mora il saprai, e chi m'occida;

da me sol sappi questo,

ch'io moro consolata, poiché veggio

esser questa la voglia

di Chi mi diè la vita.

Restami sì la doglia

di non poter vederti e di lasciarti

giovane troppo d'anni e 'n regno infido;

ma tu rinforza l'alma e ti rimembri

il sangue onde nascesti.

I preghi e l'umiltade inanzi a Dio

ti varran per consiglio e saran forza

a le tue forze inferme.

Perdona a chi m'offende: ciò ti chieggio

per le viscere mie, per quella mamma,

che ti porsi primiera;

vendetta io non la chiamo,

né la chiede quel sangue ch'ora spargo

innocente a la terra,

ma peccatrice troppo inanzi al Cielo.

La famigliuola mia, che meco dura

in sì lunghe miserie e 'n tanti affanni,

s'a te mai torna, tu l'accogli e sia

loro albergo il tuo albergo, e ti sovenga

che fida servitù chiama mercede

e 'l travaglio riposo. Lungamente

visser di ben digiuni, anzi di cibo:

la tua mano or adempia e l'uno e l'altro,

e adempia realmente. Le mie figlie,

ché tali son queste che restan meco

nobili damigelle, a te commetto,

come mie carni e sangue. Tu provvedi

a la verginitade, ai gradi, ai merti,

a la nobiltà loro: abbian mariti

i primi del tuo regno; e prendi cura

di lor, qual di sorelle e come uscite

da me, che son tua madre. —

CORO

Ahi, dolce cura

di reina dolcissima e amata,

come inacerbi in me, lassa, l'affanno,

con mostrarmi materno e caro affetto

di padrona perduta!

MAGGIORDUOMO

— La cameriera mia, cui sol rimane

imagine di vita,

ti raccomando, o figlio, anzi ti lascio

invece di me stessa. Tu l'onora,

e possa nel tuo cuor quel ch'io potrei,

pregando e supplicando; questo basti,

per mostrar quel ch'io bramo: tu dichiara

con gli effetti ch'intendi

più assai di quel ch'io dico. Scriverei

vie più, se più potessi,

per ragionar più lungamente teco,

o mia sembianza cara;

ma mi toglie la penna

chi mi chiama la vita.

Di scriver lascio e me ne vo a morire;

tu vivi e regna, o figlio,

vivi e regna felice, e per me prega.

T'abbraccia questo core

con questo poco spirto che gli resta;

e questa man ti benedice e chiede

che non lasci insepolte,

o sepolte non lasci in terra altrui,

quest'ossa onde sei parte: a te ritorni

tua madre estinta, se non può vivendo.

Questo sia 'l prego estremo, il qual sen viene

col bacio estremo a quella fronte cara

ov'io amava me stessa. —

CAMERIERA

Ahi lettera, ahi parole,

ahi dolore, ahi dolore!

Io vivo, dunque vivo,

e morì, morì, lassa,

chi tanto per me volse,

chi m'amò tanto, ahimé!

Ma dimmi: che più fece?

Che più parlò? Che disse?

Seppe da la tua bocca

questa vecchia quant'ella fe' vivendo;

sappia da la tua lingua

quel ch'ella fe' morendo.

Nulla, nulla si taccia

dei movimenti estremi

di quella vita cara.

MAGGIORDUOMO

Dirò quanto potrò, per compiacerti

in voglia così amara.

Ma già 'l dolor mi vince rimembrando;

or che sarà parlando?

La lettera ho pres'io,

lagrimoso e tremante, ed ella ha fatto

forza sopra il mio braccio per salire

il primo grado de l'orribil scena,

dove a pena ha potuto alzar il piede.

Così l'han presa duo più a me vicini,

e appoggiata a lor, senz'altro dire,

è giunta al sommo, con piè grave e infermo,

ma con fronte alta e lieta. Ivi condotta,

lascia i ministri aiutatori e volge

in dolce e maestevole maniera

il real volto a' molti, ond'era colma

la scelerata stanza; e di bisbiglio

l'empiean, qual di sospiri e qual di riso,

qual di parole dolorose e triste.

Rivolta e ferma alquanto, alza la destra:

di voler dir accenna. Tosto sorge

silenzio orrido e mesto, e vuota sembra

la sala. Ella, traendo dal profondo

del sen gli spirti, con soave voce

incomincia quel ch'io ridir non posso,

né 'l cor basta a dar moto a questa lingua.

CORO

Deh, ragiona, ti prego:

fatta è l'alma di gielo

per le sentite cose;

forse diverrà marmo

per quelle che dirai.

MAGGIORDUOMO

Ahi, ch'io non ho più vita,

se non quanto mi basta

a la memoria acerba

de le vedute cose,

de l'udite parole,

che purtroppo mi stan fisse ne l'alma,

per trafiggerla ognora!

CORO

Parla, e passami il core

col ferro, che te fère.

Se tu muori, non viva

questa conserva tua, questa compagna

di lagrime e di danno.

MAGGIORDUOMO

— Credo, — ha detto la cara mia reina, —

— credo — ha detto — che qui fra tanti e tanti,

uniti a rimirar la morte mia,

alcun v'avrà, che con pietà risguardi

la tragedia crudel de la mia vita

e lo stato terribile e indegno,

ov'io sono condotta; ov'è condotta

una donna innocente, una reina

e di Scozia e di Francia, e giusta erede

d'Inghilterra, ov'io moro. A ciò m'han tratta

la poca fede altrui e la mia molta

credulità; se credula può dirsi

donna che crede a donna,

la qual prega e scongiura;

e reina a reina,

la qual promette e giura;

e nepote, che crede ad una zia

non offesa giamai, ma sempre amata

e onorata sempre. E veramente

non ha la fé luogo sicuro in terra,

poi ch'a me manca quella fé in quel petto

ch'a me sì ferma la promise. Pure,

il ridirlo che giova? O pur, che giova

il dolersi nel punto ov'io mi trovo,

in cui convien morir? Iddio pietoso

a chi offende perdoni e a l'offesa,

la qual son io. Ma quanto giustamente,

le colpe udite e giudicatel voi.

Mi fa dar morte la reina vostra,

perch'io, dice, ho tentato e arti e modi

di privarla di vita e perch'io poi

ho fatto ogni opra per uscir di dove

ella chiusa mi tiene. Per quel passo

orribile ed estremo, ove mi veggio,

che fra poco ha da trarmi a udir il giusto

Giudice de la vita e de la morte

per aver gloria eterna o eterna pena,

vi dico, amici, che la prima colpa

è finta e falsa. Io nulla mai pensai

de la sua morte, né giamai la volsi.

L'altra colpa confesso, s'è pur colpa

ch'una reina, libera signora,

a cui giudice alcun non diede Iddio,

se non se stesso, fatta prigioniera

da chi men deve, di fuggir procura

miserabil prigione e dura, quanto

non potete stimar: se questa è colpa,

io moro giustamente condennata.

Ma giusta o ingiusta la mia morte sia,

che giusta non è inver, io sodisfatta

moro e contenta; poiché so che vera

cagion de la mia morte è l'esser io

fedele al mio Signor. La fé promessa

ne l'acque sacre, ove ogni macchia lava

Grazia celeste, pura e intiera serbo

e somma autorità confesso in terra

il Santo seggio, onde 'l roman Pastore

e scioglie e lega e apre e chiude il Cielo.

In questa fede vissi, in questa moro:

ciò protesto e confermo, e 'l sangue mio

bramo e m'è car che testimon ne sia.

Così moro ben lieta. Voi, s'alcuno

v'è pur fra voi, ch'abbia il medesmo senso,

prego preghi per me, e 'n ogni luogo

in ogni tempo testimonio renda

che Maria Stuarda muor reina

ubidiente a quel ch'impera e insegna

Roma sacrata e il Signor suo santo.

Ed eccomi a morire. —

CORO

Accetti Dio 'l tuo sangue,

o martire reina,

a sua gloria e a tua!

La qual poich'è sicura,

teco allegrarmi, teco, ahimé, devrei;

ma troppo, troppo è 'l danno

di restar io qui senza te, mia duce,

mio sostegno e conforto!

MAGGIORDUOMO

Prende vigor quest'alma

in pensar ch'ella siede ora beata

fra le genti beate.

Giunta al fine di queste sue parole,

s'è rivolta al supplicio,

e rimirando il ferro,

fermata alquanto, è parsa inorridirsi;

e fra l'orror gli occhi ha rivolti al cielo,

sì fissi che parea che 'n ciel volesse

figger anco se stessa. Alto sospiro

è stato il fin del breve rapimento,

e s'è mossa qual uom che 'l sonno lassi,

e serratasi al petto

la croce, che pur sempre ha ritenuto

ne la man destra, con la manca mano

ha cominciato a sciôrsi intorno al collo

la vesta, e sciolta a ripiegarla indietro.

Né potendolo far agevolmente

da se medesma, il manigoldo fiero

stesa ha la man, per aiutarla; ed ella:

— Amico, ha detto, questo a te non tocca.

Mano men lorda il faccia. —

CORO

O regio sangue,

come ritieni in sul morir gli spirti

nobili, eccelsi!

MAGGIORDUOMO

Era sul fero palco,

in disparte, una donna,

moglie, cred'io, d'alcun dei guardiani;

a lei s'è volta, e con benigno modo,

e con la bocca tinta anco di riso:

— Sorella — ha detto — prendi tu la noia

d'aiutarmi a morir; ripiega, prego,

la vesta e 'l velo che la gola cinge,

e dàlla nuda al ferro. — Lagrimosa

s'è la femina mossa e riverente

ha nudato il bel collo...

CAMERIERA

Ahi collo, ahi gola,

quante volte t'ornâr queste mie mani

di bianchissime perle, e quante vidi

il lor candor vinto dal tuo candore!

Or t'ha tronco aspro ferro e tetro sangue

t'è orrido monile!

MAGGIORDUOMO

Indi con sol duo passi s'è accostata

a la terribil falce, che 'n mirarla

spirava orror, sì ampia e sì radente,

e ginocchion s'è posta. La pietosa

donna, traendo da la vesta un panno

bianco, sottil, l'ha ripiegato in giro,

e tremante e piangente sopra gli occhi

gliel'ha annodato. E mentre il nodo stringe,

la mia reina dice: — Grazie a Dio,

ch'io trovo in Inghilterra chi m'aiti

e chi m'abbia pietà! Ma tu, sorella,

se t'è cara mercede o segno almeno

d'animo grato in infelice donna,

abbracciami, ti prego: ecco t'abbraccio

per segno che m'è cara l'opra tua;

e lasciami morir. — Così le ha cinto

il collo caramente e l'ha baciata.

Quinci, alzata la fronte inverso il cielo,

s'è ferma alquanto, e umilmente poscia

abbracciata la croce, il collo ha steso

sotto l'orrida falce.

CORO

Ahi, che si parte

il cor imaginando!

MAGGIORDUOMO

Il fier ministro,

in rimirarla tale, ha tronco tosto

la corda onde pendeva il mortal ferro,

il qual precipitando s'è sommerso

ne le candide carni, in quel bel collo.

Così, stese le membra da una parte

e da l'altra la testa, ella è rimasa

cadavero tremante, onde si sgorga

per grosse canne il sangue; e s'è veduta

la dolcissima bocca,

con trar gli spirti estremi,

riaprirsi e serrarsi, graziosa

anco nei moti de la morte orrenda.

CAMERIERA

Ahi cielo! A qual dolor, lassa, mi serbi,

se questo non m'occide?

CORO

Moristi, ahimé, moristi,

o bellissima donna,

o dolcissima e cara,

o reina, o padrona!

Noi che farem? Dove n'andrem? Che fie

di questa amara vita che ci avanza?

Piangiam, sorelle, ohimé,

ché giustissimo è 'l pianto

di chi tante sventure insieme accoglie

sovra debili spalle.

Piango la morte altrui,

piango la vita mia,

piango l'aspra ruina

de la mia patria amata!

Ma, ahi, che veggio? Ohimiei, ecco l'insegna

de la nostra sventura,

de la nostra ruina!

Mira là, da quattr'uomini portata

lunga tavola oscura,

coperta a panni oscuri. Ohimé, che questo,

è questo 'l corpo amato

de la reina mia!

Dolor giunge a dolore

e mal sottentra a male;

ma caro è 'l mal, s'accresce il mal ch'io sento,

sino a l'ultimo male.

Veggian questi occhi il sangue,

se l'alma ha già sentito la ferita,

e gli occhi e l'alma insieme

abbian le doglie estreme.

SCENA QUINTA

MESSO, CAMERIERA e CORO.

MESSO

Qui torna a voi, o donne, quel che puote

a voi tornar de la padrona vostra:

colà la ritorniam, onde partissi

per non tornar più mai.

Voi le lagrime vostre

le date, e componete il corpo esangue,

perch'abbia sepoltura.

CORO

È l'ufficio aspro, amaro,

ma pur devuto e caro:

deponi qui, deponi

quell'onorato incarco. Dove vai?

Ferma; non ci allungar la fiera vista

de l'altrui crudeltade

e del nostro dolore!

CAMERIERA

Non più, non più sia peso

di spalle così indegne e sì crudeli

così onorato incarco;

ferma, lascia qui a noi quel che ci lascia

d'ogni ben nostro il Cielo!

MESSO

Deponete, ministri, il freddo corpo,

e lasciaten la cura

a chi ha d'averne cura.

CAMERIERA

A me la cura tocca

di queste membra care:

io vive le trattai, vive le ornai;

or piangerolle, or serberolle morte!

CORO

Tolgasi il panno oscuro,

e sorga agli occhi lagrimosi e tristi

vista molto più oscura,

ohimiei, ohimiei, ohimiei!

CAMERIERA

Così dunque ti veggio e così torni

a me, o mia reina?

Maledetta la man, che mi ti rende

in sì misera forma!

Crudel chi mi ti tolse,

crudel tu, vita mia, che mi lasciasti,

crudel io, che non seguo

il tuo passo, padrona,

il tuo fine, mia donna!

Io, dunque, resto! Io, dunque,

vecchia, languida, inferma,

putida, vizza e già noiosa agli anni,

resto inutile peso de la terra;

e tu saggia, tu bella,

tu sospirata e cara

partisti, ohimé, partisti,

o già gloria di Francia,

o speranza di Scozia!

CORO

O mio sostegno, o vita

di mille genti e mille, ohimiei, ohimiei!

CAMERIERA

Avrai tu sepoltura

da questa man, ch'esser devea sepolta,

esser polve devea

inanzi te molt'anni:

crudel, chi mi riserba

a ufficio sì pietoso,

pietoso quanto odioso!

Ti parlo, ohimé, t'abbraccio,

o mia reina cara,

e tu nulla rispondi,

tu nulla dici, ohimé!

Dove, dov'è la voce

che solea consolarmi?

Ov'è l'occhio, ov'è il guardo

ov'io solea allegrarmi?

Nulla, nulla più sento,

se non, lassa, il tormento;

nulla, nulla più miro,

se non reliquia lagrimosa, amara,

da farmi morir sempre!

CORO

Ahi, miserabil tronco,

miserabil avanzo

di misera padrona,

come, come in te veggio

d'ogni gran male il peggio!

Prendiam, triste, prendiamo

sovra le spalle oppresse

da terribil ruina

il peso amato d'una gran reina;

portiamo membra morte,

noi che vive restiamo

proprie ministre a morte,

solo a trattar orrori,

solo a portar dolori,

mostri infelici d'infelice sorte!

FINE