La rigenerazione

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La rigenerazione

La rigenerazione

Commedia in 3 atti

PERSONAGGI

GIOVANNI CHIERICI

ANNA, sua moglie

EMMA RICCA, loro figlia

UMBERTINO (10 anni), figlio di Emma

GUIDO CALACCI, nipote di Giovanni

ENRICO BIGGIONI

Dottor RAULLI

Signor BONCINI

RITA, cameriera

FORTUNATO, chauffeur

ATTO PRIMO

Stanza da pranzo nella villa di Giovanni Chierici. Grande estate. Una porta di fondo ed una a sinistra dello spettatore. A destra una finestra da cui entra un sole abbacinante. Tavola da pranzo in fondo. Vicino al proscenio tavolino da lavoro.

SCENA PRIMA

EMMA, vestita tutta di nero, lavora al tavolino su un panno anch'esso nero.

ANNA pur essa vestita di nero guarda dalla finestra. Poi RITA.

ANNA            (urla) Rita! Rita! Ma vieni dunque. (Si sporge per veder meglio.) Presto! Presto! Oh, la maledetta bestia! Li ha già tutti in bocca. È finita. (Va velocemente verso la porta di fondo, ma prima di arrivarci s'arresta.) Già non arrivo in tempo. (Ritorna alla finestra.) Povere bestiole! La colpa è mia, tutta mia.

RITA. Lei mi chiamava?

ANNA.           È da un'ora che grido e ti chiamo e tu arrivi qui con quell'aria melensa. In giardino a quest'ora c'è la pace. Sono stati divorati tutti.

RITA. Divorati? Chi?

ANNA            (quasi piangendo). Gli uccellini. I poveri passeri. Progredivano a vista d'occhio. Crescendo avevano riempito tutto il nido. Pareva che dal nido stesso crescessero le piume. Ed io li vedevo attraverso alla persiana. Li spiavo e non mi vedevano. Erano tanto fiduciosi a me da canto che mi pareva di trovarmi con loro nel nido caldo. Neppure la madre mi vedeva. Facevano silenzio quando noi si alzava la voce.

RITA. Chi toccò la persiana? Ella aveva pur detto a tutti di non chiuderla.

ANNA.           Io! Io stessa fui tanto smemorata. E non me la posso prendere con nessuno. Però quella piccola madre ebbe l'istinto sbagliato. Come poté pensarsi di fare il nido fra la persiana e il muro? Fu Giovanni ad ingannarli. Vuole che non si chiudano mai le persiane in questa stanza. Neppure di notte perché già i primi raggi del sole della mattina arrivino a questa stanza in cui egli poi soggiorna. Crede che il sole apporti la forza. Perciò gli uccellini credettero che la persiana fosse parte del muro. Tutto congiurò contro quel nido. Il sole fu troppo forte per me e pensai di approfittare dell'assenza di Giovanni per proteggermi. Corsi e nulla ricordai. Smemorata! Povere bestiole! Il nido si spezzò in due. E c'era la madre. Si fece sentire solo quando volò via. Scioccherella! Stette zitta quando mi sporsi dalla finestra e mi lasciò fare.

RITA  (guardando dalla finestra). Ecco il gatto che se ne va leccandosi le labbra.

ANNA.           Povera bestia anche lui! È stato fatto cosí! (Pregando.) Dio mio! Uscirono dalle tue mani gli uccellini che per tanto tempo non sanno volare e anche il gatto che li insidia. Si poteva impedire tanta tragedia? Certo no! Altrimenti l'avresti fatto tu che tutto puoi. (Sporgendosi dalla finestra.) È vero, è molto contento.

RITA. Chi?

ANNA.           Il gatto. (Con un sospiro.) Beate voi che non amate le bestie. È un mondo scomposto cotesto.

EMMA.          Lo dici a me? (Silenziosamente si mette a piangere.)

ANNA            (imbarazzata). Scusami, ho detto una cosa che non avrei dovuto. (Va ad Emma per accarezzarla.) Perdonami.

EMMA           (interrotta dal pianto). Le bestie son sempre vive. Gli uomini, quando sono morti sono ben morti.

ANNA.           Ma gli uccellini son morti anch'essi.

EMMA.          Ma il gatto vive e ti consoli.

ANNA            (imbarazzata). Si cercano le consolazioni... si trovano. Anche tu dovresti trovarle... per noi e per tuo figlio.

EMMA           (sempre in lacrime). Non posso. Era giovine, forte. Venne il destino... e lo abbatté senza misericordia disonorandolo prima, dandogli l'aspetto di un vecchio.

ANNA.           Poverino! Noi pure quando ci pensiamo gli dedichiamo le nostre lagrime. Anche ieri Giovanni andando a letto mi disse: Guarda, noi andiamo nel nostro caldo letto e lui si trova sotto la fredda terra. Eppoi ambedue cessammo di parlare, tutto il nostro pensiero rivolto al povero defunto.

EMMA.          Io non ho bisogno di aspettare il momento di coricarmi per pensare a lui. Ci penso tutto il giorno quando brilla il sole e anche quando è fosco ma c'è l'aria e il movimento e sento che contro ogni giustizia a me è concessa la libertà di movermi che a lui è tolta.

ANNA.           Sii giusta figliuola mia. Che ragione ci sarebbe per noi di pensarci il giorno intero con te? Non equivarrebbe ciò a uno sforzo per aumentare il tuo dolore?

EMMA           (ironica). Dunque non ci pensate solo per risparmiare me?

ANNA.           Certo, non vogliamo aumentare il tuo dolore.

EMMA           (violenta). Non può essere aumentato, tanto è grande. La verità è che tu hai le pazienze, i passeri, il gatto. Papà ha le sue eterne cure, la sua dieta, dorme due volte al giorno. Non avete tempo voialtri né per me né per Valentino.

ANNA            (le manca il fiato dall'indignazione). Ma tu devi concederci di fare la nostra vita. Papà, poi, alla sua età deve saper tutelare la sua. Vorresti che muoia anche lui?

EMMA           (sempre piangendo). Io vorrei non morisse nessuno. Io anche intendo che le cose sieno cosí. È bene che papà tuteli la sua vita. Magari Valentino avrebbe saputo tutelare meglio la sua.

ANNA.           Non sarebbe servito a nulla. Anche Guido disse...

EMMA.          Che cosa vuoi ne sappia Guido?

ANNA.           Ha fatto i suoi studii. Eppoi anche il dottor Raulli.

EMMA.          Quando uno muore il dottore dice che doveva morire. Dice anzi che la vera prova che doveva morire è data dalla sua morte. Ma dove sta scritto che Valentino tanto giovine doveva morire? Morí, sí, morí. Quest'è vero ed è un'infamia.

RITA. Povera signora! È stata una grande disgrazia. Quand'io venni in casa era un bel giovinotto e subito dopo si fece brutto, brutto che non si poteva guardare.

EMMA           (gridando). No, brutto non fu mai.

RITA. Non dico brutto, ma bruttino, malato, meno bello.

ANNA.           Brutto... veramente brutto non fu mai.

EMMA.          Anzi la decadenza fisica lo fece apparire quale un angelo colpito al cuore. L'espressione di mitezza che la sua faccia aveva avuto sempre era aumentata dai segni della sua malattia.

RITA. Volevo dire proprio cosí io, signorina. Non so spiegarmi tanto bene.

EMMA.          Perciò dovresti stare attenta alla tua lingua. (Si leva e lascia cadere il pezzo di stoffa a cui lavorava; Rita accorre ad alzarlo ed essa dice seccamente.) Grazie. (Ad Anna.) Io lascio questo lavoro. Avevo pensato potesse distrarmi. M'addolora di piú, perché al mio dolore tenta di sottrarmi.

ANNA.           Perché la stoffa è nera.

EMMA.          Perché non è nera abbastanza. No! Neppure il lavoro m'è concesso o permesso. Anche questa stoffa consegnerò alla sarta. Andrò da lei prima di colazione. Vado a vestirmi. (Esce dalla porta a sinistra.)

SCENA SECONDA

ANNA e RITA

ANNA.           Io non vorrei dir male di questa mia figliuola e soffro anch'io vedendola soffrire tanto. Ma ci fa una vita impossibile. Abbiamo addirittura vergogna di vivere perché, secondo lei, tutti avrebbero l'obbligo di piangere il giorno intero. I piú semplici passatempi dovrebbero esserci interdetti.

RITA. Mi dispiace di aver detto che il povero signor Valentino era brutto. Io non pensavo...

ANNA.           Era bruttissimo. Con quella bocca eternamente semiaperta come quella di un ebete... (Atteggia cosí la propria faccia.)

RITA. È quello ch'io dissi e mi dispiace. Sarebbe stato tanto poco pericoloso per me di dire che un morto fu bello. Persino Fortunato me l'avrebbe permesso.

ANNA.           Ma una certa sincerità ci vuole. Per il bene suo. Tanto lutto, tanta esaltazione... tanta sartoria! Se la prende persino con le mie povere bestie. Dice che son sempre vive le bestie! Si può dire una bestialità maggiore nello stesso momento in cui quei poveri passerini arrivarono direttamente dal nido a quell'orribile morte? Anche lei invecchierà e il figliuolo suo la tratterà come essa tratta me imponendole i proprii dolori che a nessuno mancano e forse anche i propri piaceri, imponendole insomma di fare la propria vita. Allora anche lei ricorrerà alle bestie.

RITA. Io già adesso amo tanto le bestie. E anche gli uccellini: Vivi, belli e lieti. Ma anche con la polenta come si sa farli da noi.

ANNA.           Vergognati! Mangiare gli uccellini!

RITA. Col lardo piacciono molto anche a Fortunato. Ed io pur debbo associarmi nel gusto al mio futuro marito.

ANNA.           Ed intanto altercate furibondi. Vi udii ieri in cucina. Non intervenni perché pensai che siete tanto vicini al matrimonio da poter essere già considerati come marito e moglie e che mancavate di una casa vostra ove possiate svolgere i vostri litigi. Ma pur dovreste portar rispetto e abbassare un po' le vostre voci. Potete dirvi contenti che Giovanni è un po' duro d'orecchio e che non sentí.

RITA. Ma non son stata io a gridare, signora. Io sono la sgridata. È quel Fortunato ch'è di una gelosia furibonda. Io sto là zitta, rassegnata, aspettando che la tempesta passi.

ANNA.           E di chi è geloso?

RITA. Del signor Guido.

ANNA.           Di Guido? Ma è pazzo. Prima di tutto Guido è ancora un ragazzo. Non è piú giovine di te?

RITA. Di due mesi soltanto.

ANNA.           Ma poi che cosa si figura quel Fortunato? Guido ha molto da fare, Guido ha da studiare.

RITA. E anch'io ho tanto da fare.

ANNA            (colpita) Sorniona! Fortunato ha dunque ragione?

RITA. Oh, non lo creda, signora. È ingiusto. Io voglio bene a Fortunato ma il suo contegno mi fa tanta ira che sarei capace di rinunziare a lui. Io amo di scherzare ma sono una ragazza onesta.

ANNA.           Vorrei sapere con quali cose ami di scherzare. Ve ne sono di quelle con le quali una ragazza che si dice onesta non deve scherzare.

RITA. Io credo che quando si è molto serii si può scherzare di tutto.

ANNA            (vivamente). Ma non si deve, non si deve.

RITA. So, so che la gente piú anziana ama che non si rida di niente. Anche mia madre dice come Lei. Io avevo cominciato a ridere con Fortunato. Poi egli si fece serio ed io ne fui beata. Per un momento fui d'accordo con mia madre. Ma ora egli si fece troppo serio. E con me, specialmente. Non ha il coraggio di prendersela col signor Guido, il nipote dei padrone. Causa quella casetta in giardino che Loro metteranno a sua disposizione con me dentro. Perciò si fa subito violento con me.

ANNA.           Ma tu che cosa fai con Guido?

RITA. Io rido, io ciarlo, io scherzo. Niente di serio, proprio niente di serio, sia certa. Io amo Fortunato, ma, passando, mi sarà permesso di star a sentire la parola gentile del garzone dello speziale qui accanto, e anche le parole serie, che mi fanno tanto ridere, del signor Guido.

ANNA.           Ah! Egli parla seriamente?

RITA. No! Scientificamente! Con lui si impara. Ieri mi disse ch'è strano che la faccia umana sia tanto bella e le due parti, quella di destra e di sinistra tanto simili, mentre di sotto pare che le due parti, il cervello e le altre cose che ci sono di sotto, che so io?, non si somigliano affatto.

ANNA.           Il birichino parlava della tua testa?

RITA. No, no. Cioè anche della mia perché è umana anch'essa. Risi molto, e Fortunato se ne accorse perché arrivò improvvisamente in cucina. Ciò fu tutto. Sia certa che non c'è altro.

ANNA.           Ma che cosa viene a fare in cucina Guido?

RITA. Aveva bisogno di un fiammifero per la sua sigaretta.

ANNA.           E allora è semplice. Tieni in questa stanza sempre pronta una scatola di fiammiferi e sarà finita.

RITA. E non sarebbe meglio di dire una parola a Fortunato che non alzi la voce in cucina, e in genere in questa casa? Allora appena si avrebbe la pace tutta la settimana fuori che alla domenica quando esco con lui.

ANNA            (attirandola a sé e guardandola negli occhi). Ma di' bambina dalle gonne e dai capelli corti. Tu non t'accorgi che metti in pericolo il tuo matrimonio con Fortunato? Non t'accorgi che non lo ami?

RITA. Non dica questo signora. Io lo amo molto. Quando è al volante lo ammiro. È il padrone della via. Talvolta perciò è un padrone anche lui come lei, come il signor Giovanni e anche come il signor Guido. Poi è un uomo serio e perciò starò bene con lui da vecchia. Mamma dice sempre che bisogna pensare al futuro. Si può pensarci anche ridendo nevvero, signora?

ANNA.           Si può ridere di molte cose. Ma non occorre mica che tu ti associ a Guido per ridere. La vita è difficile per te e anche per noi. Se tu perdi Fortunato non so come faremo. Noi abbiamo già messo in ordine la casa in giardino per te. Io e mio marito ti teniamo cara perché hai la faccina tanto lieta e giovine. Ma è anche vero che c'importava di tenere lo chauffeur a nostra disposizione vicino in casa.

RITA. Non abbia paura, signora. Io, davvero, credo che Fortunato non possa piú fare a meno di me. Da questo lato può essere tranquilla.

ANNA.           Tuttavia il tuo modo di parlare non mi rassicura tanto. Davvero se ti avessi sentita parlare prima non sarei stata io a dare a mio marito l'idea di quella casa in giardino. Una casa ha le fondamenta solide che non si fanno se non per famiglie solide. Nella mia giovinezza non si parlava certo cosí.

RITA. Lo so. Temo che quando sarò vecchia lo dirò anch'io.

ANNA.           Sei un'impertinente. (Squillo di campanello.)

RITA. Mi scusi signora. Non volevo dire nulla di male. Io capisco che quando si è vecchi si amerebbe che tutti vivessero da vecchi.

ANNA.           Guarda quanta scienza in quella testina. Certo il silenzio, la quiete ci piace. Non la gioia sguaiata, né... i dolori troppo prolungati. Eppure alla giovinezza noi pensiamo. Ecco che nella tua casuccia abbiamo fatto una camera di piú per i bambini che potranno giungere.

RITA. Oh, bambini non ce ne saranno, almeno tanto presto. Ecco un punto sul quale Fortunato ed io siamo ben d'accordo. Nella stanzuccia destinata ai bambini metteremo un grammofono. Quello almeno grida solo quand'è caricato.

ANNA            (indignata). Si può sentir di peggio? Di questo dunque parlate voi due? Mettersi d'accordo per non aver dei bambini? È lo stesso che mettersi d'accordo per averne. Una sconcezza. In casa mia!

RITA  (sconcertata). Di questo veramente si parlò, là, fuori della villa. (Tre lunghi squilli di campanello.)

ANNA.           Mi pare che alla porta abbia suonato ripetutamente. Non c'è Fortunato?

RITA  (corre alla finestra). Fortunato! Ohè! Destati. Non senti che suona?

SCENA TERZA

FORTUNATO dal giardino, poi ENRICO BIGGIONI e DETTI

FORTUNATO           (urla dal giardino). E se sentivi non avevi le gambe per andar tu ad aprire?

RITA  (indignata). Non ho alcuna intenzione di addossarmi il tuo lavoro.

FORTUNATO.          E chi ti dice che sia proprio mio quel lavoro? (Squilli del campanello.)

ANNA            (corre alla finestra). E allora dovrò andar io ad aprire la porta?

RITA  (ch'è rimasta alla finestra). Piú presto, Fortunato, piú presto. Quando l'avrai fatto studieremo di chi sia il lavoro.

ANNA.           Vuoi tacere? Non ti vergogni? (Vuol essere arrabbiata ma ride fino a cedere.) Buona! Buonissima questa. Voglio raccontarla a Giovanni.

RITA. Dacché è tanto geloso non vuol piú lavorare per me. Ma vuole sposarmi tuttavia. Come farà se non vuole lavorare? Forse alla gelosia s'abituerà. Il signor Giovanni dice che ci si abitua a tutto, anche alla vecchiaia. (Poi.) È il signor Biggioni, l'amico del povero signor Valentino.

ANNA.           Vorrà veder Emma. Essa sta preparandosi per uscire. Vuoi avvisarla? (Rita esce a sinistra.)

SCENA QUARTA

ENRICO BIGGIONI e ANNA

ENRICO.       Buon giorno, signora. Son passato per di qua, per caso. E visto che ho da consegnare qualche cosa alla signora Emma, mi son permesso di salire per un momento. Ho solo un quarto d'ora di tempo e neppure tanto perché non ho la mia macchina e dovrò rientrare in città a piedi.

ANNA.           S'accomodi. Ho già fatto avvisare Emma. Verrà subito.

ENRICO        (lieto). Bella giornata quest'oggi. Io spero che la signora Emma uscirà, si prenderà qualche svago.

ANNA.           Svago? Uscirà, sí, per andare dalla sarta e rientrare subito.

ENRICO.       Eppure farebbe bene di moversi. Perché non si accompagna al nonno e ad Umbertino nelle loro passeggiate di ogni giorno? Li vidi poco fa. Camminavano ambedue occupatissimi a correre. Li seguii per un tratto e udii Umbertino che diceva al nonno: A te, nonno, fa bene di camminare ed oggi camminerai sul serio. Veramente correvano. Io salutai il bimbo che mi rispose con un cenno ma senza dir verbo. In quanto al nonno mi guardò diffidente e si fece in parte per evitarmi. Credo non m'abbia riconosciuto. Eppure mi vede ogni giorno.

ANNA.           Giovanni è un po' distratto. Lo era sempre, causa i molti affari. Adesso che non ne ha affatto gli è rimasta solo la distrazione.

SCENA QUINTA

RITA e DETTI

RITA. La signora saluta il signor Biggioni e si scusa di non poter riceverlo. Ha da scrivere una lettera eppoi dovrà subito uscire. (Esce dalla porta di fondo.)

ENRICO.       Anche ieri ha scritto una lettera. Ne scrive una al giorno. Io volevo salutarla e darle anche le lettere di suo marito ch'essa m'aveva domandato. Gliele regalavo volentieri. Se non le vuole, tanto peggio. Guardi son tutte qui quelle che ricevetti dal povero Valentino nel corso della sua vita.

ANNA            (stendendo la mano). Se vuole gliele darò io.

ENRICO        (è in procinto di consegnare le lettere eppoi si pente). Meglio gliele consegni io stesso. Ho da spiegarle qualche cosa. Questa è la sola lettera che mi scrisse dacché s'era sposato. Sí! meglio gliele consegni io. (Siede.) Fa molto caldo.

ANNA.           S'accomodi.

ENRICO        (con risoluzione improvvisa). Signora! Le ha mai detto la signora Emma ch'io vorrei sposarla?

ANNA            (stupita). Mai! Quella Emma! Mi parla continuamente di tante cose sgradevoli e di questo non mi disse mai verbo. E che cosa disse Emma di tale Sua proposta? (Curiosa e felice.)

ENRICO.       Non la sentí. Ossia dacché la sentí da altri fa in modo di non sentirmi di non vedermi. Per lei io non esisto piú. (Con tristezza.) Io so ch'essa sa della mia proposta solo per questo suo contegno. Non ebbi altre sue spiegazioni.

ANNA.           Peccato! Vuole che gliene parli io? Vuole cioè che mi prepari a parlargliene di qui a qualche tempo quando il suo dolore si sarà un po' attenuato?

ENRICO        (grato). Grazie, signora. (Poi, disperato.) Solo non capisco proprio questo, come io possa aspettare senza far nulla. Questo è il difficile. Se mi si proponesse di correre dietro al povero Valentino per tentare di raggiungerlo mi rassegnerei piú facilmente. Ma non fare nulla! Sperare e disperare! Riconosco di aver cominciato un po' troppo presto. Quando morí il povero Valentino eravamo tutti disperati... io poi... un mio amico della prima giovinezza, quasi un fratello. E per consolare Umbertino che vedendo piangere tutti piangeva disperatamente anche lui, lo presi in braccio e gli dissi: Calmati, perché se hai perduto un padre ne hai qui pronto un altro.

ANNA.           Cosí subito, subito, quando il povero Valentino giaceva ancora sul suo letto mortuario?

ENRICO        (correggendo). No! No! Si era ritornati dal funerale. Tutto era già finito.

ANNA.           Tuttavia mi pare un po' presto.

ENRICO.       Magari avessi aspettato fino ad ora ed ora non mi toccasse di aspettare piú oltre. Quattro mesi! Sembrano tanto brevi ora. Io però non avevo incaricato Umbertino di parlare e speravo anche non m'avrebbe inteso. Invece è tanto vivo quel fanciullo lí! Bisognerà pensare sul serio di regolarlo ed educarlo. Ogni volta che mi vede mi dice: Mamma non ne vuol sapere di te.

ANNA.           Le da del tu?

ENRICO.       Di questo non ha colpa lui perché l'ho voluto io. Anzi è l'unica intimità che ottenni in quella famiglia. Ed anche di questa il fanciullo approfitta per mandarmi meglio a quel paese.

ANNA            (pensierosa). Che peccato ch'Ella non si sia confidato prima in me. Avrei saputo dirigerla tanto meglio!

ENRICO.       Oh, l'avessi saputo! (Baciandole la mano.) Tanto volentieri mi sarei confidato in Lei, mamma.

ANNA            (sorridendo). Adagio, adagio! (Poi.) Che il mio intervento non arrivi troppo tardo? Io conosco Emma. Buona, buona, ma ostinata come una porta di ferro arrugginita. Non si passa se non si sa.

ENRICO.       Ma Lei sa, signora. Per tutti c'è rimedio meno per il povero Valentino che giace irrigidito laggiú a Sant'Anna. Io dissi ad Umbertino solo che m'offrivo di diventare suo padre... è però vero che la signora Emma può aver inteso per quale via io volessi arrivare a tale paternità. Si potrebbe anche asserire che Umbertino, povero innocente, m'abbia frainteso e che soltanto ora, dopo quattro mesi interi io sia arrivato all'idea di sposare la signora Emma. Che gliene pare?

ANNA.           Dato il suo stato neppure questo ad Emma sembrerebbe il momento di gradire la Sua corte.

ENRICO.       Ma almeno la mia precipitazione le sembrerà meno grande. E a Lei posso dirlo che veramente non mi si può assolutamente rimproverare una precipitazione. Son passati dieci anni dacché il povero Valentino mi presentò la sua fidanzata. Io, vedendola, non pensai nulla di male, glielo giuro. Pensai: Guarda, guarda, un altro che osa di sposarsi. Un grande coraggio: io avevo allora 28 anni e non ci avevo mai pensato ad avere un coraggio simile. Lavoravo intensamente, ogni giorno e vivevo nella gioia di veder progredire ogni giorno il mio commercio. Certo ci sono state delle donne nella mia vita ma sempre per istanti. Alla larga, era il mio motto per esse. Quelle donne di cui l'occupazione principale è di fare delle spese. Valentino invece aveva osato. Io studiai il suo amore, lo studiai troppo. M'accorsi che anche la signora Emma aveva il bisogno di fare delle spese e... non m'importò.

ANNA.           Ma lei dice delle cose impossibili. Lei dunque si sarebbe innamorato di Emma subito quando divenne la moglie di Valentino?

ENRICO.       Se Lei ha da aiutarmi, deve pur sapere tutto. Non subito, non subito, ma prima che si sposasse. Dapprima io credetti mio dovere d'impedire a Valentino il matrimonio. Non vedi com'è vana e leggera quella donna? Ti rovinerà. E quando m'accorsi ch'egli stava per sposare la donna che io avevo prescelto che insomma era la vera moglie mia, ebbi facile il compito di continuar a parlare come avevo parlato sino ad allora. Non sarebbe stato meglio di non aver da aspettare la morte di Valentino? Non vedi gli dicevo com'essa s'adorna, dalla testa ricciuta ai piedi, cioè ai piedini? Una vanerella che ti rovinerà. Poi venne il matrimonio con me testimonio. Ed è vero che quando essi si misero a fare quel figliuolo io ero già innamorato. E son dieci anni!

ANNA.           Ma io ora intendo l'atteggiamento di Emma.

ENRICO.       Io, affatto. Perché io sono sicuro ch'essa mai seppe nulla dei miei sentimenti. Tenni al fonte battesimale Umbertino e non lo lasciai cadere per terra. Essa non era civetta, ed io poi volevo sposarla, non mica sedurla. Perciò in quella casa fui sempre l'amico di Valentino e null'altro. Avrebbe dovuto però finire questa mia tortura quando Valentino elesse di morire.

ANNA.           Elesse? Poverino!

ENRICO.       Sí, poverino! Io sono dispostissimo di piangere con Lei quel mio povero grande amico. Ma è morto, ora. Non c'è rimedio che valga per lui. (Poi.) Io gli volli bene, molto bene. Naturalmente che quando in seguito alla malattia fece quella faccia rincagnata, gli occhi cisposi, la mandibola cascante come quella di un ebete, pensai subito: Come saprà sopportarlo la signora Emma? Lo sopportò. Ciò aumentò la mia ammirazione per lei e anche la mia rabbia e non impedí ch'egli mi facesse schifo.

ANNA.           Attento di non parlare cosí con Emma.

ENRICO.       Non occorre dirmelo. Un giorno per consolarla le dissi che per lui era meglio d'essere morto ed essere liberata cosí da quelle bave che gli piovevano dalla bocca. Risultò ch'essa non le aveva mai viste. Non c'erano state. Io volevo chiamare dei testimoni, ma essa si mise a piangere cosí che io giunsi fino ad ammettere di aver visto male. Essa ora pensa ch'io non sia un vero amico del povero Valentino. Ed è vero. Un amico morto non è piú un amico. Se ben ricordo ci fu una sola eccezione a tale regola. Si ricorda Lei di quei due amici abbandonati per settimane su una zattera in balia delle onde sull'Atlantico? Per fortuna uno di essi morí e l'altro se lo mangiò salvando la propria pelle. Quella è un'amicizia che può durare oltre la tomba se di tomba si può parlare.

ANNA            (rabbrividendo). Non mi dica di coteste cose. Io che non posso sentir dire che si possono mangiare gli uccelletti.

ENRICO        (stupito). Perché non si possono?

ANNA.           Lasciamo stare. Ella non m'intenderebbe. Restiamo all'argomento nostro. Dalla morte di Valentino sono trascorsi solo quattro mesi e presso tutte le persone civili il lutto deve durare almeno un anno.

ENRICO.       Si può sposarsi anche in lutto. Per la cerimonia che mi renderebbe congiunto del povero Valentino lo indosserei anch'io.

ANNA.           Vuole lasciarsi guidare da me? Può fidarsi perché è proprio vero che noi andiamo d'accordo in tutti i nostri desiderii. Non nel modo di esprimerci, questo poi no. Io ho amato quel mio povero figliuolo, Valentino, e voglio onorarne sempre la memoria. È certo però che non sono d'accordo neppure con la mia figliuola e che vorrei ch'essa sapesse adattarsi a quello ch'è irreparabile. Con quel suo grande dolore essa certo danneggia il ricordo del povero morto. Ecco che io che tanto l'amavo sono seccata di sentirmelo ricordare continuamente.

ENRICO.       È quello che dico anch'io. Non dico altro. I morti che putono non appartengono nelle case fatte per i vivi.

ANNA.           Ma non occorre neppur parlare cosí. Non si dice mai dei nostri poveri morti che puzzino.

ENRICO.       Non è mica colpa loro. È un destino e toccherà domani a me come toccò ieri a loro.

ANNA            (spazientita). Ma Lei che cosa vuole? Ama di dire certe cose o ottenere certe altre? Dio mio! Arriva ad inquietare me e si meraviglia di aver destato il ribrezzo di Emma? Vuole ascoltarmi? Vuole seguire il mio consiglio?

ENRICO.       Ma io non domando di meglio.

ANNA.           Intanto abolisca le parole. Non ce n'è di bisogno... per ora. Non nomini mai Valentino. Faccia come se non fosse esistito mai.

ENRICO.       Questo posso fare molto facilmente. Non esiste piú questo è certo.

ANNA.           Non lo nomini. A Lei basta di nominarlo per rivelare come lo odii.

ENRICO.       Questo poi non è vero. Lei mi ha frainteso, del tutto frainteso. Io fui il suo fedele amico.

ANNA            (con ribrezzo). Non dica neppure cosí e neppure quand'è solo con me perché io non so starla a sentire. (Enrico è stupito ed essa continua.) Lasci parlare me. Se Lei crede di ottenere il consenso di Emma prima che trascorra l'anno di lutto, sbaglia. Se lo cavi dalla testa.

ENRICO        (abbattuto). E questi hanno da essere i consigli di chi si dice mia amica, mia alleata. Che bisogno ho io dei Suoi consigli se questi non hanno da giovarmi ad altro che a indurmi a rassegnarmi al malanno che mi tocca?

ANNA            (stupita). Dico che bisogna aspettare solo altri otto mesi.

ENRICO.       Sarebbero pochi se non fossi esausto dall'averne aspettati già 128. Perché ho da aspettarne ora altri otto?

ANNA.           E di chi è la colpa?

ENRICO.       Io dico... (Con voce forte).

ANNA            (veemente). Taccia, taccia. Se Lei arriva a dirmi che la colpa è di Valentino che avrebbe dovuto morire prima, allora si rivolga ad altri per aiuto perché io non voglio piú parlare con Lei.

ENRICO.       Io non volevo dire questo. Sarebbe stata una constatazione del fatto senz'alcun malanimo da parte mia. Evidentemente il povero Valentino non ha alcuna colpa né di essere morto né di non essere morto prima.

ANNA.           Ma non lo dica, non lo dica cosí.

ENRICO.       Ma io non volevo dir nulla. Io volevo solo dirle ch'io m'innamorai a 28 anni, che ora ne ho 38 e varii mesi e che se aspetto il tempo che Lei dice io ne avrò 40. Ricordi anche che fra' giovini si asserisce che occorre un solo anno quando si giunse ai 40 per arrivare ai 60. Non arriverà troppo tardi il compimento del mio desiderio? E se il mio amore nel frattempo morisse, che me ne farei io quaggiú?

ANNA.           Rassegnarsi... Morí anche il povero Valentino...

ENRICO.       Vede che ne parla anche Lei per riderne?

ANNA            (protesta altamente). No! No! Lo giuro. Io ridere dei mio povero defunto figliuolo? Oh, ma Lei è una persona con la quale non si deve parlare. Cerca di ferire. Lei non vuole altro. Lei vuol fare del male. Io non merito questo. Nello stesso momento in cui tentavo di darle un aiuto...

ENRICO        (un po' spaventato). Sia sicura signora che io mai Le attribuii l'intenzione di ridere del povero Valentino. Feci male ma io credetti Ella volesse ridere della morte in genere. Sarebbe questa una cosa ch'io so Ella neppure farebbe. Insomma sbagliai... Mi perdoni.

ANNA.           Io non risi della morte. Ridere io della cosa piú orrenda che ci sia e che perciò è sacra? Dissi soltanto che se il Suo amore morirà sarà una morte di piú. Una disgrazia che tocca ad esseri piú reali di quello ch'è il Suo amore, una disgrazia che piomba sulla terra ogni giorno, tante tante volte ogni giorno.

ENRICO.       Ho avuto torto. Mi perdoni. Io - anche qui forse ho torto - rido talvolta della morte perché mi pare che a questo mondo ci sieno delle disgrazie piú forti. Lei che ha tanta compassione per i morti, ne abbia anche per me che so invidiare ai morti la loro quiete. Mi perdoni!

ANNA.           Ebbene, Le perdono. Ma ora m'ascolti: Che Lei voglia o no, non c'è altra via per Lei ora che di un grande riserbo. Tenti di far dimenticare le parole dette in un istante di leggerezza.

ENRICO        (amaramente). Di leggerezza? Quello era l'istante che poteva essere il piú importante della mia vita. Pensi che se in quell'istante il figlio del povero Valentino mi avesse accettato quale padre e la moglie sua quale marito, quello sarebbe stato l'istante in cui tutti avrebbero offerto il massimo omaggio alla memoria del povero, compianto defunto.

ANNA            (seccata). Ma lo lasci in pace e lasci che io finisca. Il riserbo non ha da equivalere ad una rinunzia. Venga di tempo in tempo in questa casa senza mai dire quale scopo ve la conduca. Venga a trovare i congiunti del Suo povero amico ma senza mai nominarlo visto che Lei non sa nominarlo come dovrebbe. E cerchi di diventare amico di tutti. Faccia qualche sforzo. Emma - per quanto non sembri - è attaccatissima a me e a mio marito. Quando saremo morti è certo che ci piangerà - poverina - come ora piange il marito. La mia amicizia Gliela dono per quanto Ella non la meriti. In quanto a mio marito è facile conquistarne l'amicizia.

ENRICO.       Facile? È invece impossibile. Se dacché vengo qui non faccio altro che fargli la corte. Di me non si accorse. Non sa neppure dire il mio nome. Passo il mio tempo a suggerirglielo.

ANNA.           Questa è un'avventura come gli tocca talvolta coi nomi con le cifre e anche coi luoghi. Sbagliò la prima volta chiamandola Baglioni. Fu corretto e da allora quando ha da dire Biggioni esita. Ma quale importanza può avere ciò?

ENRICO.       A me sembra ne abbia. Perché quando il vecchio signore esita finisce coll'avercela con me. Si fa furibondo. E ieri, per designarmi disse: Quel coso lí. Ciò non è molto gentile.

ANNA.           E che importanza può aver questo? Ella non ha mica da sposare mio marito.

ENRICO.       Ma Lei dice che per sposarmi ho bisogno del suo appoggio ed io Le racconto che tale appoggio non avrò giammai. È come col piccolo Umbertino che non accetta neppure i giocattoli che gli porto. Insomma la famiglia Sua per me si compendia in Emma che non mi vuole nel suo capo che non mi vede e in Umbertino che non solo mi vede ma m'indovina. Sto fresco io. E non ho da invidiare Valentino che di tutte sí meste cose si liberò?

ANNA.           Ma mio marito non è mica imbecillito.

ENRICO        (stupito). Eh, no! (Poi.) Non è affatto imbecillito. Può immaginare ch'io dica una cosa simile? Solo mi è difficile di conquistarmi la sua amicizia. Se già tentai. Lui lavorò fino a dieci anni or sono in tessuti ed io per conoscere l'articolo di cui dovevo parlare per destare la sua attenzione, feci un affare in tessuti, per vedere l'articolo, per saperne dire. Perdetti una quantità di denari.

ANNA            (dottrinale). È un articolo molto difficile. Bisogna conoscerlo.

ENRICO.       Ora lo conosco anch'io abbastanza per evitarlo. Tutto contento corro da lui. Avrebbe anche lui potuto dirmi quello che disse lei, darmi della bestia e vantarsi della sua abilità, lui che coi tessuti fece tanti denari. Si sarebbe divenuti amici. Poter dare dell'imbecille a qualcuno lo rende molto caro. Ma niente affatto. M'indusse a suggerirgli il mio nome che cercò di mandare a memoria. Poi mi raccontò ch'egli non aveva addosso un solo pezzo di vestiario che non fosse di lana e che cosí si sentiva bene. Abbandonai il mio affare per unirmi a lui e gli dissi che lo ringraziavo del suo consiglio e che lo avrei imitato. Parve seccato! Parve proprio rimpiangesse di avermi dato un consiglio che avrebbe potuto allungare la mia vita.

ANNA.           Ma mio marito è buono, intimamente buono e Lei non lo ha inteso. Certo! Settantaquattro anni sono molti. Non può mica essere vivace come Umbertino.

ENRICO.       Se lo fosse io non ci guadagnerei molto.

ANNA.           Ma Lei parla della nostra famiglia come se fosse composta di mostricciattoli. Abbandoni il Suo progetto e non tenti di unirsi a noi.

ENRICO.       Sto dunque per perdere l'unica amica che potevo conquistarmi?

ANNA.           No, se Lei sta un po' piú attento alla Sua lingua che taglia e abbrucia. Io ho il piú vivo desiderio di aiutarla, di guidarla. Non desidero altro. Ma non posso star a sentire certe cose. Me lo creda! A 74 anni neppure Lei sarà piú accorto di mio marito. Già adesso non vede esattamente le cose.

ENRICO.       Volevo solo dirle che quegli otto mesi...

ANNA.           Ho capito, ho capito, son troppo lunghi.

ENRICO.       No, no, son troppo corti per arrivar a conquistare l'amicizia del vecchio signore. Son molto, molto lunghi, ma non bastano.

ANNA.           E allora lasci stare.

ENRICO.       Se dipendesse da me. Doveva darmi questo consiglio dieci anni or sono. Adesso m'arriva come a quel disgraziato che si gettò dal quarto piano e nel suo volo, giunto al secondo, si sente gridare: Fermati, non vedi che fra poco ti sfracellerai? O di uno che ha già comperato dei tessuti, o di un altro come il povero Valentino che ha già pigliata la malattia...

ANNA.           Vedrà che anche gli otto mesi passeranno presto e che tuttavia basteranno. Se mio marito vuole bene a tutti. Anche a quel suo nipote ch'è molto interessante ma che gli costa tanti denari. A proposito. Io direi che Lei cerchi l'amicizia di tutti, anche di Guido.

ENRICO.       Quello lí è almeno facile. Già mi dimostra della simpatia. Fingo ad ogni tratto di sentirmi male e gli domando dei consigli.

ANNA.           Ma non bisogna fidarsi. È appena studente in medicina.

ENRICO.       Non abbia paura. Arrivò a prescrivere qualche cosa al povero Valentino?

ANNA.           No, no. Ha pochi mesi d'Università. È già qualche cosa per Lei di avere la mia amicizia e quella di Guido. Guido poi potrà servirla magnificamente. È furbo, ricco di risorse. E soprattutto abbia pazienza. Non tema di divenire troppo vecchio per il matrimonio. Guardi me e mio marito. Questi ultimi nostri anni sarebbero stati i piú felici della nostra vita se non ci fosse stata la disgrazia di questa nostra bambina cioè del suo marito. Lui attende alle sue cure ed io l'aiuto in tutte quelle pratiche. Perciò mi è molto attaccato. È vero che amerebbe io non m'occupassi tanto delle mie bestie. È una piccola nube ma senza importanza perché egli finisce col lasciarmi fare quello che voglio. E si va avanti quieti uno accanto all'altro come fummo posti 40 anni or sono allo stesso posto.

ENRICO.       Ma passarono per tutt'altre avventure... furono messi insieme per tutt'altro scopo. Io dovrò invece di qui a otto mesi mettermi accanto a mia moglie, subito per farmi curare da lei se lo vorrà, e assisterla nelle sue cure per le bestie.

ANNA.           Eh, via. Sono pochi anni soltanto ch'io mi dedico tanto alle bestie. Dacché mia figlia si sposò.

ENRICO.       Voi vecchi siete piú solidi di noi giovini. Sembra tutt'un'altra razza. Io m'aspetto la vecchiaia a ogni settimana che passa. Ho 40 anni...

ANNA.           Dieci minuti fa erano 38.

ENRICO.       E siano 38. Ma mi viene imposto, per sposarmi, non di fare la corte a mia moglie, ma intanto a tutte le persone che la circondano, padre, madre, figlio, cugino...

ANNA.           La madre è già conquistata.

ENRICO.       Grazie! E spero per sempre. Noi due abbiamo tanti punti di contatto. Anche le bestie. Io le amo tutte, meno i gatti che non posso soffrire.

ANNA.           Povera bestia! La creatura piú calunniata di questo mondo. Cercherò di convertirla anche su questo punto.

ENRICO.       Gliene sarò tanto riconoscente. (Dopo una pausa.) E quando ritorna il signor Giovanni perché io possa cominciare a fargli la corte?

ANNA            (ridendo). Sarà qui fra poco. Ma non si mova come se andasse all'assalto. Può spaventarlo. Con Giovanni bisogna usare un po' di riguardo. Lui è alquanto lento.

ENRICO.       Lo so, lo so. Ma però se con lui non procedo con un po' di vigore non si accorgerà neppure di me. Io penso intanto di attaccare su quella parete un affisso col mio nome in lettere cubitali. Quando esita faccio un solo gesto e continuo il discorso.

ANNA.           Cessi di deridere mio marito. Non è lui che non intende Lei; è Lei che non intende lui. Lui è piú fine di Lei. Lei crede di poterlo deridere senza che lui se ne accorga. Invece a quest'ora egli ha inteso la Sua antipatia e la ricambia di cuore. Oh! mio marito è stato sempre considerato e anche temuto quale una persona accorta. Se Lei si fosse tratto l'insegnamento che avrebbe dovuto da quel magnifico risultato ch'Ella ottenne con quel Suo affare nei tessuti adesso starebbe meglio con mio marito. Ricordando quello ch'egli fu in quel commercio avrebbe dovuto ammirarlo. Questo egli avrebbe sentito e le vostre relazioni sarebbero state diverse.

ENRICO.       Io non credo di avergli mai mancato di rispetto. Non può aver indovinato niente.

ANNA.           Ella non lo conosce. Parla poco, si esprime con qualche impaccio ma intende e anche indovina tutto. Oh, se indovina tutto.

ENRICO.       Avrebbe allora anche indovinato il mio desiderio di volergli bene e di conquistarmi la sua benevolenza.

ANNA.           Questo era quello ch'Ella voleva fargli credere, ma egli vede le cose fino in fondo. Lo so io come le indovina.

SCENA SESTA

Il dottor RAULLI, vecchio, vivo, sicuro, troppo sicuro; GUIDO CALACCI e DETTI

GUIDO.         Buon giorno, zia. A che ora ritorna a casa lo zio?

ANNA            (levandosi con grande rispetto). Il dottor Raulli! Che peccato ch'Ella si disturbò inutilmente. Giovanni non è in casa.

RAULLI.       E non m'è possibile di aspettarlo perché devo correre via subito. Ma insomma posso parlare anche con Lei. (Seccato guarda Enrico.)

ANNA            (presentando). Il signor Enrico Biggioni, un amico di famiglia. (Guido gli stringe la mano.)

RAULLI        (stringe la mano ad Enrico). Piacere! E allora posso parlare anche dinanzi al signore. Già non ha infine da essere un segreto. Io sono venuto solo per avvisare il signor Chierici ch'io assolutamente m'oppongo che gli venga praticata la operazione del ringiovanimento. A me basta questo. State un po' lontani voialtri e a me è difficile di ritornare qui. Mi basta che il signor Chierici sia avvisato di questo. (Scandendo le sillabe.) Io sono assolutamente contrario a quell'operazione. Quel Giannottini è capitato qui ad agitare tutti i vecchi di Trieste. E invece che dar loro la giovinezza procura a se stesso una giovinezza... agiata.

ANNA.           Io ne ho sentito parlare, ma non sapevo che si trattasse proprio di Giovanni. (A Guido.) Davvero si trattava di far operare Giovanni?

GUIDO.         Sí, zia. Se ne parlò anche in Sua presenza.

RAULLI.       Questo giovinotto è un bravo ragazzo. Della medicina ha intanto l'intraprendenza. È già qualche cosa, è molto, ma non basta. Quando saprà, quando conoscerà il corpo umano e i suoi segreti, l'intraprendenza non gli starà male. Ma intanto è un pericolo. È come... è come se un treno corresse sulla via senz'avere le rotaie.

GUIDO.         Ma io, signor primario, non applico mica le idee mie. Adottai le idee del signor Giannottini, un dottore abbastanza vecchio.

RAULLI.       Ha 35 anni. Che aspetti di giudicare dell'operazione quando ne avrà bisogno lui stesso. Che cosa è un medico a 35 anni? Può curare le malattie che furono studiate e curate prima del suo avvento. Ma che per l'amor del cielo non venga ad innovare e ad inventare. Occorrono i capelli bianchi solo per saper giudicare dell'idea di un altro. A quell'età si vive e si scrive solo sotto dettatura. In quanto a Lei aspetti di aver laurea eppoi parli. Verrà anche per Lei il momento di disporre liberamente dei corpi di chi vorrà affidarglieli. Sarà - nel primo tempo - un disastro per questa povera città.

GUIDO.         Via. signor primario, la città passerà la stessa avventura che le toccò quando Ella aperse la Sua ambulanza. È abituata a tali disastri.

RAULLI.       Mi lasci parlare. Io non ci pensai allora di consigliare delle riforme. Lasciai le cose come le trovai. E Lei capirà quando... sí quando avrà visti un maggior numero di uomini nudi come quel dottor Giannottini sia uno sventato... sí... un delinquente. Fa una cosa cosí... taglia... sperando, aspettando, credendo. Dove sono i casi registrati? Mi facciano vedere i ringiovaniti.

GUIDO.         Ce ne sono, signor primario, ce ne sono. In altre città. I risultati sono documentati.

RAULLI.       Mi pare sopratutto per prove fatte sui topi. Io non seguii tante fantasticherie. Io mi fermai ad un documento molto pubblico, evidentemente accertato. Un presidente ottantenne dell'Accademia Francese delle Scienze si proclamò convinto dell'efficacia delle pratiche ringiovanitrici. Ebbene! L'Accademia nella prima sua tornata dichiarò che da allora non poteva essere suo presidente chi avesse sorpassato i 60 anni. È il solo processo di ringiovanimento in cui credo. Capisce, giovinotto?

GUIDO.         Se m'è già permesso di capire.

RAULLI.       Mi lasci parlare. E se l'operazione avesse un'efficacia? Se cioè avesse l'efficacia di accelerare la vita e di abbreviarla? Il signor Chierici ha certo il desiderio di continuare la vita sua come l'ha ora, cioè digerendo, vedendo, ascoltando, parlando, vivendo insomma, un po' meno intensamente degli altri ma non avendo in complesso alcun altro disturbo che di guardarsi e seguire qualche cura. Perché volete ammazzarlo?

ANNA.           Dio mio! Ma Giovanni non ha mai pensato seriamente a tale operazione.

RAULLI.       Ci ha pensato, ci ha pensato, signora. O meglio ci ha pensato questo Suo nipote, il futuro Esculapio. Guardarsi da chi di medicina sa solo un poco. È piú dotto chi non ne sa niente.

GUIDO.         Ma signor primario. Se non avessero potuto parlare tutti quei medici che ci precedettero e che certamente non sapevano nulla delle grandi scoperte dei nostri tempi, quanto silenzio ci sarebbe stato nei secoli passati. Una bella noia!

RAULLI.       Non è la stessa cosa. Ella, giovinotto, non sa quello che si dica. Esculapio sapeva tutta la medicina del suo tempo. Sapeva tutto quello che a quell'epoca si poteva sapere. (Scandendo le sillabe.) Sapeva, dico. Neppure lui non si sarebbe messo ad agire su un corpo umano per fare degli esperimenti.

GUIDO.         Ma gli esperimenti di ringiovanimento si sono fatti. E a quest'ora si sono fatti anche sul corpo umano. Se si dovesse procedere come dice Lei, signor primario, non si potrebbe mai arrivare ad una conclusione.

RAULLI.       Lasci che le cose si maturino, lasci che vediamo e che sentiamo. Non ammazziamo la gente che quando non si può fare altrimenti.

GUIDO.         Non si può mai fare altrimenti. Perché è evidente che le cose stanno cosí: Io che ho appena iniziati i miei studii mi trovo nell'ignoranza. Ma Lei, professore, Lei che sa tutto quello che ora si sa, certamente si trova nell'errore. Basta aprire un libro di storia per accertarsene. E perciò se si aspettasse di ammazzare la gente quando tutto fosse noto non si ammazzerebbe piú. Come andrebbe allora il mondo?

ANNA.           Come parli bene!

RAULLI        (dopo un momento di esitazione). Sí, benissimo. (Poi sicuro.) Ma sbaglia. Io sono sicurissimo che sbaglia. Se avesse parlato cosí una trentina d'anni or sono quando la medicina stava nascendo, potrei essere d'accordo con lui. Ma ora... ora sbaglia. È questo! Non conoscendo tutta la medicina, non l'ama abbastanza. È un giovine che ha dello spirito, costui. Sbaglia solo per ignoranza.

ANNA            (ammirando). Ma è un giovine di spirito!

RAULLI.       Peccato che in medicina per lo spirito non ci sia posto. Lo impieghiamo solo per conservarci delle parti anatomiche. Ah, ah, ah! (Ride.)

GUIDO          (ride con sforzo). Buonissima.

RAULLI.       E a me lo spirito non piace. Per me vale la legge americana. Proibizionismo. (Ride di nuovo soddisfatto.)

GUIDO          (ride). Anche questa è buonissima.

RAULLI.       Io credo poi che l'operazione del ringiovanimento non possa essere altro che un atto di spirito. Ah! Ah! Ah!

GUIDO          (tenta di ridere, ma non gli riesce).

RAULLI.       Un atto di spirito soggetto a dazio altissimo. (Ride lungamente.)

GUIDO          (c.s.).

RAULLI.       Solo che qui quelli che avrebbero dovuto essere i doganieri si mettono a praticare il contrabbando. (Ridendo.) Comprende quello che voglio dire?

GUIDO          (c.s.). Sí, sí.

RAULLI.       E c'è anche da dire che il dazio non è pagato da chi lo beve lo spirito. Ah! Ah! Tutt'altro. È come se uno avesse il gusto di bere lo spirito e all'altro toccasse il danno di ubbriacarsene.

GUIDO.         Non si crederebbe che Lei abbia odio per lo spirito.

RAULLI.       Lo abbomino e mi vergogno di averne. Sia tanto buono! Dimentichi che ne ho fatto. In compenso io dimenticherò che Ella in Sua vita patrocinò l'operazione del ringiovanimento e quando di qui a 10 anni La vedrò lavorare a me da canto giurerò: Il dottor Calacci giammai si lasciò prendere ad una ciarlataneria simile. (Poi.) Allora, signora, m'affido in Lei. Dica al signor Giovanni tutto quello che Le ho detto.

ANNA            (spaventata). Tutto?

RAULLI.       Insomma che non voglio si lasci toccare. E se si opera, si cerchi un altro medico. Io non voglio curare che dei corpi umani che conosco alterati dalle malattie che pure conosco. Se furono alterati per capriccio, vadano a farsi curare a Norimberga dai fabbricanti di giocattoli. Buon giorno, signora. E del resto come va il signor Giovanni? Sta benissimo? Non ha finito ancora quel medicinale che gli prescrissi? Certo quella confusione che gli era rimasta per lo spavento provato per quel furto gli è passata?

ANNA.           Interamente. Mangia e dorme benissimo.

RAULLI.       Vede? E parlano di operazioni? Che bisogno c'è di operazioni? Per capriccio? Se un medicinale non raggiunge l'effetto io ne propino un altro. Ma se la vostra operazione non lo raggiunge? Che resta a fare? Un'altra operazione? Tagliargli il collo? E non sarebbe stato piú utile tagliarlo a voi? (Poi.) Me lo saluti tanto. Tenterò di vederlo la prossima settimana. Buon giorno, signora. (Stringe la mano ad Anna, poi ad Enrico.) Tanto piacere di averla conosciuta. (Cenno di saluto a Guido ed esce.)

GUIDO.         Che turbine di uomo! Capisco che non c'è da sperare nulla. Quando lo zio conoscerà il parere del suo dottore non ci penserà neppure di lasciarsi operare.

ANNA.           E farà bene.

GUIDO.         Zia mia, non giudichi troppo precipitosamente. In complesso il dottor Raulli dice che l'operazione non si deve fare perché non è stata provata. Ma quando sarà provata? Lo zio ha 76 anni a quest'ora. Saprà anche lui attendere finché la operazione sia provata?

ENRICO.       È evidente. A 76 anni è difficile aspettare. È già tanto difficile aspettare a 38! E dica: Io avevo già sentito parlare di cotesta operazione, ma non ci avevo pensato tanto. Sentendosi un po' esausto, un po' vecchio, si può praticarla?

GUIDO.         Oh, sui giovini è di effetto assolutamente sicuro.

ENRICO        (respirando profondamente). Una prolungazione della gioventú! Anzi due gioventú! Una si può impiegarla per fare i denari e l'altra per spenderli.

ANNA.           Ha visto che il dottor Raulli non ci crede...

ENRICO.       Grazie al cielo io non sono in cura al dottor Raulli. Se tale operazione fosse efficace, chi non vi si sottometterebbe? Il tempo non incomberebbe in tale modo sulla gente e tutto si potrebbe aspettare con maggiore comodità.

GUIDO.         Ma Ella non pensa mica all'operazione per Lei?

ENRICO.       Certamente non adesso. Ma chissà se non m'occorrerà di qui a... 8 anni o piú?

GUIDO.         E neppure di qui ad 8 anni. A meno ch'Ella non fosse colpito da senilità precoce ciò che non Le auguro.

ENRICO        (spaventato). Senilità precoce? Non si chiamava cosí la malattia del povero Valentino? Cosí che se Lei avesse conosciuta quell'operazione soli sei mesi prima, il povero Valentino sarebbe stato salvo?

GUIDO.         Sarebbe stato meglio l'avessi conosciuta parecchio tempo prima.

ANNA.           Ma hai sentito che il dottor Raulli non ci crede affatto?

GUIDO.         Si capisce! Altrimenti non sarebbe un medico vecchio. Se c'è stato un vecchio capitano marittimo che quando fu inventato il vapore non ci credette e non volle ammainare le vele! Per lo zio purtroppo non c'è piú da parlarne. Per lui una parola del dottor Raulli è decisiva.

ENRICO.       Non potrei provarmi io di convincerlo?

GUIDO.         Crede di avere una grande influenza su lui?

ENRICO.       Non ancora, non ancora, ma col tempo chissà?

ANNA.           Se fossi ben convinta di fare il suo bene potrei provarmici io. Già io di solito quando si tratta di cose serie sono capace di non badarci molto al medico. Quanto di quel Pagliano fu trangugiato senza che il dottor Raulli ne sappia. E in fondo in questa casa stiamo tutti bene fuori che il povero Valentino cui il Pagliano non fece né bene né male. Ma qui si tratta di un'operazione. Che diamine!

GUIDO.         Un'operazione che equivale al taglio delle unghie. Niente di piú.

ANNA            (pensierosa). E può fare tanto bene? Se la farebbero tutti allora.

GUIDO.         Tutti? Solo i vecchi. Io per esempio non la farei. Se ringiovanisco un poco mi rimandano a scuola. Io che sono tanto contento d'essere arrivato finalmente all'Università ne verrei scacciato per comportamento troppo infantile.

ENRICO.       Per il momento, secondo me, la cosa piú importante sarebbe di non dire nulla alla signora Emma della possibilità di tale operazione.

GUIDO.         Perché?

ENRICO.       Perché ho paura ammattisca dal dolore all'apprendere che se Valentino avesse pazientato un po', avrebbe potuto essere salvato.

GUIDO.         Questo è facile finché lo zio non ci si sottopone.

ENRICO.       Ma anche dopo. Del resto non siamo obbligati di tenerla celata anche ad un altro? Non ne avviseremo neppure il dottor Raulli. Anzi se il signor Giovanni ammalasse la dovremo anche celare. Con cataplasmi o che so io?

ANNA.           Perché Giovanni dovrebbe ammalare? In seguito all'operazione?

GUIDO.         Io faccio le fiche. Perché va a pensare Lei alla malattia?

ENRICO        (disperato). Ma se non faccio altro che pensare come io possa aiutarvi prevedendo tutto? Non auguro la malattia, io, al povero vecchio signore. Ma si sa che i giovani - e lui ad operazione fatta sarebbe giovine - sono piú facilmente soggetti a malattie. Ha avuto la scarlattina?

GUIDO.         Si ringiovanisce solo del 20%. Perciò lo zio avrebbe ad operazione riuscita 59 anni suonati.

ENRICO        (pensieroso). Ed un uomo di 40 ne avrebbe 32. Non c'è male.

GUIDO.         Ecco (levando una carta dalla tasca): Io ho qui la prova che per lo zio l'operazione arriva in buon punto. Per mio suggerimento e suo incarico gli feci fare l'analisi. Guardi qui, zia. Tutto normale.

ANNA            (inforcando gli occhiali). Io già non ci capirò niente.

GUIDO.         Anzi zia. Per compiacermi si espressero cristianamente. Tre volte normale. L'analisi costerebbe a qualunque 50 lire mentre a me la fanno per 25. Perciò lo zio ne dà l'incarico a me.

ANNA.           E tu veramente troveresti che il beneficio spetterebbe a te?

GUIDO.         No, zia. Io trovo il mio premio già nel risultato dell'analisi. Assolutamente mi bastano le 25 lire.

ANNA            (traendo dal tavolino un portamonete ne leva il denaro e glielo dà). Sei un buon ragazzo, tu.

GUIDO.         Purtroppo questo è denaro sprecato. L'analisi era stata fatta per vedere se si poteva procedere all'operazione con piena sicurezza. Adesso che la sicurezza l'abbiamo ecco che l'operazione non si fa. Peccato.

ANNA            (scossa). Veramente peccato. Io naturalmente dirò a Giovanni tutto quello che disse il dottore. È mio dovere. Poi resta a lui da decidere.

ENRICO.       E non si potrebbe mandar via il dottor Raulli e assumere quale medico di casa il dottor Giannottini?

ANNA            (vivamente). Questo non si può fare. Il dottor Raulli ci fu un grande conforto durante la malattia del povero Valentino. Era qui notte e giorno.

ENRICO.       Che io mi sappia non lo salvò però.

GUIDO.         Ciò non prova nulla, assolutamente nulla. Guai se si dovesse addebitare a ogni medico la morte del suo cliente. Di innocente non ci sarei che io a questo mondo. Io credo che se lo zio si decidesse per l'operazione, si potrebbe farla senza che il dottor Raulli ne sappia. Poi egli non se ne accorgerebbe neppure.

ANNA.           Ma non dovrebbe accorgersene dal suo ringiovanimento?

GUIDO.         Gli si farebbe credere che sia l'effetto del suo ioduro. Ciò gli farà piacere. Zia mia! Badi ch'è questo l'ultimo momento in cui si può sperare di ottenere per lo zio un effetto buono. Diamine! 76 anni! Se si aspetta di piú, in tante parti del vecchio organismo subentrerebbe la morte fisiologica.

ANNA.           La morte? (Con un brivido.) Perché la morte se ha tutto normale?

GUIDO.         Ma non è di quella morte di cui voi sapete ch'io parlo. In medicina noi diciamo morte anche la paralisi. Quando voi vedete un vecchio procedere tentennante dovete figurarvi ch'è composto di mezza vita e mezza morte. Quello ch'è vivo in lui porta a spasso quello ch'è morto. Perciò tentenna come se portasse un peso. Ora non c'è operazione che tenga che possa vivificarci la parte ch'è morta, morta definitivamente.

ANNA.           Ma Giovanni non è tentennante.

ENRICO        (dubbioso dopo un'esitazione). Infatti non è...

GUIDO.         Certo, finora non lo è. Se lo fosse l'operazione potrebbe rendere piú viva la parte viva, l'altra parte non ne risentirebbe alcun vantaggio. Io cerco di spiegarvi le cose con le parole piú accessibili a voi che di medicina non sapete proprio niente. La morte fisiologica interviene là dove il lavoro è impedito dall'indebolimento: Non è minacciato di morte l'occhio perché lavora aiutato dagli occhiali, non l'orecchio perché s'aiuta con la tromba acustica... (Subito mettendosi a ridere.) Dove le macchine non aiutano, nell'inerzia assoluta gli organi muoiono.

ENRICO        (rattristato). Sí, è vero, dove il lavoro è impedito, c'è subito l'insidia della morte.

SCENA SETTIMA

EMMA e DETTI

EMMA           (è vestita a lutto pronta per uscire con abbondanza di veli. Saluta leggermente Guido ed Enrico). Papà e Umbertino non sono ancora rientrati?

ANNA.           Non ancora.

EMMA.          Mi dà un po' di pensiero. Da qualche tempo papà è tanto distratto e assorto che temo che su queste nostre terribili strade possa toccare a lui o al bambino qualche sventura.

ANNA            (imbarazzata). Vorresti interdire al nonno quella passeggiata di ogni giorno in compagnia del nipotino, quella passeggiata ch'egli dice tanto importante per lui perché se ne sente ringiovanito?

EMMA           (subito spazientita). Io non dico questo. Ma d'altronde se queste passeggiate implicassero un pericolo per il fanciullo non si potrebbe permetterle. Bisognerà che io vi prenda parte per tutelare Umbertino. So che la mia triste compagnia toglierebbe qualunque gaiezza a quelle passeggiate e d'altronde l'ora mi è incomoda...

ENRICO.       Non potrei sostituirla io, signora? Anch'io uso di camminare al sole prima della colazione e mi sarebbe un piacere grande di passare il mio tempo con quel caro ragazzo e anche col suo nonno che io amo e venero.

EMMA.          Non vorrei disturbarla.

ENRICO.       Non è un disturbo. Glielo domando quale un favore.

EMMA.          Non sta in me di accordarglielo. Parli con papà. Io non dubito che sarà molto lieto di avere la Sua compagnia.

ENRICO.       E non potrebbe dirgli che a quell'età non si deve star soli con un fanciullo sulle nostre vie e che Lei esige ch'io li accompagni?

ANNA.           Non ci mancherebbe altro!

EMMA.          Sente? Sarebbe una bella offesa per il mio povero papa. Dovrò invece fingere ogni giorno di essere presa dal desiderio di uscire proprio a quell'ora e di approfittare della sua compagnia per fare quattro passi. Forse allora mi sopporterà e neppure con grande piacere perché egli è superbo che il fanciullo sia affidato a lui solo e a lui solo possa dirigere la parola. Quand'è con altri si capisce che Umbertino per quanto ami il nonno si diriga con maggior piacere a chi piú facilmente lo intende.

ENRICO.       E non potrei trovarmi io qui come per caso e esclamare al momento giusto: Non mi fareste il piacere di condurmi con voi? Umbertino non mi vuole male se anche non mi ama troppo.

EMMA           (esitante e seccata). Mi pare difficile.

ENRICO        (avvilito). Se non si può allora passeggerò solo come è il mio destino dacché ho perduto il mio povero amico Valentino.

EMMA.          Mio marito non usciva quasi mai con Lei.

ENRICO.       Prima di sposarsi ogni giorno.

EMMA.          Cosí che Lei perdette l'amico quando egli si sposò?

ENRICO.       Tutt'altro anzi. Quando lo rividi tanto felice a Lei da canto e mi fu permesso di passare qualche serata nella Loro intimità io ritrovai il mio antico amico intero anzi aumentato perché io volli bene a lui alla sua casa... sí... alla sua casa. Me lo creda, la sua morte fu per me una grande perdita. Quelle serate in casa sua erano motto importanti nella mia vita solitaria.

EMMA.          È che la casa andò distrutta con lui. Non c'è piú.

ENRICO.       Lo so, lo so. Non me ne lagno mica. Non vorrei farlo accanto a Lei che perdette tanto, che perdette tutto o quasi. Quell'uomo bravo buono e bello! M'è di conforto di pensare a lui e vengo spesso qui per ricordarlo meglio. Ne ho parlato finora con la signora Anna e fu un vero conforto.

ANNA.           Quest'è vero. Parla sempre del povero Valentino.

EMMA           (molto riservata). Grazie. (Poi.) Io allora, vado, mamma. Non so perché ma mi sento un poco inquieta. Quel babbo mi pare da qualche giorno addirittura trasognato. La settimana scorsa si lasciò portar via l'orologio e non se ne accorse che quando giunse a casa.

GUIDO.         Ciò non prova molto. I ladri a Trieste sono tanto evoluti che sarebbero capaci di strappare dal collo la testa piú accorta senza che il proprietario se ne accorga. Non lo fanno solo perché non saprebbero che farsene di una testa di piú. Ognuno crede che la propria basti alla bisogna.

EMMA.          Ma fu dopo il furto che il contegno del babbo non mi piacque. Mamma comperò per lui subito un altro orologio, ma egli voleva quello, proprio quello che gli era stato rubato, il ricordo di suo suocero e pareva ci tenesse addirittura rancore perché non eravamo capaci di procurarglielo.

ANNA.           Io fui invece commossa dalla venerazione per il povero babbo mio, che il suo dolore rivelava.

EMMA           (spazientita). Non era dolore soltanto; era ira, era rancore per noi che pur non avevamo alcuna colpa. Pareva che avessimo noi incaricato il ladro del furto. Ciò dimostrava in lui un'intelligenza diminuita.

GUIDO.         Eh, già. I vecchi son vecchi e rappresentano un danno per la famiglia. È quello che dico io.

EMMA.          Io non dico questo, povero babbo. Io dico solo che siamo imprudenti di affidargli il fanciullo.

ANNA.           Io, invece, trovo che lui aveva ragione di averla con noi. Piccola, piccola, ma qualche ragione ce l'aveva. Io avevo comperato un orologio buono, solido, ma che non somigliava affatto a quello ch'egli aveva smarrito, il ricordo del suo suocero. Riparai all'errore e comperai un orologio che all'altro somigliava. Ora Giovanni s'è rifatto gentile e buono com'è stato sempre ed anzi crede di aver ritrovato proprio l'orologio che gli fu rubato.

EMMA.          Ciò che proverebbe proprio la verità di quello che dico io.

ANNA.           Non capisco.

EMMA           (spazientita). Non c'è scopo di discutere una cosa simile. (Poi.) Mamma. Io vado. Sarò di ritorno fra una mezz'ora. (Saluta leggermente gli altri ed esce dalla porta di fondo.)

SCENA OTTAVA

ANNA, ENRICO e GUIDO

ANNA.           Bisogna scusarla. Vive tanto nel suo dolore che perde la pazienza non appena qualcuno non è della sua opinione.

GUIDO.         Vedrà, zia. Quando lo zio sarà ringiovanito, sarà meno attaccato agli orologi. I giovani hanno tutt'altri pensieri. Veda me, per esempio. Il mio orologio, quello magnifico che lo zio mi regalò per la prima comunione, fu dapprima trasformato in un comunissimo orologio di metallo eppoi anche questo andò a respirare l'aria alpina... al Monte di pietà.

ANNA.           Birichino! E cosí sei senza orologio?

GUIDO.         Quando m'occorre di saper l'ora, fermo il primo passante e gliela domando. Chi non ha un orologio oggidí?

ANNA.           Un dottore senz'orologio! E come fai a misurare un polso?

GUIDO.         Lo confronto col mio ch'è come un orologio.

ANNA.           Eppure lo zio ti passa un mensile sufficiente.

GUIDO.         Se non ci fossero quei maledetti libri che costano tanto il mensile mi basterebbe. Ma per tenersi a giorno nella nostra scienza occorrono libri, riviste e giornali. È cosí ch'io riseppi del processo di ringiovanimento prima del Giannottini. Fui io che gli portai l'affare.

ANNA.           Un affare? Non dicevi ch'è un'operazione?

GUIDO.         Sbagliai, zia. È un'operazione.

ANNA.           E quanto ti occorrerebbe per riscattare l'orologio di metallo?

GUIDO.         Fu impegnato per 25 lire.

ANNA            (prende dal portamonete le lire e gliele dà). Ecco qui le lire. Non ne dirò niente a Giovanni perché s'inquieterebbe.

GUIDO.         Grazie, zia.

ANNA.           Ma domani voglio vedere l'orologio.

GUIDO.         Domani lo vedrà zia. Proprio quello che impegnai.

ANNA.           Io non lo conosco.

GUIDO.         È un orologio come quello dei ferrovieri, comunissimo.

ANNA.           Capisco, capisco. E adesso devo andare in cucina per verificare se tutto è pronto. (Congedando Enrico.) Dunque, signor Biggioni, siamo d'accordo. Ella farà del Suo meglio per essere abile, attento, calmo.

ENRICO.       Farò certo del mio meglio. Ha già visto. Oggi ho tentato e non sono riuscito. Ritenterò domani perché oggi nel pomeriggio ho da fare in ufficio.

ANNA.           Meglio sia talvolta occupato anche altrove. Cosí i nove mesi trascorreranno piú presto.

ENRICO.       Nove? Otto, signora, non piú di otto.

ANNA            (ridendo). Scusi. Sono soltanto otto. Arrivederci. (Esce a sinistra.)

SCENA NONA

GUIDO e ENRICO

GUIDO.         Nove o otto? Non capisco nulla. Dei nove mesi so qualche cosa. Ma subito poi vengono i 7 e mai gli otto! Gli otto significano disastro.

ENRICO.       Non si tratta di ciò, purtroppo. Le racconterò, le spiegherò un'altra volta. Non è una cosa a scadenza tanto fissa. Purtroppo. Altrimenti potrei prendere un calendario e ogni ventiquattr'ore potrei cancellare un giorno intero. Cosí passano i giorni e non cancello niente. (Poi, intraprendente e perfettamente libero da abbattimento.) Senta signor Guido. Ella accetterebbe da me un dono, il dono del mio orologio? È un perfetto cronometro. Io assolutamente non ne ho bisogno. (Leva dal taschino l'orologio con la catena che stacca e ripone in tasca.) A Lei gioverà meglio che a me perché non è per il polso ch'io prendo i miei clienti.

GUIDO          (cui riesce difficile di celare la propria gioia). Ma... perché?

ENRICO.       Io voglio premiare come so lo studioso intraprendente che apporta alla nostra città tanti vantaggi. Lo accetti! Sia tanto buono. È un lieve compenso alle insolenze immeritate ch'Ella ebbe da quel dottor Raulli. Come ero arrabbiato! Mi bolliva il sangue. Probabilmente se la prende con Lei perché non ebbe lui per primo la fortuna di sapere di quell'operazione. Io Le auguro ogni fortuna. Possa fra breve essere questa la prima città del mondo priva di vecchi. Che città sarebbe questa!

GUIDO          (sempre con l'orologio in mano). Ma io non posso accettare. Certo io non sono molto restio di aiutarmi con un po' di furberia quando mi trovo in difficoltà come alla fine di ogni mese, dal 15 in poi. Ma si tratta di piccolezze eppoi si tratta di miei congiunti i quali sia pure per bontà si sono addossati il mio mantenimento. Io con le mie furberie non faccio altro che correggere il concetto ch'essi si sono fatti del costo della mia vita o, in altre parole, del mio valore. Piccole cose! Mi faccio pagare quest'analisi che a me non costa niente oppure il riscatto di un orologio che mai impegnai ma che subito vendetti poiché io non sono un finanziere tanto ingenuo da mettermi in mano degli usurai del Monte di Pietà. (Sempre con l'orologio in mano.) Qui invece si tratta di un importo alquanto grosso. Eppoi Lei non è mio congiunto. (Con risoluzione improvvisa.) Sa come facciamo? Per il momento Lei tiene l'orologio, ma è mio. Me lo restituirà non appena Ella diverrà mio congiunto.

ENRICO.       Oh, come Lei ha parlato bene. (Afferrandogli la mano e stringendogliela affettuosamente.) Siamo d'accordo! L'orologio sarà Suo soltanto quando io sarò divenuto Suo congiunto. Ma intanto lo tenga Lei. È una garanzia, è una garanzia sicura che io Suo congiunto diverrò. Tenga anche la catena alle stesse condizioni. Eccola! Mi faccia il favore! Non rifiuti. Pensi quanto bene Ella mi fece. Dalla morte del povero Valentino la vita non mi concesse una gioia simile. Ma sia buono! Non per quest'orologio o per questa catena che non hanno alcun valore, ma per rimeritarmi della sincera amicizia che Le offro m'aiuti, m'appoggi.

GUIDO          (altrettanto cordiale). Ma volentieri! Con tutto il cuore. Io voglio aiutarla. Anche per il mio affetto a quella Emma che non vuole intendere come le sia offerta la possibilità di ricominciare la vita sotto i piú begli auspici. Terrò - lo prometto - l'orologio e la catena fino al momento delle nozze fino al momento in cui sarò sicuro che sono proprio miei.

ENRICO        E subito ho bisogno del Suo aiuto, cioè del Suo consiglio. Da mezz'ora, dacché si parlò di quella portentosa operazione, io non penso ad altro. Crede Ella che sia meglio avvisare subito la signora Emma?

GUIDO.         Avvisarla di che?

ENRICO.       Di quell'operazione. Ammettiamo che senza saperne nulla essa mi sposi e poi l'apprenda. Non c'è il pericolo che ricada nel suo grande dolore? Per spiegarmi meglio: Non sarebbe meglio ch'essa subito possa... smaltire il suo grande dolore per la morte del marito e anche il rimpianto che la nuova cura non sia arrivata in tempo per salvarlo piuttosto ch'essere informata piú tardi di questa seconda sventura?

GUIDO          La questione è molto importante e prima di rispondervi vorrei studiarla. Cosí, a prima vista, a me sembrerebbe opportuno di lasciare Emma per il momento in pace. Quando essa finalmente avesse dimenticato il marito, io credo in verità che nessun fatto nuovo varrebbe a ridestargliene il ricordo, voglio dire il ricordo. Se apprendesse ora dell'operazione sarebbe certo un rincrudimento di dolore. Ma poi? Poi direbbe: Guarda, guarda, se l'operazione fosse arrivata in tempo, io ora avrei due mariti. Sarebbe un bell'imbarazzo.

ENRICO        (ridendo). Magari dicesse cosí. Ma chissà? Forse direbbe invece che se l'altro fosse rimasto al suo posto essa non avrebbe conosciuto il secondo. Questo è il pericolo.

SCENA DECIMA

ANNA e DETTI

ANNA.           Eccomi qui. (Urla.) Rita! Rita! Già non sente. E deve preparare la tavola. (Ad Enrico, ridendo.) Ho piacere di rivederla.

ENRICO.       Sono di un'indiscrezione imperdonabile. Ma avevo da dire qualche cosa al signor Guido.

SCENA UNDICESIMA

RITA e DETTI

RITA  (entra affannata e correndo). Quale sventura, quale orribile cosa. (Non sa tenersi in piedi e siede.) Mi perdoni signora... (Si abbandona sullo schienale della poltrona, si copre la faccia col grembiule e s'abbandona ad un pianto dirotto.) Oh, signora Anna, come faremo, come farà Lei...

ANNA            (le mancano le forze e siede anche lei). Parla, che c'è? Vuoi parlare, scimunita? (Poi.) Non è forse uno scherzo questo? (Rita non può parlare e accenna di no.)

GUIDO.         Via, Rita. Lei spaventa orribilmente la zia.

RITA  (singhiozzando). C'è il nonno dabbasso... non ha la forza di salire le scale...

ANNA            (si leva). E perché non ha tale forza? È malato?

RITA  (c.s.). È solo...

ANNA            (ricade). E Umbertino?

RITA. Umbertino non c'è... è morto, sfracellato da un'automobile...

ENRICO.       Se Lei lo permette, Signora, vado io a prendere il signor Giovanni. (Nessuno gli risponde ed egli esce.)

RITA. E la povera signora Emma che non lo sa.

ANNA.           Ma come sai tutto questo? È sicuro? L'hai visto?

RITA. È morto, morto, il povero fanciullo. Lo disse il padrone. Lui l'ha visto... sfracellato.

GUIDO          (avvicinandosi alla porta di fondo per uscire). Non è possibile.

SCENA DODICESIMA

GIOVANNI, ENRICO che lo sostiene e DETTI

GIOVANNI   (confuso, eccitato, le vesti in disordine, il cappello in testa fuori di posto). Lo spavento, il dolore, la fuga mi ridussero in questo stato. (Poi.) Povero il mio caro fanciullo! (Singhiozza.) E povero io stesso. Sí! Povero Chierici! Due volte dissi ad Umbertino: Tieni ferma la mia mano. E infatti lui vi si afferrò anche troppo saldamente. Io gridai: Molla, molla... Non era dalla parte giusta. Ma lui non mollò finché l'automobile non lo trasse via... per schiacciarlo. (Brivido.) E io mi salvai a malapena perché lui mi teneva e mi traeva verso l'automobile. (Enrico gli leva il cappello e cerca di rimettergli in ordine la giubba.) Ma mi lasci stare! Non vede che sono occupato?

ANNA.           Non può essere vero! Di' la verità! Non è vero.

GIOVANNI   (singhiozzando). Magari non lo fosse ma è vero, è proprio vero. Io lo vidi andare sotto a quelle ruote di ferro. (Brivido.) Mi mancava il fiato, ma pur arrivai a gridare allo chauffeur: Assassino! E lui, invece, indisturbato, se ne andò via mostrandomi la lingua. Sí! Fece anche questo.

GUIDO.         E Lei non lo fece arrestare?

GIOVANNI.  Non seppi gridare abbastanza perché mi mancò il fiato, ma pur chiamai. E credo di aver anche visto nelle vicinanze un vigile che non si mosse però. E allora io vidi che ero circondato solo da nemici e corsi via. Ero anche terrorizzato all'idea che forse mi sarebbe potuto avvenire di vedere la testa sfracellata del povero bambino. (Brivido.)

ANNA.           Ed ora, Guido, di' tu quello che dobbiamo fare.

GUIDO          (rattristato). È certo che il suo corpo esanime sarà stato portato all'ospitale. Io ora vi andrò subito.

ANNA.           No, no, tu non ci lascerai. Noi abbiamo qui bisogno di te. Io poi verrò con te all'ospitale. Voglio vederlo anch'io il mio angioletto.

GIOVANNI   (terrorizzato). Vuoi vederlo?

GUIDO.         Stia tranquillo, zio, lo vedrò prima io e vedrò se la zia potrà vederlo. Adesso purtroppo non c'è tanta premura di vedere il povero morto quanto di assistere la povera viva, Emma. (Sconfortato.) Che colpo, mio Dio! Come lo sopporterà?

GIOVANNI   (commosso). Non son morto io ch'ero là...

GUIDO.         Capisco, capisco. (Perplesso.)

ENRICO.       Volete che vada io ad avvisarla?

GIOVANNI.  Oh, le saremmo tanto grati signor...

ENRICO.       Biggioni.

GIOVANNI.  Biggioni. Emma - poverina - apprenderebbe tutto lontana da noi... (A Guido.) Che te ne pare?

GUIDO          (calorosamente). Sí, signor Biggioni, mi faccia questo piacere. Vada Lei.

ANNA.           È dalla sua sarta.

ENRICO.       In Corso. Lo so, lo so. Conosco la casa benché non ne ricordi il numero.

ANNA.           Neppure io saprei dirne il numero. (Poi.) Quale colpo! Se le mie povere gambe mi reggessero verrei anch'io con Lei. Povera la mia Emma. In pochi mesi cosí perdette il marito e il figliuolo.

ENRICO        (ansioso di partire). Corro e subito dopo, se lo volete, vado anche all'ospitale. Faccio io, tutto.

ANNA.           Stia però attento come parla con Emma. Una parola troppo precipitosa potrebbe ucciderla. (A Guido.) Non ti pare?

GUIDO          (un po' importante). Stia a sentire! Le dica dapprima che il fanciullo fu gravemente ferito. Poi aumenti, aumenti la ferita. Arrivi a dire che gli furono sfracellate le gambe e danneggiato al petto. Arrivato cosí al pericolo di vita è facile il passo alla morte.

GIOVANNI   (mormora). La ruota però io credo gli passò sulla testa. Arrivai a chiudere in tempo gli occhi per non vedere uno spettacolo... (Brivido.)

ANNA            (gridando). Oh, la testina. (Poi.) Ma non deve dirlo ad Emma.

ENRICO.       Si calmi, signora. Si prepari alla rassegnazione. Bisogna che tutti - ad onta del nostro dolore - ci prepariamo a consolare la signora Emma. Io, intanto, Le assicuro che farò quello che posso. (Le bacia la mano e corre via.)

ANNA            (stupita ripete). Quello che posso? Che cosa può quello scimunito?

GUIDO.         È tanto buono quel poverino!

ANNA.           Io non posso, io non voglio veder Emma prima che non si sia calmata. Rita, accompagnami in camera mia. Non voglio esser sola.

GIOVANNI.  Hai paura che Emma ti mangi? Dove non c'è colpa... E non c'è stata colpa. Io avvertii subito il fanciullo del pericolo. Tieni stretta la mia mano, gli dissi...

GUIDO          (sconfortato). Ed egli la tenne troppo stretta.

GIOVANNI.  Sí! Povera, piccola, soffice manina. Mi pare di tenerla ancora nella mia.

ANNA            (a Guido). Tu resti con lo zio finché non viene Emma. (A Giovanni.) Povero Giovanni! Anche tu devi aver sofferto orribilmente. (Bacia Giovanni sulla guancia.)

GIOVANNI   (commovendosi). Puoi immaginare come soffersi. Mentre venivo a casa correndo sempre pensavo: Oh, perché l'automobile non ha ucciso me invece del povero innocente? E se il fanciullo si fosse trovato dalla parte giusta ciò sarebbe avvenuto.

ANNA.           Poverino! So che avresti preferito di trovarti sotto l'automobile piuttosto che qui. Anche Emma, se è ragionevole, ne sarà convinta. Vuoi un bicchiere di vino per rianimarti?

GIOVANNI   (dopo una lieve esitazione). No, no. Il dottor Raulli tanto mi raccomandò di astenermi dall'alcool.

ANNA.           Anche Emma vorrà venire con noi all'ospitale.

GIOVANNI.  Di' a Fortunato di tener pronta l'automobile.

ANNA.           Sta bene. Io mi vestirò a lutto per uscire come il giorno della morte del povero Valentino. (Esce piangendo.) Oh, povero il nostro Umbertino. Non lo vedrò mai piú.

RITA  (veramente disfatta dal dolore). Sí, povero padroncino. Cosí lieto e fiero e sicuro.

SCENA TREDICESIMA

GIOVANNI e GUIDO

GUIDO.         Come il dolore abbellisce le persone.

GIOVANNI.  Parli per Anna? Un bell'abbellimento quello. Io vorrei restare eternamente brutto. (Poi.) Povera Emma! Chissà quello che dirà di me. Eppoi ci saranno i nonni, i genitori del povero Valentino che verranno da Gorizia. Loro che sempre volevano avere il bambino con sé. Curioso! Il fatto avvenne in un istante. Non avevo finito di dire al bimbo che si tenesse afferrato alla mia mano e lui era già morto. Un attimo! Mentre adesso: (contando sulle dita) Il dolore di Anna, la disperazione di Emma, eppoi l'ira dei Goriziani... li chiamiamo cosí, noi, i genitori di Valentino. Interminabile! Per me è finita. Farei meglio di morire. Eppoi la mia coscienza. Neppure quella mi lascia in pace. È sicuro ch'io non ebbi alcuna colpa. Ma è certo che poco prima, poco prima non in quel preciso istante io ero un po' distratto. Colpa del povero fanciullo. Ci eravamo arrampicati per quel viottolo che conduce alla Maddalena; magari non l'avessimo mai abbandonato! Avremmo dovuto correre su e giú per quel viottolo, su e giú per quel viottolo. Su e giú! Sarebbe stato monotono ma non mi troverei ora qui in questo stato! (Trasognato.) Un viottolo benedetto su cui le automobili non possono passare. Ne vidi una volta una sola, e lenta, lenta come un coccodrillo in terra. (Pausa.)

GUIDO.         E perché era Lei distratto, zio?

GIOVANNI.  Io distratto? Ah, sí. Dunque su quel viottolo, in piena solitudine, c'imbattemmo in due carabinieri in alta tenuta. Il fanciullo si fece ansioso e domandò: Sanno i carabinieri che noi non siamo dei ladri?

GUIDO.         Oh, caro e povero ragazzino.

GIOVANNI.  Sí, poverino. Dapprima dissi che certamente lo sapevano. Ma poi mi parve di non aver detto tutto quello che si doveva per istruire un fanciullo. Ma non era facile. È certo che i carabinieri non arrestano tutti i ladri. Arrestano solo alcuni di quelli che rubano. Gli altri e ve ne sono tanti che non rubano perché son troppo pigri o perché hanno tanto che non trovano qualche cosa che valga il loro sforzo, vanno liberi anche quando si sa che sono ladri. Ma era difficile trovare le parole giuste... ed ora che mi hanno portato via il fanciullo non vale la pena di cercarle. (Commosso.)

GUIDO.         L'imprudenza fu degli altri che La lasciarono uscire alla Sua età solo col bambino.

GIOVANNI   (subito arrabbiato). Questo non posso sentire. Tu dici delle sciocchezze. Che c'entra l'età? Se ti dissi che non ero affatto distratto. Sono forse istupidito? Tu parli cosí per sedurmi a quell'operazione di cui non voglio sentire. Che c'entra l'età? (Poi.) Forse in parte c'entra. Non perché io senta peggio degli altri o vegga o pensi peggio. Ma perché io so di un'epoca in cui le automobili non c'erano. Nella mia giovinezza ci si faceva schiacciare da un ronzino che tirava una leggera carrozzella. La bestialità dell'uomo, voglio dire del guidatore, era attenuata dalla debolezza della bestia, voglio dire del ronzino. Ma t'assicuro, che ci fu della gente che morí schiacciata da quelle carrozzelle. Ma oggi se le nostre automobili arrivassero improvvisamente fra la gente abituata ai ronzini, tutta quella gente finirebbe sotto alle ruote di gomma e di ferro. Ed io sono uno di quella gente. Aspettate ancora una diecina di anni e sarò anch'io piú abituato a tali diavolerie. (Poi dopo una pausa.) Solo che io non mi vi abituerò giammai. Adesso, poi.

SCENA QUATTORDICESIMA

UMBERTINO e DETTI

UMBERTINO           (dal di fuori). Nonno, nonno.

GIOVANNI.  E sento continuamente, nella mia delicata coscienza, echeggiare la voce del bambino: Nonno, nonno, aiuto.

GUIDO.         Ma questa non è la voce della vostra coscienza, zio. Questa è proprio la voce del fanciullo.

UMBERTINO           (entra correndo). Ma nonno, perché m'hai lasciato solo?

GIOVANNI   (balbettando). Io?... Ti lasciai solo? (Si passa la mano sulla fronte.) Dove sei stato finora?

GUIDO          (chinandosi sul fanciullo e baciandolo). Sulla terra. Dio sia ringraziato. (Urlando.) Zia, zia.

GIOVANNI.  Non urlare. Mi fai male alle orecchie. Non vedi in che stato mi trovo? Vieni qui, Umbertino. Non capisco piú niente. Hai dunque finito di andar sotto all'automobile? Dammi un bacio. Ma dimmi. Come avvenne? E perché fuggisti?

UMBERTINO.          Non io fuggii, ma l'automobile. La inseguii perché credevo tu ci fossi sotto. Corsi tanto, sempre urlando, che l'automobile si fermò. Guardai di sotto. Tu non c'eri. Lo chauffeur trasse tanto di lingua.

GIOVANNI.  Villano! Ma io voglio che quell'uomo finisca in carcere. Non è permesso. È offensivo! Correre per la città con la lingua fuori e schiacciare la gente.

UMBERTINO.          Ma io gli feci vedere la mia. Proprio cosí. (Fa vedere la lingua.)

GUIDO.         Ma andiamo ad avvisare la zia che qui accanto agonizza.

GIOVANNI.  Ma aspetta un momento. (Attira a sé il fanciullo.) Dimmi la verità: Hai preso paura? Eppoi: Non è vero che anche tu credevi ch'io sia morto? Perciò guardasti sotto all'automobile.

UMBERTINO.          No, no, nonno. Solo per un istante credetti che tu fossi morto. Poi pensai che per te una sola automobile non bastava. E ritornai a casa tranquillo. Ho fame. Perché non siete ancora a colazione?

GIOVANNI.  Ma tu scherzi. Te ne prego, parla seriamente. Non dubitare per la colazione. A te, oggi, ne daranno due, dieci. Ma tu fosti sotto all'automobile? Voglio dire ci fosti e sapesti evitare le ruote?

UMBERTINO           (ridendo). Ma perché dovrei andare sotto all'automobile? Io sono saltato dall'altra parte e se tu fossi rimasto al tuo posto avremmo potuto continuare la nostra passeggiata.

GIOVANNI.  Continuare la passeggiata? In quelle circostanze. (A Guido.) Insomma, si capisce. Io credevo morto lui e lui credeva morto me.

GUIDO.         Tutto questo non ha importanza. Andiamo dalla zia. Non spaventarla. È di là nella sua stanza da letto. (Umberto s'avvia.) Aspetta! Come facciamo noi per non darle un colpo troppo forte? Senti Umbertino. Sai zoppicare? Falle credere che hai lesa una gamba. Cosí pian pianino s'abituerà a ritrovarti sano.

UMBERTINO. Anche la nonna mi credeva morto? Vuoi che m'involga in un lenzuolo e le apparisca come uno spirito?

GUIDO.         Andiamo, andiamo. Non è il momento di scherzare, bambino mio. (Lo prende per mano ed esce con lui a destra.)

SCENA QUINDICESIMA

GIOVANNI eppoi FORTUNATO

GIOVANNI   (s'accinge a seguirli ma si pente e ritorna alla sua poltrona). No...

FORTUNATO.          Padrone! Ho ancora da aspettare? Ho da fare in giardino. Adesso che Umbertino è ritornato a casa non c'è piú bisogno di me? Già, io sapevo che non gli era avvenuto niente.

GIOVANNI.  Come potevi saperlo, imbecille che non sei altro. Io che sono stato presente non lo sapevo e tu vuoi saperlo?

FORTUNATO.          Non subito, non subito intesi, padrone. Ma quando vidi che trascorsa una mezz'ora, nessuno accorreva, nessuno telefonava, capii che nulla poteva essere successo. Se Umbertino fosse morto, dopo poco mezza città si sarebbe riversata sulla nostra villa.

GIOVANNI   (convinto). È vero. A questo non avevo pensato. (Con un sospiro.) Io andrò di là da Anna e a baciare ancora il fanciullo.

FORTUNATO.          E posso attendere al mio lavoro in giardino?

GIOVANNI   (sorpreso). Ah, sí. L'automobile non occorre piú. (Esce.)

SCENA SEDICESIMA

RITA e FORTUNATO

RITA  (entra saltando e ballando). Dopo un fatto simile non ci dovrebbe essere altro. Si dovrebbe per restare tanto contenti non fare piú nulla. Non lavorare, non litigare soprattutto.

FORTUNATO           (immusonato). Intanto io devo andare a lavorare.

RITA. Vai pure. E litigare anche ti piace.

FORTUNATO.          Litigo quando debbo. Tu dici sempre le stesse cose lunghe e finisci con l'aver ragione. O fingi di credere d'aver ragione. Io non so ripetere le stesse cose. E per essere breve finisco col non aver ragione.

RITA. Ma non capisci che Umbertino è ritornato a casa incolume, con la sua testina riccia intera.

FORTUNATO.          Io ne ho piacere. L'ho visto. Solo che io non ho mai creduto che Umbertino si sia lasciato schiacciare da una automobile. Il vecchio s'arrabbiò perché glielo dissi. Altra cosa sarebbe se mi si avesse detto che lui fosse andato sotto alla macchina. Oh, allora senza perder tempo avrei messo subito a lutto la nostra vettura.

RITA. Certo. Adesso lo vedo anch'io che Umbertino non poteva finire cosí. Ma tu lo dicesti prima al vecchio signore?

FORTUNATO.          Prima di che?

RITA. Prima del ritorno di Umbertino.

FORTUNATO.          Non ci pensai. Glielo dissi dopo.

RITA. Peccato. Cosí non crederanno affatto che tu l'abbia previsto. Mi dispiace perché qui tutti ti credono una grande bestia.

FORTUNATO.          Io non cambio la mia testa con la loro. Quelle medicine che il vecchio signore prende in luogo del vino! Le bestie della signora! E la giovine signora con tutti quei veli!

RITA. Ma dicono che tu tosasti tutti gli alberi del giardino alla Fieschi.

FORTUNATO.          Mi presero quale chauffeur perché mio padre era stato contadino. Ma lui conosceva altri alberi che i gelsi. Volevano che facessi anche il servizio in casa. Io tosai cioè ribaltai la tavola. Che trovino un altro che in due anni non ebbe alcun incidente con la macchina. Qualche panna!

RITA. Innumerevoli panne!

FORTUNATO.          Io non sono un grande meccanico. Ma anche là va meglio. So quando devo soffiare o avvitare o svitare. L'ho detto al signor Guido: Il motore è una cosa un poco piú delicata del corpo umano. A lui basta di prescrivere un po' di camomilla. «Sta meglio?» domanda poi. Anch'io do dell'olio alla macchina. Poi ritorno al volante. «Come va?» domando. Non va. Del resto non mi mandano via. Non ammazzai mai nessuno. E a quest'ora loro sanno che pericolo ci sia con la macchina. Pagano qualche multa per il passaggio a livello che c'è qui accanto e possono essere contenti. Ma non si tratta di questo, ora.

RITA. Si tratta anzi solo di questo. Di nient'altro, te ne prego. Anzi neppure di questo. Vuoi che ti perdoni? Io ora vorrei essere in pace con tutti, anche con te. Amo tutti, io, perché Umbertino s'è salvato.

FORTUNATO.          Tutti? Anche il signor Guido, nevvero?

RITA. Sarebbe una bella villania di escluderlo. Che ti fece?

FORTUNATO.          Io spero nulla ancora. Io so solo quello che vorrebbe farmi.

SCENA DICIASSETTESIMA

GUIDO e DETTI

GUIDO.         Anche questa è passata. (A Rita.) La zia Le fa dire ch'io resto a colazione. Prepari un posto di piú. (Rita esce dopo fatto un inchino.)

FORTUNATO.          Per me non ci sono ordini? (Corretto.)

GUIDO.         Che io mi sappia, no. Se vuole averne ne domandi là dentro.

FORTUNATO           (imbarazzato sta per avviarsi verso l'uscita di sinistra, poi si pente). Già, se avranno bisogno di me mi chiameranno. Io ho da fare in giardino. (Esce.)

RITA  (rientra con una tovaglia che stende sulla tavola).

GUIDO.         È contenta anche Lei, Rita?

RITA  (stendendo la tovaglia). Sono tanto contenta che mi duole di non poter attendere alla mia gioia e dover stendere questa tovaglia.

GUIDO.         Vuole che l'aiuti? In due il lavoro parrà a Lei meno grave e a me lietissimo.

RITA. In due e con lei la distrazione è ancora piú forte. (Esitante.) Ecco che sono lontana dalla mia gioia. È come se Umbertino non fosse stato mai morto né ora fosse risuscitato. (Guido tuttavia l'aiuta a stendere la tovaglia.) Grazie. (Vuole uscire.)

GUIDO.         Aspetti un momento, Rita. È tanto raro che si possa scambiare una parola con Lei.

RITA  (ridendo). E andrà sempre di peggio in peggio. Quando sarò sposata non potrò né parlare con Lei né ascoltarla.

GUIDO.         Che peccato! Proprio... dopo sposata?

RITA  (ridendo). Come è sincero!

GUIDO.         Se non ho detto niente, io. È geloso, Fortunato.

RITA. Altro che. Ma a me piace quand'è geloso. Diventa piú mobile, piú vivo. Proprio il marito che può fare per me. Guardi! Guardi!

SCENA DICIOTTESIMA

FORTUNATO e DETTI, poi GIOVANNI

FORTUNATO           (prima si sente dalla finestra un battere di forbici grosse da giardino, poi egli si presenta alla finestra accecato dal sole). Rita! Sei qui? Io ho da tagliare dei rami qui alla finestra. Maledetto sole! Non si vede nulla.

GIOVANNI   (entra pensieroso, assorto). Dio sa come è andata. Quel fanciullo non ricorda proprio nulla. (Fortunato scompare.) Ad ogni modo quello ch'è sicuro e ch'è una gran bella cosa è che il fanciullo è perfettamente incolume. Perfettamente! L'ho esaminato. (Siede nella sua poltrona.)

Durante tutta la seguente scena Rita entrerà e uscirà per preparare la tavola.

GIOVANNI   (dopo una pausa). E quello ch'è anche certo è che lui vide me sotto all'automobile. Non è dunque meraviglia ch'io abbia potuto vedere lui...

GUIDO.         Eh, già, zio, non si dia pensiero. Nella gioia di ritrovare incolume Umbertino, nessuno andrà a studiare come ciò sia potuto avvenire.

GIOVANNI.  Lo credi? (Poi.) Intanto i Goriziani non sapranno nulla di cotesta avventura. Grazie al cielo! Cosí fino a Natale non li vedo. In quanto agli altri... (Poi s'agita.) Dio mio! Se non ci fosse stato quell'imbecille che ha voluto correre via per avvisare Emma, essa non avrebbe saputo niente.

GUIDO.         Arrivata a casa l'avrebbe saputo tuttavia.

GIOVANNI.  Questo è vero! Con tutti questi chiacchieroni. (Poi.) Ma tuttavia quel signor... come si chiama?

GUIDO.         Chi, zio?

GIOVANNI.  Quello lí ch'è sempre attaccato alla nostra porta. Che il diavolo se lo porti.

GUIDO.         Ah! Biggioni.

GIOVANNI.  Sí! Biggioni. Non si potrebbe buttarlo fuori di casa nostra giacché viene a complicare ogni piú breve avvenimento?

GUIDO.         Zio mio! Il signor Biggioni, lo sanno tutti, vuole sposare Emma.

GIOVANNI.  Bell'affare! Lo avrò dunque sempre fra' piedi. Sarebbe stato meglio che Valentino non fosse morto.

GUIDO.         Questo è certo, ma giacché è morto è meglio che ci sia qualcuno pronto ad occupare il suo posto.

GIOVANNI.  Ed Emma lo vuole? Perché ci secca allora con tutto quel suo lutto? Anna non ne può piú.

GUIDO.         Emma non lo vuole. Anche questo lo sanno tutti.

GIOVANNI   (seccato e gridando). Io sapevo di uno ch'essa non vuole. Ma non sapevo che si trattasse proprio di costui. Non si può mica stare attenti a quello che fanno tutti in una casa grande come questa.

GUIDO.         Lo so, lo so zio.

GIOVANNI.  In quanto all'automobile...

GUIDO.         Quale automobile, zio?

GIOVANNI.  Quella che schiacciò Umbertino. Mi crederanno imbecillito ma pure io feci quanto seppi per veder giusto. Unica differenza fra me e il fanciullo fu che io non guardai sotto all'automobile. Mi faceva orrore il pensiero di vedere il corpo del fanciullo sfracellato. Naturalmente lo sciocco bambino guardò là sotto senza paura. Egli si figurava che se io ci fossi stato sotto, la macchina si sarebbe rovesciata. È naturale che accompagnato da un'idea tanto strana egli potesse guardare senza ribrezzo. Ma poi io mi guardai d'intorno, posso dirlo con tranquilla coscienza, accuratamente. Il fanciullo non c'era, questo è sicuro. È vero che non guardai dietro all'automobile assassina che correva via. Ero stato offeso da quel gesto dello chauffeur. Non potevo vendicarmi neppure con una parola e non amavo di vedere chi m'aveva offeso. (Poi.) E non mi restava altro da fare che di correre a casa per essere soccorso. E corsi pieno di speranza. Invece proprio a casa trovai quella confusione che hai visto. (Scaldandosi.) Incominciò quel... quello lí che vuole sposare Emma a portarmi su per le scale come se io non avessi saputo muovermi da solo. A momenti mi ribaltava. Imbecille! Fu una grande confusione ed io parlai confuso.

GUIDO.         Scusate, zio, se io parlo da medico. La confusione non è una cosa grave. Ma pure la confusione è un segno d'invecchiamento. Io scommetto che dieci o venti anni or sono la vostra confusione non sarebbe stata tanto grande.

GIOVANNI.  Capisco dove tendi, furbacchione. Tu vuoi tagliarmi. Ma io non sono nato ieri. Io sono nato 76 anni or sono.

GUIDO.         Perciò io insisto. Non parlo con un bambino. L'uomo di 76 anni è l'uomo sperimentato per eccellenza. Perciò non può rifiutare di ringiovanire.

GIOVANNI.  Ma rifiuta di farsi tagliare. (Brivido.)

GUIDO.         Un taglio che non è piú pericoloso del taglio delle unghie. Scusate zio! Lasciatemi ancora parlare come un medico. Io e voi dobbiamo essere oggettivi, dobbiamo studiare le cose. Oltre che in casa la confusione fu anche nella vostra testa di solito tanto chiara, perspicua. Come poteste vedere che proprio la testa del bambino andò schiacciata da quelle ruote immani?

GIOVANNI.  Adesso che nessuno mi grida nelle orecchie posso dirti ch'io ora vedo tutto chiaramente anche senza l'operazione. Sono, cioè, quasi sicuro di non aver visto niente.

GUIDO.         E allora?

GIOVANNI   (calorosamente). Che cosa vuoi allora? (Poi.) Certamente il fanciullo fu urtato dall'automobile. È vivo e pian pianino lo ricorderà. Vedrai! Coi bambini ci vuole pazienza. Non sanno subito dir tutto. Umbertino, poi. Mi dispiace di dirlo. È presuntuoso. Vorrebbe provare di essere un grand'uomo che cammina sicuro per le vie e non ha paura delle automobili. A proposito di operazioni! Può essere che i vecchi non vedano bene, ma è sicuro che i giovani non sanno dire quello che hanno veduto. Vogliono sempre far credere di sapere piú dei vecchi. Già Umbertino è fatto cosí!

GUIDO.         Ciò non vi avverrebbe neppure dopo l'operazione. Non arrivereste mica all'adolescenza.

GIOVANNI.  E se anche arrivassi all'adolescenza, io quel difetto non potrei avere. Mai! Sono modesto io (Poi.) Bisogna sapere che la confusione cominciò già quando uscii. Quella Emma mi accoppò a forza di raccomandazioni. E quella scioccherella di Rita mettendo al bambino il berretto e baciandogli la testa disse proprio le seguenti parole, le ricordo come se le sentissi ora: Questa testina rotonda e ricciuta sotto ad una ruota. È naturale che quest'immagine non mi lasciò piú. E ricordo persino che quando il fanciullo parlò dei carabinieri io gli accarezzai la testina e pensai: Checché ne dica Rita, è intera tuttavia. (Poi.) Vedi dunque che tutto è spiegato e che per me non è ancora giunto il momento di pensare ad operazioni.

SCENA DICIANNOVESIMA

EMMA e DETTI

EMMA           (accorre sconvolta dalla porta di fondo). Padre mio! Questo debbo dirti: Quando si esce con un bambino, si ritorna con lui o non si ritorna affatto.

GUIDO.         Ma Emma! Il bimbo è sano e salvo di là con la nonna.

EMMA           (urla). Dove? Dove?

GUIDO.         Nella stanza da letto della zia.

EMMA.          Umberto! Umberto! (Esce correndo.)

SCENA VENTESIMA

GIOVANNI e GUIDO

GIOVANNI   (dopo una pausa). Hai sentito? Si dovrebbe credere ch'essa sarebbe stata meno disperata se avendo da perdere il bambino avesse perduto anche il padre. Era disperata piuttosto perché ritrovava il padre vivo che perché aveva perduto il bambino.

GUIDO.         Bisogna scusarla caro zio. Pensate ch'essa credeva di aver perduto il suo unico figliuolo.

GIOVANNI.  E di aver conservato il suo unico padre. (Poi.) Non c'è nessuno che intenda e scusi le cose come me. Ma è dura di esser vissuti sí a lungo per sentirsi augurare la morte dalla propria figliuola. È dura! Dopo che spesi tutta la mia vita per la mia famiglia! Se è da poco che cessai di lavorare per loro.

GUIDO.         Dieci anni, zio.

GIOVANNI.  Insomma lavorai finché mi resse il fiato.

GUIDO.         Ma tutti vi amano, zio.

GIOVANNI.  Sí. Ma domanda a costei quello ch'essa darebbe per riavere il marito vivo.

GUIDO.         Certo darebbe molto.

GIOVANNI.  Neppure tanto ma molto volentieri: Il padre e la madre. Non il figliuolo. Le rendo questa giustizia. Ci tiene solo ai giovani.

GUIDO.         Intanto, caro zio, se calcolano di seppellirvi presto si sbagliano.

GIOVANNI.  Che peccato che tu non abbia ancora finito gli studi e perciò mi sia piú difficile di crederti.

GUIDO.         Oh, zio. Non occorre mica saper tanto per trarre le conclusioni da quest'analisi. Guardi qui. (Trae l'analisi dalla tasca.) Tutto normale. Non s'è mai visto un vecchio della vostra età che dia un'analisi simile.

GIOVANNI   (inforca gli occhiali). Normale... normale e anche una volta, normale. E tu dici che ad onta ch'io nell'ultimo tempo mi senta meno bene, soffra di disturbi della digestione, dorma meno bene, tutto in me sia in buone condizioni?

GUIDO.         Normale, normale, normale. Quando s'è vecchi un certo invecchiamento deve esserci e si manifesta con quei sintomi che voi accusate. Ma intanto in quest'analisi avete la prova che la giovinezza è là, a vostra disposizione.

GIOVANNI.  Con l'operazione?

GUIDO.         Con l'operazione che altrimenti non sarebbe possibile e che solo in questo momento, cioè finché siete tutto tutto sano, io posso ancora consigliare.

GIOVANNI.  Ti prego di non dire nulla né ad Anna né ad Emma di quest'analisi. Mi pare di aver capito che quando mi credono malato mi trattino meglio.

GUIDO.         Non dirò a nessuno dell'analisi, zio. La pagai già. Perciò non se ne parlerà altro.

GIOVANNI.  Quanto costò?

GUIDO.         Cinquanta lire.

GIOVANNI   (leva dal portafogli cinque carte da 10 lire). Guarda che non sieno sei.

GUIDO.         Guardi. Sono esattamente cinque. (Poi.) Io non parlo che per l'affetto che Le porto. Nel Suo caso l'operazione è proprio indicata.

GIOVANNI.  Certo sarebbe una bella cosa di diventare giovine. Perché è vero che in questa epoca non è permesso di essere vecchi.

GUIDO.         In tutte le epoche è stata una cosa alquanto seccante.

GIOVANNI.  Niente affatto. Nella mia giovinezza solo i vecchi erano onorati. Oh, lo ricordo. A me davano del puledro. Quando usavo una parola seria dicevano: Anche alla pulce prude. E quando divenni vecchio ecco che non si rispettano piú che i giovini. Perciò io veramente non fui rispettato mai.

GUIDO.         Perché, zio mio, questa è l'epoca dei giovini e tutti quelli che ne hanno la possibilità devono essere giovini.

GIOVANNI.  Intendo quello che vuoi dire: L'operazione!

GUIDO.         Certo! Non piú debolezze, non piú inappetenze, non piú teste di bambini sotto alle ruote.

GIOVANNI.  In quanto alle teste di bambini sotto alle ruote, ne vidi una sola in vita mia e spero di non vederne altre. Se fosse solo per questo io certo non mi sobbarcherei al rischio e alle spese di un'operazione. La spesa è fortissima. Guarda! (Leva di tasca un libriccino e vi cerca una pagina.) Tu dici che l'operazione conserva il suo effetto per dieci anni. Ebbene, se cosí fosse, se cioè durasse per interi dieci anni a 365 giorni da 24 ore, la giovinezza mi costerebbe 82 centesimi e sette decimi all'ora. Se vuoi rivedere il conto?

GUIDO.         Zio! Non ho alcun dubbio dell'esattezza dei suoi conti.

GIOVANNI.  Ebbene! A me sembra che questa giovinezza sia un po' cara. E la spesa si fa piú grave quando pensi che quando dormo che cosa me ne faccio io della giovinezza? Potrei farne senza.

GUIDO.         Dormirà di piú, zio.

GIOVANNI.  Tanto peggio. Aumenterà la spesa ingente per le ore di veglia. Eppoi, eppoi... Io ho piena fiducia in te ma tu non hai ancora compiuto gli studii. E se invece che dieci anni la giovinezza durasse solo cinque? Ecco che perdo 50 per cento del capitale. Non soltanto questo. Ma di qui a cinque anni dovrò rifare l'operazione e spendere altrettanto. (Poi.) E dò un esempio in famiglia! Se nel frattempo voi trovate il mezzo di ringiovanire anche la donna ecco che Anna vorrà, visto che mi son fatto operare io, farsi operare anche lei. Sarebbe la rovina.

GUIDO.         Non abbia timore di questo, zio. La tecnica dell'operazione, esclude che si possa applicare alle donne. Del resto si capisce che poiché gli studii vengono fatti dagli uomini, alle donne non si pensi. Di donne giovini ce ne sono anche troppe.

GIOVANNI   (esitante). Dovresti ancora trattare col Giannottini. Le sue pretese sono eccessive. Tanto piú se l'operazione non è piú come dici tu che un taglio delle unghie.

GUIDO.         Io nel caso Suo alla spesa proprio non ci baderei. A chi e perché vuole lasciare tanti denari?

GIOVANNI.  Lasciare i denari? Voglio godermeli io. Come parli tu. Perché mi faccio operare? Aspetta, aspetta un poco. Il dottor Raulli disse che non è escluso che l'operazione abbrevi la vita. Hai studiato questo lato della questione nei testi tu?

GUIDO.         Bisogna essere proprio... un dotto com'è il dottor Raulli per credere una cosa simile. Dico per credere che un'operazione che ridona la giovinezza possa abbreviare la vita. Proprio mi fa ira! Non sa trovare dei buoni argomenti e adotta il primo che gli si presenta, il piú strampalato di tutti. Se dopo pochi giorni dall'operazione si può constatare che la pressione del sangue diminuisce! Cosí intanto si ha l'assoluta garanzia di essere salvi dalla brutta sorpresa del colpo, il colpo a secco.

GIOVANNI.  È una bella cosa quella di essere al sicuro da una malattia. Ma, purtroppo, ce ne sono molte di malattie a questo mondo. Ed è proprio quella la malattia che a me mai fece paura. Guarda il mio collo. Non è certo tozzo. Ha la forma classica dell'uomo normale, normale come l'analisi.

GUIDO.         Però l'esagerata pressione del sangue provoca molte altre malattie. Congestioni ai reni, ai polmoni e al fegato.

GIOVANNI.  Il dottor Raulli non è di questo parere. Egli dice che la pressione del mio sangue è conforme alla mia età. È anch'essa normale se si tiene conto dei miei anni.

GUIDO.         Furbo quel Raulli! Se dicesse a me che ho vent'anni che ho la pressione conforme alla mia età, io m'accontenterei. Ma se fossi giunto ai 74 anni e mi si dicesse che ho la pressione che mi spetta e non meglio, io mi dispererei. Mi dispererei della pressione e degli anni.

GIOVANNI.  Come dici? Non ho inteso bene.

GUIDO.         Glielo ripeterò zio, non appena Ella avrà subita l'operazione.

GIOVANNI.  Non capisco perché mi dici cosí. (Poi.) Insomma credo d'intendere che tu escludi che l'operazione possa abbreviare la vita.

GUIDO.         Certamente zio. E quello poi di cui sono sicuro che se anche gli anni non fossero moltiplicati dall'operazione per essa si farebbero piú intensi, piú degni di essere vissuti.

GIOVANNI.  Ma a me importa prima di tutto di vivere, di vivere lungamente. Per Anna ed anche per quella sconoscente di Emma. Poi per quel bambino che io educo e conduco ogni giorno a passeggio. Non per me perché dacché lasciai il lavoro io non mi diverto molto.

GUIDO.         Essendo ringiovanito, Ella zio, potrebbe riprendere anche il Suo lavoro.

GIOVANNI   (con vivacità). No, no! Quello è messo in modo che non c'è la possibilità di riprenderlo.

GUIDO.         E allora lasciamo stare il lavoro. Anch'io vorrei aver messo il mio lavoro in quel dato modo. Ma se Lei vuole l'operazione non badi a quello che Le dice il dottor Raulli. Incominciamo dunque con la prima operazione: Tagliare ogni comunicazione col dottor Raulli.

GIOVANNI.  Meno male che questa qui è un'operazione che costa poco. Ma devi parlare con quel dottore... quel mago... come si chiama?

GUIDO.         Giannottini.

GIOVANNI.  Giannottini perché si metta una mano sulla coscienza...

GUIDO          (fermo). Non si può, zio. Non si può aspettarsi un ribasso. Il Giannottini ha delle grandi spese. Anche la réclame gli costa molto.

GIOVANNI.  Non capisco perché io debba pagare la réclame al dottor Giannottini. Che c'entro io? Con me la réclame non c'entra. Io, fui... reclamato da te. Ti paga a te il dottor Giannottini?

GUIDO.         Giuro zio che a me non dà nulla.

GIOVANNI   (pacifico). Lo sapevo. Te lo credo. Tu cui io regalo tutto per amore al mio defunto fratello non puoi voler guadagnare... sul mio... sangue. Proprio si può dire cosí. E allora le dedurrà lui queste spese di réclame che non mi riguardano.

GUIDO          (pensieroso). Tenterò, ma ho paura...

GIOVANNI.  E allora io non faccio adesso l'operazione. Dacché ho abbandonato gli affari ho giurato di non fare mai piú dei cattivi affari. Ho tutto il giorno di tempo io e posso dunque pensarci. Tu mi spiegasti che con l'operazione si ringiovanisce esattamente del 20 per cento. Se io faccio l'operazione oggi a 74 anni giorni piú giorni meno guadagno quattordici anni e mezzo precisi. Guarda, guarda. (Scartabella nel libriccino.) Ecco qui! Ho fatto una nota esatta. Di ogni anno che so ritardare l'operazione io guadagno 73 giorni finché a 100 anni arriverei ad avere il massimo rendimento con una diminuzione addirittura di 20 anni completi. Guarda la tabella. Arrivo fino ai 120 anni. Mi seccai e interruppi il lavoro.

GUIDO          (ridendo discretamente). Bella la tabella. Mi piace.

GIOVANNI.  Puoi rivederla. È esatta. Tenni il debito conto degli anni bisestili. Ed io aspetto. In complesso sto abbastanza bene. Le gambe mi servono abbastanza bene. Dovevi vedermi correre a casa in cerca di soccorso questa mattina. Arrivai in un lampo. Non volevo crederci che questa fosse già casa mia. Lo stomaco è in ottime condizioni.

GUIDO.         Da qualche tempo Lei però non cena.

GIOVANNI.  Ma è per dormire meglio.

GUIDO.         E quegli eterni purganti...

GIOVANNI.  I purganti sono una buonissima cosa. In quanto alla testa, hai visto or ora quella tabella. Chi saprebbe farla meglio, piú chiara, piú evidente? Qui gli anni che avrei, poi gli anni con le decimali da dedursi eppoi il netto. Io resto come sono.

GUIDO.         E allora, zio, io ho fatto il mio dovere di medico e non c'è bisogno di dire altro.

GIOVANNI.  Ma parliamone ancora. Questo non costa nulla. A quest'ora, io so tutto dell'operazione. Ne ho parlato con parecchi. Prima di fare l'operazione c'è un'altra cosa da vedere. Ah! moscardino! Tu me la volevi fare!

GUIDO.         Che cosa, zio?

GIOVANNI.  L'operazione. E non mi avevi detto che ad operazione fatta io potrei disonorare i miei capelli bianchi correndo al pozzo.

GUIDO.         Al pozzo?

GIOVANNI.  Sí, al pozzo in cerca delle serve.

GUIDO          (intendendo). Ah! Vuole dire questo? (Ride.) Ma non si parla piú del pozzo perché le serve non ci vanno piú.

GIOVANNI.  E che m'importa? Tu vorresti disonorarmi. Questo tu vuoi. Mentre io non lo voglio. Certo a me piacerebbe di vivere lungamente e bene, ma non mica a costo della mia rispettabilità.

GUIDO.         Ma Lei parla di rispettabilità e intende vecchiaia. Lei, zio, è tanto vecchio che ama la vecchiaia. Non potrebbe essere altrimenti. È forse rispettabile questo atteggiamento dei vecchi - se atteggiamento può dirsi - verso le donne? Io, giovine, non lo penso. Ciò avviene perché sono giovine. Io non amo la vecchiaia e quando Lei sarà giovine non l'amerà neppure Lei: La vecchiaia inerte, debole, sucida.

GIOVANNI   (ribellandosi). Come parli ragazzaccio? Inerte? Perché inerte? Perché la virtú è piú tranquilla del vizio. Non per altro. L'assassino è sempre meno inerte dell'assassinato. Si capisce.

GUIDO.         Uno di essi è addirittura morto.

GIOVANNI.  Ma parlo di lui quando non è ancora morto.

GUIDO.         Capisco, zio. Volevo scherzare.

GIOVANNI.  E quali altre insolenze lanciasti alla vecchiaia? Ah! sí! La dicesti sucida. Io mi lavo piú di qualunque giovine. Le mani me le lavo quattro volte al giorno. Dove si andrebbe altrimenti coi microbi? Io credo anzi che la mia grande salute io la debbo alla mia accuratezza. Ogni volta mi lavo le mani in tre acque.

GUIDO.         Io non volevo parlare di voi zio. Parlavo degli animali che non sono guidati che dal loro istinto. Si sa che il topo vecchio non si lava e poco dopo operato si mette a lavarsi affannosamente.

GIOVANNI.  Si vede che la vecchiaia dei topi è tutt'altra cosa. Vedrai anche tu che, invecchiando, tutte le tue buone qualità andranno aumentando mentre le tue cattive s'attenueranno fino a sparire. Chi mi dice che l'operazione del dottor Giannottini non m'apporti delle qualità che disonorino i miei capelli bianchi? Sarebbe un bel disonore se mi mettessi a correre dietro alle donne come un mandrillo.

GUIDO.         Ma voi avete vostra moglie.

GIOVANNI.  Anna vuoi dire? (Pensieroso, poi.) E non sarebbe ancora meglio di dire al dottor Giannottini ch'io vorrei restar morale? Morale come un vecchio sebbene giovine come un giovine?

GUIDO.         Glielo dirò.

GIOVANNI.  Naturalmente che non intendo che con ciò sia diminuita l'efficacia dell'operazione quando mi vi ci deciderò. Devi dunque discutere col dottor Giannottini di due questioni: Egli deve garantirmi che pur facendomi fruire di tutti i vantaggi dell'operazione non ci sia pericolo per la mia moralità, voglio dire la mia rispettabilità. Eppoi... Mi pare si discuteva anche di un'altra cosa altrettanto importante. Ah sí! Io non voglio pagare tanto. Vorrei ch'egli facesse il prezzo in modo che la giovinezza non dovesse costarmi piú di 80 cent. all'ora, voglio dire ora di veglia.

GUIDO          (a bassa voce perché Rita ch'è piú vicina non lo senta). Ottanta centesimi all'ora non significano nulla. Bisognerebbe stabilire un prezzo globale.

GIOVANNI   (che non ha inteso). Che vai dicendo? Io ho detto ottanta centesimi e non un centesimo di piú.

GUIDO          (nell'intento di sviare l'attenzione di Rita le parla). Come è la signora Emma?

RITA. Poverina! Ha ancora il cappello in testa perché finora resta sempre abbracciata al suo fanciullo. (Esce per andare a prendere delle altre stoviglie per la tavola.)

GIOVANNI.  Lascia stare Emma. Che mi andavi dicendo? Che a te l'operazione sembrava a buon mercato? Stimo io. Non sei tu a pagarla.

GUIDO.         Io non dicevo questo, zio. Io mi dicevo soltanto che se mi trovassi nei vostri panni, per giudicare del costo dell'operazione aspetterei di averla subita e di essere ringiovanito.

GIOVANNI.  Questa è veramente buona! Prima fare l'affare e poi vedere se è stato buono o cattivo. Ehi! T'hanno fatto a te l'operazione per ridurti ai dodici anni? Parli come un bambino. Che cosa resta a me da fare poi se ad operazione finita scopro di non averne avuto alcun vantaggio? Come restituire la merce protestata?

GUIDO.         Certo restituirla non si può. (Ridendo.)

GIOVANNI.  Tu ridi, canaglia. A te non tocca né di pagare né di essere tagliato né di vederti demoralizzato.

GUIDO.         Mi pare che la demoralizzazione la subirei volentieri. È una cosa lieta quella lí. Ma poi, zio, perché volete credere che la giovinezza vi farebbe immorale? Siete stato immorale voi da giovine?

GIOVANNI.  No, certo.

GUIDO.         Ridiverrete quello che foste allora, né piú né meno.

GIOVANNI.  Questo è vero. Se l'operazione non muta il carattere dell'individuo allora... allora io replicherei una vita pura, senza macchia. Una bella cosa in fondo come esempio. Un esempio dovrei ridare e che mi costa... ma se fosse cosí sarebbe una cosa bellissima. Io amai una sola donna e la sposai.

GUIDO.         Zio! Tu dimentichi Margherita di cui mi raccontasti settimane or sono, quella domenica che uscimmo insieme soli.

GIOVANNI   (ricordando). Ah, Margherita. Ma anche quella io amai di un amore puro. (Incerto.) Non ti dissi cosí?

GUIDO.         Certo, mi dicesti cosí ed io anche ci credetti.

GIOVANNI.  Capisco che per te, barabba, la cosa sembrerebbe incredibile. Sei di altri tempi tu. Io trattai Margherita come una santa. Non Le toccai neppure... le vesti. Guardai, amai e le indirizzai qualche poesia. Non ti dissi cosí?

GUIDO.         Mi raccontasti che cantavate insieme.

GIOVANNI   (incerto). Sí, ma era la sola cosa che si facesse insieme. (Poi.) Non ho potuto sposare la poverina. Tutti nella mia famiglia ce l'avevano con lei perché si moveva civettuolmente. Che roba! La civetteria non era lassú, ma nelle sue gambe e nel suo busto fatti cosí! Del resto se l'avessi sposata non avrei potuto sposare Anna. Ma in tutti i casi tutto sarebbe rimasto puro. Che avessi sposato l'una o l'altra, voglio dire, non sarei stato esposto ad alcun rimprovero. Io sono puro.

SCENA VENTUNESIMA

EMMA e DETTI. RITA continua il suo lavoro che la obbliga ad entrare e uscire.

EMMA.          Padre mio! Io ti prego di perdonare se poco fa ti parlai duramente.

GIOVANNI   (rigido). Io ti posso perdonare. Io ti perdono. Io voglio perdonarti. M'augurasti però la morte.

EMMA           (subito piangendo). No, no, padre mio.

GIOVANNI.  Io ho la memoria buona. Mi dicesti: Quando... Insomma m'augurasti la morte. Era duro sentirsi augurare la morte dalla propria figliuola. Duro e anche pericoloso. Perché non dovrebbe subito essere esaudito l'augurio di morte fatto dalla figlia al suo proprio padre? Fu un colpo dal quale ancora non mi sono rimesso. E non perché io tema la morte. Per me la morte non sarebbe altro che il riposo desiderato dopo una lunga vita dedicata al lavoro a vantaggio di voi tutti: Anna, te e il fanciullo.

EMMA           (c.s.). Perdonami, padre mio. Io in quel momento non sapevo quello che mi dicessi. M'era stato detto che il figliuolo mio era stato ammazzato.

GIOVANNI   (convinto). Ed egli invece stava benissimo e lo vedesti subito dopo.

EMMA.          Ma io non potevo saperlo allora.

GIOVANNI   (per un momento non sa che dire, poi). Ma se tu avessi ricordato che da due anni esco giornalmente col fanciullo e che mai è successo nulla, non ti saresti messa ad urlare cosí. Prima di offendere a quel modo avresti dovuto pensare e studiare. (Poi.) Io, insomma, col fanciullo non esco piú.

EMMA           (dolcemente). Sí, padre mio. Sarà meglio cosí. Non uscirete affatto o io uscirò con voi.

GIOVANNI   (colpito, resta senza parole). Non ti fidi dunque piú di me?

EMMA           (piangendo). Che ho da dirti, padre mio? Io a questo mondo non ho che quel fanciullo.

GIOVANNI.  Meno male che nel pianto ti confessi. Padre e madre dunque per te non contano.

EMMA           (abbandonandosi su una poltrona). Come sono infelice! La vita è finita quando si perdette il proprio marito.

GIOVANNI.  Anch'io perdetti molto quando morí il povero Valentino. Mi circondava del suo affetto e del suo rispetto. Già, come sempre, i morti sono i migliori. Il povero defunto era lieto ch'io ogni giorno uscissi col fanciullo non come te che ora vuoi proibirmi il maggior svago che ho nella mia giornata interminabile. (Accalorandosi sempre piú e gridando.) E in allora il fanciullo era molto piú giovine che non ora. Allora non avrebbe saputo correre dietro alle automobili a guardare quello che c'è di sotto. Perciò quello che avrebbe potuto succedere ora e che non successe avrebbe potuto succedere... non succedere allora. (Esitante e malsicuro perché eccitato.)

SCENA VENTIDUESIMA

Dalla sinistra ANNA, dal fondo ENRICO e DETTI

ENRICO.       Quale bella nuova! Ed io ch'ero arrivato qui col cuore pesante. È vero che all'ospedale non sapevano nulla di un fanciullo schiacciato da un'automobile ciò che non provava ancora che la disgrazia non fosse successa. Congratulazioni sincere! Non potevo sperare un risultato migliore della mia lunga corsa.

ANNA.           Grazie, signor Enrico. Ella ci trova qui tutti consolati.

ENRICO.       Ma la signora piange? (Guardando Emma.)

ANNA.           Dalla consolazione? (Andando ad Emma.)

ENRICO.       Se sono lacrime dolci, sieno le benvenute. Lacrime simili possono rischiarare tutta una vita, far dimenticare molti affanni.

EMMA           (si stringe nelle spalle con disprezzo).

GIOVANNI   (ch'è stato sempre eretto a riflettere senz'ascoltare nessuno ad Emma). Eppoi un'altra cosa devi pensare. Io esco da due anni giornalmente col fanciullo. Dunque il conto è facile: L'accompagnai per 720 volte.

ENRICO.       730.

GIOVANNI.  Dieci piú, dieci meno, non importa. Qualche cosa prima o poi doveva... cioè poteva succedere. Non si può mica sperare di fare per tante volte la stessa cosa e che vada sempre bene. E adesso vuoi che usciamo in tre! Sarà tanto piú difficile di evitare malanni. Ebbene io con voi non vengo. Con me le cose andarono sempre bene. Ecco che il fanciullo è di là incolume che salta e fa cattiverie mentre tu tuttavia ce l'hai con me.

EMMA.          Io non l'ho con te, padre mio.

ENRICO.       Ma Lei, signor Giovanni, deve anche pensare a quello che sarebbe successo se Lei avesse visto giusto.

GIOVANNI   (imbarazzato). Io non ho visto giusto? (Poi.) Ma scusi, che c'entra Lei?

ENRICO        (spaventato). Volevo solo dire... Io, come amico del povero Valentino vorrei fossero evitati degli altri dispiaceri alla signora Emma.

GIOVANNI.  Lei vuole adesso farmi credere che Valentino, se fosse vivo, mi darebbe torto? Invece lui mi amava e mi rispettava.

EMMA.          Ed io non t'amo forse?

ENRICO.       Ed io proprio perché amico del povero Valentino Le porto il massimo rispetto.

RITA  (s'avanza dal fondo). La zuppa è in tavola.

GIOVANNI.  E allora assolutamente non capisco perché continuate a infastidirmi con una storia... che non è avvenuta. Andiamo a colazione. Io vado a lavarmi le mani. (S'avvia verso la sinistra, poi.) Senti, Guido. Io sono quasi deciso di fare l'operazione. Con cotesta gente non è possibile di restare vecchi. Voglio ancora dormirci su, ma è quasi deciso. Te lo dico io.

GUIDO.         E allora verrò a sentire domattina. Quando ci avrai dormito su.

GIOVANNI.  No, no. Io per le quattro del pomeriggio avrò deciso. Intanto tu corri dal Giannottini e metti in ordine quelle due cose, che ti dissi. Tu le sai quelle cose?

GUIDO.         Sí, zio. Il prezzo e la moralità.

GIOVANNI.  Bravo! Anche la moralità. E alle quattro ritorni. Ci mettiamo d'accordo. Si può farla domani?

GUIDO.         Subito! Quando lo vuoi.

GIOVANNI.  Fuori che ad Anna non dirlo a nessuno. Avranno da un momento all'altro la sorpresa di vedermi giovine. Voglio vedere se sapranno rispettarmi meglio. (Poi.) In tre a passeggio! Hai sentito? Insomma gliela farò vedere. (Esce a sinistra.)

ANNA.           Che t'ha detto?

GUIDO.         A Lei, zia, posso dirlo. È una buonissima notizia. Lo zio ha deciso di sottoporsi, come noi lo desideravamo, all'operazione.

ANNA.           Oh, che bella cosa, poverino. Ma che ne dirà il dottor Raulli.

GUIDO.         Lasci stare, zia, glielo domanderemo a cosa fatta.

EMMA.          Che c'è, mamma.

ANNA            (ad Emma ma in modo che anche Enrico possa sentire). Il babbo ha finalmente deciso di sottoporsi all'operazione. È certo che la fa principalmente allo scopo di poter continuare le care sue passeggiate col bimbo.

EMMA           (stupita). Un'operazione? Quale operazione?

ENRICO.       È un'operazione con la quale si ottiene il ringiovanimento: un sicuro, pronto ringiovanimento. Il signor Guido che naturalmente ne sa piú di me Gliela potrà spiegare meglio di me. (Poi, ipocrita.) Pensi, signora, quale disgrazia abbiamo avuta noi tutti. Se il povero Valentino non fosse morto sei mesi fa con questa operazione ch'è un taglio da nulla, avrebbe potuto essere salvato.

GUIDO.         Io sono stato uno dei primi a parlarne qui. Forse, se non c'ero io, non si sarebbe arrivati in tempo d'applicarla neppure allo zio. Come sempre io non ci guadagno nulla. Quando lo zio sarà ringiovanito nessuno si ricorderà di me.

ANNA.           Finché non hai la laurea naturalmente non ti spetta nulla. Poi per qualunque sciocchezza che farai sarai pagato.

EMMA           (scoppiando in pianto). A me pare una grande, un'inaudita ingiustizia. Soli sei mesi dopo il povero Valentino avrebbe potuto riavere la giovinezza che gli spettava.

ENRICO.       Ciò avviene ogni giorno in medicina, nevvero signor Guido? Due miei fratelli morirono giovanissimi di difterite. Colpa loro se non seppero attendere il rimedio.

EMMA.          Già, per Lei andò tutto secondo i Suoi desideri.

ENRICO.       Io mai desiderai che i miei fratelli morissero. Lo giuro.

EMMA.          Mamma, io prenderò la colazione piú tardi. Ora non saprei mangiare. Tutte queste agitazioni, i rimproveri del babbo... Devo riposare. Pensa tu ad Umbertino. Lo mando di qua. Con permesso. (Inchino leggero e via.)

ANNA.           Poverina! Già, Lei, signor Biggioni, saprà certo compatirla.

ENRICO.       Se non faccio altro, io. E ancora per otto mesi...

ANNA.           Sí, per otto mesi.

GUIDO.         Ma mio povero amico, perché le parlaste dell'operazione e subito anche del giovamento che avrebbe potuto ritrarre il povero Valentino? Avevate preveduto tutto e saltaste nel precipizio proprio volendolo.

ENRICO.       Chissà perché l'ho fatto? È stato piú forte di me. Ma forse è meglio cosí. Certo essa avrebbe amato meglio di esserne informata se l'operazione fosse arrivata in tempo per giovare a Valentino, ma questo non era in mio potere. Non le pare ch'io ho dato la prova di aver fatto presto come ho potuto?

GUIDO.         Certo, ma era prevedibile ch'essa vi avrebbe ringraziato a quel modo.

ANNA.           Infatti, Lei, signor Biggioni, ha sbagliato. Io non avrei detto niente.

SCENA VENTITREESIMA

GIOVANNI e DETTI, poi RITA

GIOVANNI.  E andiamo a mangiare. (Va a sedere a capo tavola e Anna l'aiuta a mettersi il tovagliuolo. Guido siede anche lui mentre Enrico cammina su e giú pensieroso.) E dov'è Emma? Sapete che voglio che tutti sieno puntuali a colazione.

ANNA            (imbarazzata). Ebbe un attacco di nervi.

GIOVANNI.  Dal dispiacere che non sono morto? A me sembra una vera e propria sconvenienza che non sia a tavola con noi e voglio anzi che tu glielo dica. Che sia ultima volta. (A Guido in disparte.) Tu, subito dopo colazione vai dal dottor Giannottini a trattare eppoi vieni a prendermi. (A Rita che apporta una boccia d'acqua.) Anzi, Rita. Di' a Fortunato di tenersi pronto con l'automobile per le 16. Uscirò. (Poi.) E questa zuppa? (Poi si leva col tovagliuolo allacciato attorno al collo e trascina Anna al proscenio.) Ho deciso, Anna. Nel mondo moderno non c'è posto per i vecchi. Farei l'operazione anche se dovesse costarmi la vita.

ANNA            (spaventata). Costare la vita? Se Guido dice ch'è un'operazione da nulla.

GIOVANNI.  I medici dicono sempre cosí. Poi, se hanno commesso un errore, lo seppelliscono.

GUIDO          (accorre). Che c'è, zio?

ANNA.           Lo zio dice che l'operazione implica un pericolo. (Commossa.) Che bisogno c'è di fare una cosa simile? Se sta bene cosí. Io non voglio si esponga a pericoli.

GUIDO.         Macché! Lo zio scherza.

GIOVANNI.  Lui è un medico o quasi. Ma già parla come un medico. Non c'è da fidarsi. Poi se hanno commesso un errore lo cancellano mettendolo sotto terra.

ENRICO.       Lo sanno tutti ch'è una cosa da nulla. Purtroppo! Se cosí non fosse la signora Emma non sarebbe tanto disperata.

GIOVANNI.  Io qui non capisco una quantità di cose. Che c'entra Emma? (Rivolto ad Anna senza guardare Enrico.)

ANNA.           Emma piange perché l'operazione non fu tentata per il povero Valentino.

GIOVANNI.  Per il povero Valentino? Ma quello lí era marcio fino all'osso che faceva schifo. Come si poteva tentare una cosa simile con lui? Con me che ho tutto normale, è tutt'altra cosa.

ENRICO        (con gioia). Oh, se Lei avesse il coraggio di dirlo alla signora Emma.

GIOVANNI.  Dirle che cosa?

ENRICO.       Che il povero Valentino era purulento.

GIOVANNI.  Non capisco perché avrei da dirglielo. (Scaldandosi.) Io ho da dirle tante altre cose e gliele dirò. (Poi.) Ma fra le tante cose che non capisco... Come sa Lei ch'io voglio farmi operare? Chi Glielo disse?

ENRICO        (dopo un istante d'esitazione). Me lo disse Lei stesso. (Giovanni resta muto dalla sorpresa.)

ANNA.           Signor Biggioni, senza complimenti... se vuole accomodarsi... un piatto di minestra...

ENRICO.       Io non vorrei disturbarla. Ma d'altronde vorrei dire ancora una parola alla signora Emma prima di andare. M'ha congedato in un modo tanto strano...

ANNA.           E allora s'accomodi. (Enrico siede solo a tavola.)

GIOVANNI.  Sono stato proprio io a dire dell'operazione a quel signore?

ANNA            (esitante). Mi pare di sí.

GIOVANNI.  Io non l'avrei invitato a colazione. M'è antipatico. Perché pare tanto contento ch'io mi faccia tagliare?

ANNA.           Crede certo che sia per il tuo bene.

GIOVANNI.  Come si chiama?

ANNA.           Biggioni. Enrico Biggioni. Ho dovuto invitarlo perché altrimenti non si sarebbe andati a tavola mai piú.

GIOVANNI.  Capisco. (Siedono a tavola. Giovanni guarda verso la finestra.) Quella Rita. Ha dimenticato di preparare la mia poltrona.

ANNA            (suona poi grida). Rita, Rita... Margherita.

GIOVANNI.  Margherita? Si chiama Margherita?

ANNA.           Eh! Rita! Non lo sapevi?

GIOVANNI.  Non ci avevo mai pensato. (Mangia, poi.) Margherita! Curioso. Una cameriera. (Mangia ancora, poi.) Sono stato io a mandarla da Fortunato. (Mangia ma è inquieto.)

ENRICO.       Vuole che metta io a posto quella poltrona?

GUIDO.         Ci sono io. (Si leva.)

ENRICO.       Sia tanto buono e lasci che faccia io. (Porta la poltrona alla finestra.) Al sole?

GIOVANNI   (subito arrabbiato lascia cadere il cucchiaio nel piatto). Ma come si figura Lei le cose? Vuole farmi dormire al sole?

ENRICO.       È subito fatto. (Sposta la poltrona.)

GIOVANNI.  Ma non da quella parte. In mezz'ora il sole raggiungerebbe la poltrona se fosse posta da quella parte.

ENRICO.       È subito fatto. Ecco! (Spinge la poltrona verso il proscenio.)

GIOVANNI.  Non tanto! Non tanto! Vuole mandarmi al polo nord? Ma insomma io voglio avere un po' di calore dal sole e niente della sua luce. Capisce, Lei? È semplice.

ENRICO.       È fatto, ecco fatto.

GIOVANNI   (di malumore). Quasi.

ANNA.           E Umbertino? Bisogna farlo chiamare. Rita... Rita... Margherita.

GIOVANNI   (mormora colpito). Margherita.

VELARIO

IL SOGNO

Stessa stanza. Il sole è sparito. Luce debole azzurrigna che illumina le persone che parlano e che ascoltano.

Il dottor Raulli, quattro medici vestiti con i camici da ospedale, Giovanni, e in fondo coricata sulla tavola, dapprima invisibile Rita. Sulla poltrona il dormente.

GIOVANNI.  Io vi ho convocati qui...

RAULLI.       Scusi, mi lasci parlare. Sappiamo tutto. Dunque è inutile che Lei parli. Il paziente si stanca a parlare. Eppoi non sa parlare. E se sapesse sarebbe un ingombro.

GIOVANNI.  Ma senta. Io voglio dire dell'operazione...

RAULLI.       Lo sappiamo. Ne abbiamo trattato finora e siamo tutti d'accordo.

PRIMO MEDICO. Già, Raulli si lasciò convincere da me...

RAULLI.       Da te, ma mai piú. Da te? Sei giovine tu, sei nell'ignoranza.

SECONDO MEDICO. Veramente sono stato io il primo a parlarne.

TERZO MEDICO. Lo sapevamo tutti molto prima.

QUARTO MEDICO. Già, tutti sapevano tutto.

RAULLI.       E allora siamo d'accordo. Io posso dire che non volevo l'operazione per il cliente solo perché lo ritenevo già troppo giovine e troppo fresco. Non dissi cosí? (Imperiosamente a Giovanni.)

GIOVANNI.  Non mi ricordo bene.

RAULLI.       Non ve lo dissi a voi già dieci giorni or sono nella commissione psicopatologica?

I MEDICI.     È vero.

RAULLI.       Questo paziente fa tutto normale.

GIOVANNI.  Sí, questo è vero. Mi costò 50 lire.

RAULLI.       È vero e costi quello che si vuole. Eppoi ebbi un'altra esitazione. A che servirà l'operazione per un uomo che vuole la morale?

GIOVANNI.  Io dissi cosí parlando con Guido, un giovine... per l'esempio.

RAULLI.       Per l'esempio sta bene ma non per altro. Non bisogna parlarne a Guido e basta.

I MEDICI.     Non parlarne a Guido. E basta.

GIOVANNI.  E gli altri? Mia moglie, mia figlia...

RAULLI        (spazientito). Ma se non si tratta di parlare.

GIOVANNI   (con angoscia). Ma come farò io? Le donne non sono piú quelle della mia adolescenza. Non vanno piú al pozzo perché ci sono le condutture d'acqua.

RAULLI.       L'acqua in casa è una misura igienica.

I MEDICI.     Adesso ce l'ha con le condutture dell'acqua. Bisogna ringiovanirlo, ringiovanirlo subito. Leghiamolo e consegnamolo al dottor Giannottini.

GIOVANNI.  Ma se sono qui per sentire il vostro consiglio. La visita vi sarà pagata, non dubitate.

RAULLI.       E non badate alla spesa. È piccola.

GIOVANNI.  Non mi pare.

RAULLI.       Dove avete il vostro libriccino? Avete fatto un calcolo sbagliato. Datemelo quel libriccino.

GIOVANNI   (cercando angosciosamente). Non l'ho.

RAULLI.       Ebbene! Io vi dichiaro che l'operazione non costa piú di dieci lire per donna.

GIOVANNI.  Per donna? Dio mio!

RAULLI.       Questo vuol dire per donna al posto d'origine. Le spese di trasporto spettano a voi.

GIOVANNI   (rassicurato). E allora io non le farò trasportare.

RAULLI.       Questo è un affare vostro. Anche fra i giovani ci sono di quelli che le fanno trasportare e quelli che le lasciano al posto d'origine. Padroni tutti a questo mondo.

GIOVANNI.  Dio sa quello che sono queste donne dai capelli e dalle gonne corti.

RAULLI.       Le gonne corte non danneggiano e di capelli ne hanno abbastanza per farsi afferrare.

I MEDICI.     Se ci pensano loro a ribaltarsi!

RAULLI.       Insomma anch'io voglio l'operazione. E subito. Finché tutto è ancora normale. Altrimenti prendetevi un altro medico.

GIOVANNI.  E la spesa non si potrebbe ridurre?

RAULLI.       State contento che sia tanto modica. Quando uscirà il decreto che imporrà l'operazione a tutti i vecchi di Trieste, allora vedrete.

GIOVANNI.  Se non mi faccio l'operazione resterei il solo vecchio di Trieste? Sarebbe una posizione superba.

RAULLI.       No, no, ci sarebbero anche tutti i vecchi che avrebbero fatto fiasco... operati senza risultato.

GIOVANNI.  Si capisce che allora non mi conviene restare in una simile compagnia.

RAULLI.       Dunque? Ha deciso?

GIOVANNI.  Quasi. Vorrei ancora pensarci un pochino là, nella mia poltrona quando dormo.

RAULLI.       Guardi la prima donna che Le riserviamo. Questa qui è fornita gratis, cioè è compresa nel prezzo dell'operazione. (Lo conduce alla tavola su cui Rita giace addormentata.)

GIOVANNI.  Che sconvenienza! Rita che dorme sulla tavola.

RAULLI.       Cioè Margherita!

GIOVANNI.  Ah! Margherita. Allora capisco. È un'altra cosa.

RAULLI.       Vi piace?

GIOVANNI.  Se la conosco! Crebbe in casa mia; quando vi venne era alta cosí. Certo io non la conoscevo in altro senso. Io ero un vecchio morale. Adesso che la guardo... altrimenti trovo che ha i piedi piccoli.

RAULLI.       Ah! Ah! L'operazione comincia a produrre i suoi effetti. (Dà a Giovanni un colpo sulla pancia e subitamente tutte le luci si smorzano.)

VELARIO

ATTO SECONDO

Lo stesso tinello. Pomeriggio di buon'ora.

SCENA PRIMA

Giovanni entra con un sigaro in bocca. È vestito molto piú accuratamente che nel Primo atto ed è anche rasato e pettinato. Cammina piú deciso ma con qualche sforzo. Entra da sinistra ed esce da destra. Urta col ginocchio su un tavolo, procede poi zoppicando e invecchiato.

SCENA SECONDA

RITA e FORTUNATO

RITA. È il nipote del padrone. Non posso mica offenderlo. Lo dicesti tu stesso: Tenerlo alla larga con buona grazia. È quello che faccio.

FORTUNATO.          Sí! Ma lo fai con troppo buona grazia. Graziosa... civetta. Ecco quello che sei.

RITA  (piangendo). Come se fossi una bambina. Come se mi si potesse (singhiozzo)... senza che me ne accorga.

FORTUNATO.          Non mi stai piú a sentire, non stai piú attenta a quello che ti dico. Da otto giorni io non dico piú di tenerlo alla larga con buona grazia. Io dico di tenerlo alla larga, semplicemente alla larga. Non c'è piú bisogno della buona grazia. Hai capito?

RITA  (esitante). No.

FORTUNATO.          Sei come una vettura dall'accensione sbagliata. C'è la benzina, c'è il motore, ma non ti muovi. Vuoi sí o no intendermi? Quando lui vuole spiegarti qualche cosa e ti si caccia accanto, devi semplicemente voltargli le spalle e mandarlo a quel paese.

RITA  (stupita). Oh!

FORTUNATO           (imitandola). Oh!

RITA. E la casetta, e la nostra posizione in casa?

FORTUNATO.          Che c'entra? Noi siamo al servizio della signora Anna che ti vuol bene e del signor Giovanni che ti vuol bene.

RITA. Quel vecchio maiale.

FORTUNATO.          Brava! Quel vecchio maiale!...

RITA. Era il nostro caro, buon vecchio delle cui imbecillità ci si divertiva tanto ad onta della sua avarizia ed ora è un vecchio maiale le cui imbecillità fanno schifo.

FORTUNATO           (ridendo). Ma è tanto aggressivo?

RITA. È un falsone! Persino in presenza della signora Anna trovò il modo di accarezzarmi. Iersera mi domandò a quando sarebbero state le nozze e parlando mi prese la mano. Poi da lí pian pianino s'arrampicò sul braccio fino alla spalla. Provava.

FORTUNATO.          Che cosa provava?

RITA. Ho capito che provava perché qualche giorno fa mi trovò sola, mi disse che m'amava come una figlia, che avrebbe tutelata la felicità della mia famiglia come un padre...

FORTUNATO.          Ma bene, per Dio.

RITA. Improvvisamente mi domandò di poter provare. Proprio cosí disse, e tentò subito di darmi un bacio in bocca. (Forbendosi la bocca.) Schifoso! in bocca! Con quella bocca sdentata!

FORTUNATO.          Finché ti fa schifo non c'è nulla di male. (Eppoi.) E come andò la prova?

RITA. Che ne so io? Venne la signora Anna e lui per darsi un contegno si mise a drizzarsi il colletto. Era malsicuro e molto rosso. Io me ne accorsi ma non la signora Anna. Pare ch'essa da molti anni non guardi in faccia suo marito. Si capisce.

FORTUNATO.          Non agitarti, cara mia. Io non ci credo a quell'operazione voluta da quel gran dottore ch'è il signor Guido. Hai pur visto che i denti non gli sono ricresciuti e senza denti non si mangia, sai. Io lo terrò d'occhio. Quando vedessi che l'operazione lo ringiovanisse sul serio, gli desse quell'aspetto che io mi so, avviserei la signora Anna perché lo metta all'ordine. Fino ad allora sta tranquilla. Del vecchio non mi curo. Cera una volta nel nostro villaggio un dotto uomo cui tutti ricorrevano quando avevano bisogno di consiglio. Andò da lui una giovinetta a domandargli come potesse respingere senza troppo offenderlo il settantenne padrone che la insidiava. Sai quello che il dotto uomo le consigliò?

RITA. Ebbene?

FORTUNATO.          Di aprire le braccia e dire al padrone: Padrone, eccomi qua. Quello era un uomo! Furbo!

RITA  (spaventata). Ed io dovrei fare cosí?

FORTUNATO. Non dico questo. Ti racconto solo che quel padrone fu tutt'altro che incoraggiato da un'offerta simile. Cosí subito? chiese.

RITA. Ma quel vecchio non aveva mica subito un'operazione.

FORTUNATO.          Lascia stare quell'operazione. Se egli non si spaventasse della tua proposta e volesse approfittarne, io so che tu sei donna da respingerlo... almeno finché ti fa schifo. E quando io m'accorgessi che non fosse piú tale da farti schifo, ci penserebbe la signora Anna. Quello che intanto esigo è che cessi questa corte del signor Guido. Noi del signor Guido non abbiamo piú bisogno.

RITA. Ma il signor Guido non si cura affatto di me.

FORTUNATO           (alzando la voce). Bada che una bugia simile può farmi credere il peggio.

SCENA TERZA

ANNA seguita da ENRICO e DETTI

ANNA.           Che cosa significano questi stridi?

FORTUNATO           (dopo un'esitazione). Essa non vuol credere che la signora ha disposto... che oggi la Sua stanza da letto si faccia in grande.

ANNA.           Se te l'ho detto anche a te, Rita.

RITA. L'avevo dimenticato.

ANNA            (rimproverando). E perciò occorreva di arrivare al punto di farti sgridare dal tuo futuro?

Fortunato e Rita escono.

ENRICO        (entra dalla porta di fondo). Ecco signora il campione di seta che ho saputo trovare. Ho girato tutta la città e mi pare di aver trovato proprio quello che Le occorre. Guardi, color grigio-argento.

ANNA            (esamina il campione accuratamente). Sí, sarebbe proprio questo. Grazie tante signor Enrico. E costerebbe?

ENRICO        (agitato). Dio mio. Non ricordo. Quanto costa di solito?

ANNA.           Dalle cinquanta alle cinquantacinque lire.

ENRICO        (serio). Io credo di poterlo avere per meno fra le 45 e le 50. Mi pare di ricordare qualche cosa di simile.

ANNA.           Badi signor Enrico ch'io non voglio mica dei regali. M'arrabbierei con Lei se non mi facesse pagare il giusto. Accetto con riconoscenza ch'Ella m'aiuti nelle mie piccole faccende di casa ma voglio pagare il giusto prezzo. (Arrabbiandosi.) Non vorrà mica regalarmi dei denari?

ENRICO        (avvilito). E allora sono qui in cinque minuti col prezzo giusto.

ANNA            (maternamente). Vede, signor Enrico, non bisogna strafare. Anche Emma aveva cominciato a darle degl'incarichi ma le venne il dubbio che quel caffè di prima qualità ch'Ella comperò per casa fosse costato troppo poco.

ENRICO.       Badi signora ch'io sono commerciante in caffè e che nessuno come me può avere il caffè a quel prezzo.

ANNA.           Ma c'era qui in visita il signor Alfi ch'è commerciante in caffè e disse ad Emma che gliel'aveva fatto vedere ch'egli a quel prezzo avrebbe comperato subito un carico di caffè intero.

ENRICO.       E che cosa disse la signora Emma.

ANNA.           S'arrabbiò molto. Non è cosí ch'Ella deve trattare. Io Le avevo detto ch'Ella non doveva fare delle dichiarazioni, mentre regalare il caffè è una vera e propria dichiarazione. Niente dichiarazioni. È già molto che può rendersi utile con la Sua attività di cui Le siamo gratissimi. Oggi Ella potrebbe andare a passeggio con Umbertino perché il nonno non vuole muoversi.

ENRICO.       A che ora?

ANNA.           Alle quattro.

ENRICO        (guarda l'orologio). Sta bene. Avrei però bisogno di un Suo consiglio, Signora. Io ho trovato un piccolo libro di un dotto protestante che propugna l'abolizione del lutto. Ha degli argomenti magnifici. Che ne dice? Potrei offrirlo in dono alla signora Emma? (Le fa vedere un libriccino.)

ANNA            (lo prende e lo guarda con interesse). Io direi di no. Sarebbe peccato per il bel libriccino. Verrebbe stracciato. È tradotto dall'inglese?

ENRICO        (con vivacità). È interessantissimo. Si figuri che l'autore ebbe la pazienza di calcolare quanto annualmente costi alla nazione inglese il lutto. Per ogni morto inglese si calcola che in media tre persone prendano il lutto, sieno perciò condannate ad una vita ridotta. Una quantità enorme di persone che lavorano meno vestono meno o troppo e tutti i vedovi e le vedove cessano di fare dei figli legittimi. Pensi che danno!

ANNA.           Io non credo che ora questo libro sia già adatto per Emma. La farebbe arrabbiare. Tenga, tenga questo libro per epoche migliori.

ENRICO.       Ma ci troverebbe anche il suo conforto. Con quello spirito pratico degli inglesi l'autore propone che il lutto sia abolito subito dopo i funerali ma che in compenso ogni anno, per un'ora intera, in una domenica da stabilire, quando il tempo non costa nulla, tutta la nazione pensi ai propri morti. Quale compenso! Invece di quel lutto stupido, solitario, il povero Valentino sentirebbe rivolto a sé, una volta all'anno, il pensiero di tutta la nazione!

SCENA QUARTA

GUIDO, EMMA e DETTI

GUIDO.         Zia il signor Boncini sarà subito qui. Posso farlo entrare in questo tinello?

ANNA.           Se Giovanni è d'accordo io non ho nulla in contrario.

EMMA.          Chi è cotesto signor Boncini?

GUIDO.         Un futuro cliente del dottor Giannottini. Vuole prima constatare i risultati ottenuti con l'operazione sullo zio.

EMMA.          E papà si presta a tale cosa?

GUIDO.         Perché no? Se non altro per gratitudine al dottor Giannottini che lo trasse da quell'abietto stato di imbecillimento in cui era caduto.

EMMA.          Io non vedo che finora egli abbia tratto dall'operazione il vantaggio che tu dici. Egli si tiene meglio, si rade ogni giorno, s'impomata e si profuma ma altro non vedo.

GUIDO.         E che cosa vorresti vedere? Che lo zio si metta a correre dietro alle donne?

EMMA.          Voi miravate a questo, voi volevate questo.

ANNA            (spaventata). Io spero di no. Nessuno ha mai detto una cosa simile.

GUIDO          (esitante). No! Una cosa simile non si disse mai. Non c'era la possibilità di dirla. Senta, zia. Correva da giovine lo zio dietro alle donne?

ANNA            (esitante). No.

EMMA.          Ma si sposò. Mamma mia. Corse a te.

ANNA.           Ed io a lui... mi pare.

EMMA.          E se l'operazione riuscisse come costoro desiderano che cosa avverrebbe ora.

ANNA.           Che vai parlando? Giovanni è un uomo morale. Fu morale da giovine e da vecchio e se ridiverrà giovane sarà quello ch'è già stato.

EMMA.          Per fortuna, mamma mia, io a quelle operazioni non credo. Ammetto che avrebbero potuto giovare a Valentino, ma a un vecchio vero... Lo falsifica, lo turba, ma la giovinezza non può piú spettargli.

ANNA.           Dio mio! Non la vera giovinezza. Già l'esperienza di Giovanni impedisce ch'egli possa divenire uno di quei veri giovini che fanno dei malanni e danneggiano la propria e le famiglie altrui. Ma è già meglio, meno distratto, meno assorto. Non t'accorgi che ora potresti piú facilmente fidargli Umbertino?

EMMA           (con grande amarezza). Potrei, sí, potrei. Ma egli del fanciullo non ne vuol piú sapere. Ha l'ora del bagno, l'ora del massaggio e anche l'ora della ginnastica. Ieri lo colsi che davanti allo specchio si forzava di contorcersi. In verità non è un grande ginnasta e finí per terra in modo che dovetti aiutarlo a rialzarsi.

ANNA.           Ma è buono, profondamente buono. Guarda, ingrata che sei, oggi esigette che io vada a portare dei fiori sulla tomba del povero Valentino. Mi disse che sentiva una maggiore venerazione per i morti ora che da loro di tanto s'allontana. Io, al sentirlo parlare ebbi le lacrime agli occhi e accettai subito di andare per lui, risparmiandogli la via polverosa del cimitero.

EMMA.          S'allontana dai morti. Ha anche questo sentimento. Viene ingannato e gli si toglie il rimpianto e il dolore, la vera ragione di vivere. Egli pensa: Valentino è morto! Tanto peggio per lui! (Poi.) E perché non va lui stesso al cimitero?

ANNA.           Dio mio! Lui è piú vecchio di me e bisogna risparmiargli le fatiche.

EMMA           (ride rabbiosamente). Ah! Ah! È vecchio.

GUIDO.         Sai, Emma. Dopo tre settimane non si può ancora sperare di aver ottenuto tutto l'effetto dall'operazione. Chissà che da qui ad un paio di settimane non sia lui che sappia risparmiare delle fatiche alla zia?

EMMA           (pensierosa). Sarebbe terribile! Avrei perduto anche il padre.

ANNA.           Io non capisco quello che vuoi dire. Riavresti il padre piú forte piú giovine, piú capace di proteggerti ed aiutarti.

EMMA.          Oh, mamma mia, come sei ingenua.

GUIDO.         Neppur io che certo non sono ingenuo non ti capisco.

ENRICO        (con sentimento). Io capisco la signora. Essa vuol dire che quando un padre ringiovanisce perde l'altruismo e l'affetto ch'è proprio del vecchio il quale precisamente dai morti non s'allontana.

EMMA           (singhiozzando). Grazie signor Enrico. Lei ha espresso proprio il mio pensiero.

ANNA            (con una certa soddisfazione). Ne ho piacere!

EMMA           (violentemente). Di che? Di che hai piacere?

ANNA.           Dicevo cosí per dire. Pensavo a tutt'altra cosa.

SCENA QUINTA

RITA e DETTI

RITA. C'è fuori un certo signor Boncini che domanda di vedere il signor Guido.

GUIDO          (uscendo). Eccomi! Eccomi! Sono da lui. Mi faccia il piacere, Rita. Avvisi anche lo zio. (Rita esce da sinistra e Guido dal fondo.)

SCENA SESTA

EMMA, ENRICO e ANNA

EMMA.          Io non voglio neppure conoscere questo signore. Un altro vecchio che ambisce la giovinezza. Arrivederci. (Leggero saluto ad Enrico ed esce alla destra.)

ENRICO.       Dio mio! Lei signora Anna m'ha guastato un grande piacere. Era la prima volta che la signora Emma mi desse ragione.

ANNA.           Mi scusi, signor Enrico. So che il mio intervento fu veramente deplorevole. Che vuole farci? Sbagliò tante volte Lei ch'è il principale interessato. È naturale che mi sbagli anch'io.

ENRICO.       Ha visto com'è maleducata quella Sua figliuola! Sulla sua faccina brillava tutta quell'ira tanto immeritata. Adorabile! (Pensieroso.) E forse io sono legato a lei anche da tante sue cattive qualità. Io posso averla con Valentino. Ma talvolta mi verrebbe voglia d'essere al suo posto.

ANNA.           Povero signor Enrico. Ma si ripeterà la buona occasione e prometto di stare attenta. Abbia pazienza. Intanto io vado di là. Non saprei proprio che fare durante questa inchiesta.

SCENA SETTIMA

GIOVANNI e DETTI

Giovanni è vestito di un elegante pijama.

GIOVANNI.  Perché te ne vai? È una bella seccatura cotesta. Mi vi sottomisi solo per compiacere Guido cui devo tanto. Solo non ho ben capito se il vecchio che viene è già operato o no.

ENRICO.       Non è ancora operato. Viene anzi a vedere l'effetto che ha fatto a Lei l'operazione.

GIOVANNI.  E come potrà giudicarne se non m'ha conosciuto prima?

ENRICO.       Il signor Guido si è procurata quella fotografia che Le fecero poco prima dell'operazione.

GIOVANNI.  Mi fecero una fotografia? Ah, sí! La vidi anche. È un orrore. Ero pieno di spavento di quello che mi stava per accadere. Vi è stampato il terrore.

ENRICO.       Tanto meglio se è cosí. Cosí la differenza si vedrà meglio.

GIOVANNI.  Tanto meglio? A me non pare. Io vorrei distruggere quella fotografia.

ANNA.           Io mi ritiro per un istante nella mia stanza eppoi vado subito al cimitero.

GIOVANNI.  Ma non c'è fretta. Il cimitero è là di giorno e di notte a libera disposizione di tutti coloro che vogliono andarci.

ANNA.           È meglio ch'io vada prima e sia di ritorno di qui a un'oretta.

GIOVANNI.  Ma prenditela comoda. Io vorrei tu vada anche alla tomba dei miei genitori. Vai anche su quella di nostro cugino Antonio che morí a 34 anni. Aspetta. Ricordi la povera Ricciardi, quella che morí pochi anni or sono...

ANNA.           Trent'anni fa, vuoi dire.

GIOVANNI   (incantato). Trent'anni! Già per essa il tempo non fu né lungo né breve. Te ne prego. Saluta anche la sua tomba, poverina. Non lasciò nessuno che preghi per lei.

ANNA.           Lo farò, lo farò, mio buon Giovanni.

SCENA OTTAVA

GIOVANNI, ENRICO, GUIDO e BONCINI

BONCINI      (continuando il suo discorso con Guido). Badi che un negoziante d'imballaggi vuoti è sempre il piú furbo dei negozianti. Deve andar a cercare dove rimangono a disposizione privi d'uso gl'imballaggi e trovare poi dove occorrono. Indovinare se occorrono urgentemente per sapersi regolare nel prezzo. Dev'essere basso se sono sostituibili, alto se non lo sono. E cosí via.

GUIDO.         Ma qui non si tratta di bottami.

BONCINI.     Un po' di bottame siamo tutti.

GIOVANNI.  Scusi ma io non sono d'accordo.

BONCINI      (ad Enrico guardandolo con compiacenza e confrontandolo con una fotografia che ha in mano). E Lei avrebbe settant'anni?

ENRICO.       Mai piú! Io ne ho appena trentotto.

BONCINI      (a Guido). E allora che scopo c'era di operarlo?

GIOVANNI.  L'operato son io.

BONCINI      (porgendogli la mano). Ho piacere di fare la Sua conoscenza.

(Guido presenta.)

BONCINI      (dopo una lunga pausa durante la quale lo confronta con la fotografia). Certo, una certa miglioria c'è. Lei si trovava in pessime condizioni. Aveva perduto dei cerchi e delle doghe. Era un bottame veramente malandato.

GIOVANNI.  Che dice? Non capisco? (Poi arrabbiato.) Ma Lei ha urgentemente bisogno dell'operazione. Non sente come Lei parla? Vada, corra a farsi operare.

BONCINI      (buono e mite). Ma io non volevo offenderla. Capisco anche che Lei non abbia potuto intendermi. Io usavo di parole tratte dal mio mestiere che Lei non conosce. Lei ha permesso ch'io La veda per assistermi in un passo molto importante nella vita di un vecchio. Gliene sono molto grato.

GIOVANNI.  L'ho fatto per far piacere a questo mio nipote.

BONCINI.     Capisco che non l'ha fatto per me ma pure a me sembra che anch'io merito un po' la Sua considerazione. Abbiamo la stessa età. C'è una sola differenza fra noi due. Lei è operato ed io non lo sono. Ma fra persone della stessa età ci si dovrebbe amare. Dove si va a finire se anche Lei vecchio tiene per i giovini? I giovini avrebbero tutto, anche l'appoggio dei vecchi.

GIOVANNI   (rabbonito). Io (esitante) non Le voglio male. Vede che mi presto ad aiutarla. Ma io non posso piú tenere per i vecchi. Non dico di tenere per i giovini. Se sono giovine sono anche vecchio. Insomma... Si faccia operare eppoi veramente staremo insieme. Saremo della stessa classe.

GUIDO.         Certo adesso la Società si divide in giovani vecchi e vecchi giovani.

GIOVANNI.  Proprio cosí. Io sono un vecchio giovine. (Ridendo.) Ci sono anche dei giovani vecchi. (A Guido accennando Enrico.) Quel signore... Come si chiama?

GUIDO.         Biggioni.

GIOVANNI.  È vecchio ad onta della sua età. Perciò m'è antipatico. Dev'essersi fatto operare alla rovescia per diventare tanto vecchio. L'abbiamo sempre fra i piedi. È innamorato.

BONCINI      (ch'era piú vicino ai due e ha sentito). Un vecchio... innamorato? Ma se è innamorato non è piú vecchio.

GIOVANNI.  Lei non se ne intende. Anche gl'innamorati possono essere vecchi. Il giovine vero, ama le donne, sí, ma ci pensa di tempo in tempo. Non sempre.

GUIDO.         Questo è fisiologicamente giusto. La prova della forza sta precisamente nella sua manifestazione a tempo e luogo.

BONCINI      (esitante). Pensate che sia proprio cosí? (Poi deciso.) Ma allora io non mi faccio piú operare. Buon giorno, signore.

GIOVANNI.  Che cosa gli salta?

GUIDO.         Se vuole se ne vada. Ma dopo di aver disturbato lo zio in questo modo mi pare poco cortese di togliere a questo modo l'intervista.

BONCINI.     Ebbene, mi permetta d'indirizzare qualche domanda a Suo zio. Ma Lei non s'inframetta. Signor Chierici! Ella non rimpiange di aver speso tanto per quell'operazione? Questo, questo è il nodo della questione.

GIOVANNI.  Io me ne infischio che Lei abbia a farsi operare o meno. Io non ci guadagno nulla. Ma giacché Lei cortesemente me ne fa domanda Le confesserò ch'io ancora fermamente credo che il dottor Giannottini domandi troppo per la sua operazione. È un grosso imbroglione.

GUIDO.         Che dice zio?

GIOVANNI.  È la verità ch'io dico. Ma però visto che il dottor Giannottini è il solo che sappia fare perfettamente tale operazione, si capisce che ne approfitti. Farei lo stesso anch'io al suo posto. Anzi, lo feci già. Una volta ero il solo in piazza che avessi avuto pronta una certa merce...

ENRICO.       Del caffè.

GIOVANNI.  No tutt'altra cosa... in casse... Non ricordo...

BONCINI.     Se non ricorda è un brutto segno.

GIOVANNI   (a Guido). Che cosa va dicendo?

BONCINI.     Anche l'udito sembra debole.

GUIDO          (cattedralmente). L'udito e la memoria sono gli ultimi a guarire.

GIOVANNI.  La vita è ringiovanita. Da me tutto è piú giovine. Il costo dell'operazione? Io già faccio musina per rifarla di qui a dieci anni. Non ne vedo l'ora. E di qui a venti e di qui a trenta ancora. Certo vivrò sempre nella speranza che il costo dell'operazione diminuisca. E - lo dissi anche al dottor Giannottini - se egli continuerà a tener alti i prezzi, io passerò senz'alcun riguardo alla concorrenza.

GUIDO.         Non Le pare che questa sia l'espressione di un giovine?

BONCINI.     Non mi pare. Io non sono ancora operato eppure compero i miei imballaggi dove sono piú a buon mercato.

GIOVANNI.  È convinto? (A Guido poi a Boncini.) Io non sapevo neppure quello che fosse la giovinezza. La ritrovai! Venne a me calda e dolce. Ora ricordo come era. Come ricordo! (Assorto.)

GUIDO.         Bravo, zio.

BONCINI.     Scusi! Veniamo alla cosa principale. Come va con le donne?

GIOVANNI.  Con che cosa?

GUIDO.         Con le donne.

GIOVANNI.  Le donne? Perché mi parla delle donne? Che c'entrano le donne? Io posso essere un giovine, ma sono sempre un giovine rispettabile.

BONCINI      (disperato). Anche dopo l'operazione?

GIOVANNI.  Piú che mai.

GUIDO          (traendo Boncini in disparte). Senta, badi che mio zio è un vecchio... cioè un giovine... come dire?... non mica tanto sincero. Non ammetterebbe mai di confessare un desiderio. O lo confesserà quando gli giovi... alla donna stessa che desidera e a nessun altro. (Ride.)

GIOVANNI.  Che dici e perché ridi?

GUIDO.         Sai, zio, quello è un uomo ordinario che dall'operazione aspetta una sola cosa, proprio quella che lei non vuole.

GIOVANNI.  Imbecille.

BONCINI      (traendo Guido in disparte). E allora non c'è speranza di trarre da lui la verità?

GUIDO.         Difficile.

BONCINI.     A me è molto difficile d'intendermi con questo vecchio che, dopo operato, ha tutta l'ostinazione della sua età e tutti i pregiudizii. Lei non avrebbe pronto un altro vecchio preparato?

GUIDO.         Pronto, proprio pronto non ne ho.

BONCINI.     E allora?

GIOVANNI.  Giacché avete da parlare tanto insieme, io me ne vado. Sta bene essere utile al prossimo. Ma non potrete pretendere ch'io dedichi queste ore di giovinezza ad attendere il vostro beneplacito.

GUIDO          (in un orecchio a Giovanni). Vuole pagare meno di Lei, zio.

GIOVANNI.  Spero non mi si farà tale torto. (Poi.) Ho da dirgli esattamente quello che ho pagato?

GUIDO.         È meglio di non dirgli niente.

BONCINI      (a Giovanni). Giacché Ella è tanto buono mi permetterà di rivederla. Ma non qui. Si potrebbe andare a passeggio insieme? Vedrà: di me si dice ch'io sia un uomo molto divertente. È naturale che adesso io sia preoccupato dall'affare piú importante ch'io abbia mai trattato in vita mia. Non si può pretendere ch'io apparisca disinvolto.

GIOVANNI.  Insomma, dica la verità. Con me è difficile fingere: Ella vuol vedermi movere. Vuol vedermi camminare. Questa è una domanda discreta. Tutt'altra cosa che domandare di vedermi con le donne. Oggi non esco: Ho un affare di premura. Di premura: Lei sente? Prima dell'operazione non sapevo neppure che cosa fossero gli affari di premura. Ma domani alle 17 in punto io esco come faccio ogni giorno prima di cena. E se Lei è qui, cammineremo insieme. Io non sono né divertente né disinvolto ma ho tutto il rispetto per la vecchiaia e l'accompagnerò volentieri.

BONCINI.     Grazie! (Esitante.) Io come piú vecchio potrò darLe dei buoni consigli...

GIOVANNI.  No! Questo non credo.

BONCINI.     Si potrà insomma consigliarsi insieme, vedere come sarà meglio di approfittare di questa nostra giovinezza... se l'avremo. Io non dico ch'Ella dovrebbe tener conto dei miei consigli... né io dei Suoi. Ma si potrà dire la propria opinione.

GIOVANNI   (imperioso). Però anche la parola dovrà essere rispettabile e rispettosa. Questo posso pretendere. La mia giovinezza voglio sia tutta dedicata alla virtú. Insomma parlare si può ma in modo che il piú casto orecchio non possa essere offeso dalle nostre parole.

BONCINI      (lo guarda con disdegno, a mezza voce a Guido). Aver pagato tanto per l'operazione e servirsene a questo modo.

GUIDO.         A parole - me lo creda - a parole. Anch'io talvolta - ma raramente - parlo cosí.

BONCINI.     Insomma io non m'impegno ancora a nulla. Peccato Lei non abbia un altro vecchio pronto. Con questo qui sarà piú difficile di capire qualche cosa. Domani esco con lui. La via oramai è piena di gambe nude. Vedrò che effetto gli facciano.

ENRICO.       Vedrà! Vedrà! Io una volta una sola volta uscii col signor Giovanni. A me pare che guardi con compiacenza anzi con concupiscenza le donne.

BONCINI.     Quando La vidi e credetti Lei avesse 70 anni ero pronto a tutto. Purtroppo non è Lei l'operato. Proprio peccato.

GIOVANNI.  Parlate, parlate pure. Io se non avete nulla in contrario mi metto qui a leggere il mio Piccolo.

BONCINI.     Scusi, signor Chierici. Capirà. Son cose importanti.

GIOVANNI.  Se fossi stato come Lei non sarei mai arrivato all'operazione. La pensai, la volli e la feci. Io non ho paura.

BONCINI      (con dolore a Guido). Che prima dell'operazione sia stato in migliori condizioni? (Poi, con un sospiro.) Insomma non ho deciso nulla. Purtroppo. Ritornerò domani. (A Giovanni.) Domani alle 5 pomeridiane sarò qui. E Le sono molto grato della Sua compiacenza. Arrivederci domani. (A Guido che lo accompagna.) Non dica nulla al dottor Giannottini. Già lui è sempre pronto. Io però non sono pronto ancora.

SCENA NONA

GIOVANNI, ENRICO e GUIDO

GIOVANNI   (ha inforcato gli occhiali e legge un po' nervosamente). Un altro che ammazza la moglie. Il danno viene tutto dal sesso. Quanto migliori sarebbero gli uomini se non avessero sesso. (Continua a leggere.)

ENRICO.       Ha visto che sono intervenuto a tempo?

GUIDO.         Gliene sono riconoscente, ma ho paura non gioverà. Questi vecchi! Ce ne vuole prima di farli uscire dalla loro tana. Magari avessimo da fare coi giovani. Ma non dispero, e Lei non si spaventi. Sull'interesse delle Sue ventimila lire Ella può contare con sicurezza. Di questi giorni stiamo trattando diverse operazioni.

ENRICO.       Non è di quei denari che mi preoccupi. Ella ha parlato di me ad Emma?

GUIDO.         Ho gettato lí il Suo nome varie volte e sono stato a vedere come l'accolga. Non mi pare fosse stato abbastanza bene per continuare a parlare.

ENRICO.       Come è ingiusta!

GUIDO          (esitante). Io non la sposerei.

ENRICO.       Che dice?

GUIDO.         Voglio dire che se io fossi al Suo posto, io non la sposerei. Dio mio! Se Lei sapesse quante donne ci sono a questo mondo!

ENRICO        (sorridendo). Come se non lo sapessi. (Poi.) Ma intanto ha permesso che io oggi alle quattro conduca a passeggio Umbertino.

GUIDO.         È perché il nonno non ne vuol piú sapere.

ENRICO.       Mi pare che anche il nonno cominci a volermi bene.

GUIDO.         Chi può volere male a Lei? (Poi s'accosta a Giovanni.) Capirà zio che mi ha procurato una grande gioia di sentire che Lei già tanto fortemente risente il vantaggio dell'operazione. Io ero non poco preoccupato: All'operazione l'avevo indotta io e me ne sento responsabile.

Giovanni qui allontana Enrico. Gli dà da leggere un articolo perché abbia a fargliene la relazione.

GIOVANNI.  Anch'io talvolta ne sono preoccupato. Dio mio! Se tutto ciò avesse da scomparire, come saprei io ritornare alla vita di prima? Questo, questo è il pericolo. Dici che c'è?

GUIDO          (esitante). No! No! Una volta che l'operazione è ben riuscita l'effetto non può cessare che dopo tanti anni.

GIOVANNI.  Dieci anni, dicevi?

GUIDO.         Dieci o un poco piú o un poco meno.

GIOVANNI.  E allora voglio tranquillarmi e credere che domattina quando mi desterò ritroverò lo stesso calore, lo stesso amore per la vita, la stessa luce. Sí! Io la chiamerei luce: Una cosa che abbacina.

GUIDO          (stupito). Davvero?

GIOVANNI.  Vuoi farmi credere che tu non lo sappia?

GUIDO.         Oh, io lo so. Solamente che a ciascuno questo rinvigorimento apparisce in altra luce: A qualcuno come a Lei, zio, quale luce, a qualcun altro quale calore. Qualche fortunato lo sente quale elettricità.

GIOVANNI.  Anche da me può essere detta elettricità. Un formicolio che mi si estende a tutto l'organismo. Sento fin dove arrivo col mio corpo. So di avere delle piante dei piedi. Anche prima lo sapevo perché mi sostenevano. Ma ora lo so perché le sento e tanto piú fermamente mi sostengono. Quel vecchio lí... come si chiama?

GUIDO.         Boncini.

GIOVANNI.  Ebbene quel Boncini voleva sapere da me come andasse con le donne. Io gli dissi che delle donne io non sapevo nulla. Mi dispiace di confessarlo: Io non dissi l'esatta verità. Le donne ci sono anche da me. Non mancarono mai come posso dire che mai mi mancarono neppure le piante dei piedi. Le guardavo e pensavo: To! Ci sono ancora, ma non per me. Ora le guardo e penso, anche perché la sconvenienza vi si oppone, come dirò? Sono non per me, naturalmente, ma somigliano molto a quelle che a suo tempo, se io avessi voluto, sarebbero state per me.

GUIDO.         Non capisco bene: Somigliano a quelle che, a suo tempo, se Lei avesse voluto, sarebbero state per Lei?

GIOVANNI   (impaziente). Certe cose, naturalmente, un giovine come te, privo dell'esperienza della lunga vita, non può intendere. Eppure sarebbe tanto bene ch'io sapessi spiegarmi. Invece che spiegare ti racconterò: Subito io cominciai a sognare. Subito, subito.

GUIDO.         Subito? Dopo l'operazione? Subito?

GIOVANNI.  Sí, subito. Io fino allora vivevo proprio nelle ventiquattro ore della giornata. Tutt'ad un tratto ne saltai fuori.

GUIDO.         Ne saltaste fuori!

GIOVANNI.  Io, infatti, vivo pochissimo nelle ventiquattro ore di oggi. Come sento le piante dei miei piedi, cosí sento tutto il mio passato. Non posso dire che lo ricordo perché non basterebbe di dire cosí. Io lo vivo. Vivo la mia gioventú. Quell'altra, dico, non questa.

GUIDO          (esitante). Quell'altra?

GIOVANNI   (sognando). E d'un balzo saltai a rivivere il mio proprio matrimonio. In tutti i particolari. E anche prima. Il primo pensiero di sposare mia moglie. Lasciare Pauletta e sposare Anna.

GUIDO.         Sí, insomma la storia solita, si lascia una e si prende un'altra.

GIOVANNI.  Ah, non la storia solita. Adesso che ci ripenso trovo ch'è una storia strana, incredibile. Sto guardandola, stupefatto, come se non fosse avvenuta a me, come se non avessi fatto tutto io, io stesso. Non c'è nulla di male, sai. Nella mia vita non c'è nulla di male. Se non è male ch'io dovevo sposare Pauletta e che finii con lo sposare Anna. Ma giurami che non dirai nulla ad Anna. Giuralo!

GUIDO.         Lo giuro, zio.

GIOVANNI.  Ebbene, io sposai Anna perché non volli sposare Pauletta. Anna era un tesoro di fanciulla. Non dico nulla contro di lei. Siamo sposati da tanti anni e non avrei nulla da dire contro di lei anche se cercassi attraverso tutto quel tempo, anno per anno, con la candela. Tutti la trovavano bella. Camminava con grande grazia, ma modestamente. Di Pauletta tutti dicevano male. Perché la poverina si moveva con grazia ma in fondo un po' provocante. Si moveva cosí... cosí... Ora ci sono dei detti popolari secondo i quali bisogna diffidare di donne che si muovono cosí. I detti popolari sono... santi, bisogna rispettarli. Ma qualche volta sono suggeriti da malizia e cattiveria. Chi li sorveglia? Chi li corregge? Corrono per le vie e per i campi, selvatici come tutte le cose che sono di padre ignoto. Bisogna attenervisi con discrezione. Quel vecchio... come si chiama? (Guido non intende.) Quel vecchio che domanda di andare a passeggio con me.

GUIDO.         Ah, quello lí! Boncini.

GIOVANNI.  Boncini non m'avrebbe inteso se gli avessi confessato ch'io alle donne oramai penso ma intanto solo alle donne ch'erano giovini quando io ero giovine. Come dirò? La mia vita si ribalta. Il ricordo mi riporta all'inizio di questa vita. Tu che te ne intendi di quest'operazione non credi che sia proprio cosí che si ritorni agli esordii? Prima si guarda e si ricorda eppoi ci si salta dentro?

GUIDO          (commosso). Sí, zio, può essere cosí. (Poi.) Io, però, mai parlai tanto intimamente coi miei operati. Si capisce! Sono di solito dei vecchi rispettabili che non si confidano al primo venuto.

GIOVANNI.  Ma al medico bisogna pur dire tutto. Io ne parlo per la prima volta, ma sono tanto contento di poter parlarne! Mi pare di tener afferrate perché non scappino le cose che m'avvengono. Ero là, là, oggi per parlarne ad Anna. A tempo mi ravvisai. Quantunque poi pensassi che davvero essa è tanto vecchia che a certe cose non attribuisce alcuna importanza. Ma come dirle ch'io d'un colpo coi miei ricordi sono passato a Pauletta? Il suo modo di muoversi era naturale per lei. Come poteva essere altrimenti con quella faccina accesa che pareva... una fiamma, una vera fiamma che toglie la vista e anche scotta? Perciò, solo perciò io allora non la volli. (Pausa.) E perciò, solo perciò io ora la vorrei.

GUIDO.         Intanto, zio, Ella vorrebbe una sola donna. Qui si vede che l'operazione fece il suo effetto. Quando si comincia col desiderare una donna, si può finire col desiderarne parecchie.

GIOVANNI.  Bada come parli, scioperato. Io non dico desiderare! Io dico desiderare di vederla, di vederla moversi intorno a me, proprio con quei movimenti e con quella faccina. Non altro! Bada bene! Non voglio apparire sozzo.

GUIDO          (prima sorride e poi si doma). Ma quella Pauletta a quest'ora non ha piú né quella faccina né quei movimenti. Come fare?

GIOVANNI.  È morta. Dopo di essersi sposata. Io non ricordo il nome del marito altrimenti avrei inviato dei fiori sulla sua tomba. Magari con Anna che proprio adesso andrà a portarne a Valentino e ai tanti altri. Io dissi ad Anna che piú m'allontanavo dai morti e piú li rispettavo. Lo dissi perché ciò ai morti è dovuto. È il loro diritto. Ma in fondo a me i morti fanno un po' di schifo. Hai visto dei cadaveri tu? Già, per te come medico, i morti sono pane quotidiano. Ma per me! Quell'odore! Emma volle ch'io dessi un bacio al cadavere di quel Valentino ch'era tanto brutto già prima di morire. Non dimenticherò mai piú quel bacio. Insomma io penso sempre a Pauletta ma non so amarla piú perché è morta. Non ne hanno colpa i morti che morirono prima che s'inventasse tanto portento. Ma è tuttavia un po' stupido. Roba antica! Come quando si ricorda che la gente una volta moriva schiacciata dalle carrozze perché non erano ancora inventate le automobili. (Dopo una pausa.) Peccato! Pauletta era molto bella, tanto che io ora invierei dei fiori sulla sua tomba se sapessi ove si trova. (Cercando di ricordare.) Puc... Pucci... Puccio... Puccio. Non trovo il nome del marito. E il bello si è che non ritrovo neppure il suo nome di fanciulla. Ma quello Anna dovrebbe saperlo... se osassi di domandarglielo.

GUIDO.         Verrà tutto col tempo, zio. Anche i nomi. La cosa principale è che Lei stia bene. Le ho portato l'analisi.

GIOVANNI.  Vuoi le 50 lire?

GUIDO.         Oh! Una miseria. Me ne darà cento alla prossima analisi. Guardi! È magnifica.

GIOVANNI   (inforca gli occhiali e guarda con ansietà). Normale... normale... normale. (Disilluso.) Ma questa è la stessa analisi dell'altra volta.

GUIDO.         Meglio che normale non esiste, zio.

GIOVANNI.  E allora l'analisi in se stessa non vale un fico fresco. Normale! Era cosí quand'io ero vecchio. Io sono tutto nuovo e l'analisi è sempre la stessa. Io non ne voglio piú sapere di analisi. Altro ci vuole ora. Perché avrei da fare delle analisi come se fossi vecchio?

SCENA DECIMA

ANNA e DETTI

ANNA            (pronta per uscire). Allora io vado con l'automobile in cimitero. Poi avrò da fare qualche spesuccia e non potrò essere di ritorno che di qui a qualche ora. Non ti dispiace ch'io resti assente per tante ore?

GIOVANNI.  No! no! Anzi. Anzi vuol dire che mi fa piacere che anche tu te la passi come puoi. La vita è breve, dicevano gli antichi.

ANNA.           Pensa se hai bisogno di qualche cosa dalla città.

GIOVANNI.  I giornali. Voglio anche il giornale umoristico della domenica. Mi piace di ridere. Devo imparare di nuovo a ridere.

ANNA.           E tu vuoi restare in tinello?

GIOVANNI.  Sí! Questo è il posto dove mi trovo meglio.

ANNA.           E non hai niente in contrario che intanto che tu sei qui Rita netti in questa stanza le maniglie, i vetri, i cristalli?

GIOVANNI   (tentando di celare il proprio compiacimento). Venga, venga, Rita. Essa netterà. Io leggerò e non la sentirò nemmeno.

ANNA.           Allora addio. (Porge a Giovanni la guancia a un bacio, poi a Guido.) Se vuoi venire con me. Mi farebbe piacere. In due ci si raccoglie meglio al cimitero. Solitarii si finisce col sentirsi molto soli.

GUIDO.         Mi dispiace, zia, ma non posso. Fra una mezz'ora devo essere all'ospitale.

GIOVANNI.  Bravo! Voglio dire che mi compiaccio che hai molto da fare. In quanto al cimitero io trovo anzi ch'è un posto ove si sta meglio soli. I morti hanno diritto che per quel breve tempo si vada soli.

ANNA            (avviandosi, ad Enrico). Arrivederci, signor Enrico. Mi raccomando per quella seta.

ENRICO.       Non dubiti, signora.

GIOVANNI.  E non potrebbe accompagnarti il signor Enrico.

ENRICO.       Mi dispiace ma non posso. Io devo attendere qui Umbertino col quale ho da andare a passeggio alle 4. (Guarda l'orologio.) Sono appena le tre. (Anna esce.) Arrivederci.

GIOVANNI.  Ma scusi. Io non ci ho niente in contrario. La Sua compagnia mi fa piacere. Ma non capisco. Ella è un commerciante e perde a questo modo il Suo tempo?

ENRICO.       Oggi non ho molto da fare. Eppoi, capirà che per me non è una perdita di tempo di stare con Lei. (Con odio.)

GIOVANNI   (spaventato). Grazie! Grazie! Come Lei sa dire le cose piú gentili con tanta decisione. (Poi.) Senta. Intanto mi pare che sarebbe molto gentile da parte Sua di accompagnare la signora all'automobile.

ENRICO.       Questo posso fare subito. (Esce.)

SCENA UNDICESIMA

GUIDO e GIOVANNI

GIOVANNI.  Senti, Guido. Non potresti andare da Emma e pregarla di mandare Umbertino a passeggio subito alle tre?

GUIDO.         Perché?

GIOVANNI.  Mi pare che quest'ora di sole gli farebbe tanto bene.

GUIDO.         È proprio il grande sole ch'essa vuole evitargli.

GIOVANNI.  E tu, come medico, non potresti consigliarla altrimenti?

GUIDO          (esitante). Non credo di poterlo fare.

GIOVANNI.  Eh via! Il purgante fa bene quando volete e fa bene, quando volete, anche il bismuto. Guarda se oggi non gli farebbe bene il sole. Oggi, poi, il sole non è forte. Mi pare sia un po' annuvolato.

GUIDO.         Non oso! Emma non s'è ancora rassegnata a considerarmi quale un medico. Se apro bocca essa chiama il dottor Raulli. Finisco sempre col promuovere l'interesse di un concorrente. Ciò non mi garba troppo.

GIOVANNI   (disperato). E allora come faccio a liberarmi da quel signor Biagini?

GUIDO.         Biggioni vuol dire.

GIOVANNI.  Biggioni! È come una scopa che posa su una porta. Se apri la porta ti viene addosso. Come diecimila scope perché da un certo tempo quando entro in un luogo mi viene addosso.

GUIDO.         Procurerò di portarlo via io per un'oretta finché Umbertino non è pronto.

GIOVANNI.  Bravo! Te ne sarei molto riconoscente. Rita posso sopportare... (Inquieto.) Perché non è ancora qui? Senti, con te posso essere sincero. Io guardo molto volentieri Rita.

GUIDO.         Di questo non mi meraviglio affatto.

GIOVANNI.  Tu dici? Ah, capisco. Ti piace? Ma non è pane per i tuoi denti. Da me è tutt'altra cosa. Non la guardo mica perché è bella. Io la guardo solo perché ha qualche cosa che ricorda Pauletta. Non trovi?

GUIDO.         Come posso saperlo? Io non conobbi Pauletta.

GIOVANNI.  E che fa questo? Non vedi che anch'essa si muove come faceva Pauletta? Proprio cosí!

GUIDO.         Fuori del modo di andare nelle donne ci sono tante altre cose.

GIOVANNI.  Sí, certo, zotico che sei. Ma mentre tutte le altre cose sono cose materiali, il modo di moversi di una donna è cosa spirituale. In un certo modo non si movono che le donne che sono sicure della propria bellezza, della propria grande bellezza. Le piú pericolose: Quelle che non si sposano e che poscia si rimpiange di non aver sposato.

GUIDO.         Movendosi come una vera bellezza, Rita perciò dovrebb'essere secondo Lei veramente bella?

GIOVANNI.  Ma a questo non guardo io, non mi concerne.

GUIDO.         Ah, cosí! (Diffidente.)

SCENA DODICESIMA

ENRICO e DETTI

Da sinistra entra Rita con una bacinella, una spugna e un pezzo di stoffa, dall'altra Enrico. Rita si dedica subito al suo lavoro intorno alle maniglie.

GUIDO.         Senta, signor Enrico, vuole forse venire ad accompagnarmi fino all'ospedale? Mi annoio tanto di movermi cosí da solo.

ENRICO.       Mi dispiace tanto, signor Guido. Lo farei tanto volentieri, ma non posso. Devo essere qui in punto alle sei. (A bassa voce.) Tento anche vedere la signora Emma che ancora non è uscita. (Con ansia.) Almeno a quanto credo.

GUIDO.         No, no. È di là. (Poi a Giovanni.) Non vuole andarsene.

GIOVANNI   (brontola). Che il diavolo...

GUIDO.         Addio, zio, sarò qui a cena. (Via fregandosi le mani.)

SCENA TREDICESIMA

RITA, GIOVANNI e ENRICO

Enrico si rimette con un sospiro a leggere il giornale. Rita attende al suo lavoro, Giovanni s'è gettato in una poltrona e la guarda commosso e agitato. Lunga pausa.

GIOVANNI   (che ora di tempo in tempo guarda Enrico indeciso, prende finalmente una decisione). Senta, per leggere un giornale io credo Lei starebbe meglio in quell'altra stanza in fondo al corridoio. Già Umbertino quando esce passa proprio per di là.

ENRICO        (con odio). Scusi se non m'accorsi di disturbarla. (Quasi minaccioso.) Io faccio tutto quello che Lei vuole.

GIOVANNI   (che un po' spaventato retrocede). E allora mi faccia il piacere, caro signor Biggioni. Se qualcuno vuole entrare qui me ne avvisi.

ENRICO        (c.s.) Sarà servito. (Via.)

SCENA QUATTORDICESIMA

GIOVANNI e RITA

GIOVANNI   (ritorna alla sua poltrona). Un uomo gentile ha la voce minacciosa. Cosí, per natura. Dice delle cose gentili che spaventano. Io non lo sposerei.

RITA  (continuando il suo lavoro). Pur troppo anche la signora Emma pensa cosí. (Gridando.)

GIOVANNI   (lieto). Come sento bene. Parola per parola. S'aprono anche le orecchie. (Pausa.) E tu credi sarebbe bene ch'Emma lo sposasse?

RITA  (sempre a voce discretamente alta). Chi non lo crederebbe? Un uomo distinto, ricco e che le vuol bene.

GIOVANNI.  Un uomo distinto? Dio sa che aspetto deve avere quand'è arrabbiato se quando vuol bene ha l'aspetto da furibondo.

RITA. Ma io credo sia arrabbiato.

GIOVANNI.  Perché? Con chi? E perché non lo dice.

RITA. Prima di tutto vuol farsi voler bene da Lei e non gli riesce.

GIOVANNI.  Perché non me lo dice. Se me lo dicesse io gli direi volentieri che gli voglio bene.

RITA. Il signor Guido gli vuol bene oramai e anche la signora Anna. Non gli manca di conquistare che Lei e la signora Emma.

GIOVANNI.  Gli manca il piú, insomma. Che moderi la sua voce. Poi lo vedrò volentieri se non si farà vedere troppo. (Pausa, Rita lavora.) Come si chiamava tua madre? Paula, Pauletta?

RITA. No, no! Giovanna.

GIOVANNI.  Anna? (Stupito.)

RITA. Giovanna.

GIOVANNI   (piú quieto). Ah, Giovanna! Ma quasi Anna! Pare voluto. Cerco Paula e mi dànno Anna. Ma tu sei Rita, proprio Rita?

RITA. Eh, sí.

GIOVANNI.  E perché non vuoi darmi un bacio? Che fa a te?

RITA. Non si deve, signor padrone. Io sono la fidanzata di Fortunato.

GIOVANNI.  E che fa questo? Non ti voglio mica sposare. Io vorrei darti solo un bacio. Vorrei provare che effetto mi fa. Ammettiamo che io fossi moribondo, che tu fossi al mio letto e venisse il dottore e ti dicesse: Per salvarlo dovete dargli un bacio. Che faresti tu? Se vuoi un po' di bene a me e ad Anna e a mia figlia che faresti?

RITA. Ma non è il caso, signor padrone. Lei non è moribondo e se lo fosse i dottori prescriverebbero tutt'altre cose che sono molto piú care, roba di farmacia.

GIOVANNI.  Io per un bacio pagherei molto di piú. Ti farei fare subito in quella casetta una camera di piú, quella che ancora ti occorre e di cui Fortunato tanto mi parlò. E pensa che ho già pagato al dottor Giannottini per una roba da niente fior di quattrini. (Pausa durante la quale Rita, imbarazzata, lavora piú forte alla maniglia.) In complesso io apparisco tuttavia vecchio, ma, ti assicuro, io ero un bel ragazzo e, se quello che spero s'avvera, sarò di nuovo non piú un ragazzo, ma un uomo forte, eretto, sicuro. Ma per raggiungere questo sarebbe oggi necessario che tu mi dia un bacio.

RITA. Ma io dovrei domandare il permesso a Fortunato.

GIOVANNI.  Un bacio col permesso? Mai piú! Non è un bacio cotesto. Io devo rubare, conquistare il bacio. Proprio come si fa in amore. Guarda. Io ci ho pensato lungamente a questo bacio. Vorrei rubarlo, proprio rubarlo come fanno i giovini. Tu siedi su quella poltrona, ti adagi e dormi o fingi di dormire. Io ti vengo appresso e ti do un bacio.

RITA. Sulla bocca?

GIOVANNI.  Non occorre, non occorre ancora. Ti bacerò sulla guancia.

RITA. E la stanza, la stanza nuova nella mia casetta sarà fatta?

GIOVANNI.  Darò l'ordine subito oggi acché compiano il lavoro prima che l'estate finisca.

RITA. Padrone! Non si potrebbe fare tutto questo senza il bacio? Voi che siete tanto buono!

GIOVANNI.  Te ne prego, non parliamo piú del contratto e della camera perché allora addio bacio. Parliamo solo del bacio. Tu siedi su quella poltrona. Vai, vai, te ne prego.

RITA  (s'avvia alla poltrona alquanto riluttante e tenendo in mano la flanella con la quale aveva lavorato, siede sulla poltrona, chiude gli occhi e si protegge la bocca con la flanella).

GIOVANNI   (si guarda d'attorno). Mi pare benissimo tutto. (S'accosta in punta di piedi molto malsicuro a Rita e vede la flanella.) Via quella pezzuola. Quella è destinata alle maniglie. (Rita la lascia cadere a terra e mette la mano sulla bocca.) Piú naturale, te ne prego. Sdraiati come se tu fossi in un letto. Cosí! Scusa se adesso aspetto un poco per pensarci. Come si può rubare un bacio se si dovette prima prepararlo, confezionarlo. (Siede su una sedia, si copre gli occhi e pensa per qualche istante, poi s'avanza verso Rita e si china a darle un bacio sulla guancia). Oh, Pauletta!

RITA  (lo guarda stupefatta). Lei dice?

GIOVANNI   (brusco). Stai zitta, tu. (Pensa lungamente.) Mi piacque, mi piacque molto.

RITA  (timidamente). Posso ritornare al mio lavoro?

GIOVANNI   (brusco). Vuoi stare zitta? (Pausa ancora.) Certo se tu m'avessi amato sarebbe andato meglio.

RITA. Ma io sono la fidanzata di Fortunato.

GIOVANNI   (brusco). Che c'entra questo?

RITA. Se c'entra! (Ritorna al lavoro.)

GIOVANNI.  Lascia stare quel lavoro lí. Il bacio te l'ho già dato. Non ti domando piú niente. Non puoi restare con me?

RITA. Ma se viene la signora Anna? Che dirà?

GIOVANNI   (con aria d'importanza). Puoi ben immaginare che io ho preparato tutto. Anna non ritornerà che di qui a due ore.

RITA. Se me l'aveste detto prima avrei lavorato meno.

GIOVANNI   (siede al tavolo). Siedi, siedi qui a me da canto.

RITA. A patto siate buono.

GIOVANNI.  Non c'è scopo di non essere buono. Io sarò buono... sarò buono... finché tu non mi dirai di essere altrimenti.

RITA. Come dite?

GIOVANNI.  Lascia ch'io dica quello che voglio. Non interrompermi, non correggermi.

RITA. Sta bene, padrone.

GIOVANNI.  E non dirmi padrone. Non posso sentire quella parola. La dirai, la dirai ma soltanto in presenza di Anna. Per oggi dovresti dirmi: Mio... Dimmi semplicemente Giovanni.

RITA. Non potrei signor padrone.

GIOVANNI.  E almeno non dirmi padrone. Mi fa proprio male... come una seconda operazione... alla rovescia. Cosí si va in dietro, anzi avanti, alla rovina e alla vecchiaia. Capisci?

RITA. Io non capisco, pa... Io non capisco. Dovrebbe essere tanto bello di essere il padrone.

GIOVANNI.  E che vuoi farci? Lo sono stato per tanti anni, per troppi anni e ne sono stufo. (Carezzevole.) Io vorrei per oggi poter dire che tu sei la padrona. Posso dirlo? E accostarti come un paggio che aggredisce la sua contessa. Mi piacerebbe tanto.

RITA. Come si può pensare una cosa simile?

GIOVANNI.  Tu non lo sai, ma si può pensare tutto a questo mondo. Basta volere e si può credere che il polo nord sia andato al polo sud. Poi resta tutto come prima ma si è pensata una cosa straordinaria e perciò si diventa forti e i veri padroni di se stessi e del mondo. Intendi?

RITA. No.

GIOVANNI.  Ciò non importa perché io non ti parlo perché tu intenda. Io sto costruendo il mio mondo quest'è l'importante. (Poi dopo una pausa.) Guarda, là, sotto il buffet c'è una bottiglia di Marsala appena aperta. Apportamela con un bicchiere.

RITA  (eseguendo). Ecco, padrone.

GIOVANNI   (versando). E sia cosí giacché non sai dire altrimenti. Forse mi piace anche di essere detto padrone di una bella donna come sei tu. La sottomissione di una donna è una cosa dolce. Essendo il tuo padrone si può supporre che io possa fare di te tutto quello che voglio.

RITA  (spaventata). Oh, oh!

GIOVANNI   (spazientito). Ho detto supporre! Perché m'interrompi? Lascia che io mi mova come voglio. Che fa a te? (Poi.) Ecco, bevi.

RITA. Io bere?

GIOVANNI.  Fammi questo piacere. Che ti fa? Una volta si cominciava sempre col far bere le donne.

RITA. Ma cosí sola? E Lei?

GIOVANNI.  A me il dottore ha proibito il vino.

RITA. Ma io... cosí... in Sua presenza non bevo.

GIOVANNI.  E allora dà un bicchiere anche a me. Già il dottor Raulli non sa che io non sono piú suo cliente.

RITA. Eccolo. (Eseguisce, Giovanni versa.)

GIOVANNI.  Beviamo insieme. Uno, due, tre. Su. (Vuotano il bicchiere.) È buono. A me fa grande piacere di bere insieme a te. Prima di tutto si fa qualche cosa veramente insieme. Eppoi anche a me piace che quelli che dipendono da me abbiano le loro ore di svago.

RITA. Questo sí ch'è molto ben detto. Nevvero?

GIOVANNI.  Oh, come sto bene. Si capisce dal mio benessere che l'operazione è pienamente riuscita. È la prova decisiva. Quel vecchio maiale, quello che vuole domani andare a passeggio con me... Come si chiama?

RITA. Io non lo so.

GIOVANNI.  Il nome non ha importanza. Quel vecchio maiale diceva che una volta fatta l'operazione era importante di vedere come ci si comportava con le donne. Tante volte i vecchi maiali hanno ragione. Nella mia lunga vita io l'ho osservato. Il vecchio casto invece è piú vecchio dei vecchio maiale. Con te io sto splendidamente bene. (Stirandosi.) Gli ebrei diedero una donna al re Davide. Il quale non la volle e per questo perí miseramente. Io non sono tanto bestia. Bevi. (Le versa.)

RITA. Se beve con me.

GIOVANNI   (versando anche nel proprio bicchiere). Perché no? Già il dottor Raulli con me non c'entra piú. (Bevono, poi.) Ma io vorrei renderti contenta e felice. Avevi cominciato ad approvarmi e saresti mia grande amica se ti facessi tante camere. Se tu avessi un desiderio, dimmelo te ne prego. Io darei la mia vita perché su quella faccina ci sia la gioia, la vera espressione della giovinezza. La giovinezza non mi basta mai.

RITA. Ma finché la casa è diretta dalla signora Anna non c'è nulla da fare per me. Essa vuole l'ordine.

GIOVANNI   (inquieto e guardandosi d'attorno). Ma perché dici cosí? Anna è una buonissima donna, buona con le persone e buona persino con le bestie.

RITA. Specialmente con le bestie.

GIOVANNI   (ridendo di cuore). Questa mi piace: Specialmente con le bestie... con le bestie innocenti. Ma è buonissima anche con me.

RITA. Questo è facile. Il marito è il marito. Anche a me dice di voler bene. Cento volte al giorno mi dice: Cara Rita, fai questo, fai quello... e finisce che a forza di essere accarezzata alla sera le gambe non mi reggono.

GIOVANNI.  Ma un certo ordine in casa dev'esserci. Che cosa farei io se non trovassi le mie cose al loro posto, quando alla sera mi corico e alla mattina mi levo?

RITA. Per quelle poche cose, il bicchiere di latte, i vestiti e cosí via poco ci vorrebbe.

GIOVANNI.  E pensa che il latte io non lo prenderò piú. L'ho deciso or ora. Questo fa meglio. (Beve.) Maledetto quel dottor Raulli. Dev'essere vero quello che dice Guido: Quando si sa troppo di una cosa non se ne capisce piú una maledetta. Guarda quello che a quello studentucolo di mio nipote riuscí di fare per me. Eppure, in verità, io credo non sappia molto.

RITA  (commossa). È molto bravo quel signor Guido.

GIOVANNI.  Molto, molto bravo. E dimmi: Volendo farti piacere e d'altronde tenere in ordine questa casa, che cosa si dovrebbe fare?

RITA. Siamo in tre che serviamo e visto che vorremmo lavorare la metà di quello che si lavora ora, bisognerebbe prenderne altre tre. E ancora una che tenesse in ordine le nostre stanze perché avendo da lavorare per gli altri non sappiamo lavorare per noi. È tutto sudicio in quelle stanze.

GIOVANNI   (imbarazzatissimo intanto beve, poi). E bisognerebbe dar da mangiare a tutte queste donne?

RITA. Eh, già. Forse nella cucina si potrebbe fare una piccola differenza fra noi e loro.

GIOVANNI.  Davvero credo non si possa fare tanto. Pensa che costerebbe piú che l'operazione... all'ora, dico. Ne farò il conto. Aspetta. (Prende dalla tasca il libriccino e la matita eppoi inforca gli occhiali. Indi si pente e rimette tutto a posto.) Ma lasciamo stare. Non ho tempo ora di far conti. Eppoi che c'entrano ora qui la cuoca e la serva? Non mi pare ch'è questo il momento di proclamare uno sciopero generale. Parliamo di te. Non si potrebbe - quando io diverrò giovine sul serio e saprò saltare e sottopormi a degli sforzi - organizzare le cose in modo ch'io stesso t'aiuti nel tuo lavoro? Senza che Anna se ne avveda? Non costerebbe nulla e per me sarebbe un grande svago.

RITA  (ridendo). Sarebbe un bel lavoro cotesto.

GIOVANNI.  Ridi perché non sai. Ma i dotti sono meglio informati di te. Io troverò il modo di farti parlare una volta col dottor Giannottini. L'operazione è d'esito sicuro. Soltanto che quel vecchio maiale... come si chiama?, ha detto che l'esito deve vedersi dal contegno con le donne. Perciò occorrono le donne! Devi intendere: Non si tratta piú di un vizio, di una cosa abbominevole e abbominata, ma di una giusta, legittima... santa difesa della propria salute e della propria giovinezza. Io altrimenti non accetterei di dedicarmivi perché io sono e sono stato sempre un uomo casto. In quanto a te, se collabori... (Versa del vino nel proprio e nel bicchiere di Rita e beve.) Come dicevo? Ah, sí! Se collabori a tale opera igienica ne avrai sicuramente il premio. Lo avrai da me, dapprima, che farò per te quante camere vorrai e poi anche lassú. Certo anche lassú! Mi pare che tutte le religioni prescrivano di onorare, aiutare e proteggere i vecchi. E si è vecchi anche quando si è ringiovaniti... voglio dire che si ha tuttavia il diritto a rispetto e protezione... sí, perché gli anni che si hanno, quelli restano tuttavia al loro posto. Non si possono cancellare.

RITA. Aiutare? E che cosa ne dirà Fortunato?

GIOVANNI   (malsicuro e seccato). Fortunato? A lui certamente è difficile di spiegare tante cose. Eppoi anche se comprendesse... non si lascerebbe convincere. Oh, io ricordo tutto. I maschi pensano all'onore. Sono egoisti. Neppure per aiutarmi in una cosa tanto importante, in questa semplice cura egli s'accontenterebbe. (Imperioso.) Io direi di non dire nulla a Fortunato. Che diritto ha lui di saperne qualche cosa? Non sono io il padrone suo e il padrone tuo?

RITA  (maliziosa). Io trovo che tutti dovrebbero essere avvisati. Anche la padrona, la signora Anna.

GIOVANNI   (pensieroso). Anna? Eh, già! (Poi.) Ma io penso che se è una buona moglie ne sarebbe contentissima. (Poi.) Ma pur credo sia meglio di non dirgliene nulla. Aspetta che ci pensi. (Beve.) Mi pare che il marsala chiarisca le idee. Aspetta. (Poi.) Lui, lei! Dio mio quali complicazioni per fare una cura. (Poi.) Sai, non pensiamoci piú. Io non dico nulla ad Anna e tu non dici nulla a Fortunato. Cosí siamo pari e patta.

RITA  (ridendo di cuore anch'essa presa un poco dal vino). Bravo, bravo il vecchietto. Come sa regolare tutto.

GIOVANNI   (seccato). Vecchietto? Già, vecchietto è già piú giovane di vecchione. Ma non dirmi cosí. Mi dispiace, mi turba, m'impedisce. (Poi.) Si capisce che in quindici giorni l'operazione non poté ancora avere tutto il suo effetto. Io vorrei solo vedere se ci sono avviato. Senti! Vorresti sedere sulle mie ginocchia?

RITA. No, no! (Infastidita.)

GIOVANNI.  Mi piace che tu non subito abbia accettato. Te ne prego, siedi sulle mie ginocchia. Guarda! Non ti toccherò, non ti bacerò. Ma accetta di sedere sulle mie ginocchia. Guarda come ti prego. È il tuo padrone che prega.

RITA. Ebbene! Se vi fa tanto piacere. Visto che l'operazione non ebbe finora successo, si può.

GIOVANNI.  Non dire cosí, te ne prego. M'impedisci. Siedi, siedi, adagiati. E adesso dovrei vedere la vita farsi bella, grande, lucente. (Dopo un'esitazione.) Ahi! Ahi! Mi fai male. Alzati, te ne prego. Mi muore la gamba.

RITA  (si leva ridendo). Ma io non volevo. Foste voi a volerlo. (E mentre Giovanni si frega la gambe.) State meglio?

GIOVANNI.  Sí, sí! Devi aver poggiato su una vena. (Si alza e cammina zoppicando.) Va meglio, va meglio. S'era addormentata la gamba. Adesso sento come un'inondazione di formicole. Curioso.

RITA  (versa il vino nei bicchieri, allegrissima). Padrone un bicchiere vi farà bene. Amore e vino.

GIOVANNI   (bevendo pensieroso). Ecco il vino. Ma l'amore? Aspetta. Siederemo su questo sofà. Qua! Io porrò il mio braccio intorno alla tua vita. Come se fosse un serpe, un vero serpe. Il serpe di Eva. Bella quella storia del serpe. Cosí! L'amore dev'essere comodo. (Pian pianino poggia la testa sulla spalla di Rita.) Sai cantare?

RITA. Perché?

GIOVANNI.  Per cantare.

RITA. Dovrei cantare qui nel tinello della signora?

GIOVANNI.  Se te lo permetto io. Non sono anche il padrone, io?

RITA. Ebbene, volete che vi canti Valencia? (A mezza voce canta "Valencia".)

GIOVANNI.  Aspetta, aspetta. Non conosci qualche altra canzoncina piú espressiva, piú sentimentale? Che cosa può importare a me di quella città Valencia?

RITA. Che canzone volete? Io le so tutte. Un Charleston?

GIOVANNI.  Aspetta, aspetta che pensi. (Beve, poi.) Conosci quella canzone (canta) Sempre sol Morettina tu mi lasci, sempre sol, senz'amor. Io purtroppo non so cantare, non lo seppi mai per quanto mi piacesse. Ma ricordo che una volta mi trovavo con Pauletta... una certa Pauletta... che si moveva come te... ma del resto non ti somigliava... era piú docile di te... curioso... quand'ero giovine le donne erano piú docili... e anche piú belle. Devi sapere che questa canzone era cantata da tutti. Non cantavo io e non cantava Pauletta. Ma quando eravamo insieme echeggiava dalla strada e dal piano di sotto e dal piano di su. La conosci tu questa canzonetta? È la vera canzonetta dell'amore.

RITA. Mai sentita.

GIOVANNI   (che da qualche istante lotta col sonno). Anche in questo sei differente da Pauletta che non la cantava, ma la sapeva. Anna zufola talvolta, ma senza dolcezza e ciò è male. È meglio allora di non sapere la canzone. Tanto meglio!

RITA. Ed io non la so.

GIOVANNI.  Brava, brava. Per cantare quella canzone bisogna sentire. Ascolta che te la spieghi. Se Morettina mi lascia io sono solo anche in mezzo a milioni di miei simili. Intendi tutto il grande senso delle poche parole? E sono senz'amore... finché non ne trovo un'altra. Come sono stanco! Mai non fui tanto stanco. Dev'essere dal pensare all'amore, dal fare... Stanchezza benefica. Come la stanchezza dopo la battaglia e anche prima della battaglia... non durante la battaglia. Cosí, accanto a te. Il sonno... che dolcezza! (S'addormenta.)

RITA  (se ne accorge, si svincola dolcemente da lui e gli fa posare la testa sul dorso del sofà).

GIOVANNI   (mormora). Vieni, Pauletta. (Poi russa.)

RITA  (in piedi si stira). Che vecchio asfissiante! (Si mette a riposare sulla poltrona, zufolando "Valencia". La canzone le muore poi sulle labbra perché s'addormenta anche lei.)

SCENA QUINDICESIMA

EMMA, ENRICO e DETTI

EMMA.          Che c'è qui?

RITA  (subito destata). Stava qui nettando le maniglie della stanza.

EMMA.          Non voglio sentire. Netti avanti le maniglie. (S'avvicina al padre.) Dorme! (Con un singhiozzo.) Dorme! Come se avesse la coscienza tranquilla.

RITA. Badi, signora, che la coscienza tranquilla la può avere. (Tentando invano di darsi un contegno.)

EMMA.          Taccia, lei.

ENRICO.       Io credo in verità...

EMMA.          E anche Lei potrebbe tacere. Non ci fa mica una bella figura Lei d'essere stato a guardia là fuori. Bisogna essere... fuori di senno per fare una cosa simile.

ENRICO.       Ma io ero là fuori perché il signor Giovanni ha voluto cosí.

RITA  (cadendo seduta su una poltrona). Ero presente io, lo posso testificare.

EMMA           (fuori di sé). È ubbriaca, è ubbriaca. (Corre via.)

ENRICO.       Ma signora! Che c'entro io se essa è ubbriaca? (La segue. Lunga pausa durante la quale Rita stirandosi e fregandosi gli occhi tenta di riaversi e Giovanni russa.)

SCENA SEDICESIMA

ANNA, GUIDO e DETTI

GIOVANNI   (mormora). Sí, Pauletta. Tutto quello che vuoi. (Poco distinto.)

ANNA.           Che dice? Dorme? E che significa quella bottiglia e quei due bicchieri?

RITA. Io netto qui le maniglie... Il signor Giovanni offerse un bicchierino qui al signor Guido. (Con un gesto di supplica verso Guido.)

GUIDO.         Sí, sí. Fu molto gentile. (Esitante.)

ANNA.           Bisognerebbe lasciarlo dormire. Io credo che il suo berretto di notte si trovi nella tasca della sua giubba. (Lo leva delicatamente di una tasca della giubba di Giovanni e lo pone sulla sua testa.) Ci vorrebbe anche una coperta per coprirlo. Va a prendere quella ch'è sul sofà nella camera qui accanto. (Rita obbedisce.) Davvero mi pare che l'operazione abbia avuto un effetto magnifico. Soffriva tanto d'insonnia!

GUIDO.         Comincio a crederlo anch'io. (Di malumore.)

ANNA.           Cominci appena a crederlo? Tu che l'operazione consigliasti?

GUIDO.         M'aspettavo un effetto piú tardo. In quindici giorni! È meraviglioso persino per me.

(Rita apporta una coperta che Anna stende dolcemente sul dormente.)

ANNA.           E adesso chiudi quelle persiane. Si può farlo liberamente ora. (Nell'oscurità i tre stanno uscendo a sinistra.) Rita, tu rimarrai nella stanza accanto per sentirlo se chiama. Avviserò tutti di non far rumore. (Escono.)

GIOVANNI   (interrompe il russare per mormorare). Sempre insieme, Pauletta.

Scende un velario trasparente che lentamente s'addensa.

INTERMEZZO

Al proscenio. Di tempo in tempo si sente il russare di Giovanni.

GIOVANNI   (vestito e figura identici a quelli dell'atto II, ma i movimenti giovanili e sicuri). Rita, Pauletta! A me, a me. Fate presto perché il tempo va via.

RITA  (accorre anch'essa esattamente vestita come nel secondo atto). Eccomi, padrone.

GIOVANNI   (va a lei correndo). Ecco ti afferro. (La prende per la mano.) Padrone, dicesti? Allora tu non sei Pauletta; tu sei Rita.

RITA. Io sono Pauletta, padrone.

GIOVANNI.  Ma se m'appelli padrone non sei Pauletta che anzi - poco ci mancò - stava per divenire la padrona mia, la mia Anna.

RITA. Tu sei il padrone di tutti perché sei vecchio, perché sei giovine.

GIOVANNI.  Oh, finalmente, la vita si fa bella e chiara. Questa ci voleva. Io sono il padrone delle donne. Sai, Pauletta! Io lo merito perché sempre ti pensai. Quando dicevano in mia presenza la sola parola morettina, sentivo un colpo al cuore. La sai tu la canzone nostra, quella che noi due mai cantammo ma che si udiva da tutti quando noi due si parlava d'amore?

RITA. L'ho dimenticata.

GIOVANNI   (severo). Questo è male. Avresti potuto stare piú attenta. Eppure sei giovine. Lascia che ti veda. Già, si capisce. La morte conserva. Anche di Valentino si potrà dire ch'è schifoso ma mai piú si potrà dargli del vecchio. Ma che facesti per tanti anni senza di me?

RITA. Ti attesi!

GIOVANNI.  Brava, brava. Questo mi piace. La donna passiva che attende. Attende finché Sigfrido arriva. Ma perché non venisti prima a me che t'attendevo?

RITA. Aspettavo l'operazione.

GIOVANNI.  Ed io la feci solo per te. Senti come parlo bene d'amore? L'ho riappresa quell'arte, l'ho intera. Ti faccio un grande regalo dicendoti di essermi sottomesso all'operazione solo per te. Già queste mie parole provano che l'operazione ebbe il suo effetto. E lasciami parlare ancora intanto che ti tengo afferrata per la mano, resistendo al desiderio che già sento d'impadronirmi delle tue labbra. Sai, Pauletta, io quella volta t'avrei sposata se tutti non mi fossero saltati addosso. Ti movevi come una civetta, dicevano, eppoi si diceva che amavi il lusso e m'avresti succhiato il sangue.

RITA. È vero il lusso l'amavo molto.

GIOVANNI.  E avevi ragione. Anch'io l'amo. Me ne intendo io. Anche spogliate le donne son piú belle se erano state vestite bene. E adesso che sei con me dovrai essere sempre spogliata oppure vestita bene. Sempre. Io ho speso molto per l'operazione ma questa spesa nuova sarà necessaria. Perché altrimenti non c'era scopo di operarsi. Io non son un uomo avaro e debbo pagare quello che occorre. Non di piú ma tutto quello che occorre. Però che c'entravano gli altri a gridarmi sulle orecchie che m'avresti rovinato e impedirmi di fare quello che avrei voluto per te e per la mia salute?

RITA. Le donne belle sono amate da pochi e odiate da tutti gli altri.

GIOVANNI.  Sí, dev'essere questo. Ed io, sciocco, che li ascoltai! Ma adesso che tutte le cose ricominciano, io farò quello che voglio. Voglio te, non voglio altri.

RITA. E mi darai tutto? La ricchezza, il tuo tempo, la tua salute?

GIOVANNI.  La mia salute? A che ti occorre? Quella occorre a me. È proprio quella ch'io m'aspetto dall'operazione e da te.

RITA. Sai, la donna dà la salute, ma la toglie anche.

GIOVANNI.  Perché? Perché la toglie se la dà?

RITA. La toglie senza volerlo, poverina. Poi piange essa stessa. Ma è fatta cosí: Ha bisogno di tutto quello che hai eppoi di molto di piú.

GIOVANNI.  E allora io avevo ragione di non dire ad Anna quello che posseggo?

RITA. Se s'accontentò non è una donna quella.

GIOVANNI   (convinto). Infatti, non è una donna quella. E allora per farmi contento vuoi anche la mia salute?

RITA  (sorridendo). Non cosí subito.

GIOVANNI.  Ma io darò anche la salute per avere la salute. Andiamo, sii mia.

RITA. Io sarò tua. Ma voglio che tu ammazzi Anna.

GIOVANNI.  Niente di piú facile. Io mi sento forte ed essa è debolissima.

RITA. Lo prometti?

GIOVANNI.  Ben volentieri. Dammi le tue labbra.

VELARIO

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

EMMA e GUIDO

EMMA.          Ho voluto parlare con te prima di prendere una decisione. Tu dunque credi che una volta fatta quell'orribile operazione non c'è piú salvezza?

GUIDO.         Non c'è piú salvezza? Anzi la salvezza è intera. La salvezza è anzi troppa. (Con una certa tristezza.) Quel benedetto vecchio sorprese me pure. Com'è giovine! Intraprendente!

EMMA.          Ma sii sincero. L'effetto dell'operazione durerà dieci, quindici, venti giorni. Io ti perdono se hai fatto spendere tanti denari a papà ma sii sincero. Io quasi quasi prima di prendere una decisione consulto il dottor Raulli.

GUIDO.         Che cosa saprebbe dirti il dottor Raulli che io non saprei dire meglio? L'operazione, una volta che ha raggiunto il suo primo effetto raggiunge il suo ultimo con piena sicurezza. Io non mi sorprenderei neppure se vedessi ricrescere i suoi capelli. Già mi pare che quella sua testa produca una lieve peluria.

EMMA.          E allora ho perduto anche il babbo. Il marito mi morí perché fuori di tempo invecchiò... (Singhiozza.)

GUIDO.         Ma non è mica detto che perché egli è ringiovanito si faccia meno affettuoso, meno paterno. Anzi! Che cosa ve ne potevate fare voi di quel vecchio che lasciava andar sotto agli automobili i fanciulli che gli erano affidati?

EMMA.          Il fanciullo con lui era sicurissimo. Mai gli avvenne nulla di male. (Poi.) Io in questa casa non resto piú oltre. Accanto ad un vecchio che si dedica agli amori ancillari! M'allontano se non altro per evitare ad Umbertino il cattivo esempio.

GUIDO.         E con chi vuoi ch'egli faccia all'amore? Non teniamo mica delle regine in casa.

EMMA.          Oh, non scherzare, te ne prego. E quel signor Enrico! Faceva la guardia alla porta.

GUIDO.         Questo poi non è vero. Il signor Biggioni aspettava Umbertino per andare a passeggio con lui.

EMMA.          Macché! Lo sorpresi proprio mentre attendeva al suo bel mestiere. Non m'aveva ravvisata nell'oscurità del corridoio e saltò fuori dal suo camerino per fermarmi dicendo che babbo voleva rimanere solo. Poi s'arrestò e si confuse in scuse. È interessato in quell'affare dell'operazione. È inutile negare. Me lo raccontò lui stesso. Presentò la cosa come se avesse partecipato all'impresa per favorire te. Invece da quell'accorto commerciante ch'è, vi partecipò per far denari corrompendo anzi distruggendo i vecchi. Ed ora assiste all'esito, lo sorveglia, ne gioisce. Con un'immoralità da negriero.

GUIDO.         Ma che vuoi che gl'importi a un uomo ricco come lui? Sottoscrisse un'azione. 20/m. lire. Misere 20/m. lire. Le ho anzi ancora in tasca. Ma è curioso dica di avervi partecipato per favorire me. Mi permetti di fargli un rimprovero?

EMMA.          Oh, fa pure. Io sapevo che non era vero. Che può importare a te se egli vuole fare degli affari?

GUIDO.         Certo non m'importa proprio niente. Io credo però ch'egli credette di fare un favore a me che sono tuo congiunto come fa dei favori alla zia e come si sbraccia per il tuo bambino.

EMMA.          In quanto al bambino non lo vedrà piú. Non lo affido ad un uomo simile. Già da tempo avevo osservato che il fanciullo diceva delle cose curiose dacché si trova tanto spesso insieme al signor Biggioni. Aspetta che ricordi. Ah, sí! Al figliuolo della nostra vicina che diceva di essere suo amico disse: Amici? Ma io mangerò te. E quando l'altro stupito protestò egli aggiunse: Fra amici ci si mangia sempre, altrimenti non si può essere veri amici. Da chi può aver sentito una cosa simile se non dal signor Biggioni?

GUIDO.         Ma è impossibile. Il mite signor Biggioni avrebbe detto una simile cosa?

EMMA.          Dice, dice delle cose simili. Niente gli è sacro a lui. Finché visse Valentino non m'offese con una sola occhiata. Valentino era ancora caldo nella bara che egli mi aggredí con proteste e proposte.

GUIDO.         Che tu faresti bene di considerare. Specialmente adesso che vuoi staccarti da tuo padre. Vivrai cosí sola, sola con quel bambino che già ti nasconde.

EMMA.          È il mio destino, è il mio dovere.

SCENA SECONDA

GIOVANNI e DETTI

GIOVANNI.  Dormii come un angelo, un angelo con un po' di male alla testa.

EMMA.          Il male di testa... tu saprai a che cosa lo dovesti. Bevesti troppo. Quando io arrivai tu dormivi e la bottiglia era quasi vuota.

GIOVANNI.  lo bere? Bevetti un bicchierino e nient'altro. Due bicchierini... tre... mi pare.

EMMA.          Molto, troppo.

GUIDO.         Davvero, zio, lei non fa bene di bere. Mi permette di toccarle il polso? (Trae dalla tasca l'orologio e prende il polso di Giovanni.) Un polso ottimo. Un po' troppo vivo.

GIOVANNI   (lietissimo). Un po' troppo vivo, eh? Era da molto tempo che non era tanto vivo.

GUIDO.         Non è bene di sfruttare in tale modo la propria forza.

GIOVANNI.  Tu dici che non bisogna sfruttare la propria forza? Ma allora sarebbe inutile di averla! Che cosa posso fare della mia forza se non debbo sfruttarla?

GUIDO.         Goderne.

GIOVANNI.  Goderne? (Fa dei piccoli movimenti che accennano a ginnastica.) Cosí?

GUIDO.         Circa.

EMMA.          Padre mio, io avrei da parlarti.

GIOVANNI.  Eccomi, di' pure, cara.

EMMA.          Io mi trovavo benissimo con te e la mamma, ma ora vorrei ritornare a stare sola col mio Umbertino. Ho già trovato il quartiere. Vi farò trasportare i miei mobili che avevamo depositato e di qui a otto giorni spero di poter andar a stare sola.

GIOVANNI   (balbettando). Tu vuoi... tu vuoi lasciarci... me e la mamma? E perché?

EMMA.          Vorrei mi sia permesso di non dirlo.

GIOVANNI.  Eh, già! Tu sei sposata, tu sei vedova, e sei padrona del tuo destino. Certo, non hai bisogno di dare delle spiegazioni. Vuoi andare a stare sola. Ecco tutto. È il tuo diritto. Si capisce come io abbia fatto bene di non voler piú rimanere tanto vecchio. Tutti abbandonano i vecchi.

EMMA.          Padre mio! Io non volevo parlare, ma tu mi vi costringi. È proprio perché non sei piú vecchio ch'io debbo abbandonarti.

GIOVANNI.  E perché, perché? Non sono migliore di prima, piú vivo piú abile, piú accorto. Voi che mi seccaste tanto con quella sciocca avventura dell'automobile, non potreste ora essere soddisfatti che mi si può affidare benissimo la tutela del fanciullo?

EMMA           (singhiozzando). Io credo che il mio fanciullo abbia bisogno dell'esempio di un vecchio e non di un giovine.

GIOVANNI.  Non capisco! Che cosa può sapere il bambino di quello ch'io sono? Non mi ricrescono né i capelli né i denti.

EMMA.          Oh, i bambini scoprono tutto, sentono tutto.

GIOVANNI   (dubbioso). Eh, via. Tu credi che Umbertino sappia qualche cosa?

EMMA.          I fanciulli non sanno. Sentono! Imitano. Se resto qui chi verrà a contatto col bambino? Tu e Rita. Vedi bene che non è possibile.

GIOVANNI   (stupito). Io e Rita! Io e Rita? Ma quando il bambino poté vedere insieme me e Rita?

EMMA.          Come mi trovai io, avrebbe potuto trovarti anche lui.

GIOVANNI.  Impossibile! C'era là fuori il signor... Biggioni che stava attento.

EMMA.          Questa volta. Ma intanto se io resto in questa casa esigerei che il signor Biggioni non ci metta piú piede.

GIOVANNI.  Anche a me è antipatico e non me ne importa affatto. Lo sopportavo per fare un piacere a te. Ieri lo misi fuori solo perché non lo volevo qui dentro e lui s'ostinava a rimanere qui. Io di Pauletta non ho mica bisogno sempre. Come fanno gli altri giovini? Hanno bisogno di dare scandalo?

EMMA           (sbigottita). Pauletta?

GIOVANNI   (confuso). Pauletta? (Poi.) Sí, Pauletta, Rita... Non so bene.

EMMA           (guardandolo spaventata). E che cosa dirà la mamma?

GIOVANNI   (stupito). La mamma? Anna? Ah, sí. Devo pregarti di non dire nulla. Naturalmente nessun giovine dice nulla alla moglie.

EMMA.          Padre mio, io resto con te, io devo restarti accanto per proteggere te, per proteggere la mamma.

GIOVANNI.  Brava la mia figliuola. Restami accanto ed io proteggerò sempre te e il tuo figliuolo se tu starai attenta che la mamma non sappia nulla. Io ho capito bene quello che tu dici. Tu hai paura della mia immoralità. Ma non è mica grande, sai. Io amo la moralità, io l'ho sempre amata. Ma ora, con quella operazione addosso, io non posso essere morale per tutte le lunghe ventiquattro ore della giornata.

EMMA.          Ma perché la facesti?

GIOVANNI.  Posso però essere morale per la maggior parte di esse... purtroppo. Perciò è facile. Una cosa un po' piú difficile è un'altra. Io vorrei che oramai a Pauletta... cioè a Rita sia fatta tutt'altra posizione in casa nostra. Essa si lagnò molto con me del lavoro che ha in casa. Non potresti adibirla alla sorveglianza del bambino? Il bambino è già grande. Sa sorvegliare se stesso e guardarsi dalle automobili. Perciò non ci sarebbe molto da fare intorno a lui. Ti sarei tanto grato se tu potessi farmi questo piacere.

EMMA.          Come vuoi ch'io faccia una cosa simile? Mamma si accorgerebbe...

GIOVANNI.  Ma Anna non guarda e non vede. Se tu sapessi come Anna è lontana da tutte codeste cose. Dio mio! Da quanti anni non ci pensa. M'aveva promesso amore e la nostra vita fu d'amore solo per un brevissimo periodo. Essa vuole solo restare quieta, serena, attendere alle sue bestie. Mi vuole bene, questo sí! Ma come a un padre, a un figlio, a un fratello. Io anche le voglio bene cosí. Questa notte feci un sogno strano. Qualcuno, nel sogno, mi proponeva di uccidere Anna. Puoi immaginare come soffersi e come protestai. Come se qualcuno m'avesse proposto di uccidere mia madre, mia sorella, mia figlia. (Un po' incantato.) Se sapessi come anche nel sogno io protestai e come soffersi perché m'era stata fatta una proposta simile. Non era che un sogno, ma dice qualche cosa. Tu m'intendi nevvero?

EMMA           (con tristezza). È tanto facile, padre mio.

GIOVANNI.  Noi due si può certamente andare d'accordo. Perché dividerci? Io voglio bene a te e sopratutto al bambino. Può essere che per il momento m'occupi meno di lui. Ma se continuo a vivere, ridiverrò vecchio una buona volta e avrò bisogno di lui. Noi due, io e te, abbiamo tante cose in comune. Anche l'antipatia per quel signor... Biggioni. Non è il marito che faccia per te. Disgraziato! È un bambino. Si può fare di lui quello che si vuole. Se sapessi! Io scommetto che se gli do l'ordine di scopare la mia stanza egli lo fa. Di mala grazia, sai, ma lo fa. Urlando minacciosamente, ma lo fa.

EMMA.          Poverino!

GIOVANNI.  Proprio poverino e un po'... come dirò?... abietto. Non è un uomo quello lí. Insomma siamo d'accordo figliuola mia. Tu resti con me. Hai bisogno di un appoggio perché sei ancora tanto giovine.

EMMA           (decisa). Sí, resto con te. Ho bisogno di un appoggio e ti ringrazio di accordarmelo. (Lo bacia in fronte.)

SCENA TERZA

FORTUNATO ed EMMA

FORTUNATO.          Il padrone non è qui?

EMMA.          Viene subito. È andato di là a vestirsi.

FORTUNATO           (imbarazzato e esitante). Io volevo parlare con lui.

EMMA.          Sarà subito di ritorno. È andato a vestirsi.

FORTUNATO.          L'aspetterò. (Lunga pausa.)

EMMA.          Rita è tuttora a letto?

FORTUNATO.          Sí! Soffre tuttavia di mal di testa. Non può levarsi per oggi. La signora Anna ha fatto chiamare il dottore. (Pausa). Già, Lei a quest'ora sa l'argomento che ho da esporre al padrone. Io non resto piú in questa casa ed io non sposo Rita. Quella non è una donna che si sposa. Come starei al volante? Le mie corna spezzerebbero il parabrise.

EMMA.          Io non capisco quello ch'Ella dice.

FORTUNATO.          Oh, Ella sa tutto. Non posso credere che ogni parola di Rita sia bugiarda, tanto piú ch'essa parlò subito, ancora ubbriaca, offuscata dalla stanchezza, dal sonno. Mi disse: Fummo svegliati dalla signora Emma che capitò nella stanza. Dove la bugia cominciò è nell'asserire ch'essa si trovava qui assieme al vecchio signore, il mio padrone. Come se il vecchio signore sarebbe disposto di perdere il suo tempo con una fantesca. Con quale scopo poi? A quell'età egli ha altri pensieri. Io da lungo tempo avevo indovinato due cose: Prima di tutto che Rita era insidiata da quel signor Guido che davvero non sembrerebbe possa appartenere alla stessa vostra famiglia. Mi perdoni se parlo di lui con tanta libertà ma l'ora dei riguardi è passata per me. La seconda cosa cui io avevo ragione d'aspettarmi era che Rita si preparava di difendersi dai miei sospetti sul signor Guido fingendo di essere insidiata dal vecchio signore. Mi parlò a lungo di operazioni e che so io che dovrebbero rendere pericolosi anche i vecchi.

EMMA.          Le operazioni esistono.

FORTUNATO.          Ma non parliamone. Nessuno che abbia un po' di pratica della vita ci crede. E ieri quel signor Guido - quel furfante - io non posso avere riguardi per nessuno, ubbriacò Rita. Era ubbriaca fracida. Io me ne intendo. Dica se non è un'azione obbrobriosa. La fanciulla quasi vaneggiava. Si capisce che in quello stato si poteva abusare di lei. Io non la sposo. Nel mio furore mi misi a parlarle del signor Guido e per tutta risposta ella si mise a ridere, ridere sgangheratamente. Poi come si avviò al sonno il suo riso sguaiato si mitigò e quando s'addormentò sulla seggiola in cucina quel riso lasciò delle traccie in un sorriso che non sparí piú. Forse ancora questa mattina essa sorride ancora se ancora dorme. Io non la sposo e voglio subito lasciare questa casa.

EMMA.          Senta io posso andare di là da mio padre. Vuole gli racconti tutto io? Non sarebbe meglio? Forse se apprende una cosa simile di Guido egli potrebbe anche essere capace di interdirgli l'accesso a questa casa.

FORTUNATO.          Non servirebbe piú a niente oramai. Chiudere la stalla ora che la mucca è fuggita?

EMMA.          Ad ogni modo lasci che gli parli io. Lei ritorni giú in giardino e aspetti che la chiamerò.

SCENA QUARTA

ENRICO e DETTI

ENRICO.       Signora, scusi se oso ancora presentarmi a Lei ma prima di rinunziare a vederla altro, vorrei darle qualche spiegazione...

EMMA           (mitemente). S'accomodi signor Enrico. Sieda! Sono subito con Lei. (A Fortunato.) Allora siamo d'accordo. Io parlo con papà e La chiamo subito. Papà ha da uscire ma lo indurrò, ad attenderla.

FORTUNATO.          Sta bene signora. (Esce.)

ENRICO.       Signora, io vorrei una parola di spiegazione. Ieri, per avermi trovato in quella posizione a questa porta Ella mi disse delle parole che profondamente mi ferirono.

EMMA           (confusa). Mi dispiace di averle detto quelle parole. Poi ho saputo ch'Ella si trovava a quel posto per attendere Umbertino.

ENRICO        (guardandola confuso e sorpreso). Grazie signora. M'è dolce ch'Ella mi rivolga una parola piú dolce ora che non avremo da rivederci piú. Ma io vorrei dividermi da Lei con piena chiarezza e sincerità. Io quella parola dolce, la prima ch'ebbi da Lei dopo ch'è morto il povero Valentino, io non la merito. Perché è vero ch'io aspettavo Umbertino ma è anche vero che avevo l'incarico di rimanere a quella porta e sorvegliare che nessuno turbasse il vecchio signore intanto che faceva l'esperienza dei risultati dell'operazione.

EMMA           (abbattuta). Oh, oh!

ENRICO.       Ha visto che neppure il suo cocchiere non mi saluta? Ha ragione. Un giorno, per compiacere il signor Guido, lo allontanai dalla cucina per pregarlo di darmi delle spiegazioni sul funzionamento della sua automobile. Intanto Guido aveva mano libera in cucina.

EMMA.          Ma questo è turpe.

ENRICO.       Questo non lo so perché io non potevo vedere la macchina e la cucina allo stesso tempo. Poi non m'importava d'altro che di conquistarmi l'amicizia del signor Guido. Le spiegazioni dovevano durare un quarto d'ora ed infatti durarono precisamente un quarto d'ora. Pensi la mia noia di farmi spiegare per lungo e per largo delle cose ch'io tanto meglio di lui conoscevo. Passato il quarto d'ora Fortunato voleva continuare le sue spiegazioni ma io lo interruppi rudemente. Forse fui troppo brusco e perciò egli s'accorse di qualche cosa, anzi... di tutto. Da allora non posso passare da quella parte del giardino perché immancabilmente mi piovono addosso proiettili di tutte le qualità: casseruole, pentole ancora calde e molto grosse. Fortunato si scusa ma ridendo forte.

EMMA.          E Lei? Lei non reagisce in nessun modo.

ENRICO.       Io non posso reagire. Come lo potrei quando è il mio compito d'essere simpatico a tutti? Come sarei simpatico a tutti se reagissi a tante insolenze. Per tranquillarmi penso qualche cosa.

EMMA.          Pensa?

ENRICO.       Oramai posso anche dirle quello che pensavo. Pensavo: Aspetta tu che mi perseguiti: Quando avrò sposata la signora Emma ti procurerò il premio che meriti. Adesso a Lei può importare poco di me e perciò è Lei che permette io sia qui trattato come un servo come una persona di poco o di nessun conto. Anzi mi pare ch'io sia qui trattato da tutti nel modo di cui Ella diede l'esempio. Ma se fossi riuscito di prendere il posto del povero Valentino, anche a Lei sarebbe importato di vedermi trattare altrimenti. Nevvero?

EMMA.          Non so. Io mai finora pensai ch'Ella potesse divenire il mio marito...

ENRICO.       Lo so.

EMMA.          Ma anche coloro che non ho da sposare non amo di vederli subalterni, servitori, inferiori. A me piacciono le persone sicure di sé e del proprio rango. Il povero Valentino era compiacente a tutti ma guai se qualcuno lo toccava nel vivo.

ENRICO.       Io l'ho visto belare per avere l'aiuto del suo infermiere.

EMMA.          Ma a tutti Lei sa sottomettersi meno al povero Valentino che non Le domandò nulla?

ENRICO.       È vero! Sbagliai! Sbaglio sempre io dacché... Oh, Lei sa da quale momento.

EMMA.          Io lo so. E questo non so perdonarle. Lei sbaglia in tutto dacché è morto il povero Valentino. Non sarebbe meglio ch'egli fosse ancora vivo?

ENRICO        (esita un istante). Certo, certo. Ed una cosa io posso assicurarle. Io giammai pensai alla morte del povero Valentino finché egli non morí. Lo giuro! Poi...

EMMA.          Non dica quello che avvenne poi. Non continui a fare degli errori. Io ricorderò sempre la Sua dichiarazione ch'Ella mai pensò alla morte di Valentino prima ch'egli morisse.

ENRICO.       E glielo confermo. Poi era difficile non pensarci.

EMMA.          Neppur questo occorreva dirlo. Ed ora senta ancora: Io intendo che le persone che mi vogliono bene si comportino dignitosamente, non facciano dei servizi che le abbassano. Voglio piú naturalezza ed anche piú dignità. Tutto il resto è sbagliato. Se Le dissero che per conquistarmi bisognava comportarsi altrimenti, sbagliarono o Le mentirono. M'intende?

ENRICO.       Una sola cosa io intendo: Che per la prima volta Ella di me si occupa. Adesso almeno vengo istruito da chi meglio può istruirmi. (Tenta di afferrarle una mano.) E l'istruzione potrebbe essere piú efficace ancora...

EMMA.          Lasci stare quello che non Le viene offerto.

ENRICO        (calorosamente). Io intendo, io intendo e certamente m'accomoderò a quello ch'Ella domanda. Scusi se per seguirla meglio mando a mente le sue istruzioni. Dunque: Del povero Valentino non bisogna piú parlare.

EMMA           (con sdegno). Già cosí ne parla troppo.

ENRICO.       Ma per l'ultima volta: Addio, povero Valentino, per me non esisti piú. In secondo luogo non debbo fare il servitore a nessuno. (Sospiro di sollievo.) Finalmente. Quello era un peso impossibile. Posso dire al signor Guido ch'io ritengo ch'egli è una canaglia?

EMMA.          Questo mi pare un'esagerazione.

ENRICO.       È vero. Mi pare che le esagerazioni sieno il mio destino dacché è morto il povero Valentino.

EMMA.          Di nuovo...

ENRICO.       Oh, mi lasci il tempo di rifarmi naturale. Io al signor Guido dirò che come suo futuro cugino ho il diritto di dargli qualche istruzione e mi permetterò di dargliela subito.

EMMA.          Intanto escludo che Lei parli ora di questa futura parentela con chicchessia.

ENRICO.       Anche questo è importante di sapere. Con Lei, in privato, però...

EMMA.          No, no, neppure. (Si commove profondamente e singhiozza). Ella a forza di bestialità m'ha obbligata di deviare del tutto dai miei propositi.

ENRICO        (commosso). Non pianga, non so vederla piangere. Aspetterò rispettoso l'anniversario della morte di... Col signor Giovanni mi sarà facile di comportarmi correttamente. Diamine! Lui sbaglia per troppa giovinezza e capirà subito. Deve abituarsi a fare all'amore un po' piú celatamente. Gli dirò: Fa pure, padre mio. Ma con discrezione.

EMMA.          Certo ne hanno fatto un mostro in natura. Lui che era l'onore della nostra famiglia.

ENRICO.       Vedrà, vedrà. Contribuirò a rieducarlo.

SCENA QUINTA

GIOVANNI e DETTI

GIOVANNI.  Eccomi pronto per quel noioso signor...

EMMA.          Aspetta, papà. Ho da dirti qualche cosa. È per Fortunato. È stato qui... Non saluti il signor Biggioni?

GIOVANNI   (leggermente). Buon dí.

ENRICO        (molto amabile ma semplice). Buon giorno. Spero ch'Ella abbia dormito bene dopo di quella formidabile sbornia.

GIOVANNI   (stupito trae in disparte Emma). Come ha detto? Ha detto "sbornia"?

EMMA.          Sí, papà.

GIOVANNI.  Come può osare? Ed ha, ora, un'aria tanto gentile per dirmi delle cose sgradevoli. Vuoi che lo gettiamo fuori?

EMMA.          No, papà.

GIOVANNI   (stupito). No? (Ad Enrico.) Sbornia? Io? Non ne presi giammai. Voglia notarlo.

ENRICO.       Ma noi giovani diciamo cosí quello stato in cui Ella si fece trovare iersera.

GIOVANNI   (stupito eppoi ridendo). Voi giovani? Sono cose che capitano spesso ai giovini?

ENRICO.       Ai giovanissimi specialmente.

GIOVANNI   (esita, poi non ci pensa). E che cosa vuole da me Fortunato? Perché non viene da me?

EMMA.          Perché io lo trattenni. Pensa ch'egli non vuole piú sposare Rita e vuole invece immediatamente abbandonare questa casa.

GIOVANNI   (interdetto). Ma perché? perché?

ENRICO        (sorpreso). Come non l'indovina Lei? E non ricorda quello ch'è avvenuto qui, iersera, fra Lei e Rita? Eh! via!

GIOVANNI.  Non lo ricordavo. Chi può prevedere tutto quello che può derivare da una cosa? Specialmente da una cosa di cui io non ho una grande pratica? Ma chi fu quel furfante che lo disse a Fortunato? (Minaccioso.) È stato forse Lei?

ENRICO.       L'assicuro che io non ne parlai con nessuno. Ma Rita era ubbriaca e Lei dormiva russando che tremava tutta la casa...

GIOVANNI.  Davvero russo tanto forte? (Ad Emma.)

EMMA.          Certe volte se sei molto... stanco. (Poi.) Ma il signor Biggioni non era presente quando Fortunato parlò con me. Egli sa che Rita era ubbriaca ma invece non sentí te dormire.

GIOVANNI.  Vede che non mi si sente dormire?

EMMA.          Fortunato era stato mandato da mamma in città per delle spese. Ed ora nessuno gli leva dalla testa che ad ubbriacarla sia stato Guido.

GIOVANNI   (riflettendo). E credi che se la prenderà fortemente con Guido?

EMMA.          Mi parve di sentire nella sua voce un suono di minaccia. Io ero là là per dirgli che Guido in questa storia non c'entrava e ch'eri stato tu a... sí, a dare del vino a Rita. Ma poi pensai d'interpellarti prima.

GIOVANNI.  E facesti benissimo. Io non amo storie simili.

ENRICO.       A me sembra che la signora Emma abbia fatto male di non dire subito che si trattava di Lei.

GIOVANNI.  Ma che cosa va dicendo Lei? Eppoi che centra Lei?

ENRICO.       Non bisogna ancora parlarne, ma a lui, a Suo padre, posso dirlo? Tutti in questa casa sanno ch'io amo la signora Emma e che vivo nella speranza di divenire all'anniversario che so io e che prima o poi pur arriverà, il Suo figliuolo, signor Giovanni.

GIOVANNI.  Ma come potremo far credere a Fortunato che sia stato Lei ad ubbriacare Rita?

ENRICO.       Non credo si possa. Io fui gettato fuori di questa casa e uscii quando Fortunato s'apprestava ad uscirne anche lui. Perciò mi vide.

GIOVANNI.  Che peccato.

ENRICO.       Io volevo dirle un'altra cosa, signor Giovanni. Quando a noi giovini tocca una cosa simile, noi subito accettiamo la nostra responsabilità. Io sono convinto che quando Lei ci penserà un poco troverà che a Lei non resta da fare altro che confessare a Fortunato tutto. Francamente io credo che la cosa si ridurrà a una questione di denaro.

GIOVANNI.  Una questione di denaro? Di molto denaro?

ENRICO.       Per Fortunato probabilmente non sarà che una questione di denaro. Per Lei invece è tutt'altra cosa.

GIOVANNI.  Capisco! Lui incassa ed io pago.

ENRICO.       Non è questo ch'io voglio dire. Lei ha fatto all'amore?

GIOVANNI   (trasognato). Io?

ENRICO.       Non occorre risponda. Anzi Le dirò che quando i giovani hanno fatto all'amore non rispondono. Il Suo dovere è di negare o almeno di tacere.

GIOVANNI   (trasognato). Ed io il mio dovere voglio farlo.

ENRICO.       Ma certo chi fa all'amore deve assumersi tutte le responsabilità che risultano dalla sua fortuna. Ecco che qui, ora, Fortunato se la prende col signor Guido. Questo Lei non può tollerare.

GIOVANNI.  Evidentemente.

ENRICO.       Certo sarebbe meglio di celare tutto. Ma non si può. Ella commise una leggerezza... (Giovanni sorpreso fa un cenno di protesta) capisco ch'era scusabile per la Sua mancanza di pratica ad onta della Sua età... però ringiovanita. Ma ora in casa chi piú chi meno, sa di quella Sua avventura. E perciò il Suo decoro esige...

GIOVANNI.  Il mio decoro? (Ergendosi.) Sappia, signor mio, che Ella è troppo giovine per insegnare a me quello che sia il mio decoro. Io so che cosa esiga il mio decoro ed io vi ho corrisposto sempre.

ENRICO.       Questo ammetto.

GIOVANNI.  Dunque siamo d'accordo e non se ne parli piú. Io ora vado a passeggio con quell'asino che si chiama...

ENRICO.       Boncini.

EMMA.          Padre mio, Fortunato vorrebbe parlare subito con te.

GIOVANNI.  Ma io ora non posso.

EMMA.          Il signor Boncini potrà aspettare un poco.

GIOVANNI.  E se non vuole aspettare?

ENRICO.       Che Gliene importa a Lei? Lo lasci correre.

GIOVANNI.  E lasciamolo correre allora.

EMMA.          Io chiamo Fortunato.

SCENA SESTA

RITA, subito dopo FORTUNATO e DETTI

RITA. C'è fuori quel signor Boncini che vuole parlare con lei.

ENRICO.       Lo lasci correre.

RITA. Non capisco.

GIOVANNI.  Oh, Rita. Come stai? Anna mi disse ch'eri indisposta.

RITA. Io sto benissimo.

FORTUNATO.          Scusi, volevo vedere se finalmente potevo parlare con Lei, signor padrone.

GIOVANNI   (timoroso). Tu ce l'hai con me?

FORTUNATO.          Io, signor padrone, io averla con Lei? Io ce l'ho con un membro della Sua famiglia e perciò sono costretto di lasciarla. Mi dispiace molto, ma io in questa casa non posso piú restare.

GIOVANNI   (riflettendo). Con un membro della mia famiglia? Con Guido nevvero? Certo io non sono molto d'accordo col suo modo di trattare.

ENRICO.       Ma è un'altra cosa che il signor Giovanni Le vuol dire...

GIOVANNI.  Lasci che parli io. Che c'entra Lei? So tutelare da solo il mio decoro. Il mio decoro? Non soltanto quello, ma anche la mia felicità. A questo mondo c'è anche Anna. Io voglio ch'essa ignori del tutto quello di cui qui si tratta. Mi promettete tutti il silenzio?

EMMA.          Ma certamente padre mio.

ENRICO.       Ne può essere sicuro.

GIOVANNI.  E tu Rita non hai detto nulla.

RITA. Io non so di che si tratti.

GIOVANNI.  Hai da promettere di star zitta e di non dir nulla ad Anna di quanto qui si parlerà.

RITA. Io so tacere. Per me è la cosa piú facile di questo mondo. Tant'è vero che m'è piuttosto difficile di parlare.

EMMA.          Ecco che parli troppo.

GIOVANNI.  Ed ora Lei signor Enrico si apposti al Suo posto, quello di iersera e se vede venire Anna, accorra subito.

EMMA.          Padre mio, non occorre. Mamma non rientrerà che di qui a mezz'ora. Lo so con precisione.

GIOVANNI.  E allora non c'è che da parlare. Senti, Fortunato, tu credi che Rita abbia passato il suo tempo e si sia...

FORTUNATO.          Ubbriacata.

RITA. Io non ero affatto ubbriaca. È una menzogna.

GIOVANNI.  Lascia stare. Qui non si tratta di sapere se eri o meno ubbriaca. Si deve stabilire chi ti ha ubbriacata.

FORTUNATO.          Proprio cosí. (Minaccioso.) Essa vuol darmi ad intendere ch'essa abbia passato quelle due ore con Lei, signore. È una cosa incredibile? Lei, signore, passerebbe il Suo tempo con una fanciulla, una bambina che non sa dire niente?

GIOVANNI.  E che cosa diresti se fosse proprio cosí? (Timoroso.)

FORTUNATO           (minaccioso). Io comincerei col dire che tutti voi vi siete messi d'accordo per ingannarmi.

ENRICO.       Caro amico, di me non potete credere questo. Io fui messo a guardia a quell'uscio dal signor Giovanni. Vi stetti per due ore e v'assicuro che il signor Guido per di là non passò.

EMMA.          E che vuole che faccia a me che con Rita sia stato Guido o papà? Io so dirle che quando io qui arrivai Rita dormiva su quel sofà e papà sulla poltrona.

FORTUNATO.          Oh, potessi crederlo.

RITA. A me non volevi crederlo. Io ti dicevo che non ero stata con altri che col padrone.

FORTUNATO           (corre verso Giovanni che, spaventato, si ritira). Mi perdoni, signor padrone. Io resto in casa Sua. Mai piú non la lascerei. Scusi se La disturbai.

GIOVANNI   (siede per pigliar fiato). Io perdono, io scuso. Io perdono e scuso volentieri. (Poi.) Solo che non bene capisco.

SCENA SETTIMA

ANNA e DETTI

ANNA.           La sarta non era in casa. Che fate qui tutti riuniti? Rita, hai dato il pane agli uccellini?

RITA. Non ancora signora padrona.

ANNA.           E sono già le dieci. Vai a darlo subito. L'hai almeno sminuzzato?

RITA. Solo in piccola parte, signora. Ma la colpa non è mia. È stato Fortunato a turbarmi con le sue gelosie. Credeva ch'io iersera sia stata in compagnia del signor Guido mentre io ero stata la sera intiera col signor Giovanni.

ANNA.           Cioè nettavi qui in questa camera le maniglie.

GIOVANNI   (confessando). Le permisi però di smettere e di tenermi un po' di compagnia.

ANNA.           E che male c'è?

FORTUNATO.          Ma quando seppi ch'essa era stata col signor Giovanni io stesso non trovai nulla a ridirci.

ANNA.           E a te fa piacere la compagnia di Rita?

GIOVANNI   (parla con qualche stento). Talvolta... raramente... sí.

ANNA.           E allora mi dirai quando la vuoi ed io la farò libera da ogni lavoro. E adesso su, Rita. Vengo ad aiutarti a sminuzzare il pane. (Via con Rita subito seguite da Fortunato.)

GIOVANNI.  E adesso mi tocca andare a passeggio con quel signor...

ENRICO.       Boncini.

EMMA           (abbracciandolo). Addio, papà. Come ti voglio piú bene, ora. Mai piú mi staccherò da te.

GIOVANNI   (riflettendo). Oh, io non sono tanto ottuso come voi credete. Ma aspettate. Non è detta l'ultima parola. Io voglio pensarci... intendere. (S'avvia per uscire, poi ritorna.) Io credo di aver capito quello che voi pensate. Solo... non so bene quello che pensi io. (S'avvia e poi ritorna.) Certo, qui non vi possono essere dei dubbi. O l'operazione c'è o non c'è. Se c'è io debbo essere un altro di quello ch'ero e voi non potete ridere di me. Ed io mi sentivo un altro. Anche nel sogno, ma anche nella viva realtà con gli occhi aperti. Perché riderne? Distruggere tutto questo?

ENRICO.       Ma chi ride di Lei?

EMMA.          Noi ridere di te?

GIOVANNI.  State zitti. Tu e lui! Zitti vi dico. Non è per nulla ch'io vissi tanto. Intendo tutto. Ci sono tanti modi di ridere di una persona. Un uomo è tradito dalla moglie? Ecco, si ride di lui. Ma si ride di lui anche se egli crede di tradirla e a lei non importa. (Poi.) Non è questo ch'io voglio dire ma se state attenti potete intendere. Io non dico che ad Anna non importi di me. Essa non ride. Ma voi, voi volete ridere. E mi offendete. Che cosa ho fatto io? Quello che mi dissero di fare. Feci... feci quello che la ricetta del medico prescriveva. E per questo non si deve ridere. Io terrò quella ricetta per mia legge, fino all'ultimo respiro. Lo giuro. (Commosso.)

EMMA.          Ma padre mio! Se tu ti commovessi, se tu piangessi, io piangerei con te.

GIOVANNI   (accarezzandola). Sí, figliuola mia, tu saresti capace di piangere per me. Ti ringrazio. (Poi.) Ma anche questo tuo pianto sarebbe una derisione. Io sono vecchio solo perché non sono morto giovine. Ed è una cosa che capiterà anche a te. (Poi a Enrico con voce rude ed alta.) Ed anche a Lei.

ENRICO.       Speriamolo! Io allora mi farò operare.

GIOVANNI   (dopo una pausa di riflessione). Questo è detto molto bene. Dire cosí è meglio che ridere - molto meglio - ma anche molto meglio che piangere. È la prima volta ch'Ella dice una cosa intelligente ma quando la disse, la disse proprio al momento dovuto. Bravo! Questa parola chiarisce tutto. È tanto importante ch'io ammetto ch'Ella sposi mia figlia. (Ad Emma.) Oh, sposalo pure. Vale meglio un uomo che dice una volta tanto una parola intelligente quando occorre che un altro che t'inondi ogni giorno la casa di un'intelligenza di cui non sai che fartene. Sposalo, sposalo. È un uomo che può essere comodo di avere in casa. Al momento dovuto salta fuori e dice la parola giusta. Io non l'avrei trovata. Sposalo pure.

EMMA.          Non è questo il momento, padre mio.

GIOVANNI.  So, so. Aspettiamo il prossimo 22 di marzo.

ENRICO        (agitato). Il 22 di febbraio. Il povero Valentino è morto proprio il 22 di febbraio.

EMMA           (imperiosa). Non parli cosí.

GIOVANNI.  Una grande parola Lei ha detto. Io non la ricordavo. Eppure prima di fare una cosa simile io consultai un collegio medico - vesti nere ampie e cravatte bianche - e tutti furono d'accordo. Anche il dottor Raulli.

EMMA.          No, padre mio. Il dottor Raulli non fu mai d'accordo.

GIOVANNI   (confuso). A me pareva... Ma ora grazie al Cielo, non ho piú da pensarci perché l'operazione non è piú da farsi, è già fatta. E bisogna goderne. L'amore, sí, anche quello appartiene ai ringiovaniti... per quanto nessuno ci creda. Ma ci sono altre cose: La generosità, la bontà. I vecchi sono meschini e miseri. Guarda. (Estrae dalla tasca un pugno di monete.) Ogni giorno distribuisco ai mendicanti dieci lire. Oggi di piú perché sono con quel signor...

ENRICO.       Boncini.

GIOVANNI.  Boncini. Oggi darò di piú perché il Boncini deve convincersi che sono giovine e seguirmi operandosi. Quando saremo in molti ci consulteremo fra noi ci appoggeremo l'uno con l'altro e ci spiegheremo piú facilmente. Intanto quando con tutta fiducia ci confesseremo l'uno all'altro si arriverà piú presto a distinguere quello ch'è sogno e quello ch'è realtà. Ci assoceremo, saremo dei veri fratelli, tutti noi operati. Io, vado, addio! (Preme il cappello in testa ed esce con passo deciso.)

SCENA OTTAVA

EMMA ed ENRICO

EMMA           (lieta). Oh, come lo amo cosí debole, malsicuro, vecchio, veramente vecchio. Poverino! Voglio aiutarlo a uscire da tanta agitazione.

ENRICO.       Anch'io, molto volentieri. A me riesce facilmente d'intenderlo. Capirà. Anche per noi giovini l'amore non è mica un grande divertimento. Capirà quello che dev'essere per un uomo che non ci pensava piú da tanto tempo.

EMMA.          Oh, io non so se si tratti proprio di amore.

SCENA NONA

ANNA e DETTI

ANNA.           Quella Rita! Se non ci sono io dimentica le cose piú importanti. A certe ore della giornata non dovrei mai uscire.

SCENA DECIMA

BONCINI e DETTI

BONCINI      (agitato). Son corso qui incaricato dal dottor Raulli di avvisarvi che non c'è nulla di male, che il signor Giovanni sarà subito qui, relativamente in buone condizioni.

TUTTI (spaventati). Che cosa gli è avvenuto?

SCENA UNDICESIMA

GUIDO e DETTI

GUIDO.         Nulla, assolutamente nulla. Io son passato di là e mi son fermato vedendo un assembramento accanto alla farmacia. Si trattava proprio dello zio. Non gli è avvenuto nulla, proprio nulla. Buono che sono arrivato io perché altrimenti il signor Boncini v'avrebbe spaventato.

BONCINI      (arrabbiato). Ma v'ho spaventato io?

EMMA.          Tutt'altro. Ma vorremmo finalmente sapere quello ch'è avvenuto.

BONCINI.     Ecco: adesso che v'ho tranquillate, posso dirvi quello ch'è avvenuto: È terribile e ammirabile! Dio mio! Quell'operazione è una cosa meravigliosa ed io voglio farla subito. Si camminava dunque insieme ed io osservavo con la massima compiacenza il passo leggero e rapido del signor Chierici. Glielo dissi ed egli mi parve molto contento. Affrettò il passo in modo ch'io non potei piú seguirlo. Era magnifico. Poi si fermò per dare una manciata di monete. Scendeva un'automobile la via con celerità discreta.

EMMA, ANNA ed ENRICO. Un'automobile!

BONCINI.     Un bambino forse di otto anni gli correva accanto. Forse dal punto avanzato a cui si trovava il signor Chierici non si potevano misurare tanto esattamente le distanze. È certo che io vidi benissimo che il bambino non correva alcun rischio perché l'automobile l'aveva raggiunto e non lo toccava. Ma il signor Chierici si mise a urlare: Io lo salvo, io lo salvo. Saltò fuori del marciapiede e si mise a correre verso l'automobile. Io spero non l'abbia raggiunto, ma cadde come se ne fosse stato urtato, riverso, le gambe all'aria.

ENRICO.       Che bestialità

EMMA.          Dio mio!

ANNA.           Dov'è? Dov'è?

BONCINI.     Si mandò a cercare una vettura. Il dottor Raulli l'accompagnerà a casa. Ma non vi ho detto tutto. Quando ancora giaceva a terra cosí, supino, un'altra automobile s'avanzò e se non si fermava a tempo l'avrebbe schiacciato. La fermai io mettendomi ad urlare e cosí l'arrestai. Fui io a salvarlo... urlando. Già io correre non posso perché ancora non sono stato operato.

GUIDO.         Altrimenti vi sareste gettato anche voi contro l'automobile.

BONCINI.     A che pro? Avrei potuto urlare piú poderosamente. (A Guido.) Dunque siamo intesi. Vengo nel pomeriggio, da voi. (Saluta tutti ed esce.)

SCENA DODICESIMA

GIOVANNI sostenuto dal dottor RAULLI e da FORTUNATO la testa bendata, e DETTI

ANNA.           Oh, Giovanni, che hai fatto?

GIOVANNI.  Avete portato il bambino che ho salvato per farlo vedere a mia moglie?

ANNA.           Oh, Giovanni, non occorre questo. Sei stato bravo ma imprudente tanto.

GIOVANNI   (che fu adagiato sulla poltrona sul cui schienale si adagia esausto). Il proprio dovere bisogna farlo. Dov'è il bambino? (Chiude gli occhi e si perde.)

RAULLI.       Lasciate che riposi un poco. Poi lo adageremo su questo sofà perché dorma. Le apra le vesti per facilitargli la respirazione. (Anna eseguisce. A Guido.) Vede la sua operazione?

GUIDO.         Già non c'è pericolo?

RAULLI.       Potrei garantirlo. Non ha che una lieve escoriazione alla nuca.

GUIDO.         Vede che l'operazione non è tanto pericolosa.

RAULLI.       Perché non è abbastanza efficace. Se egli avesse potuto correre di piú sarebbe finito sotto all'automobile.

GUIDO.         Speriamo che si perfezioni.

GIOVANNI.  Io vorrei dire qualche cosa a mia moglie. Ma non voglio che nessuno senta. (Tutti si fanno lontani e lui parla alla moglie che gli si è avvicinata chinandosi a lui.) Se qualcuno ti dicesse che io ho voluto ammazzarti non crederlo.

ANNA            (verso Raulli). Delira?

RAULLI        (s'avvicina, lo guarda e gli tocca il polso). No! È perfettamente in sé. Solo ancora un po' sconvolto. Deve dormire signor Giovanni. Si corichi su quel sofà.

GIOVANNI.  Subito! Ma prima voglio dire qualche cosa a mia moglie. (Poi.) Se qualcuno ti dicesse ch'io ti sposai senz'amore, non crederlo. Io ti amai sempre.

ANNA            (guardando verso Raulli). Ma io sempre lo credetti.

GIOVANNI.  E facesti bene. È cosí che bisogna credere per vivere felici uno accanto all'altro. E prima quando mi misi a camminare con quel signor...

ENRICO.       Boncini.

GIOVANNI.  Manda via quel signor...

ENRICO.       Biggioni.

GIOVANNI.  Grazie. Quando mi misi a camminare con Biggioni...

ENRICO.       Boncini.

GIOVANNI.  È vero, Boncini, pensai sempre: Io sono un vecchio morale che ama chi lo merita, dunque te. Un vecchio morale benché ringiovanito. E t'amai molto.

ANNA.           Sí, come sempre.

GIOVANNI.  Sí, come sempre e un poco di piú.

ANNA.           Grazie. (Lo vuol baciare; egli si piega ed essa lo bacia sulla benda.)

GIOVANNI.  M'hai baciato sulla benda, la parte piú gloriosa dei mio corpo. E adesso vorrei giacere piú comodo su un letto per pensare meglio e arrivare a intendere tutto.

RAULLI.       E allora portiamolo addirittura a letto.

Enrico, Fortunato, Guido, dott. Raulli portano via Giovanni ed escono a sinistra seguiti dalle donne.

SOGNO

RITA e GIOVANNI

RITA. Ecco, padrone. Questo è il pezzo di terra che avete da lavorare.

GIOVANNI   (bendato, una zappa sulla spalla). Questo? Mi pare duro. Non si potrebbe attendere che la pioggia venga e lo renda piú tenero?

RITA. Siete stato scelto voi a questo lavoro perché siete forte essendo di una giovinezza tanto recente.

GIOVANNI.  E adesso va via e lasciami al lavoro. La gente è tanto maligna che se ci vedessero insieme potrebbe pensare Dio sa che cosa. Fatti in là e intanto ch'io lavoro canta.

RITA  (allontanatasi canta).

"M'hanno detto che Beppe va soldato

E che v'han visto pianger di nascosto..."

ANNA.           Hai visto che ho lasciata libera Rita perché ti tenga compagnia.

GIOVANNI.  Allontanala. Io sono un uomo serio e ho molto da fare. Alle donne non voglio accordare nessuna libertà. Alla larga. (Lavora.) Già nella mia giovinezza osservai ch'erano tutte fuori di posto.

ANNA.           Fuori di posto.

GIOVANNI.  Non so come dire. Forse erano gli uomini che erano fuori di posto. Certo è che si prendeva una donna e non era quella.

ANNA.           Devo intendere che non m'amasti?

GIOVANNI.  Non parlo qui di te. Lasciami dire. Voialtre donne capitate sempre a interrompere: Domandate subito: Ed io? Che c'entriamo qui io e te? Io dico che ho saputo che di solito si va a letto con una donna e subito si vorrebbe cambiare... di letto. Questo è uno stato di cose che bisogna cambiare.

ANNA.           Ma non m'amasti?

GIOVANNI   (seccato). Che insistenza! Come fare a quietarla e pensare liberamente? (Lavora.) Io t'amai sempre. Lavorai e lavoro per te. Può però essere che una sola donna non basti per un uomo. (Lavora.) O forse sia di troppo. (Lavora.) Dico che tutto è fuori di posto. Ma poi ci si abitua a stare fuori di posto e si vive come se a posto si fosse. Perciò, perciò il dottor Raulli ha ragione di non voler l'operazione. Perché quando capita quella ci si mette a rovistare nella propria vita e si scopre tutto, cioè tutto quello ch'è fuori di posto, tutta la vita. E si vede che quello che si credeva fosse la vita era invece una specie di morte. (Ad alta voce.) E qui parlo di noi. Tu! Ricordi quando ci siamo visti l'ultima volta prima che io mi faccia operare? Perché appena operato, in fede mia, io ti guardai, non però tu me, perché tu guardavi gli uccellini, i cani, i gatti. Io ti guardai e male me ne incolse.

ANNA            (vergognandosi). Sono molto vecchia.

GIOVANNI.  Non parlo di questo! Guardandoti mi ricordai che ci eravamo sposati molti anni prima e che avevamo fatto una cosa futilissima io in marsina e tu in abito bianco e bevemmo e mangiammo tanto come se ci si fosse apprestati a mangiare e bere tanto da allora ogni giorno. Mentre poi arrivò un momento in cui quella bestia di Raulli mi proibí di bere dell'altro vino ed infatti io non ne presi fino a ieri in cui volli far piacere a Rita. (Lavora, poi.) Una cosa futilissima quel matrimonio, ti dico, perché poi non si rimase insieme. Occorreva quella marsina, quell'abito bianco e tutto quel vino e quel cibo?

ANNA.           Nacque però Emma...

GIOVANNI.  Sí, e poco dopo ci dividemmo.

ANNA.           Non credo sia andata cosí.

GIOVANNI.  Va bene! La cosa sarà durata per alcuni brevi anni, ma poi ci dividemmo definitivamente fino a che mi feci operare. Trovai tutto il mondo sconvolto. Non si dava piú alcun peso ai baci. Io baciai Rita...

ANNA.           Sí, come un padre una figlia.

GIOVANNI   (impaziente). Sta bene, come un padre bacia la figlia di un altro. Una cosa importantissima. È vero ch'io l'avevo fatto solo per provare l'effetto dell'operazione. Ma un bacio ai miei tempi era una cosa molto importante. Invece fuori di me che ci pensai tanto e ci penso tuttora non ci fu che mia figlia che al bacio desse importanza. Mia figlia... Chissà perché? Forse perché le è morto il marito prima che da lui si fosse divisa. Rita invece ne parlò a Fortunato come se nulla fosse. L'avrebbe gridato senza vergogna in piazza Unità. Fortunato che avrebbe dovuto uccidermi mi baciò la mano. E tu, tu... Mi proponesti di dare libertà a Rita ogni volta ch'io avessi sentito bisogno di lei.

ANNA.           Volevo esserti aggradevole.

GIOVANNI.  Ti ringrazio, ma mi davi troppo. Molto piú di quanto domandai. Mi pare che tu abbia sbagliato la misura.

ANNA.           Ma non puoi lagnarti. Io speravo che ciò avrebbe reso la tua vita piú gradevole.

GIOVANNI.  Fu un inferno la mia vita dacché tu mi trattasti cosí ossia trattasti cosí l'operazione.

ANNA.           L'operazione? Chi vi poteva pensare? Dopo tre settimane? Si pensa forse al Pagliano?

GIOVANNI.  Mancasti di fede. E perciò non so pensarci neppur io piú. Di donne non voglio piú saperne.

ANNA.           Neppure di me? Vuoi darmi un bacio?

GIOVANNI.  Baci? No, assolutamente. Io ti amo, io mai volli ucciderti. Io ti amo. Amerò per amor tuo tutte le tue bestie, i passeri, i gatti, i cani. E lavoro per te. Lavoro volentieri per te. Per onorare te salvo la gente e la nutro. Questo è il dovere di noi vecchi giovini.