La roba

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LA ROBA

ALDO LO CASTRO

L A   R O B A

Commedia in due atti

Liberamente ispirata all’omonima novella di G. Verga

         Personaggi 

LIBORIO

DON CICCINO MAZZARO’

TERESA

GIOVANNI

MARA

SANTUZZA

IL BARONE

TURI

ALFIO

FILIPPO

CONTADINI E CONTADINE

L’azione si svolge agli albori del ‘900, nelle campagne, a sud di Catania.

ATTO PRIMO

Una delle tante masserie di Don Ciccino Mazzaòo. Sul fondo, un muretto seminascosto da alberi e cespugli; a sinistra un magazzino-deposito a cui si accede attraverso un grande varco, parzialmente chiuso da una rudimentale porta. A destra, in prima, casa il cui uscio è rialzato da due gradini; scorcio di altra casa con ampio balcone.

L’uscita comune è sul fondo, a sinistra, lungo il muricciolo; altra uscita , sul fondo, a destra, oltre la seconda casa.

Addossato alla parete del deposito, un piccolo tavolo rustico con un paio di sedie impagliate; altre sedie nei pressi della prima casa. Al centro, vicino al muretto, un albero, sotto il quale v’è un altro tavolo rustico con alcune sedie.

All’apertura del sipario, si nota un andirivieni di contadini che – covoni sulle spalle – portano il grano al magazzino. Uno di essi, Liborio, indugia in scena e comincia a divorare un gran pezzo di pane, seduto sul muretto di fondo.

1 –

VOCE f.s. – Scusate, amico…! Dico a voi, giovanotto!

LIBORIO – Chi vuliti?

VOCE f.s. – A chi appartengono queste masserie?

LIBORIO – A don Mazzarò.

VOCE f.s. – E i campi di grano?

LIBORIO – A don Mazzarò.

VOCE f.s. – E quei vigneti?

LIBORIO – A don Mazzarò.

VOCE f.s. – E i frutteti, gli uliveti…?

LIBORIO – A don Mazzarò.

VOCE f.s. – Anche le mandrie che ho veduto pascolare, poco fa?

LIBORIO – Ancora? Vi sto dicendo che appartiene a don Mazzarò- Tuttu chiddu ca viditi e puri chiddu ca non viditi, è di sua proprietà.

VOCE f.s. – Scommetto che anche il sole che tramonta è suo!

LIBORIO – Sì, sfottiamo!

VOCE – Insomma, ‘stu don Mazzarò è ricco come il re!

LIBORIO – No! Lui è “più ricco” del re! Don Mazzarò dice che la roba del re appartiene al popolo e perciò non è di nessuno.

VOCE f.s. – Ma viditi quanto ne sa questo Mazzarò!

LIBORIO – Ma voi pirchì non scinditi da quella mula e vi riposate un poco? Fa caldo, oggi.

VOCE f.s. – No, non ci ho tempo. Questa strada dove porta?

LINORIIO – A Lentini.

VOCE f.s. – E quella?

LIBORIO – A Francofonte.

VOCE f.s. – E quell’altra, a sinistra?

LIBORIO – Ma, scusate, voi dov’è che dovete andare?

VOCE f.s. – Siete troppo curioso, per i miei gusti, giovanotto…

LIBORIO – Ah,  “io” sono curioso?

VOCE f.s. - … e io, i fatti miei, non c’i cuntu al primo che incontro!

LIBORIO – Mi pare giusto. E allora, dovete pigliare quella strada.

VOCE f.s. – E perché quella strada dove mi porta?

LIBORIO – A fari ‘nculu!

VOCE f.s. – Camina, Rosetta, ca chistu vastasu è! (So allontana borbottando).

LIBORIO – (lo segue con lo sguardo) Ma ci ni sunu pazzi, a piede libero!

(Da destra, non visto da Liborio, sbuca Mazzarò).

MAZZARO’ – Che facciamo, ci mettiamo a fare conversazione coi forestieri, inveci di travagghiari?

LIBORIO – No, è che è arrivato unu e…

MAZZARO’ – Non m’interessa! Dov’è Giovanni?

LIBORIO – Giovanni?

MAZZARO’ – Ma mi capisci quando ti parlo o no? Se ti domando “dov’è Giovanni”, significa che mi riferisco a Giovanni, è giustu? Sceccu!

LIBORIO – No, è che mi stavo sforzando di ricordare dov’è che l’ho visto… Vossia non mi dà manco il tempo di…

MAZZARO’ – (spazientito, urla alla porta della casa) Teresa! Teresa!

2 –

(La porta si apre ed entra un’allarmata Teresa).

TERESA – Che è successo, don Mazzarò?

MAZZARO’ – Dov’è tuo marito?

TERESA – Giovanni?

MAZZARO’ – E qua, ce n’è un’atra! Tu quanti mariti hai? Che sei bigama, trigama, quadrigama…?! Quanti ne hai, tu, di mariti?

TERESA – (confusa) Come “quanti mariti…”? Diminiscansa! (si fa il segno della croce) Uno, voscenza.

MAZZARO’ – E quest’unico e disgraziato marito dov’è? Me lo puoi dire o è un segreto di stato?

TERESA – E io che ne so? Stamattina è uscito che ancora era scuru…

MAZZARO’ – Ora, dico io, invece di farmi perdere tempo, non me lo potevi dire subito?

TERESA – (stordita) Che cosa?

MAZZARO’ – Sì, va bene, vah.

3 –

(Sopraggiunge, da sinistra, Giovanni, assieme ad alcuni contadini, covoni sulle spalle).

GIOVANNI – Avanti, picciotti! Scaricate tutto dentro il magazzino!

TERESA – Meno male che sei arrivato! Don Mazzarò, ti deve parlare…

MAZZARO’ – (a Teresa) Permetti che glielo dico io che gli devo parlare? Oppure sai pure quello che gli debbo dire!

TERESA – Io? E che ne posso sapere, io?

MAZZARO’ – E allora, torna in casa e non t’intromettere!

(Teresa esce rapidamente).

GIOVANNI – Vossignoria mi stava cercando?

MAZZARO’ – Sì! È  ‘na matinata sana che ti cerco!

GIOVANNI – A me?

MAZZARP’ – Ecco: mancava giusto, l’ultimo scecco! Ma, porcu diavulunim il sole v’ha mangiato il cervello a tutti, oggi?

GIOVANNI -  E, infatti, sotto il sole sono stato, tutta la mattina, assieme ai picciotti…

MAZZARO’ – E se il sole ti fa diventare scemo, significa che non puoi lavorare per me e se non puoi lavorare, io ti licenzio.

GIOVANNI – Accussì vossignoria mi fa torto… Io non mi merito…

MAZZARO’ – E allora, non ti lamentare se stai sotto il sole! Unni vulevi stare, sotto un albero, a goderti il fresco… mentre io ti pago?

GIOVANNI – Ma no, che c’entra…?

MAZZARO’ – Basta! Statti mutu! Ti ho cercato perché mi devi fare un sirvizu.

GIOVANNI – Vossia parra.

MAZZARO’ – Devi andare dal barone Ronsisvalle e  portarmelo qua. Gli dici che ci devo parlare perché è arrivato il momento di… regolare quella certa faccenda che lui sa.

GIOVANNI – Ma… io ho sentito dire che il barone è malato…

MAZZARO’ – E se è malato, un poco d’aria fina, qua, da me, non gli può fare che bene. E se proprio si rifiuta, allora gli riferisci queste parole precise: “Don Mazzarò mi ha detto che ci ha la citazione, in tasca, pronta per il tribunale”. Vedrai, a quel punto,  come corre, il signor barone!

GIOVANNI – Sissignore. Ci devo andare subito?

MAZZARO’ – No,  vacci a Natale! Avanti, curri, bestia!

GIOVANNI – Sissignore. Che dice, ci vado col calessino?

MAZZARO’ – E come te lo vuoi portare qua, il barone, a dorso di mulo?

GIOVANNI – Infatti. (A Liborio che si attarda in zona) Liborio! Preparami il calessino! Moviti!

LIBORIO – Subito. (Esce)

GIOVANNI – (a Mazzarò) Se voscenza permette, prima di partire, mi mi vorrei dare ‘na sciacquata…

MAZZARO’ – Che dici, ti vuoi fare il bagno, pure?”

GIOVANNI – No, che bagno… Il fatto è che siccome sono tutto sudato e…

MAZZARO’ – Il sudore te lo asciughi strada facendo! Cammina, muoviti…! ché oggi non è giornata!

GIOVANNI – Posso avvertire, almeno, mia moglie che…?

MAZZARO’ – Ma perché, stai partendo per la guerra?! Vatinni, va, prima che ti piglio a calci nel sedere!

LIBORIO – (entra) Il calesse è pronto.

GIOVANNI – Me ne vado, me ne vado. (Mentre si allontana) C’è bisogno di fare in questo modo, dico io? (Esce)

4 –

MAZZARO’ – E senza lamenti! Porco diavuluni! Ché oggi non è giornata! (A Liborio che rimane a fissarlo) E tu che hai da guardare?

LIBORIO – Io? Niente.

MAZZARO’ – E allora, vatinni a sistemare i covoni, nel magazzino! Forza, muoviti! Al lavoro!... ché oggi…

LIBORIO - … non è giornata.

MAZZARO’ – Che fai, lo spiritoso? Scompari davanti agli occhi miei, animale!

(Liborio esegue e va nel deposito. Mazzarò si allontana imprecando, da destra. Per qualche istante, la scena resta vuota. Si sentono, in lontananza, il latrare dei cani e le voci degli uomini che lavorano nei campi. Canticchiando entra Teresa, si siede e si appresta a sbucciare dei piselli. Entra Mara con un fascio di verdure).   

MARA – Buongiorno, Teresa.

TERESA – Oh, za Mara!

MARA – Ti ho portato un poco di verdura… L’ho colta stamattina presto. Ma, cogli questa e cogli quella, ne ho presa tanta che ci può mangiare un reggimento! (Ride) Io sono sola: che me ne faccio di tutta ‘sta cicoria? Per questo ho pensato di portartene un poco… così gliela cucini a tuo marito che so ca ci piace.

TERESA – Ve lo siete ricordato! Giovanni, infatti, ci va pazzu p’a cicoria! Vi ringrazio. Ma perché non vi sedete? Io sto sbucciando questi piselli … Ne volete un poco?

MARA – No, grazie, gioia. A casa, ce n’ho una pignata sana! Per l’appunto, oggi mangio pasta e piselli. Aspetta che ti aiuto.

TERESA – Vi volete disturbare…? Se, però, avete altro da fare…

MARA – E che debbo fare?  Per oggi, ho finito di lavorare per don Mzzarò!

TERESA – (ha un moto di stizza) Don Mazzarò! Criditimi, Mara… certe volte mi fa venire un nervoso, ‘stu cristianu…! Uno non sa mai come lo deve pigliare. È sempre scontento, irrequieto, scorbutico! E, per un nonnulla,  s’infuria e fa il pazzo! Ora con uno, ora con l’altro… a giro, se la prende  con tutti quelli che lavorano per lui!  Ma, dico io, c’è bisogno di fari accussì tutta la santa giornata? Ma che ci ha, il diavolo in corpo, ci ha?

MARA – Lo so. Ha un brutto carattere… Ci vuole pazienza con lui.

TERESA – Oramai sono quasi due anni che lo conosco, giusto? Ebbene, in due anni, non l’ho veduto ridere manco una volta! Tutto il tempo, con quella faccia scura e cattiva!

MARA – Forse, sei troppo severa… Forse, non è, poi, così cattivo.

TERESA – Nemmeno tanto buono, però! L’altro giorno, quella poveretta di Rosa mi ha fatto una pena…! Gli aveva domandato se le poteva prestare  qualche tarì… La conoscete, Rosa ci ha quattro bambini piccoli e sfamarli non è facile. Lo sapete come ci ha risposto don Mazzarò? “Io pane e cipolla, mangio, anche se sono il padrone! Che volete da me? Vi pare che me ne vado a rubare?” Ditemi voi se questa non è cattiveria!

MARA – Però è anche vero: lui, pane e cipolla mangia! Lo so che non ci ha il cuore troppo tenero. Il fatto è che nessuno gli ha insegnato a voler bene. Il padre gli è morto quando lui era ancora in fasce… La madre, poverina, aveva avuto una brutta malattia ed era rimasta muta e quasi paralitica…!

TERESA – Insomma, gli sono mancati gli affetti più importanti, nei momenti più importanti della vita.

MARA – Brava. Proprio così. E perciò, ha vissuto come un lupo solitario.

TERESA –  Voi l’avete conosciuto da giovane… Non ve l’ho mai domandato… Si può sapere com’era, da giovane, don Mazzarò?

MARA – Lo sai da quanto tempo lo conosco? La bellezza di trentasette anni! Lavoravamo insieme, come braccianti, alle dipendenze del barone.

TERESA – Il vecchio padrone di queste terre?

MARA – (annuisce) E il Ciccino Mazzarò di quel tempo, non era tanto diverso da quello che conosci tu. Forse, più taciturno, questo sì. Ma s’infuriava anche allora, eccome! Me ne accorgevo dalla smorfia che gli nasceva, qui, all’angolo della bocca, ogni volta che il padrone o il soprastante lo prendevano a calci. Teneva i denti stretti, per non lasciarsi sfuggire un’imprecazione o un lamento e la bocca serrata, chiusa a chiave da quella smorfia.  Poi, quando i suoi aguzzini si allontanavano, quella smorfia diventava un sorriso maligno.

TERESA – (colpita) Come la raccontate voi, za Mara, mi fate venire i brividi!

MARA – (sorride)  E perché, gioia?  Lo vuoi sapere perché Mazzarò sorrideva? Perché lui – io lo so! – pensava già alla “roba”!

TERESA – Ma a quale roba poteva pensare, scusate, se non aveva niente, a quel tempo?

MARA – Alla roba che, un giorno, sarebbe stata sua, pensava. E con questa ossessione in corpo, se ne stava curvo a zappare o a seminare… Lavorava dalla mattina alla sera, senza stancarsi e senza fiatare! Ogni tanto, alzava la schiena e si guardava intorno, con l’aria soddisfatta! Era quasi come se quella terra fosse già sua! E il bello era che ci credeva, lui! E, una volta, me lo disse, convinto.

TERESA – “Che cosa”

 Vi disse?

MARA – Mi si avvicina, con gli occhi stralunati… tanto che io pensai: ”Ma chi voli chistu?”- e mi parla sottovoce,  all’orecchio.

TERESA – Ma, insomma, che vi disse, za Mara?

MARA – Che mi disse? “Tutta ‘sta terra che vedete, fino a dove tramonta il sole, mi disse, fra qualche tempo, sarà roba mia!”

TERESA – E voi?

MARA – Io? Niente. Sono rimasta ammutolita e lì per lì, ho pensato: “ Questo qui è pazzo da catena!” Ma, dopo… mi sono ricreduta! Altro che pazzo! Quello ci ha la testa come un brillante!

TERESA – No, pazza, ci divento io! Ma com’è possibile che è riuscito ad accumulare tutta questa ricchezza?

MARA – Con la testardaggine, cara Teresa, raccogliendo mollica dopo mollica. Risparmiava anche l’aria che respirava! Tutti i santi giorni, metteva da parte i tre tarì che guadagnava. Tanto, per mangiare, gli bastava una fetta di pane e un pezzo di cipolla – proprio come ora! – e a vestirsi, poi, non ci pensava nemmeno. L’ho sempre visto a piedi scalzi, l’ho sempre visto! E che fosse estate o inverno, per lui, era la stessa cosa.

TERESA – Però – ora che è vecchio - potrebbe campare sereno e godersi la sua bella roba. E invece, no. Continua ad angustiarsi la vita! Ma, allora, a che gli serve tutta ‘sta benedetta roba?

MARA – Il suo unico pensiero è comprare altra terra… fare altra roba… sempre più roba!

TERESA – (ironica) Fra poco, anche il mare sarà roba di don Mazzarò! Ci  manca solo che combina qualche buon affare col Padreterno e  accussì diventa padrone pure della luna!

MARA – (ride) Può essere! Cù ‘stu vicchiazzu di Mazzarò, tutto è possibile! (Le due donne ridono poi Mara si alza) Avanti, ora me ne vado, gioia, ca si fici tardu.

TERESA – (si alza anche lei) Arrivederci, za Mara e grazie ancora per la cicoria.

MARA – (mentre si avvia) Domani, ti porto un po’ di fave fresche. Ti piacciono?

TERESA – Sì ma non è il caso che…

MARA – Va bene, va bene. Ti saluto. (Esce, da sinistra).

5 –

(Mentre Teresa si appresta a rientrare in casa, da destra, entra Santuzza, una giovane contadina).

TERESA – Oh, Santuzza! C’è cosa?

SANTUZZA – No, niente.

TERESA – Stai cercando a qualcuno?

SANTUZZA – Io? E a chi debbo cercare?

TERESA – E che ne so? Comunque, se, per caso, cerchi a Liborio…

SANTUZZA – Se vi ho detto che non cerco a nessuno…! 

TERESA – (sorride) Hai ragione… non parlo più. Me ne vado a cucinare. Ti saluto, Santuzza. (Esce).

SANTUZZA –Buona giornata          

(Santuzza sembra attendere qualcuno. Si guarda attorno, ansiosa poi si accosta al magazzino e cerca di scrutarvi dentro. Improvvisamente, le braccia di Liborio l’afferrano. Santuzza emette un gridolino di sorpresa).

LIBORIO – (ridacchia, divertito) Ma che, ti sei messa paura?

SANTUZZA – E certo! Mi compari accussì, come il diavolo dietro l’altare…!

LIBORIO – Vieni, andiamo nel magazzino!

SANTUZZA – Ma che sei, cretino?

LIBORIO – Forse. Ma se sono cretino, la colpa è tua!

SANTUZZA – Io? E che c’entro io? E statti fermo cù ‘sti manu!

LIBORIO – Quali manu? Hai visto? Non so nemmeno quello che faccio! Mi sono rincretinito! Ma dico io, se non ti posso dare neanche un bacetto, perché ci siamo fidanzati?

SANTUZZA – Ah, tu, per questo, ti sei messo con me, allora!

LIBORIO – No, che c’entra? Però, scusa, se siamo ziti, ho il diritto di baciarti o no?

SANTUZZA – Sintitilu! !Diritto”! No, tu non hai nessun diritto, ancora. Quando poi la cosa diventa seria e vieni a casa mia, a parlare con mio padre e mia madre…

LIBORIO – E io ti ho forse detto che coi tuoi, non ci vengo a parlare?

SANTUZZA – Ma non mi hai nemmeno detto che muori dalla voglia di parlarci!  E, comunque, o ci parli o non ci parli, tu, “certe cose” con me, non le fai! E se non ti sta bene, possiamo anche rompere il fidanzamento e ognuno per la sua strada!

LIBORIO – Tu non mi capisci, Santuzza…

SANTUZZA – Guarda che non sono scema! Ti capisco e come! Però, prima, ci dobbiamo sposare. Poi, si vede.

LIBORIO – Ah, perché non è sicuro manco dopo il matrimonio…! Boni semu misi!

SANTUZZA – Tu non mi vuoi bene.

LIBORIO – Ma come, “non ti voglio bene”? Che dici? Forse, sei tu che non mi vuoi bene…

SANTUZZA – Questo non lo devi neanche pensare! Perché io ti porto sempre con me, nel mio cuore… di giorno e di notte… E se tu mi lasci… se tu mi lasci, io mi butto nel pozzo!

LIBORIO – Ma no che non ti lascio, Santuzza!  Come ti potrei lasciare? Tu, per me, sei come l’aria che respiro! E uno che fa, può fare a meno di respirare?

SANTUZZA – (lo abbraccia istintivamente poi si ritrae) Che belle parole hai detto! No, non mi ci butterò mai nel pozzo!

LIBORIO – Brava. Ora, però, mi devi permettere di darti un bacio… altrimenti nel pozzo, mi ci butto io.

(Santuzza lo bacia rapidamente sulla guancia).

SANTUZZA – Basta, basta! Che mi fai fare? Che mi fai fare? (Si allontana rapida da destra e incrocia Mazzarò che, invece, entra) Vossia benedica! (Esce).

6 –

MAZZARO’ – (Resta, per un momento, ad osservare Santuzza che è già uscita) Che cosa ci faceva qua, quella cretina?

LIBORIO – Quale cretina?

MAZZARO’ – (in tono  severo) Vieni qua, assettiti che ti debbo parlare. (Liborio esegue) Senti, Liborio, io, con te, voglio essere più chiaro di un libro stampato.

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – A tuo padre, buonanima, io feci una promessa. Che avrei pensato a te e che ti avrei dato un lavoro.

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – Ora, fino ad oggi, quella promessa, l’ho mantenuta anche perché, tutto sommato, sei un bravo carusu.

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – Non si può certo dire che brilli per intelligenza…

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ - … ma a questo mondo, tutto non si può avere.

LIBORIO – Certo. (Si alza e sta per allontanarsi).

MAZZARO’ – Dove vai?

LIBORIO – No, mi pareva che vossia aveva finito.

MAZZARO’ – Non ho finito, sceccu, assettiti!

LIBORIO – (esegue) Sissignore.

MAZZARO’ – Ora, veniamo al dunque. Vedi che a casa mia, certe sconcezze… certe  porcherie… e tu mi capisci…io non ne voglio vedere. Se uno ha qualche “necessità”, se ne va in paese e si passa il capriccio. Ma qua, a casa mia, no! Mi spiego?

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – A scanso di equivoci, te lo spiego meglio. Se tu e quell’altra avete certi… pruriti, fateveli passare! Ci siamo capiti, ora?

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – Però, se oltre ai pruriti, vi volete anche bene, allora maritatevi e non se ne parla più.

LIBORIO – Ma… per caso, vossignoria è parente di…

MAZZARO’ – Di chi?

LIBORIO – Di Santuzza.

MAZZARO’ – Parente di Santuzza? E cu’ ‘a canusci?

LIBORIO – Come “cu’ ‘a canusci? È ‘a picciotta che, prima,  ha  visto qua…

MAZZARO’ – Bestia! Se lavora per me, certo che la conosco!  Ma chi schifìu c’entra la parentela?

LIBORIO – No, perché vossia ha fatto gli stessi ragionamenti di Santuzza. Prima il matrimonio, mi ha detto, e poi… Ha capito? Con quella, se prima non me la sposo, non ci esce niente, don Mazzarò!

MAZZARO’ – E allora, vuol dire che tanto cretina non è. A ogni modo, Liborio, io ti sto avvertendo. Combinami qualche minchiata  e - promessa o non promessa – te ne faccio andare a calci in culo e il lavoro te lo cerchi da un’altra parte. Hai capito, vero?

LIBORIO – Sissignore.

MAZZARO’ – Speriamo.

LIBORIO – Don Mazzarò, mi scusi… Mi rivolgo a vossia perchè vossia è uno che conosce la vita e, di sicuro, mi può aiutare.

MAZZARO’ – La vita, forse, non la conosco abbastanza… però conosco gli uomini.

LIBORIO – E pure le donne, penso, no?

MAZZARO’ – (stizzito) E pure le donne. Insomma, qual è il problema?

LIBORIO – Il mio problema è che siccome Santuzza mi piace assai, come la posso convincere a passare una notte con me?

MAZZARO’ – (imbufalito) Che significa “una notte…”?! Ma, aalura, non hai capito niente! E a chi ho parlato, al muro, ho parlato?! Senti, una bestia più bestia di te, io, nella mia vita,  non l’ho mai incontrata!

(Si sente, da fuori scena, la voce di Giovanni che accompagna il barone).

VOCE DI GIOVANNI  - Si accomodi, barone!

MAZZARO’ – (a Liborio) Vattinni, va, ché ci ho da fare!

7 –

(Entrano Giovanni e il Barone, un uomo ben vestito, dal portamento fiero).

LIBORIO –  (saluta) Buongiorno, signor barone. (A Mazzarò) Io… che faccio, me ne posso andare?

MAZZARO’ – (urla, fuori di sé)  Tu te ne “devi” andare! (Al Barone) Barone illustrissimo, i miei rispetti.

(Il barone risponde al saluto con un cenno del capo).

LIBORIO – (a Mazzarò) E… per quel consiglio? (Mazzarò gli lancia un’occhiataccia di fuoco) Va bene, ne parliamo dopo. Me ne sto andando.

GIOVANNI – (a Liborio) E ancora qua, sei?

MAZZARO’ – (urla, a Giovanni) E vattinni pure tu.

GIOVANNI – E allora, col suo permesso, faccio una capatina in casa, per…

MAZZARO’ – Fate quello che schifio volete ma scomparite davanti agli occhi miei! Perché oggi…

LIBORIO – GIOVANNI – … non è giornata.

(Liborio via da sinistra, Giovanni entra nella casa di destra).

MAZZARO’ – Ma perché è rimasto in piedi, barone?  La prego, si accomodi. Sì, lo so, queste sono povere sedie di contadini… Mi rendo conto che il merito e il rango di vossignoria…

BARONE – (si siede) Va bene, va bene, non importa.

MAZZARO’ – No, volevo precisare che il salotto buono, io ce l’ho… quello di velluto rosso, sa, quello…

BARONE – (pungente) Lo so. Considerato che quel salotto di velluto rosso, prima, apparteneva alla mia famiglia.

MAZZARO’ – Precisamente. Vossignoria ha buona memoria. Ma se lo dice con quel tono, mi fa torto… perché, in tutta onestà, ne ho sempre avuto grande cura. Pensi che non mi ci sono seduto nemmeno una volta! Perché? Perché, secondo me, non bisogna sciuparla, la roba buona. Dico bene, barone?

BARONE – Sì, sì… ma sbrighiamoci.

MAZZARO’ – (continua imperterrito) E poi, chi ce lo fa fare a starcene chiusi in casa, quando qui, c’è un freschetto che uno si ristora! All’aria aperta, uno deve stare e campa cent’anni! Vossignoria la pensa come me?

BARONE – (spazientito) Condivido, condivido… però…

MAZZARO’ – Senza contare che il salotto sarà buono – non lo metto in dubbio – ma se vossignoria si ci siede, ora come ora, si ritrova con il deretano sudato, con rispetto parlando. Perché, signor barone, diciamo le cose come stanno. Il velluto sarà pure roba pregiata ma…

BARONE – (sbotta, stizzito) Mazzarò, ditemi quello che avete da dirmi e  facciamola finita! Scusatemi ma io ho altro per la testa che stare a sentire i vostri sproloqui! O forse, lo fate apposta… lo fate perché vi diverte burlarvi di me. In tal caso, sappiate che io non ve lo consento oltre! (Si alza) Abbiate la compiacenza di farmi riaccompagnare!

MAZZARO’ -  Si calmi, signor barone, la prego. E mi faccia il favore, torni a sedere. No, mi creda, non ho nessuna intenzione di… - come ha detto vossignoria che sa parlare – di “burlarmi” di voscenza. Ma… di farvi ribollire il sangue, quello sì! Non capisce, vero?  Non capisce perché vossignoria ha buona memoria per quel prezioso salotto che non gli appartiene più… ma la memoria diventa pessima per tante altre cose.

BARONE – Stai mettendo a dura prova la mia pazienza, Ciccino!

MAZZARO’ – “Ciccino”. Accussì mi chiamava  trent’anni fa. “Ciccino”. E si ricorda, barone, quante volte “Ciccino” chiedeva udienza perché “Ciccino” aveva bisogno dell’aiuto di vossignoria? Io venivo da voscenza – col berretto in mano e a testa bassa, si capisce –  ma voscenza non mi stava manco a sentire… E perché doveva sentire? Tanto, la risposta era sempre “no”. Io parlavo, parlavo e voscenza faceva colazione oppure sfogliava il giornale e sbuffava, sbuffava. Io parlavo, mi accaloravo - sempre rispettosamente, è logico – e vossignoria sbuffava sempre più forte. Poi, quando non ne poteva più, faceva l’ultima sbuffata e mi licenziava di malo modo. E io, che potevo fare? La riverenza, potevo fare, come i pupi, quella sì! Inghiottivo veleno e me ne andavo con la coda fra le gambe.

BARONE – Benissimo! E ora che ti sei sfogato…

MAZZARO’ – Tutte gliele ho perdonate, signor barone…

BARONE – (sarcastico) Davvero generoso, da parte tua! Ti devo ringraziare?

MAZZARO’ – (continua, a denti stretti) Tutte, tranne una. Quella volta, venni a casa sua piangendo… Mia madre – quella  vecchietta che campava con me – si ricorda? No, non si ricorda, è naturale. Rincasando, l’avevo trovata stesa a terra che pareva morta, mischina, ma non era morta.  Ecco perché venni da vossia e le domandai qualche giorno di libertà e un carretto per poterla trasportare a Catania. “I carretti servono per lavorare, non per portare i malati. Quanto ai giorni, pigliateli, che m’importa? Tanto,  non te li pago! E ora, vattene ché ho da fare!” Quella sera, l’avrei scannata, barone, scannata!

BARONE – Non mi hai scannato ma ti sei vendicato ugualmente. Tutte le mie terre, le mie case… Tutte le mie proprietà sono passate nelle tue mani! Te le sei prese, tu!

MAZZARO’ – (alza la voce, incollerito) “Prese”? Me le sono “prese”? Che sente dire vossignoria? Che le ho rubate, forse? Io ho pagato ogni cosa con denaro sonante! E quel denaro che è servito a togliere dagli impicci e dalla galera, vostra signoria…! Quel denaro me lo sono fatto sudando sangue e rompendomi la schiena proprio su quelle terre che, ora, sono mie! Mie!

BARONE – Ti proibisco di alzare la voce, con me!

MAZZARO’ – “Mi proibisce?! Con tutto il rispetto, vostra eccellenza non se lo può permettere più! E sappia che io alzo la voce pure con Dominedio se Dominedio mi sputa in faccia!

BARONE – Povero Ciccino, parli da padrone ma le tue parole escono fuori stonate perché sei nato schiavo e schiavo resterai fino alla tomba.

MAZZARO’ – (ride in modo ostentato) Ah, barone, barone… ci sono riuscito alla fine! Il sangue sta scoppiando nelle tue vene, ah? La voglia di scannarmi, ce l’hai tu, ora! Confessalo! Confessalo, pezzente!

BARONE – (inebetito da quella insolenza) Tu! Tu… mi devi rispetto, hai capito? Rispetto!

MAZZARO’ – Il rispetto, uno se lo deve guadagnare e tu non hai mai mosso un dito per guadagnartelo, il rispetto! (Sinistramente) Guardami in faccia, barone. Guardami, ti dico!  Lo sai chi sono io?  Sono quello che ti conficcherà i chiodi, sulla croce!

BARONE – (con un filo di voce) Come a Gesù Cristo!

MAZZARO’ – No! Come a un ladrone! (Tira fuori dalla tasca un foglio) E questa citazione è il martello che spingerà i chiodi dentro la tua carne!

BARONE – Il mese prossimo salderò il mio debito. Hai la mia parola d’onore.

MAZZARO’ – E che ci faccio con la tua parola d’onore? L’hai spesa già troppe volte! Non vale più niente, oramai, la tua parola d’onore.

BARONE – Ti diverte umiliarmi, vero?

MAZZARO’ – No, non mi sto divertendo. Ti voglio solamente fare capire che cosa si prova a stare dall’”altra parte”. Dalla parte di quelli che non contano un baiocco… Quelli che valgono meno di un escremento di mulo. L’hai capito che, ora, da quella parte, ci stai tu, vero, barone Ronsisvalle? (Pausa) Tu nonsei in grado di pagare il tuo debito e io, questo, lo sapevo già. E perciò, ti faccio una proposta. (Tira fuori dalle tasche un altro foglio di carta e glielo porge) Leggi.

BARONE – (legge rapidamente poi, in un moto di ribellione e di rabbia, gli riconsegna il foglio)  No! I vigneti di Mazzarrone, no, non te li do!  Ammazzami, mandami in galera ma quella terra non me la puoi togliere! Non ho più niente, io, Ciccino! M’è rimasta solo quella proprietà! Con quella, campiamo, io e mia figlia.

MAZZARO’ – (sospira, ad arte) E che è mia, la colpa? Affari tuoi, sono. (Pausa) Senti, barone, ragiona. Quella terra è persa lo stesso perché – appena presento la citazione in tribunale, il giudice che fa? Te la confisca – si dice così, non è vero? – e la passa a me. Se, invece, ci accordiamo ora, subito, io ti cancello il debito e tu non mi devi più niente… anzi sono io che ti devo del denaro. Io sono onesto e siccome la terra vale più di quello che mi spetta, avrai la giusta differenza. Non ti pare un discorso pulito e sensato?

BARONE – Sono in trappola. Un prestito per uno stupido debito di gioco, mi ha rovinato la vita! Avrei dovuto tagliarmi la lingua piuttosto che chiederti quei soldi!

MAZZARO’ – E saresti finito in galera. Tu, carissimo barone, la vita, te la sei rovinata da prima. Il gioco ti è sempre piaciuto. Ecco perché, oggi, ti ritrovi col culo per terra! Non è stato certo Ciccino Mazzarò a rovinartela, la vita!

BARONE – Hai vinto ancora tu. E io ho perso. Ho perso anche l’ultima partita! Fammi firmare quella carta maledetta e facciamola finita!

(Il barone firma rapidamente).

MAZZARO’ – Benissimo. Domani mattina, Giovanni ti porterà a casa, i soldi che ti spettano.

BARONE – Posso andare, ora?

MAZZARO’ – Ci mancherebbe! Vossia è il padrone! (Chiama) Giovanni!

8 –

GIOVANNI – (entra) Comandi, don Mazzarò.

MAZZARO’- Accompagna a casa il signor barone.

GIOVANNI – Subito. Venga, eccellenza! Il calessino l’ho lasciato qui, sotto il pergolato.

BARONE – Addio, don Mazzarò e… grazie di tutto. (Esce evitando di stringergli la mano.

Comincia ad imbrunire).

MAZZARO’ – (ormai solo) Addio, barone. (Si siede. Scuote la testa poi sospira) Che ci vuoi fare? Il mondo gira in questa maniera: chi ci ha la roba, comanda… e chi non ce l’ha, patisce. È legge di natura. Io, questo, l’ho sempre saputo, tu no. Tu ti sei barricato nel tuo castello, fatto di niente, ci hai appiccicato, con lo sputo, dietro la porta, il tuo prezioso stemma nobiliare, e, accussì, ti pareva che potevi comandare e fare il padrone, per tutta la vita! Sceccu! Sceccu e prisuntuusu!

(Entra Teresa, dall’uscio di destra. Si avvicina a Mazzarò che è ancora accigliato).

TERESA – (premurosa) Don Mazzarò, che ci ha? Si sente male? Ha bisogno di qualche cosa?

MAZZARO’ – (infastidito) Chi, io? Non ho bisogno di niente, io. Ogni cosa va per il suo verso… come legge di natura impone! Non mi capisci, vero? E, del resto, come potresti, visto che ci capisco poco, pure io?! Sacciu sulu che è accussì e basta. Legge di natura.

TERESA – Don Mazzarò, mi deve perdonare se mi permetto… ma vossia, oggi, non ha assaggiato neppure l’acqua! E  l’”Ave Maria” è già suonata da un pezzo… perché non viene a mangiare un boccone, in casa mia? non è che può restare ancora a digiuno!

MAZZARO’ – No. Io … ho mangiato.

TERESA – E  quando?

MAZZARO’ – Ho avuto il privilegio di mangiare a spese del barone.  E mi sono fatto una bella abbuffata!

TERESA – Ma che sta dicendo, voscenza?! Io, veramente…

MAZZARO’ – Una mangiata da re! Era trent’anni  che l’aspettavo e, finalmente, è arrivato il momento.  Solo che ora, anziché essere sazio e soddisfatto, mi sento qua, nella bocca dello stomaco,  un poco di nausea. Si vede che non ci sono abituato… a pranzare coi nobili! Uno ci deve nascere. (Si alza e si avvia verso l’uscita di destra) Fammi il favore, Teresa… quando tuo marito torna, mandalo da me.

TERESA – Sissignore. Ma… se vossignoria ha bisogno… vossignoria è il padrone e non ha che da comandarmi.

(Mazzarò fa cenno di no, col capo poi si ferma, per un momento).

MAZZARO’ – E già, il “padrone”. Siamo tutti servi, Teresa. È la roba che ci fa diventare padroni! La roba! (Esce).

9 –

TERESA – (si siede, pensierosa) Ma che gli è capitato? E che voleva dire, con quei discorsi curiosi? Dice che s’è fatto una bella mangiata…! Ma quando, dove? Se è stato tutto il tempo a discutere col barone…! Mah! Con lui, chi ci capisce qualcosa, è bravo!

(Da sinistra, entra Liborio con Turi, un altro giovane contadino).

LIBORIO – Ora, ‘sta matassa gliela facciamo sbrogliare a don Mazzarò…

TURI – Ma che c’entra don Mazzarò?

LIBORIO – C’entra, c’entra! Don Mazzarò è un uomo assennato, intelligente…

TURI – Ma perché, noialtri che siamo, cretini?

LIBORIO – Io, no, tu, sì!

TURI – Mi dispiace ma io non sono d’accordo!

LIBORIO – No, no, te lo giuro, sei cretino.

TURI – Non sono d’accordo a raccontare i fatti miei a don Mazzarò!

LIBORIO – E tu ti stai muto. Ci parlo io solo. Scusate, Teresa, don Mazzarò non era qua, prima?

TERESA – Prima. Ora se ne è andato. Ma perché… c’è cosa?

LIBORIO -  Cose di masculi.

TERESA – Se sono cose di masculi, vuol dire che c’è qualche femmina di mezzo!

LIBORIO – TURI – (confermano) Eh!

TERESA – E allora, vi lascio soli. (Canticchiando entra in casa).

TURI – Senti, Liborio…

LIBORIO – (contemporaneamente a Turi) Senti, Turi…

TURI – LIBORIO – (insieme) Parlo io o parli tu?

TURI – LIBORIO – (insieme) Avanti, parra!

TURI – LIBORIO – (insieme) Che dobbiamo fare?

TURI – LIBORIO – (insieme) Dunque…

(I due restano a guardarsi per un momento, poi Turi sta per parlare ma Liborio, stavolta, lo blocca).

LIBORIO – No, mutu! Parlo io e basta! Dunque, visto che don Mazzarò non c’è, parliamo noi due, da uomo a uomo…

TURI – Eh, da uomo a uomo…

LIBORIO – Non m’interrompere, sennò perdo il filo.

TURI – Ma non dicisti che dobbiamo parlare tutti e due?

LIBORIO – Quando viene il tuo turno, parli! Hai visto? Mi hai fatto perdere il filo! Dov’ero arrivato?

TURI – Veramente, non avevi nemmeno cominciato.

LIBORIO – Ah, ecco… statti muto, basta! Dunque, dimmi ‘na cosa: fra te e Santuzza… ci fu cosa?

TURI – Posso parlare?

LIBORIO – “Devi” parlare!

TURI – (trionfante) Sì! Ci fu cosa!

LIBORIO – (tenta di minimizzare) Va beh, roba di poco, no?

TURI – Quale “roba di poco”?! Mi ha baciato.

LIBORIO – (con grande sofferenza) E tu… ci vuoi bene?

TURI – Certo.

LIBORIO – E idda… ti vuole bene?

TURI – Naturale.

LIBORIO – Non può essere! C’è qualche cosa che non mi sta convincendo. Perché, caro Turi, devi sapere che Santuzza ha baciato pure a me!

TURI – Aspetta. Ma a te dove ti ha baciato?

LIBORIO – (indica la guancia sinistra) Qua! E che bacio, caro mio!

TURI – (indica la guancia destra) E a me, qua!

LIBORIO – Sì, però, non è che c’è stato solo il bacio! Mi ha pure abbracciato!

TURI – Embè? Pure a me, mi ha abbracciato.

LIBORIO – Sì ma bisogna vedere come. Come ti ha abbracciato?

TURI – Accussì. (Abbraccia Liborio.

In quello stesso momento, entra Alfio, altro contadino).

10 –

ALFIO – (li osserva, divertito, per un attimo) Che fa, disturbo?

LIBORIO – No, mi stava mostrando…

TURI – Gli stavo facendo vedere…

LIBORIO – Ma a te che cosa t’interessa? Perché non ti fai l’affari toi?

TURI – Non sono cose che ti riguardano, ‘u capisti?

ALFIO – Ho capito, ho capito.

LIBORIO – Si può sapere che cerchi, che vuoi… Insomma, vattinni!

ALFIO – Aho, calma! Sto cercando don Mazzarò.

LIBORIO – TURI – Non c’è!

ALFIO – Me ne sono accorto.

LIBORIO – E se te ne sei accorto, perché non te ne stai andando?

TURI – Appunto!

ALFIO – (sorride maliziosamente) Avete premura di stare soli, ah?

LIBORIO – TURI – Sì!

ALFIO – Lo sapete che siete troppo carini, tutti e due?

TURI – (a Liborio) Ma che è, scemo?

LIBORIO – (ad Alfio) Che sei, scemo?

ALFIO – (ridacchia) Lo volete un consiglio? Andate nel magazzino… accussì non vi vede nessuno e potete stare tranquilli.

LIBORIO – Te ne vuoi andare o no?

ALFIO – (continua a ridacchiare) Me ne vado, me ne vado… e scusatemi se vi ho disturbato! (Esce continuando a ridere).

TURI – Oh, finalmente quella bestia se n’è andato!

LIBORIO – Ma poi, vorrei capire la ragione di tutte quelle risate!

TURI – Che vuoi capire? Se è scemo…! Comunque, dove eravamo arrivati?

LIBORIO – E che ne so? Quell’animale mi ha fatto perdere il filo!

TURI – No, no, mi ricordo io. Ti stavo mostrando come mi ha abbracciato Santuzza.

LIBORIO – Ah, vero. E com’è che ti ha abbracciato?

TURI – Accussì! (Lo riabbraccia)

LIBORIO – (si scioglie dall’abbraccio e lo scosta nervosamente) E allora? Che cosa mi vorresti significare?

TURI – Che se mi ha baciato e abbracciato, vuol dire che…

LIBORIO – (lo zittisce) Fermati, non continuare perché non vuol dire proprio niente!

TURI – E invece, sì!

LIBORIO – E invece, no! E lo sai perché? Perché Santuzza ha abbracciato pure a me!

TURI – Ah, sì? E come ti ha abbracciato?

LIBORIO – Accussì! (lo abbraccia con molto slancio)

(Entra Giovanni, anch’egli divertito da quella scena).

11 –

GIOVANNI – Disturbo? Che è, un momento delicato?

LIBORIO – E sì, perché… siccome lui, prima mi fece vedere com’è che Santuzza l’aveva abbracciato, ora io gli stavo mostrando…

GIOVANNI – E perché Santuzza ha abbracciato a Turi?

TURI – E non solo! Mi ha pure dato un bacio!

GIOVANNI –  Ma fatemi capire… Santuzza non è zita con te, Liborio?

LIBORIO – Appunto. (A Turi) Hai capito, baccalaru?

TURI – E chi dice di no, bestia?

GIOVANNI – Aspettate, non vi sciarriati. Senti, Turi… dimmi ‘na cosa. ‘Stu fattu quand’è successo?

TURI – Quale fatto?

GIOVANNI – Questo abbraccio quando è stato?

TURI – Di preciso, non me lo ricordo… però sono sicuro che fu per Pasqua…

GIOVANNI – (ride) Me lo immaginavo: o Pasqua o Natale. Non poteva essere diversamente.

LIBORIO – Come… per Pasqua?

TURI – O fu l’annu passatu o due anni fa.

LIBORIO – Ma allura, sei cretino completo!

TURI – E perché?

LIBORIO – (aggressivo) Vattinni, va, vattinni, prima che ti piglio a pedate!

TURI – Ahu, io ti ho detto la verità!

LIBORIO – “Mi ha baciato, mi ha abbracciato”! Per Pasqua, tutti si baciano e si abbracciano, deficiente!

TURI – Ca quali “tutti”?! A me, solo Santuzza mi ha abbracciato!

LIBORIO – Perché fai troppo schifo!

TURI – A Santuzza, non ci faccio schifo!

LIBORIO – E si vede che a idda, ci facisti troppa pena!

TURI – Non è vero! Io ci piaccio!

LIBORIO – E insisti, animale?

(Turi esce di corsa, inseguito da Liborio. Giovanni li osserva ridendo).

12 –

TERESA – (entra) Che sta succedendo?

GIOVANNI –No, niente. Il problema è che fra Turi e Liborio, non si capisce chi è più cretino!

TERESA –  (ride) E va be’, però su’ simpatici e poi sono du’ bravi carusi.

GIOVANNI – Sì, lo so. E sono accussì ingenui ca fannu pure tenerezza!

(Dalla finestra di casa propria, si affaccia, irritato, don Mazzarò).

MAZZARO’ – E allora, com’è finita? Che ci mettiamo a fare salotto?

GIOVANNI – Sono rientrato in questo momento, don Mazzarò…

MAZZARO’ – E io avevo pregato tua moglie…

TERESA – Proprio ora ci stavo dicendo che vossignoria gli deve parlare!

GIOVANNI – A me?

MAZZARO’ - Sissignore. E spicciati!

GIOVANNI – Arrivo subito! (Esce da destra).

MAZZARO’ – Teresa!

TERESA – Comandi, don Mazzarò.

MAZZARO’ – Ci devi dire ai picciotti che stasera, li voglio qua, sotto la mia finestra, a ballare, a cantare e a brindare alla mia salute!

TERESA – Come desidera vossignoria. Ma… che cosa si festeggia?

MAZZARO’ – I vigneti di Mazzarrone – che prima appartenevano al barone – ora sono miei! È roba mia! (Chiude la finestra e sparisce).

TERESA – (urla, contenta) Tanti auguri, allora, don Mazzarò! (Corre sul fondo e chiama a squarciagola) Picciotti! Picciotti! Tutti qua!

ALFIO – (entra) Che c’è? Che succede?

TERESA – Tutti sotto la finestra di don Mazzarò! A brindare e a cantare! Chiama gli altri!

ALFIO – Va bene ma… che festa è?

TERESA – Tu fai quello che ti ha ordinato il padrone, curri!

ALFIO – (esce urlando) Oh! Picciotti! tutti ccà, davanti alla casa di don Mazzarò!

(Il gruppo vociante di contadini e contadine si raccoglie al centro della scena. Qualcuno porta un fiasco di vino e dei bicchieri).

TUTTI – Alla salute di don Ciccino Mazzarò!

(Tutti ballano e cantano.

Entra Mara che parlotta con i presenti. sembra un po’ turbata. Tutti smettono di cantare. si sente un vocio indistinto.

Si riaffaccia don Mazzarò).

MAZZARO’ – Che è successo? Perché vi siete fermati?

ALFIO – Parlate voi, za Mara!

MARA – Stasera è capitata ‘na cosa curiusa…

MAZZARO’ – E che sarebbe ‘sta “cosa curiusa”?

MARA – E’ arrivato un picciottu…

MAZZARO’ – E cu’ è?

MARA – Pare che è il figlio di voscenza.

MAZZARO’ – (sbigottito) Figlio mio? E chi lo dice che è figlio mio?

MARA – Lui lo dice, ‘stu picciottu.

MAZZARO’ – (ironico) E allora… se lo dice lui…! (sarcastico) Ma guardate che bella improvvisata, stasera! E ora, dov’è questo… figlio?

MARA – A casa mia. Gli dissi di aspettare là. Che debbo fare?

MAZZARO’ – Voi niente, Mara, siete stata già abbastanza premurosa… (Chiama) Alfio!

ALFIO – Qua, sono, comandi, voscenza.

MAZZARO’ – Fammi il favore… pensaci tu a ‘stu picciottu. Dagli un posto dove dormire, per stanotte. Domani mattina, poi, lo accompagni da me.

ALFIO – Sissignore. (Sta per avviarsi)

MAZZARO’ – Senza premura, Alfio… con calma. Continuate a ballare e a cantare. Festeggiamo pure la “nascita” di mio figlio! Mi pare giusto, no?

(Tutti riprendono a cantare e ballare).

SIPARIO

     

ATTO SECONDO

Stessa scena del primo atto.

È passato qualche mese. È tempo di vendemmia.

Uomini e donne, cantando, attraversano la scena, da destra verso sinistra e portano sulle spalle, panieri, colmi di uva. Giovanni, nei pressi, controlla il lavoro.

Don Mazzarò è seduto al tavolo, sotto l’albero. Ha appena preparato le paghe dei suoi contadini. Sistema il danaro dentro una scatola di cartone.

1 –

MAZZARO’- (Chiama) Giovanni!

GIOVANNI – Comandi, voscenza.

MAZZARO’ – (gli affida la scatola di cartone) Tieni. Qua dentro ci sono le paghe per tutti. Oggi è sabato.

GIOVANNI – Debbo pagare anche Filippo o no?

MAZZARO’ – Certe volte, ho l’impressione che tu non sei la persona intelligente che io penso che tu sei.

GIOVANNI – Tutto ‘stu giro di parole, per dirmi che sono cretino?

MAZZARO’ – Proprio cretino cretino, forse, no. Diciamo “un poco” cretino. Va bene?

GIOVANNI – Va benissimo, anzi grazie per “un poco”.

MAZZARO’ – Dimmi ‘na cosa: Filippo quando è arrivato qua?

GIOVANNI – Tre mesi fa.

MAZZARO’ – Bravo. E, infatti, è da tre mesi che tu, ogni settimana, mi rompi i corbelli con questa storia! Ho il diritto di sospettare che “un poco cretino”, ci sei?

GIOVANNI – Forse vossignoria non lo sa, ma Filippo si lamenta e si lamenta assai! Dice che lui lavora come gli altri e, dopo la bellezza di tre mesi, dice che non ha ricevuto manco un soldo.

MAZZARO’ – Se Filippo è figlio mio, non deve lavorare “come gli altri” ma “più” degli altri! Per dare il buon esempio. Mi spiego?

GIOVANNI – Mi scusi se mi permetto… ma, secondo me, ‘u picciottu la paga se la merita…

MAZZARO’ – E non ci basta che gli do da mangiare e un letto per dormire?

GIOVANNI – Che c’entra, don Mazzarò? Pure agli altri ci da un letto per…

MAZZARO’ – Senti, avvocato delle cause perse, hai visto che continuo ad avere ragione quando dico che sei un poco cretino? Perciò, secondo la tua testazza di sceccu, io dovrei pagare a mio figlio, il mio erede, come se fosse uno qualsiasi, un estraneo, uno dei tanti che lavora per me?

GIOVANNI – No?

MAZZARO’ – No! Io a mio figlio, non ci do nemmeno un centesimo!

GIOVANNI – Va bene.

MAZZARO’ – Tu mi cali ‘a testa, dici “va bene” però non hai capito niente perché sei…

GIOVANNI – Un poco cretino.

MAZZARO’ – Se lo pago, lo umilio! E io, a mio figlio non lo voglio umiliare!

GIOVANNI – Don Mazzarò, quello vuole essere umiliato!

MAZZARO’ – Ahu, scimunito, basta! Discussione chiusa! E ora, te ne puoi andare!

GIOVANNI – Sissignore. (Si allontana poi, tra sè) Meno male che non sono figlio suo!

MAZZARO’ – (lo richiama) Ah, senti, fammi il favore, dicci a za Mara ché ci debbo parlare. Che venga a casa mia.

GIOVANNI – Come voscenza comanda. (Esce).

(Mazzarò rimane da solo, piuttosto pensieroso).

MAZZARO’ –  (mette in bocca quel ch’è rimasto di un sigaro e lo osserva, molto stizzito)  Ma come, l’ho acceso un mese fa e già s’è consumato? No, niente, sarvamulu… anzi, se mi tolgo il vizio, è meglio! (Lo rimette in tasca poi si alza e, lentamente, esce, da destra).

2 –

(Dalla comune – a sinistra – entra, di corsa, Santuzza, inseguita, per gioco, da Liborio).

SANTUZZA – (corre di qua e di là, per non lasciarsi raggiungere e, intanto, ride di gusto) Ti ho detto no! Perciò, è meglio che ti rassegni!

LIBORIO – Ma Santuzza…! Ti pare bello che dopo una giornata di lavoro, tu mi fai ancora curriri?! E dillo che mi vuoi morto! (Tenta di afferrarla)

SANTUZZA – E a te,  chi te lo dice di correre? Perché non ti fermi?

LIBORIO – Se tu ti fermi a darmi un bacio, mi fermo pure io.

SANTUZZA – E allora, amore mio, puoi correre fino a domani, tanto io, il bacio non te lo do!

LIBORIO – (si ferma un istante) Hai detto “amore mio”?

SANTUZZA – (si ferma anch’essa) Bih, m’è scappato!

(Con un balzo, Liborio l’afferra e le strappa un bacio. In quel momento, entrano Mara e Teresa le quali, per far notare la loro presenza, tossiscono fintamente, più volte… ).

SANTUZZA – (imbarazzata, balbetta) No… è che… siccome io… lui…

LIBORIO – Siccome aveva un moscerino dentro l’occhio… allora, io…

MARA – (sorride) E glielo hai tolto, bravo. Di ‘sti tempi, ci sono certi moscerini accussì fastidiosi…!

TERESA – (anch’essa con tenera ironia) Sì, sono terribili, proprio! E quando entrano dentro all’occhio, una, da sola, non è che se lo può togliere! Meno male che c’era Liborio e ci ha pensato lui.

SANTUZZA – Sì, meno male, veramente.

LIBORIO – Meno male. Sì, perché c’era un moscerino  ca pareva proprio un “moscerone”! Era proprio… (alle due donne) Salutamu. (Esce, assieme a Santuzza).

3 –

TERESA – Quant’è bella la gioventù!

MARA – Ha parlato la vecchia decrepita! Ma levati, va!

TERESA – Va beh, non sono decrepita ma queste cose romantiche, oramai, me le posso scordare! Passati i primi giorni di matrimonio… addio… niente più!

MARA – Senti, io non mi sono mai sposata e perciò non posso fare la maestra di nessuno… però sono convinta che le “cose romantiche”, come le chiami tu, una moglie, non se le deve solo aspettare dal marito ma farle.

TERESA – E io ci provo. Giovanni – io lo so che mi vuole bene – però il problema è che di ‘sti cosi, non ni mangia. Secondo me, si mette in imbarazzo. Sarà, forse, perché è più grande di me, non lo so.

MARA – L’età non c’entra. È questione di carattere. Giovanni è fatto accussì. L’importante è che ti vuole bene.

TERESA – ‘U sapiti cos’è che dice, per giustificarsi? Dice che sono tutte minchiate, buone solamente per quelli che non hanno pensieri e si grattano la pancia dalla mattina alla sera! Avete capito? E io ci faccio pure la figura della scema!

MARA – E tu devi insistere, gioia, devi insistere! Bisogna educarli a ‘sti masculi, no? Con dolcezza, si capisce e con pazienza, tanta pazienza… La stessa pazienza che ci ho io cù ‘stu mal di schiena che mi sta facendo patire le pene dell’inferno!

TERESA – Ma ce l’avete messa quella pomata…?

MARA – Ma che pomata, figghia mia! Ci vorrebbe una pomata che fa tornare giovani, e allora, sì! Ma siccome non l’hanno ancora inventata, dobbiamo sopportare, con rassegnazione, i malanni della vecchiaia. (Pausa. sospira) Avanti, quando vado da don Ciccino… prima che si mette a sbraitare!

TERESA – Chissà che cosa vi deve dire…

MARA – Non lo so. però so quello che gli debbo dire io.

TERESA – Allora, avete deciso. Glielo dite.

MARA – Non posso fare finta di non sapere… ora che so. voglio morire con la coscienza netta, io.

TERESA – Avete ragione. (Pausa) Sapete, za Mara… con voi mi posso confidare… A mmia, ‘stu cristianu, non mi è mai andato a genio… fin dal primo giorno che l’ho veduto. E poi, non mi piace il modo che ha di guardare.

MARA – Perché, come ti guarda?

TERESA – No, non dico solo a me ma a tutti. Non guarda mai negli occhi… anzi, se uno ci prova, lui gira lo sguardo da un’altra parte… come se avesse qualcosa da nascondere…

MARA – E, forse, ce l’ha, il nostro Filippo, qualche cosa da nascondere!

(Da destra, sbuca, piuttosto contrariato, Mazzarò).

MAZZARO’ -  Ah, Mara, qua siete? Ma ve l’hanno detto che vi devo parlare o no?

MARA – Sissignore.

MAZZARO’- Però, mi pare che ve la state pigliando comoda!

TERESA – La colpa è mia, voscenza… L’ho trattenuta a parlare e…

MARA – Non mi ha trattenuto nessuno! (senza alcun timore) Ahu, don Ciccino! Io non ho più vent’anni e se ogni tanto mi siedo per fare riposare questa benedetta schiena, non è certo per fare torto a vossignoria! Comunque, sempre ai suoi comandi. (Si alza)

MAZZARO’ – (con un tono più accomodante) No, rimanete seduta. Possiamo parlare anche qua, al fresco.

TERESA – Io vado a casa. Con permesso. (Esce).

MARA – E allora, come mai voscenza aveva tutta ‘sta premura di parlare con  me?

MAZZARO’ – Lasciate stare i “voscenza” e i “vossignoria”! ci conosciamo da troppo tempo… sono quasi quarant’anni, mi pare.

MARA – Trentotto, per la precisione. Ma trentotto anni fa, la situazione non era la stessa di oggi. Comunque, vossia parra.

MAZZARO’ – E’ da un poco di tempo che desideravo chiedervelo, Mara… però ho sempre rimandato perché volevo capacitarmi io, da solo. Ma, ora, voglio sentire anche voi.  Che ne pensate di questo… di questo mio figlio?

MARA – Perché me lo domanda?

MAZZARO’ – Perché… perché io sento che non può essere figlio mio. Non abbiamo niente in comune – dico, niente! – io e lui! Più lo guardo e più me ne convinco.

MARA – Non sempre, i figli assomigliano ai padri… non sarebbe, certo, la prima volta.

MAZZARO’ – E dunque, voi pensate che…

MARA – Io sto solo dicendo che non si rifiuta un figlio perché non ti somiglia o per delle sensazioni. Ci vogliono prove, caro don Mazzarò, prove sicure.

MAZZARO’ – E che prove ho io? Nessuna. A onor del vero, anzi, io, con sua madre, ci sono stato…

MARA – Lo so. E chi è che non lo sapeva, a Lentini?

MAZZARO’ – E perché mi dovevo nascondere? Lucia era libera e io pure.  

MARA – Ma la gente sparlava lo stesso perché non eravate maritati.

MAZZARO’ - Maritarmi, io? E che ero pazzo? Il mestiere del marito non l’ho saputo fare mai! Voi lo sapete meglio di tutti, Mara… La mia vita l’ho passata a spaccarmi la schiena zappando sotto il sole che ti bruciava anche l’anima! Oppure con la pioggia, fino a quando il fango non  ti mordeva le caviglie! Per questo, sono nato, non per fare il marito!

MARA – Per questo e per la roba, vossia è nato. Quella roba che non deve finire nelle mani di… di qualche figlio. Dico giusto?

MAZZARO’ – Sangue di Giuda! Io non ne ho figli! E Filippo, questo estraneo, questo pezzente – falso e  imbroglione – che è arrivato a casa mia chiamandomi “padre”, ha solo uno scopo: quello di rubarmi la roba!

MARA – E se, per caso, non fosse un imbroglione?

MAZZARO’ – No, Mara, è tutto un inganno, sono sicuro! Sono tre mesi che ci penso e mi faccio sempre le stesse domande. Perché Filippo, per dirmelo, ha aspettato che Lucia, sua madre, morisse? E perché non fu Lucia stessa a farmelo sapere?  Perché lasciarmi all’oscuro di tutto? Da quando la persi di vista, non ne ho più avuto notizie. Come mai mi tenne nascosto che era incinta?  Perché non dirmelo?

MARA – (serafica) Per la semplice ragione che Lucia non fu mai incinta né poteva esserlo. Don Ciccino, la povera Lucia, buon’anima, non poteva avere figli. Non tutti lo sapevano, a Lentini. Io stessa – che la conoscevo – l’ho saputo solamente qualche giorno fa, così, per caso.

MAZZARO’ – Siete sicura di quello che dite?

MARA – Se avessi avuto qualche minimo dubbio, anche piccolo – vossia mi conosce – me ne sarei stata muta, fino alla tomba. E perciò, vossignoria può stare tranquillo: Filippo non è figlio di Lucia né, tantomeno, figlio di voscenza.

MAZZARO’ – Ma si può sapere che aspettavate a dirmelo? E che, vi fa piacere tenermi sui carboni ardenti? E perciò, questo signor Filippo  non è figlio di Lucia e non è figlio mio. Ma, di sicuro, è un gran figlio di puttana!

MARA – Eh! Può essere. Se la vera madre è quella che penso io, può essere.

(Da sinistra, entra un contadino).

CONTADINO – Mi scusi, voscenza…

MAZZARO’ – (aggressivo) Che vuoi, tu? Non lo vedi che sono occupato? Vattinni!

CONTADINO - Sissignore. Mi deve perdonare. (Esce)

MAZZARO’ – Venite a casa mia, Mara. Lo vedete, qua non si può discutere di cose delicate. Venite, voglio conoscere i particolari! Ve lo chiedo per favore. Non vi dispiace, vero?

MARA – La cosa che mi dispiace è una sola, don Ciccino: avere capito che vossia, a Filippo o a chiunque altro, non l’avrebbe mai accettato, anche se fosse stato figlio suo veramente.

MAZZARO’ – No, vi sbagliate…

MARA – (continua) Vossignoria si angustia, smania, non mangia, non dorme… perché ci ha la “febbre della roba”.

MAZZARO’ – Ma che state dicendo?

MARA – Non è colpa sua… è colpa di questa brutta febbre se, vossia si è persuaso che nessuno –  tranne voscenza, si capisce  – nessuno deve poter guardare, con occhi da padrone, la roba di don Ciccino Mazzarò!

MAZZARO’ – (delirante)  Quei campi, là, in fondo, grandi come il mare…! E la vigna…! Quei filari che si allungano fino a incontrarsi col cielo…!  E dda supra! Dove gli ulivi brillano come smeraldi…! È tutta, tutta roba mia! (s’inginocchia e raccoglie un pugno di terra)  Forse ci ho la febbre, avete ragione, voi! Ma dovete sapere che in questa terra, c’è il mio sangue… e nel mio sangue, c’è questa terra! (Fa scivolare la terra tra le dita, poi si alza a guardare verso il fondo, spalle al pubblico) Roba mia! È tutta roba mia! E nessuno…! Nessuno…! (Alza il pugno in aria, minaccioso).

MARA – (con tenerezza) Non t’inquietare, Ciccino… calmati. Nessuno si prende la tua roba. (Lo piglia sottobraccio e, insieme, escono da destra).

4 –

(Da sinistra, entra Giovanni con un Liborio particolarmente contento ed eccitato).

GIOVANNI – Liborio, gioia, l’ho capito. Me l’hai ripetuto almeno dieci volte!

LIBORIO – No, siccome mi pare che siete un poco distratto…

GIOVANNI – Anche se sono distratto, quello che hai detto, me l’hai fatto imparare a memoria!

(Entra Teresa con della verdura da pulire).

TERESA – Oh, Liborio… ci sono novità?

LIBORIO – Grosse!

GIOVANNI – Si è fidanzato in casa e m’ha fatto ‘na testa tanta!

TERESA – Finalmente! Bravo, sono contenta.

LIBORIO – Ho parlato col padre di Santuzza! Lui mi ha detto…

GIOVANNI – E che fai, ricominci da capo?

LIBORIO – E siccome vostra moglie non lo sa…

TERESA  E certo. Raccontami, raccontami.

GIOVANNI – E come vuole Dio! (Si siede, rassegnato).

LIBORIO – Dunque… suo padre mi fa: “Tu ci vuoi bene a Santuzza?”. “E certo che ci voglio bene, ci ho detto, se non ci volevo bene, a quest’ora che ero qua, a parlare cù vossia?”, ci dissi.

TERESA – E dopo?

LIBORIO – (risentito) Comu, “e dopo”? Se  la cosa non v’interessa, non parlo più.

TERESA – No, dico, e dopo, di che cosa avete discusso?

GIOVANNI – Teresa, per opera di carità, non lo interrompere! Non ci fare perdere il filo se no facciamo notte!

LIBORIO – No, no tranquillo, non lo perdo il filo. È che non avevo capito la domanda di Teresa. Perciò… che stavo dicendo?

GIOVANNI – Hai visto che il filo lo hai perso? Io, invece, sto perdendo tempo e pazienza!

TERESA – Giovanni, così lo fai confondere!

LIBORIO – No, tutto a posto! Ci sono, ci sono! E allora, lui mi dice: “Ma tu, praticamente, che sai fare?” “Io? Mizzica, che so fare, io? Dunque, io so zappare, poi so… e basta. Non ci basta?” E basta, non ci basta?(Ride di gusto) Mi uscì la battuta spiritosa… “ e basta, non ci basta?” (Continua a ridere poi torna serio) Però, il padre di Santuzza non penso che l’ha capita perché ha fatto una faccia… Voi l’avete capita?

TERESA – Che cosa?

GIOVANNI – (taglia corto) Sì, Liborio, l’ha capita! Tutti l’abbiamo capita, non ti preoccupare.

LIBORIO – Ma allora, lui perché non l’ha capita? Forse perché era un pochettino ‘mbriaco? Bah, comunque, per farla breve…

GIOVANNI – (tra sé) E meno male!

LIBORIO – A mio suocero – perché ora, è mio suocero, giusto? – a mio suocero, tutto sommato, non ci sono dispiaciuto. Infatti, a un certo punto, si parte e mi dice: “Che vuoi a mia figlia? T’a po’ purtari quando vuoi”.

TERESA – E i confetti?

LIBORIO – No, mi ha offerto solo un bicchierino di rosolio. Si vede che confetti non se ne trovava, in casa. Ma, perché, per il fidanzamento, si usano i confetti?

TERESA – Per il fidanzamento, no ma per il matrimonio, sì!

LIBORIO – Ah, va bene, poi glielo ricordo io a mio suocero! Ce ne faccio comprare un chilo!

GIOVANNI – Scusami, Liborio ma io, con grande dispiacere, ti devo lasciare. (Si alza) Teresa, faccio un salto nella masseria, qua vicino e poi mi ritiro. 

TERESA – Ma come, fra poco, fa scuro e tu te ne vai ancora in giro?

GIOVANNI – Col calesse, ci sto non più di un’ora… il tempo di andare, consegnare le ultime paghe e tornare.

LIBORIO – Vi faccio compagnia?

GIOVANNI – No, grazie. Ciao, Teresa.       

TERESA – Ciao. Mi raccomando, non fare tardi.

LIBORIO – (a Teresa) Vi saluto!

TERESA – Arrivederci e… tanti auguri!

(Giovanni e Liborio si allontanano).

LIBORIO – Vi accompagno fino al calesse. Ve l’ho detto che, dopo, ho parlato anche con sua mamma?

GIOVANNI – La mamma di chi?

(Escono entrambi, da sinistra.

Teresa, da sola, in scena, impegnata a pulire la verdura).

5 –

(Da sinistra, entra Filippo).

FILIPPO – Salutamu, Teresa.

TERESA – (freddamente) Salutamu.

FILIPPO – Sapete, per caso, dov’è mio padre?

TERESA – E’ stato qua, prima… ma, ora, non vi so dire dov’è andato. Provate a vedere se è a casa.

FILIPPO – No, lo aspetto qui, tanto è qui che lui se la fa, no? (Si siede) Sempre che non vi dispiace.

TERESA - Dispiacermi? E che è mio, il cortile?

FILIPPO – Se è per questo, nemmeno mio… ancora. No, io intendevo dire, se “la mia compagnia”, non vi dispiace.

TERESA – Nella masseria, siamo tutti una famiglia e tante volte, capita di stare insieme a tenerci compagnia.

FILIPPO – Ho capito. Ho capito che non vi sono troppo simpatico.

TERESA – Scusate… ma che c’entra, ora, la simpatia?  

FILIPPO –  Avete ragione, quando si parla di me, la simpatia  non c’entra mai. Infatti, ‘nta ‘sta masseria, ce ne fosse uno che si degnasse a concedermi la sua amicizia! Ma quale amicizia?! Qua, non mi danno neppure confidenza!… Mi allontanano tutti, come se avessi la febbre della malaria! E mio padre? Quel grand’uomo di don Mazzarò, che fa? Per soprappiù, ci mette sopra il carico di undici! Da quando sono arrivato – e cioè da tre mesi precisi! – non fa che umiliarmi e disprezzarmi! Eppure, io non mi risparmio. Per farlo contento, mi spezzo la schiena più degli altri…! Fatico come un asino da soma…! E che cosa ne ricevo in cambio? Solo calci nel sedere! Questa è la mia paga settimanale! Gli altri, i denari, io, un calcio in culo!

TERESA – Perché le raccontate a me, queste cose?

FILIPPO – Perché? Perché, siccome voi siete una ragazza giudiziosa, vorrei sapere che ne pensate.

TERESA – Non lo so se sono giudiziosa però so di essere una serva e i servi devono stare al loro posto, non sono in grado di esprimere pareri.

FILIPPO – E brava! Io vi domando che cosa ne pensate e voi ve ne uscite con la favola della serva cretina!

TERESA – Avete capito male. Io non ho detto di essere cretina!

FILIPPO – Non vi riscaldate, Teresa. Lo so, lo so che non siete cretina né  serva.

TERESA – Vi sbagliate di nuovo. “Sono” una serva. Ma non me ne lagno. Anche perché, a pensarci bene, in questo mondo, tutti siamo schiavi di qualcuno o di qualcosa, anche i padroni.

FILIPPO – Caspita! Parlate come un libro stampato! Chi ve l’ha insegnate tutte queste scemenze?

TERESA – (risentita) Scusate ma in casa, ci ho tante cose da fare. (Si alza per avviarsi).

FILIPPO – Aspettate! Io non vi volevo offendere…

TERESA – State tranquillo, non mi avete offesa. (Fa ancora per andar via)

FILIPPO – Teresa! Se ve ne andate così, significa, allora, che vi siete offesa. E in questo caso, vi prego di perdonarmi. Sedetevi. Per favore.

TERESA – Sentite… Devo preparare la cena per mio marito e…

FILIPPO – Solo un minuto. Che vi costa?

TERESA – Non vorrei essere sgarbata ma… forse è meglio che andate a cercare don Mazzarò.

FILIPPO – Prima, voglio dirvi… (Le si avvicina. Teresa si irrigidisce).

TERESA – Dirmi… che cosa?

FILIPPO – Quello che ci ho, qui, nel cuore, da quando vi conosco.

TERESA – (ostenta una finta sicurezza) Vi consiglio di fermarvi perché state per battere un sentiero che non vi porta da nessuna parte! E ora, lasciatemi andare! (Si avvicina all’uscio di casa ma Filippo le afferra il braccio e la conduce verso il centro della scena).  

FILIPPO – Io sono troppo curioso! voglio vedere dov’è che mi porta questo sentiero! (Tenta di abbracciarla ma Teresa resiste).

TERESA –Ma che siete, scemo?! Come vi permettete?

FILIPPO – (continua nelle sue avances) M’hai fatto perdere la testa, Teresa! Non faccio che pensare a te… Notte e giorno! Soprattutto, la notte! Mi piaci, Teresa, mi piaci da morire! Questa pelle…! Questo profumo… mi fanno impazzire!

TERESA – (lo respinge con difficoltà) Siete un vigliacco… un uomo senza onore! Uno che non vale manco uno sputo!

FILIPPO – Quando diventerò il padrone di tutto, allora, cambierai opinione!

TERESA – Tu non diventerai mai padrone di niente… nemmeno di te stesso! Lassami, animale! O mi metto a gridare!

FILIPPO – (le strappa un bacio) E confessalo che ti fa piacere! Confessa che ti piace sentire le mie mani che ti toccano!  

TERESA – (piange di rabbia e di paura) Mi fai schifo! Schifo fino al vomito! Bada che sta tornando mio marito!

FILIPPO – (ride) E che mi fa, il vecchietto, eh? Mi sgrida? Quello non è buono a niente e non è buono nemmeno per te! Tu hai bisogno di uno come me!

TERESA – Aiuto! Aiutatemi! (Filippo le tappa la bocca; lei riesce a mordergli una mano. Ne nasce una vera e propria colluttazione durante la quale, lei cade a terra).

6 –

(sopraggiunge Liborio).

LIBORIO – Teresa! Chi fu? State bene?

 (Aiuta la ragazza a rialzarsi. Teresa, rapida, raggiunge l’uscio di casa).

FILIPPO – E tu, che minchia vuoi?

LIBORIO – (urla) Chi ci facisti a Teresa?

FILIPPO – (ridacchia) E che ci dovevo fare, scimunito? Niente, a idda ma a te, se non te ne vai subito…

LIBORIO – E perché non ti ni vai tu, buffuni? (Sta per scagliarsi contro ma si ferma perché Filippo tira fuori un coltello)

TERESA – (urla, terrorizzata) Vattene, Liborio! Aiuto! Aiuto!

(I due si affrontano ma solo per qualche istante poiché  giungono tutti gli altri contadini).

TUTTI – Ahu! Fermatevi! – Posa il coltello! – Ma che sei, pazzo?!

 (Entrano, da destra, contemporaneamente, anche Mara e don Mazzarò.

I contadini sono addosso a Filippo che resta col coltello ancora in mano).

LIBORIO – (ancora molto agitato, urla) Ha dato fastidio a Teresa e l’ha pure maltrattata!

MAZZARO’ – (afferra Filippo per il colletto) Delinquente! Vigliacco! (Lo scuote rabbiosamente poi lo spinge. Filippo indietreggia di qualche passo; il coltello finisce a terra)  Vattene! E non ti fare più vedere! Qua, non c’è posto per certe bestie!

FILIPPO – No! Non mi potete mandare via! Non vi liberate di me così facilmente perché io sono vostro figlio!

MAZZARO’ – Mi dispiace ma a tuo padre, te lo devi andare a cercare da qualche altra parte perché qui non c’è! E tu lo sai benissimo che qua non c’è! Vallo a chiedere a tua madre, a quella buona donna di Vanna Cardò! Se sei fortunato, può essere che lei se lo ricorda di chi sei figlio!

FILIPPO – (insiste ma senza forza nè convinzione) Mia madre è Lucia Lanza!

MAZZARO’ – Lassala riposare nella tomba a quella poveretta  che non ha niente a che fare con la tua razza, disgraziato! E ora, vattene che è meglio per te!

FILIPPO – Figlio o non figlio, ho lavorato per voi! E voglio quello che mi spetta!

MAZZARO’ – Quello che ti spetta è una revolverata nella testa o la galera! Io ti sto risparmiando l’una e l’altra, a patto che scompari davanti agli occhi miei! Finché campo, non voglio più vedere la tua faccia!

(Filippo si avvia nervosamente verso l’uscita di destra).

MAZZARO’ – (raccoglie il coltello che era rimasto a terra) Aspetta! Questa è roba tua! (Glielo butta ai piedi) Ti può sempre servire… Chi lo sa? Può essere che fai l’unica cosa buona della tua vita e t’ammazzi!

(Filippo raccoglie il coltello ed esce).

MAZZARO’ – Avanti, non è successo niente, picciotti! Potete andare… ritiratevi.

(Tutti escono. In scena: Mazzarò, Liborio, Mara e Teresa).

7 –

LIBORIO – (non si è ancora ripreso) Io ho visto Teresa a terra e… e poi chiddu, il figlio di voscenza… che, però,  se non ho capito male, non è più il figlio di voscenza…

MAZZARO’ – Va bene, va bene, calmati. Tu, Teresa, stai bene?

TERESA – Sì, grazie.

MARA – E’ ancora scombussolata, a figghia.

MAZZARO’ – ( a Liborio) E tu?

LIBORIO – Il fatto è cheil disonesto ha uscito fuori il coltello e ci pareva che io mi spaventavo… del coltello! Ma io non mi sono spaventato! Comunque, sto bene, benissimo… non mi fici nenti… (Ha un mancamento e crolla giù, a terra.

Buio per qualche istante).

8 –

(Al riaccendersi delle luci, in scena, Teresa, seduta accanto all’uscio di casa, intenta a rammendare dei calzini. È passato quasi un anno. La domenica di un pomeriggio d’estate. Si odono i suoni della campagna. Dalla comune, entra Giovanni che si siede accanto a Teresa).

GIOVANNI – C’è qualcuno, da don Mazzarò?

TERESA – ‘A za Mara.

GIOVANNI – Speriamo che si rimette presto perché mi dispiace vederlo in un fondo di letto… Lo preferisco quando mi piglia a male parole e fa il pazzo!

TERESA – Dispiace a tutti, anche se non ha un bel carattere…

GIOVANNI – “Un bel carattere”? Diciamo che ci ha un carattere che fa schifo.

TERESA – Lo sai che, oramai, sono dieci mesi ca ‘stu cristianu sta male?

GIOVANNI – Quasi un anno, lo so.

TERESA – Per la precisione, da quando ha cacciato via quel farabutto di Filippo! E che, per vendicarsi, gli ha fatto il malocchio, gli ha fatto?!

GIOVANNI – Non mi parlare di quel delinquente, fammi il favore! Non mi ci fare pensare, sennò mi va il sangue agli occhi!

TERESA – E ti pare che a me mi fa piacere? Quando ci penso…! Basta, lasciamo perdere, va!

GIOVANNI – Ma sì, lasciamo perdere ch’è meglio. Non ne vale la pena, Teresa. (Pausa) Io vado a dare un’occhiata alle stalle e, nel frattempo, vedo come sta il vitellino che è nato ieri.

TERESA – E io finisco di rammendare l’ultimo calzino e rientro in casa.

(Giovanni esce, da destra. Dopo pochi istanti…)

TERESA – (sistema i calzini poi lancia uno sguardo verso il balcone di don Mazzarò) Speriamo bene. (Si alza ed esce, dalla porta di destra).

9 –

(Dalla comune, entrano Liborio e Turi che viene quasi trascinato al tavolo, sotto l’albero).

LIBORIO – Ma camina, non ti fare trascinare! Avanti, assettiti!

TURI – Ma perché non mi lasci in pace? Che t’ho fatto di male?

LIBORIO – Muto! Mutu ché ora ci divertiamo!  (Ha fra le mani, un mazzo di carte da gioco).

TURI – Se ti ho detto che non ci so giocare, perché insisti?

LIBORIO – Te lo impari in due minuti, parola d’onore!

TURI – No. Non gioco.

LIBORIO – Ma come, non giochi…? E perché non giochi?

TURI – Ancora? Ma come te lo debbo ripetere che non mi piace giocare a carte, che non so giocare a carte e che non voglio giocare a carte!

LIBORIO – Ma che fai, scherzi?

TURI – No, non scherzo!

LIBORIO – Scusami, Turi, oggi è domenica, sì o no?

TURI – Sì, è domenica. E allora?

LIBORIO – E allora, la domenica pomeriggio, si gioca a carte.

TURI – E che è, una legge che ha fatto il re?

LIBORIO – Sì, il re! Che c’entra il re? Senti, facciamo una cosa: se giochi, a Natale, ti faccio dare un bacetto da Santuzza!

TURI – (interessato) E… dove?

LIBORIO – Scegli tu. Guancia destra o guancia sinistra?

TURI – No. In bocca.

LIBORIO – In bocca?! Ma che sei, cretino?

TURI – O in bocca o niente.

LIBORIO – E va bene. In bocca.

TURI –  E allora, com’è che si chiama questo gioco?

LIBORIO – Briscola.

TURI – E che significa?

LIBORIO – E che ne so?

TURI – Comunque, spiegami come si gioca.

LIBORIO – Dunque… facilissimo. (Gli mostra delle carte) Questa che cos’è? Un asso di spade, giusto? Ed è una carta importante perché vale undici punti. Più importante di questa che è il tre di spade che, invece, vale dieci punti. Tu, giustamente, mi puoi dire: ma come mai tre spade hanno meno valore di una spada sola? E io ti rispondo: boh? Non lo so. Non l’ho fatta io, la regola. E così e basta. Andiamo avanti. Prendiamo, per esempio, questo sette di oro e lo mettiamo sul tavolo, sotto il mazzo… accussì. (esegue) Che vuol dire? Vuol dire che questo sette di oro è la briscola. La briscola vince tutte le altre carte, hai capito? Perciò, tutte le carte che assomigliano a questo sette di oro, sono le briscole, quelle che vincono sempre. Ci siamo? Ora, prima di continuare, fammi capire che hai capito.

TURI – Ho capito, ho capito. Non sono un cretino. Dunque, il sette di oro è la briscola.

LIBORIO – Bravo.

TURI – Tutti i sette sono briscole.

LIBORIO – Ma che stai dicendo? Quali sette?! “Ho capito, ho capito”, e non hai capito niente!

TURI – Ahu, tu l’hai detto.

LIBORIO – Tutte le carte di oro sono briscole! No’ tutti i sette! Facciamo un giro di prova, va. Così ti viene più facile a capire il gioco. (Mescola le carte) Che ci giochiamo?

TURI – Niente! Perciò, io non so nemmeno giocare…

LIBORIO – Appunto! No, voglio dire che, di solito, chi non sa giocare, vince. Che ci giochiamo?

TURI – Ma, scusa, non dicisti che è un giro di prova? Se giochiamo per prova…

LIBORIO – Anche nei giri di prova, è obbligatorio giocarsi qualche cosa. Questa è la regola. Che ci giochiamo?

TURI – Ma che c’entra…?

LIBORIO – Ti ripeto che senza giocarci niente, non si può giocare! Questa è la regola. Non è che l’ho fatta io! Che ci giochiamo?

TURI – (sbuffa) Quello che vuoi tu!

LIBORIO – Va bene. Un tarì. Va bene?

TURI – Mah! Questo gioco mi ha già stancato, prima di cominciare!

LIBORIO – No, no, sono sicuro che ti piace… è troppo bello. (Ha diviso le carte) Gioca. Tu devi tirare.

TURI – Ma io non lo so che carta debbo giocare!

LIBORIO – Fammi vedere le tue carte. Dunque, dunque… ti conviene tirare questa.

TURI – Come dici tu. Asso di spade.

LIBORIO – E io me lo acchiappo perché ci ho la briscola!

TURI – Ma le briscole non erano tutte le carte di oro?

LIBORIO – Quello era un esempio, Turi. Ora, non lo vedi che qua c’è il cinque di coppe?

TURI – Quindi, tutti i cinque di coppe sono briscole, giusto?

LIBORIO – Ma, allora, sei scemo! Non tutti i cinque di coppe ma tutte le carte di coppe! È chiaro?

TURI – Ora, sì. Gioco?

LIBORIO – No, io devo giocare.  Fammi vedere le tue carte. (Turi gliele mostra) Benissimo. E allora, ecco qua questo tre di bastoni. Tu che fai?

TURI – Che faccio?

LIBORIO – Non puoi fare niente perché briscole non ne hai e dunque, mi tiri una carta qualsiasi, magari l’asso di oro.

TURI – Gioco l’asso di oro?

LIBORIO – Certo. Così io me l’acchiappo e faccio ventuno punti, in un colpo solo!

10 –

(Da destra, entra Mara, palesemente stanca e provata),

LIBORIO – (smette di giocare) Za Mara! Come sta don Mazzarò?

MARA – (sospira poi scuote la testa, sconsolata) E come deve stare…? (Si siede stancamente).

LIBORIO – (turbato da quella risposta) Basta, non gioco più. Non ne ho più voglia di giocare…

TURI – Io non ne avevo manco prima!

(Liborio si alza e lentamente si avvia verso l’uscita).

TURI – Liborio! Ma dov’è che stai andando? Liborio!

(Liborio non risponde e, a testa bassa, esce, seguito da Turi che continua a chiamarlo).

MARA – (Chiama) Giovanni!

(Dall’uscio di destra, entra Teresa).

TERESA  – Za Mara! Giovanni non c’è però sta arrivando. (si avvicina a Mara, le siede accanto).  Ma è veramente  accussì brutta, la situazione?

MARA – Sì. E ogni giorno che passa, va sempre peggio. Il male se lo sta mangiando, povero disgraziato!

(Da sinistra, rientra Giovanni).

GIOVANNI – Oh, za Mara! E allora, com’è?

MARA – (Allarga le braccia) Senti… mi ha detto che ti vuole parlare.

GIOVANNI - Sissignora, ci vado subito. (Esce rapidamente, da destra).

TERESA – Ma dico… niente si può fare? Il medico che ha detto, ieri?

MARA – Che siamo nelle mani di Dio. Questo ha detto.

TERESA – Ma… se la scienza non può fare niente, allora…

MARA – Allora, figghia mia, non sappiamo niente.

11 –

(Da destra, entra don Mazzarò che, visibilmente indebolito dalla malattia, si aiuta con un bastone. Giovanni, accanto a lui, vorrebbe sostenerlo).

MAZZARO’ – (contrariato da quelle attenzioni) Non c’è bisogno che mi tieni! Ancora, in piedi, ci so stare, da solo! Piuttosto, va’ a fare quello che ti ordinai di fare, spicciati!

GIOVANNI – Come vossignoria comanda. (Esce, da destra).

TERESA – (premurosa, le offre la sedia) Mi fa piacere che voscenza è uscito. Accussì piglia un po’ d’aria che ci fa bene!

MARA – Ha finito di mangiare o ha lasciato tutto sulla tavola, come al solito?

MAZZARO’ – Non statemi a seccare, Mara… non mi soffocate, con tutte queste premure! Mangio o non mangio… a che cosa serve? Che vi pare che non lo so che ci ho i giorni contati?

MARA – Tutti abbiamo i giorni contati! A tutti, prima o poi, ci tocca una bella bara, sottoterra! E allora? Se non siamo eterni, con chi ce la prendiamo, con nostro Signore?

MAZZARO’ – (con estrema rabbia) Sì! è con Lui che me la prendo! Perché non è giusto, santu diavuluni! Per una vita intera, ho buttato sangue! Ho sopportato la fame, le fatiche, le malattie…! I pensieri, le preoccupazioni, i dispiaceri mi hanno divorato il cervello, notte dopo notte, giorno dopo giorno! E ora… ora che ci ho, finalmente, la mia roba… tanta roba! Più di quanta ne possiede il re…! E, ora che il desiderio di fare altra roba, è più forte di prima…!  Ora, il vostro Dio mi dice: “Ciccino Mazzarò! Hai finito di campare! È arrivato il tempo di lasciare la tua roba e di pensare all’anima!” Ditemi se, questa, non è un’ingiustizia!

MARA – Io dico solo che vossia sta bestemmiando.

MAZZARO’ – E allura, lassatimi bestemmiare in pace e non mi torturate più con le vostre chiacchiere!

MARA – Se è per questo, me ne vado anche subito, voscenza non si deve preoccupare! (Fa per andar via ma Teresa la ferma).

TERESA – No, za Mara, non ve la pigliate…

12 –

(Entra, da destra, Alfio).

ALFIO – Don Mazzarò,  vossia benedica. Come si sente? (Mazzarò non risponde) Voscenza mi ha fatto chiamare?

TERESA – Venite, Mara, fatemi un po’ di compagnia. (Entra in casa, assieme a Mara).

ALFIO – (in piedi, col berretto in mano, davanti a Mazzarò) Me ne compiaccio che vossignoria si sente meglio. Eravamo tutti…

MAZZARO’ – (lo interrompe) Assettiti.

ALFIO – Grazie, voscienza.

MAZZARO’ – Dimmi ‘na cosa… Tu ci stai male, qui, da me?

ALFIO – Che dice? E perché dovrei starci male? Anzi, io non sono degno nemmeno di baciarle la mano…!

MAZZARO’ – L’alloggio che ti ho assegnato è buono?

ALFIO – Buono?! Che fa, scherza, eccellenza? Di meglio non potevo sperare!

MAZZARO’ – E la paga? Ti basta per potere mantenere la tua famiglia?

ALFIO – Sissignore, mi basta. Pensi che, con qualche sacrificio, mia moglie sta già preparando la dote  per la mia figliola, Maria. Ancora è ‘na picciridda, si capisce, però…

MAZZARO’ - Insomma, sei contento di lavorare per me. Non è vero?

ALFIO – Verissimo, eccellenza.

MAZZARO’ – E allora, perché mi rubi?

ALFIO – Rubare…? Io? (Il volto di Mazzarò rimane impietosamente immobile)  Io? Non è vero! Chi fu la malalingua che…

MAZZARO’ – Non negare, ladro! Non negare! Hai rubato due sacchi di grano!

ALFIO – Io ci giuro, don Mazzarò…! Ci giuro che…

MAZZARO’ – Ma che giuri? Bastardo! Che giuri a fare? Ricordati che Ciccino Mazzarò, fino a quando è vivo, ci ha mille occhi e mille orecchie! E se, ora, dico che hai rubato, significa che sono sicuro di quello che dico! (Alfio abbassa il capo) Ma la faccenda, non ti preoccupare, l’accomodiamo a modo mio. (Dalla tasca dei pantaloni, tira fuori un revolver e lo poggia sul tavolo) Sparati.

ALFIO – (balbetta, terrorizzato) Che cosa?

MAZZARO’ – Ti devi sparare un colpo in testa. Qui, ora. davanti a me.

ALFIO – (tremante di paura) Vossia sta scherzando?

MAZZARO’ – (freddo e sinistramente calmo) O ti spari tu… o ti sparo io. Non c’è remissione di peccato.

ALFIO – (gli si butta ai piedi, in ginocchio, urla tra le lacrime) Don Mazzarò, mi perdoni! Non avevo mai rubato niente, in cinque anni e vossia lo sa…! Mai niente! Fu la pazzia di una volta sola!

MAZZARO’ – Chi ruba una volta, ruba sempre! (Gli assesta un calcio che lo fa ruzzolare) Che uomo sei? Invece di piangere, ladro e vigliacco, piglia quella rivoltella e sparati! E va bene. Se non ne sei capace… se sei capace solo di morsicare la mano che ti ha dato da mangiare, vuol dire che ti sparo io! (Impugna la pistola, fra le grida disperate di Alfio che rimane in ginocchio a coprirsi il viso, con le mani).

13 –

(Le voci allarmano Teresa e Mara che si precipitano in scena).

MARA – Ma che sta facendo?

TERESA – (quasi a sfidarlo, piomba davanti a Mazzarò frapponendosi tra lui e Alfio) Don Mazzarò, che vuole fare con quella pistola? Che è diventato pazzo?

MAZZARO’ – Fatti gli affari tuoi, Teresa, non t’intromettere!

TERESA – (la voce alterata dalle forti emozioni che le impediscono un respiro regolare) E no, mi dispiace ma stavolta, per la prima volta, non posso ubbidire a voscenza!

MAZZARO’ – (urla, fuori di sé, con una forza che sgomenta i presenti) Sangue di Giuda, tu non c’entri, ti ripeto! È  una questione fra me e questo ladro!

TERESA – (disperata, tra le lacrime, in un moto improvviso di ribellione contro Mazzarò,  sfoga la collera e la paura su Alfio che colpisce ripetutamente sulle spalle) Disgraziato! Perché? Perché? E che avete rubato al vostro padrone di tanto prezioso? Che cosa? Parlate! Parlate!

MAZZARO’ – (ad Alfio) Diglielo a questa femmina insolente, che cosa mi hai rubato! Diglielo!

ALFIO – (bisbiglia, a testa bassa) Due… due sacchi di grano.

MAZZARO’ – Più forte! Perché questa sfacciata, presuntuosa non ha sentito!

ALFIO – (alza leggermente la voce) Due sacchi di grano. Ma non avevo mai fatto niente del genere, in vita mia, lo giuro, davanti a Dio! È la prima volta!

MAZZARO’ – Chi ruba una volta, ruba sempre!

TERESA – (tenta di trattenere le lacrime) E voscenza, perciò, gli vorrebbe togliere la vita solo per amore di giustizia? E allora, la conservi quella pistola perché giustizia è fatta!

MAZZARO’ – Ma chi sta’ ‘ncucchiannu, scimunita?

TERESA – Lui ha rubato a vossignoria due sacchi di grano…  E ora, vossignoria ha rubato a lui la dignità! E la dignità, don Mazzarò, non vale meno di quel grano! Vossia, perciò, può essere soddisfatto! (angosciata per ciò che potrebbe ancora accadere) Non le basta di vederlo ai suoi piedi, come un animale bastonato, col terrore negli occhi?  (Ad Alfio, sempre tra le lacrime) E voi, alzatevi! V’è rimasto un pò di amor proprio o il vostro padrone vi ha rubato anche quello? Alzatevi, vi dico! Non state ancora in ginocchio! Non siete davanti al Padreterno! (Alfio ubbidisce)

MAZZARO’ –  (ripone la pistola in tasca) Ammazzarlo, no, non l’avrei ammazzato, anche se… Avevo deciso di sparargli alle gambe. (A Teresa, con un tono che preannuncia una punizione) E tu me l’hai impedito! (A Alfio) Comunque, da casa mia, tu te ne vai.

ALFIO – E dove vado, voscenza?

MAZZARO’ – Affari toi su’. Ho dato l’incarico a Giovanni di avvertire tua moglie ché si cominci a preparare. Domani mattina, sloggiate! Non voglio vedere più né te e manco la tua famiglia! Mi hai capito?

ALFIO – (tra le lacrime) E allora, mi ammazzi, don Mazzarò! In cambio, ci dumannu di fare restare qua, la mia famiglia! La prego, voscienza! (Cade ancora in ginocchio).

TERESA – (con la forza della disperazione) Basta! Basta con le preghiere! Alzatevi, Alfio e tornate a casa! E fatemi il favore, dite a mio marito che don Mazzarò ci ha ripensato: voi e la vostra famiglia rimanete qua!

ALFIO – (non sa che fare. Guarda Teresa, poi Mazzarò) Posso… posso andare, don Mazzarò?

MAZZARO’ – Quello che ti dovevo dire, te l’ho detto e il padrone, mi pare che, ancora, sono io!

TERESA – (ad Alfio) Andatevene! E fatemi quel favore che vi ho chiesto. Che aspettate ancora?

ALFIO – Grazie… grazie… grazie… Voscenza benedica! (Esce di corsa, da destra).

14 –

MAZZARO’ – Pensavo che eri una carusa giudiziosa, Teresa… invece sei solo stupida e petulante.

TERESA – Io non ho fatto che anticipare le decisioni di voscenza. Perché… perché sono sicura che, a mente serena, vossia non ce l’ha il cuore di mandare via la famiglia di Alfio. Sua moglie, le sue bambine e quella povera vecchia della madre.

MAZZARO’ – (stizzito) Continui a fare la presuntuosa e  a pretendere di decidere al posto mio! Come ti permetti di aprire bocca negli affari miei? Cu’ si’ tu? Tu non sei nessuno, ‘u capisti? Tu si’ nuddu ‘mmiscatu cù nenti!

TERESA – (si butta ai suoi piedi e gli afferra le ginocchia) E’ vero, don Mazzarò, io sono meno di niente perché sono solamente una serva! Mi perdoni, per quello che ho fatto! Io non volevo mancare di rispetto a vossignoria! Solo che ho avuto troppa pena per quel povero cristo. Ma se ho sbagliato, ora chiedo, in ginocchio, il suo perdono! (Si commuove)

MAZZARO’ – Ti metti in ginocchio? E che, pure a te, ti ho rubato… la dignità?

TERESA – No, non me l’ha rubata… perché, in questo momento,   domando perdono a vossia, non come mio padrone ma come se fosse mio padre!

(Mazzarò scosta le mani di Teresa dalle ginocchia, si alza e lentamente esce, da destra.

Mara corre ad abbracciare la ragazza.

Buio per pochi istanti).  

15 -

(Le luci si riaccendono  un momento dopo. Sono passati alcuni giorni. È  notte. La scena è vuota. Si sente il latrare lontano dei cani. Improvvisamente, si odono dei colpi sordi e lo starnazzare violento di anatre e galline. E le urla folli e disperate di Mazzarò e subito dopo, le voci concitate dei contadini che accorrono).

VOCE DI MAZZARO’ – Tu! Tu e tu! Siete roba mia, roba mia! E se me ne vado io, anche la mia roba se ne deve andare con me!

VOCI DEI CONTADINI – Fermu, don Mazzarò! – Che sta facendo? – Voscenza si calmassi! – Basta, basta!

LIBORIO – (sopraggiunge di corsa e bussa con forza all’uscio di destra. Urla) Giovanni! Teresa! Aprite! Presto!

VOCE DI GIOVANNI – Arrivo! Un momento!

GIOVANNI -  (Apre la porta, assieme a Teresa) Che succede, Liborio?

LIBORIO – la voce strozzata dall’emozione) Don Mazzarò sta ammazzando, a colpi di bastone, galline, anatre…! Venite, fermatelo! Pare pazzo!

 (Giovanni non ha neppure il tempo di muoversi perché Mazzarò è stato portato, quasi a forza, in scena, ora, affollata dai contadini, molti dei quali reggono in mano delle lanterne).

MAZZARO’ – (ancora in delirio, urla selvaggiamente) Lassatimi stari! Mia è la roba! Mia! Sono io, il padrone! E se il padrone se ne va, la roba se ne va con lui! (Sconvolto) E’ legge di natura! Muore il padrone, muore la sua roba! È legge di natura!

GIOVANNI – (gli si accosta) Va bene, don Mazzarò… ma ora, deve riposarsi. Lo accompagno a casa e accussì, si stende un poco sul letto…

MAZZARO’ – Mannali a tutti ‘sti cristiani! Che ci fanno qua? Che vogliono?

GIOVANNI – (si rivolge ai contadini) Andate a dormire… e grazie a tutti. Ci penso io, ora.

(In silenzio, in lenta processione, i contadini escono. In scena, oltre Mazzarò e Giovanni, sono rimasti anche Liborio, Teresa e Mara. Ciascuna delle due donne, con una lanterna in mano).

LIBORIO – (timidamente, con un filo di voce) Don Mazzarò…

(Mazzarò non risponde. Pare si sia calmato. Si alza dalla sedia su cui s’era seduto e va verso il fondo, seguito subito dagli altri).

GIOVANNI – Dove vuole andare, voscienza? Che sta guardando?

MAZZARO’ – (spalle al pubblico) La mia roba, guardo.

GIOVANNI – Ma cù ‘stu scuru, non si vede niente!

MAZZARO’ – Io la vedo. La mia roba è là… distesa dal colle alla piana… come una bella signora che spande, nell’aria, il suo buon profumo… una signora bellissima, tutta ricoperta di gioielli…! (Pausa) Portatemi qua, la mia poltrona… quella di velluto rosso. Mi ci voglio sedere un poco.

GIOVANNI – Qua fuori, voscenza?

MAZZARO’ – Sì.

GIOVANNI – Come comanda.

(I due uomini escono, da destra).

MAZZARO’ – (ancora spalle al pubblico) E’ veramente bella, la mia ricca e profumata signora, vero? E, stanotte, mi pare ancora più bella! Bella e crudele!  

(Rientrano Giovanni e Liborio, con la poltrona e la sistemano al centro della scena, in prima).

GIOVANNI – Va bene, quaà…?

MAZZARO’ – E ora, andatevene. voglio rimanere solo. Mi voglio riposare nella mia poltrona rossa. Voglio sentire, per tutta la notte, il profumo della mia roba.

TERESA – Ci piglio una coperta… accussì si ripara dal fresco?

MARA – Oppure uno scialle, qualcosa per…

MAZZARO’ – Non ho bisogno di niente. Andate a dormire. (Lascia cadere il bastone a terra. Liborio si premura a riprenderglielo) No. Lascialo dov’è. Non mi serve più, nemmeno quello.

TERESA – (gli si avvicina e gli sussurra) Ci laassu ‘sta lanterna. È una lanterna magica, lo sa? Tiene lontani tutti i pensieri cattivi e illumina il cuore… di chi è al buio. Buona notte… don Mazzarò. (Scappa via, con le lagrime agli occhi).

(Gli altri  salutano, a soggetto, Mazzarò e – mestamente – escono. Si attarda soltanto Liborio che gli si avvicina, si piega in ginocchio e accosta la mano di Mazzarò alla guancia).

LIBORIO – Vuole che ci faccio un po’ di compagnia?

(Mazzarò accenna un rifiuto. Liborio, lentamente, esce.

Mazzarò si guarda attorno. Qualche lacrima sgorga dai suoi occhi. Un respiro lungo e intenso. Poi, chiude gli occhi. Dopo un istante, reclina il capo sul petto).

SIPARIO

27 agosto 2014