La scelta migliore

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LA SCELTA MIGLIORE

Un testo che richiama l’attenzione dei giovani sulla questione delle discriminazioni – razziali in questo caso – e di come il peso del pregiudizio e della diversità sia avvertito anche in ambienti che dovrebbero essere “stagni” e tra individui (i ragazzi) per i quali il progresso ambientale e culturale non sempre riesce ad essere agile strumento per eliminare le barriere.

(ESTER ANNETTA

Via del Casale Giuliani n. 46

00141 Roma

Cell. 339 3034840

Posizione SIAE n. 212341 – Sez. D.O.R. Autori)

LA SCELTA MIGLIORE

Scena I

Mattino. Un’aula scolastica; gli alunni, fermi e seri, sono seduti nei loro banchi; un insegnante è in piedi davanti alla cattedra e, accanto a lui, c’è un ragazzino con l’aria triste e il viso rigato di lacrime.

PROF. – Quello che è accaduto è davvero vergognoso, infamante per voi e per l’intera scuola. Siete tutti ragazzi per bene, i vostri genitori vi hanno ben educato, siete volenterosi…: Balle! Queste sono le lodi che si tessono di voi al consiglio di classe! Ma non serve a niente essere diligenti se non siete anche persone corrette e rispettose!

Avete tredici anni, non siete più bambini ma il germoglio della società di domani, in un mondo che vorremmo improntato sulla lealtà e i valori.

Abbiate il coraggio delle vostre azioni! Mostrate le vostre capacità, ma anche i vostri difetti e le vostre debolezze. Siate veri! perché è sulla verità che si fonda la stima degli altri, non sulla temerarietà.

Mi dispiace, ma sarò costretto a punire tutta la classe se il colpevole non si farà avanti ed entro domani non restituirà a Marco l’i-Pod che gli è stato sottratto due giorni fa. (Suono della campanella) Potete andare. (Rivolto a Marco) Parlerò io con i tuoi genitori, non preoccuparti.

In silenzio tutti si alzano ed escono. Rimangono soltanto Marco ed Assan, un altro ragazzino, seduto in fondo, all’ultimo banco. E’ immobile, lo sguardo basso, l’aria triste e desolata.

Quando Marco è ormai sulla porta e sta per uscire, Assan quasi di scatto balza in piedi, lo raggiunge e lo ferma, parlando con un curioso accento.

ASSAN – Marco, aspetta. Devo parlarti.

Marco si volta sorpreso, posa lo zaino a terra e - con aria quasi di sfida, come a voler sovrapporre un’immagine di forza alla debolezza denunciata prima dalle sue lacrime - inchioda il suo sguardo negli occhi neri e pungenti di Assan, senza parlare.

ASSAN – (D’un fiato) Sono stato io.

Ecco il tuo i-Pod. Ora vado a cercare il Prof. per raccontargli quello che è successo.

Perdonami se puoi. Mi dispiace davvero.

Marco strappa dalle mani di Assan l’apparecchio che gli tende, guardandolo con disprezzo, e nell’atto di andarsene, sibila:

MARCO – Te la farò pagare, musulmano morto di fame!

ASSAN – (Sollevando un braccio in direzione di Marco) Nel mio paese per un’azione simile possono amputarti la mano.

Lo so quant’è grave quello che ho fatto; ma ero stanco di essere invisibile…

MARCO – (Si ferma, tra il sorpreso e l’incuriosito) Che vuoi dire?

ASSAN -  Vivo nel vostro paese da quasi due anni; ho già cambiato casa e quartiere cinque volte; da sei mesi sono arrivato nella vostra classe e non ho mai cambiato posto: sono rimasto sempre lì, in fondo a tutti, ultimo di tutti.

Questa rimane la Vostra classe, non è mai diventata anche la mia.

Nessuno mi cerca mai; vi rivolgete a me solo se l’insegnante ve lo chiede, e, per il resto, non mi vedete.

Nessuno mi chiede mai come sto, dove vivo, se ho capito la lezione o se mi serve aiuto.

Nessuno mi ha mai invitato a casa sua a fare i compiti o mi ha mai chiesto di raccontargli della mia terra o la mia storia.

Non mi trattate male, no. Semplicemente, mi ignorate.

E a me manca tutto: gli sguardi complici, i sorrisi, una mano sulle spalle o un cinque battuto mano contro mano come vedo fare a voi.

Imparo la vostra lingua solo ascoltandovi e senza mai parlarvi .

Osservo i vostri giochi in cortile, durante la ricreazione, ma mai una volta – nemmeno per sbaglio – il pallone è inciampato nei miei piedi.

Non so che merende mangiate nè che musica vi piace; avete tutti le stesse scarpe con quei tre pallini colorati o una virgola sul lato e quelle magliette con gli stessi simboli o le stesse scritte: io non li capisco, non so cosa vogliano dire e perché siano così importanti, però ce l’avete tutti e nessuno mi spiega perché.

Mi faccio domande nella mia lingua e mi rispondo con la vostra, come se sdoppiandomi mi sentissi in compagnia.

E come se non bastasse, c’è pure una ragazzina che mi piace: non ho mai avuto il coraggio di parlarle nè di rivolgerle un sorriso aperto, ma nella mia solitudine la sua immagine mi consola, luminosa e chiara come il suo nome.

Ha i tuoi stessi occhi, ma più vivi. Ed è così bella, dolce. E così lontana.

Ho paura ad avvicinarla perché forse riderebbe di me; forse mi disprezza. E così mi accontento di osservarla senza che se ne accorga, e a parlarle nei miei sogni.

MARCO – (con aria sprezzante) Senti, mi dispiace dei tuoi problemi e pure della cotta che hai preso per mia sorella; ma certo non era rubandomi l’i-Pod che ti avrei aiutato con lei.

ASSAN – Non è come pensi; non è stata una mia scelta.

MARCO – Non capisco.

ASSAN – Luca. Lui è un po’ il “capo”: il più coraggioso, il più spavaldo, il più forte; si fa rispettare e tutti fanno quello che dice lui.

Credevo che, diventando suo amico, anche tutti gli altri lo sarebbero diventati e sarei stato contento.

MARCO – Luca! Quel prepotente! Lo sai che credevo che fosse stato lui a rubare il mio i-Pod? Un’altra bravata per farsi ammirare da quella banda di pecore dei suoi amici! Ma davvero ti interessa tanto di piacergli?

ASSAN – Te l’ho detto: io l’ho capito che solo se piaccio a lui anche gli altri si accorgono di me. Perfino tua sorella.

Gli ho chiesto se potevo far parte del suo gruppo, diventare uno di loro.

Mi basterebbe che almeno si ricordassero il mio nome invece di chiamarmi Mustafà.

Lui mi ha risposto che si poteva fare, ma che dovevo superare una prova.

MARCO – Una prova? Una specie di rito di iniziazione?

ASSAN – Si. Per dimostrare il mio coraggio e poter stare con loro, avrei dovuto rubare l’i-Pod del più bravo della classe che, guarda caso, era proprio il fratello gemello di Chiara. Tu.  

MARCO – Fammi capire, Assan: ma se il tuo scopo era quello di dimostrare il tuo coraggio per farti apprezzare, perché allora mi hai restituito l’i-Pod? Forse non è bastato? Non hanno mantenuto la promessa? Ti hanno solo preso in giro?...

ASSAN – (Interrompendolo) Perché l’amicizia che avrei ottenuto in cambio sarebbe stata “rubata”, proprio come il tuo i-Pod.

Cosa me ne faccio di un legame che manca di lealtà e di correttezza? L’amicizia è una conquista, non una merce di scambio; soprattutto se il prezzo da pagare è la propria onestà.

Ad un ordine di Luca, forse tutti in classe avreste prima o poi cominciato a chiamarmi per nome e a rivolgermi la parola; ma non avrei mai sentito l’autenticità del vostro interesse, la sincerità della vostra amicizia e, meno che mai, avrei più potuto rivolgere un sorriso a Chiara o tentare di avvicinarla.

Ho tenuto con me due giorni il tuo i-Pod, e tutto quello che sono riuscito a provare per il gesto compiuto non è stato né orgoglio né gioia, ma solo disagio, rabbia e vergogna.

Sono rimasto chiuso in camera tutto il tempo, per evitare le domande dei miei genitori che mi vedevano inquieto; finché ho deciso che non mi importava niente di Luca e di tutti voi se la coscienza della mia colpa ed il rimorso mi facevano tanto male.

Ecco, ora sai tutto, e so quello che mi aspetta: dopo quello che ho fatto, tutti mi eviterete più di prima, e non solo mi ignorerete ma mi disprezzerete.

Me lo merito.

Ma tu almeno, riconoscimi di aver avuto più coraggio adesso di quello che mi è servito per rubare.

Mi dispiace davvero, Marco.

Assan abbassa gli occhi e lentamente si avvia verso l’uscita.

Marco ha un moto istintivo, come se volesse trattenerlo; ma Assan non lo vede ed esce. Marco rimane ancora un momento incerto, poi raccoglie il suo zaino e va via.

Scena II

Tardo pomeriggio. La stanza di Assan; lui seduto alla scrivania, davanti alla finestra, è intento a scrivere su di un piccolo quaderno su cui scende un fascio di luce proiettato dalla lampada da tavolo. Ciò che sta scrivendo lo racconta lui stesso.

ASSAN – Caro diario, mi sforzo di scrivere in una lingua che non è la mia per sentirmi più vicino a chi continua a non volermi. Ma è un mio dovere rispettare questa terra che mi ospita, capirla e onorarla. Un giorno forse me ne sentirò parte, quando avrò l’orgoglio di dimostrare che sarò stato un bravo studente e sarò diventato qualcuno, forse un medico famoso o uno scienziato, e mi metterò a servizio degli altri in segno di riconoscenza per essere stato accolto.

Ma oggi non è ancora così; oggi è solo fatica; e dolore. Si aggiungono a quelli che ogni straniero come me, non importa se adulto o bambino, prova nel lasciare la sua terra, le sue cose, i suoi amici. E’ la fatica di farsi vedere, di non essere trasparenti, di dimostrare di essere anche noi esseri umani come tutti; ed è il dolore di mancanze che non si colmano, di sguardi che non siano di diffidenza o compassione, di parole buone, di sorrisi veri, di amicizia.

Mia madre mi aveva promesso che presto avrei conosciuto nuovi ragazzi, avrei avuto nuovi amici e imparato nuovi giochi; ma li vedo i suoi occhi riempirsi di tristezza quando le chiedo se un giorno rivedrò il mio amico Alì. Lei capisce, lei sa.

E adesso ho anche commesso un grave errore; ho infranto la regola del rispetto e dell’onestà per sfamare il mio egoismo, il mio bisogno di essere e di mostrarmi. Mi sono pentito e ho rimediato per quello che potevo, ma il conto resta in sospeso, se non con la mia coscienza, con il giudizio degli altri.

Pagherò. Pagherò con la solitudine e l’assenza, che in fondo non sono nulla di nuovo o di più di ciò che è stato finora, solo saranno ancora più estreme e difficili da vincere.

Da oggi in poi, più che mai, saremo soli tu ed io, caro Diario.  

Assan posa la penna e richiude il diario. Alla luce delle lampada, due solchi di lacrime brillano sul suo viso, ed i suoi grandi occhi neri, curvati dalla tristezza, si fermano a fissare un punto indefinito oltre la finestra.

In quel mente si sente suonare il campanello della porta;dei passi e delle voci confuse.

Un breve silenzio; poi due lievi colpi sulla porta della stanza.

ASSAN – E’ aperto. Chi è?

La porta si schiude lentamente ed una ragazzina bionda, con un sorriso dolcissimo che pare illuminare la stanza, si avvicina ad Assan:

CHIARA – Ciao Assan.

Ti va di uscire a prendere un gelato?

Buio.