La sposa sagace

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LA SPOSA SAGACE di Carlo Goldoni

LA SPOSA SAGACE

 di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di cinque Atti in Versi Martelliani, fu per la prima volta rappresentata in

Venezia nell'Autunno dell'Anno 1758.

ALLA NOBILISSIMA VIRTUOSA DAMA

LA SIGNORA

VERONICA TONI

NATA MARCHESA LETI

O Dio! Nobilissima Dama, che dirà Ella di me nell'aprir questo libro, nel leggere questo foglio? Ella lo aprirà e leggerà certamente, poiché so che le opere mie da Lei vengono cortesemente lette, e della sua compiacenza onorate. Che dirà Ella adunque veggendo ch'io arditamente ho impresso il di Lei venerabile illustre nome fra questi fogli, senza ch'io abbia l'onore di conoscerla personalmente, senz'essere da Lei conosciuto, e senza avermi prima acquistato il prezioso dono della di Lei protezione? Condannerà Ella il mio ardire, o approverà il mio coraggio? Mi lusingo della più favorevole decisione, e non è mal fondata la mia lusinga. Vero è ch'io non ebbi finora la felicità di esserle da vicino; ma so che Ella conosce me, ed io credo di perfettamente conoscerla. Di me hanno a Lei favellato le opere mie; so che non Le sono discare, e spero in grazia loro di non essere mal veduto. Di Lei a me n'ha parlato la Fama, e mi è noto benissimo il di Lei nome, il di Lei merito e le adorabili di Lei qualità. Ci conosciamo adunque Nobilissima Dama, ci conosciamo. Io so esser Ella nata d'illustre sangue, collocata in un'illustre Famiglia, di cui conserva ed aumenta la felicità e lo splendore, preferendo lo stato suo vedovile a qualunque grandiosa, allettatrice lusinga. Io so esser Ella sì amabile e sì gentile, che tutti aspirano all'onor di conoscerla, e di seco trovarsi in virtuosa conversazione, somministrando ad un tempo stesso il di Lei spirito elevato e brillante motivo d'ammirazione, di giubbilo e di consiglio. So qual talento peregrino e felice ha Ella dalla natura sortito, e con qual arte e con quali applicazioni lo ha coltivato, facendo Ella smentire la falsa prevenzione degli uomini, ingiuriosa al bel sesso, e chiaramente col vivo esempio mostrando che le Donne sono suscettibili de' migliori acquisiti, non men degli uomini stessi, quand'abbiano il genio, l'educazione e il sistema che in Lei si ammira e si loda. Spoleto, città antichissima, capitale dell'Umbria, sede per lunghi secoli di possenti e valorosi Sovrani, rispettabile ancora a dì nostri sotto il felicissimo governo della Santa Sede Apostolica, e feconda di bei talenti, coltivatori di Scienze e di belle Arti; Spoleto vanta fra i più bei pregi che l'adornano la di Lei ammirabile e singolare persona. Può questa avventurosa Città estendere per lungo tratto di mondo la gloria di possedere una Dama piena di virtù e di merito, modello della più esemplare condotta, e specchio del più nobile e del più applaudito sistema. La Virtù, per innamorare gli animi ad imitarla ed a possederla, non deve essere austera. Pochi si trovano capaci di que' severi precetti che vogliono ridur gli uomini a odiare la società, per timor della corruttela del secolo. Il mondo ha le sue bellezze reali, create per servigio e per piacere dell'uomo, ed il privarsene è dura cosa, siccome l'abusarne è peggior consiglio. Un saggio discernimento sa separare il tristo dal buono, e trova fra gli estremi il diritto sentiero che conduce all'umana felicità. Dietro a sì ragionevole scorta s'avviano i più timidi, i meno esperti, e ritrovami al fin del viaggio contenti. Ecco la di Lei moderazione, la di Lei saggezza, Nobilissima Dama, verace guida, util consiglio, ragionevole ammaestramento. Ella è innamorata della Virtù, ma non abborre l'onorevole società. Ella tratta più volentieri colle persone di spirito, ma sa vivere ancora con chi di spirito non


abbonda. Fa buon uso del suo sapere nelle occasioni, e non ostenta importunamente le cognizioni acquistate. Sa essere dotta coi dotti, ed affabile cogl'ignoranti; e in cotal guisa operando, tutti trovano in Lei qualche cosa da apprendere e da imitare, innamorandosi taluno del di Lei sapere, altri della soavità del suo tratto, ed altri della sua virtuosa moderazione. Dicami Ella, per carità, La conosco, o non La conosco? Ah, non vorrei che la sua modestia mi rispondesse. Dubito ch'Ella mi dica che no. Ma poi considero che anche la modestia è virtù, e le virtù non mentiscono, e può bene un virtuoso contegno cercar di nascondere i pregi suoi, ma non può negar di manifestarsi, laddove trattasi di confessare la verità.

Sì, Ornatissima Dama, La conosco, benché i' non L'abbia veduta, e La venero, benché lontana, e mi valgo di un certo ardire poetico, che può passar per coraggio, per onorare i miei fogli col di Lei nome, ed offerirle in una delle mie opere la mia servitù, il mio rispetto, la mia ammirazione.

Dissi a principio che Ella pur mi conosce, ma non so quanto possa di ciò gloriarmi. Ella mi conosce per la lettura delle opere mie, e il di Lei finissimo discernimento avrà rilevato ch'io sono un uomo che ha principiato a scrivere per inclinazione, e ha proseguito per abito. Avrà Ella scoperto che tutte le opere della mia mano non sono state dettate dallo stesso spirito dominatore, ma qualche volta hanno servito alla necessità e alla violenza. So con chi parlo, né occorre che su di ciò mi diffonda; per questa parte Ella mi conosce benissimo. Vorrei che Ella in me ravvisasse ora da quest'ardita mia lettera, ch'io sono innamorato del merito sì fieramente, che ho la temerità di attaccarlo, dov'io lo trovi, non per deprimerlo com'altri fanno, ma per vagheggiarlo, per onorarlo, per imitarlo, se fia possibile. Benedetti sien quelli che mi hanno del di Lei merito sì lungamente parlato. Mi hanno acceso di desiderio di conoscerla da vicino, ma se la sorte, anziché accostarmi alla di Lei patria, mi vuol portare di là dai monti e differirmi un sì bel piacere, ho presa in mano arditamente la penna, ed ho arrischiata una lettera con cui non intendo di dedicarle un'opera troppo imperfetta, ma un cuore umile, rispettoso, ammiratore, sincero.

Che avverrà mai di questa mia ossequiosa, tenuissima offerta? Mi ricordo che, tra le infinite doti del di Lei animo, decantata mi fu moltissimo la di Lei inarrivabile benignità. A questa dunque mi raccomando; facciami questa ottenere il perdono, e m'interceda la grazia di poter essere, quale con profondissimo ossequio ho l'onore di protestarmi,

Di Lei Nobiliss. Virtuosa Dama

Umiliss. Devotiss. Obbligatiss. Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia ha qualche cosa di nuovo e di capriccioso. Al terminare del primo Atto, pare ch'ella sia principiata e finita. Poiché, siccome l'unico interesse di questa Rappresentazione è un matrimonio, s'introduce il discorso sin dalla prima Scena; vi sono dei ragionamenti, degli accidenti, che vagliono ora a dilazionarlo, ed ora ad accelerarlo, e finalmente alla presenza di testimoni, con tutte quelle solennità che sono possibili sulla Scena, si forma indissolubile il matrimonio, ed ecco la Commedia finita. Ma qui appunto è dove ha principio l'azion principale di una Sposa sagace, impegnata ad occultare il suo stato in faccia del mondo, in faccia ai parenti e collo sposo al fianco.

Guardimi Dio ch'io abbia perciò intenzione di ammaestrar le Fanciulle in simile pericolosa scaltrezza; che anzi ingegnato mi sono di condannarla e farla detestare in iscena dalla donna medesima che ne fa uso. La moralità dee cadere sulla Matrigna, che vana e orgogliosa per se medesima, ed indiscreta rapporto alla povera sua Figliastra, la mette quasi in disperazione, e la trasporta a un tal passo. Molto vi contribuiscono i servi, e sopra questi aprino gli occhi i Padri di famiglia, ché spesse volte da essi suol dipendere la rovina de' Figli.

Io per altro non iscrivo sermoni per insegnare, ma Commedie per onestamente divertire. Questa certamente ha ottenuto l'intento sopra il Teatro; se tale sarà la sorte sua in questi Tomi, non si potrà dire che sia cattiva Commedia.

Personaggi

Don POLICARPIO finanziere. Donna BARBARA sua figliuola. Donna PETRONILLA sua moglie. Il CONTE d'Altomare.
Il DUCA di Belfiore.
Il CAVALIER FERRANTE. LISETTA cameriera.
MARIANO servitore.
MOSCHINO servitore.

La Scena si rappresenta in Palermo in casa di don Policarpio, in una camera d'udienza.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Donna Barbara e Lisetta.

BAR.                 È svegliato Mariano?

LIS.                                                      Credo di sì, signora.

L'ho chiamato due volte.
BAR.                                                         E non si vede ancora?

LIS.                   Chi sa che di bel nuovo non si sia addormentato?

Tre ore non saranno, che a riposare è andato.

L'alba ancor non si vede. Davver lo compatisco,

E se ho da dire il vero, ancor io ci patisco.
BAR.                 Ma quando la padrona vi prega di un servizio,

Non si può per un giorno soffrire un sagrifizio?

Una serva, un staffiere, son così delicati?
LIS.                   D'ossa e di carne umana siamo noi pur formati,

E compatir conviene.
BAR.                                                    Oh via, cara Lisetta,

Soffri per questa volta, e un buon regalo aspetta.

Ho bisogno di te, bisogno ho di Mariano,

Voglio segretamente confidarvi un arcano.
LIS.                   Dite pure, signora, sapete il mio buon cuore.

BAR.                 Ma vorrei che ci fosse presente il servitore.

Vanne, che si solleciti.
LIS.                                                         Tornerò a richiamarlo.

Propriamente dal sonno sento ch'io dormo e parlo. (parte)

SCENA SECONDA Donna Barbara, poi Mariano

BAR.                 Certo la compatisco la povera Lisetta,

Ma il Conte in sulla strada impazïente aspetta. E prima che si desti il padre e la famiglia, L'affar di cui si tratta sollecitar consiglia. Ecco con mio rossore a qual risoluzione Mi guida e mi trasporta la mia disperazione; Ecco a qual passo ardito ridurmi io son forzata Da un genitor dappoco, da una matrigna ingrata.

MAR.                Eccomi qui, signora. (sonnacchioso)

BAR.                                                  Mariano, ho da parlarti...

Dov'è la cameriera ch'è venuta a chiamarti?

MAR.                Lisetta mi ha svegliato, poi nella sala è andata,

E sopra di una sedia la vidi addormentata.

BAR.                 Ma questa è un'insolenza. Possibile che un giorno


Superare non possa?... Aspettami, ch'io torno. (parte)

SCENA TERZA

Mariano, poi donna Barbara e Lisetta.

MAR.                Ha bel dir la padrona. Tutto il dì fatichiamo.

Due ore dopo gli altri a riposare andiamo. (siede)

E quando non si dorme, in piè non si può stare,

E un'ora innanzi giorno non ci possiamo alzare. (sbadigliando)

10 non so questa notte che novità sia questa...

Sento cascarmi il cuore... non posso alzar la testa. (si addormenta)
BAR.                 Svegliati per un poco, poi tornerai sul letto. (a Lisetta)

Mariano... Eccolo lì, che tu sia maladetto.

Mariano. (forte)
MAR.                                Sì, signora. (svegliandosi ed alzandosi impetuosamente)

BAR.                                                    Via, non facciam più scene. (a tutti e due)

La cosa è di premura, ascoltatemi bene.
MAR.                Parli pure, comandi. (strofinandosi gli occhi)

BAR.                                                  Tanto di voi mi fido,

Che un grandissimo arcano vi svelo e vi confido.

Ma pria di palesarlo, voglio che v'impegnate

A perpetuo silenzio, e vo' che lo giuriate.
MAR.                Giuro al ciel ch'io non parlo.

LIS.                                                                  Prometto al cielo anch'io.

BAR.                 Se fedeli sarete, saprò l'obbligo mio.

Ma se per ignoranza mancaste, o per malizia,

Colle mie mani istesse mi saprò far giustizia.
MAR.                Per me non vi è pericolo.

LIS.                                                           Non manco al giuramento.

BAR.                 Uditemi, figliuoli... Vi svelo il mio tormento.

Amo perdutamente, né spero il mio riposo,

Se il mio tenero amante non conseguisco in sposo.

Ad onta di quel foco che arde d'entrambi il core,

Pavento la matrigna, pavento il genitore.

11 padre poco o nulla comanda in queste soglie,
Dispone a suo talento la sua seconda moglie.

(Lisetta si appoggia allo schienale della sedia, e si addormenta)

Ella ch'è nata dama, pretende di volere

Suppeditar? mio padre, ch'è un ricco finanziere.

Arbitra della casa, arbitra del marito,

Di posseder credendo un merito infinito,

Le visite coltiva, coltiva i cicisbei,

E guai se uno mi guarda, li vuol tutti per lei.

Finor quanti partiti a me son capitati,

Con arte e con malizia li ha tutti attraversati.

E intanto passan gli anni senza speranza alcuna,

Malgrado alla mia dote, di ritrovar fortuna.

Sol colla cara sposa il padre si consiglia,


E l'ultima di tutti son io nella famiglia.

Fra l'amor che mi sprona, e il trattamento indegno,

Entrai da risoluta nel periglioso impegno.

So che ciò non conviene a giovane bennata,

Ma ragion non conosce un'alma innamorata.

Sì, maritarmi io voglio... Dormi, Lisetta?
LIS.                                                                                     Oibò. (svegliandosi)

BAR.                 Cosa ho detto finora? (Mariano si addormenta in piedi, barcollando)

LIS.                                                      In verità nol so.

BAR.                 Dunque così mi ascolti?

LIS.                                                           Perdon, per carità.

BAR.                 Usi colla padrona sì bella inciviltà?

Quel che finora ho detto, l'averò detto invano?
LIS.                   Mi darei delle pugna.

BAR.                                                    Parlerò con Mariano. (voltandosi lo vede addormentato)

Povera me! Mariano. (destandolo)
MAR.                                                 Seguiti pur.

BAR.                                                                     Vigliacco!

MAR.                Per carità, signora, datemi del tabacco.

BAR.                 Piglialo, e se più dormi... (gli dà una tabacchiera d'argento)

MAR.                                                        No certo, infino a sera,

Se ho tabacco, non dormo.
LIS.                                                             (A lui la tabacchiera?) (da sé)

BAR.                 E tu, se più ti vedo... (a Lisetta)

LIS.                                                    Sto ad ascoltarvi intesa,

E per star più svegliata, ne prenderò una presa.

Favorisca. (chiedendo tabacco a Mariano con ironia)
MAR.                                Padrona. (le offre il tabacco)

LIS.                                                  La scattola. (chiedendo la tabacchiera)

MAR.                                                                 Perché?

LIS.                   Di che avete paura?

MAR.                                                 (Ha da servir per me). (da sé)

BAR.                 Via, prendeste tabacco. Svegliati or mi parete.

Ascoltatemi dunque, e il desir mio saprete.

Il cavalier che adoro, è il conte d'Altomare,

Che alla conversazione da noi suol frequentare;

Finch'ei fu la matrigna a coltivare intento,

Lodavasi di lui la grazia ed il talento,

Ma tosto che le parve all'amor mio inclinato,

Fu da lei, fu da tutti, deriso e disprezzato.

In grazia mia sofferse tutte l'ingiurie e l'onte,

Quanto crescean gli ostacoli, più si accendeva il Conte.

Ad ambi il nostro foco a simular costretti,

Ammutolendo il labbro, giocavano i viglietti.

Mi capite? (ai due)
LIS.                                      Ho capito.

BAR.                                                    Stanotte, in conclusione,

Ho potuto col Conte parlar dal mio balcone.

Dissemi ch'ei doveva dopo doman partire.

All'annunzio improvviso mi sento illanguidire.

Mancanmi le parole per il dolor che m'ange,


A singhiozzar principio, egli sospira e piange.

Giurami eterna fede, dal mio dolor commosso,

Pregami ch'io favelli, io favellar non posso.

Meco tornar s'impegna, lo giura, e mi conforta;

Dicogli allor tremando: idolo mio, son morta.

Egli pria di partire m'offre la fé di sposo.

Io non rifiuto il dono, che d'accettar non oso.

Mille pensieri ho in mente. Vengo a svegliar Lisetta;

Faccio destar Mariano. Egli al balcon mi aspetta.

Torno, e gli do speranza. Mi anima al passo estremo.

Se vi acconsento, io palpito; s'egli mi lascia, io tremo.

Da un lato amor mi sprona, dall'altro il mio periglio.

Da voi chiedo soccorso, da voi chiedo consiglio. (ai due)
LIS.                   Convien pensare al modo... (a donna Barbara)

BAR.                                                              Il modo è periglioso;

Figlia non dee in tal guisa promettere allo sposo.

Ma a tanto mi trasporta l'animo duro e strano

Di una matrigna ingrata, di un genitore insano.

In brevissimi istanti ecco quel ch'io ho pensato,

Dalla finestra al Conte l'ho già comunicato;

Egli non disapprova la mia proposizione.

Fermata ho in questo foglio di me un'obbligazione.

Penso mandarla al Conte; che voi gliela portiate;

Che carta e calamaio al cavalier recate;

Ch'egli con altra simile s'impegni al matrimonio,

E che voi due dobbiate servir di testimonio.
LIS.                   Perché, signora mia, non far ch'ei venga su?

Pria che nessun si desti, vi von tre ore e più.

Voi potete col Conte trattar con libertà.
BAR.                 Ah, no, non lo permette la fama e l'onestà.

LIS.                   Di passeggiare al fresco il Conte sarà stracco. (a donna Barbara)

Che dite voi, Mariano? Datemi del tabacco. (a Mariano)
MAR.                Penso anch'io... con licenza. Vado, e ritorno presto. (a donna Barbara)

LIS.                   Datemi del tabacco. (a Mariano)

MAR.                                                 Servitevi di questo. (ne mette un poco in un pezzetto di foglio,

e lo dà a Lisetta, e parte)

SCENA QUARTA

Donna Barbara e Lisetta.

LIS.                   Che impertinenza è questa? (vuol correre dietro a Mariano)

BAR.                                                              Non mi lasciar, Lisetta.

LIS.                   Vo' veder dove corre.

BAR.                                                    Ch'egli ritorni aspetta.

Per qualche sua faccenda sarà forzato andare.
LIS.                   Villanaccio insolente. Va pur; possa crepare.

BAR.                 Credi tu che l'amore non m'abbia persuasa

Di far aprire al Conte, ed introdurlo in casa?


Ma no, l'amor finora tanto non m'ha acciecata;

So quel che si conviene a giovane onorata.

A costo anche di perdere l'amabile consorte,

Non soffrirò ch'ei ponga il piede in queste porte.

Parmi di sentir gente.
LIS.                                                      Sarà Mariano, io credo.

BAR.                 Sì, Mariano ritorna. Ah giusto ciel, che vedo!

LIS.                   Cosa vedeste?

BAR.                                        Il Conte. (agitata)

LIS.                                                         Quel briccon di Mariano.

BAR.                 Voglio fuggir.

LIS.                                          Fermatevi. Voi vi celate invano.

S'ei rimane deluso, se lo trasporta amore,

Potrebbe la famiglia sentir qualche rumore.

Alfin non siete sola, lo riceviamo in tre.

Non abbiate paura, fidatevi di me.
BAR.                 Ah, che il troppo fidarmi guidommi a questo passo.

Non mi tradir, Lisetta.
LIS.                                                      Zitto: parlate basso.

SCENA QUINTA

Il Conte, Mariano, e dette.

CON.                Ah, qual grazia maggiore, bella, sperar poss'io?...

BAR.                 Questa grazia, signore, non vien dal voler mio.

È un arbitrio, è un inganno di un servitore audace.
CON.                Dunque di rivedermi tanto, crudel, vi spiace?

Chi son io, che vi possa tema recar, o sdegno?

Chi più dell'onor vostro dee sostener l'impegno?

Allor che alla mia sposa vengo ad offrir la mano,

Di chi mi aperse il varco voi vi lagnate invano.
BAR.                 Conte, ve lo confesso, son dal rossore oppressa;

Se l'accordano i servi, vergogna ho di me stessa.

Presto. Prendete il foglio. Se è ver che voi mi amate,

Promettetemi fede; sottoscrivete, e andate.
CON.                Tutto per compiacervi, tutto farò, mia vita. (va al tavolino a sottoscrivere)

Ecco soscritto il foglio che a giubbilar m'invita. (rende la carta a donna Barbara)
LIS.                   Se da voi si allontana, che vale una scrittura?

Non può coi testimoni sposarvi a dirittura? (a donna Barbara)
MAR.                Dice bene Lisetta. Talora un foglio è vano.

Alla nostra presenza porgetevi la mano.
BAR.                 (Ah, mi stimola il cuore). (da sé)

CON.                                                         E ben, che risolvete? (a donna Barbara)

LIS.                   S'egli poi vi abbandona, di lui vi dolerete?

Quando s'ha l'occasione, conviene approfittarsi,

Non è vero? (a donna Barbara)
BAR.                                    Ho capito.

MAR.                                                   E quando si è fuggita,


Torna difficilmente la sorte inviperita.

Dico ben? (a donna Barbara)
BAR.                                 Dici bene.

LIS.                                                    Dovria venirvi in cuore

La matrigna contraria, l'incauto genitore.

Non è così?
BAR.                                    Pur troppo.

MAR.                                                      E dir, se un tal partito

Mi fugge dalle mani, chi sa s'io mi marito?

Parlo mal?
BAR.                                    Non mi oppongo.

CON.                                                                E un amator sincero

Più di me non vedrete nell'amoroso impero,

Pronto a soffrir per voi mille tormenti e pene,

Pronto a morir, mia cara, se anche morir conviene.

So che tai nozze un giorno odioso mi faranno

Ai vostri, ai miei congiunti, per un opposto inganno:

Quelli, perché non veggono in me l'argento e l'oro,

Questi, perché sol amano di nobiltà il decoro.

Ma più del sangue illustre, più d'ogni altra ricchezza,

Amo in voi la virtude congiunta alla bellezza.

No, non curo la dote che il padre a voi contrasta;

Bramo la vostra mano, il vostro cuor mi basta.

Né offesi i miei congiunti saran da un tale affetto,

Contento di sua sorte un cavalier cadetto.

Se una simile brama in voi sperar mi lice,

Godrem la nostra pace, vivrem vita felice.
LIS.                   Con vostra permissione, vi aggiungo due parole:

Ad ispuntar principia dall'orizzonte il sole.

E se non vi spicciate, si leveran dal letto.
MAR.                E che il padron mi chiami prestissimo mi aspetto.

BAR.                 Quali angustie al mio seno!

CON.                                                             Donna Barbara, ho inteso.

Non è, qual mi credeva, il vostro cuore acceso.

Mancano solamente due giorni al partir mio.

Se più non ci vedremo...
BAR.                                                         Più non vederci?...

CON.                                                                                       Addio. (mestamente, in atto di partire)

BAR.                 Ah Conte...

LIS.                                      Poverino! piange, signora mia. (a donna Barbara)

MAR.                Se altro non comandate, bondì a vossignoria. (a donna Barbara, in atto di partire,

sdegnato)
BAR.                 Fermati. (a Mariano)

LIS.                                 Siete pure... (a donna Barbara)

CON.                                                 Eh, lasciatela in pace.

Ella è saggia abbastanza; chi la consiglia, è audace.

Cotanta ingratitudine io mi avrò meritata.
BAR.                 Ah no, Conte, ascoltatemi; no, non vi sono ingrata.

Se la man mi chiedete della mia fede in segno,

Ecco (mi trema il core), ecco la mano in pegno.
CON.                Idolo mio...


LIS.                                      Sposatevi.

CON.                                                    Non proverò il martello...

MAR.                Fate la cerimonia, e datele l'anello. (al Conte)

CON.                Cara, se vi degnate, ve l'offerisco in dono. (levandosi l'anello dal dito, lo presenta a

donna Barbera)
BAR.                 Sì, da voi l'aggradisco.

CON.                                                      Siete mia.

BAR.                                                                       Vostra sono.

LIS.                   Ora che abbiamo fatto quel che s'aveva a fare,

Signor, l'ora s'avanza, ve ne potete andare.
BAR.                 E vedervi partire dovrò dopo due giorni?

MAR.                Andiam, che il catenaccio a rifermare io torni. (al Conte)

CON.                Parto per voi, mia cara, vado alla real Corte,

Per ottenere un grado da migliorar mia sorte.
LIS.                   Sento a passar la gente, sento abbaiare i cani.

CON.                Addio, sposa diletta, ci rivedrem domani.

LIS.                   Oggi, potete dire: non lo vedete il sole? (al Conte)

BAR.                 Voi venirete al solito... (al Conte)

MAR.                                                      Non facciam più parole. (al Conte)

CON.                Verrò cogli altri unito, fino alla mia partenza.

Ma quanto ha da costarmi l'usata indifferenza!
LIS.                   Si muovono qui sopra. Il guattero si leva. (additando il soffitto della camera)

BAR.                 Io pur con tutti gli altri farò quel ch'io faceva.

CON.                E se talun vezzeggia? e se vi parla audace?

BAR.                 Sarò, per occultarmi, una sposa sagace.

MAR.                Servo di lor signori. (in atto di partire)

CON.                                                 Fermati, vengo anch'io. (a Mariano)

Ah, il mio martir preveggo. (a donna Barbara)
BAR.                                                              Non dubitate.

CON.                                                                                   Addio. (parte con afflizione)

MAR.                L'ha finita una volta. Stato saria fin sera.

LIS.                   Vo' dell'altro tabacco. (a Mariano)

MAR.                                                   In carta?

LIS.                                                                    In tabacchiera.

MAR.                Mi creda in verità, signora mia compita,

Che quella tabacchiera è un pochino impedita. (parte)
LIS.                   Compatisca, signora, se son troppo sfacciata,

Dica, la tabacchiera gliel'ha forse donata?
BAR.                 Sì, Mariano la merita, con te so il mio dovere.

Eccoti sei zecchini. Spendili a tuo piacere.
LIS.                   Grazie alla sua bontà, grazie alla mia signora.

(Ma vo' buscar, s'io posso, la tabacchiera ancora). (da sé)
BAR.                 Lisetta mia, son sposa.

LIS.                                                         Con voi me ne consolo.

BAR.                 Consolazion meschina, se ora principia il duolo.

La pace mia non veggio, consolazion non spero,

Finché de' miei sponsali non svelasi il mistero.

Per or debbon celarsi, sa il ciel fino a qual giorno,

Sa il ciel quando lo sposo a me farà ritorno.

Ma più del suo distacco, più della sua partenza,

Deggio, pria ch'egli parta, temer la sua presenza.


So ch'è geloso il Conte, so che di ognun sospetta,
Ed io sarò con tutti a conversar costretta.
Anzi pubblicamente le labbra e gli occhi scaltri
Dovranno usar finezze a lui meno degli altri.
Ma ci son nell'impegno, e ci starò, il protesto.
Finger non è difetto, quando il motivo è onesto.
Sposa son io del Conte, sarà quel che sarà.
Userò negl'incontri la mia sagacità. (parte)
LIS.                   È ver, son donna anch'io, ma son del vero amica:

Il fingere alle donne costa poca fatica. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA Lisetta e Moschino.

LIS.                   Moschino, la padrona...

MOS.                                                      Qual padrona?

LIS.                                                                                La moglie;

Quella, che più di tutti comanda in queste soglie, Vuol che subitamente andiate alla cucina, E le portiate un brodo.

MOS.                                                    Ha preso medicina?

LIS.                   Pigliò la medicina che di pigliare è usata.

In letto ogni mattina si bee la cioccolata Con cinque o sei biscotti, e, prima di pranzare, Altre tre volte almeno è solita mangiare. E mangia bene a pranzo, e mangia meglio a cena, E ha di galanterie la tasca ognor ripiena. Ora per aiutare, cred'io, la digestione, Vuole che le si porti un brodo di cappone.

MOS.                Anderò a prepararlo.

LIS.                                                      Portatelo prestino.

Sapete che servita vuol essere appuntino. Ella colla sua flemma suole annoiar la gente, E poi nell'aspettare suol essere impaziente.

MOS.                Quante caricature ha mai questa signora!

È una cosa ridicola, ed il padron l'adora.

LIS.                   Siccome è nata nobile, ed ei non è gran cosa,

Gli par non esser degno d'averla per isposa.

MOS.                E lascia ch'ella faccia quel che le pare e piace,

Venga chi sa venire, ei lo sopporta e tace.

LIS.                   Anzi ha piacer che sia servita e corteggiata,

Ma la povera donna in questo è corbellata. Par che abbia all'apparenza cinquanta cicisbei, Ma quelli che qui vengono, non vengono per lei.

MOS.                Lo so; per donna Barbara vengono tutti quanti,

Chi per la sua bellezza, e chi per li contanti. Nessuno si dichiara; ciascuno ha soggezione, Temendo di scoprire l'occulta inclinazione.

LIS.                   Eh, non passerà molto che si verrà a scoprire...

Basta, io so un certo fatto, ma non lo posso dire.

MOS.                Ditelo a me, Lisetta. Sapete ch'io non parlo.

LIS.                   Lo direi, ma non posso; giurai non palesarlo.

MOS.                Pazienza. Lo conosco io quest'occulto amante?

LIS.                   Lo conoscete certo.


MOS.

È il cavalier Ferrante?

LIS.

Oibò.

MOS.

Il signor Fabrizio?

LIS.

Nemmeno.

MOS.

Il signor Conte?

LIS.

Qual Conte?

MOS.

Il conte Orazio?

LIS.

No.

MOS.

Quel di Chiaramonte?

LIS.

Eh per l'appunto!

MOS.

Aspetta. I Conti sono tre.

Sarà quel d'Altomare, l'ho ritrovato affé.

LIS.

Via, va a prendere il brodo.

MOS.

L'ho trovato, Lisetta?

LIS.

Va a riscaldare il brodo, che la padrona aspetta.

MOS.

Vado: il Conte alla giovine spiegò il suo sentimento?

LIS.

Non sono una pettegola; non rompo il giuramento.

MOS.

Brava, del giuramento dei sostener l'impegno.

(Senza che altro mi dica, sono arrivato al segno). (parte)

SCENA SECONDA Lisetta, poi donna Petronilla.

LIS.                   Povera me! l'ho fatta. Ma io che cosa ho detto?

Moschino ha concepito un semplice sospetto.

Io non ho detto nulla. Rimorso non mi sento

D'aver per questa parte violato il giuramento.

È ver ch'io non doveva vantarmi di sapere,

Ma in certe congiunture difficile è il tacere.

Spero che al scoprimento si leverà ogni ostacolo;

Se ho da tacere un pezzo, se non crepo è un miracolo.

Parmi che a questa volta sen venga la padrona.

Presto, presto, allestiamole la solita poltrona.

Se non la trova in pronto, colla sua melodia

Va dietro fin a sera a dirmi villania.

Eccola per l'appunto.
PET.                                                   Lisetta.

LIS.                                                                Mia signora.

PET.                  Ho domandato il brodo, e non si vede ancora.

LIS.                   Or or lo porteranno.

PET.                                                   Or or lo porteranno!

Che casa maladetta! non san quel che si fanno.
LIS.                   Signora, io non ho colpa...

PET.                                                             A te non dico niente.

Sempre mi vuol rispondere codesta impertinente.
LIS.                   Ma perché mi mortifica?

PET.                                                          Vi hanno mortificato?

Spiumacciate il guanciale.


LIS.                                                             Eccolo spiumacciato. (torna a scuotere il guanciale)

PET.                  Seder comodamente certo è una cosa buona.

Mi piace estremamente il letto e la poltrona. (siede)
LIS.                   Ma perdoni, signora, la troppa libertà;

Se non farà del moto si pregiudicherà.
PET.                  Oh, del moto ne faccio. Tre o quattro volte al dì

Vado nella mia camera, e poi ritorno qui.

Fuori di casa a piedi non mi conviene andare.
LIS.                   Perché non va più spesso a farsi scarrozzare?

PET.                  Oibò! con questi sassi la vita si rovina.

Mi faccio volentieri condurre in portantina.
LIS.                   Non so com'ella faccia, signora, in verità,

Così senza far moto, mangiar com'ella fa.
PET.                  Ed io mi maraviglio di voi, sì in mia coscienza,

Che ardite di parlarmi con questa impertinenza.
LIS.                   Perdoni; io lo dicea...

PET.                                                      Chetatevi, insolente.

Guardate in anticamera. Mi par di sentir gente.
LIS.                   (In certe congiunture il sangue mi si scalda

Non le dovrei badare, ma non posso star salda). (da sé, e parte)

SCENA TERZA Donna Petronilla, poi Lisetta.

PET.                  Sanno ch'io son flemmatica; vedon la mia bontà.

Onde tutti costoro si prendon libertà.

E non vien questo brodo; e non si vede alcuno,

Ed io non posso stare col stomaco digiuno.

Saran due ore e più che ho preso il cioccolato,

E a ristorarmi spesso lo stomaco ho avvezzato.
LIS.                   È il padrone, signora, che prima di uscir fuore

Vorrebbe riverirla.
PET.                                                 Venga; mi fa favore.

LIS.                   (Non credo che si veda fuori di queste soglie

Far tanti complimenti fra il marito e la moglie). (da sé)
PET.                  E questo maladetto brodo viene o non viene?

LIS.                   Subito, sì signora.

PET.                                              Ma ho da soffrir gran pene!

LIS.                   (Si vede che a patire non è mai stata avvezza.

Sofistica la rende la troppa morbidezza). (da sé, e parte)

SCENA QUARTA
Donna Petronilla, poi don Policarpio.
PET.                  Per dirla, mio consorte mi ha sempre rispettata.


Si è sempre ricordato che nobile son nata.

Quando può star con me, si gode e si consola,

Ma dica quel che vuole, mi piace dormir sola.
POL.                 Servo, signora moglie.

PET.                                                      Serva, signor marito.

POL.                 Come passò la notte?

PET.                                                      Benissimo ho dormito.

POL.                 Quando si dorme bene, segno è di sanità.

Con lei me ne consolo.
PET.                                                        Grazie alla sua bontà.

POL.                 Che vuol dir? così sola?

PET.                                                          Non è venuto ancora

A favorir nessuno.
POL.                                                Veramente è a buon'ora.

PET.                  E voi sì presto uscite?

POL.                                                     Volea... ma non mi preme.

Giacché non vi è nessuno, discorreremo insieme.
PET.                  Avrò piacer; sedete.

POL.                                                  Degli interessi miei (siede)

Poco tempo mi resta da ragionar con lei.

Il dì vi è sempre gente, la notte non mi vuole.

L'ora non so trovare di dir quattro parole.
PET.                  Quando mi vuol parlare, difficile non è;

O io verrò da lei, o lei verrà da me.

Comanda qualche cosa?
POL.                                                          L'ora è un poco avanzata.

Non voglio incomodarla.
PET.                                                          Le son bene obbligata.

POL.                 Ora qui son venuto per una cosa sola:

Per favellare un poco di questa mia figliuola.

Barbara è da marito; e se le par, signora,

Vedrem di collocarla.
PET.                                                      Eh no, vi è tempo ancora.

POL.                 Dice bene, vi è tempo.

PET.                                                      Prima di maritarla,

Prima di darle stato, convien meglio educarla.

Si vede chiaramente la trista educazione

Che diedele una madre di bassa condizione.

È sciocca, non sa nulla; d'ogni buon garbo è spoglia.

Trovar non isperate un cane che la voglia.
POL.                 Eppure qualcheduno l'ha fatta domandare.

PET.                  Gente l'avrà richiesta dell'ordine volgare:

O qualche vagabondo, oppur qualche spiantato

Che sol della sua dote si sarà innamorato.

Signor don Policarpio, so che vossignoria

Vorrà, prima di farlo, l'approvazione mia.
POL.                 Oh, cosa dice mai! non moverò una spilla,

Senza comunicarlo a donna Petronilla.
PET.                  D'istruir vostra figlia io prenderò l'impegno,

Ma vi vorran dieci anni pria di ridurla a segno.
POL.                 Dieci anni? sarà vecchia.


PET.                                                          Esporla non conviene

Senza un merito al mondo. (con un poco di caldo)

POL.                                                            Ha ragion; dice bene.

PET.                  Quando poi non voleste che fosse maritata

Con un di basso rango, come sua madre è nata. Ma dopo che una dama venuta è in queste soglie, D'un cavaliere anch'essa potria divenir moglie. E a voi la vostra figlia dev'essere obbligata, Veggendo la sua casa per me nobilitata.

POL.                 Con trentamila scudi e il vostro parentato

Si potrà per mia figlia trovare un titolato. Ma un di quei titolati che ha stabili e danari Non di quei che hanno feudi nei spazi immaginari.

PET.                  Come sarebbe a dire il conte d'Altomare.

POL.                 Un Conte che non conta. Non gliela voglio dare.

Di trentamila scudi la dote è comodissima. Poi, se non ho altri figli un dì sarà ricchissima.

PET.                  Con una moglie al fianco voi ne averete un dì.

POL.                 Credo sarà difficile, fin che farem così.

SCENA QUINTA

Moschino che porta il brodo, e detti.

PET.                  Ti sei fatto aspettare, asino malcreato. (a Moschino, placidamente)

MOS.                Ho sempre in questa casa da essere strapazzato?

PET.                  Sentite come parla? (a don Policarpio)

POL.                                                  Taci; non si risponde. (a Moschino)

PET.                  La servitù di casa per me non si confonde.

Che fai che non ti muovi? (a Moschino)
MOS.                                                           Son qui per obbedirla.

PET.                  Costui non sa far nulla. (a don Policarpio)

POL.                                                       Farò io, per servirla.

Dammi quella salvietta. (prende la salvietta di mano a Moschino e la stende

dinanzi a donna Petronilla)
PET.                                                        Grazie, consorte mio.

MOS.                (Le presenta la tazza)

PET.                  Gli puzzano le mani. (a don Policarpio, parlando di Moschino)

POL.                                                  Da' qui, che farò io.

PET.                  Il brodo veramente mi par più saporito,

Quando sì gentilmente mel dà il signor marito. (va bevendo il brodo a sorsi,

levando e rimettendo la tazza nel tondo tenuto in mano da don Policarpio)
POL.                 Quando servirla io posso, internamente io godo.

Ma da me non vuol altro che una tazza di brodo.
PET.                  Caro don Policarpio! che cosa ho da volere!

POL.                 Se qualche volta almeno...

PET.                                                             Picchiano; va a vedere. (a Moschino che parte)


SCENA SESTA Donna Petronilla, don Policarpio, poi Moschino che torna.

POL.                 Cara la mia sposina, dopo che vi ho pigliata,

Oh, è passata pur male.
PET.                                                        Ahi! mi sono scottata.

POL.                 Il brodo è troppo caldo.

PET.                                                        Sia maladetto il cuoco.

POL.                 Vedrò io col cucchiaro di raffreddarlo un poco. (va col cucchiaro scuotendo il

brodo per raffreddarlo)
MOS.                Signora, è il signor Duca che vorrebbe inchinarla.

PET.                  Venga pure, è padrone.

MOS.                                                      (E il marito non parla). (da sé, e parte)

SCENA SETTIMA

Donna Petronilla, don Policarpio, poi il Duca di Belfiore.

POL.                 Chi è questo signor Duca? (mescolando il brodo)

PET.                                                             È il duca di Belfiore,

Un cavalier gentile che ha un bellissimo cuore,

Che ha per me della stima.
POL.                                                            Vuole il brodo, signora? (mezzo arrabbiato)

PET.                  Non vedete che fuma? mescolatelo ancora.

POL.                 Bene, come comanda. (seguita a mescolare)

DUCA                                                  Signora, a voi m'inchino.

PET.                  Serva.

POL.                             Servo divoto.

PET.                                                   Da sedere al Duchino.

POL.                 Chi è di là? (chiamando)

PET.                                     Maladetti! non sanno i dover suoi.

POL.                 Servitori, una sedia. (chiamando)

PET.                                                   Portategliela voi. (a don Policarpio)

DUCA              No, farò io...

PET.                                       Fermatevi; (al Duca) favorite, signore. (leva la tazza di mano a don

Policarpio)

Mi farà la finezza il duca di Belfiore. (presenta il tondo colla tazza ed il cucchiaro

al Duca)
POL.                 Perché a lui quest'incomodo? (a donna Petronilla)

DUCA                                                              Servirla è mio dovere. (mescolando il brodo)

POL.                 Ehi, Moschino. (chiamando)

MOS.                                        Comandi.

POL.                                                          Portagli da sedere. (Moschino dà da sedere al Duca, e

parte)
DUCA              Par che sia raffreddato.

POL.                                                       Anch'io lo crederei. (vuol prendere la tazza)

PET.                  Mi favorisce il Duca. (a don Policarpio)


POL.                                                     Quello che piace a lei. (siede)

PET.                  Ora non si può bere, ch'è troppo raffreddato.

POL.                 Ma! vuol tutto a suo modo.

PET.                                                               Oh, mi avete seccato.

POL.                 Non parlo più.

PET.                                          Chiamate. (a don Policarpio)

POL.                                                          Vuol forse riscaldarlo?

PET.                  E se io lo volessi?

POL.                                                Comandi pur, non parlo.

Ehi! (chiamando)
PET.                         Nessuno risponde; di già ne sono avvezza.

Caro signor consorte, mi faccia una finezza:

Vada con questa tazza ad ordinare al cuoco

Che dentro a un pentolino me lo riscaldi un poco.
POL.                 Qualcheduno verrà.

PET.                                                   Se ella non fa il piacere,

Pria di due ore almeno non lo potremo avere.

Sdegna di favorirmi?
POL.                                                     Subito me ne vo.

Ma quando anch'io la prego, non mi dica di no. (parte)

SCENA OTTAVA Donna Petronilla e il Duca.

PET.

È poi compiacentissimo. Non è egli ver, Duchino?

DUCA

Fa il suo dover.

PET.

Sì certo; mi vuol ben, poverino.

Tutto quel ch'io desidero, mi accorda e mi concede.

DUCA

(Donna Barbara ancora comparir non si vede).

PET.

State ben, signor Duca?

DUCA

Bene, per obbedirvi.

PET.

Volete che giochiamo? Vorrei pur divertirvi.

DUCA

Facciamo una partita, se comandate.

PET.

A che?

DUCA

All'ombre.

PET.

All'ombre in due?

DUCA

Si può giocar in tre.

PET.

Bene, aspettiamo il terzo.

DUCA

Il terzo noi l'abbiamo.

Chiamate donna Barbara, e principiar possiamo.

So che sa giocar bene.

PET.

Oibò, non sa niente.

DUCA

Perdonate, signora, gioca perfettamente.

PET.

Dunque, per quel ch'io sento, voi la stimate assai.

Non vorrei, signor Duca, ci fossero dei guai.

Quando una sciocca simile voi d'apprezzar mostrate,

Veggovi del mistero, e sospettar mi fate.

DUCA

Non può la mia condotta rendervi alcun sospetto.


Tralasciam di giocare.
PET.                                                      Possiam fare un picchetto.

DUCA              Tutto quel che vi piace.

PET.                                                        Chi è di là? vi è nessuno?

SCENA NONA

Il Cavalier Ferrante e detti.

CAV.                Servirò io, Madama, se non risponde alcuno.

PET.                  Oh Cavalier, venite. Ora che siamo in tre,

Possiam giocare all'ombre.
CAV.                                                           S'ha da giocar? perché?

La sera e la mattina sentesi in ogni loco

Nelle conversazioni a intavolar il gioco;

Par che divertimento migliore non vi sia,

E il gioco non è altro che una malinconia.

Io non la so capire che compiacenza è questa,

Star colle carte in mano a rompersi la testa

E gridar col compagno, e fare il sangue verde,

E maledir chi vince, e corbellar chi perde.

Questo è piacer? piacere è andare in compagnia

Ora ad una locanda, ed ora a un'osteria:

Far preparar talvolta la cena ad un casino,

Far che serva da cuoco l'oste del Pellegrino:

E ridere, burlare, e bere una bottiglia

Di vin di Fontignac, di liquor di vainiglia.
PET.                  Il Cavaliere è fatto secondo il genio mio.

Quando si mangia e beve, sempre ci sono anch'io.

E voi, Duca?
DUCA                                    Per dirla, io non ci son portato.

Ma fo quel che fan gli altri.
CAV.                                                             Il Duca è innamorato:

E chi lo vuol vedere, il Duca eccolo lì

Vicino ad una dama a far ci ci ci ci.
DUCA              (Quanto è sciocco, s'ei crede che ami la maritata!) (da sé)

PET.                  Cavalier, favorite. (invitandolo a sedere dall'altra parte, presso di lei)

CAV.                                               Eh! se siete occupata.

(Mi preme donna Barbara. Quella è la gioia mia!) (da sé)
PET.                  (Povero Cavaliere! Del Duca ha gelosia). (da sé)

Via, Cavalier, sedete. Vi stimo tutti due.

Saprò usar a ciascuno le convenienze sue.
DUCA              (Io per me la dispenso). (da sé)

CAV.                                                      (Poco di lei mi preme). (da sé)

PET.                  Non potran favorirmi due cavalieri insieme?

DUCA              Non vo' altrui dispiacere.

CAV.                                                         Torto non fo all'amico.

PET.                  (Con questi due gelosi sono in un brutto intrico) (da sé)

CAV.                Oggi, per quel ch'io vedo, siete impiegata bene.


DUCA

Ma se vi cedo il posto...

CAV.

So quel che mi conviene.

Veggo là donna Barbara. Signora, favorite.

Siete desiderata. (verso la scena)

PET.

Cavalier, cosa dite?

CAV.

Perdonate, signora, io non offendo alcuno;

Siamo due galantuomini: una dama per uno.

DUCA

La chiamate per me? (al Cavaliere)

CAV.

Per voi? per me la chiamo.

PET.

(Vuol di me vendicarsi). (da sé)

DUCA

(Che sappiasi ch'io l'amo?) (da sé)

SCENA DECIMA

Donna Barbara e detti.

BAR.                 Eccomi. Chi mi vuole?

PET.                                                        Credete ai labbri suoi?

Andate, donna Barbara, si burlano di voi.
BAR.                 Si burlano di me?

CAV.                                             Non signora, al contrario.

DUCA              Chi ardisse di burlarvi, sarebbe un temerario.

PET.                  E pur per un pretesto vi han fatto venir qua.

BAR.                 Mi burlano, signori? ci ho gusto in verità.

Di già me lo figuro, perché mi avran chiamato: (con allegria)

Colla signora madre alcun sarà sdegnato.

Dovrei per un di loro servir di comodino.

Ecco quanto poss'io sperar dal mio destino.

Son qui, non me ne offendo. Ci sto placidamente.

Dice il proverbio: è meglio qualche cosa che niente.
PET.                  Si può sentir di peggio? Figliuola, in verità,

Voi le studiate apposta queste bestialità.

Signori, compatitela; non sa più di così.
CAV.                (Eh, ne sa quanto basta). (da sé)

DUCA                                                       (So che il cuor mi rapì). (da sé)

BAR.                 Dirò delle sciocchezze, e lascierò burlarmi.

Di già, voi lo sapete, non penso a maritarmi.

E se non mi marito, intisichir dovrò?

Che burlino, che scherzino, ed io li goderò. (siede)
PET.                  È un po' troppo il coraggio.

BAR.                                                             Per me così l'intendo.

CAV.                (Non vi perdete d'animo). (sedendo presso donna Barbara)

DUCA                                                       (Signora, io vi difendo). (sedendo presso donna Barbara)

PET.                  Si accomodin, signori. (al Duca e al Cavaliere con ironia)

CAV.                                                    Io faccio il mio dovere.

Lascio al Duca il suo posto.
DUCA                                                           Lo cedo al Cavaliere.

PET.                  Dunque per uno sdegno, per una idea sì pazza,

Por volete in ridicolo la povera ragazza?


Donna Barbara, andate.
BAR.                                                      Eh no, signora mia.

Non lo fan per disprezzo, lo fan per allegria.

Se una vera finezza sperar non mi conviene,

Lasciatemi godere questo poco di bene.
PET.                  Vi farà un bel concetto questo costume ardito!

BAR.                 Né anche perciò, signora, non perderò il marito.

DUCA              E pur lo meritate.

CAV.                                             Eppure ad ogni patto

Prendere lo dovrete.
BAR.                                                  Eh, quel ch'è fatto, è fatto.

PET.                  (Ora con queste smorfie mi sdegnerei sul sodo.

Sono un poco annoiata). Ehi, non è caldo il brodo? (verso la scena)

SCENA UNDICESIMA

Moschino e detti.

MOS.                Signora...

PET.                                   Questo brodo non me lo von più dare?

MOS.                Vorrebbe riverirla il conte d'Altomare.

BAR.                 (Eccolo. Affé, ci siamo). (da sé)

PET.                                                          (Che vuol questo sguaiato?)

Ma!... ditegli che passi. (A tempo è capitato). (Moschino parte)
DUCA              Cavalier, perché state da lei così discosto? (accennando donna Petronilla)

CAV.                Duca, perché lasciate d'andare al vostro posto? (accennando donna Petronilla)

PET.                  No, no, non ho bisogno della lor compagnia.

(Ora li voglio fare morir di gelosia). (da sé)

SCENA DODICESIMA

Il Conte d'Altomare e detti.

CON.

Servo di lor signori.

PET.

Conte, vi riverisco.

CON.

(Donna Barbara! come! fra quei due? non capisco). (da sé)

BAR.

(Dissimular conviene, per non scoprir l'arcano).

CON.

(Temo l'indifferenza di sostenere invano). (da sé)

Come, signori miei? si fa conversazione,

E donna Petronilla si lascia in un cantone?

CAV.

Questo appartiene al Duca.

DUCA

S'aspetta al Cavaliere.

PET.

Presso di donna Barbara han piacer di sedere.

BAR.

Certo questi signori di me si prendon gioco.

Domandatelo a lei. (al Conte)

CON.

(Ah, mi s'accende il foco!) (da sé)

PET.

Conte, alfin lo confesso, e sostener m'impegno,


Che voi siete di tutti il cavalier più degno.

So che vi feci un torto dando la preferenza

A chi mi ha guadagnato coll'arte e l'insistenza,

Conosco or più che mai le vostre qualità,

Venero il vostro sangue, la vostra nobiltà;

E se di me vi cale, come vi calse in prima,

Vi protesto, signore, venerazione e stima.

Non offerisco amori, tanto non si concede

A femmina onorata che altrui giurò la fede.

Ma se dell'amicizia pago di me sarete,

Ad esclusion d'ogn'altro, mio cavalier voi siete.
CAV.                Amico, io vi compiango. (al Duca)

DUCA                                                       Duolmi del dolor vostro. (al Cavaliere)

BAR.                 (Se l'accettasse il Conte, sarebbe il caso nostro). (da sé)

CON.                Signora, io lo confesso, son di tal grazia indegno.

Tardi voi mi offerite un sì onorato impegno.

Dal regno di Sicilia partire ho risoluto,

E sono il mio congedo a prendere venuto.
PET.                  Favorir mi potrete fino che qui restate,

E il posto sarà vostro ancor quando tornate.
CON.                (Ah, non ho cuor di fingere!) (da sé, guardando donna Barbara)

PET.                                                                 Cosa vuol dir, signore?

Guardate donna Barbara? forse vi sta nel cuore?
BAR.                 Se per me il signor Conte avesse inclinazione,

Direi che ho già fissata la mia risoluzione.

Sia forza di destino, sia genio o sia virtù,

Quello ch'è fatto, è fatto, non mi marito più.

A un cavalier prudente, a un cavalier accorto,

Le grazie di Madama ponno esser di conforto;

E se dubbioso ancora a me rivolta il ciglio,

Ad accettar l'impegno l'esorto e lo consiglio.
PET.                  (Dunque costei non l'ama). (da sé)

CON.                                                           (Comprendo il suo concetto). (da sé)

PET.                  Conte, che risolvete?

CON.                                                    Le vostre grazie accetto.

DUCA              Mi rallegro, signora. (a donna Petronilla)

CAV.                                                 Viva, signora mia. (a donna Petronilla)

PET.                  (Lo so, che ci patiscono. Parlan per ironia). (da sé)

Spero che così presto da noi non partirete. (al Conte)
CON.                Parto dopo domani.

PET.                                                   Per me non resterete?

CON.                Un affar mi sollecita.

BAR.                                                    Conte, perdon vi chiedo.

Ai colpi di fortuna sì ingrato io non vi credo.

Vi offre una congiuntura da voi desiderata,

E voi ricuserete la sorte inaspettata?

Se avete vera stima per chi vi parla e prega,

Se conoscete il bene, la grazia non si nega.
PET.                  (Non credo donna Barbara per me tanto impegnata;

Dubito ch'ella sia del Duca innamorata). (da sé)
CON.                Signora mia, conosco la grazia che mi fate.


Resterò a' cenni vostri per fin che comandate. (a donna Petronilla)
BAR.                 (Resterà il caro sposo per compiacere a me). (da sé)

PET.                  (Sono in qualche sospetto. Li voglio tutti tre). (da sé)

DUCA              Ora son fuor d'impegno. (a donna Petronilla)

CAV.                                                      Ora vedervi io godo.

Favorita dal Conte. (a donna Petronilla)

SCENA TREDICESIMA

Don Policarpio col brodo, e detti.

POL.                                                Ecco, signora, il brodo.

CON.                Servo a don Policarpio.

POL.                                                       Signor Conte garbato,

La riverisco tanto. Non l'aveva osservato.
PET.                  Chi è che mi favorisce? (volendo bere il brodo)

POL.                                                       Che? non ci sono io?

CON.                Compatisca, signore, questo è l'obbligo mio. (gli leva la tazza di mano)

POL.                 Ha una gran confidenza!

BAR.                                                         Non sapete nïente?

Di donna Petronilla è il cavalier servente. (a don Policarpio)
PET.                  Udite? che si cangi per or non vi è pericolo; (a don Policarpio)

Ecco, questi signori la mettono in ridicolo.

L'hanno chiamata apposta, e fin sugli occhi miei

Fingendo di lodarla si burlano di lei.
DUCA              Signor, non son capace.

CAV.                                                      Signor, così non è.

PET.                  Che impertinenza è questa? una mentita a me?

POL.                 A lei una mentita, ch'è il fior di nobiltà?

E voi, sciocca, ignorante, andate via di qua.

Se cervel, se giudizio col tempo non farete,

Tutti vi burleranno, e in casa invecchierete.
BAR.                 È vero, io lo confesso, non ho quel gran talento

Che ha la signora madre, ma pure io mi contento.

Dite ben, signor padre, non mi mariterò:

Pazienza, io mi contento di star come ch'io sto.

Se vogliono burlarmi, mi burlino così,

E chi sarà il burlato, noi vederemo un dì. (parte)
PET.                  Non sa dir che sciocchezze.

POL.                                                              Non ha un grano di sale.

CON.                (S'ingannano di molto, e la conoscon male). (da sé)

DUCA              Un cavalier d'onore, signor, nel vostro tetto

Venir non è capace a perdervi il rispetto. (a don Policarpio)
CAV.                Io non uso, signore, tal costumanza ardita. (a don Policarpio)

PET.                  Oh via, signori miei, facciamo una partita.

Se il Cavalier non gioca, faremo un ombre in tre.

Il Conte ed il Duchino favoriran con me.
CON.                Perdonate, signora, s'ora non mi trattengo.

Vado per un affare, presto mi spiccio e vengo. (parte)


PET.                  Via, signor Cavaliere, meco sia compiacente.

CAV.                Sono aspettato in piazza. Servitor riverente. (parte)

PET.                  Dunque col signor Duca giocheremo a picchetto.

DUCA              Trattenermi non posso. Le umilio il mio rispetto. (parte)

PET.                  Tutti mi lascian sola?

POL.                                                     Son qui, signora sposa.

Di già che siamo soli, farem noi qualche cosa.

PET.                  Cosa vorreste fare?

POL.                                                Io mi rimetto in lei.

PET.                  Di già voi lo sapete quai sono i piacer miei.

Solo tre cose al mondo mi dan soddisfazione: Il mangiare, il dormire e la conversazione. Per la conversazione sarete persuaso, Caro don Policarpio, che voi non siete al caso. Per mangiare a quest'ora voi non vi dilettate, E per dormir non serve ci siate o non ci siate. (parte)

POL.                 Adunque non son io, per quello che a lei pare,

Né buono da dormire, né buono da vegliare. Questa signora moglie, che mi ha costato tanto, Per compiacer lo sposo per verità è un incanto. Ho speso quel che ho speso. Vanno i quattrini a volo, E poi che cosa faccio? Mi tocca a dormir solo. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA Mariano e Moschino.

MAR.

Dove ten vai, Moschino?

MOS.

Vado a girare un'ora,

Le solite ambasciate a far per la signora.

Senti, se non è pazza. Mi manda ad invitare

Il Conte, il Cavaliere e il Duca a desinare,

E tutti tre son stati da lei questa mattina.

Non glielo potea dire? Guarda che testolina!

MAR.

Certo che la padrona ha un bel temperamento,

Si sente delle voglie venire ogni momento.

Trova sempre qualcosa da dir, da comandare.

MOS.

Credo lo faccia apposta per farmi sgambettare.

Quando siamo alla sera, son rifinito e stracco.

MAR.

Anch'io, per dir il vero... Moschin, prendi tabacco? (offerendogli tabacco colla

scattola d'argento ch'ebbe da donna Barbara)

MOS.

Qualche poco, Mariano. Lasciami un po' vedere.

Io non ne ho più veduto di queste tabacchiere.

È d'argento?

MAR.

D'argento. Ti piace?

MOS.

È bella molto.

Valerà per lo meno tre zecchini.

MAR.

Sei stolto?

Ne valerà ben sei.

MOS.

Davver? chi te l'ha data?

MAR.

Vorresti saper troppo. Mi è stata regalata.

MOS.

Da chi?

MAR.

Non posso dirlo.

MOS.

Sarebbe bella, affé.

Io teco mi confido tu ti confidi in me.

Ci abbiamo confidato qualcosa di più grosso,

Marian, tu mi fai torto.

MAR.

Questa volta non posso.

MOS.

Mi faresti pensare a qualche baronata.

MAR.

Che vuol dir?

MOS.

Che so io, che l'avessi rubata.

MAR.

Moschin, ti compatisco, perché siam buoni amici.

Non ardirebbe un altro di dir quel che tu dici.

Sai ch'io son galantuomo.

MOS.

Hai ragion, mi disdico;

Ma se non ti confidi, non mi sei buon amico.

MAR.

Se dirtelo potessi, avrei tutto il contento;


Ma non posso.
MOS.                                        Perché?

MAR.                                                      Perché vi è il giuramento.

MOS.                Questa è bella davvero! Hai di tacer giurato

Il nome ed il cognome di chi ti ha regalato?
MAR.                Io non giurai tacere del donatore il nome

Ma la cagion del dono, le circostanze e il come.
MOS.                Celami la cagione per cui ti fu donata,

Ma confidami almeno la man che te l'ha data.
MAR.                Che ci pensi un pochino: non so ben, se in rigore

Sia obbligato anche il nome celar del donatore.

Sai ch'io son delicato.
MOS.                                                    Ed io, se non lo sveli,

Penso che qualche inganno nel tuo mister si celi.
MAR.                Ma mi faresti dire delle bestialità.

Sono un uomo d'onore, e tutto il mondo il sa.

E il dato giuramento serbando fedelmente,

Quello che posso dire, dirò liberamente.

Ho avuto questa scattola, perché in un matrimonio

Fatto segretamente servii di testimonio.
MOS.                Ora ti compatisco. Queste son quelle cose,

Che anche ai più cari amici deonsi tenere ascose.

Ho piacer della scattola. E il tabacco? È stupendo.

Ne piglio un'altra presa, e poscia te la rendo. (prende tabacco osservando bene la

scattola)

Oh cospetto di bacco! Marian, non ti stupire,

Se tutto il gran segreto son venuto a scoprire.

La scattola conosco, ho capito ogni cosa.

Dunque la padroncina segretamente è sposa?
MAR.                Come! non so nïente; e prima di parlare,

Pria di mancar di fede, mi farei scorticare.

Dammi la tabacchiera. Ora mi scalderei.

Non ve ne son di simili? Non l'ho avuta da lei.
MOS.                Non ti scaldar, Mariano. Tu sei un uom dabbene;

Ma a caso qualche volta nascon di queste scene.

Anche Lisetta istessa, che come te ha giurato,

Senza voler parlare, l'arcano ha palesato.

E combinando insieme quel che da entrambi ho udito,

Donna Barbara è moglie, e il Conte è suo marito.

Ma sono un galantuomo, non dubitar di me:

Pria lo sapeste in due, or lo sappiamo in tre.
MAR.                Giura di non parlare.

MOS.                                                    Marian, non so che dire;

Giurerei, ma se giuro, non mi vorrei pentire.

Anch'io son come gli altri, ho degli amici anch'io,

Potria qualche cosetta scappar dal labbro mio.

Noi altri servitori abbiam questo difetto,

Facciamo a non parlare un sforzo maladetto.

Marian, se mi vuoi bene, lasciami in libertà.

Che ci pensino dessi. Sarà quel che sarà. (parte)


SCENA SECONDA Mariano, poi Lisetta.

MAR.                Io non ho detto nulla. Chi mai potea pensare,

Che questa tabacchiera s'avesse a ravvisare?

Ma negar io poteva la man che me l'ha data,

E per me la faccenda sarebbe ancor celata.

Lisetta ha fatto il male. Ella svelò il mistero.

È donna, e tanto basta... Eccola qui davvero.
LIS.                   La padrona vi chiama. (mostrandosi alterata)

MAR.                                                   Che vuol? (mostrandosi sdegnato)

LIS.                                                                       Far colazione. (come sopra)

MAR.                Cosa le ho da portare? (come sopra)

LIS.                                                      Un'ala di cappone. (come sopra)

MAR.                La cioccolata, il brodo ed il cappone ancora? (come sopra)

LIS.                   Via, la farete al solito aspettar più di un'ora? (come sopra)

MAR.                Ma che maniera è questa?

LIS.                                                             Uomo senza giudizio.

MAR.                A me?

LIS.                               Per causa vostra nascerà un precipizio.

MAR.                Oh bella! a che proposito?

LIS.                                                             Vi ho perduto il concetto.

Me l'ha detto Moschino quel che gli avete detto.
MAR.                Brava, brava, signora; voi siete la prudente.

Io ho chiacchierato, e voi non diceste niente.
LIS.                   Cosa può dir Moschino? Non sono una ciarliera.

MAR.                Ed io che cosa ho fatto? Mostrai la tabacchiera.

LIS.                   Ei l'avrà conosciuta.

MAR.                                                 Certo, non ci pensai

Ch'egli la conoscesse; non lo credeva mai.
LIS.                   Non avete prudenza. L'ho detto in verità,

Che quella tabacchiera un dì ci scoprirà.

La conoscono tutti, e voi, che che non è,

La tirerete fuori. Consegnatela a me.
MAR.                No no, non vi è pericolo, non farò più il sproposito.

LIS.                   Consegnatela a me, ve la terrò in deposito.

MAR.                La porrò nell'armadio.

LIS.                                                      E se la trovan poi?

MAR.                Vi è lo stesso pericolo, se la consegno a voi.

LIS.                   Ho dei luoghi segreti, dove nessun ci tocca.

MAR.                La scattola mi piace, e nessun me la scrocca.

LIS.                   Se voi me la donaste, vi avrei l'obbligazione.

MAR.                Presto, che la padrona mi aspetta col cappone. (parte)

SCENA TERZA


Lisetta poi don Policarpio.

LIS.                   Non son quella ch'io sono, se a lui la tabacchiera

Non faccio dalle mani sparire innanzi sera.

Me l'ho cacciata in testa, non già per il valore,

Ma voglio superarla per un punto d'onore.
POL.                 Andate un po' a vedere che cosa ha la signora,

Che grida come un'aquila.
LIS.                                                             Vuol mangiare a quest'ora.

POL.                 Il cielo le conservi e la vista e l'udito,

Come la mia signora sta bene d'appetito.

Fra un'ora o un'ora e mezza andremo a desinare;

Ha preso il cioccolato, e adesso vuol mangiare?
LIS.                   S'ella la lascia fare, caro signor padrone,

Se troppo si nutrisce, non avrà successione.
POL.                 Succession? Sì davvero, si vederan portenti,

Se una scala divide i nostri appartamenti.
LIS.                   Perdoni, mi fa ridere. Non è il padron?

POL.                                                                                 Padrone?

Non posso andare in camera senza sua permissione.

Se dorme, vuol dormire, e quando ch'ella è desta,

O che le viene il granfio, o che le duol la testa.

Non vuole ch'io le parli, non vuole ch'io la tocchi,

E se me ne lamento, tosto mi salta agli occhi.

Lo conosco benissimo ch'è senza convenienza,

Ma per non strepitare lo soffro con pazienza.
LIS.                   E contentarla in tutto il procurar non vale.

Povero il mio padrone, voi li spendete male.

SCENA QUARTA

Don Policarpio solo.

POL.                 Oh se li spendo male! Perché rimaritarmi

Se non avea da prenderla un po' per consolarmi? Giacché mi sono indotto a far la baggianata, Almen più compiacente l'avessi ritrovata. Quanto per me era meglio sposare una ragazza, Che fosse meno nobile, e fosse meno pazza! Oh, mi dicevan tanti: voi siete un uomo ricco; Con una moglie nobile farete maggior spicco: Se avrete dei figliuoli, saranno più stimati. Oh oh, circa i figliuoli siam belli e corbellati. Per me saria lo stesso la moglie aver dipinta, E quando ch'io son morto, va la famiglia estinta. Spiacemi della figlia che ha un cervel sciagurato, E non poss'io sperare di far buon parentato. Per altro s'ella fosse fatta come dich'io Vorrei a una mia morte tutto lasciarle il mio.


E se de' figli maschi il ciel non mi provvede, Vorrei vedere almeno un nipotino erede. Ma è sciocca e senza garbo, e fino i cicisbei Della signora sposa si burlano di lei.

SCENA QUINTA Il Duca ed il suddetto.

DUCA

Servitore umilissimo. (a don Policarpio)

POL.

Padron mio riverito.

DUCA

Eccomi ad accettare il suo gentile invito.

POL.

Non so nulla, signore.

DUCA

So ben che in queste porte

Le grazie son comuni fra il sposo e la consorte.

Se donna Petronilla m'invita a desinare,

La moglie ed il marito mi convien ringraziare.

POL.

Viene a pranzo da noi?

DUCA

L'invito mi fu fatto

Or or dal vostro servo.

POL.

Non ne so nulla affatto.

DUCA

Lo saprà la signora. Tutto è di già lo stesso.

Sono a entrambi tenuto. Signor, con suo permesso. (va a mettere sopra una sedia la

spada ed il cappello)

POL.

Si accomodi, padrone, con tutta libertà.

DUCA

In casa degli amici so anch'io come si fa.

POL.

In casa degli amici signor chi sa il trattare,

Le fanciulle onorate non si va a corbellare.

DUCA

Siete, don Policarpio, siete in error davvero.

Anzi, giacché siam soli, vi svelerò un mistero.

Signor, la vostra figlia...

SCENA SESTA

Il Cavaliere e detti.

CAV.

Servitore obbligato.

POL.

Che comanda, signore?

CAV.

Vengo al pranzo invitato.

POL.

Da chi?

CAV.

Dalla padrona.

POL.

Ed io che cosa sono?

CAV.

E dell'uno e dell'altro è generoso il dono.

POL.

Io sono un uom sincero, vo' dir la verità.

Non ci ho merito alcuno.

CAV.

Effetto di umiltà.

DUCA

Cavatevi la spada, mettete giù il cappello.


Fate come ho fatt'io. (al Cavaliere)
POL.                                                  (Anche quest'altro è bello). (da sé, accennando il Duca)

CAV.                Ecco, accetto il favore che mi vien accordato

Dal padrone di casa. (ripone la spada ed il cappello)
POL.                                                  (Ed io non ho parlato). (da sé)

DUCA              La padrona di casa andate a riverire,

Perché a don Policarpio qualche cosa ho da dire. (al Cavaliere)
CAV.                (Temo ch'ei mi prevenga, e d'impedir mi preme...) (da sé)

Parlate pure, andremo a riverirla insieme. (al Duca)
DUCA              Udite una parola. (a don Policarpio, tirandolo in disparte)

POL.                                              Eccomi, son da lei. (al Duca, accostandosi)

SCENA SETTIMA

Il Conte e detti.

CON.                Servo, don Policarpio; servo, signori miei.

POL.                 Sì presto, signor Conte, anch'ella è ritornato?

CON.                Del generoso invito protestomi obbligato.

POL.                 Viene a pranzo ancor ella?

CON.                                                           Le vostre grazie accetto.

POL.                 (Senza ch'io sappia nulla, oggi si fa banchetto). (da sé)

DUCA              (Ora non vi è più tempo, la cosa ha i suoi riguardi). (da sé)

POL.                 Cosa voleva dirmi?

DUCA                                             Ci parlerem sul tardi. (a don Policarpio)

POL.                 Non si cava la spada? Gli altri han fatto così. (al Conte)

CON.                Andiam dalle signore.

POL.                                                     La mia signora è qui.

SCENA OTTAVA

Donna Petronilla e detti.

PET.

Bravi, signori miei, avete fatto bene.

Quando si vien da noi, sollecitar conviene.

Qui si pranza per tempo.

POL.

Oggi si pranzerà

Più tardi dell'usato. (a donna Petronilla)

PET.

Vi è qualche novità? (a don Policarpio)

POL.

Lo dico, perché or ora faceste colazione.

PET.

Oh, che cosa ho mangiato? un'ala di cappone

E un pezzetto di pane, cosa che mi ha servito

Per confortar lo stomaco e aguzzar l'appetito.

POL.

Il ciel vi benedica.

PET.

Fate avvisare il cuoco,

E fin che si dà in tavola, noi sederemo un poco.

CON.

Servitevi, signora. (gli dà una sedia)


PET.                                                 No, per me non è buona.

Mi piace di star comoda. Dov'è la mia poltrona?
CAV.                Eccola. (va a prender la poltrona)

DUCA                          Vengo anch'io. (va ad aiutare a portar la poltrona)

CON.                                                    Questo si aspetta a me. (va a prendere la poltrona)

PET.                  (Bella cosa è il vederli a gareggiare in tre). (da sé)

Ora sto ben. Sedete; in piè non si ha da stare.
CAV.                (Non convien disgustarla). (siede vicino a sonna Petronilla)

DUCA                                                       (Convien dissimulare). (siede vicino a sonna Petronilla)

PET.                  Conte. (teneramente)

CON.                            Il posto è occupato. (mostra dispiacere)

PET.                                                             (Ha le lagrime agli occhi). (da sé)

POL.                 Mettete quella sedia dinanzi a' suoi ginocchi. (al Conte)

PET.                  Una volta per uno. (al Conte)

CON.                                               (Davver, poco mi preme). (da sé)

POL.                 Dunque venite qui. Ragioneremo insieme.

PET.                  Cavalieri se avrete per me della bontà,

Della mia discretezza nessun si dolerà.
POL.                 La mia signora sposa ha un animo compito,

Quel che non può vedere, è il povero marito.
PET.                  Se di me vi dolete, siete del ver nemico.

POL.                 Eh signora consorte, so io quello che dico.

PET.                  È pazzo il poverino. (piano al Duca ed al Cavaliere)

DUCA                                               Fa torto a sua bontà. (piano a donna Petronilla)

CAV.                Con una moglie simile che desiar mai sa? (piano a donna Petronilla)

SCENA NONA

Donna Barbara e detti.

BAR.                È permesso, signori? (tutti e tre i cavalieri si alzano)

PET.                                                   Eccola. (con sdegno)

POL.                                                              Che volete? (a donna Barbara)

DUCA              Favorisca. (esibendo la sedia a donna Barbara)

CAV.                                 S'accomodi. (esibendo la sedia a donna Barbara)

PET.                                                      Fermatevi, e sedete. (al Duca e al Cavaliere, facendoli sedere

per forza)

BAR.                Caro il mio signor padre, non mi può più vedere?

Che cosa mai le ho fatto? Mi lasci un po' sedere. (a don Policarpio)

POL.                 (Poverina! per dirla, mi fa compassïone). (da sé)

BAR.                Permette un pocolino? (a don Policarpio)
POL.                 Via, vi do permissione.

CON.                Eccovi la mia sedia. (a donna Barbara)
BAR.                E voi?

CON.                                                             Ne prendo un'altra. (va a prendere un'altra sedia)

BAR.                Appresso il signor padre. (siede vicino a don Policarpio)
PET.                 (Come sa far la scaltra). (da sé)

CON.                Se permette, la sedia alla sua sedia accosto. (a donna Barbara)

BAR.                Eh caro signor Conte, questo non è il suo posto.


I cavalier non mancano, quando sono impegnati. (accennando donna Petronilla con
finto sdegno)

CON.                Non vedete, signora? sono i luoghi occupati.

BAR.                 Per me vi parlo schietto, non fo da comodino;

Io sto col signor padre, non voglio alcun vicino.
POL.                 (Cara la mia figliuola, siate un po' più civile;

Con chi vi usa rispetto, mostratevi gentile.

Siete un po' troppo ruvida; se non vi cambierete,

Credetemi, figliuola, non vi mariterete). (piano a donna Barbara)
BAR.                 Io parlo come penso, e tratto come soglio.

II Conte davvicino, signore, io non lo voglio. (a don Policarpio, forte)
PET.                  Non vuol vicino il Conte, di già si dichiari.

Ma se vi andasse il Duca, non parleria così.
DUCA              Per evitar le liti, andrò, se il permettete. (a donna Petronilla, alzandosi)

CAV.                Anderò io, signora. (a donna Petronilla, alzandosi)

PET.                                                 Fermatevi, e sedete. (al Duca e al Cavaliere, facendoli sedere

per forza)
POL.                 Conte, non le badate. Sedete, io vel permetto.

CON.                Non vorrei dispiacerle. (sedendo vicino a donna Barbara)

BAR.                                                      (Che tu sia benedetto!)

DUCA              Spiacemi donna Barbara vedere un po' alterata.

CAV.                Verrà forse quel tempo, che sarà consolata.

DUCA              E non tarderà molto.

PET.                                                   Dico, signori miei,

Volete parlar meco, o ragionar con lei? (al Duca e al Cavaliere)

Vi burlano, sapete. (a donna Barbara)
POL.                                                Non crederei tal cosa.

BAR.                 Che mi burlino pure, alfin... (son vostra sposa). (piano al Conte)

CON.                Io non burlo, signora. (a donna Barbara)

PET.                                                      Credete ai detti sui? (a donna Barbara)

BAR.                 Burlata anche dal Conte? (a donna Petronilla)

PET.                                                          Sì certo, anche da lui. (a donna Barbara)

BAR.                 Oh, che burlino gli altri, non me n'importa un fico.

Non ho riguardo alcuno, in faccia ve lo dico.

Signor Conte carissimo, cogli altri io tacerei,

Ma un'insolenza simile da voi non soffrirei.

Questo pensier villano cacciatel dal pensiero,

Non vo' che mi burliate. (Vo' che facciam davvero). (queste ultime parole piano al

Conte)
POL.                 Ha ragione mia figlia. Anch'io nol soffrirò. (al Conte)

CON.                Signor, ve lo protesto. Io non la burlerò. (a don Policarpio)

SCENA DECIMA

Moschino e detti.

MOS.                È in tavola, signori.

PET.                                                 Presto, presto, a mangiare. (si alza, e si alzano tutti)

CON.                Permette ch'io la serva? (offre la mano a donna Barbara)


BAR.                                                      Eh, lasciatemi stare. (mostrando di scacciarlo, gli stringe la

mano)
POL.                 (Ma che figliuola ruvida!) (da sé)

PET.                                                             Andiam, meco venite. (dà mano al Duca e al Cavaliere)

Conte, per questa volta, non so che dir. Soffrite. (parte col Duca ed il Cavaliere)
CON.                Almen per questa volta. (offre la mano a donna Barbara)

BAR.                                                      Voi mi movete a sdegno.

Voglio andar da me sola.
POL.                                                          Puh! che testa di legno. (a donna Barbara)

BAR.                 Dite a me? (a don Policarpio)

POL.                                  Dico a voi. Non si accetta un favore?

BAR.                 Lo fo per ubbidire al signor genitore. (fa una riverenza a don Policarpio, e poi dà

mano al Conte e parte con lui)
POL.                 Cosa ti par, Moschino, di questa mia ragazza?

Non par ch'ella sia nata da un birbone di piazza?
MOS.                Eh signore, è più furba di quel che voi credete.

POL.                 Furba codesta sciocca?

MOS.                                                      Quel ch'io so, non sapete.

POL.                 Narrami qualche cosa.

MOS.                                                    Ci parlerem stassera.

Ho saputo un negozio di certa tabacchiera.

Andiamo, andiamo a tavola, che non si dia sospetto.

Oh le donne, signore... saprete un bel casetto. (parte)
POL.                 Che sotto la finzione vi fosse un qualche inganno?

Eh, ho gli occhi nella testa. A me non me la fanno. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA Mariano e Lisetta.

LIS.                   Cose, Mariano mio, che fan crepar di ridere.

Se non venia a sfogarmi, io mi sentiva uccidere.

Si vede in donna Barbara della malizia il frutto;

Gli altri non sanno nulla, ma noi sappiamo tutto.
MAR.                Come sa finger bene! A chi non sa l'arcano,

Il conte d'Altomare par che le sia un estrano.
LIS.                   Quanto pregar s'è fatta a stare a lui dappresso!

MAR.                L'ha dovuta pregare perfino il padre istesso.

LIS.                   Se il Conte qualche cosa vuol darle per finezza,

Ella ricusa il dono, e il donator disprezza.

Un'avversione al Conte negli occhi suoi si vede,

E poi sotto la tavola fa giocolare il piede.
MAR.                Che scoprir si dovesse, per certo io dubitai.

In lei cotanto spirito io non credeva mai.
LIS.                   Che dici di quel brindisi? Si può sentir di più?

MAR.                Mi ha fatto tanto ridere. Ci hai badato anche tu?

LIS.                   Se ci ho badato? Eccome! Prese in mano il bicchiere,

Disse: vuò far un brindisi, portatemi da bere.

Poi disse: alla salute di chi non mi ha burlata;

E diè sotto la tavola al Conte una pedata.
MAR.                Stimo che la matrigna sta colle luci attente,

E con tutto il sospetto non s'accorge niente.
LIS.                   Vedo che donna Barbara a tutto è preparata,

Ma godrei di vederla un poco imbarazzata.

Questo per me sarebbe un bel divertimento.

Zitto, un pensier bizzarro mi viene in sul momento.

Ella una tabacchiera ti diè senza pensare;

E tutti, se la vedono, la ponno ravvisare.

Facciamole una burla in mezzo della gente,

Facciam veder la scattola così per accidente.

Il padre e la matrigna diran: chi ve l'ha data:

Noi ci confonderemo, ella sarà imbrogliata.

Vedrem cosa sa dire, vedrem cosa sa fare;

Dammi la tabacchiera, e lasciami provare.
MAR.                Bella, bella davvero. Tu l'hai pensata bene.

Quando si può godere, godersela conviene.

Per metterla in cimento, trovata hai la maniera.

Ma fuor delle mie mani non va la tabacchiera.
LIS.                   Marian, tu mi fai torto. Che dubiti di me?

MAR.                Ti conosco, Lisetta, non me la cucchi affé.


LIS.

Veramente villano.

MAR.

Son incivile, il so.

Ma la scattola è mia.

LIS.

So io quel che farò.

MAR.

Cosa farai, Lisetta?

LIS.

Lo vederai di botto.

Vo' dire a donna Barbara, che il giuramento hai rotto.

SCENA SECONDA Moschino e suddetti.

MOS.

Che fate qui voi altri? Domandano il caffè.

Non si vede nessuno, e gridano con me.

LIS.

Andate a prepararlo. (a Mariano)

MAR.

Lo zucchero ammannite. (a Lisetta)

MOS.

Ehi, che scene graziose! (a Mariano e Lisetta)

MAR.

Di che?

LIS.

Non so che dite.

MOS.

Donna Barbara e il Conte fan bene i fatti suoi.

MAR.

Come?

LIS.

Non so nïente.

MOS.

Che serve? infra di noi

Parliam liberamente. Con me si può parlare.

LIS.

Chiacchieron! (a Mariano)

MAR.

Linguacciuta! (a Lisetta)

MOS.

Di più non si può fare.

Certo che né men io me ne sarei avveduto,

Se da voi la faccenda non avessi saputo. (a Mariano e Lisetta)

MAR.

Io sono un galantuomo; non ho detto niente. (parte)

LIS.

Da me non lo sapeste. Mariano è un imprudente. (parte)

SCENA TERZA

Moschino, poi don Policarpio.

MOS.                La cosa apertamente non ha scoperto alcuno.

Hanno senza avvedersene parlato un po' per uno.

Ed io che sono accorto, i detti ho confrontato,

E tutta la faccenda bel bello ho rilevato.
POL.                 Eccolo qui davvero. (esce dalla porta pian piano, guardando se altri lo vede)

MOS.                                                 (Gran Moschin per capire!) (da sé)

POL.                 Moschin, narrami un poco quel che volevi dire.

MOS.                Mi fe' quasi paura.

POL.                                                Son venuto pian piano,

Per non esser veduto. Confidami l'arcano.
MOS.                Signore, un'altra volta.


POL.                                                       No, no, sono in sospetto.

Parlami, e un buon regalo, se parli, io ti prometto.
MOS.                Non so che dir; mi viene con tanta proprietà,

Che mi trovo forzato a dir la verità.

Signor, la vostra figlia che non vi pare accorta,

È furba come il diavolo, e fa la gatta morta.

Finge di non curarsi di ritrovar marito;

Eppure il matrimonio l'ha messa in appetito.

E sa con artifizio l'amante aver presente,

E burlasi di tutti, e alcun non sa niente.
POL.                 Oh che ti venga il bene! non lo credeva mai.

MOS.                Ascoltate, signore, che cosa io penetrai.

Io so che coll'amante parlato ha ieri sera,

So che a certe persone donò una tabacchiera.

E queste di tacere lo so che hanno giurato,

Ma io ciò non ostante la cosa ho rilevato.
POL.                 Presto, narrami tutto. La cosa come andò?

Chi è l'amante segreto?
MOS.                                                      Tutto vi narrerò.

Vi dirò dell'amante il nome ed il cognome.

Di quel ch'è succeduto, vi dirò il quando e il come.

L'amante è per l'appunto...

SCENA QUARTA

Il Duca e detti.

DUCA                                                         Signor, con permissione.

POL.                 (Diavol, non ho potuto sentir la conclusione). (da sé)

Vi prego di lasciarmi un poco in libertà. (al Duca)
DUCA              Ho una cosa da dirvi, che preme in verità.

POL.                 Or ora son da voi.

DUCA                                             Se non la dico subito,

Signor, qualche disgrazia che si frapponga io dubito.
POL.                 Disgrazie! che può essere? Aspettami, Moschino.

Va giù nella mia camera. Tieni questo zecchino.

(Eh! io son uomo accorto. So far coi servitori).
MOS.                Anderò ad aspettarvi. (parte)

POL.                                                     (Son pieno di timori). (da sé)

DUCA              Ora che siamo soli, mi prendo la licenza

Di farvi, mio signore, del cuor la confidenza.

Voi sapete chi sono, nota è la mia famiglia:

Desidero in isposa aver la vostra figlia.

E senza farla chiedere per via d'altro soggetto,

Da voi vengo in persona con umile rispetto.

Sarà, se l'accordate, felice il mio destino.
POL.                 (Questi sarà l'amante che volea dir Moschino). (da sé)

Duca, per verità, resto sorpreso un poco:

Voi con secondo fine veniste in questo loco.


E par che non convenga a un cavalier d'onore

Sotto vel d'amicizia venire a far l'amore.
DUCA              Quando qua m'introdussi, io non ci avea pensato.

Trattando colla giovine, di lei mi ho innamorato,

E se colle mie nozze mi offro pagar l'errore,

Credo, don Policarpio, non farvi un disonore.
POL.                 È vero, io lo confesso, siete un gran cavaliere.

Questa buona fortuna incontro con piacere.

Ma lo sa la figliuola?
DUCA                                                  Di lei mi comprometto.

Spero non mi ricusi.
POL.                                                  (Sì, Moschin me l'ha detto). (da sé)

Ma perché, signor Duca, meco non ispiegarvi,

Piuttosto che con altri parlare e confidarvi?

Perché le tabacchiere donar furtivamente?

Perché venir di sera?
DUCA                                               Signor, non so nïente.

POL.                 Oh via, lasciamo andare. Quello ch'è stato, è stato.

DUCA              (Temo dal Cavaliere d'essere soverchiato). (da sé)

POL.                 Ho inteso il genio vostro. Parlerò alla figliuola.

DUCA              Non vi è tempo da perdere. Datemi la parola.

POL.                 Ma perché su due piedi?

DUCA                                                       Perché se ciò si sa,

Vostra moglie, signore, opponer si vorrà.

Odia la vostra figlia, quanto odiar si può mai.

Per questo il mio pensiere finor dissimulai.

Da donna Petronilla a dir più volte ho udito,

Che in vano donna Barbara puote sperar marito.

Ch'ella assolutamente comanda in questo tetto,

E che dovrà invecchiare fanciulla a suo dispetto.
POL.                 Ed io non conto nulla?

DUCA                                                    Signor, se il ver vi dico,

Vi domando perdono. Voi non istima un fico.
POL.                 Oh cospetto di bacco! farò veder chi sono.

Taccio, taccio, ma poi anch'io cangierò tuono.

Non vuol che si mariti? Non vuole ad onta mia?

Non mi calcola un fico? Cosa crede ch'io sia?

Volete la figliuola?
DUCA                                             Non ve la chiedo in vano.

POL.                 Barbara sarà vostra.

DUCA                                               Davver?

POL.                                                                 Vi do la mano.

DUCA              Signor, mi consolate.

POL.                                                     L'affare è bell'e fatto.

Stassera infra di noi si stenderà il contratto.

Per or non dite nulla. Io lo dirò alla sposa,

E quando sarà fatta, pubblicherem la cosa.
DUCA              Basta che non si penetri per or da vostra moglie.

POL.                 Io son, corpo di bacco, padrone in queste soglie.

Procurerò con lei salvar la convenienza;

Ma poi, se non le piace...


DUCA                                                       Amico, con licenza

Vo, per non dar sospetto.
POL.                                                          Genero, vi saluto.

DUCA              Offro tutto me stesso al suocero in tributo. (parte)

SCENA QUINTA Don Policarpio, poi donna Petronilla.

POL.                 Non mi calcola un fico? Pazienza, già lo so,

Che meco si compiace di dir sempre di no.

Ma se per me da lei non posso sperar nulla,

Non vo' che mi precipiti almen quella fanciulla.

Ho saputo ogni cosa senza sentir Moschino.

Mi dispiace d'avere gittato uno zecchino.

Mia figlia è fatta sposa, e se la moglie mia...
PET.                  Serva, signor consorte.

POL.                                                       Bondì a vossignoria,

PET.                  Favorisca d'andare di là, dalla figliuola.

Ci son quei cavalieri, non la lasciamo sola.
POL.                 Perché non ci sta ella?

PET.                                                        Perché non son sì matta

A prendermi tal briga, ci pensi chi l'ha fatta.
POL.                 Certo che chi l'ha fatta, o chi l'ha fatta fare,

Per lei un qualche giorno ci doverà pensare.
PET.                  Cosa vuol dir, signore, che mi pare alterato?

POL.                 Barbara è da marito, e convien darle stato.

PET.                  E perché me lo dice con aria prepotente?

Che si mariti pure, a me non cal nïente.

So che sarà difficile trovarle un buon partito.
POL.                 No, non sarà difficile; si troverà il marito.

PET.                  Voglia il ciel che lo trovi, per me non vedo l'ora;

Anzi per lei m'impegno di maneggiarmi ancora.

Farò tutto il possibile perché sia collocata.

(Di questo spin negli occhi meglio è sia liberata). (da sé)
POL.                 Manco mal che una volta voi mi diceste un sì.

Vi vorrò assai più bene, parlandomi così.

Cara consorte mia, non mi stimate un fico?
PET.                  Chi vi ha detto tal cosa?

POL.                                                          Eh, so io quel che dico. (parte)

SCENA SESTA

Donna Petronilla.

PET.                  Certo, a dir quel ch'è vero non lo calcolo molto.

Ma come ho da stimare un uom che pare un stolto?


Sempre con delle smorfie intorno a me lo veggio, E con noi altre donne l'importunar fa peggio. Ora di contentarlo voglio mostrare in questo: La sua diletta figlia a maritar m'appresto. Non già per far un bene né al genitor, né a lei, Ché per questo motivo io non mi moverei; Ma questa signorina comincia a poco a poco Nella conversazione a avere il primo loco. Vedo che i miei amici, vedo che i cavalieri Le corrono d'intorno, la trattan volentieri. E prima che s'avanzi la cosa maggiormente, È ben ch'io me ne liberi di questa impertinente. Parmi che più d'ogni altro al Duca sia inclinata, Ma non vo' certamente che a lui sia maritata. Che si mariti pure, anzi ne avrò piacere: Ma chi vogl'io dee prendere; vo' darle il Cavaliere. Questi è il meno che stimo fra gli altri amici miei; È un cervellin bisbetico, buono appunto per lei. Gli ho detto che qui venga, dovrebbe esser venuto. Fissarsi in donna Barbara anch'egli l'ho veduto; Credo che non le spiaccia, e quando sia così, Stabilirò il contratto. Appunto eccolo qui.

SCENA SETTIMA

Il Cavaliere e la suddetta.

CAV.                Eccomi a' cenni vostri.

PET.                                                        Tardi, signor; perché?

CAV.                Mi sono trattenuto a bevere il caffè:

A beverlo, signora, siete di là aspettata.
PET.                  Il caffè non mi piace; berrò la cioccolata.

CAV.                Dopo il pranzo?

PET.                                            Sì certo, giova alla digestione.

Così da qui a tre ore potrò far colezione.
CAV.                Signora, il vostro stomaco davver poco riposa.

PET.                  Lasciam queste fandonie, parliam d'un'altra cosa.

Cavaliere, mi pare che non vi spiaccia molto

Mirar di donna Barbara furtivamente il volto.

Non è egli ver?
CAV.                                          Signora... (mostrando di vergognarsi)

PET.                                                             Io son del vero amica;

Se in me vi confidate, non vi sarò nemica.
CAV.                Certo, se voi credete ch'io fossi così ardito

Di burlar quella giovane...
PET.                                                             Siete un signor compito.

So che del vostro cuore voi le faceste un dono.

Cavalier, palesatevi, ch'io di già vi perdono.

Via, ditemi: l'amate? La verità sol bramo.


CAV.                Quando ho da dir il vero, ve lo confesso, io l'amo.

PET.                  Bravo, così mi piace. Voglio saper di più...

CAV.                Signora, non vorrei che mi tiraste giù.

PET.                  Povero bambolino! svelatemi ogni cosa.

Son qui per aiutarvi; la prendereste in sposa?
CAV.                Perché no?

PET.                                     Lo sapete qual sia la di lei dote?

CAV.                So quel che le destinano, e quel che sperar puote.

PET.                  Facciam questo negozio?

CAV.                                                           S'io non vi dico un no,

Temo che voi mi dite: ed io non ve la do.
PET.                  Stupisco che formiate di me sì mal concetto.

Chiedetela in consorte, ed io ve la prometto.
CAV.                Ma il padre suo?

PET.                                              Per ora lasciamolo da banda.

10sono in questa casa che puote e che comanda.

11contratto di nozze accordiam fra di noi, E al signor Policarpio glielo direm dipoi.

CAV.                Non vorrei che i discorsi fra noi riuscisser vani.

PET.                  No, so io quel che dico.

CAV.                                                      Son nelle vostre mani.

PET.                  Cavalier, ritornate in compagnia degli altri.

Non facciam che sospettino, perché son furbi e scaltri.

Lasciatemi operare. Ho sentimenti umani.
CAV.                Altro non vi rispondo. Son nelle vostre mani.

SCENA OTTAVA Donna Petronilla, poi don Policarpio

PET.                  So che don Policarpio desia di maritarla.

Per moglie a un cavaliere egli non può negarla;

E circa donna Barbara, il dir d'una fanciulla,

Quando così è disposto, non contasi per nulla.
POL.                 Posso venir? (con affettazione)

PET.                                       Fa grazia.

POL.                                                       Se no, comandi pure. (mostrando di ritirarsi)

PET.                  Cosa servono adesso queste caricature?

Meglio avereste fatto a star colla figliuola;

Con tre giovani al fianco, vi par stia bene sola?
POL.                 Barbara nel suo quarto a ritirarsi è ita.

Il Duca e il Cavaliere giocano una partita.

Il Conte alla finestra parla non so con chi;

Ed io per riverirla sono venuto qui.
PET.                  Davver, don Policarpio, mi fate venir male.

POL.                 Lo so, signora mia, ch'io sono un animale,

Che non mi può vedere, che non mi stima un fico.
PET.                  Orsù, che si finisca; l'ho detto e lo ridico:

Codesta affettazione un corbellar si chiama.


Portatemi rispetto, che alfin sono una dama.
POL.                 Via, donna Petronilla, siate un pochin più buona.

Vorrei comunicarvi...
PET.                                                      Dov'è la mia poltrona?

POL.                 Subito ve la porto. (va a prendere la poltrona)

PET.                                                 Da ridere mi viene. (ridendo)

POL.                 Ridete? Eh poveraccio! non mi volete bene.

PET.                  Perché mai dite questo?

POL.                                                       Perché se al genio mio...

Aspettate un pochino, voglio sedere anch'io. (va a prendere una sedia, e si pone a

sedere)
PET.                  (Ora mi muove il vomito). (da sé)

POL.                                                            Sentite una parola...

PET.                  Orsù, parliamo un poco della vostra figliuola.

POL.                 Di già me l'aspettava, temete che a drittura...

Via, non dirò niente; non abbiate paura.

Parliam della figliuola. Penso di maritarla.
PET.                  In ciò siamo d'accordo, è ben di collocarla.

POL.                 Ella è in età discreta; di dote è provveduta,

E non è tanto sciocca.
PET.                                                      Lo so ancor io ch'è astuta.

POL.                 Ma non saprete tutto.

PET.                                                      So forse più di voi.

POL.                 Lo sapete che anch'ella ha gli amoretti suoi?

PET.                  Sì, ho scoperto ogni cosa e so chi la pretende.

POL.                 Come lo rilevaste?

PET.                                                 Chi ha buon orecchio, intende.

POL.                 Che vi par del partito?

PET.                                                      Mi par che sia buonissimo.

POL.                 Pare anche a me un figliuolo dabbene e prudentissimo.

Voi che le case nobili tutte vi saran note,

Vi pare che li meriti trentamila di dote?
PET.                  Di una famiglia illustre non vi dirò ch'ei sia,

Non si può, per esempio, mettere colla mia;

Ma però in ogni modo è nato cavaliere,

E il padre della sposa non è che un finanziere.

Senza una buona dote sperar non si potrà

Ch'ei voglia con tai nozze sporcar la nobiltà.
POL.                 Sporcar la nobiltà?

PET.                                                 Almen non crederei

Ch'ei fosse così sciocco, come son stati i miei.
POL.                 Dunque per me vi siete sporcata in questo loco.

Consolatevi almeno che vi ho sporcato poco.
PET.                  Ciò non conclude nulla.

POL.                                                       Conclude qualche cosa.

PET.                  Dunque, per quel ch'io sento, Barbara è presto sposa.

POL.                 Per dir la verità, temea che vi opponeste;

Ora che l'approvate, farem le cose preste.
PET.                  Come spesso s'inganna la gente scimunita!

Temea non l'accordassi, ed io gliel'ho esibita.
POL.                 Quando? Perché mi ha detto: nol dite alla signora.


PET.

Credo non sia per anche passata una mezz'ora.

POL.

Prima o dopo di me?

PET.

Non so se prima o poi.

Io so che immantinente gliel'ho promessa. E voi?

POL.

Anch'io diedi parola che si farà il contratto.

PET.

Dunque, per quel ch'io sento, il matrimonio è fatto.

POL.

Manca una sola cosa.

PET.

Cosa mancar vi può?

POL.

Sentir s'ella è contenta.

PET.

Eh, non dirà di no.

POL.

Anch'io son persuaso ch'ella dirà di sì.

Tanto più che si parlano di notte, e anche di dì.

E so di un certo fatto, di certa tabacchiera.

Basta; è ben che si sposino.

PET.

Facciamolo stassera.

POL.

Mandiamola a chiamare.

PET.

Subito. Chi è di là?

SCENA NONA

Moschino e detti.

MOS.                Comandi.

PET.                                   Dite a Barbara, che tosto venga qua.

MOS.                Potea ben aspettarvi. (a don Policarpio)

POL.                                                  No, non sono venuto,

Perché quel ch'io voleva senza di te ho saputo.
MOS.                Dunque si sa ogni cosa?

POL.                                                          Dico di sì, va via.

MOS.                Anche del matrimonio?...

POL.                                                          Chiama la figlia mia.

MOS.                (Anch'io, per dir il vero, me l'era immaginata,

Che non potea la cosa restar molto celata). (da sé, e parte)
PET.                  Disse di matrimonio? Che cosa dir vorrà?

POL.                 Oh bella! è un servitore. Ei parla come sa.

Qualcosa ha inteso dire de' suoi segreti amori.

Dice di matrimonio? Che sanno i servitori?

SCENA DECIMA

Donna Barbara e detti.

BAR.                 Son qui. Che mi comandano?

POL.                                                                 Figliuola mia, sedete.

PET.                  Che importa? In due parole quel che si vuol, saprete.

Ora vi diamo parte, che io vi ho maritata.

Ecco tutto il discorso.


BAR.                                                    Le son bene obbligata! (con ammirazione ironica)

POL.                 Certo, con buon amore ella vi fa da madre,

Ed io fo le mie parti.
BAR.                                                  Grazie a lei, signor padre.

PET.                  Meglio del mio costume a giudicar pensate.

Io non vi son nemica. Vi ho provveduto. Andate.
BAR.                 Mille ringraziamenti al di lei cuor pietoso.

Ma si potrebbe in grazia saper chi sia lo sposo?
POL.                 Un che so che vi piace. L'amico di ier sera.

BAR.                 Signor, non vi capisco.

POL.                                                       Quel della tabacchiera.

BAR.                 Finor non so chi sia.

PET.                                                   È tal, che il genitore

Degno di voi lo crede.
POL.                                                     È il duca di Belfiore.

BAR.                 Davver? (confusa)

PET.                                Che cosa dite? (alzandosi impetuosamente contro di don Policarpio)

POL.                                                       Non lo doveva dire? (a donna Petronilla, alzandosi)

PET.                  Il duca di Belfiore? (a don Policarpio)

POL.                                                Cosa vi fa stupire? (a donna Petronilla)

PET.                  Come! io ho donna Barbara al Cavalier concessa.

Ei la chiese in isposa, ed io gliel'ho promessa.
POL.                 Oh, questa sì davvero è un'altra fanfaluca.

Non sarà una mezz'ora ch'io l'ho promessa al Duca.
PET.                  E deve ad ogni costo valer la mia parola.

POL.                 Ed io son nell'impegno di dar la mia figliuola.

PET.                  Se non l'ha il Cavaliere, nascerà un precipizio.

POL.                 Nasca quel che sa nascere, s'ha a far lo sposalizio.

PET.                  Io son chi sono alfine.

POL.                                                     E son chi sono anch'io.

PET.                  E ho dato la parola.

POL.                                                  E vi è l'impegno mio.

BAR.                 Posso parlar, signori?

POL.                                                     Dite voi: chi vorreste? (a donna Barbara)

PET.                  A lei non si domanda. Che novità son queste? (a don Policarpio)

POL.                 Chi è quel che è qui venuto?... (a donna Barbara)

BAR.                                                                  Quando?

POL.                                                                                    Dov'è Moschino? (guardando intorno)

PET.                  Ho promesso, e son dama. (a don Policarpio)

POL.                                                            Ed io sono un facchino? (a donna Petronilla)

BAR.                 Signori, se parlare voi non mi contraddite,

Spero trovare il modo di terminar la lite.
POL.                 Parlate, signorina, chi è quello che ha donato

La scattola?
BAR.                                      Che scattola?

POL.                                                            Moschin, dove se' andato? (cercando Moschino)

PET.                  Lasciamola parlare, sentiamo il suo concetto.

Ma vi avviso per bene non perdermi il rispetto.
BAR.                 So il mio dover, signora, so quel che mi conviene

Verso una cara madre, che fa per il mio bene.

Ed egualmente io serbo con riverenza e amore


La stima ed il rispetto dovuto al genitore.

L'uno e l'altro di loro con alma generosa

Gareggiano in volermi di un cavalier la sposa.

L'un mi propone il Duca ricco di nobiltà,

E tal che potria fare la mia felicità.

L'altra del Cavaliere procurami il partito

Ch'è un giovane brillante, ch'è un nobile marito.

E ognun tenacemente a procurar s'impegna

Per me quella fortuna, di cui ne sono indegna.

Ah, se ricuso il Duca il genitore offendo;

Se il Cavalier ricuso, ingrata a lei mi rendo.

Al padre ed alla madre di soddisfar non lice,

E in mezzo a tanti beni io resto un'infelice.

Perdo miseramente dell'amor vostro i frutti,

E resto senza colpa ridicola con tutti.

Non è dover che il padre ceda le sue ragioni;

Dee sostener la dama le oneste pretensioni.

Ed io se non rispondo al generoso invito,

Di me più non si parla, mai più non mi marito.

No, il Duca non si lagni che il padre abbia mancato;

Dalla dama non dicasi il Cavalier burlato.

A me diasi la colpa; dicasi ad ambidue:

La sposa non consente; le nozze sono sue.

Per evitar, signori, che nasca un precipizio,

Son pronta di me stessa a fare un sagrifizio.

Per l'umile rispetto, per il figliale amore,

Supero l'avversione, sagrifico il mio cuore.

Cessino fra di voi, cessin gli sdegni e l'onte;

Eccomi al duro passo. Darò la mano al Conte.
POL.                 Cara la mia figliuola, piango per tenerezza.

PET.                  No, cedere all'impegno saria una debolezza.

Al Cavalier la sposa promessa ho in questo loco.

L'ha da sposar, se andasse tutta la casa a fuoco. (parte)
BAR.                 La casa in precipizio per me non si riduca. (a don Policarpio)

POL.                 Vada in cenere il mondo, hai da sposare il Duca. (parte)

BAR.                 Più non si può tacere; dee terminar lo scherzo;

E fra due litiganti dee trionfare il terzo. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA Donna Barbara e Lisetta.

LIS.                   Io vi dirò da dove il male è derivato.

Io non ho detto nulla, Marian non ha parlato.

Ma se saper volete, vi parlerò sincera;

Tutto il male è venuto da quella tabacchiera.
BAR.                 Qual tabacchiera?

LIS.                                               Quella che a Mariano donaste.

Che fosse conosciuta, allor non ci pensaste.

Ed egli che giudizio moltissimo non ha,

La mostra a questo e quello, per pompa e vanità.

È stata conosciuta da qualche servitore;

Moschin principalmente ne ha fatto del rumore.

Se chiedono a Mariano, come l'ha avuta e donde,

Non sa dir: l'ho comprata; si perde e si confonde...

E se il padron la vede, son certa, son sicura,

Che gli fa il giuramento rompere a dirittura.

Certo, signora mia, fin che in man di Mariano

Resta la tabacchiera, il timor non è vano.

Onde per evitare qualche maggior periglio,

Levargli quella scattola, signora, io vi consiglio;

E se ricompensarlo vorrete in qualche cosa,

Non mancherà poi tempo d'essere generosa.
BAR.                 Marian dove si trova?

LIS.                                                      Or or se ne va via.

BAR.                 Chiamalo.

LIS.                                   Sì signora. (La tabacchiera è mia). (da sé, e parte)

SCENA SECONDA

Donna Barbara, poi Lisetta.

BAR.                 Veggo che facilmente tutto sarà scoperto,

Ma il fatto della notte vo' almen tener coperto; E se la tabacchiera non sa celar Mariano, Dice bene Lisetta, leviamgliela di mano. Vado pensando al modo di rimediare a tutto; Ma più che vi rifletto, mi pare il caso brutto. Scoprire è cosa facile ch'io sono maritata, Ma temo in cento modi restar pregiudicata.


Il padre certamente meco sarà sdegnato,

Da donna Petronilla acceso e stuzzicato.

Se le mie leggerezze a lei si rendon note,

Capace è di scemarmi gran parte della dote.

Ma io procurerò che qualche via si apra,

Per salvare ad un tempo i cavoli e la capra.
LIS.                   Mariano or ora viene; badate ben, signora,

Fate trovar la scattola, e ch'ei la metta fuora.
BAR.                 Per forza o per amore darla gli converrà.

LIS.                   Volete ch'io vi dica un'altra novità?

BAR.                 Oh ciel! che cos'è stato?

LIS.                                                           Il padre e la consorte

Entrambi sono usciti or or da queste porte.

Ella, per quello almeno che dicono le genti,

È andata a raccontare il caso ai suoi parenti,

Con animo di dire, con animo di fare,

Perché alla sua parola non vuol pregiudicare.

Ed il padrone anch'esso, temendo qualche ingiuria,

Dicono ch'egli è andato a prevenir la curia,

E vuol la protezione aver della Reggenza,

Per ripararsi in caso di qualche prepotenza.

In verità, signora, che ridere mi fanno.
BAR.                 Tu ridi, perché a te non dee venirne il danno;

Ma io non posso ridere veggendo il mio periglio,

E chiamar mi conviene i spiriti a consiglio.

Anche i tre cavalieri dunque saran partiti.
LIS.                   Signora no, davvero. Son restati storditi,

Sentendo che di casa era uscito il padrone

E la signora anch'essa.
BAR.                                                    Ma sanno la cagione?

LIS.                   Nulla han finor saputo. Ad essi han fatto dire

Che pria del lor ritorno non stessero a partire.

Forse che tutti due sperano al suo ritorno

Di superar l'impegno, pria che tramonti il giorno.

Il Duca, il Cavaliere continuano a giocare.
BAR.                 E il Conte?

LIS.                                      Per la sala lo vidi a passeggiare.

Anzi mi ha domandato, se può venir da voi.
BAR.                 No no, di' che non venga, ci rivedrem dipoi.

Vammi a chiamare il Duca e il Cavaliere ancora;

Che favoriscan subito.
LIS.                                                      Subito, sì signora. (in atto di partire)

Veggo venir Mariano. Fate che ve la dia.
BAR.                 Me la darà senz'altro.

LIS.                                                      (La tabacchiera è mia). (da sé, e parte)

SCENA TERZA Donna Barbara, poi Mariano.


BAR.                 Sono in un grande imbroglio. Che gran giornata è questa!

Voglia il ciel che mi riesca quel che mi viene in testa.
MAR.                Che comanda, signora?

BAR.                                                      Dov'è la tabacchiera

Che ti donai stanotte?
MAR.                                                   Lisetta è una ciarliera.

Non le credete nulla.
BAR.                                                  Qui non c'entra Lisetta;

Voglio la tabacchiera, e spicciati, che ho fretta.
MAR.                In tasca io non ce l'ho. Signora, in verità,

L'ho chiusa, l'ho nascosta, nessun non la vedrà.
BAR.                 Portala immantinente.

MAR.                                                   Signora mia, perché

Vuol levarmi una cosa che ha regalato a me?

Forse non me la merito a far quello che ho fatto?
BAR.                 Non replicar, Mariano, la voglio ad ogni patto.

Dammela colle buone; se non dal padre mio

Ti farò discacciare. Posso qualcosa anch'io.
MAR.                Eh cospetto di bacco! non me n'importa un fico.

Ecco la tabacchiera. So io quello che dico.
BAR.                 Teco in altra maniera farò quel che conviene.

MAR.                Ha ragione, signora, ch'io sono un uom dabbene.

Per altro questo è il modo di mettermi in cimento,

Di trar dietro alle spalle la fede e il giuramento.

Ma se mai per Lisetta... (dà la tabacchiera a donna Barbara)
BAR.                                                      Vattene via, vien gente.

MAR.                Se mi fa questo torto...

BAR.                                                      Vattene, impertinente.

MAR.                Pazienza, quest'è il premio che a ben servir si aspetta.

Ma so donde proviene; maladetta Lisetta. (parte)

SCENA QUARTA Donna Barbara, poi Lisetta.

BAR.                 Levandogli la scattola a un male ho provveduto,

Ma con un don maggiore sarà riconosciuto.

LIS.                   Vengono i cavalieri; eh ben, signora mia,

La scattola?

BAR.                                    L'ho avuta. (mostra la tabacchiera)

LIS.                                                         Vuol ch'io la metta via?

BAR.                 Mettila nel burò.

LIS.                                               Me la potria donare.

BAR.                 E poi?

LIS.                               Oh, non la vedono. (Vo' farlo disperare). (da sé)

BAR.                 So che avrai più giudizio.

LIS.                                                           Oh, non v'è dubbio alcuno.

La serro nell'armadio, non la vedrà nessuno.


Io non ne faccio pompa, non fo come Mariano.

(Morirà di veleno, se me la vede in mano). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA Donna Barbara, poi il Duca ed il Cavaliere,

BAR.                 Lisetta è quella sola, di cui posso fidarmi...

Eccoli; ad un cimento son costretta a provarmi.
DUCA              Sono ai vostri comandi.

CAV.                                                      Son qui per obbedirvi.

BAR.                 Favorite, signori; gran cose io deggio dirvi.

Ma prima che il mio labbro vi sveli i suoi pensieri,

Vi prego istantemente, parlatemi sinceri.

Siete amici, o nemici?
DUCA                                                  Perché ciò mi chiedete?

Del Cavaliere amico forse non mi credete?
CAV.                Da che deriva il dubbio?

BAR.                                                         Ve lo dirò, signore,

Amici esser non sogliono due rivali in amore.
CAV.                È mio rivale il Duca?

DUCA                                                  Rival mi è il Cavaliere?

BAR.                 Sì, se ancor nol sapete, alfin si ha da sapere.

Cavalier, voi mi amate, mi ama il Duca non meno;

L'uno e l'altro di voi stringer mi brama al seno.

Chi al padre e chi alla madre spiegò le brame sue,

E son senza mia colpa promessa ad ambidue.

Quella col Cavaliere ha del cuor mio disposto;

Questi mi vuole unita col Duca ad ogni costo.

E tanto fra di loro si accesero di sdegno,

Che cercano ogni strada per sostener l'impegno.

Ad onta dell'amore che il cuor vi ha lusingato,

L'uno o l'altro di voi a cedere è forzato;

E di due pretendenti, cedendo alcun di loro,

Nella cession forzata vi va del suo decoro.

Una guerra perpetua vedrem fra queste soglie

Regnar per causa vostra fra il padre e fra la moglie.

Credendo ognun di voi soffrire un'ingiustizia,

Fra le vostre famiglie si accende inimicizia;

Ed io che senza colpa ritrovomi impegnata,

Sarò nell'avvenire da tutti abbandonata.

Deh cavalieri umani, per il comun riposo,

Unitevi nel fare un atto generoso.

Se altra via non sapete trovar per liberarmi,

Dite che lo faceste soltanto per beffarmi.

Non temete per questo che mal possa accadere;

La matrigna che mi odia, ne avrà tutto il piacere.

Di me vuol liberarsi, credendomi apprezzata;

Giubilerà vedendomi derisa e beffeggiata.


E il genitor pur troppo timido per natura,

Cauto voi lo vedrete tacer per la paura.

Per me, vi do licenza di farmi ogni dispetto,

Pur troppo so d'avere in me più d'un difetto;

E in grazia di vedermi dal labirinto sciolta,

Dite ch'io non vi merito, ditemi sciocca e stolta.

Il cuor dall'amor vostro questa mercede attende.

Chi mi disprezza, io stimo, chi mi vuol sua, mi offende.

DUCA              Il soddisfarvi in questo sì facile non credo.

Io sprezzar donna Barbara? L'adoro, e non la cedo. Non può di voi disporre una matrigna ardita. Sosterrò la ragione a costo della vita.

CAV.                Io vi amai da gran tempo, ma non ardia di dirlo.

Desidero un gran bene, e sentomi offerirlo; Mi vien da chi dispone offerta quella mano, E dovrei rinunziarla? No, lo sperate invano.

BAR.                 Dunque che far pensate? (al Duca)

DUCA                                                       Deh! non l'abbiate a sdegno.

Pensi don Policarpio a sostener l'impegno.

CAV.                S'egli della figliuola disponere volea,

L'arbitrio alla consorte lasciare non dovea. Se donna Petronilla meco fermò il contratto, Avrà il poter di farlo, saprà perché l'ha fatto. E se al marito a fronte femmina sol non basta Mi unirò seco io stesso contro chi a lei contrasta.

DUCA              Orsù, ai vostri raggiri tronchisi ormai la strada,

Facciam le pretensioni decidere alla spada.

CAV.                Sì, la disfida accetto.

DUCA                                               Io vi precedo.

CAV.                                                                       Andate.

BAR.                 No, fermatevi, dico. (al Duca) No, Cavalier, restate.

Pria di partire, uditemi. Cosa vogl'io narrarvi, Che, se ragione avete, valerà a disarmarvi.

DUCA              Quel ch'è mio, non lo cedo, son risoluto in questo.

CAV.                Donna Barbara è mia, lo dico e lo protesto.

BAR.                 Ambi ragione avete. Sua ciaschedun mi crede,

Ciascun serba i suoi dritti; e quel ch'è suo non cede. Ma che direste voi, se fosse questo cuore Molto prima impegnato a un terzo possessore?

DUCA              Come potrà ciò darsi, se or vi marita il padre?

CAV.                Non lo saprian le genti? non lo sapria la madre?

BAR.                 Orsù, siamo agli estremi, ed il celarsi è vano.

A voi ragion mi stimola a confidar l'arcano. Ma nel svelarlo, intendo depositarlo in cuore Di chi sa, di chi intende le leggi dell'onore. Siete due cavalieri, in cui non può ragione Cedere bassamente l'impero alla passione. Una figlia onorata, dal rio destino oppressa, A voi fida l'onore, a voi fida se stessa. Una che agli occhi vostri non fu d'amore indegna, A renderle giustizia due cavalieri impegna.


È ver, se d'altro laccio vanto legato il cuore,

Meco dovria saperlo la madre e il genitore;

Ma che sperar poteva da un padre affascinato,

Dal cuor di una matrigna che mi fu sempre ingrato?

Chi lusingar potevami, che le nascesse in petto

Brama di collocarmi per onta o per dispetto?

E prevedendo ancora in lei cotal disegno,

Chi degli affetti miei potea cangiar l'impegno?

Fui d'altro amore accesa; l'amor mi ha consigliata.

L'occasion mi sedusse; la mano ho altrui legata.

Se dell'onor vi cale, se cavalier voi siete,

Custodite l'arcano. Ecco il mister. Leggete. (Presenta ai due cavalieri la scrittura

del Conte; essi l'osservano unitamente)
CAV.                Duca?

DUCA                          Amico?

CAV.                                          Che dite?

DUCA                                                         L'avvenimento è bello.

CAV.                È decisa la lite.

DUCA                                        È inutile il duello.

BAR.                 Che può sperare il cuore dai pretensori suoi? (a tutti e due)

DUCA              Dite voi, Cavaliere.

CAV.                                                 Lascio parlare a voi.

DUCA              Qualor mi abbandonassi a quell'ardor ch'io sento,

Dovrei odiare il Conte, chiamarlo ad un cimento.

Ma l'onorato impegno a tollerar mi sprona,

L'error di bella donna si scorda e si perdona.
BAR.                 Tanto sperar poteva da un cavalier pietoso.

Il vostro cuor, signore, sarà men generoso?
CAV.                L'amore ed il puntiglio m'aveano acceso il petto.

Or, se l'impegno è vano, vo' superar l'affetto.

Se di me vi fidate, son cavalier d'onore.

Vi sarò, donna Barbara, amico e difensore.

SCENA SESTA

Lisetta e detti.

LIS.                  Oh signora padrona, vi vengo ad avvertire

Che il padrone è tornato.
DUCA                                                       Lasciatelo venire.

BAR.                E poi?
DUCA             Non dubitate.

CAV.                                                 Lo piglierem di fronte.

BAR.                Andiamo unitamente a ritrovare il Conte.

DUCA             Vi preme di vederlo; si vede che l'amate.

CAV.               Vi preme consolarlo.

BAR.                                                  Non mi mortificate. (parte)

DUCA             È semplice, meschina, non la mortifichiamo. (parte)

CAV.               Povera innocentina! c'insegna a quanti siamo. (parte)


SCENA SETTIMA Lisetta, poi Mariano.

LIS.                   Quante diavolerie son nate in questo dì!

Ma in somma delle somme, la tabacchiera è qui.

Eh ehm, signor Mariano. (chiamandolo alla scena)
MAR.                                                        Che c'è? (corpo di bacco!)

LIS.                   Vuole restar servita di un poco di tabacco?

MAR.                Ladra, me l'hai rapita.

LIS.                                                      Son giovane onorata;

Sì, me l'ho messa in testa, e alfin l'ho superata.

SCENA OTTAVA

Don Policarpio e detti.

POL.

Anche fra voi si grida. Sempre si fan rumori.

Ora siam tutti diavoli, padroni e servitori.

MAR.

Vo' la mia tabacchiera. (a Lisetta)

POL.

Che tabacchiera? parla. (a Mariano)

MAR.

Fate che me la renda.

LIS.

(Piuttosto fracassarla). (da sé)

POL.

Presto, la vo' vedere. (a Lisetta)

LIS.

E ben, che cosa c'è?

Era di donna Barbara, e l'ha donata a me.

MAR.

A me l'avea donata.

POL.

A te? per qual ragione?

MAR.

Perché... (Uh, se potessi...) (da sé)

POL.

Confessami, briccone.

LIS.

Sì, è un briccone, egli è vero.

MAR.

Tu mi farai parlare. (a Lisetta)

POL.

Parla, vo' saper tutto. (a Mariano)

MAR.

(Perché andar a giurare?) (da sé, arrabbiandosi contro se

stesso)

POL.

Quella scattola dunque?... (Che sì che l'indovino?

Che sia quella del Duca?) (da sé) Eh, dove sei? Moschino. (chiamando)

SCENA NONA

Moschino e detti.

MOS.

Signor.

POL.

La tabacchiera... (a Mos.) Vien qui... (a Lisetta)


LIS.                                                                                          Che vuol vedere?

La tabacchiera è fatta come le tabacchiere. (parte)
POL.                 Ti arriverò, briccona. Parla tu, scellerato. (a Mariano)

MAR.                Ah, non posso parlare.

POL.                                                     Perché?

MAR.                                                                 Perché ho giurato. (parte)

SCENA DECIMA

Don Policarpio e Moschino.

POL.

A scacciarli di casa convien ch'io mi riduca.

Dimmi, è quella la scattola che gli ha donato il Duca? (a Moschino)

MOS.

Il Duca? Non signore. Del Duca io non so nulla.

Che cosa ha il signor Duca da far colla fanciulla?

POL.

Non è egli ch'è stato?

MOS.

Stanotte? Signor no.

POL.

Stanotte?

MOS.

Nol sapete?

POL.

Povero me! nol so.

Narrami cosa è stato, narrami chi è venuto.

MOS.

Senza di me, signore, non l'avete saputo?

POL.

Io mi credea... ma sento... se non è stato quello,

Dunque chi sarà stato?...

MOS.

Né anche un po' di cappello. (guarda il suo cappello con

disprezzo)

POL.

Che dici?

MOS.

Il mio cappello è vecchio e logorato,

E son senza quattrini.

POL.

E il zecchin?

MOS.

L'ho mangiato.

POL.

Guidon, prendine un altro.

MOS.

(Buona testa vi vuole). (da sé)

POL.

Narrami quel che sai.

MOS.

Ecco in poche parole.

Il conte d'Altomare nella notte passata

Venne da donna Barbara...

POL.

Cosa fu?

MOS.

L'ha sposata.

POL.

Sposar la mia figliuola? Di notte in casa mia?

MOS.

Ecco qui la padrona. (in atto di partire)

POL.

Dove vai?

MOS.

Vado via. (parte)

SCENA UNDICESIMA Don Policarpio, poi donna Petronilla.


POL.

Altro che darla al Duca! E se mia moglie il sa?

Io non lo dico certo.

PET.

Signore, eccomi qua.

Parlato ho ai miei parenti, parlato ho a più persone,

E tutti unitamente mi han detto che ho ragione.

E senza che facciamo altre caricature,

Al Cavalier si sposi.

POL.

Bene, si sposi pure.

PET.

L'accordate anche voi?

POL.

Io sono indifferente.

PET.

Cosa può dire il Duca?

POL.

Oh! non può dir niente.

PET.

Dunque della ragione qualcun vi avrà informato.

POL.

Sì, di certa ragione son stato illuminato.

Il Duca, poverino, invano or la pretende.

PET.

Dunque l'avrà quell'altro.

POL.

Quell'altro, ci si intende.

PET.

Signor, non vel diceva? Oh, io non fallo mai,

Quando dico una cosa.

POL.

Oh, ne sapete assai.

PET.

Par che mi corbelliate, signor sposo garbato.

POL.

Corbellarvi? pensate! Sono io il corbellato.

PET.

Chiamiamo donna Barbara, facciam che si disponga.

Chi è di là? questa volta è van ch'ella si opponga.

POL.

No no, non vi è pericolo. Or mi sovviene a un tratto,

Ch'ella ha detto più volte: quello ch'è fatto, è fatto.

PET.

Che vuol dir?

SCENA DODICESIMA

Moschino e detti.

MOS.                                      Mi comandi.

PET.                                                             Dov'è la di lui figlia? (a Moschino, accennando don

Policarpio)
MOS.                È di là nella camera, che parla e si consiglia.

PET.                  Con chi?

MOS.                               Con tre signori che hanno pranzato qua.

PET.                  Ci hanno dunque aspettato? Ci ho gusto in verità.

Chiamate donna Barbara, e dite al Cavaliere,

Ma che gli altri non sentano, che lo vorrei vedere. (Moschino parte)

Ho piacer che vi siano i cavalieri ancora,

Per altro mi stupisco di codesta signora,

Che senza il genitore, e senza ch'io ci sia,

Ardisca con tre giovani star sola in compagnia.

Star lì senza custodia è una temerità.
POL.                 Eh, vi sarà qualcuno che la custodirà.

PET.                  E chi può custodirla, se non ci siamo noi?


Ho piacer di saperlo.
POL.                                                     Sì, lo saprete poi.

SCENA ULTIMA

Tutti.

BAR.                 Eccomi qui, signora, eccoci tutti insieme.

PET.                  Ho da dirvi a quattr'occhi qualcosa che mi preme.

BAR.                 S'ella parlar mi vuole del marital contratto,

Parli liberamente. Già quel ch'è fatto...
POL.                                                                               È fatto.

PET.                  Bene, a parlare in pubblico non ho riguardo alcuno.

Non ho, quand'ho ragione, soggezion di nessuno.

Sopra di tal proposito sentii più di un parere,

E tutti hanno deciso a pro del Cavaliere.
CAV.                Piano, signora mia, che ho da parlare anch'io.

Voi avete ragione, ma il Duca è amico mio.

Ch'egli di me si lagni, per certo io non concedo. (a donna Petronilla)

Donna Barbara è vostra, signore, io ve la cedo. (al Duca)
PET.                  Come! a me, Cavaliere, si fa così gran torto?

DUCA              L'offesa ad una dama, signore, io non sopporto.

Me la concesse il padre, è ver, coi labbri suoi;

Ma io per amicizia ve la rinunzio a voi. (al Cavaliere)
PET.                  Il Duca è un uom d'onore. Barbara è vostra sposa.

CAV.                Anch'io so praticare un'azion generosa.

Corrispondo all'amico col più sincero impegno;

Ditemi, se la sposo, un cavaliere indegno.
DUCA              Un'anima onorata non cede in tal cimento.

L'abbandono per sempre, e impegno il giuramento.
POL.                 (Ci scommetto la testa, che il Duca e il Cavaliere

Sanno ch'è maritata! Stiamo un poco a vedere). (da sé)
PET.                  Ecco, signora mia, ecco il grazioso effetto

Del suo brillante spirito, del suo bell'intelletto.

A far conversazione coi cavalieri unita,

La sua mente sublime alfine han saporita.

Tanto di lei rimase alcuno stupefatto,

Che tutti l'abbandonano.
POL.                                                          (Io rido come un matto). (da sé)

PET.                  E voi non dite nulla? (a don Policarpio)

POL.                                                  Ora che dir non so.

Aspetto un certo passo, e allora parlerò.
PET.                  Parlerò io frattanto. Signora mia garbata,

Cominci in avvenire a viver ritirata;

Ci va dell'onor nostro lasciar che questo e quello

Di voi fra queste mura si serva di zimbello.

Per voi non vo' privarmi di mia conversazione,

Né vo' che mi teniate per questo in soggezione.

Provai di maritarvi: se non ci son riuscita,


Andrete in un ritiro pel corso della vita.
POL.                 (Or che ci va, sta bene). (da sé)

BAR.                                                      Ecco, signori miei.

L'ora che vi ho veduto, quasi maledirei. (al Duca ed al Cavaliere)
PET.                  Sciocca!

DUCA                             Amico, a dir vero, provo un dolore interno,

Che mi farà per essa vivere in un inferno.

Povera signorina! per noi perde uno stato.

Pagherei mille doppie a non aver giurato.
CAV.                Un impegno d'onore non vuol ch'io mi ritratti,

Ma consolata almeno la voglio a tutti i patti.

Troviamole un marito.
PET.                                                        Sì, le occasion son pronte! (con ironia)

Chi volete la pigli?
DUCA                                             La può pigliare il Conte.

POL.                 (Oh! Ci siamo davvero). (da sé)

CON.                                                         Signora, io non ardisco,

Ma la pietà mi move, se mi vuol, mi esibisco.
BAR.                 No no, ch'io pigli il Conte, pericolo non c'è.

POL.                 No no? Signora, adesso tocca parlare a me.

No no, non voglio il Conte? no no diceste allora

Ch'egli è venuto in casa in questa notte ancora?

Quando che vi ha parlato, e quando vi sposò,

Ditemi, sfacciatella, diceste a lui no no?
PET.                  Come! sposa in segreto? faceste un simil tratto?

BAR.                 Non mi mortificate. Quello ch'è fatto, è fatto. (con affettata modestia)

A voi chiedo perdono. Lo chiedo al genitore.

Commesso ho un mancamento. Lo dico a mio rossore.

Punitemi, che il merto; ma pria che mi punite,

Pria che mi condannate, le mie discolpe udite.

Se il cuor d'una matrigna...
PET.                                                               Altro sentir non voglio.

Ho capito abbastanza, conosco il vostro orgoglio.

Ite pur collo sposo dove vi guida il fato.

Se vi perdona il padre, per me vi ho perdonato.
BAR.                 Dalla bontade vostra posso sperar, signore?... (a don Policarpio)

CON.                Vostra figlia è consorte d'un cavalier d'onore.

POL.                 È ver, non so che dire. Mia figlia ha fatto male,

Ma io, per dir il vero, son stato un animale;

Ché dovea maritarla sino dal primo dì.

Ma la signora moglie...
PET.                                                        Orsù, basta così. (a don Policarpio)

Cavalieri, vi aspetto alla conversazione.

Non avrem quest'impiccio.
DUCA                                                         Con vostra permissione.

Vi stimo, vi protesto tutti gli ossequi miei;

Ma se ho da dirvi il vero, io ci venia per lei.
PET.                  E me lo dite in faccia?

CAV.                                                      Il Duca è un uom sincero,

E anch'io, perché son tale, vo' palesarvi il vero.

Mi piacea donna Barbara, e se mel permettete,


Lascio d'incomodarvi.
PET.                                                      Al diavol quanti siete. (parte)

POL.                 (Da galantuom ci ho gusto, e lo so io il perché;

Farà per l'avvenire conversazion con me). (da sé)
BAR.                 Signor, se il concedete, vorrei dirvi una cosa.

POL.                 Dite quel che volete.

BAR.                                                  Sapete ch'io son sposa.

POL.                 Sì, le vostre prodezze sono abbastanza note.

BAR.                 Se non andaste in collera, vi direi della dote.

POL.                 No, non vi faccio un torto. Quello che ho destinato,

Benché nol meritate, un dì vi sarà dato.
BAR.                 Tanta bontà non merita, è ver, una figliuola

Che al suo dover mancando...
MAR.                                                               Signora, una parola.

BAR.                 Che cosa vuoi, Mariano?

MAR.                                                        La vostra tabacchiera

Invece di Mariano l'avrà la cameriera?

Ed io, povero diavolo, sarò sì mal trattato?
BAR.                 È giusto che ti vegga tu pur ricompensato.

Da te conosco in parte la mia felicità.

Ecco dieci zecchini. (gli vuol dar una borsa)
LIS.                                                    Signora, date qua. (leva la borsa di mano a donna Barbara)

Non vo' ch'egli mi creda di un animo sì avaro.

Gli do la tabacchiera, ed io terrò il danaro.
MAR.                Bella finezza in vero!

POL.                                                     Ah schiuma di bricconi!

Fuori di casa mia, nemici dei padroni.
BAR.                 Signor, per dir il vero, sgridate con ragione.

Ho fatto quel che ho fatto, ancor per sua cagione.

Io non avrei ardito di unirmi ad un consorte,

Se Marian non l'avesse condotto in queste porte.

Dopo l'error commesso, dopo quel passo audace,

Studiai per non scoprirlo di rendermi sagace.

La mia sagacitade so che non merta lode;

L'onestà, la prudenza, nemica è della frode.

Delle mie debolezze, degli error miei mi pento,

Domando al padre mio novel compatimento;

E lo domando a tutti, e con umil rispetto

Del pubblico perdono un contrassegno aspetto.

Fine della Commedia.