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"La strega" di Anton Francesco Grazzini

LA STREGA

Commedia in cinque atti

Di ANTON FRANCESCO GRAZZINI

Traduzione di Ornella Volta

PERSONAGGI

Prologo

Argomento

Bonifazio, vecchio

Taddeo, suo nipote, innamorato

Madonna Bartolomea, sua madre

Verdiana, fantesca

Farfanicchio, ragazzo di Taddeo

LUC'ANTONIO. , vecchio

ORAZIO. , giovane, suo figliuolo

Fabrizio, amico d'Orazio

Bozzacchio, suo famiglio

Neri, giovane

Madonna Oretta, attempata

Violante, fanciulla, sua figliuola

Clemenza, serva di madonna Oretta

Madonna Sabatina, vecchia, vedova

Commedia formattata da


La scena è Firenze. Le case che s'abitano, e donde escono gl'istrioni, son queste: la casa di Luc'Antonio padre di Orazio; la casa di Taddeo e di monna Bartolomea sua madre; la casa di monna Sabatina vedova. Chiesa o tempio.

La favola comincia di buon'ora e finisce alla fine del giorno.

Avvertiscasi che Taddeo esce fuori sempre vestito variamente, come leggendo mostra la commedia.

E Farfanicchio suo ragazzo bisogna che abbia una mascheraccia col ceffo contraffatto e brutto, la quale con uno uncinazzo si attacchi dietro, e, secondo che si comprende nella commedia, se la metta al viso e se la levi, ma destramente, e di maniera che Taddeo non se ne avvegga; e questo faccia la prima e la seconda volta che egli viene seco in scena. E (Taddeo)l'ultima volta comparisca in mantello e in cappuccio alla fiorentina, e con un cembolo in mano; e a tempo, secondo che la commedia mostra, lo cavi fuora cantandovi sopra quel rispetto.

I padri, poi che gli hanno maritato le loro figliuole, parendo a quegli d'avere soddisfatto al debito e a quanto loro si richiedeva, ne lasciano tener conto ai mariti, e se ne danno poco pensiero: così interviene ai componitori delle commedie, che, quando l'hanno fatte recitare o mandatole alla stampa, pensandosi d'averle condotte a onore, le lasciano andare nelle mani dei popoli, tenendo poca cura di chi voglia recitarle o farle ristampare. Così, avendo io partorito sei figliuole, cioè composto sei commedie, delle quali due ne sono state recitate in Firenze pubblicamente e con grandissimo onore, l'una il carnovale dell'anno cinquanta, nella sala del Papa, chiamata La Gelosia, l'altra detta La Spiritata, nelle case dell'illustre signor Bernardetto de' Medici, a un convito fatto da lui per onorare lo illustrissimo ed eccellentissimo signor Don Francesco, allora Principe di Firenze e di Siena, ed al presente serenissimo Gran Duca di Toscana; ora, sendomi restato a dar recapito a quattro loro sorelle, le quali non avendo io potuto fare recitare, né come io desiderava, né come, rispetto all'altre due, si conveniva loro, mi sono risoluto di mandarle alla stampa, sendo certissimo che, non essendosi recitate insino a ora, non siano per recitarsi più in Firenze, e massimamente sendo invecchiati o morti tutti coloro che avevano qualche fidanza in me. Eccovi dunque, benignissimi lettori, La Strega, che sarà la prima, dopo La Gelosia e La Spiritata, a farsi vedere stampata, senza essere stata, come ho detto, recitata già mai. Intanto io rivedrò e correggerò La Pinzochera e La Medaglia o La Sibilla, e nell'ultimo I Parentadi. Stampate come elle saranno, leggale poi chi vuole, facciale recitare chi gli pare, e ristampile chi n'ha voglia; perciocché, parendomi d'aver fatto l'obbligo mio, e che elle abbiano avuto il debito loro, non me ne darò più briga né pensiero.


INTERLOCUTORI NEL PRINCIPIO

PROLOGO e ARGOMENTO.

Questi escono fuori insieme, uno da capo e l'altro da piè della scena, e favellano a un tratto, fingendo di non si vedere e non si udire.

Prologo           - Dio vi salvi, onoratissimi spettatori.

Argomento                    - Buon giorno vi dia Dio, uditori nobilissimi.

Prologo                         - Qui semo per recitarvi...

Argomento                    - Bonifazio, cittadino fiorentino...

Prologo                         - Chi è costui sì mal creato?

Argomento                    - Chi vuol questo insolente di qua?

Prologo                         - Chi sei tu, olà, e che vai cercando?

Argomento                    - E tu che fai qui, e come ti domandi?

Prologo                         - Sono il Prologo, e vengo a recitarlo a questi generosi gentiluomini.

Argomento                    - E io son l'Argomento, e vengo a farlo a queste belle e valorose donne.

Prologo                         - Non sai tu che 'l Prologo va sempre innanzi alla commedia? Però vattene dentro, e lascia prima dir a me.

Argomento                    - Vattene dentro tu, che non servi a niente, e lasciami far l'uffizio mio.

Prologo                         - Tu fusti sempre mai odioso e rincrescevole.

Argomento                    - E tu villano e presontuoso.

Prologo                         - Se io ho questo privilegio e questa maggioranza, perché voi tu tormela?

Argomento                    - Tu l'hai anco senza ragione; non avendo a far nulla con la commedia, e si può fare agevolmente senza te; e fusti aggiunto alle commedie, non già per bisogno che elle n'avessino, ma per comodo del componitore, o di colui o di coloro che le facevano recitare; e non sei buono se non a scusargli; ma senza me non si può fare in modo niuno.

Prologo                         - E però, non sendo io necessario, e per conseguente chiamato e introdotto sempre nelle scene, è segno che io sono molto caro, e piaccio sommamente alle persone; e poi, per dirne il vero, la maggior parte delle commedie, e massimamente moderne, fa anche senza te; che non ti paressi essere il bel messere, perciocché nelle prime scene del primo atto s'introducono dai componitori migliori alcuni personaggi, che, per via di ragionamento, aprono e manifestano agli uditori tutto quello che è seguito innanzi, e parte di quello che deve seguir dopo nella commedia: e questa è appunto una di quelle commedie che seguita l'ordine che io t'ho detto.

Argomento                    - Dunque noi potevamo far senza venirci.

Prologo                         - Sì, tu; ma io bisogna pur che dica a questi cortesissimi ascoltatori il nome della scena, della commedia e di chi l'ha composta.

Argomento                    - Se tu non ci hai altro che fare, tu potevi rimanerti a casa. Primieramente la scena si conosce benissimo esser Firenze; non vedi tu la Cupola, bue! edifizio che di grandezza, d'altezza, di bellezza e di maestà avanza e passa quanti ne sono oggi nell'universo? Sapere o non sapere il nome dell'autore non importa niente; sì che tu potevi anche tu fare senza capitarci.

Prologo                         - Non è egli ben fatto coll'esaltare e magnificare gli uditori, umiliandoci e abbassando noi, rendergli benigni e discreti?

Argomento                    - Poco importa o niente.

Prologo                         - E chiedendo loro grato e riposato silenzio, farcegli mansueti e attenti?

Argomento                    - Tutti son panni caldi; altro bisogna.

Prologo                         - Che diavol bisogna?

Argomento                    - Bisogna che la commedia sia allegra, capricciosa, arguta, ridicola, bella e ben recitata.

Prologo                         - Dove sono oggi queste commedie così fatte, e questi buoni strioni?

Argomento                    - Bisogna saperle trovare e conoscere i recitanti; e questo consiste nel dar le commissioni a uomini pratichi, intendenti e giudiciosi.

Prologo                         - Orsù, vedrem come questa riuscirà.

Argomento                    - Questa non è fatta da principi, né da signori, né in palazzi ducali e signorili; e però non arà quella pompa d'apparato, di prospettiva e d'intermedi che ad alcune altre nei tempi nostri s'è veduto; né anco si può comandar alli strioni, sendo fatta da persone private, da una compagnia di giovani onorati e amatori delle virtù.

Prologo                         - Che voi tu inferire per questo?

Argomento                    - Voglio inferire, che ella ha bisogno in questa parte d'esser scusata.

Prologo                         - Anzi merita commendazione, perché non sta bene, non è lecito, e non si conviene che i sudditi e i vassalli competino e gareggino coi principi, e coi signori padroni.

Argomento                    - E così pare a me; anzi dico che alle commedie poco belle e poco buone, interviene come a certe donne attempate e brutte, che quanto più si sforzano, vestendosi di seta e d'oro, e con ghirlande e vezzi di perle, e ornandosi, lisciandosi e stribbiandosi il volto, di parer giovani e belle, tanto più si dimostrano agli occhi dei risguardanti vecchie e sozze.

Prologo                         - Non è dubbio che la ricchezza e la bellezza degli intermedi, i quali rappresentano per lo più muse, ninfe, amori, dèi, eroi e semidei, offuscano e fanno parer povera e brutta la commedia.

Argomento                    - E di che sorte! veggendosi poi comparirvi in scena un vecchio, un parassito, un servidore, una vedova e una fantesca; bella convenevolezza!

Prologo                         - Che vuoi tu fare? il mondo va oggidì così: bisogna accomodarsi all'usanza.

Argomento                    - Un'usanza da dirle voi! Già si solevon fare gli intermedi che servissero alle commedie, ma ora si fanno le commedie che servono agl'intermedi: che ne di' tu?

Prologo                         - Intendola come te in questa parte, ma né tu né io semo atti a riformare i cervelli di oggidì.

Argomento                    - So ben io donde viene.

Prologo                         - Donde viene?

Argomento                    - Viene che la poesia italiana, toscana, volgare, o fiorentina ch'ella si sia, è venuta nelle mani di pedanti.

Prologo                         - Ohimè! ch'è morta con monsignor della Casa, il Varchi, e Annibal Caro la nostra lingua?

Argomento                    - È restata come mosca senza capo.

Prologo                         - Ci è pur l'Accademia Fiorentina.

Argomento                    - Accademia?... mi piacque... tu vorresti farmi dire.

Prologo                         - Orsù, lasciamo andar questo ragionamento, e torniamo alla commedia.

Argomento                    - Se la commedia nostra non arà né tanta pompa d'apparati né tanta ricchezza d'intermedi, ella arà il principio, il mezzo e il fine tanto distinti l'uno dall'altro che chiaramente saranno conosciuti; né in lei saranno quei discorsi dispettosi e rincrescevoli, né quei ragionamenti lunghi e fastidiosi, e massimamente a solo a solo, né quelle recognizioni deboli e sgarbate, che in molte, molte volte si sono vedute.

Prologo                         - Non osserverà ella il decoro, l'arte e i precetti comici?

Argomento                    - Che so io? ella sarà tutta festivola e lieta.

Prologo                         - Non basta; non sai tu che le commedie sono immagini di verità, esempio di costumi e specchio di vita?

Argomento                    - Tu sei all'antica, e tieni del fiesolano sconciamente: oggidì non si va più a veder recitare commedie per imparare a vivere, ma per piacere, per spasso, per diletto, e per passar maninconia e per rallegrarsi.

Prologo                         - Si potrebbe anche mandare a chiamare i Zanni.

Argomento                    - Piacerebbero forse anche più le loro commedie gioiose e liete, che non fanno queste vostre savie e severe.

Prologo                         - Il poeta vuole introdurre buoni costumi, e pigliare la gravità e lo insegnare per suo soggetto principale, che così richiede l'arte.

Argomento                    - Che arte o non arte? che ci avete stracco con quest'arte! l'arte vera è il piacere e il dilettare.

Prologo                         - Il giovamento dove rimane?

Argomento                    - Assai giova chi piace e diletta; ma non t'ho io detto che le commedie non si fanno più oggi a cotesto fine? perché chi vuole imparare la vita civile o cristiana, non va per impararla alle commedie, ma bene leggendo mille libri buoni e santi che ci sono, e andando alle prediche, non pur tutta la Quaresima, ma tutto quanto l'anno, i giorni delle feste comandate, di che abbiamo assai a ringraziar messer Domenedio.

Prologo                         - Io non voglio che noi entriamo ora in sagrestia, perché né il tempo né il luogo lo richieggono, ma dico bene che l'osservanza dei precetti antichi, come ne insegna Aristotile e Orazio, sono necessarissimi.

Argomento                    - Tu armeggi, fratello: Aristotile e Orazio videro i tempi loro, ma i nostri sono d'un'altra maniera: abbiamo altri costumi, altra religione e altro modo di vivere, e però bisogna far le commedie in altro modo; in Firenze non si vive come si viveva già in Atene e in Roma; non ci sono schiavi, non ci si usano figliuoli adottivi, non ci vengono i ruffiani a vender le fanciulle, né i soldati dal dì d'oggi nei sacchi delle città o de' castelli pigliano più le bambine in fascia, e allevandole per lor figliuole, fanno loro la dote, ma attendono a rubare quanto più possono, e se per sorte capitasser loro nelle mani; o fanciulle grandicelle o donne maritate (se già non pensassero cavarne buona taglia), terrebbero loro la virginità e l'onore.

Prologo                         - Le persone dotte e discrete accomodano in guisa le loro invenzioni e favole secondo l'arte, che non si può loro apporre.

Argomento                    - Tu l'hai con questa dottrina e con questa arte. Questi tuoi dottori e artefici fanno un guazzabuglio d'antico e di moderno, di vecchio e di nuovo, a tal che le loro composizioni riescono sempre grette, secche, stitiche e sofistiche di sorte che elle non piacciono quasi a persona, come s'è veduto mille volte per esperienza.

Prologo                         - Sì di' tu; gli uomini che sanno non la intendono così.

Argomento                    - Tu vorresti che quelle gentildonne, che son venute per ricrearsi e rallegrarsi, stessero attonite e confuse, vedendo una favoluccia pedantesca, che tenesse di predica o di sermone, da non fare altrui né ridere né piagnere?

Prologo                         - Questi valentuomini restarebbero soddisfatti loro, riconoscendo in quella l'arte e i precetti comici.

Argomento                    - Tu sei bene giovane! questi valentuomini non sono venuti qui per vedere e udire la commedia.

Prologo                         - O perché ci sono venuti?

Argomento                    - Per vedere e contemplare la immensa bellezza, la somma leggiadria e la divina graziadi queste nobilissime ed onestissime giovani donne, madonne e signore; di maniera che la commedia passerà invisibile agli occhi e agli orecchi loro.

Prologo                         - Al nome di Dio, io vorrei sempre andarmene con l'opinione di coloro che sanno.

Argomento                    - Cotesto sarebbe ben fatto, ma tu te ne vai con quella di coloro che ti pare che sappiano, con quella de' sofisti, e t'inganni. Ma vedi coloro, che di già escono fuori!

Prologo                         - Fia buono dunque che noi diamo loro luogo e torniamo dentro.

Argomento                    - Sì, che noi abbiam fatto una lunga cicalata.


ATTO PRIMO

SCENA I

NERI. giovane, BOZZACCHIO servo

Neri                               - Quanto avemo noi a ire ancora?

Bozzacchio                   - Poco, poco: due passi; vedete là l'uscio.

Neri                               - Perché io non credo che egli sia ancor levato, va' tu e fagli la imbasciata; e se pur fussi levato, o si volessi levare, io v'aspetto colà.

Bozzacchio                   - Io son per fare ciò che voi volete: ma potevate venire anche voi.

Neri                               - No, no; chi sa i segreti! muoviti, non badare.

Bozzacchio                   - Ecco che io vo.

Neri                               - E io m'avvio in qua.

Bozzacchio                   - Ma, o Neri, o messer Neri!

Neri                               - Che cosa è?

Bozzacchio                   - Ecco, ecco Fabrizio: vedetelo appunto che egli esce di casa.

Neri                               - O Fabrizio mio caro, Dio ti dia il buon giorno.

SCENA II

FABRIZIO, NERI, BOZZACCHIO.

Fabrizio                         - O Neri mio gentile e dabbene, il buon giorno e il buon anno: oh! tu sei qui? quando uscisti tu di prigione?

Neri                               - Sette mesi sono, che io fui preso e messo nelle segrete, e mai non mi è stato detto nulla, se non che iersera alle tre ore, che io pensava che mi fussi portato la cena, venne il bargello e mi disse che io me ne andassi a mia posta, e non cercassi altro.

Fabrizio                         - Buone novelle!

Neri                               - Io subito, senza pensarla punto, m'andai con Dio, e, arrivato a casa, detti a mia madre tanta allegrezza che fu una meraviglia.

Fabrizio                         - Dunque tu sei stato in prigione, e non sai perché?

Neri                               - Né mi curo anche di saperlo; ma sai quel ch'io voglio da te?

Fabrizio                         - Non io, se tu non me lo di'.

Neri                               - Che tu mi presti una spada e un pugnale, che io voglio andare a starmi parecchi giorni in villa; perché mio fratello in questo tempo della prigionia m'ha mandato male ciò che io aveva in camera, e per questo sono stato a casa tua, e così il tuo servidore m'ha menato qua. Ma che diavol fai tu in casa quella vecchiaccia?

Fabrizio                         - Che vi fo? Oh, tu non sai che cose mi sono accadute da quattro mesi in qua? Io t'ho da dire cento cose.

Neri                               - Èssi poi inteso nulla di Orazio?

Fabrizio                         - Bozzacchio, va' via in casa e togli la spada e il pugnale; quella di camera terrena, intendi, e arreca qui ogni cosa.

Bozzacchio                   - Messer sì.

Neri                               - O dimmi qualcosa ora.

Fabrizio                         - Io ho tanto fatto, che, a dispetto del marito e di tutti i suoi innamorati, la Bia sta ora a mia posta, e la tengo qui in casa monna Sabatina, che non lo sa uomo del mondo, se non la madre.

Neri                               - Mi maravigliava ben io che tu vi fussi senza qualche cagione, ma tu debbi spender gli occhi a contentar cotesta vecchia maliarda.

Fabrizio                         - In verità che ella è poi meglio assai che di paruta, ed io per me le sono obbligato sempre, perché, oltre a questo, per servirmi, ella si è uscita del suo letto e della sua camera, e dorme in camera e nel letto della fante.

Neri                               - Oh, è ella però sì misera casa che non vi siano da rizzar più di due letta?

Fabrizio                         - Tu mi domandasti poco fa d'Orazio?

Neri                               - O sì, sì: fu vero ch'egli annegasse?

Fabrizio                         - Appunto! egli è vivo e sano in Firenze, e più bello e più contento che fussi mai.

Neri                               - Oh, tu m'hai dato la buona nuova; che io ne stava con le febbri.

Fabrizio                         - Tu hai inteso. Ma stassi che nessuno lo sa, anzi si pensa a ognuno, a diciotto soldi per lira, che egli sia annegato e morto.

Neri                               - Dimmi un poco: come scampò egli così? e come si trova ora in Firenze, e per qual cagione egli sta isfuggiasco?

Fabrizio                         - Tu sai che la nave, dove egli era sopra, fu messa in fondo.

Neri                               - Sì, sì.

Fabrizio                         - Egli rimase prigione d'una galea di Turchi, e fecesi da Milano; e per questo non fu in su la lista degli altri prigioni fiorentini; onde si credette, e credesi, che egli dovessi annegare.

Neri                               - E poi?

Fabrizio                         - Fu condotto in Pera, e quindi da un gentiluomo genovese, che lo conobbe a Pisa, per poca somma di danari riscattato, e con quel gentiluomo finalmente si condusse a Genova.

Neri                               - E perché non scrisse mai?

Fabrizio                         - Che ne so io? Tu sai pur come egli è fatto: egli andò anche contro la voglia di suo padre, non per altra faccenda che per vedere Alessandria e 'l Cairo, e vedi quello che gliene incolse; a me ha egli detto che scrisse, ma le lettere dovevano capitare male.

Neri                               - Or via, che n'è seguito?

Fabrizio                         - Standosi egli in Genova, accadde che quel suo amico con un altro giovane gentiluomo della terra pure isviarono dalla madre una fanciulla nobile e bella; e una notte segretamente la messero sopra una fregata, e la condussero a Livorno, dove, smontati che essi furono, quei due gentiluomini per conto di lei vennero a quistione, sì che, cacciato mano alle spade, si ferirono amendui aspramente, tanto che quel suo amico rimase morto, e l'altro ne fu portato a braccia, e che non visse poi un ottavo d'ora.

Neri                               - O caso veramente spietato e miserabile!

Fabrizio                         - Di modo che quella sventurata fanciulla, trovandosi quivi sola e non sapendo che si fare, se gli raccomandò per lo amor di Dio. A Orazio ne increbbe tanto che, lasciato ogn'altra cosa, isconosciuto, come la notte venne, se ne andò seco a Pisa, promettendole di non l'abbandonare mai, e la voleva rimenara in Genova alla madre.

Neri                               - Atto veramente da giovane dabbene.

Fabrizio                         - Ma la fanciulla, o per paura che ella avesse, o per quale altra si fusse cagione, non volle mai; per la qual cosa, vestitesi stranamente quanto poterono, prima si partirono di Pisa, sempre dicendo che erano milanesi, ed andaronsene a Lucca, e indi, per non essere appostati, se ne vennero a Empoli, dove stettero parecchi giorni, tanto che Orazio se ne innamorò di sorte che non può vivere un'ora senza lei, e così ella similmente di lui.

Neri                               - Egli è da credere, perché Orazio ède' più begli e cortesi giovani di Firenze.

Fabrizio                         - Nella fine, pure scognosciuti, si condusseno in Firenze, e una sera Orazio mi trovò da Santa Maria Novella, e tiratomi da canto, non senza mia grandissima meraviglia e paura, mi si dette a conoscere, e narrommi quasi tutto quello che io t'ho raccontato.

Neri                               - Nell'ultimo?

Fabrizio                         - Pregommi che segretamente io gli provvedessi una casa; io gli narrai di monna Sabatina, e come io vi aveva la Bia, che gli piacque sommamente; onde la sera medesima andammo per la Violante all'albergo, che così ha nome quella fanciulla, e la menammo a casa la vecchia; la quale, sua grazia e mercé, si uscì, come io ti diceva testé, della sua camera e del suo letto, emessevi loro.

Neri                               - Senza sapere altrimenti chi essi si siano?

Fabrizio                         - Ella si pensa, come io le ho detto, che siano milanesi, perché Orazio, avendo a fatica le caluggini, porta una barbetta nera contraffatta al viso, che uomo del mondo non lo conoscerebbe mai; e così sono stati più d'un mese.

Neri                               - So che voi dovete spendere del bene di Dio! come avete voi danari?

Fabrizio                         - Pochi, e questo è il male.

Neri                               - Quei gentiluomini ne dovevano pure avere portato con esso loro buona somma, facendo una cosa simile!

Fabrizio                         - Orazio non volle toccare nulla di loro, e si abbattè che la fanciulla aveva una borsa dentrovi intorno a cinquanta ducati, e una catena da portare al collo e una al braccio, che quasi è consumato ogni cosa.

Neri                               - Come farete?

Fabrizio                         - Abbiamo deliberato di palesare oggi a ogni modo Orazio al padre; e, come egli entra in casa, non gli mancherà né roba né danari.

Neri                               - Così mancassino egli a me!

Fabrizio                         - Ed io (oh, questa è bella!) domandandomi spesso Luc'Antonio se io aveva novelle d'Orazio, sapendo egli l'amicizia grande che era fra noi, gli dissi, poi che egli fu tornato (perché prima non ne sapeva nulla), com'egli era vivo, e che stesse di buona voglia perché tosto sarebbe in Firenze.

Neri                               - O vatti con Dio!

Fabrizio                         - Egli domandandomi quel che io ne sapeva, gli venni a dire che me lo aveva rivelato monna Sabatina per via di diavoli.

Neri                               - Odi, ella ha anche nome di strega!

Fabrizio                         - E però il vecchio, ancora che non mi presti, né a lei, molta fede, pure m'ha promesso, ogni volta che Orazio fra un mese sia in Firenze, di darmi cento fiorini.

Neri                               - Dunque oggi gli verrai a guadagnare.

Fabrizio                         - Ella sta come io ti dico: ma odi quest'altra, s'ella ti garba.

Neri                               - Tu hai più intrighi e imbrogli alle mani che uno sensale di scrocchi.

Fabrizio                         - Tu conosci Taddeo.

Neri                               - Taddeo Saliscendi?

Fabrizio                         - Costui è innamorato della Geva, che così si chiama per vezzi la sorella d'Orazio.

Neri                               - So bene: quella che l'anno passato rimase vedova.

Fabrizio                         - Onde, nolla potendo avere per moglie, perché Luc'Antonio, pensando ch'Orazio sia morto, poiché ella resta reda, vuole fare altro parentado...

Neri                               - Egli ha ragione; perché, a dirne il vero, ancora che egli sia ricco, l'avol suo fu carbonaio, e il padre mercatante di bestiame.

Fabrizio                         - Taddeo dunque si è fitto nella testa d'andare alla guerra per disperato.

Neri                               - Questa è più bella.

Fabrizio                         - Per lo che la madre e 'l zio, conoscendo quanto agevolmente egli potrebbe morire (e sanno che morendo senza figliuoli ogni cosa rimane a Santa Maria Nuova ed essi rimarrebbono poverissimi, e massimamente Bonifazio che ne cava le spese), fanno ogni cosa per tenerlo; ma nulla giova, se egli non ha la Geva.

Neri                               - Tu mi pari il Franceschi.

Fabrizio                         - Che dirai tu che quel suo zio, sendomi vicino a casa, e per questo mio conoscente, l'altr'ieri mi venne a favellare, e sapendo che io sono amicissimo di monna Sabatina, la quale pensa che sia qualche gran donna nello stregare e nelle malie, mi narrò l'amore di Taddeo suo nipote, e la cagione del volere egli andare al soldo?

Neri                               - Per mia fé egli è venuto a buone mani.

Fabrizio                         - E dopo mi chiese aiuto, e mi si raccomandò che con la vecchia vedessi di fare tanto che questo Taddeo si restasse a casa, offerendosi a soddisfare largamente e me e lei.

Neri                               - Quest'altra ora è più bella di tutte.

Fabrizio                         - Io subito gli dico che non fu mai negli incantesimi maggiore donna da Circe in qua, ma che la fatica sia il disporla; e fatto io giurare di tacere, gli do a credere che per via di malie ella m'abbia fatto venire la mia amorosa insino in casa sua, che non lo sa uomo nato, e che quivi la tengo, a mie spese. Egli, avendone non so che sentito bucinare, ha fidanza che ella possa fare ogni gran cosa.

Neri                               - Tu l'hai concio bene: ma che n'è seguito?

Fabrizio                         - Per dirtela in due parole, semo rimasti che la vecchia faccia innamorare la Geva di Taddeo, di maniera che ella sia costretta ire a casa sua, e dire: Taddeo mio dolce, io ti voglio per marito, e seguane che vuole; e perché ella è vedova, non vi sarà che dire che ella sia sua; e se pure Luc'Antonio nicchiasse e nolle volesse dar la dote, faranno senz'essa.

Neri                               - E a te che rileva questo?

Fabrizio                         - Rileva che io per parte della vecchia gli ho detto che bisognano fare due immagini d'oro fine, una per Taddeo e una per la Geva, che pesino amendue cento ducati, le quali si convertiranno poi in fiamma e 'n fumo.

Neri                               - Odi qua! tu gli hai fitto il chiovo bene.

Fabrizio                         - Egli è ben assai, come io gli ho detto, che per conto di monna Sabatina non s'ha a spender nulla.

Neri                               - Sarebbe anche il meglio.

Fabrizio                         - Perciocché tutto quello che ella fa, lo fa per farmi piacere, ed io fo ogni cosa per carità.

Neri                               - La tua è come quella degli ipocriti, carità pelosa; ma dimmi, monna Sabatina che ne dice?

Fabrizio                         - Oh, tu sei giovane! io non le ho detto niente: basta servirmi di lei in nome.

Neri                               - Poi, agli effetti?

Fabrizio                         - Qualcosa fia; e stamattina m'hanno a essere annoverati i danari, o dalla madre o da Bonifazio, che saranno buoni per le male spese.

Neri                               - E poi come farai che non s'avvegghino della ragia?

Fabrizio                         - Ho mille modi da fargli rimanere goffi, ma credo pur che io gli contenterò.

Neri                               - Mi piace: tu arai che spendere un pezzo. Ma ecco appunto il tuo servidore.

SCENA III

BOZZACCHIO, FABRIZIO, NERI

Bozzacchio                   - Dio vi dia il buon giorno, padrone: io ho portato ogni cosa.

Fabrizio                         - Neri, vuoi tu ch'ei te le porti a casa?

Neri                               - No, no; io le porterò bene da me.

Fabrizio                         - Deh, no. Bozzacchio, va' seco: poi di là per la più pressa tornatene a casa e attendi alle faccende.

Bozzacchio                   - Tanto farò.

Neri                               - Io ti dirò gran mercé poi quando io te le renderò.

Fabrizio                         - Al tuo piacere.

Neri                               - Orsù, qui non accade altro; io voglio andare via a montare a cavallo.

Fabrizio                         - E io me ne andrò colà a vedere se vi fusse per sorte Bonifazio, che questa appunto è sua ora di esservi.

Neri                               - Addio, dunque.

Fabrizio                         - A rivederci con sanità.

                                      Fine del primo atto


ATTO SECONDO

SCENA I

TADDEO padrone, FARFANICCHIO ragazzo.

Taddeo                          - Tutte le pene, tutte le catene e tutte le sbarre del mondo non mi terrebbono che io non andassi via oggi: costoro mi menano per la lunga, credendosi avere a fare con qualche Neron; che ne di' tu, Farfanicchio?

Farfanicchio                  - Dico di sì, padrone: mostrate pur loro che voi sete un uomo, e non un'ombra.

Taddeo                          - L'arme sono in punto?

Farfanicchio                  - Signor sì, nette e pulite.

Taddeo                          - Or sì, Farfanicchio, tu cominci a frizzare; dammi pur di quel signore per la testa; ma che diavol vuol dir questo, che quando io son teco ognun ride?

Farfanicchio                  - Non lo so io.

Taddeo                          - Togli! e pur ridono: questo non mi avveniva però quando io andava fuori col Gonnella; io ho voglia di cacciarti via e di ritor lui.

Farfanicchio                  - Fatene come di vostro.

Taddeo                          - Questa risata non mi piace: a dispetto del vermocane, per la puttana del canchero! che, se io avessi l'arme a canto, io farei qualche gran male. Oh, che maladetto sia il cielo! Farfanicchio, tu mi debbi far dietro qualche chiacchera!

Farfanicchio                  - Mi maraviglio della signoria vostra: credete voi però che io sia matto?

Taddeo                          - Che ne so io? poiché io veggio ognuno ridere, egli è forza che tu mi dia il pepe, la monna o il gongone, o che tu mi faccia dietro bocchi, ceffo o grifo.

Farfanicchio                  - Misericordia! che diavol dite voi? nessuna so far di coteste cose: elle dovevano usarsi già al tempo di Nicolò Piccinino, o al tempo di Bartolomeo Coglioni.

Taddeo                          - A tempo mio s'usavano, che non son però l'antichità di Brescia, innanzi l'assedio, che io era fanciullo.

Farfanicchio                  - Tant'è: nonché io sappia far cotesti giuochi, io non gli ho mai più sentiti ricordare.

Taddeo                          - Vuoi tu che io te l'insegni?

Farfanicchio                  - Di grazia, io ve ne resterò obbligato.

Taddeo                          - O stammi a vedere, e pon mente bene: questo è grifo; così si fa ceffo, e questo è bocchi.

Farfanicchio                  - O buono, o buono, o buono!

Taddeo                          - A questo modo si da il pepe o le spezie; questa è la monna; e così si dà il gongone.

Farfanicchio                  - Gala! disse il Frizzi: queste sono altre che chiacchere e novelle!

Taddeo                          - Io te ne farei mille, tutte più belle l'una che l'altra.

Farfanicchio                  - Cacalocchio! per fare cose da fanciulli e da bambini voi dovete essere il Teri.

Taddeo                          - Che vuol dire il Teri o non Teri? e chi fu questi Teri?

Farfanicchio                  - Che ne so io? dovette essere qualche grand'uomo filosofo, dottore o poeta.

Taddeo                          - Tu lo sai bene! Il Teri giocava agli aliossi a suo tempo meglio che giovane di Firenze, come faceva io a' ferri, che non si diceva altro che Taddeo; ed aveva una detta che squillava gli aguti cinquecento braccia discosto.

Farfanicchio                  - Ah, ah, ah, ah!

Taddeo                          - Tu ridi?

Farfanicchio                  - O chi non riderebbe ai giocacci che voi contate?

Taddeo                          - Giocacci gli aliossi e i ferri?

Farfanicchio                  - Dalle carte e i dadi in fuori...

Taddeo                          - Che carte e che dadi? Il giuoco de' ferri ha tanti capi che tu ti meraviglieresti, e tra gli altri il buco a capo alla punta, e in terra peggio, e poppa lo stecco, passano battaglia. Ma favellare con chi non intende è uno gettar via le parole, perché questo bel giuoco, con molti altri, è ora spento affatto.

Farfanicchio                  - Che? voi ne avete degli altri begli simile a questo?

Taddeo                          - O caro! Che mi di' tu? e a tempo mio erano i giuochi ordinati secondo le stagioni e i mesi: chiose, spilletti, trottola, paleo, soffio, giglio o santo, mattonella, meglio al muro, verga, misurino, aliossi, rulli, ferri, e cento altri, che tutti erano giuochi da perdere e da vincere; ma quegli che si facevano per passatempo e per piacere erano bellissimi, che sono oggi quasi tutti quanti perduti.

Farfanicchio                  - Deh! contatemene qualcuno, che voi mi fate strabiliare.

Taddeo                          - Si bene; ora ascoltami.

Farfanicchio                  - Dite pure.

Taddeo                          - Salincerbio, salta la spiga, metti l'uovo, mosca cieca, pigliami topo, alla foglia, al becco manomesso, a gallinenvenvella, a bicicalla calla quante corna ha la cavalla; che diavol ne so io?

Farfanicchio                  - Cacasevo! oh! voi sete sì innanzi? oh! voi potresti gagliardamente fare una lettura a veduta, e leggerla a mente nell'Accademia.

Taddeo                          - Che parli tu d'Accademia? egli è un tempo che io ne sarei stato, se io avessi voluto: lo Stradino mi pregò cento volte che io volessi entrare negli Umidi, allora che ella era favorita daddovero, ma non v'ebbi mai il capo.

Farfanicchio                  - Che lo avevate alla guerra?

Taddeo                          - All'amore e alla Geva, alla Geva e all'amore ebbi sempre volto il cuore; e per dirti, io vo ora alla guerra per non potere far altro; o io morrò glorioso morendo milite, o io ritornerò bravo, bravo di sorte che ella arà di grazia di essere mia; e forse mi uscirà della mente; qualcosa fia: a questo modo non posso io stare.

Farfanicchio                  - Voi la discorrete bene e saviamente.

Taddeo                          - E vo' che noi andiamo or ora a vedere se noi troviamo due cavalli per Bologna; e avviatigli alla porta, torneremo a sciolvere, armerenci e anderen via.

Farfanicchio                  - Buona, anzi ottima pensata ha fatto la signoria vostra.

Taddeo                          - Ahi, Farfanicchio mio, quella signoria ha il buono: non te la sdimenticare. Ma che diavolo mi fai tu dietro? tu vedi come costoro ridono di cuore.

Farfanicchio                  - Mi par ch'egli abbino riso sempre.

Taddeo                          - Vanne un po' dinanzi.

Farfanicchio                  - Ah, ah, signore, non si conviene alla signoria vostra andar dietro al ragazzo.

Taddeo                          - Andianci con Dio almeno.

Farfanicchio                  - A vostra posta.

Taddeo                          - Su, alto, andianne alle faccende, seguitami di buon passo, e chi vuol ridere rida.

Farfanicchio                  - Pur l'avete intesa, la signoria vostra.

SCENA II

LUC'ANTONIO vecchio.

Vedi quel che fa la fortuna? infine le cose che si desiderano non escono altrui mai della fantasia. Da pochi giorni in qua che Fabrizio mi disse che la sua vecchia, quella stregaccia di monna Sabatina, gli aveva detto che mio figliuolo era vivo, e di più che tra certo tempo ci sarebbe, ancora che io sia quasi certo che egli arrogasse, la voglia nondimeno di rivederlo m'ha messo nel petto un po' di speranza, di sorte che stamattina in sul giorno io sognava ch'egli era tornato e facevami una festa la maggior del mondo. E mi pareva aver tanta allegrezza che io non poteva formare parola, e appunto quando io voglio abbracciarlo e baciarlo, egli sparisce via col sonno insieme, e mi trovai subito desto e senza figliuolo, e così mi starò sempre: perciocché, sendo oggimai vecchio, mi conviene fare vezzi a questa che mi è tornata a casa, e acconciarla bene, dandole un marito giovane, ricco e nobile, il che mi verrà fatto agevolmente, dovendo ella rimaner reda; e così potrei vedere qualche nipotino, e porgli nome Orazio; ma Orazio mio figliuolo non credo io rivedere mai più. Pure costui mi dà tanta speranza, e che la vecchia lo dice certo, e afferma che fra quattro giorni io lo vedrò, che mi conviene, ancora che io non voglia, sperare un non so che di bene.

SCENA III

FABRIZIO, LUC'ANTONIO.

Fabrizio                         - Oh! per mia fé che quello è Luc'Antonio.

Luc’Antonio                 - A Dio piaccia di consolarmi.

Fabrizio                         - Lasciami fare innanzi e salutarlo. Buon giorno vi dia Dio.

Luc’Antonio                 - E a te il buon giorno e 'l buon anno.

Fabrizio                         - O Luc'Antonio, io ho le buone novelle stamattina.

Luc’Antonio                 - Circa a che?

Fabrizio                         - Circa a Orazio.

Luc’Antonio                 - Eh, eh, figliuol mio, l'amor te ne inganna; credi tu che, se egli fusse vivo, che non se ne fusse mai udito qualche cosa? Tu hai troppa fede in quella vecchia.

Fabrizio                         - Io le ho fede per certo, perché io ne ho veduto la isperienzia; e vi dico ora per ultimo che voi vedrete Orazio avanti che vada sotto il sole.

Luc’Antonio                 - Chi te l'ha detto? ha' lo tu da colei?

Fabrizio                         - Luc'Antonio, io non so tante cose, e metterò cinquanta ducati contro a cento de' vostri, e dirò che per tutto oggi Orazio vostro figliuolo si truova in questa città.

Luc’Antonio                 - O poveretto, sei tu fuori di te? Dio il volesse! guardati da un altro, che io non ti vo' vincere.

Fabrizio                         - Vincere a vostra posta, io ho paura che voi non dubitiate di perdere.

Luc’Antonio                 - Non t'ho io promesso di donare cento scudi se fra un mese, nonché fra un giorno, mio figliuolo si trovava in Firenze? che vòi tu dunque andar giocando?

Fabrizio                         - Faceva per avergli più al sicuro, e non ve ne avere obbligo.

Luc’Antonio                 - Io vo' donartegli e restartene obbligato.

Fabrizio                         - E così mi promettete?

Luc’Antonio                 - E così ti prometto.

Fabrizio                         - State di buona voglia, che voi lo vedrete prima che sia sera, e ordinate intanto i danari. Io voglio andare or ora a fare una faccenda: rimanete in pace.

Luc’Antonio                 - Va' in buon'ora. Se fusse di state, che si dorme dopo desinare, io direi: forse io vedrò in sogno, come io lo veddi stamattina. Ora lasciami andare a provveder a' casi miei, che sarà molto migliore opera.

SCENA IV

Madonna BARTOLOMEA padrona, VERDIANA fante.

Bartolomea                   - Uh, uh, trista la vita mia! Come ho io a fare? costui vuol ir pur via a ogni modo.

Verdiana                       - Lasciatelo andare! che credete voi che sia?

Bartolomea                   - Tu sai molto! e non hai provato ancora l'amor de' figliuoli.

Verdiana                       - Sì, in verità, che la gioia è vaga.

Bartolomea                   - Almen che sia, aspettass'egli tutta questa settimana, come ci promesse, tanto che monna Sabatina gli facessi l'incanto addosso.

Verdiana                       - Tanto avesse ella fiato, quanto io credo che ella faccia mai opera buona.

Bartolomea                   - Uh, uh, pazzerella, sta' cheta in buon'ora: questa non è già opera buona, ma ella sarà buona per noi; così aspettassi egli l'incantamento! ma se Bonifazio mio fratello non lo soprattiene, io son rovinata.

Verdiana                       - Non dubitate, qualche santo vi aiuterà.

Bartolomea                   - E per ristoro lo andare testé alla guerra è proprio come andare alla beccheria.

Verdiana                       - State di buona voglia, padrona, perché, se pure egli andrà, tosto darà volta indietro.

Bartolomea                   - Che ragion ne cavi tu?

Verdiana                       - Non troverrà chi gli dia danari, e voglio esser scorticata se egli passa alla banca.

Bartolomea                   - Sì, or ch'egli ha compero l'armadura?

Verdiana                       - Voi lo vedrete!

Bartolomea                   - Ancor che egli non abbia troppo buona presenza, e anco un po' mala favella, egli è nondimeno forzuto e animoso, e darebbe...

Verdiana                       - Così nel fango come nella mota.

Bartolomea                   - Io dico come in terra.

Verdiana                       - D'ogni altra cosa m'ha aria, in fuori che di soldato: crediate a me che egli non si partirà poi. Oh, egli è innamorato di colei che egli spasima.

Bartolomea                   - Luc'Antonio poteva pur far con esso noi questo parentado; ma egli è per farlo a suo dispetto: io ho procacciato cento ducati d'oro che ardano. Ma andiamo ratte, che noi lo troviamo in casa.

Verdiana                       - Chi?

Bartolomea                   - Bonifazio, balorda, acciocché egli prima vegga di fermare Taddeo, e di poi trovare Fabrizio, e che monna Sabatina faccia la malia.

Verdiana                       - Ammaliata resterete voi che gettate via tanti danari a un tratto!

Bartolomea                   - Egli è meglio perdere una piccola parte che il tutto: se per disgrazia costui morisse non avendo figliuoli, guai a me; bisognarebbe sbucare, e lasciare tutta la roba, perciocché la mia dote è una favola.

Verdiana                       - Uhimè! voi avete ben ragione a guardarlo e avergli cura.

Bartolomea                   - Orsù, voltian di qua per la più corta.

Verdiana                       - Come voi volete.

Fine del secondo atto


ATTO TERZO

SCENA I

TADDEO, FARFANICCHIO

Taddeo                          - Farfanicchio, noi semo acciviti.

Farfanicchio                  - La signoria vostra avea paura che le mancassino i cavagli?

Taddeo                          - Sì, dammi ora di signore: dove egli importava, e tra la gente, non te ne ricordasti mai; e potetti bene accennarti.

Farfanicchio                  - Oh, che maladetto sia la mia buassaggine! io non vi intesi mai.

Taddeo                          - Credetelo! ti basta far ridere il popolo.

Farfanicchio                  - Oh! pensate ch'io faccia ridere io le persone?

Taddeo                          - Dunque si ridono di me? io debbo forse essere qualche scasimodeo o qualche nuovo pesce; pon mente come ognuno ride!

Farfanicchio                  - State saldo, padron signore, la gente non ride di voi.

Taddeo                          - Dunque ride di te?

Farfanicchio                  - Messer signor no.

Taddeo                          - O di che diavol ride?

Farfanicchio                  - Ride dell'abito stravagante che voi avete in dosso.

Taddeo                          - Oh, è egli però abito sì stravagante questo?

Farfanicchio                  - Stravagantissimo. Voi avete, cioè la signoria vostra ha la berretta alla tedesca, la cappa alla franzese, il saione alla fiorentina, il colletto sòpravi alla spagnuola, le calze alla guascona, le scarpette alla romanesca, il viso alla fiesolana, il cervello alla sanese e lo spennacchio alla giannetta: non vi pare stravaganza questa?

Taddeo                          - Tu sei un furfante: che vuol dire lo spennacchio alla giannetta? debbo forse essere un cavallo, io?

Farfanicchio                  - Non gli manca se non mangiare la paglia.

Taddeo                          - Che di' tu?

Farfanicchio                  - Dico che voi sete veramente un uomo da battaglia.

Taddeo                          - E da battaglione. E pur veggio ridere! se egli mi interviene così in campo, io sono rovinato.

Farfanicchio                  - Non dubitate, in campo voi non averete in dosso cotesti panni, ma sarete vestito di ferro, col pugnale nelle reni e la spada ne' fianchi.

Taddeo                          - E potrò minacciare, bestemmiare, e anche dare; ma andianne in casa, che noi asciolviamo, e di poi mi aiuti armare, e che noi camminian via. Tòi qui la chiave: vedi là l'uscio, apri. Questo mai no: quest'altro è il vero passo della picca.

Farfanicchio                  - Signore, la padronità vostra entri a sua posta.

Taddeo                          - O bel detto, Farfanicchio; tu vali oro: o viemmi dietro.

Farfanicchio                  - Guardatevi.

Taddeo                          - Ohimei! io son morto.

Farfanicchio                  - Che è stato, padrone?

Taddeo                          - Farfanicchio, io son ferito a morte. Una archibugiata nelle tempie.

Farfanicchio                  - Come v'ha fatto male?

Taddeo                          - Hammi passato il cervello fuor fuori.

Farfanicchio                  - Vo io pel medico? Non dubitate, signor Taddeo; ella è stata una melagrancia, guardate: favor, favori!

Taddeo                          - Per la fede mia, che tu di' il vero: io son tutto riavuto.

Farfanicchio                  - Voi non sapete ricever uno scherzo.

Taddeo                          - E pagherei (come si dice) tre occhi e un dente che m'avessi tratto la Geva.

Farfanicchio                  - Appunto! ella è stata qualche fante.

Taddeo                          - Odi! gagliarde braccia ha ella! ma per lo avere io testé l'animo alla guerra e non alle dame, mi credetti essere ferito malamente: deh, vedi coloro se non par che egli abbiano mangiato riso, come ridano.

Farfanicchio                  - Lasciategli ridere.

Taddeo                          - Eh, eh, eh, lavaceci, tambelloni, di che ridete voi? veddesi mai più nulla? Farfanicchio, passa là, che noi andiamo asciolvere, che oggimai n'è otta.

Farfanicchio                  - Sì, sì, lasciangli rangolare.

SCENA II

BONIFAZIO vecchio, FABRIZIO

Bonifazio                      - I cento ducati sono nelle sue mani, e pur iersera gli levai dal banco, e mandaglile.

Fabrizio                         - Tutti d'oro, s'intende?

Bonifazio                      - D'oro tutti, e tutti ungheri, genovesi e fiorentini vecchi.

Fabrizio                         - Le immagini, com'io vi dissi che da lei aveva saputo, vogliano essere d'oro fine.

Bonifazio                      - E credi che la Geva s'innamori di lui in guisa tale che ella sia forzata venire insino a casa sua, e pregare Taddeo che sia contento di tòrla per moglie?

Fabrizio                         - Come egli è vero che noi semo vivi, e che noi parliamo insieme; e ne ho veduto la pruova in me, perché quella fanciulla (come io v'ho detto), che ora tengo a mie spese in casa sua, non mi poteva patire; e per questa via fu costretta a venirmi dietro contra la voglia del marito e di tutti i suoi; e per me ora si getterebbe nel fuoco.

Bonifazio                      - Al nome di Dio, io non so se noi ci andiamo a casa mia, o pure a casa di lei, perché iersera noi restammo ch'ella venisse a trovarmi stamani in casa, dove non ho potuto aspettarla per una faccenda che mi sopravvenne.

Fabrizio                         - Fate voi: andiam dove voi pensate ch'ella sia.

Bonifazio                      - Oh, per mia fé, eccola appunto di qua.

SCENA III

Madonna BARTOLOMEA, VERDIANA, FABRIZIO, Bonifazio          -

Bartolomea                   - O Verdiana, non è quel Bonifazio?

Fabrizio                         - Andiamo a rincontralle.

Verdiana                       - Madonna sì.

Bartolomea                   - Dio vi dia il buon dì.

Bonifazio                      - Donde vien tu, Bartolomea?

Bartolomea                   - Da casa vostra: ma uh, uh! Bonifazio mio, Taddeo non vuole aspettar più, e vuole andar via oggi ad ogni modo.

Bonifazio                      - Non dubitare: lo farò ben io aspettare due giorni ancora; ma non promess'egli d'aspettar tutta questa settimana?

Bartolomea                   - Messer sì, ma stamani gli è venuto la fregola, ed è andato fuori a procacciare i cavagli.

Bonifazio                      - Poi che egli tolse quello impiccato di Farfanicchio...

Verdiana                       - Non se ne può più aver bene.

Bonifazio                      - La forca lo mette al punto.

Bartolomea                   - Come farem noi?

Bonifazio                      - Non ti dar pensiero; hai tu teco i danari?

Bartolomea                   - Messer sì: eccogli qui tutti in questo borsetto.

Bonifazio                      - Fabrizio, noi ci fidiamo di te.

Fabrizio                         - Non dubitate di nulla; mi meraviglio di voi!

Bonifazio                      - Quando sarà fornita la malia?

Fabrizio                         - Fra due ore, e per tutto oggi vedrete miracoli.

Verdiana                       - Sì, se gli andranno alla Nunziata.

Fabrizio                         - E la Geva verrà a chiedervi misericordia, e pregarvi che le diate Taddeo per marito.

Bonifazio                      - Vedi che pur l'arà a dispetto di suo padre.

Fabrizio                         - Ma avvertite alla dote, che io non so come Luc'Antonio se la intenderà.

Bonifazio                      - Che importa a noi?

Bartolomea                   - Purché noi abbiam lei.

Bonifazio                      - Bartolomea, dagli e' danari, qui non accade altro.

Fabrizio                         - Sì, sì; quanto più tosto, meglio.

Bartolomea                   - Eccogli, annoverategliene.

Fabrizio                         - Se voi gli avete conti, basta.

Bartolomea                   - Conti, non ch'una volta, sei.

Bonifazio                      - Cento ducati sono, tutti quanti d'oro.

Verdiana                       - E tutti quanti son gettati giù per Arno.

Fabrizio                         - E così hanno a essere.

Bartolomea                   - Noi ti ci raccomandiamo.

Bonifazio                      - Fabrizio, non trasandare la cosa.

Fabrizio                         - E voi non ne favellate con persona viva, acciocché questo fatto non venisse agli orecchi di Luc'Antonio, e che quella poveretta non avesse a esserne rovinata.

Bartolomea                   - Non ti bisogna aver cotesto sospetto.

Bonifazio                      - Naffe, no.

Fabrizio                         - Io ve lo fo intender per bene.

Bartolomea                   - E noi per bene lo riceviamo.

Bonifazio                      - E in buona parte.

Fabrizio                         - Io vi lascerò, e andrommene a trovar monna Sabatina per cominciar a darvi dentro.

Bartolomea                   - Va' via, oggimai.

Bonifazio                      - Non indugiar più.

Fabrizio                         - Restate in buon'ora.

Bonifazio                      - Tu che farai?

Bartolomea                   - Vorrei che noi andassimo a svolger Taddeo.

Bonifazio                      - Avviati.

Bartolomea                   - Niente: senza voi non farei nulla.

Bonifazio                      - I' ho un po' di faccenda al palagio del Podestà, e poi son tutto tuo.

Bartolomea                   - Favellargli bisogna; e che voi vi siate.

Bonifazio                      - Orsù, ritorna a casa mia, e là mi aspetta, che io vi sarò quasi all'otta di te.

Bartolomea                   - Così farò; andianne, tu.

Verdiana                       - Che quella stregaccia non faccia lor qualche male!

Bartolomea                   - Che male? balorda! il male è fatto.

Verdiana                       - Voi dite bene il vero, cento ducati non si trovano nella strada.

Bartolomea                   - I danari son fatti per spendergli: purché egli non vada via e abbia moglie.

Verdiana                       - E figliuoli.

Bartolomea                   - Naffe! Iddio ci aiuti.

Verdiana                       - Madonna sì, che noi n'abbiam bisogno.


ATTO QUARTO

SCENA I

VIOLANTE fanciulla, madonna SABATINA vecchia.

Violante                        - Venitene, madre mia, col nome di Dio.

Sabatina                        - Sì: io vengo, io vengo.

Violante                        - Fate pure a bell'agio.

Sabatina                        - Uh! uh! figliuola mia, io sono stata per isguiggiare una pianella, e per rompermi una gamba, che era molto peggio.

Violante                        - In buon'ora: che volle dire?

Sabatina                        - Le cosce, che mi si ripiegon sotto.

Violante                        - Da che viene?

Sabatina                        - Dagli anni, dagli anni: nacqui troppo tosto. Naffe! questa vecchiaia ne viene con tutti i difetti.

Violante                        - Come s'ha a fare? non bisogna nascerci, chi non vuol invecchiare.

Sabatina                        - E però si dice che la vecchiaia è un male desiderato da ognuno, e la giovinezza un bene non conosciuto da persona che lo possegga.

Violante                        - Uh, uh! monna Sabatina, voi mi parete una dottoressa. Oh! voi sputate tutte sentenze.

Sabatina                        - Domine anche, se io ci sono stata più di sessant'anni in questo mondaccio, e sempre praticato con persone accorte!

Violante                        - Buon per voi, e buon pro vi faccia.

Sabatina                        - Caso sarebbe essere giovane e bella come sei tu!

Violante                        - E perché?

Sabatina                        - Per trovarmi qualcosa al mondo.

Violante                        - Uh, uh, in buon'ora, che mi dite voi?

Sabatina                        - Non lo pigliare in mala parte.

Violante                        - Infine, voi fate come la pasta del gran calvello, che quanto più si rimena tanto più raffinisce altrui fra le mani.

Sabatina                        - Stasera a veglia, figliuola mia, ti vo' fare intendere cose che ti piaceranno; ma andianne ora, che noi non fussimo tardi.

Violante                        - Voi dite il vero; poiché noi semo giunte alla porta, entriam, che Dio ci aiuti.

SCENA II

TADDEO, FARFANICCHIO

Taddeo                          - O Farfanicchio, corri qua, che questo elmo mi affoga.

Farfanicchio                  - Che? neh?

Taddeo                          - Corri, che io non posso riaver l'alito.

Farfanicchio                  - Che dite voi, padrone?

Taddeo                          - Sfibbiami questa visiera, che ti venga il canchero nell'ossa.

Farfanicchio                  - Dite forte, la signoria vostra, ch'io non vi intendo.

Taddeo                          - Aiutami cavar questo elmo, che io sto per affogare e per cacciar fuori, che tu sii morto a ghiado.

Farfanicchio                  - I' ho inteso, i' ho inteso: chinatevi, chinatevi, la signoria vostra si chini.

Taddeo                          - Io sono stato per recerti in sul mostaccio.

Farfanicchio                  - Voi mi averesti concio.

Taddeo                          - A questo modo ci potrà stare ognuno.

Farfanicchio                  - Sì bene.

Taddeo                          - Per la puttana della consagrata! guai al primo Luteriano che mi si parerà davanti. Farfanicchio, che di' tu ora? parti ch'io abbia altra aria?

Farfanicchio                  - Miglior l'areste, avendo una fenestra serrata nelle rene.

Taddeo                          - Tu mi pari ubbriaco: guardami bene.

Farfanicchio                  - Voi mi parete, non vo' dire un Orlando furioso, un Rodomonte bizzarro, ma lo Iddio Marte stesso.

Taddeo                          - Oh, io son fiero! io son terribile! io me lo veggio, io lo conosco. Guarti, vigliacco, che l'ombra mia mi fa paura: ah, ah, ah, vecchia di Buovo!

Farfanicchio                  - Signor padrone, io ho voglia di fuggirmi.

Taddeo                          - Sta' pur forte e in cervello, che ti bisogna.

Farfanicchio                  - Deh, vi vedesse ora la vostra dama!

Taddeo                          - Che dama o non dama? che vorresti tu che ella spiritasse, veggendomi a questo modo infuriato? io ho quasi paura io di me stesso.

SCENA III

Madonna Bartolomea, Farfanicchio, Verdiana, Taddeo, Bonifazio            -

Bartolomea                   - O Bonifazio, camminiamo, che mi par vederlo.

Farfanicchio                  - Anzi, vi vorrebbe per suo campione.

Verdiana                       - Egli è desso, e ha indosso l'armadura.

Taddeo                          - Credilo tu?

Bonifazio                      - Appunto giugneremo a tempo.

Farfanicchio                  - Senza dubbio.

Taddeo                          - Chi son costoro che ne vengon sì ratti verso noi?

Farfanicchio                  - È vostra madre e vostro zio.

Taddeo                          - Tu di' il vero, per mia fé.

Bartolomea                   - O Taddeo, figliuol mio, che pazzia è questa?

Bonifazio                      - Tu hai così l'arme?

Taddeo                          - I militi par miei come hanno a ire a trovar i nimici?

Bartolomea                   - Non dicesti tu d'aspettare?

Bonifazio                      - Non m'hai tu promesso di star tutta questa settimana?

Taddeo                          - O zio, o mia madre, voi vedete: io ho disposto che questa spada mi dia il pane, e che la guerra mi nutrichi.

Bartolomea                   - Tu hai male di troppo bene.

Bonifazio                      - Tu non sai ancora che cosa ella si sia.

Taddeo                          - Ahi, ciel turchino! come diavol nollo so? Il soldato va alla guerra, mangia male e dorme in terra.

Bonifazio                      - Non è niente?

Bartolomea                   - Ti par poco cotesto? e sapete se egli è uso ad essere servito!

Verdiana                       - Ditelo a me! egli vuol il letto caldo infino di maggio.

Taddeo                          - Io saperrò anche, quando bisognerà, mangiar vestito all'acqua e al vento, e dormir ritto e allo scoperto.

Bartolomea                   - Figliuol mio, tu non sei avvezzo ai disagi.

Taddeo                          - Gli uomini si fanno.

Farfanicchio                  - E massimamente i par suoi.

Bonifazio                      - Io dico che, se tu avessi provato un tratto la guerra, che tu parleresti d'un altro linguaggio.

Taddeo                          - Voi mi credete sbigottire: e' vi vanno tanti signori, tanti cavalieri, tanti cortigiani e gentiluomini...

Bartolomea                   - Te lo concedo, ma essi sono d'altra fatta che non sei tu.

Taddeo                          - Deh, porca nostra, vostra sosta! io non conosco uomo sotto la cappa del sole che sia da più di me, quando io ho questo spadone in mano.

Bonifazio                      - Riniego la fé che, se si dà un tratto all'arme, tu non tremi a verga a verga.

Bartolomea                   - E se egli vede una volta i nimici in viso...

Farfanicchio                  - Cacherassi nelle calze.

Verdiana                       - Tu non dicesti mai meglio.

Taddeo                          - Io debbo esser forse un di quegli soldati all'antica, che nelle guerre di Pisa facevano sonare l'Avemaria, quando si aveva a trarre? la bombarda ha fatto il buco: io dico che io ho un cuore come un dromedario.

Farfanicchio                  - Odi qua!

Bartolomea                   - Taddeo mio, se tu mi sei storpiato o morto, come farò io poi?

Bonifazio                      - Alla guerra non ne nasce.

Verdiana                       - Così dice il proverbio.

Taddeo                          - Chi ha paura di panico non semini passere.

Farfanicchio                  - O bel detto! imparate, giovani innamorati!

Bonifazio                      - Infine, tu non vuoi esser l'uccello del campo.

Taddeo                          - Doh, Roma cieca! se non fosse stato che voi mi sete zio, al sangue di Cuio, io vi tagliava, Bonifazio, con uno stramazzone, le cosce di netto, e imparavate a favellare.

Bartolomea                   - Ohimè! figliuol mio dolce, temperati, temperati.

Bonifazio                      - Ah, ah, nipote mio caro, tanto male a un solo? ogni cosa dico per tuo utile e per tuo bene.

Taddeo                          - Questo spadone è stato per isverginarsi.

Bartolomea                   - Tu hai scelta la tua arme.

Taddeo                          - Questa è l'arme di mio padre: e mi ricorda, per l'assedio, che egli era dello squadrone de' vecchi per lo Gonfalone del bue, che io andava seco, che io era un fanciullo, a riveder le sentinelle, e a questa foggia andava armato.

Bartolomea                   - Una bella foggia!

Farfanicchio                  - Sì, per mia fé.

Taddeo                          - Non sapete voi che si dice: Arme certa alla bandiera? Io con questo spadone in mano farò ruote intorno alla insegna, che Dio ne guardi le bisce, picche e stinchi sgretolando, braccia e capi tagliando, uomini attraverso e cavagli.

Bartolomea                   - Misericordia!

Verdiana                       - Padrona, abbianci cura.

Taddeo                          - Non temer no, Verdiana, che io non sono adirato.

Bartolomea                   - Vien qua, Taddeo, io vo' che tu facci a mio senno.

Taddeo                          - Non pensate di darmi più lunghe, né stormi dalla impresa, perché io ho speranza di tornare o capo di squadra o colonnello il meno.

Bonifazio                      - Caso è se tu capiterai per mala via...

Taddeo                          - Non dubitate, che io so: farò onore alla casa.

Bartolomea                   - Santa Barbara ti cavi cotesta maladizione della testa.

Taddeo                          - Mia madre, state allegra, perché io mi sono botato d'arrecarvi una soma di Luteriani.

Bartolomea                   - Eh, eh, figliuolo mio, ascolta chi ti ricorda il tuo bene e la tua salute.

Taddeo                          - Io sono risoluto: datemi pure la vostra benedizione.

Farfanicchio                    - Se non par ch'egli abbia a ire alle forche!

Bartolomea                      - Ohimè! figliuol mio, non piaccia a Dio né voglia.

Bonifazio                         - Orsù, rizzati, sta' su, Taddeo!

Taddeo                            - Non più cerimonie; Farfanicchio, vien via, camminiamo al paese.

Farfanicchio                    - Eccomi, signor sì.

Bonifazio                         - Ascoltami venti parole, se ti piace.

Bartolomea                      - Deh sì, che 'l Signor ti benedichi.

Taddeo                            - Dica, orsù, ch'io son contento.

Bonifazio                         - La guerra, se tu nollo sapessi, è la peggior arte che si possa fare, poiché per sì poco prezzo si mette a ripentaglio la vita cento volte il dì, che è la più cara e la più nobil cosa che noi abbiamo al mondo. Ma lasciamo questo, e odi: due sorte di persone ne fanno manco male dell'altre: l'una sono principi, signori, baroni e gran maestri, perché, sendo nobili e ricchi, hanno gradi sempre e danari assai, dove possano tener cavagli e gente che gli servino, onde vengono a patir meno; l'altra sono uomini poveri, falliti, condannati, rovinati, e disperati, che poco peggio possono stare di quello che si stanno. Tu, non sendo di quei primi né di questi ultimi, vieni a esser nel numero di coloro che ragionevolmente debbano odiare e fuggire la guerra come la peste.

Bartolomea                      - Odi, odi, Taddeo?

Verdiana                          - Ascolta, ascolta chi ti dice il vero.

Bonifazio                         - Tu sei solo e ricco nel grado tuo, avendo case e poderi buoni e ben forniti, danari in sul Monte e in sul banco. Tua madre non ha altro bene che te: comandi, e sei servito e imboccato come un passerotto.

Taddeo                            - Bene è vero questo che voi mi dite.

Bartolomea                      - Dunque a che fare ire abbacando al soldo, potendo star benissimo a casa tua?

Bonifazio                         - E di che sorte!

Verdiana                          - Noi nollo guardiamo a mezzo.

Bonifazio                         - Alla guerra si patisce caldo, freddo, fame, sete e sonno; dormesi il più delle volte coll'arme indosso, e sopra lo spazzo; e spesso, quando altri si vorrebbe riposare, bisogna fare alto e camminare, ire alle scaramucce, o far le guardie; e se per disgrazia tu ammalassi, lasciamo andare i medici e le medicine, nonché altro, non puoi avere del pane e dell'acqua.

Taddeo                            - Come? non v'è egli del marzapane, del trebbiano, dei zuccherini e delle mele cotte?

Bonifazio                         - Nulla di questo mondo: non pure una susina o uno spicchio di melagrancia, da spruzzarsi la bocca.

Taddeo                            - Cagna baiardo! Oh! io mi sbigottisco.

Farfanicchio                    - Odi i bru.

Taddeo                            - E se non fusse l'amore che m'assassina, io non v'andrei a patto veruno.

Bartolomea                      - Se tu avessi avuto tanta pacienza quanto tu ci promettesti...

Taddeo                            - Che volete voi ch'io faccia se 'l martel lavora?

Bartolomea                      - Io ti dico che, per tutta questa settimana il più lungo, la Geva sarà tua sposa.

Taddeo                            - E suo padre ne sarà contento?

Bartolomea                      - Non cercar altro; a te basta averla per moglie, ed ella stessa te ne pregherà.

Taddeo                            - Dio 'l volesse!

Bartolomea                      - Oh, che benedetto sii tu mille volte!

Taddeo                            - Ma se io aspetto e noll'ho poi?

Bartolomea                      - Di bel patto fa' ciò che ti vien bene.

Taddeo                            - Andronne alla guerra, e se io non vo...

Farfanicchio                    - Credetelo.

Taddeo                            - La darò pel mezzo a casa le mondane.

Bartolomea                      - Così facess'ella figliuoli!

Taddeo                            - Come non farà figliuoli?

Bartolomea                      - All'altro marito non ne fece ella mai.

Taddeo                            - Sta molto bene, se voi mi volete agguagliare a lui che era un cotal tristanzuolo, sparuto, disutile, che non aveva tanta gina che si mettessi la mano a bocca.

Verdiana                          - Egli dice bene il vero, che egli non era altro che un po' di merda in su due fuscellini.

Taddeo                            - Riniego il mondo che, se io le metto il branchino addosso, le farò stralunare gli occhi che parrà proprio che ella dia i tratti; e voglio essere squartato a coda di mula, se io non fo di maniera che voi vi rammaricherete di tanti nipotini.

Bonifazio                         - Tu odi, Bartolomea.

Bartolomea                      - Piacessi a Dio! io non credo che venga mai quell'ora ch'io vegga di lui figliuoli.

Taddeo                            - Non dubitate, mia madre, che io ho una schiena tutta piena di bambini: pure che io abbia la Geva.

Bartolomea                      - La Geva sarà tua.

Taddeo                            - E la guerra sia di chi la vuole.

Farfanicchio                    - Noi stian freschi.

Bartolomea                      - Lodato sia il Signore.

Verdiana                          - E la Vergine sua madre.

Taddeo                            - Da' qua la mano, Farfanicchio, che io vo' fare uno scambietto per l'allegrezza.

Farfanicchio                    - Ah, ah, padrone, vostra signoria nella strada?

Bartolomea                      - Andianne in casa, che tu ti disarmi.

Taddeo                            - Voi dite bene.

Farfanicchio                    - Apri tosto, Verdiana.

Verdiana                          - Ecco fatto.

Taddeo                            - Passate là, zio; entrate, mia madre; Farfanicchio vieni.

Farfanicchio                    - Sì, che la guerra è fornita.

Verdiana                          - E l'accordo è fatto: forcuzza, impiccatello!

SCENA IV

Madonna ORETTA padrona, CLEMENZA serva.

Oretta                              - Quattro giorni sono che noi semo in questa città, e non abbiamo inteso nulla di vero.

Clemenza                         - Io ho paura che noi non abbiam gettato via il tempo e i passi.

Oretta                              - Pure, di Pisa e di Lucca intendemmo per veri contrassegni che si erano di quivi partiti, e venuti in Firenze.

Clemenza                         - Sì si pensavano quegli albergatori, e anche dicevano che gli erano milanesi.

Oretta                              - Cotesto importa poco: essi potevano mutarsi il nome e la patria a qualche loro fine che non si può sapere. Ma questa non è quella piazza dove sta quella vecchia che ci fu detto iersera, che tiene in casa quella fanciulla forestiera?

Clemenza                         - Madonna sì, e quella là è la chiesa dove dicono che seco la mena ogni mattina in su quest'otta a udir messa.

SCENA V

VIOLANTE, madonna SABATINA, CLEMENZA, madonna ORETTA

Violante                           - Ringraziato sia Iddio.

Sabatina                           - Sempre, figliuola mia.

Clemenza                         - Vogliam noi vedere se elle vi fussino per sorte?

Oretta                              - Picchiam prima l'uscio a quella donna, poiché noi semo qui.

Violante                           - Ora mi par egli esser tutta scarica che noi abbiamo udito messa.

Sabatina                           - E anche a me.

Clemenza                         - E quale è desso?

Oretta                              - Quel qui c'ha il martello, dove tutti gli altri hanno la campanella.

Violante                           - Ma che donne son quelle dirimpetto al nostro uscio?

Sabatina                           - E chi può saperlo?

Clemenza                         - Guardate, queste che sono uscite di chiesa e che vengano in qua: sarebbono mai desse?

Oretta                              - Egli vi è una fanciulla appunto ed una vecchia.

Sabatina                           - Elle guardano molto in verso noi.

Violante                           - Ohimè, ch'io son rovinata!

Oretta                              - Quella fanciulla mi par la Violante.

Clemenza                         - E io dico ch'ella è dessa.

Violante                           - O monna Sabatina, aiutatemi per l'amor di Dio; ohimè! dite d'esser mia madre.

Clemenza                         - Andiamo a farle motto.

Sabatina                           - Perché, perché?

Oretta                              - Andiamo, ch'io mi struggo d'abbracciarla.

Violante                           - Per bene, per bene.

Sabatina                           - Lascia pur fare a me.

Oretta                              - Lodato sia Iddio che io ti veggo pure, figliuola mia dolce.

Violante                           - A chi dite voi, buona donna?

Oretta                              - A te; non mi riconosci tu?

Violante                           - Avvertite a non pigliar errore.

Clemenza                         - O Violante, guardala bene: ella è tua madre, ed io sono la Clemenza.

Sabatina                           - La Clemenza puoi tu bene essere, ma non già ella sua madre.

Oretta                              - Anzi, sono veramente dessa.

Sabatina                           - Se le fanciulle potessero avere due madri, come due mariti, io direi forse sete voi la seconda.

Oretta                              - Come la seconda?

Sabatina                           - Perché la prima son io.

Oretta                              - Ed è tua figliuola questa?

Sabatina                           - Al vostro piacere.

Oretta                              - O dove la ingenerasti?

Sabatina                           - In Firenze.

Oretta                              - Tanto avestu fiato o vita!

Sabatina                           - E tu anima o corpo, quando altri ti avessi assai sofferto.

Oretta                              - Né tu né tutto il mondo potrebbe fare che tu fussi quel che son io.

Sabatina                           - Né tu né tutto il cielo farebbe che io non fussi quel ch'io sono.

Oretta                              - Una ribalda e una sciagurata femmina dèi essere.

Sabatina                           - Più dabbene e miglior di te in tutti e' conti sono.

Clemenza                         - Ahi, Violante, non patire che questa rea femmina dica villania a tua madre.

Violante                           - Egli m'incresce molto di voi, che mi parete donne dabbene, che voi m'abbiate tolto in cambio.

Oretta                              - Tu sei pure la Violante.

Violante                           - La Violante sono, ma non già quella che voi andate cercando.

Sabatina                           - Egli è più d'un asino in mercato.

Clemenza                         - Non riconosci monna Oretta tua madre?

Sabatina                           - Pure, dàlle! sua madre son io, con chi ho io a dire? io non sono però scilinguata.

Oretta                              - O Signore! è possibil però questo? e fannosi queste cose ai forestieri?

Sabatina                           - E diconsi queste parole ai cittadini?

Clemenza                         - Cittadina tu? di quelle di montagna.

Sabatina                           - Io sono stata per dirtelo... andatene oggimai pe' fatti vostri, che ci avete fracido.

Clemenza                         - Ahi vecchiaccia maladetta! ve' viso invetriato, se ella non ha aria di strega...

Sabatina                           - Doh, berghinelluzza! con chi ti pare egli avere a favellare?

Violante                           - Mia madre, andianne in casa: lasciatele cicalare costì nella strada quanto elle vogliono.

Sabatina                           - Tu di' la verità: entriamo dentro, che elle debbono esser fuor del cervello.

Oretta                              - Ohimè! Clemenza mia, dove son io arrivata?

Clemenza                         - Male, male, male, pare a me.

Oretta                              - Questo non mi sarebbe mai stato capace.

Clemenza                         - Mi meraviglio della Violante; ma che! ella ha col vestire insieme preso il parlare e i costumi fiorentini.

Oretta                              - Questa è gran cosa! Iddio ci aiuti.

Clemenza                         - Sì, che noi n'abbiamo necessità, nonché bisogno.

Oretta                              - Questo Firenze è bello e fello; e come diceva il mio marito, è un paradiso abitato dai diavoli.

Clemenza                         - E da diavolesse e da versiere.

Oretta                              - Questo non are' io mai potuto credere, che si potessero trovare al mondo donne tanto prosuntuose, perfide e sfacciate. Ma che farò? dove andrò? a chi ricorrerò che mi faccia ragione?

SCENA VI

LUC'ANTONIO, madonna ORETTA, Clemenza   -

Luc’Antonio                    - Che vi è stato fatto, buona donna?

Oretta                              - La maggior ingiuria, uomo dabbene, che si sentisse mai.

Luc’Antonio                    - Non abbiate paura: qui non si manca di giustizia a nessuno, e maggiormente ai forestieri, come par che siate voi.

Oretta                              - E così semo.

Luc’Antonio                    - E donde sete, se gli è lecito?

Oretta                              - Da Genova, al servizio vostro.

Luc’Antonio                    - Voi sete così sola? non avete voi figliuoli, fratelli o parenti con esso voi?

Oretta                              - Non ho altri con esso meco che un servidore vecchio rimasto all'albergo e questa serva; partitami da casa mia dietro a una mia figliuola.

Luc’Antonio                    - Chi fu vostro marito?

Oretta                              - Gasparo Miraboni.

Luc’Antonio                    - Voi sete dunque monna Oretta?

Oretta                              - Così non fuss'io!

Luc’Antonio                    - Riconoscetemi voi?

Clemenza                         - Dio ci aiuti, che non si perda anche la madre.

Oretta                              - Sì, vi riconosco bene: ohimè! Luc'Antonio mio.

Luc’Antonio                    - Ringraziato sia il cielo che voi sete venuta in Firenze, dove io potrò rendervi in parte il cambio dell'onore che vostro marito e voi mi facesti a Genova in casa vostra.

Oretta                              - Pure arò chi mi consiglierà e aiuterà in questa mia disavventura; e voglio che voi sappiate...

Luc’Antonio                    - Io non vo' sapere altro per ora: venitene in casa mia, dove voglio che siate alloggiata, mentre vi piacerà di star in questa terra; ma andiam tosto, perché gli è tardi; e poi, desinato che noi aremo, a bell'agio mi narrerete il tutto, e non dubitate che vi sia fatto torto.

Oretta                              - Mi sa male che il Duca sia a Pisa, che io ricorrerei ai piedi di sua eccellenza. È possibil però che si trovi una donna che dica d'esser madre della mia figliuola?

Luc’Antonio                    - Monna Oretta, andianne a desinare, che gli è quasi passato l'otta; e state di buon animo: ci sono i magistrati.

Oretta                              - In quella casa colà è la Violante mia figliuola, e colei che dice d'esser sua madre.

Luc’Antonio                    - So ben chi vi sta.

Oretta                              - Io mi vi raccomando.

Luc’Antonio                    - Ancora che io non avessi obbligo niuno né con vostro marito né con esso voi, io, per la ragione, e per lo esser forestiera, non mancherei d'aiutarvi; venitene, e vedrete quel ch'io farò.

Oretta                              - Facciamo ciò che voi volete. Vienne tu.

Clemenza                         - La fortuna potrebbe aver fatto pace con esso noi.

Luc’Antonio                    - Oh, come passa il tempo! mi ricorda che voi eravate una fanciulla.

Oretta                              - Assai più m'hanno fatto vecchia i pensieri e dispiaceri che gli anni.

Luc’Antonio                    - E così me, e maggiormente in questo ultimo del mio figliuolo. Monna Oretta, questa è la casa mia al comando vostro; e non vi è altri, dalle fantesche e i servidori in fuori, che una mia figliuola vedova, la quale vi terrà buona compagnia.

Oretta                              - Al nome di messer Domenedio.

Luc’Antonio                    - Entrate dentro.

Oretta                              - Entriamo.

Clemenza                         - Colla buona ventura.

SCENA VII

FABRIZIO, ORAZIO giovane

Fabrizio                           - Oh, noi abbiam penato tanto.

Orazio                              - Cicala, cicala, il tempo passa.

Fabrizio                           - Oh, quel consiglio che tu m'hai dato, mi piace!

Orazio                              - Non t'ho io trovato un modo buono da far restar contenti Bonifazio, monna Bartolomea e Taddeo?

Fabrizio                           - Ottimo, dico io, senza pericolo e riuscibile; e maggiormente che tu me ne aiuterai con tuo padre.

Orazio                              - S'intende; ma può egli esser però che tu abbi cavato cento ducati per cotesta via? tu sei fuori d'ogni fondo.

Fabrizio                           - Se io ho quest'altri da Luc'Antonio, io voglio che sien tuoi.

Orazio                              - Basta che noi facciamo a mezzo; ma, se io entro in casa, mio danno poi se mi manca cosa alcuna.

Fabrizio                           - Come noi abbiam desinato, tu ti leverai cotesta barbuzza, muteratti vestimenti, e andrencene a casa tua di compagnia, e io ti mostrerò a tuo padre, faren quella faccenda, e io me ne andrò a fare il parentado.

Orazio                              - Appunto, sta bene ogni cosa; andianne in casa, che noi aren fatto dilungare loro il collo.

Fabrizio                           - Abbiano pacienza per questa volta; ma dove vai tu?

Orazio                              - Voglio che noi andiamo dall'uscio di dietro, donde stamattina usci' fuora, perché io ho la chiave; dove costì dinanzi aremmo a picchiare.

Fabrizio                           - Non importa, andian donde ti piace.

                                                      Fine del quarto atto


ATTO QUINTO

SCENA I

BONIFAZIO, madonna , Bartolomea

Bonifazio                         - Sta' di buona voglia.

Bartolomea                      - Poiché noi abbiamo spesi tanti ducati, che la cosa abbia effetto.

Bonifazio                         - Io n'ho più voglia di te.

Bartolomea                      - Vedete di trovar Fabrizio, e ricordargliene: queste faccende così fatte non bisogna strascurarle.

Bonifazio                         - Io voglio andare ora a trovare messer Gimigniano in casa, dirgli venti parole per conto del piato, e poi non ho altro da fare che trovare Fabrizio, e sollecitarlo. Ma che fa Taddeo?

Bartolomea                      - Come egli ebbe desinato, e che noi rimanemmo a tavola, se ne andò in camera con Farfanicchio intorno all'arme; e così fa sempre ogni giorno.

Bonifazio                         - Serra l'uscio e rimani in pace, che io voglio andar via.

Bartolomea                      - Orsù, andate in buon'ora.

Bonifazio                         - Tra l'altre molte noie e infiniti fastidi che sono in questo mondo, questo del piatire non è il minore; anzi, secondo me, il maggiore di tutti quanti, avendo a praticar sempre con birri, messi, toccatori, notai, procuratori, dottori e giudici, che ti aggirano con richieste, citazioni, contraddizioni, esamine, testimoni, appellazioni, con leggi, statuti, ferie, dì utili e disutili; e ti piluccano in fino in su l'osso, tanto che, ancora che tu abbi ragione, innanzi che tu ne venghi a fine, è una morte; e poi che tu resti vincitore del piato, ti trovi rovinato: e però si dice che gli è meglio assai un magro accordo, che una grassa sentenza: in modo che io sono deliberato, da questa volta in là, lasciarmi innanzi tor ciò che io ho, ancora che sia poco, che mai più piatire. È egli possibil però che, dopo tante centinaia d'anni, non si siano avvedute le persone che i notai e i procuratori ci usurpano la roba, i medici ci tolgono la vita? e pur ci sono le leggi, i magistrati e i principi: nondimeno non ci si ha cura, non ci si provvede, e non se ne tien conto: e ognuno dice e chiacchiera e paganci di parole, ed essi fanno de' fatti. E a me intanto conviene andare ora a trovar un dottore infino a casa, e arò di grazia di potergli favellare, che non mi faccia aspettar due ore.

SCENA II

ORAZIO, FABRIZIO

Orazio                              - Hai tu veduto quel che sa far la fortuna?

Fabrizio                           - Noi abbiam preso buono spediente.

Orazio                              - Dio il voglia.

Fabrizio                           - Questa sua madre non può capitare se non agli Otto.

Orazio                              - Io son contento.

Fabrizio                           - Onde sarà richiesto la vecchia, la quale farà comparire in suo scambio la madre della Bia.

Orazio                              - Il caso è se ella giugnerà a tempo!

Fabrizio                           - Sì, giugnerà bene: gli Otto non si raguneranno di queste due ore; non vedestù che monna Sabatina non mangiò sei bocconi, che ella andò via? e per esser più tosto tornata, andò per l'uscio di dietro, ch'è la via più certa, e debbe esser or là.

Orazio                              - E se questa madre della Bia non volesse venire?

Fabrizio                           - Le parrà mill'anni: due scudi le farebbon far cosa dell'altro mondo.

Orazio                              - E questa madre della Violante, non credi tu ch'ella conosca che colei non sarà quella donna che diceva d'esser madre della fanciulla? e la Bia anche non esser la sua figliuola?

Fabrizio                           - Ed elle diranno di sì; e non avendo prove (che per buona sorte, quando il caso fu, secondo ch'elle dicevano, non vi passò mai testimonio), che vuoi tu che facciano gli Otto? Il più faranno cercare la casa; ma non vi troveranno fanciulle altrimenti: perciocché, come si rabbuia, io menerò via, come noi semo rimasti, la Violante; e se io sono richiesto, lascia fare a me ch'io so quel ch'io ho a dire.

Orazio                              - Se io non perdo la mia Violante, ogni cosa va bene.

Fabrizio                           - Non aver paura; andiamo la prima cosa a dar questa buona novella a tuo padre, e che io te gli mostri.

Orazio                              - Già ragionando semo noi arrivati: vedi là l'uscio; che non picchi? e spàcciati!

SCENA III

LUC'ANTONIO, FABRIZIO, ORAZIO.

Luc’Antonio                    - Appunto, o Fabrizio, io voleva uscir fuori per cercarti.

Fabrizio                           - E io vengo a trovarvi a posta. Luc'Antonio, io ho guadagnato la scommessa: ecco qui Orazio vostro figliuolo.

Orazio                              - O mio padre, il molto ben trovato.

Luc’Antonio                    - O figliuol mio dolce, tu sei pur desso: ringraziato sia il cielo che io ti veggio vivo e sano, dove t'ho più mesi pianto per morto.

Orazio                              - Io vi fui ben presso: pur, lodato sia Iddio, io mi ritrovo qui.

Luc’Antonio                    - O figliuol mio, come hai tu fatto?

Orazio                              - Non è tempo ora: ogni cosa saperrete; ma, prima che altro segua, ed io ed egli vogliamo una grazia da voi.

Luc’Antonio                    - Cosa ch'io possa.

Fabrizio                           - Noi vogliamo, per dirla a un tratto, che voi siate contento di dar la Geva per moglie a Taddeo Saliscendi.

Orazio                              - Mio padre, egli è ricco e tratteralla bene; e oltre a questo non si cura di dote.

Luc’Antonio                    - Già più tempo fa, egli me la fece chiedere pur senza dote; ma, pensando io che tu fussi morto, dovendo ella rimanere reda, gliela disdissi, e fecigli intendere che mai più non me ne ragionasse, avendo in animo di fare altro parentado; ma, ora che tu sei vivo e tornato, poiché io ve ne fo tanto piacere, gliene darò volentieri, e non si ragioni d'altro.

Fabrizio                           - E così manterrete?

Luc’Antonio                    - E così manterrò.

Fabrizio                           - Io dunque per parte vostra gli ne posso promettere?

Luc’Antonio                    - Sicuramente, ed anche a tua posta venir per la scommessa.

Fabrizio                           - Voi sete uomo dabbene. Orazio, vattene con tuo padre in casa.

Luc’Antonio                    - Sì, figliuol mio caro.

Fabrizio                           - Noi aremo agio a rivederci.

Luc’Antonio                    - Andianne, che mi pare mill'anni di sapere come tu scampasti, e come tu sei arrivato qui, e quando.

Orazio                              - In casa vi narrerò il tutto particularmente.

Luc’Antonio                    - Fabrizio, lasciati rivedere, vedi, io ho bisogno di favellarti, e per tuo conto.

Fabrizio                           - Messer sì.

SCENA IV

BONIFAZIO, FABRIZIO

Bonifazio                         - Mai non si può far cosa ch'altri voglia.

Fabrizio                           - Questa faccenda è fatta: all'altra.

Bonifazio                         - Alle ventiquattro ore m'ha detto ch'io torni.

Fabrizio                           - Ma ecco appunto costui di qua, ch'io potrò dar principio.

Bonifazio                         - E pure fuss'io spedito....

Fabrizio                           - Questo che viene in verso di me mi par pure Bonifazio.

Bonifazio                         - Al tuo piacere, Fabrizio: che dician noi?

Fabrizio                           - Ciò che voi volete.

Bonifazio                         - La faccenda nostra a che termine si trova?

Fabrizio                           - A bonissimo.

Bonifazio                         - Mi piace: dimmi qualcosa.

Fabrizio                           - Io v'ho da dir tanto bene che voi vi meravigliereste.

Bonifazio                         - Oh, comincia, in buon'ora.

Fabrizio                           - Subito stamattina che io ebbi i ducati, gli portai all'amica, la quale prestamente gli fondé, e feciene le immagini; e perché ella vide, facendo quella della Geva, si portava pericolo grandissimo da ogni parte, ella andò e consagrolla in nome di Luc'Antonio.

Bonifazio                         - Ohimè! che voi tu che faccia Taddeo di Luc'Antonio?

Fabrizio                           - Voi non intendete, state pure a udire: ella l'ha costretto a dovergli dare la Geva, di maniera che egli n'ha ora, per via di quello incantesimo, più voglia di voi e di lui.

Bonifazio                         - E che ne sai tu?

Fabrizio                           - Sollo benissimo.

Bonifazio                         - In che modo?

Fabrizio                           - Ascoltate pure: poi che la vecchia m'ebbe narrato questa cosa, io cominciai anzi che no a dubitare anch'io, e me ne usci' di casa quasi disperato, e per ventura mi rincontrai in Luc'Antonio; onde, per chiarirmi, appiccai seco ragionamento del figliuolo: or, per venire alla conclusione, che direte voi che si consuma di dargliene?

Bonifazio                         - Dio voglia ch'ella stia così.

Fabrizio                           - E innanzi ch'io mi partissi da lui, mi pregò caldamente che io vi domandassi se Taddeo era più di quello animo che già fu in quanto alla sua figliuola; e che io per sua parte ve la promettessi colle medesime condizioni.

Bonifazio                         - Dunque Taddeo arà la Geva?

Fabrizio                           - La Geva è sua sposa, e stasera, se gli piace, può venire a dargli l'anello.

Bonifazio                         - Per mia fé che la malia ha tenuto.

Fabrizio                           - E daddovero.

Bonifazio                         - Oh, ringraziato sia il paradiso; ma di grazia vien meco a dare alla madre e a lui questa buona nuova.

Fabrizio                           - Andiamo.

Bonifazio                         - Oh, quanta allegrezza! Ma ecco appunto la Verdiana che vien fuori. O Verdiana!

SCENA V

VERDIANA, BONIFAZIO, FABRIZIO

Verdiana                          - Chi mi chiama?

Bonifazio                         - Io: vien qua a me.

Verdiana                          - O Bonifazio!

Bonifazio                         - Che è di Taddeo?

Verdiana                          - Giuoca di spada e di schermaglia con quel maladetto Farfanicchiuzzo.

Bonifazio                         - Monna Bartolomea?

Verdiana                          - Monna Bartolomea mi manda a cercarvi, per intender quel che voi avete fatto.

Bonifazio                         - Oh, oh! abbiam fatto in modo che ella si loderà di noi: va', chiamala.

Verdiana                          - Così farò.

Bonifazio                         - Ma torna in qua; egli è forse meglio che noi andiamo in casa: che di', Fabrizio, part'egli?

Fabrizio                           - Come voi volete.

Verdiana                          - Sì, sì, tutti in casa, se voi avete buone novelle.

Bonifazio                         - Tu le sentirai. Passa dentro, Fabrizio; e tu vienne e serra.

Verdiana                          - Ecco fatto, che Dio ci mandi bene.

SCENA VI

Madonna ORETTA, LUC'ANTONIO,  Clemenza  -

Oretta                              - Uh, uh, signore, buon pro vi faccia. Luc'Antonio, voi avete ritrovato o riavuto un figliuolo ch'è una bellezza.

Luc’Antonio                    - Voi vedete, questa si può dire la maggior ventura che io avessi mai: ringraziato sia Dio mille volte.

Oretta                              - Cosìritrovassi, o riavess'io la mia figliuola, poveretta me, che non ho altri che lei in questo misero mondo!

Luc’Antonio                    - Guasparo non lasciò altri figliuoli?

Oretta                              - Messer no.

Luc’Antonio                    - Questa fanciulla dunque viene a esser ricca?

Oretta                              - Dopo la morte mia le rimane ogni cosa.

Luc’Antonio                    - La nave che ne fu?

Oretta                              - Vendessi, e con tutto il mobil nostro, e si messono i danari in sul Monte di San Giorgio, dal quale ogn'anno riscotiamo di frutti presso a cinquecento ducati d'oro.

Luc’Antonio                    - Orsù, in buon'ora, ingegnanci di ritrovarla.

Oretta                              - Andiamo a questi Otto che voi dite, che facciano comparire quella vecchia, e basta.

Luc’Antonio                    - Io voleva, prima che si facessi altro, favellare a un giovane che è suo amico grande, e bazzicaspesso in casa sua, perché spesso vi capita qualche fanciulla mal arrivata.

Oretta                              - Ella tien dunque le mani a così fatte cose?

Luc’Antonio                    - Voi avete udito.

Oretta                              - O figliuola mia, chi sei tu ora diventata?

Clemenza                         - Femmina di mondo, che credete voi? poich'ella fece vista di non vi conoscere.

Luc’Antonio                    - Se non che io n'ho paura, io vorrei che ella fusse, se vi piacesse però, moglie del mio figliuolo.

Oretta                              - Dio il volesse, e la sua madre benedetta; Genova non mi vedrebbe più, che io mi risolverei a doventar fiorentina.

Clemenza                         - Secondo me, voi non arete cotesta grazia; e ben n'andrete se voi la ritrovate.

Luc’Antonio                    - Del ritrovarla non bisogna dubitare: fatto sta ch'ella avesse salvato la sua virginità.

Clemenza                         - Impossibile.

Oretta                              - Tu non ne sai però altro.

Luc’Antonio                    - Oretta, sapete ciò che voi fate?

Oretta                              - Che cosa?

Luc’Antonio                    - Andatene colà in quella chiesa, e quivi m'aspettate, tanto ch'io venga per voi.

Oretta                              - Noi farem quel che voi volete.

Luc’Antonio                    - Oh, andate via, che testé testé vengo per voi.

Oretta                              - Oh, vienne tu.

Clemenza                         - Andianne, che Dio ce ne porti.

Luc’Antonio                    - Vedi appunto se la Pasqua m'era venuta in domenica! guarda dote che sarebbe quella pel mio Orazio! tutti ducati contanti. Ma io non son per dargli una fanciulla fuggita dalla madre e stata due mesi o più a vettura e per iscarriera; ma voglio bene innanzi a ogn'altra cosa favellare a Fabrizio, per vedere se senza gli Otto si potesse acconciare questa faccenda. Ora, poich'io nollo veggio qui intorno, fia buono sapere se egli fusse per sorte qui in casa monna Sabatina Ticch, tacch, tocch:egli non ci debbe essere, e coloro non debbono volere rispondere. Io voglio dar così un po' di volta , e vedere se egli fusse in bottega di Visino merciaio, o in sul Canto del Diamante. Gran fatto fia che nollo trovi in uno di questi luoghi.

SCENA VII

LUC'ANTONIO, BONIFAZIO,  Fabrizio  -

Luc’Antonio                    - So che ella arà un marito che la contenterà.

Bonifazio                         - Anzi, tutti di casa la leccheranno dal capo ai piedi.

Luc’Antonio                    - Ma questo che vien di qua, sarebbe mai desso?

Fabrizio                           - O Bonifazio! ecco appunto Luc'Antonio: andiamo a fargli motto.

Luc’Antonio                    - Egli è per certo.

Fabrizio                           - Luc'Antonio, il parentado è conchiuso: toccate qui la mano a Bonifazio zio di Taddeo.

Luc’Antonio                    - Buon pro ci faccia.

Bonifazio                         - E ben ci venga.

Fabrizio                           - Stasera semo rimasti che Taddeo venga a veder la sposa in casa vostra, e diali l'anello senza replicar altro in quanto alla dote.

Bonifazio                         - Che dote o non dote? a noi basta la fanciulla.

Fabrizio                           - Oggimai ella è vostra.

Bonifazio                         - Buon pro ci faccia di nuovo, e a voi doppiamente dell'aver riavuto il vostro figliuolo sano e salvo, secondo che ci ha detto qui Fabrizio or ora in casa.

Luc’Antonio                    - Vero, che Dio ne sia laudato e ringraziato sempre.

Fabrizio                           - Non tante cerimonie: stasera ristorerete alle nozze.

Luc’Antonio                    - Fabrizio, io ho caro d'averti trovato, sì per questa cagione, sì per ch'io ho bisogno grandissimo di favellarti.

Bonifazio                         - Io me ne andrò a fare una faccenda intanto, e stasera, se non prima, mi lascerò rivedere a casa vostra.

Luc’Antonio                    - Messer sì, non mancate per nulla.

Bonifazio                         - No, Dio non dubitate.

Luc’Antonio                    - Fabrizio, per dirtela in due parole, egli è in Firenze una donna genovese, nobile e ricca, venuta per trovare una sua figliuola, che poche settimane sono se le fuggì di casa, e stamattina per sorte ella la vide con monna Sabatina, le quali gli fecero una grandissima villania: la giovane a dir che non la conoscesse, e la vecchia a farsi madre della fanciulla; e perché io ho qualche obbligo colla gentildonna, io voglio a ogni modo ch'ella riabbia la figliuola; e se non ch'io l'ho tenuta, ella sarebbe a quest'ora agli Otto. Io ho voluto favellarti innanzi, acciocché, sendo amico di monna Sabatina, tu vegghi di fargliene riavere per amore.

Fabrizio                           - Sta bene; ma che obbligo avete voi con questa gentildonna?

Luc’Antonio                    - Tornandomene di Costantinopoli in queste parti sopra una nave ch'era del marito, ed in Genova dopo capitando, stetti più di due mesi in casa sua alloggiato, tanto ch'io guari' d'una grandissima infirmità, e mi fu fatto quello che io non ti potrei mai dire, e particularmente da lei.

Fabrizio                           - Certamente che voi avete d'averle obbligo grandissimo.

Luc’Antonio                    - Così fusse la fanciulla buona e cara!

Fabrizio                           - Che vuol dir buona e cara?

Luc’Antonio                    - Cioè, che ella non avesse perduto l'onore, che io la darei per moglie a Orazio, e buon per lui e per me.

Fabrizio                           - Caso è, se questa donna se ne contentasse.

Luc’Antonio                    - Pur dianzi ne ragionammo insieme, e ne leverebbe le mani al cielo: e mio figliuolo, colla dote che egli arebbe, e con quello che io gli lascerò, sarebbe uno de' più ricchi giovani del suo quartiere.

Fabrizio                           - Dite voi daddovero?

Luc’Antonio                    - Come daddovero? dal miglior senno ch'io ho.

Fabrizio                           - E questa donna dove si trova ora?

Luc’Antonio                    - È colà in chiesa che m'aspetta per andare agli Otto, ed holla alloggiata in casa mia.

Fabrizio                           - Oh, Luc'Antonio, andiamo a trovarla, che io vo' far voi il più contento uomo di Firenze, e lei la più felice donna del mondo.

Luc’Antonio                    - Andiamo, poiché te ne imprometti tanto bene.

Fabrizio                           - E atterrovecelo e farovvi meravigliare.

Luc’Antonio                    - Al nome di Dio, passiam dentro.

Fabrizio                           - Entrate voi prima, come è dovere.

Luc’Antonio                    - Orsù, contentianti.

SCENA VIII

TADDEO,  Farfanicchio -

Taddeo                            - Tu vedi, Farfanicchio: la fortuna m'ha, di soldato, convertito in cittadino.

Farfanicchio                    - Se voi sete così buon cittadino, come voi sete stato soldato, rallegrisi la patria nostra.

Taddeo                            - Chi ne dubita?

Farfanicchio                    - Ma mi par bene che voi abbiate fatto un cattivo baratto.

Taddeo                            - Sì di' tu, che non sai più là che tanto.

Farfanicchio                    - Io non so altro, ma so bene che non vi si può dir più Signor sì e Signor no; perché il dar di signore a uno cittadinuzzo di fava, sarebbe cosa troppo gretta e meschina.

Taddeo                            - Credi a me, che tu non te ne intendi: egli è vero che per ancora il Signore non mi si conviene.

Farfanicchio                    - Né converrà mai.

Taddeo                            - Ma aspetta, che io vo' squittinarmi, entrar nelle borse, esser de' magistrati, andar podestà...

Farfanicchio                    - De' granchi.

Taddeo                            - Vicario...

Farfanicchio                    - De' topi.

Taddeo                            - Capitano...

Farfanicchio                    - Delle cimice.

Taddeo                            - E commessario...

Farfanicchio                    - Delle piattole.

Taddeo                            - Che sentenze risolute!

Farfanicchio                    - Dissolute, volle egli dire.

Taddeo                            - Che giudizi pettorali!

Farfanicchio                    - Io ne disgrazio l'acqua delle giuggiole.

Taddeo                            - E non ci andrà molto tempo che io sarò mandato ambasciadore al Re...

Farfanicchio                    - Di Biliemme.

Taddeo                            - E allo Imperadore...

Farfanicchio                    - Del Prato.

Taddeo                            - E allora il Signore, Farfanicchio, come mi starà?

Farfanicchio                    - Dipinto.

Taddeo                            - Tu hai sdegno che tu non mi potrai riporre la lancia all'agiamento; ma io ti vo' vestire domani tutto di nuovo.

Farfanicchio                    - In parole.

Taddeo                            - Io dico in fatti; e voglio che tu sii cameriero mio e della Geva, che tu dia bere a me e a lei: il resto del tempo non vo' che tu attenda ad altro che a imbottar nebbia.

Farfanicchio                    - Caso è se io saperrò: come è ella spiacevol cosa?

Taddeo                            - Durasi manco fatica che a starsi.

Farfanicchio                    - Oh, cotesta, cotesta è l'arte e l'esercizio mio.

Taddeo                            - Mi par mill'anni di toccar la mano, d'abbracciar e di basciar la Geva.

Farfanicchio                    - Credovelo; ma stasera non volete voi fare una danza?

Taddeo                            - S'intende: e per segno di ciò lo ho portato meco il mio stormento.

Farfanicchio                    - Ohimè! padrone, dunque volete andare col cembolo in colombaia?

Taddeo                            - Come in colombaia? siam noi pazzi? io voglio in sala o in camera fare gli atti miei, e sonarlo sopra l'arpe o in compagnia, se vi saranno, del piffero e delle nacchere, e mostrare loro che io sono vertuoso.

Farfanicchio                    - E se non vi fussero altri suoni?

Taddeo                            - Sonerò il cembolo a solo a solo.

Farfanicchio                    - Sì, ma non potrete sonare a un tratto e ballare.

Taddeo                            - Se io non potrò sonare e ballare, io sonerò e canterò.

Farfanicchio                    - Oh, puossi cantare in su 'l cembolo senza altri suoni?

Taddeo                            - Oh, buono! i più bei versetti del mondo!

Farfanicchio                    - Io nollo posso credere.

Taddeo                            - Tu lo sentirai ora, ascolta un poco:

La Geva mia adesso è bianca e bruna,

bruna la veste, ma bianca la carne;

l'è più brillante che non è la luna,

e più frullante che non son le starne.

Bisogna esser amico di fortuna,

di Cupido e d'Amor chi vuol beccarne,

come son io amante e semideo:

viva la Geva e 'l suo sposo Taddeo.

Che dì tu ora, Farfanicchio? pàrti ch'io sia, o ch'io non sia, o ch'io ci stia a pigione, o a sportello? che di', che di'? tu non rispondi?

Farfanicchio                    - Che volete voi ch'io dica o ch'io risponda altro, se non che voi sete cima delle cime in tutte le cose?

Taddeo                            - Orsù, poiché ragionando ragionando noi semo giunti all'uscio, picchia: costì sta madonna.

Farfanicchio                    - Oh, egli è aperto.

Taddeo                            - Arannomi veduto di lontano, me che sono lo sposo, e tirato la corda: passiamo dentro a onor del padre Venere e della madre d'Amore.

Farfanicchio                    - Buono! padrone: or così fate pure il letterato e 'l savio.

Taddeo                            - E però non rispondere se io non ti domando, e non favellar se io non t'accenno o con gli occhi, o con le mani, o coi piedi.

Farfanicchio                    - Lasciate pur fare a me.

Taddeo                            - Ma a chi fo io primo motto? o a Orazio risuscitato e ritrovato, o alla Geva mia che ha a esser sempre mia, mia?

Farfanicchio                    - A chi voi riscontrate prima.

Taddeo                            - Tu di' il vero; a chi Dio la dà, San Pietro la benedica. Serra.

Farfanicchio                    - Ecco: guarda sposo da dirgli voi!

SCENA IX

LUC'ANTONIO, FABRIZIO, madonna ORETTA,  Clemenza     -

Luc’Antonio                    - Ed è vero certo?

Fabrizio                           - Vero e certo come il sole.

Luc’Antonio                    - O Signore, ringraziato sii tu.

Oretta                              - Mille volte ognora.

Luc’Antonio                    - Ed è stato più d'un mese in Firenze in casa sempre monna Sabatina?

Fabrizio                           - Come v'ho io a dire? Io ve lo messi, e vi diceva che egli era vivo per ch'io lo vedeva ognora, e non perché la vecchia me lo rivelasse come strega o maliarda, che son tutte quante baie.

Luc’Antonio                    - E Orazio mio, poiché quei due s'ammazzarono insieme, se ne fuggì colla Violante, né mai poi ella è stata fuor di lui?

Fabrizio                           - Messer no, e sempre l'ha tenuta e guardata come le cose sante; e, per dirvela chiaro, io credo che sieno insieme marito e moglie.

Oretta                              - Laudato sia Iddio.

Clemenza                         - E ringraziati sieno i Santi.

Luc’Antonio                    - Dunque si doveranno contentare del parentado.

Fabrizio                           - Più che di cosa che possi avere in questo mondo.

Oretta                              - Ora faccia Iddio la sua volontà: ogni volta che io muoio, io muoio contenta, poiché io ho trovato la mia figliuola, e maritatala sì nobilmente, e in una così bella e generosa città.

Luc’Antonio                    - E io me ne vo consolato ognora all'altra vita, poiché la figliuola di Gasparo, già tanto mio amico, è doventata moglie del mio figliuolo, dove potrò anche in parte ristorare e rimeritare voi di tanti benefizi ricevuti.

Fabrizio                           - Più contenti sarete, voi, madonna, quando arete veduto Orazio, e voi Luc'Antonio la Violante, perché e Firenze e Genova non hanno né un garzone né una fanciulla pari a loro di bellezza, di onestà, di virtù e di cortesia.

Luc’Antonio                    - Tanto meglio.

Oretta                              - Sia col buon anno.

Clemenza                         - E colla buona Pasqua che Dio dia e a voi e a loro.

Luc’Antonio                    - Orsù, facciam come noi siam rimasti.

Fabrizio                           - Andatevene in casa voi, e io menerò là in un tempo la Violante e monna Sabatina, la quale vo' che chiegga perdonanza a questa gentildonna, ancora che ciò ch'ella fece, gli le disse la fanciulla per paura di non avere a irsene con esso voi sua madre e perdere Orazio, al quale vuol tutto il suo bene.

Clemenza                         - Uh, uh! ve' s'ella n'è innamorata daddovero!

Oretta                              - Per marito e moglie si lascia padre e madre.

Clemenza                         - Così dice il missale: che allegrezza dunque fia la loro!

Oretta                              - Incomparabile e senza fine.

Luc’Antonio                    - Monn'Oretta, andiamo in casa, e là gli aspetteremo, e intenderete un altro parentado.

Oretta                              - Andiamo, che lodato sia Iddio. Vedi che doventerò fiorentina, viverò e morrò fiorentina: ma Giuseppe, il mio servitore che ci aspetta, come io vi disse, all'albergo?

Luc’Antonio                    - Manderem per lui, non dubitate; anch'egli si troverà stasera alle nozze. Fabrizio, fagliene intendere: tòi questo anello, tu sai ciò che tu hai a fare: noi v'aspettiamo.

Oretta                              - Deh, sì, tosto, che io mi consumo.

Luc’Antonio                    - Entrate dentro nella buon'ora.

Fabrizio                           - Testé testé saremo tutti in casa. Orsù, pur sarà contento Orazio, e non meno la Violante; oh! che vita felice e quieta hanno eglino a menare insieme! quanto contento e letizia hanno Luc'Antonio e monna Oretta! ella vuol far vendere tutto il suo avere in Genova e condurre i danari a Firenze. Ma oh, oh, appunto ecco costui di qua! Bozzacchio, olà.

SCENA X ED ULTIMA

BOZZACCHIO, FABRIZIO

Bozzacchio                      - Messere.

Fabrizio                           - Dove andavi tu?

Bozzacchio                      - A cercar di voi per parte di quelle donne, e dirvi come...

Fabrizio                         - Non più, non più, piglia questo anello; odi, egli debbe valere parecchi decine di scudi, e va' a Pippo pollaiuolo, e digli che per questa sera ordini un convito a trenta persone, onorevole e suntuoso il più che sia possibile per in casa Luc'Antonio Palermini: hai tu inteso?

Bozzacchio                   - Benissimo.

Fabrizio                         - E nel venirtene fa la via da casa di Taddeo, e fa intendere a lui e alla brigata che stasera venghino alle nozze.

Bozzacchio                   - A quali nozze?

Fabrizio                         - Basta, e' t'intenderanno; e dopo vattene in Borgo San Lorenzo, e all'osteria della Campana domanda di Giuseppe da Genova, e per parte di monna Oretta sua padrona lo mena teco in casa Luc'Antonio, dove io sarò. Terrai tu a mente?

Bozzacchio                   - Sì, terrò bene.

Fabrizio                         - Orsù, intanto che io vo a fare un'altra faccenda, licenzia tu questi gentiluomini, a fine che più non stiano a disagio.

Bozzacchio                   - Voi avete inteso, nobilissimi ascoltatori: altro non vi so dire, se non che io ho a tener a mente una lunga filastrocca, e dare una gran giravolta; e perché qui è fornito ogni cosa, siate licenziati. E romoreggiando fate segno d'allegrezza.

FINE