La tua carne

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LA TUA CARNE

Commedia in tre atti

di ENRICO BASSANO

                                   

PERSONAGGI

SILVIA

GUSTAVO

MARIO

LA MADRE

ILSE

Commedia formattata da

 

ATTO PRIMO

 Una scena eguale per tutt'e tre gli atti. Tinello arredato con gusto borghese. Tavolo, sedie, poltrone, una « consolle », quadri. A muro, un citofono, che comunica direttamente con la bottega dì orefice aperta al pianterreno della casa. Un telefono con esterno. A destra la porta che attraverso un brevissimo corridoio immette all'ingresso dell'appartamento. A sinistra due porte: una immette, anc­ora attraverso un breve corridoio, alla porta di una camera da letto. All'aprirsi del sipario è in scena Silvia; seduta accanto al tavolo, lavora d'ago. Un breve silenzio. Poi entra Ilse sinistra: ha un soprabito leggero sul braccio; sorregge una grossa valigia che depone davanti a Silvia).

Silvia                               - (alzando il capo) Sei pronta?

Ilse                                   - (parla con accento straniero) Sì, signora.

Silvia                               -  Decisa, dunque?

Ilse                                   -  Sì, signora.

Silvia                               -  Va bene. (Pausa) Nessuno può trattenerti. Vorrei chiederti però ancora una volta se ti rendi esattamente conto dì quanto stai facendo... Nel tuo interesse, intendo.

Ilse                                   -  Ho ragionato abbastanza, signora.

Silvia                               -  E puoi ripetermi che lasci questa casa nella quale, per due anni, sei stata trattata, credo, nel più umano dei modi - senza un motivo preciso, senza una ragione plausibile?...

Ilse                                   -  Credo di averlo già fatto capire, il motivo...

Silvia                               -  Non è una ragione seria. Non si può ab­bandonare improvvisamente la casa che ti ha ospi­tato e le persone che ti hanno voluto bene e che ti hanno trattato - scusa, ma sono costretta a ricor­dartelo - benissimo, inventando a tua giustifica non so quale allusione ai doveri di riconoscenza, o che altro ancora...

Ilse                                   - (cercando di spiegarsi) Non è facile dire... Io so in me, molto precisamente... Io dico: non voglio abituarmi. Non posso. Non devo arrivare al giorno di non potermi più staccare... Capito?

Silvia                               -  Hai timore di affezionarti, insomma?

Ilse                                   -  Ecco.

Silvia                               -  Perché affezionarti a noi, a me e a mio marito, sarebbe un grave danno, per te?... Hai paura di questo?

Ilse                                   -  Non paura. Ma sento non necessario, come legame inutile...

Silvia                               -  E noi, che ci siamo abituati a te come ad una persona di famiglia? noi che avremmo po­tuto fare molto, per te?

Ilse                                   -  E' questo il motivo perché ho deciso. Unico motivo. Per me chiaro, sicuro...

Silvia                               -  E per noi soltanto un dolore, o, siamo ragionevoli, un dispiacere e una delusione di più... ,

Ilse                                   -  Anche per me, signora. Non creda... «

Silvia                               - (scattando) Ma allora?

Ilse                                   -  C'è una canzone che cantano i giovani del mio paese... Dice: « Stai attenta a non fare radi­ci! »... Capito?

Silvia                               -  Forse. Ma tu e ì giovani del tuo paese non siete certo felici, con simili programmi! Ci vo­gliono, Use, le radici. Dappertutto. A tutte le età.

Ilse                                   -  Non alla mia, signora. Io ho diciannove anni, sono fuori dalla mia casa da cinque, ho an­cora tanto tempo davanti a me...

Silvia                               -  Ma passarlo qui o altrove, il « tanto tempo », non è forse lo stesso? E qui tu eri alme­no sicura... Te l'abbiamo dimostrato... (Pausa: con sincera commozione) Ti ho trattata come una figlia...

Ilse                                   -  Questo. (Con forza non priva di una voluta durezza) Forse, in un'altra casa, con altro tratta­mento, non avrei cercato di andare...

Silvia                               - (con una sfumatura di sarcasmo) Ti sot­trai al nostro affetto, vero? Ti fa paura il sapere che qualcuno ti vuole bene, si dedica a te affettuo­samente...

Ilse                                   -  Questo, tutto questo. Mi dispiace tanto che lei, signora, non desideri capire...

Silvia                               -  Siete di un altro mondo, cara Use. Non ci intendiamo più. Se io, alla tua età, fossi stata sola, o quasi sola al mondo, e avessi trovato quello che tu hai trovato qui, da noi...

Ilse                                   -  Certo, signora. Capisco. Ma noi...

Silvia                               -  ...voi siete diversi. D'accordo. Voi fug­gite. Il bene vi fa paura. Vi sembra una prigione, una condanna, forse una disgrazia... E' vero. Non ci intendiamo. E' inutile discutere. Addio, Use.

Ilse                                   - (sollevando la valigia; sincera) Speravo tanto che la signora mi avrebbe congedata in altro modo... Anche a me fa male, forse più di quanto lei crede...

Silvia                               -  E' un male relativo. Domani non lo sen­tirai più.

Ilse                                   -  Non si può dire. Io ricorderò molto il bene che mi ha fatto la signora, e anche il signore. Avrò molta riconoscenza.

Silvia                               -  E... dove andrai?

Ilse                                   -  In altra città. Mi ha scritto una mia amica, è a Firenze. Là troverò lavoro.

Silvia                               -  Certamente. Hai molte qualità. Purché anche laggiù tu non trovi qualcuno che voglia il tuo bene...

Ilse                                   - (con amarezza) E' difficile essere capiti...

Silvia                               -  Probabilmente...

Ilse                                   - (accennando alla valigia) Debbo aprire?

Silvia                               -  Perché?

Ilse                                   -  Se la signora vuol vedere il contenuto...

Silvia                               -  Ma per quale motivo?

Ilse                                   -  Altre famiglie lo hanno fatto, quando sono andata via.

Silvia                               -  Bella prova di fiducia... No, Use, davvero non ci capiamo. Ma ti pare possibile che io possa sospettare di te, della tua onestà?

Ilse                                   - (improvvisamente commossa) Oh! signora... Sarebbe stato così bello!...

Silvia                               -  Che cosa bello?

Ilse                                   -  Rimanere qui, sempre, per sempre...

Silvia                               -  E chi ti manda via?

Ilse                                   -  Proprio questo, l'ho detto! Non è la mìa casa, questa, e lei non è persona della mia fami­glia... Si fa presto ad abituarsi ai comodi, al benes­sere, agli affetti... Ma tutto deve essere - come dire? - sul piano delle cose possibili, delle cose reali... Lei è la padrona, io la persona che serve... Ci sarà sempre questo alto e basso...

Silvia                               - (con una franca risata) Alto e basso?

Ilse                                   -  Non so come dire meglio...

Silvia                               -  Va benissimo. Ma un giorno io ti ho pure accennato a qualcosa... Ricordi? Siamo soli, senza figli, noi. Io non so adattarmi al pensiero di re­stare priva di una creatura alla quale offrire il mio affetto, dalla quale avere la mia porzione di bene... Ricordi?

Ilse                                   - (con intensità) Certo. (Semplice) E' da al­lora che ho decìso di andare via.

Silvia                               -  Da allora?

Ilse                                   - (ferma) Sì.

Silvia                               -  Per le ragioni che mi hai ripetuto poco fa?

Ilse                                   - (c.s.) Quelle.

Silvia                               - (con il tono di voce di chi vuol troncare la conversazione) Va bene. Allora, certo, non ab­biamo altro da dirci. (Alzandosi, tende la mano ad Use) Buona fortuna. Se vorrai qualche volta ricor­darti di noi... Se ritornerai in questa città...

Ilse                                   - (con evidente sforzo per trattenere l'emozione) Grazie di tutto, signora. Grazie anche per quello che avrebbe voluto darmi. Mi perdoni se qualche volta ho mancato. Io mi ricorderò sempre di lei... (Un gesto di dubbio) Credo dovrei passare a salu­tare il signore, giù in negozio...

Silvia                               -  Lascia stare. Te lo saluterò io. Fra poco salirà a prendere il tè...

Ilse                                   -  Che testa sventata, non ho pensato che avrei dovuto rimanere per servire il tè ancora oggi, come ogni giorno...

Silvia                               -  Hai il treno. Non importa. Lo servirò io. Addio.

Ilse                                   - (solleva la valigia, s'avvia. Titubante) Spero non resti cattivo ricordo di me... (Esce da destra).

Silvia                               - (non ha avuto la forza di seguirla. Resta un istante immobile, assorta. Poi va al citofono in­terno che comunica col negozio) Sei tu, Gusta­vo?... No, nulla... Volevo solo dirti che Use è uscita in questo momento... No, certo... stai tranquillo... Non era possibile altrimenti... Sicuro, la sua volon­tà... Le ragioni già dette, o press'a poco... Niente di nuovo. Vieni su? Grazie. Preparo il tè. Certo... (Incomincia ad apparecchiare per il tè. Esce da sinistra un istante e rientra con l'occorrente. E' evidente in lei lo sforzo di volontà per frenare un certo orgasmo. Giunge il colpo secco della porta di casa richiusa da Gustavo).

Gustavo                           - (entra da destra; indossa una giacca nera di alpagas, quella del negozio) Eccomi qui. (Si ferma un istante, guarda fissamente Silvia, poi volge lo sguardo attorno) Andata. La soluzione più semplice e sicura. Non potevamo aspettarci altro.

Silvia                               -  Certamente.

Gustavo                           -  Ma a te, tutto questo addolora. Si vede. Lo hai scritto in viso. Negli occhi. Anche sulle labbra.

Silvia                               -  Passerà presto.

Gustavo                           - Speriamo.

Silvia                               -  Ora ti servo il tè.

 

Gustavo                           - Grazie. Erano due anni, sai, che non lo servivi tu...

Silvia                               -  Ti sono grata di ricordarlo...

Gustavo                           - Ecco un primo vantaggio... Per me, al­meno. Ora però dovrai cercare subito qualche altra...

Silvia                               -  Per carità...

Gustavo                           - Ma come? Vorresti caricarti di tanto lavoro? E perché, poi?

Silvia                               -  Ne prenderemo una a giornata.

Gustavo                           - Non è possibile. (Con un sorriso) Pas­sano gli anni...

Silvia                               -  Protesto. Siamo giovani. Io mi sento an­cora giovane.

Gustavo                           - Naturalmente. Abbiamo la stessa età, ma tu sei molto più giovane di me.

Silvia                               -  Oggi un po' meno. (Pausa) Sai, franca­mente, non me l'aspettavo. Ho sempre sperato...

Gustavo                           - Io invece ne ero certo. Ed ho anche cercato di prepararti, ricordi? Si capiva: da molte cose.

Silvia                               -  Ma tutti i giovani saranno fatti così, oggi?

Gustavo                           - Ragionano molto. Forse troppo. Niente più li incanta.

Silvia                               -  Posso servire?

Gustavo                           - Grazie. (Continuando) Io li osservo e li studio ad un banco di prova molto interessante: quello del negozio. Una volta, quando disponevo davanti agli occhi delle giovani i « plateaux » dei braccialetti, delle collane, degli anelli, sorprendevo nei loro gesti, nei loro sguardi, improvvise reazioni di stupore, di gioia, di candido smarrimento... Die­tro di loro erano i genitori, o un fidanzato, o un marito, o anche un amante... E prima di scegliere, prima di andare con lo sguardo alla ricerca dell'og­getto desiderato, quelle giovani donne o fanciulle, si volgevano a chi le accompagnava, quasi a chie­dere il consenso della scelta, o in muto ringrazia­mento preventivo... Bada, non è facile letteratura, tutto questo. E' frutto di osservazione in oltre vent'anni di lavoro. Non m'inganno, certo era così. Ora... Tutto diverso. Le loro mani non tremano più, nell'additare l'oggetto scelto, di solito il più caro, il più consistente. Gesti decisi, scelte a fred­do, calcoli...

Silvia                               -  lise non era certo calcolatrice...

Gustavo                           - Lo vedi? Io cerco di distrarti, tu ritorni sempre al pensiero di Use. Parliamone pure, se vuoi...

Silvia                               -  No, cancelliamone invece ogni traccia, ogni ricordo.

Gustavo                           - Vuoi ti dica il mio pensiero? Io sono più tranquillo adesso. Sentivo che qualcosa non funzionava, in questa faccenda... Si può adottare una creatura nata da poco, non formata alla vita. Sì può « inventare » una maternità, o una paternità, quando la carne non ha ancora uno stampo, quan­do un carattere è ancora allo stato embrionale... Ma dopo, quando la vita ha già una forma, quando i segni dell'esistenza hanno già lasciato un solco, nulla è più possibile. Use è dì questo che ha avuto paura, intuendo chiaramente quella che sarebbe stata la sua infelicità di domani.

Silvia                               -  Infelice, poi.

Gustavo                           - Certo. Infelice perché ad un posto non suo, in una posizione sociale e umana che non le appartiene... Tu sola potevi illuderti. Tu che hai offerto la vita due volte, per avere un figlio... In te, Silvia, tutto è accettabile. Ogni tentativo, ogni speranza, tuoi, sono umanamente compren­sibili.

Silvia                               -  Dovevamo pensarci subito, quando era­vamo ancora in tempo.

Gustavo                           - Te lo proposi. E non una volta sola. Ricordi quella mattina di domenica, che uscimmo per recarci al Nido? Eravamo pure decisi. Poi...

Silvia                               -  Sì, lo so. Ti pregai di tornare indietro. M'assalì un tremore, come di febbre. Un avverti­mento oscuro...

Gustavo                           - (accarezzandole i capelli) Su, possibile che non si riesca ormai di sorpassare tutto questo, di non pensare più a questi figli non nati? Possi­bile che si debba vivere sempre con questa trage­dia sospesa sulla nostra casa? Io ti prego, ancora una volta, di uscire definitivamente da questa spe­cie di incubo, da questa fissazione...

Silvia                               -  Oh! una fissata, poi...

Gustavo                           - Certo, cara. Si possono trasformare in fissazioni anche i pensieri migliori, anche i desi­deri più limpidi e sicuri. (Pausa) Ecco: è bastata l'andata via di lise... Vuol dire che la tua è una ferita che non si cicatrizza...

Silvia                               -  Hai detto ora che i miei sentimenti sono comprensibili, accettabili...

Gustavo                           - Finché non danneggiano il nostro equi­librio, i tuoi nervi, infine la tua salute.

Silvia                               -  Sto bene. Tutto è passato. Di Use can­cellerò ogni ricordo. Incominciamo subito. (Va alla parete, stacca un quadretto) Il suo augurio di Na­tale dell'anno scorso, ricamato a « punto-croce », sul canovaccio, come usa al suo paese... Via, per la stufa... (Esce).

Gustavo                           - (segue con lo sguardo Silvia: poi tenten­nando il capo, si scosta dalla tavola dove è stato servito il tè; con tono di voce più alto, a Silvia, che ancora non è apparsa) Ora scendo giù, Silvia, in negozio. Non c'è ombra dì cliente, ma preferisco essere giù... Tu dovresti uscire un poco. Va a tro­vare qualche tua conoscente, fa qualche compera... Esci. Non voglio saperti qui, tra la camera di Use e la cucina...

Voce di

Silvia                               -  Vedrò, poi. Se ne avrò voglia. Ora ho qualcosa da fare. (Squilla il citofono in­terno).

Gustavo                           - (va all'apparecchio) Perché mi cercano? Lo sanno che a quest'ora... (Al microfono) Pronto? che c'è... (Pausa) Ma è lei, Sandri? Non gridi! Parli più chiaro e più calmo, non capisco nulla... (Pausa) Che cosa? (Con tono di voce concitato) ... Dal cam­biavalute? Ma come?... Adesso?... Sì, sì, scendo subito...

Silvia                               - (affacciandosi da sinistra, richiamata dalle battute di Gustavo) Che cosa succede?

 

Gustavo                           - (con evidente orgasmo, cercando di non al­larmarla) Niente... Pare sia entrato qualcuno da Mauri, il cambiavalute e che... (Accenna ad uscire).

Silvia                               -  Perché devi scendere, proprio ora?

Gustavo                           - Vado a vedere di che si tratta. Sandri non mi sa dire abbastanza... Balbetta... non ha quasi più fiato...

Silvia                               -  Non farmi stare in pena...

Gustavo                           - (avviandosi a destra) Tra poco ti chia­mo, ti dirò che cosa è avvenuto...

Silvia                               -  Stai attento, non impicciarti... E lascia la porta di casa aperta: voglio sentire...

Gustavo                           - Stai calma. Ti chiamo. (Via. All'uscita di Gustavo, Silvia, dopo un istante di attesa, si av­vicina al citofono, pronta a prendere la comunica­zione. Giunge improvviso il rumore secco della porta di casa richiusa).

Silvia                               - (trasalendo) Gustavo, sei tu? Gustavo! (Si avvia verso l'uscita di destra. Mario appare da destra: giovanissimo, biondiccio, calzoni all'ameri­cana, camicia a scacconi, una pistola in pugno, con l'altra mano un gesto perentorio: silenzio! Un grido soffocato, portando le mani alla bocca per non urlare).

Mario                               - (trema anch'egli, ma compie ogni sforzo per tentare la salvezza) Stia zitta. Se grida, se chiama aiuto, sparo. (Pausa) Non voglio farle del male. Mi aiuti. Mi nasconda. Da qualche parte, dove vuole. Nessuno mi ha visto entrare qui...

Silvia                               - (balbettando) Per le scale... mio marito è uscito adesso...

Mario                               - (rinfrancato) Ero sopra. Sono salito fino all'ultimo piano. Poi son ridisceso. Ho visto questa porta aperta...

Silvia                               -  Ma che ha fatto? Che cosa è successo?

Mario                               -  Mi sono lasciato convincere, da due miei amici... Io non volevo, mi creda. Loro sono stati...

Silvia                               -  Dal cambiavalute?

Mario                               -  Sì. Ma io non sono nemmeno entrato. Mi hanno lasciato fuori, mentre loro...

Silvia                               -  Hanno sparato? Hanno ucciso?

Mario                               -  No, macché. Non so nemmeno com'è an­data. Li ho visti soltanto scappare, inseguiti...

Silvia                               -  E lei?

Mario                               -  Ho infilato il primo portone, mentre ac­correva altra gente. Nessuno mi ha visto. (Riaffer­rato dalla paura) Mi nasconda, per carità. (Con la voce rotta dal pianto) Mi salvi. E' la prima volta. Lo giuro.

Silvia                               -  Ma come posso...?

Mario                               -  E' sola in casa?

Silvia                               -  Sì. (Correggendosi) No. Tra poco salirà mio marito. Ha il negozio accanto al banco cambio.

Mario                               -  L'orefice?

Silvia                               -  Sì.

Mario                               -  Mi nasconda in qualche camera, magari in un armadio. Finché avranno smesso di cercare qui intorno. Speriamo che non abbiano preso i miei compagni, sennò quelli parlano e fanno anche il mio nome...

Silvia                               - (guardandosi attorno smarrita) E se la trovano qui da me?

Mario                               -  Non mi ha visto nessuno. Come vuole pensino ch'io sia riuscito a entrare qui?

Silvia                               - (c.s.) E mio marito? Non posso certo na­sconderlo anche a lui...

Mario                               -  Lo convinca. Gli dica che io non ho colpa, che mi hanno trascinato i compagni... Abbiamo fatto una grossa sciocchezza, niente altro. Ne vuole una prova? Guardi qui: questa non è una rivol­tella vera. E' un giocattolo, uno scacciacani, di quelli che portano i ciclisti per levarsi dalle ruote i cani delle cascine...

Silvia                               - (sorpresa) Davvero? E anche i suoi com­pagni...

Mario                               -  No. Loro sono armati sul serio. Hanno anche il mitra. Io ho dovuto accontentarmi, non c'era altro, al covo...

Silvia                               -  Quale covo?

Mario                               -  Niente. Chiamiamo così un'osteria dove ci riuniamo, alla sera...

Silvia                               -  Insomma, siete dei banditi...

Mario                               -  Eh! Sì! Ci vuole altro. Non ha visto come ci siamo lasciati mettere nel sacco? E' bastato che quella faccia da scema si affacciasse sulla porta del negozio, urlando come una gallina sgozzata, perché tutto andasse a rotoli...

Silvia                               -  Ma se andava bene?...

Mario                               -  (sincero) Eh! Allora!

Silvia                               -  Vede? Anche lei ne avrebbe approfittato...

Mario                               -  La mia parte, si capisce. Ma sa che cosa mi avrebbero dato? Una manciata di quei biglietti stranieri che tengono in vetrina. E per cambiarli? C'è da farsi beccare solo a portarli in tasca. Si figuri metterli sul piano dello sportello di una banca!

Silvia                               -  Ma allora perché è andato con loro?

Mario                               -  Tanto per cominciare. Bisogna farsi le ossa.

Silvia                               -  E non ha trovato niente di meglio...

Mario                               -  (facendo spallucce) Coi tempi che cor­rono...

Silvia                               -  Ma la sua famiglia? Sua madre?

Mario                               -  Non sto con la famiglia.

Silvia                               -  Sua madre...

Mario                               -  Eh! Non la vedo da un anno... Sta con un altro uomo...

Silvia                               -  Ma lei quanti anni ha?

Mario                               -  (titubante) Quasi... diciotto...

Silvia                               -  Avrei detto meno. Sembra un ragazzo.

Mario                               -  Bisogna far presto a diventare uomini. Sennò si resta indietro.

Silvia                               -  Indietro a chi?

Mario                               -  A tutti quelli che vanno più forte. Con le macchine, con le moto. Bisogna camminare svelti. Non lasciarsi seminare per la strada...

Silvia                               -  La vostra preoccupazione è tutta qui?

Mario                               -  E non le pare che basti?

Silvia                               -  Ha studiato?

Mario                               -  Un po'. Ma poi non ne ho avuto più voglia. Mi sono messo a lavorare...

Silvia                               -  Vedo. E ora non ha avuto una lezione sufficiente?

Mario                               -  Se lei mi tiene qui, se mi salva, certo, può bastarmi. Ho capito molte cose. Ma se lei invece mi lascia prendere, anzi « catturare », come scri­vono sui giornali, quasi fossimo bestie feroci, io so quello che succederà. So che là dentro, impa­rerò quello che non so ancora. E quando uscirò non avrò più altra strada. La scelta del mio avve­nire la farò là dentro.

Silvia                               -  Vuol creare un caso di coscienza anche a me?

Mario                               -  Sono sincero. Ormai non posso più nem­meno fingere.

Silvia                               -  Sentiremo mio marito. Ora lo chiamo. (Si avvicina al citofono).

Mario                               -  E se mi butta fuori?

Silvia                               -  E' un uomo tanto buono. Non posso ga­rantire, ma direi...

Mario                               -  Ma sì, lo chiami! Tanto è meglio che io sappia subito quello che mi aspetta. (Un'idea im­provvisa) E se provassi invece a uscire subito?

Silvia                               - (sincera) No, non lo faccia... Aspetti un po'. (Al citofono) Sì, Gustavo... Sono io. Sentì, puoi venire su subito? No, nessuna paura. Solo avrei bisogno di dirti al più presto una cosa... No, non così... Vieni, te ne prego... Grazie.

Mario                               -  Che cosa ha detto?

Silvia                               -  Viene subito.

Mario                               -  (evidentemente impensierito) Resto qui?

Silvia                               - (sorridendo) E dove vorrebbe andare?

Mario                               -  Già. (Imbarazzato, toglie la rivoltella di tasca e la mette sul tavolo) Questa la metto qui, perché si accorga subito che non ho cattive in­tenzioni.

Silvia                               -  A me, però, ha fatto paura.

Mario                               -  Per forza. Dovevo impedirle di gridare...

Silvia                               - (con semplicità) Strano, si direbbe che lei consideri tutto quanto è accaduto come fosse un gioco...

Mario                               -  (con importanza) Altro che gioco! Se i miei compagni sparavano? Se ci prendevano tutti? Lo sa che potevamo essere linciati, giù, in mezzo alla strada?... Hanno preso questa bella abitudine, adesso. Se ci lasciamo venire la gente addosso, ci pestano come il sale, e tirano anche a farci fuori... Le peggiori sono le donne: con le unghie e con i denti... (Rumore della porta d'ingresso, aperta e chiusa. Entra Gustavo).

Gustavo                           - (stupito della presenza di Mario) Ecco­mi. Chi è?

Silvia                               - (allargando le braccia) Uno dei tre...

Gustavo                           - Quali tre?

Silvia                               -  Quelli del cambiavalute...

Gustavo                           - (allarmatissimo) Cosa dici? (Si guarda attorno, vede la rivoltella sul tavolo) E questa?

Silvia                               -  Sua.

Gustavo                           - (afferrandola e puntandola su Mario) Guai a te se...

Mario                               -  (calmo, quasi sorridente) Non spara mica, sa. La guardi bene. E' un giocattolo...

Gustavo                           - (osservando) Già. E vorresti farmi cre­dere che è con questa...

Mario                               -  Non ne ho altra. Mi guardi pure. Mi per­quisisca...

Gustavo                           - (a Silvia) Ma come è qui?

Silvia                               -  E' entrato poco dopo di te. Era su per le scale. Mi è arrivato qui con la rivoltella spianata...

Mario                               -  Non spara.

Silvia                               -  Io non lo sapevo. Mi ha scongiurata di nasconderlo, di salvarlo...

Gustavo                           - Ma sei pazza? Dovevi chiamarmi subi­to! (A Mario) Bada sai, io non sono più giovane, ma sono capace di farti vedere... (Afferra una se­dia) Se muovi un passo...

Mario                               -  E chi si muove? Io ho detto tutto alla signora. Tutta la verità. Ho chiesto pietà perché è la prima volta, lo giuro, e non voglio andare in galera...

Gustavo                           - Storie. I due che sono entrati dal cam­biavalute sapevano benissimo quello che facevano...

Mario                               -  Li hanno presi?

Gustavo                           - Scappati come lepri. Senza toccare un soldo, per fortuna.

Mario                               -  Ci ho gusto!

Gustavo                           - E tu? Dov'eri?

Mario                               -  Fuori.

Gustavo                           - A fare il palo?

Mario                               -  Ecco.

Gustavo                           - Con questa sciocchezza in mano?

Mario                               -  In tasca. L'ho tirata fuori solo per le scale.

Gustavo                           - Per fare paura a lei?

Mario                               -  A qualcuno. Per nascondermi.

Gustavo                           - Ma si sono accorti di te?

Mario                               -  No, non credo.

Gustavo                           - E poi?

Mario                               -  Quando ho sentito gridare quell'oca di ragazza, e ho visto i miei due compagni uscir fuori e scappare...

Gustavo                           - Sei scappato anche tu. Tutto chiaro. (A Silvia) E ora?

Silvia                               -  Non so. Fai tu.

Gustavo                           - A noi doveva capitare. Ma perché sei venuto proprio nei piedi a noi.

Mario                               -  Sa, non c'era tempo per scegliere...

Gustavo                           - (avvicinandoglisi) Si può sapere quanti anni hai? Precisi, tanto...

Mario                               -  Diciassette, quasi diciotto.

Silvia                               -  Ha studiato un po', dice... Non vive con la famiglia...

Gustavo                           - Sì, lo so, le solite storie. Scommetto che con i tuoi genitori non vai d'accordo...

Mario                               -  Mio padre non l'ho quasi conosciuto. E mia madre... Be', mia madre vive per conto suo. Non posso dire quello che fa. Mi vergogno...

Gustavo                           - Roba da « fumetti ».

Mario                               -  (schietto) Non sempre. D'altra parte i « fumetti » dove li pescano?

Gustavo                           - (pausa) Insomma qui bisogna prendere una decisione.

Mario                               -  Senta. Io capisco benissimo che un uomo come lei, in una situazione come questa, non avrebbe altro da fare che chiamare la polizia...

Gustavo                           - Direi anch'io.

Mario                               -  Però, se lei volesse considerare il mio caso a parte...

 

Gustavo                           - Un caso specialissimo, il tuo?

Mario                               -  Se vuole credermi... alla signora ho appe­na accennato...

Gustavo                           - (a Silvia che tenta parlare) Lascia an­dare. Da questa gente, a dargli corda, se ne sen­tono delle belle.

Mario                               -  Può informarsi.

Gustavo                           - Adesso mi metterò a fare il detective per sapere qualcosa di un tale che mi è arrivato in casa dopo un colpo andato a male, con la pi­stola puntata e magari con l'idea di fare a me e a mia moglie la festa stanotte, mentre dormiamo...

Silvia                               -  Gustavo!

Gustavo                           - Zitta, tu.

Mario                               -  (sincero) Se la pensa proprio così, allora ha ragione lei. Anzi, non le resta altro da fare che chiamare la polizia. Basta un colpo di telefono. O chiamare qualcuno dalla finestra... Ma se volesse credermi un po', un po' soltanto... Sa, è proprio la prima volta. E poi, guardi, sono sincero: quei due ch'erano entrati nel negozio del cambiavalute, nean­che lo sapevano che io ero fuori a fare il palo...

Gustavo                           - Non lo sapevano? Ma se eravate in­sieme!

Mario                               -  (quasi con rammarico) Non mi hanno Voluto con loro... Io conoscevo tutto il loro piano, perché lo hanno combinato in mia presenza, nel « covo »...

Gustavo                           - Che covo?

Mario                               -  La bottiglieria del Pin, alle Tre Vie-Quella sull'angolo, con l'insegna rossa, la conosce?

Gustavo                           - Sì, mi pare...

Mario                               -  E' antica, ci vanno anche i pittori.

Gustavo                           - In buona compagnia.

Mario                               -  Loro stanno in un'altra sala. Bene. I miei compagni hanno combinato tutto là. Di me si sono serviti soltanto per mandarmi a fare qualche ri­lievo, e a studiare le abitudini del cambiavalute. Io ho fatto tutto bene, ho portato notizie impor­tanti, come quella del nipote del cambiavalute...

Gustavo                           - Il rossino?

Mario                               -  Eh! Quello: ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, arriva con la « seicento », e sosta da­vanti il negozio, ostruendo il passaggio.

Gustavo                           - E' vero, l'ho notato anch'io. Volevo an­che protestare, è un abuso...

Mario                               -  Vede? Non invento niente. Bene, insomma, dopo tutto questo lavoro, e dopo che loro due sono entrati, a turno, diverse volte nella bottega per studiare l'interno, decidono il giorno e l'ora, e a me, a me cosa dicono? Dicono: tu sei un ragazzo, non fai più bisogno.

Gustavo                           - Giusto. E tu?

Mario                               -  E io decido di venirci lo stesso.

Gustavo                           - A loro insaputa?

Mario                               -  Si capisce. Ormai ero della partita, no? Tanto valeva rischiare con loro.

Gustavo                           - Ma non ti avrebbero dato un soldo!

Mario                               -  Eh! lo so. Ma per me era come un...

Gustavo                           - ... un gioco, vero?

Silvia                               -  Ecco: come un gioco...

Mario                               -  Li ho preceduti di una buona mezz'ora, li ho visti arrivare, mi sono messo fuori a fare il « palo » di mia iniziativa. Per questo, anziché un'ar­ma vera, avevo un giocattolo come quello... Il resto, lo sa. Quando tutto è andato all'aria, mi sono spa­ventato come se davvero fossi stato della banda, sono scappato anch'io, non so perché, non so come... Poi sono arrivato qui. Ecco.

Silvia                               - (commossa) Gustavo, se è così...

Gustavo                           - Ma come si fa a credere a una storia come questa? E' roba dell'altro mondo!

Mario                               -  Lo capisco anch'io. Però può controllare...

Gustavo                           - Che cosa?

Mario                               -  Sapere chi sono, domandare al signor Pino...

Gustavo                           - Chi è?

Mario                               -  Il padrone dell'osteria delle Tre Vie. Mi conosce bene. Sa della mia famiglia.

Gustavo                           - Ma se le cose stanno come tu le hai raccontate, puoi benissimo uscirtene di qui, andare dove vuoi... Il gioco, direi, è finito. Nessuno ti cerca. Non hai conti da rendere alla giustizia. Sei libero di circolare.

Mario                               -  Già. Ma io ho paura di loro, adesso.

Gustavo                           - Di loro chi?

Mario                               -  Dei miei due compagni. Mi hanno visto, scappando. Ora lo sanno che ero lì fuori, mentre loro lavoravano dentro. Possono incolparmi della cilecca che hanno fatto... Mi avevano proibito di avvicinarmi...

Silvia                               - (a Gustavo) Per qualche giorno, il tempo di far dimenticare...

Gustavo                           - (a Mario) Senti, che avvocato?

Mario                               -  Signora... Non darò alcun fastidio. Se loro hanno una cameretta, un bugigattolo qualunque, un sottoscala, mi chiudono là dentro, anche a chiave...

Gustavo                           - Senza mangiare?...

Mario                               -  (con uno slancio quasi ilare) Ho una fame!

Gustavo                           - (a Silvia) Capisci? Ha anche fame.

Silvia                               -  Pov... (Un'occhiata di Gustavo le tronca la parola) Insomma, che cosa decidi?

Gustavo                           - E tu? (Prima che Silvia risponda, rivol­gendosi a Mario) Tu l'hai bell'e capito come siamo noi due. Noi due...

Mario                               -  (afferrando una mano di Silvia, e portando­sela alle labbra) Sono due brave persone, di cuore. Io non saprò mai come ringraziarli... (Silvia non riesce a trattenere le lacrime, esce rapidamen­te. Lungo silenzio imbarazzante).

Gustavo                           - Siedi. (Offrendo) Una sigaretta?

Mario                               -  (siede, accetta) Grazie. (Aspira con avi­dità la prima boccata di fumo).

Gustavo                           - Ora dobbiamo un po' discorrere tra noi due, mentre lei è di là. Da uomo ad uomo, va bene?

Mario                               -  Certo. Le dirò tutto quello che lei vorrà.

Gustavo                           - Ma bada bene: non sopporto l'inganno, la bugia, il tradimento. Sono un uomo semplice, voglio vedere davanti a me sempre strade spianate, e niente ombre sul cammino. Chiarezza a qualun­que costo.

Mario                               -  Bene.

 

Gustavo                           - Non ho la minima idea di quanto potrà accadere dalla tua presenza qui, tra noi. Ti ci tengo perché... Insomma, lo capisci, lo saprai da te. Io e mia moglie siamo soli. L'essere soli non è mai una difesa. Si è più esposti degli altri. Per questo. (Tra sé) Una volta entrò in casa un passero ferito a un'ala... (Riprendendosi) Raccontami qualcosa di te...

Mario                               -  Ho diciassett'anni compiuti...

Gustavo                           - Già detto. (Avvicinando la sua sedia a quella di Mario, bonario) Qualcos'altro. Avanti.

ATTO SECONDO

(Silvia, Gustavo e Mario stanno attorno al tavolo apparecchiato è l'ora della colazione).

Mario                               -  (raccoglie con un mollicone di pane il sugo di una pietanza. Silvia e Gustavo lo osservano, chiaramente commosso l'avidità e la golosità sod­disfatte del ragazzo fanno « spettacolo » toccante. Dopo di avere inghiottito il boccone, s'accorge dell'attenzione destata, e assume un atteggiamento di sincera compunzione) Mi scusino... Lo so che questo non si fa... E' che...

Silvia                               -  ... E' che hai appetito e che il mio stu­fato ti è piaciuto!

Mario                               -  (sincero, infantile) Non avevo mai man­giato una pietanza così buona! La carne mi piace tanto...

Silvia                               -  Strano, di solito ai ragazzi non va molto, per mandarla giù fanno tante storie...

Gustavo                           - Gli altri, forse.

Mario                               -  Sa, non è che quand'ero bambino ne pas­sasse molta, di carne, in casa mia... La domenica, e poca...

Silvia                               -  Ed eravate solo in tre...

Mario                               -  Già. Prima che morisse mio padre. Poi, dopo, più difficile ancora.

Gustavo                           - (con l'evidente disegno di allontanare Ma­rio da certi pensieri) Insomma, ne mangeresti ancora un po'?

Mario                               -  (schietto) Sì, grazie!

Silvia                               - (servendolo) Eccolo qui. (Lunga pausa; Mario mangia pienamente soddisfatto; Gustavo e Silvia lo osservano di sottecchi).

Mario                               -  (finisce per rendersi conto di aver fatto at­tendere, innanzi ai piatti vuoti, Silvia e Gustavo) Oh! Mi scusino.

Gustavo                           - Non c'è fretta.

Silvia                               -  Ancora un po'?

Mario                               -  Ah! no, grazie, davvero. (Silvia si alza, toglie i piatti, li porta in cucina. A Gustavo) Capi­sco di dare tanto disturbo alla signora.

Gustavo                           - Non vuole una domestica nuova. Con quella ch'è andata via ha avuto... ecco, una delu­sione, e così, ora...

Mario                               -  Delusione?

Gustavo                           - Già. Se n'è andata malamente.

Mario                               -  (facendo il gesto con la mano) Capito: grattava...

Gustavo                           - Nooo! Una brava ragazza... (Alla battuta, un attimo di incertezza tra i due. Continuan­do) Altre faccende.

Mario                               -  Capisco. Forse avrà trovato un posto dove la pagano di più...

Gustavo                           - (per abbandonare il tema) Ecco, pro­babilmente.

Mario                               -  Non si è mai contenti. Pare impossibile, quand'uno ha un posto buono, se lo gioca per niente, per una sciocchezza, per un capriccio... (Pausa) A me pare che se mi fosse capitato un buon impiego, non me lo sarei lasciato scappare... Ma non l'ho mai trovato...

Gustavo                           - Impiego... come? In che qualità?

Mario                               -  Già. Di serio, proprio di serio, non so fare niente... Poi tutti dicono: devi ancora fare il sol­dato...

Gustavo                           - Ma tu, con la madre sola, non lo farai...

Mario                               -  Forse sarà così. Comunque, un mestiere non ce l'ho. Questo è il guaio. Se potessi ancora impararne uno...

Gustavo                           - Tutto è possibile. Questione di volontà.

Silvia                               - (rientra con la frutta che depone in mezzo al tavolo) Servitevi. (Gustavo si serve).

Mario                               -  (accennando a prendere un frutto) Posso?

Silvia                               -  Ma certo. Una banana?

Mario                               -  Sì, grazie. Ne sono ghiotto... Ogni volta che ne mangio una, mi ricordo di un fatto. Mangiai la prima che avevo già una diecina d'anni. Me la portò a casa mia madre. Non la volevo. La feci ar­rabbiare. Il primo boccone lo sputai. S'arrabbiò davvero, mi costrinse a mangiarla tutta, dicendo che nutriva, che faceva bene... Io ero magrolino, sempre con qualche malannetto addosso...

Gustavo                           - Poi ti piacquero.

Mario                               -  Già. Ne feci anche indigestione, parecchie volte.

Silvia                               -  Succede così. Ho letto da qualche parte, nei « consigli medici », che è un frutto molto nu­triente, e adatto ai bambini. Se io avessi avuto un bambino...

Gustavo                           - (quasi a interromperla) Signora padro­na, possiamo sperare in un buon caffè?...

Silvia                               - (alzandosi) Certo. Lasciatemi sparecchia­re un po'...

Mario                               -  (imitandola) Se permette...

Gustavo                           - Ti ho già detto che non voglio vederti fare queste cose...

Mario                               -  Aiuto un po' la signora... Mi diverto, sa? Dal Pin, alla domenica, quando c'è tanta gente, qualche volta aiuto a servire... Mi sdebito... Sa, spesso ho degli arretrati... (Via con piatti).

Silvia                               - (sottovoce) Lo vedi? Com'è servizievole e gentile... Ha rassettato anche la sua camera, in queste prime due mattine...

Gustavo                           - Sfido. Non ha altro da fare.

Silvia                               -  Fa giocare anche te.

Gustavo                           - E che cosa dobbiamo fare, dopo cena? Andare a spasso insieme, sottobraccio, io e luì, o tutt'e tre, lui nel mezzo, a prendere il gelato in Galleria? Bel terzetto!

Mario                               -  (rientrando, a Gustavo, invitandolo al gioco) La battaglia, vuole?

 

Gustavo                           - E battagliamo. (Mario aiuta Silvia a sparecchiare; quando la tavola e sgombra, prende da un mobile alcuni fogli di carta, due matite, met­te ogni cosa dinanzi a Gustavo, e siede di fronte a lui. Silvia esce).

Mario                               -  I due « campì » sono già preparati. Li ho fatti oggi.

Gustavo                           - Bene. (Offre una sigaretta, accendono. Osservando il suo foglio) Ma che cos'è questo? Non è più la « battaglia navale »?

Mario                               -  Sa, per cambiare un po'... (Trionfante) Ho inventato un gioco nuovo!

Gustavo                           - Ma guarda! E come sarebbe?

Mario                               -  Ecco. Anziché due campì di battaglia, queste sono le piante di due... di due ambienti, due uffici, due luoghi dove si lavora, e si custodisce denaro... Ci dev'essere anche una cassaforte, a muro o al centro della camera... Bisogna che ognu­no stabilisca dove mette la propria... Il gioco sta...

Gustavo                           - (interrompendolo) ... nell'arrivare primo alla cassaforte!

Mario                               -  (soddisfatto) Ecco. Proprio così... Chi pri­ma arriva...

Gustavo                           - (come tra sé) Ho capito. Un gioco per questi tempi...

Mario                               -  (cercando di riprendere il foglio di Gustavo) Se ho sbagliato... Sa, non volevo...

Gustavo                           - Lascia stare. Ci vuole altro. Hai ragione tu. In fondo, anche la « mosca cieca », oggi, dovreb­be rinnovarsi: chi è bendato, anziché correre il rischio di afferrare l'aria o dare una zuccata con­tro un albero, dovrebbe avere sotto i passi un pre­cipizio... Più emozionante, insomma. Liquori più forti. Palati più agguerriti. E vediamo questo « gio­co ». Se sarà interessante, lo faremo brevettare. Va bene? Spiegazione.

Mario                               -  (prima titubante, poi pia sicuro, preso dalla « qualità » del gioco) Come ho detto, due « pian­te » di ambienti diversi... Una può essere quella della sala di una...

Gustavo                           - (con una sfumatura ironica) ... di una banca. Capito. L'altra?

Mario                               -  (senza rilevare il tono di ironia sfuggito a Gustavo) ...e l'altra, mettiamo, la direzione dì una grande azienda...

Gustavo                           - (c. s.) Perfetto. Poi ci si mettono due belle casseforti, addossate a un muro, alle spalle del direttore generale, o al centro, sotto gli occhi di tutti... O di lato... A scelta...

Mario                               -  Così. Poi...

Gustavo                           - Ecco, qui ti volevo. E poi, come pro­cede il gioco? Le sue regole?

Mario                               -  Come nella « battaglia navale ». Il lato orizzontale del campo contrassegnato coi numeri, quello verticale colle lettere. Uno ha la banca, l'al­tro l'ufficio. Chi ha compilato la pianta della banca se la tiene; lo stesso fa quello che ha ideato l'ufficio. Sì capisce che la compilazione deve essere fatta con... con onestà, ecco.

Gustavo                           - (ironico) Certo. L'onestà è la prima cosa. Ma in che senso?

Mario                               -  Così. Mettiamo che ogni lato dell'ambiente abbia almeno quindici quadretti, vuol dire che ogni ambiente è delimitato da sessanta quadretti-Lungo i quattro lati, complessivamente, se ne occu­pano, di quadretti, la metà: trenta.

Gustavo                           - (evidentemente preso d'interesse) Oc­cupati?

Mario                               -  Occupati: a gruppi, isolati, come si vuole.

Gustavo                           - Ma occupati da che?

Mario                               -  Da mobili, da oggetti... Armadi, scansie, divani, librerie...

Gustavo                           - Già! Comincio a capire!

Mario                               -  Ma il bello viene ora. A seconda della materia che logicamente compone l'oggetto o il mobile, o che altro, chi fa il « colpo »...

Gustavo                           - ... Il « colpo »?

Mario                               -  (senza avvertire il ritorno del tono ironico) E' penalizzato in base alla materia contro la quale ha fatto cilecca... Mi spiego?

Gustavo                           - (con la mano) Così così...

Mario                               -  Vediamo. Lei ha la banca. Io faccio il primo « colpo », dico: quadretti C-D-E-3. Muro libe­ro: un punto. Dico: 6-7-8-9-10-P. Porta: due punti...

Gustavo                           - ... di guadagno?

Mario                               -  Ma certo. Una porta di legno, cosa ci vuole ad aprirla?

Gustavo                           - Figurati un po'!

Mario                               -  Attento. Dico: D-8 e D-9. Cosa c'è?

Gustavo                           - Mah!

Mario                               -  (trionfante) Un armadio blindato!

Gustavo                           - Cribbio!

Mario                               -  Contro quello, tre punti di penalizzazione.

Gustavo                           - (sincero) Bravo! Però, scusa sai, ma la cassaforte?

Mario                               -  La cassaforte ha vulnerabile un solo qua­dretto. Qui sta il buono. Bisogna centrarlo esatta­mente in mezzo a tutto il resto, mi spiego? Il pri­mo che lo centra, ha vinto!

Gustavo                           - Ma bravo! Divertente! Invece di tutte quelle navi, delle corazzate, dei cacciatorpediniere, dei sottomarini, delle portaerei...

Mario                               -  Niente guerra! E poi, scusi, che cosa serve vincere una guerra?

Gustavo                           - Ma certamente. Chi ci pensa più, alle guerre! Roba da ridere! Roba di altri tempi. Ci vuole altro, per divertire la gioventù. (Con tono volutamente staccato) Bel gioco! Bella invenzione! Incominciamo subito! (Chiamando) Silvia! Silvia! Portaci il caffè!

Silvia                               - (entrando con vassoio e chicchere) Ecco­lo qui.

Gustavo                           - Un gioco nuovo, sai! Lo ha inventato lui.

Silvia                               -  Davvero?

Gustavo                           - Lo faremo brevettare, e guadagneremo bene!

Mario                               -  Crede davvero?

Gustavo                           - C'è chi ha guadagnato gran soldi fa­cendo qualcosa di meno intelligente.

Silvia                               -  Poi mi spiegherete.

Gustavo                           - Non è per donne...

Silvia                               -  Addirittura?

Mario                               -  Non è mica una brutta cosa...

 

Gustavo                           - Volevo dire che non può interessare le donne... Non è una canasta, né un ramino, insom­ma... (Cambiando tono) Un gioco per la gioventù!

Silvia                               -  E tu lo giochi?

Gustavo                           - ... Ringiovanisco. Rinasco. Mi faccio un'altra mentalità.

Silvia                               -  E io?

Gustavo                           - Tu... Eh! Un'altra cosa. (A Mario, che ha bevuto, come Silvia e Gustavo, il caffè) Siamo pronti?

Mario                               -  Prontissimi.

Silvia                               - (radunando le tazzine) Io sono di troppo. Un gioco per soli uomini... (Via).

Mario                               -  (dà un foglio a Gustavo, ne tiene uno per sé) Le due piante già preparate non servono più: valevano come campione. Ecco qui due fogli bian­chi: le rifacciamo. Va bene?

Gustavo                           - Benissimo. Io preparo quella di un ne­gozio...

Mario                               -  E io la banca.

Gustavo                           - (riassumendo) Quindici quadretti per lato... Non più della metà occupati...

Mario                               -  Stabiliamo: un terzo materiale ferro o acciaio, un terzo legno o materiale irrisorio, un terzo libero...

Gustavo                           - ...onestamente, eh! Senza trucchi!

Mario                               -  Poi, tanto, a partita finita si controlla.

Gustavo                           - ... fidarsi è bene, non fidarsi...

Mario                               -  Non è solo per lei!

Gustavo                           - D'accordo. Uno vale l'altro. Sotto. (Si mettono entrambi a « costruire » le loro « piante ». Lungo silenzio).

Mario                               -  (soddisfatto del suo lavoro) Io sono pron­to. Lei?

Gustavo                           - Anch'io... (Apporta un ritocco, dopo di aver osservato il suo « lavoro » come fanno ì pit­tori con il quadro) Ecco qui. (Colpito da un pen­siero) Naturalmente le « operazioni » vengono con­dotte soltanto lungo le quattro pareti, vero?

Mario                               -  Certo. E come altrimenti?

Gustavo                           - Diamine: dal soffitto e dal pavimento!

Mario                               -  (colpito) Alla « rififì »! Col paracqua ro­vesciato! E' vero! Non ho pensato... Comunque, bi­sognerebbe variare e complicare troppo il gioco. Per ora...

Gustavo                           - Per ora può bastare così.

Mario                               -  A chi il primo « colpo »?

Gustavo                           - Colpo? Ah, già, scusa, è vero: qui si va a « colpi ». Io ero abituato alla dama: alle « mosse ». Figurati un po'!

Mario                               -  A lei il primo

Gustavo                           - Bene, bene. (Grattandosi la nuca) Di­ciamo: il mio primo « colpo » dovrebbe sfondare subito una parete in un punto libero….. Diciamo 3-F.

Mario                               -  (compulsando) Ahi! Subito una zuccata nel duro!

Gustavo                           - Volevo ben dire. Cosa c'è?

Mario                               -  Lei se ne sta della mia parola, vero?

Gustavo                           - Figurati!

Mario                               -  Come io mi sto della sua...

Gustavo                           - Tanto, poi a gioco finito si controlla, no?

Mario                               -  S'intende.

Gustavo                           - Dunque?

Mario                               -  Il quadretto 3-F della mia banca... è una lastra d'acciaio blindata!

Gustavo                           - Bel colpo! Si comincia bene. Pazienza. Si vede che sono un principiante...

Mario                               -  Meno due punti per lei. Ora io. (Dopo qualche secondo) Quadretti 4-5-N.

Gustavo                           - (esaminato il suo piano) Acc. 14-5-N: quadretti liberissimi... Centrato in pieno!

Mario                               -  Più due punti per me.

Gustavo                           - Fortuna...

Mario                               -  (sorridendo, tra sé) Forse meno di quanto immagina...

Gustavo                           - Come dici?

Mario                               -  Nulla... nulla...

Gustavo                           - Tocca a me?

Mario                               -  A lei.

Gustavo                           - Aspetta, aspetta, ora l'arrangio io la tua banca... Povero cassiere! Povero direttore generale! Poveri clienti! Attento: G-H-13! Là! (Con le mani atteggiate a pistola) Mani in alto! Facce a terra!

Mario                               -  (controllando, rompe in una gran risata) Un'altra lastra blindata che occupa... quel tanto che basta per fare andare a monte il «colpo»!

Gustavo                           - Eh! Ma tu hai blindato tutti i quadretti. Tu bari!

Mario                               -  Lei potrà controllare! Sfortuna!

Gustavo                           - (sinceramente deluso) Sarà. Però... Ve­diamo tu...

Mario                               -  (quasi « vedesse » l'ambiente a cui dirige il « colpo ») D-E-14.

Gustavo                           - (senza controllare, già preso da un vago sospetto) Perfetto! Libero come un buco nel­l'aria... (Dopo un attimo di esitazione, quasi frene­tico) E se ci mettessi sopra, per scommessa, mille lire? (Tira fuori di tasca un biglietto e lo getta sul suo foglio) Su, spara un altro paio di « colpi », se azzecchi i soldi sono tuoi...

Mario                               -  Ma non è nel gioco, io non ho un cen­tesimo...

Gustavo                           - Non importa. Li ho io. Ti faccio cre­dito. Questi intanto li metto qui, odora... (Gli fa passare sotto il naso le mille lire) Su, bello mio, due colpi soli per...

Mario                               -  (eccitato) ... per che cosa?

Gustavo                           - (riprendendosi) ...per niente! Mi piace rischiare... E' bello, il gioco...

Mario                               -  (c. s.) Attento! (Socchiude gli occhi. Con i pugni appoggia la battuta, come facesse fuoco su un avversario con la pistola) 6-7-D.

Gustavo                           - (senza controllare, ma scrutando di sot­tecchi Mario) Avanti!

Mario                               -  (trionfante) 1-2-B. In basso, P-2 e 3. An­cora in basso, 0-13-14.

Gustavo                           - (scatta in piedi, s'avventa su Mario, lo abbranca per il petto, lo scuote, poi a voce bassa, improvvisamente arrochita) Tu lo conosci già, questo mio « piano »?... Tu sai quale ambiente ho disegnato su questo foglio, vero?... Vero che sai?...

Mario                               -  Mi lasci! Che cosa le salta?

Gustavo                           - Dimmi che lo sai! Dimmi che lo co­nosci benissimo...

 

Mario                               -  Lei non sa stare al gioco. Mi lasci.

Gustavo                           - Io ho disegnato la pianta di un negozio che tu conosci benissimo. E' il mio. Io ho creduto di fare il furbo. Ma tu lo sei molto più di me. Tu questa pianta la conosci bene. Per questo ogni tuo colpo andava a segno. E come la conosci? (Scrol­landolo) Come?

Mario                               -  Non so... Mi lasci...

Gustavo                           - Te lo dirò io. Prima che al cambiava­lute, tu e i tuoi compagni avevate studiato bene il colpo contro il mio negozio. E' così?

Mario                               -  (piagnucolando) Ma io...

Gustavo                           - Tu sei innocente. Ormai ti conosco. Tu giochi. Tu hai le pistole finte... Ma la pianta del mio negozio è vera, la conosci bene. (Ancora un assalto d'ira subitanea) Sei un bandito. Co­me loro. Come tutti. E io ti ho permesso di met­tere piede in casa mia! Cosa ho fatto!

Mario                               -  Ma no, mi creda... Io...

Gustavo                           - Sono un cretino. Un bestione. Ma lo vedi come succede? Basta un niente, un gioco, un particolare, e poi la verità salta a galla, il marcio sbuzza fuori... (Lo scrolla ancora) Via, fuori di qui, fuori dai piedi... (Lo spinge verso la porta, Mario si divincola).

Mario                               -  (urlando) Signora, signora...

Silvia                               - (entra: un grido; poi, rapida e decisa, fa scudo a Mario con il proprio corpo, un silenzio).

Gustavo                           - (con voce roca a Silvia) Togliti di mez­zo. Vai di là. C'è qualcosa che dobbiamo risolvere noi due.

Mario                               -  (piagnucoloso, tremante) Signora, non ho fatto nulla, mi creda... Così, d'improvviso...

Gustavo                           - (ripreso dall'ira. Quasi in un soffio) E' un ladro. Un bandito. Ma ne ha dato le prove. Qui, poco fa...

Silvia                               -  Giocavate!... Ma come può essere?

Gustavo                           - Sissignora. Giocando. Lui giuoca a fare il bandito sul serio.

Silvia                               -  Ma insomma, che cosa è accaduto?

Gustavo                           - (cercando di padroneggiarsi) Non ades­so. Non qui. Insomma, non davanti a lui. (Rab­bioso) Mandalo via. Via. Subito. (Cade affranto su una sedia).

Silvia                               - (a Mario) Ritorna nella tua camera. Poi verrò io, da te. Chiuditi nella tua camera.

Mario                               -  Per niente, mi creda... Un equivoco. For­se, nel gioco...

Silvia                               - (sospingendolo) Vai, non farlo inquie­tare. Poi... (Mario esce, ancora sospinto da Silvia. Resta solo Gustavo, con il capo chiuso tra le mani, ancora abbandonato sulla sedia. Silvia rientra. Re­sta immobile ad osservare Gustavo. Poi, lentamen­te, gli si avvicina, gli passa dolcemente una mano sul capo).

Gustavo                           - (si scuote dal torpore doloroso; ha la voce ancora bassa di tono, come di chi ha com­piuto una grossa fatica) Lui e i suoi due com­pari avevano studiato il mio negozio, per fare il colpo. Ma hanno trovato qualcosa che non an­dava. Allora hanno fatto il colpo con il cambia­valute. Capisci?

Silvia                               -  Veramente... Te lo ha confessato lui?

Gustavo                           - Lui. Tranquillamente. Anzi: festosa­mente.

Silvia                               -  Ma come, scusa? Non riesco a capire...

Gustavo                           - Già. E' caduto nella sua stessa trap­pola. Non sono un detective, io, non l'avrei sco­perto mai. Non leggo i « gialli », io. Non sono al corrente.

Silvia                               -  Ma insomma...

Gustavo                           - Il gioco, di cui ti avevo parlato... Da un gioco innocente, vecchio, frusto, forse oggi gio­cato soltanto dai decrepiti generali a riposo, lui ha tirato fuori un gioco nuovo, modernissimo, ecci­tante, alla « rififì», ecco.

Silvia                               -  Alla « rififì »?

Gustavo                           - Sì, è così, vuol dire da perforatori di muri e di soffitti, da scassinatori di casseforti... Da banditi, insomma. (Come una scoperta improvvi­sa) Forse lo giocheranno in galera... L'avrà impa­rato là. E lo spaccia anche per suo...

Silvia                               -  Non mi dice nulla.

Gustavo                           - Già. Ma è lungo spiegarti. Ora non posso, non c'è più tempo. Bisogna sbrigarci.

Silvia                               - (calma) A far che?

Gustavo                           - A levarcelo dai piedi. Subito.

Silvia                               - (c.s.) Non si può. Così, come vorresti tu, dopo quanto è avvenuto, non è possibile, non è giusto.

Gustavo                           - (sorpreso) Che cosa dici?

Silvia                               -  Che non si può e non si deve fare quello che vorresti fare tu, solo perché ti sei accorto...

Gustavo                           - ... che è un vero bandito?

Silvia                               -  Temo tu esageri.

Gustavo                           - Esagero? Ma io ho la prova in mano, adesso, che tutta la storia della rivoltella ch'è un giocattolo, e della sua partecipazione al « colpo » quasi per gioco, e della sua fuga, altro non sono che misere infami bugie. Quello è un fior di ma­scalzone. E chissà come ride di noi due, di noi due che gli abbiamo aperto le braccia, che lo abbiamo nascosto, che lo coccoliamo, tu con i pran­zetti e le pietanzine, io con le sigarette, e i di­scorsi saggi e i giocherelli! (Preso da un'ira subi­tanea, si slancia verso la porta della camera di Mario) Via a calci! O telefono alla polizia...

Silvia                               - (pronta, rapida, decisa, afferra Gustavo per un braccio) Fermati, Gustavo, te ne prego. Non si può, così. Bisogna ragionare.

Gustavo                           - (allibito) Tu, tu... Ma lo capisci che cosa stai facendo?

Silvia                               - (con voce smorzata, per non essere udita da Mario) Sto impedendoti di commettere un gesto irragionevole. Tu sei trascinato dall'ira, ades­so, come mai ti ho visto. Voglio farti ragionare. Aspetta un momento. Un minuto solo. Calmati, prima. Ragioniamo.

Gustavo                           - (come tra sé, amaramente) Un'altra donna! Parli e agisci come un'altra donna, una sconosciuta che è entrata in te... (Guardandola) Anche il viso non è più il tuo... (Quasi svuotato di forze) Un'altra donna...

Silvia                               - (lo prende per mano, lo conduce lontano dalla porta, lo fa sedere su una sedia, gli siede ac­canto. Calma, compiendo ogni sforzo per non tra­dire l'ansia che le urge nel cuore, nel sangue) Senti, ascolta me. Poche parole, sai. Ma il tempo per rimetterti, per capire qualcosa di quanto si potrà, si dovrà fare... Ragionando, capisci?

Gustavo                           - (chiudendo il capo tra le mani) Un bandito! Un vero bandito. Qui, in casa nostra. Alla nostra tavola. Nella nostra vita. (Pausa) Come un nostro figlio, vero?

Silvia                               -  Una povera creatura.

Gustavo                           - (scattando, subito frenato da lei) Nep­pure mio figlio, l'avrei tenuto con noi, fosse stato dì quella pasta...

Silvia                               - (calma, ferma) L'avresti tenuto.

Gustavo                           - L'avrei ucciso, piuttosto. A schiaffi... a...

Silvia                               - (c.s.) Lo dici. Non l'avresti fatto. Ti co­nosco bene.

Gustavo                           - E io, invece, non conosco più te... Dopo quanto hai saputo, ancora lo difendi, lo proteggi...

Silvia                               -  Niente di più naturale. Io sono coerente. Sei tu che sragioni...

Gustavo                           - Anche!

Silvia                               -  Scusami. Ma senza prove, solo perché nel gioco, non so come, è venuto fuori...

Gustavo                           - ... che volevano aggredirmi nel mio ne­gozio, svaligiare la mia cassaforte, magari spa­rarmi addosso...

Silvia                               -  Non l'hanno fatto.

Gustavo                           - Perché qualche difficoltà li ha indiriz­zati nel negozio accanto al mio...

Silvia                               -  Comunque chi ti dice che lui sarebbe stato con gli altri due? C'era, forse, dal cambia­valute?

Gustavo                           - Ma la pianta esatta del mio negozio lui ce l'ha nella testa! L'ha fotografata!

Silvia                               -  E questo ti manda su tutte le furie. Ma cosa c'è di cambiato nei suoi riguardi?

Gustavo                           - C'è... C'è...

Silvia                               -  Niente.

Gustavo                           - Non ci si intende più. Dopo tanti anni. Così, d'improvviso, lontani. (Scattando) E per col­pa sua! Di quel...

Silvia                               - (ancora tentando di calmarlo) Non è cam­biato niente, dal momento che gli abbiamo con­sentito - e di comune accordo - di restare qual­che tempo qui, con noi... (Con un tono di voce forzatamente pacato) E poi, che cosa vorresti fare, ormai? Denunciarlo? Sarebbe come raccontare alla polizia quanto abbiamo fatto per lui... Non ci pensi, a questo?

Gustavo                           - Una specie di autoricatto!

Silvia                               -  Un ragionamento prudente, assennato.

Gustavo                           - Dopo una pazzia!

Silvia                               -  Credo succeda spesso, nella vita...

Gustavo                           - (decisione subitanea) Voglio stanare sua madre, portarla qui, raccontarle tutto, sapere tutto.

Silvia                               - (esitante) Puoi anche farlo. Ma a quale scopo?

Gustavo                           - Non so, preciso. Voglio vederla, voglio conoscerla, voglio aprire in sua presenza quella porta, e dirle: ecco, qui c'è suo figlio. Ha fatto questo e questo. E noi due...

Silvia                               -  Come se già non sapesse. Una donna che l'ha abbandonato, che batte il marciapiede... Ce lo ha detto chiaro, ricordi? Bell'incontro.

Gustavo                           - (caparbio) Non importa. Voglio vederli tutt'e due, qui, davanti a me. Voglio che almeno lei sappia che cosa siamo stati capaci di fare noi due estranei per quel pezzo di farabutto di suo figlio.

Silvia                               -  E tutto questo perché lui stesso ha fi­nito per confessarti...

Gustavo                           - ... Senza volerlo, nel gioco...

Silvia                               -  ...Come vuoi tu, comunque è dalla sua bocca che lo hai saputo. Nessuno è venuto qui a svelarti sul suo conto qualcosa di nuovo. Quello che sapevamo, più o meno, e che abbiamo messo da parte per compiere un gesto...

Gustavo                           - ...Da sciocchi, da senza capo! Roba da andare in gattabuia anche noi!

Silvia                               -  E lo pensi solo adesso, questo? Ecco l'errore. Io avrei capito il pensarlo decisamente al­lora, mettendolo subito alla porta o chiamando la polizia. Ma adesso, credi a me, quasi non ha senso la decisione che vorresti prendere.

Gustavo                           - (con amarezza) Tu lo difendi.

Silvia                               -  Te lo ripeto: io sono coerente.

Gustavo                           - (eccitandosi) Tu ti diverti, tu giochi a fare da mamma, tu proteggi il tuo giocattolo...

Silvia                               - (con un grido) Non è vero!

Gustavo                           - (c.s.) E' vero. Lo sento e lo capisco. (Pausa) E' qualcosa che mi fa male... come un pensiero pesante, come il ricordo di un punto oscuro della nostra vita...

Silvia                               -  Sragioni. Poco fa, a tavola, gongolavi perché mangiava da ghiottone. Poi ti sei messo a giocare con lui come un ragazzo, più ragazzo di lui...

Gustavo                           - E d'improvviso, sissignora, s'è capo­volto tutto. Ho visto chiaro, come se ci fossi rima­sto io per giorni chiuso in una camera, in un armadio, e ne fossi uscito solo adesso...

Silvia                               -  Non hai conosciuto, fuori del tuo arma­dio, niente di diverso da quanto avevi visto prima...

Gustavo                           - Invece tu... (Cercando di esprimersi con chiarezza) Ci voleva, questo colloquio. Forse, dopo, le cose andranno meglio. (Amaro) Io ero rimasto, in fondo, sulle mie posizioni. Ma tu... Eh! tu hai camminato. Tu hai fatto grandi passi. Dentro di te, sì capisce. Forse te ne accorgi solo adesso, perché te lo indico io, il cammino che hai com­piuto. Da te, forse, non te ne saresti accorta...

Silvia                               - (evidentemente colpita) Ma che cosa dici? Vuoi confondere le idee anche a me, vuoi, vuoi...

Gustavo                           - ... Voglio farti vedere chiaro. E' una operazione da compiere presto, subito, per uscire dal pasticcio nero in cui ci siamo cacciati. (Pausa) Tu avresti dovuto dirmi, poco fa, quando ti ho messo al corrente di qualcosa di nuovo: « Hai ra­gione, Gustavo, cacciamolo via, è un essere infido, pericoloso... leviamocelo dai piedi, facciamo tornare pulita e chiara la nostra casa, la nostra esi­stenza »... Nossignora. Tu non ti preoccupi della scoperta che ho fatto. Tu non lo vedi neppure tutto il guasto di quell'essere spregevole. Tu ti affanni solo a giustificarlo, a salvarlo. (Andandole vicino col viso) Non è della nostra carne, hai ca­pito? Solo sua madre può agire come te, può par­lare come te. Non tu. Noi siamo niente, di lui. Lui, per fortuna, è niente di noi. Mettitelo bene in testa, tutto questo. E non lasciarti trascinare da certi pensieri che io ho sempre combattuto, e con tutte le forze. (Con profonda amarezza) Non s'inventano, i figli. Non sono una favola, i figli. (Pausa) I figli si fanno. O non si fanno. Tutto lì. E non ci si commuove se un estraneo, mangiando alla nostra tavola, s'ingolfa come un... come un maiale. E non si perdona un male, se non è uscito dalla nostra carne, dal nostro sangue. Hai capi­to? Vuoi capire, tutto questo?

Silvia                               - (calma, decisa) Non lo capisco. Non lo posso capire.

Gustavo                           - Non lo vuoi capire.

Silvia                               -  Non so. Non è importante. So che ab­biamo deciso di comune accordo di fare qualcosa per lui, e io non mi tiro indietro soltanto perché ho saputo qualcosa dippiù di quanto già non sa­pessimo.

Gustavo                           - Ma è una creatura tarata. Domani sarà davvero un bandito!

Silvia                               -  E con questo? Quando si mette il piede su una strada qual è quella che abbiamo scelto insieme, che importa se lui è un ragazzo che gioca a fare il male, o se il male lo fa sul serio? Che importa se l'arma che mi ha spianato contro era vera o falsa, carica o scarica?

Gustavo                           - Così tu ragioni?

Silvia                               -  Certo. Sennò avremmo giocato anche noi, come lui, all'inganno, alla burletta. Ma noi due non siamo più ragazzi. Noi due abbiamo com­piuto un gesto di cui dobbiamo sostenere tutto il peso, tutta la responsabilità...

Gustavo                           - (incontrollato) Ah! no, guarda, ora non ti seguo più... Ora capisco tutto il male che ho fatto, capisco la gravità veramente paradossale della situazione in cui siamo precipitati, ma non intendo rimanere in questo errore che da grave può diventare gravissimo, forse irreparabile. Io lo sbatto fuori... (S'avvia verso la porta della camera di Mario).

Stlvia                               - (rapidissima, fa scudo con il corpo ponen­dosi tra la porta e Gustavo) Non voglio!

Gustavo                           - (allibito) Non vuoi?

Silvia                               - (scandendo le parole) Non voglio.

Gustavo                           - Ma sai quello che dici?

Silvia                               -  So che non voglio tu compia, senza ri­flettere, un atto suggerito soltanto dall'ira.

Gustavo                           - E tu ne compi uno altrettanto grave, suggerito da non so quale sentimento. Lo capisci, tu, questo?

Silvia                               -  No. Non capisco. Io so di agire con la massima serenità, con tutta coscienza.

Gustavo                           - Ne sei sicura?

Silvia                               -  Sicurissima.

Gustavo                           - E non ti basta questa posizione assunta da noi due, ora, in questo preciso istante, uno contro l'altro, dopo tanti anni di vita in comune trascorsa nel più sereno accordo, per maledire l'essere ch'è dietro a quella porta, e il momento in cui è entrato in casa nostra, e la nostra acco­glienza idiota, peggio, delittuosa?

Silvia                               -  Non v'è nulla di cambiato, nella nostra vita. Siamo soltanto, su un punto, di opinione diversa. Poi, a mente calma, a nervi distesi, di­scuteremo ancora, e ci troveremo d'accordo.

Gustavo                           - Non credo. Né lo spero più. Mi è ba­stato vederti, ascoltarti... Un'altra donna, te l'ho detto. Dopo tanti anni. Quasi una vita.

Silvia                               -  Ascoltami. (Gli si avvicina, lo allontana dalla porta, lo fa sedere su una sedia, gli passa una mano sul capo) Tu hai bisogno di ritrovare l'equilibrio di giudizio e di azione che hai sem­pre avuto, anche nei momenti più difficili del no­stro cammino. Ma ti pare possibile che una situa­zione come questa, da noi voluta, anzi da noi creata, si traduca in un fatto talmente grave da impegnare parole grosse, pensieri pesantissimi... Aspetta. Cerca la risposta dentro di te, nel punto più sicuro, più tranquillo del tuo cuore...

Gustavo                           - (tormentandosi le mani, strette luna all'al­tra) E' appunto questo che non riesco più a fare. Mi si è appannato il cuore, ecco.

Silvia                               -  Per così poco? Per un ragazzo che ten­tiamo di far ragionare, di sottrarre alla vita ba­lorda condotta fin qui? Ma è come se avessimo raccolto un cane randagio. Ecco, io lo considero proprio come un animale trovato per la strada, che so, una povera bestia ferita... Perché non lo vedi anche tu sotto quest'aspetto? Prova. Dimen­tica ch'è un uomo, che ha sembianze umane... E' un cucciolo senza collare, senza madre. Ti ha ad­dentato, poco fa, per gioco, senza volerti fare del male. E tu ti sei improvvisamente risentito di quel morso fino al punto di volerlo cacciare di casa, e di ritornare sulle tue decisioni, di abbandonarlo al suo destino... E' giusto il tuo risentimento?

Gustavo                           - Può anche non essere giusto. Ma non so trovare in me gli argomenti che trovi tu per combattere la mia nuova decisione. Ecco, vedi: tu vuoi trovarli, i motivi del tuo ragionamento, io no. Io sento qualcosa che suona falso, in tutto questo. Avverto la stonatura, l'errore della nostra posi­zione. E della tua più che della mia. Tu sei, adesso, nella stessa posizione sbagliata che avevi preso nei riguardi di Use, ricordi? Tu volevi trattenere Use, tu vuoi trattenere questo ragazzo. Ma Use era onesta, e questo è un pezzo da galera.

Silvia                               -  E perciò questo ha più bisogno di noi che quella. Mi pare logico e umano.

Gustavo                           - Ma allora che cosa intendi fare, tu, della nostra casa, del nostro tetto? Un ricovero per gli sperduti, un istituto di rieducazione mo­rale, un pio luogo di raccolta degli sbandati, delle insofferenti, dei banditi in erba?

Silvia                               -  Voglio soltanto servire a qualcuno.

Gustavo                           - Perché io non ti basto, vero?

Silvia                               -  Perché tu sei mio marito, sei un uomo sano, forte, sicuro di te.

Gustavo                           - E tu?

Silvia                               - (semplice) Io sono soltanto una donna. (Pausa) Sono una donna in parte mancata. Sono una cosa inutile. (Trattenendo il pianto in gola) E ogni volta che credo di avere trovato lo stampo vivo in cui versare un poco di questa mia pena, questa mia ansia, ecco innalzarsi una barriera, un muro, una roccia incrollabile... Ora sei tu, a impedirmi di fare qualcosa di buono, di umana­mente utile... Eppure sarebbe stato così facile, continuare ancora per qualche tempo...

Gustavo                           - (con ironia amara) A « giocare » a far da madre...

Silvia                               - (semplice, con infinita tristezza) E se fosse? Non me ne vergogno, sai... Non l'abbiamo cercata noi, questa storia. E' stato il destino. L'ab­biamo accettato di comune accordo. (Quasi implo­rando) Proviamo ancora un poco, Gustavo.

Gustavo                           - Poi quello tornerà sulla strada, peggio di prima. Più agguerrito. Più robusto.

Silvia                               -  ...Ma noi gli avremo fatto conoscere qualcosa che nessuno mai gli ha indicato...

Gustavo                           - Eppure ha una madre...

Silvia                               -  Meglio non l'avesse avuta. Si capisce subito, che razza di donna lo ha fatto. (Cercando con ogni mezzo di condurre il marito sul terreno dell'ottimismo) Vedi, se uscisse di qui, fra poco tempo, con un sentimento nuovo nel cuore... Se quanto facciamo per lui, in questi giorni, lo scal­dasse dentro, gli facesse nascere un pensiero nuovo, una diversa valutazione della vita... Non ti pare bellissimo, tutto questo? Io non chiedo nulla di più. Né riconoscenza, né tanto meno affetto filia­le... Soltanto, nel suo animo, nel suo spirito, un po' di luce, un barlume... La nostra casa, la tua generosità, la mia gioia nel compiere qualche umile, semplice gesto per lui...

Gustavo                           - (chiaramente smontato nella sua ira, nei suoi propositi) Incorreggibile! (In un soffio) Che madre saresti stata!

Silvia                               - (d'impeto, quasi una bambina afferrata da un gioco) Guarda, guarda qui, Gustavo... (Esce un istante di scena, rientra con un pacco fra le mani, lo mette sul tavolo, incomincia ad aprirlo) Guarda. Ho fatto spese. Stamattina. Sai, tutta roba di poco conto. Robetta.

Gustavo                           - Per lui?

Silvia                               -  Sì. Ma ho speso pochissimo...

Gustavo                           - (con ironia amara) Gli fai il corredo?

Silvia                               - (senza raccogliere) Per affrontare le pri­me necessità, si capisce.

Gustavo                           - Gli potevi passare qualche spoglio mio...

Silvia                               -  Biancheria, per cambiarsi. Non ha nulla.

Gustavo                           - Già, è arrivato senza valigia...

Silvia                               - (c. s.) Il minimo indispensabile.

Gustavo                           - Poi faremo venire il primo sarto della città, e il camiciaio del Principe di Monaco, e il calzolaio delle dive...

Silvia                               - (c. s.) Roba forte, però. Deve durare.

Gustavo                           - Fino alla maggiore età.

Silvia                               - (sciorinando alcuni capi) Canottiere, guarda. Gli andranno bene? Ha un torace!

Gustavo                           - Qui lo aumenterà di certo: mangia, beve, dorme, fuma, non legge nemmeno...

Silvia                               -  Per questo, sbagli. Mi ha pregato di pren­dergli qualche libro.

Gustavo                           - Meno male. Anche lo spirito ha biso­gno di essere nutrito. Ti ha almeno detto quali libri...

Silvia                               -  Credo « gialli »... Questi... (Apre un pac­chetto a parte, vengono fuori tre « gialli », dalla copertina inconfondibile).

Gustavo                           - (allibito) Gli hai comprato questa ro­baccia?

Silvia                               -  Volevi che bruciasse dal desiderio di leggere i « Promessi Sposi »?

Gustavo                           - Troppo giusto. E poi, per lui, sono libri di testo. Completano la sua istruzione.

Silvia                               - (continuando a sciorinare le compere fatte) Sei fazzoletti, tre paia di calze, tre slips, una camicia...

Gustavo                           - Anche una camicia?

Silvia                               -  Non ti sei accorto in quale stato è ridotta quella che indossa? Uno straccio. Anche questa è roba da pochi soldi, però è nuova... (La spiega) Fa figura, no?

Gustavo                           - E' da cow-boy. Potevi sceglierla un po' meno vistosa...

Silvia                               -  Ma i giovani, oggi, portano solo questo. Per dargliene una non di suo gusto...

Gustavo                           - Siamo già al « suo gusto ». Dopo due giorni che l'abbiamo tra i piedi! (Sinceramente commosso) Oh! Silvia, ma se tu fossi stata mamma davvero, quanti vizi avresti dato ai nostri figli!

Silvia                               - (semplice, schietta) Tutti: e tu, che padre brontolone, mai contento, sempre aggrondato...

Gustavo                           - (conciliante) Va bene, continuiamo an­cora a giocare. Tutt'e due, tu ed io. Il solo che fa sul serio, qui, è lui...

Silvia                               -  Apri la porta, chiamalo... Gli facciamo vedere questa roba...

Gustavo                           - Potrò poi scendere in negozio? O lo chiudiamo per dedicarci alla coltivazione del giar­dino d'infanzia?

Silvia                               -  Poi scenderai. Chiamalo tu. (Gustavo va alla porta, cautamente l'apre, ficca la testa dentro, la ritrae) Che fa?

Gustavo                           - Dorme. E russa. Come un maiale.

Silvia                               -  Si capisce. Chiuso là dentro. Cosa deve fare?

Gustavo                           - Io scendo. Non ne posso più...

Silvia                               -  Ti chiamerò per il tè.

Gustavo                           - Non prima delle cinque. Ho parecchi conti arretrati da mettere in sesto. Se quello di là fosse almeno capace di aiutarmi a fare qualche fattura...

Silvia                               -  Puoi provare.

Gustavo                           - Ma scherzerai. Quello, scommetto, non sa nemmeno tenere la penna in mano.

 

Silvia                               -  Se nessuno gli ha insegnato...

Gustavo                           - A scuola sarà andato, no? E' che loro studiano sulla pratica. Al cinema. E con quei libri di testo lì, che voi, madri pietose... (Esce). (Silvia ritorna al tavolo, solleva uno ad uno gli indumenti acquistati; compie il gesto di valutarne le misure, spiegandoli; una canottiera, le calze, uno slip. Con quest'ultimo indumento tra le mani s'arresta d'improvviso: un attimo, quasi un brivido gelato nel sangue. Lo ripone con il resto, rifà il pacco. Va alla porta della camera di Mario, bussa). La voce di

Mario                               -  (assonnata) Chi è? Avanti!

Silvia                               - (senza entrare) Su dormiglione! Vieni a vedere che cosa c'è per te... La voce di

Mario                               -  Scusi, mi infilo la camicia!

Silvia                               -  Aspetta. (Corre al tavolo, afferra la cami­cia nuova, la porge a Mario attraverso l'uscio soc­chiuso) Metti un po' questa... Intanto la misuri! La voce di

Mario                               -  Bella! E' la camicia di Randolph Scott!

Silvia                               -  Chi è?

La voce di

Mario                               -  Un « duro » del cinema ameri­cano: ogni colpo, un pellerossa sotto le zampe del cavallo! E' per me?

Silvia                               -  E c'è qualcos'altro...

Mario                               -  (appare, trafficando con la camicia appena indossata) Ma è su misura! Come ha fatto a sceglierla così precisa? Quando ne ho comprato qualcuna io, o c'entravo stretto da levare il fiato, o mi ballavano addosso...

Silvia                               -  Ti viene giusta. (Gliela stira addosso) Ti sta bene.

Mario                               -  (balzando a cavallo di una sedia, e simu­lando una cavalcata all'inseguimento dei pellerossa) Ta, ta, ta... Carica! Pam, pam, pam! Cadono co­me le mosche! (Gridando) Ora è la tua volta, Oc­chio di Falco! (Prende la mira con immaginarie rivoltelle) Pam! Pam! Pam! (A Silvia, eccitato dal gioco) Guardi, guardi là, signora della Prateria! (Le passa un braccio attorno alla vita: Silvia si trova stretta a lui).

Silvia                               - (il gesto di Mario, dopo un primo istante di sorpresa, non l'offende né allarma: entra nel « gioco ») Che cosa succede?

Mario                               -  Sono caduti nell'imboscata! L'ho tesa io! C'è anche Geronimo...

Silvia                               -  Chi è?

Mario                               -  Un gran personaggio! Se riesco a por­tarlo vivo a Fort Apache... (Sparando ancora) Pam! Pam! (Gridando e atteggiando le mani a portavoce) Arrendetevi! Gettate le armi! Sciogliete i cavalli! (A Silvia) Conosco bene quella gente, io! Non sono mai morti abbastanza! (Ancora gridando) Se vi ar­rendete, avrete salva la vita! E' un vecchio trucco: loro gettano le armi, e io li frego tutti! (Ancora gridando) A Geronimo! Puzzone! Fatti avanti se hai il coraggio... (Silvia è rimasta allacciata dal braccio di Mario, che la stringe sempre più; men­tre il ragazzo continua a caracollare, a sparare, a urlare).

ATTO TERZO

 (Silvia è seduta accanto alla tavola: rammenda qualcosa, riassetta biancheria; una grande quiete nella casa. Lungo silenzio. I gesti, l'espressione, la serenità felice che fa da alone alla figura di Silvia, compongono un oleografico quadretto à"« interno familiare ». Un rumore alla porta d'ingresso: è rientrato Gustavo).

Gustavo                           - (appare da destra; non è salito dalla bottega, ha il cappello ancora in testa; lo toglie, e lo appoggia su una sedia. Poi, con voce bassa) Dov'è?

Silvia                               -  Nella sua camera.

Gustavo                           - A dormire.

Silvia                               -  E che cosa deve fare? Oppure legge. O scrive non so.

Gustavo                           - (fermandosi davanti a Silvia) L'ho trovata.

Silvia                               - (senza alzare il capo dal lavoro) Tu?

Gustavo                           - Ho saputo dove mandarla a chiamare.

Silvia                               -  E da chi hai saputo?

Gustavo                           - Da una bottega poco lontano da quel­la dell'oste delle Tre Vie.

Silvia                               - (interessandosi) E là, nella bottega, tu hai chiesto di lei.

Gustavo                           - Ho domandato se conoscevano la ma­dre di Mario, di un certo Mario, frequentatore dell'osteria lì accanto...

Silvia                               -  E subito hanno capito di chi si trattava?

Gustavo                           - (spazientito) Silvia, tu mi fai un inter­rogatorio di sesto grado. Non è il caso, credi. Del resto, tra poco sarà qui.

Silvia                               - (quasi con dispetto) Qui da noi?...

Gustavo                           - Qui da noi, ma soprattutto da lui.

Silvia                               -  Ma lei sa che qui c'è suo figlio?

Gustavo                           - Nossignora.

Silvia                               -  E allora come fa a venire qui, senza sapere da chi, per quale motivo?

Gustavo                           - Viene. Questo è l'importante.

Silvia                               - (improvvisa) Ma allora non è una...

Gustavo                           - ...probabilmente no. Oppure, diciamo: non così apertamente... Sennò, nella bottega dell'erbivendola, chissà che cosa mi sarei sentito dire...

Silvia                               -  E tu come hai fatto...

Gustavo                           - Mi sto dedicando anch'io alla lettura -pardon, allo studio - dei libri « gialli », Ho agito co­me un « detective ». Una parola dopo l'altra, calmo, senza destare sospetti... Prima qualche battuta vaga, generica... Poi, là, una domanda precisa. Il resto viene da sé. Dev'essere facile, fare il « detec­tive »... A me manca solo la pipa... (Guardando l'orologio) Non dovrebbe tardare. Sono corso su­bito qui, perché lei era vicina di casa al negozio dell'erbivendola...

Silvia                               - (seccata) Insomma, non ti capisco. Ma allora abita vicino alle Tre Vie? Sta con lui?

Gustavo                           - Adesso sapremo meglio. Anzi, saprai tutto.

Silvia                               -  Perché, tu già sai?

Gustavo                           - Un'ombra...

 

Silvia                               -  Sempre una « di quelle »?

Gustavo                           - Eh! Uno stinco di santo non lo sarà di sicuro, con un figlio così...

Silvia                               -  Insomma...

Gustavo                           - (ancora guardando l'orologio) Tra poco...

Silvia                               -  E se lui s'accorge della visita di sua madre...

Gustavo                           - Aspetta. Vado a vedere di là. (Va alla porta di sinistra, s'inoltra un poco, si capisce che dal corridoio ha spiato nella camera di Mario) Come un ghiro di pieno inverno. Sfido: una montagna di pastasciutta, le triglie alla livornese, la solita banana, il vino... (Suono di cicala della porta d'in­gresso).

Silvia                               - (fa l'atto di alzarsi, per andare ad aprire: è evidentemente agitata).

Gustavo                           - (fermandola) Vado io. Aspetta qui. (Esce da destra, rientra poco 'dopo, facendosi da parte) Entri, prego.

La Madre                         -  Permesso... (E' una donna anziana, dai capelli ingrigiti tirati in bande lisce, il corpo con­sunto dagli stenti e dal lavoro chiuso in un dimesso vestito nero: pallida, quasi cerea; sguardo vivo, però, dritto e penetrante) Permesso...

Gustavo                           - S'accomodi, prego. Questa è mia mo­glie. Io sono l'orefice, qui sotto.

La Madre                         -  Me l'ha detto l'Elvira, l'erbivendola che le ha dato il mio indirizzo. Lo conosco, il suo negozio: passo qui davanti un paio di volte al giorno.

Silvia                               - (è rimasta impietrita alla visione di quella creatura, così diversa dall'attesa, dopo le « rivela­zioni » del ragazzo) Buongiorno. Si accomodi, signora.

Gustavo                           - Lei lavora in questa zona, vero?

La Madre                         -  Di preferenza, sì. Per non buttare quattrini nei tram, negli autobus. Anche per non perdere tempo, tra una casa e l'altra.

Gustavo                           - Già. Sicuro.

La Madre                         - (a Silvia) Immagino che loro avranno bisogno di un mezzo servizio, o di qualche ora al giorno...

Gustavo                           - (pronto) Sì, è per questo.

La Madre                         -  Debbo avvertirli subito che ho già parecchi impegni. E poi sono vecchia e stanca. Mi vedono? Sono anni e anni, che sgobbo così. Ho quasi toccato il fondo delle mie forze. Eppure con­tinuo a lavorare. (Pausa) Non saprei proprio come trovare un buco di poche ore... E niente bucato, lo dico subito: non posso tenere a lungo le mani nell'acqua...

Silvia                               - (conciliante, per « entrare » nel discorso) Non importa. Se possiamo combinare, anche poche ore... E la lavandaia c'è già, quindi...

La Madre                         -  (pensierosa) Se potessero bastare due o tre ore, due volte la settimana, forse...

Silvia                               -  Vedremo. Io credo che si potrà sempre trovare...

La Madre                         -  Posso fare solo lavori leggeri. (Pausa) Di lavoro ho sempre bisogno, ma...

Silvia                               -  Lei è sola?

La Madre                         -  Come se lo fossi. Ho un figlio. Ma di lui...

Gustavo                           - (pronto) Sposato, vero? Eh! quando i figli si sposano...

La Madre                         -  Non è sposato. E' molto giovane. L'ho avuto tardi. A quarant'anni. Lui ora ne ha solo diciassette.

Gustavo                           - Forse studia...

La Madre                         -  Non studia.

Gustavo                           - Lavorerà, allora.

La Madre                         -  Poco. Fa l'aiuto camionista. Sta fuori casa tanto tempo. Ora è via da quasi una setti­mana, non so più niente di lui. Sono in pensiero... Sempre fuori, di qua e di là. E' il mestiere che vuole così. Quando è fuori, vive di suo. Ma quando è qui, debbo mantenermelo, perché arriva sempre senza un soldo. Sa come sono, questi dei camion. Quando vanno in giro, mangiano nelle osterie, dor­mono nelle locande, spendono, spendono tutto... Come i marinai, che sciupano tutto nei porti...

Gustavo                           - Già. Eppoi, così giovane... E il padre?

La Madre                         -  Non c'è. Eh! se ci fosse ancora lui... Mio marito è morto che Mario, mio figlio, aveva appena cinque anni. L'ho tirato su come ho potuto. Meglio che ho potuto. Lavando panni e sciacquando piatti. E' duro, sa? E sempre a giornata, di qua e di là, per tornare a casa la sera, e dedicarmi alla creatura... Fino a tredici anni, anche fino ai quat­tordici, ce l'ho fatta. L'ho messo anche a studiare, poi ho cercato di fargli imparare un mestiere... il tipografo... Ma non ne ha voluto sapere. Non ne aveva voglia. Ha sempre avuto l'idea fissa del camionista.

Gustavo                           - Certo è un lavoro di maggior guada­gno, e più libero...

La Madre                         -  Il suo ritornello: quando avrò un camion. Come se con un camion si potesse diven­tare padroni del mondo. Da bambino giocava con quelli di legno e di latta, sulla porta di casa, sul pavimento della cucina... Poi, da grande...

Gustavo                           - (conciliante) Lo avrà, un giorno. Potrà lavorare bene...

La Madre                         -  (dopo un silenzio) Forse è troppo tardi. L'ho lasciato sbattere troppo. Ha avuto cat­tive compagnie. Sono quelle che rovinano. Anche il collegio, ho tentato; ma è scappato due volte. (Con ira) I compagni... Gli ambienti... Come posso sorvegliarlo? Quando non lavora, è sempre inta­nato là, nell'osteria delle Tre Vie. Brutta gente, c'è là. Un covo. Lui, il padrone, è un ricettatore. Lei, la moglie, una... (Si tappa la bocca) E il mio Mario, sempre là. Come di casa. Una calamita, per lui. Ha la sua casa, non certo elegante, ma pulita, e con qualche comodo... Mai in casa. Sempre là, nel buco. La casa non gli va, non gli piace. Ci scotta, dentro, anche quando ci sono io. Mi capi­scono, vero?

 

Silvia                               -  Non avrà potuto affezionarcisi...

La Madre                         -  Certo, io sono sempre fuori: se non lavoro io, chi la paga la pigione? Chi la mette la pentola sul fuoco? E tutto il resto?

Gustavo                           - Eh! sono i tempi. Anche le famiglie piccole come la sua non hanno più la possibilità di stare unite facilmente. Si resta divisi. E' dif­ficile...

La Madre                         -  (a Silvia, per arrivare a una decisione) Signora, se vogliono parlare per il servizio...

Silvia                               - (decisa) Ha ragione. Ecco. Ne parleremo subito. Lei avrà certo poco tempo...

La Madre                         -  Ho un altro servizio, tra poco. Non vorrei farmi aspettare.

Silvia                               -  Certo. (a Gustavo) Senti, Gustavo, dob­biamo parlare di cose che a te non possono inte­ressare.

Gustavo                           - (sorpreso) Ma io...

Silvia                               -  Tu ora scendi in negozio, sei già in ritardo. Alle cinque, poi, torni su, a prendere il tuo tè. E ti dirò quanto avremo combinato. (Con inten­zione) Semmai ti chiamerò.

Gustavo                           - (un po' contrariato) Se credi...

Silvia                               -  Vai. Tutto sarà combinato nel modo migliore. Del resto non è certo la prima volta che assumo una persona per aiutarmi... Non ti pare?

Gustavo                           - (c. s.) Certo, certo... Allora scendo. Se hai bisogno di me... (Alla madre) Arrivederci. Spero combinerete. E... mi scusi...

La Madre                         -  (sorpresa) Scusarla di che? (Gustavo fa un gesto vago, esce da destra. Le due donne restano sole. Un silenzio imbarazzante. Poi, con de­cisione, Silvia indirizza la parola alla madre).

Silvia                               -  Signora, debbo dirle qualcosa.

La Madre                         -  Per il servizio?

Silvia                               -  No, non è per il servizio. Anzi, le dirò subito che non è per un eventuale servizio che l'abbiamo cercata e fatta venire fin qui...

La Madre                         -  (allarmata) Cosa succede?

Silvia                               -  Niente di grave. Stia calma.

La Madre                         -  Lo sentivo. Qualcosa mi diceva...

Silvia                               -  Le ripeto, stia calma. C'è solo da dirle questo: non abbia timore per l'assenza di suo figlio: è qui.

La Madre                         -  (balzando in piedi) Qui? Da loro?

Silvia                               -  Qui. Da noi. Dall'ultimo giorno che le ha detto che doveva partire per un viaggio...

La Madre                         -  Che cosa ha fatto? Perché è qui, da loro che io non conoscevo prima d'ora?...

Silvia                               -  Neppure noi conoscevamo lui. Ora sì.

La Madre                         -  Lavora forse con suo marito?

Silvia                               -  No.

La Madre                         -  (incalzando, presaga di qualcosa di gra­ve) Allora?

Silvia                               -  Lo abbiamo ospitato. Da cinque giorni

La Madre                         -  (guardandosi attorno) Qui?

Silvia                               -  Qui. Fermo qui.

La Madre                         -  Nascosto?

Silvia                               -  Ecco.

La Madre                         -  Ammalato? Ferito? Dica: ferito?

Silvia                               -  No, non è ferito. Né malato. Nessun ma­lanno fisico. Sta benissimo, anzi.

La Madre                         -  (chiudendosi il volto fra le mani) Ne ha combinato un'altra delle sue. Lo sento.

Silvia                               -  Non cerchi d'indovinare. Le dirò tutto io. Del resto non è una cosa complicata né grave.

La Madre                         -  Ci sono abituata, sa? Non creda che mi meravigli più di nulla. Ne ha fatte tante...

Silvia                               -  Lei credeva fosse in viaggio, con qualche camionista, vero?

La Madre                         -  Così mi aveva detto. Lo aspettavo da un giorno all'altro. Cinque giorni però sono tanti. Stavo già molto in pensiero... Ma che fosse qui, a pochi passi da me, dalla casa... Avrei potuto es­serne informata prima...

Silvia                               -  Giusto. Ma di lei non sapevamo che ben poco. Notizie vaghe, strappate a luì...

La Madre                         -  Già. Dì sua madre non parla mai. Con nessuno. Si vergogna, dì avere una madre che va nelle case a fare servizi...

Silvia                               -  Non ne abbiamo avuto il tempo, di fare interrogatori...

La Madre                         -  In cinque giorni?

Silvia                               -  Si è dovuto discorrere di cose d'altro genere.

La Madre                         -  Insomma, mi dica. Ho pure bisogno di sapere.

Silvia                               -  Troppo giusto. L'importante, per ora, è che lei stia tranquilla per la sua salute.

La Madre                         -  Va bene. Ma per il resto?

Silvia                               -  Senta. Suo figlio è capitato qui... all'im­provviso, in modo piuttosto strano...

La Madre                         -  (con un grido) Rubato? Ha rubato? E' venuto per rubare?

Silvia                               -  No. Non voleva rubare. Non ha rubato. E' venuto soltanto per nascondersi, per salvarsi da un mezzo guaio, un pasticcio... accaduto qui...

La Madre                         -  (cercando di « fermare » un pensiero) Cinque giorni fa... C'è stato l'affare del cambiava­lute, qui sotto... Già proprio qui sotto. Ne hanno parlato tutti. Anche i giornali. E subito m'era ve­nuta una paura... Ma di lui - come degli altri non s'è parlato... Era lui?

Silvia                               -  Non era lui. Suoi compagni, suoi amici, questo sì.

La Madre                         -  Ma non l'hanno presi. C'era anche lui?

Silvia                               -  Sono scappati, senza combinare niente.

La Madre                         -  (incalzando) Ma lui?

Silvia                               -  Lui era soltanto lì per caso. Forse per curiosità. Forse perché era al corrente del « colpo », e li aveva seguiti... S'è spaventato di quello ch'è successo, quando quelli sono scappati è scappato anche lui, ha infilato il portone di questa casa, mi è capitato qui dentro perché avevo l'uscio aperto sulle scale...

La Madre                         -  E loro non lo hanno fatto arrestare? Non hanno chiamato al soccorso, la polizia?

Silvia                               -  Non aveva fatto nulla. Una ragazzata. Era, come dire, al seguito di quei due, ma senza intesa, senza mansioni...

La Madre                         -  Li conosco tutt'e due: sono il Gino e l'Alessandro. I suoi inseparabili. I suoi maestri. Da loro, impara!

Silvia                               -  ...Insomma, dopo avermi fatto un bel po' dì paura....

La Madre                         -  L'ha minacciata? Era armato?

Silvia                               -  Una sciocchezza. Niente. Ha solo pre­gato, scongiurato che lo nascondessi, per qualche po', per lasciar passare il pericolo più grosso... Temeva che se gli altri fossero stati presi, il suo nome, in qualche modo, sarebbe saltato fuori... Ma­gari per vendetta...

La Madre                         -  E lei, e suo marito, hanno accettato di tenerselo qui, di nasconderlo?

Silvia                               -  Ecco. Non abbiamo fatto altro. (Lungo silenzio).

La Madre                         -  (parla a fatica) Dovrei ringraziarla. Gettarmi ai suoi piedi. Baciarle le mani. Vero?

Silvia                               -  Non chiedo questo. Mi basta solo sa­perla più tranquilla, ora.

La Madre                         -  (amara) Non so farlo. Mi scusi. (Si batte la mano destra sul petto) Non c'è più niente, qui dentro. Vede? Non mi riesce di far venire fuori una parola né una lacrima. Sono disseccata, dentro e fuori. (Pausa) Troppe ne ho passate. Troppe me ne ha combinate. Anni, sa, che lotto per lui, con­tro di luì. Una dopo l'altra. Ma fino a questo punto... Col Gino e l'Alessandro. I due peggiori: due bestie. Due cani arrabbiati. (Alzandosi di scatto) Ma li denuncio io! Li faccio andare tutti in galera. Tutti dentro.

Silvia                               -  E suo figlio?

La Madre                         -  Anche lui. Bisogna che ci si arrivi, anche a questo. Non è la prima volta, sa? Prima che succeda il peggio. Non voglio fare la fine delle madri del Gino e dell'Alessandro, una è morta spu­tando i polmoni, l'altra s'è gettata sotto la tranvia... Sono già andata in Questura, sa, a denunciare quell'oste maledetto, e quella donnaccia - mi scusi -di sua moglie... Ma non è servito a niente. Mi hanno risposto che l'osteria non sì può chiudere perché serve per andarci a pescare dentro i loro tipi, quando fanno le retate... Anche il mio Mario ci hanno pescato, una notte. Due giorni di guar­dina. E io là, accucciata fuori della porta ad aspet­tarlo... Quand'è uscito, gli schiaffi che gli ho dato... Crede siano serviti a qualcosa? Lui è sempre in­nocente, lui piange, lui trema...

Silvia                               -  Ma scusi, forse non è con le botte...

La Madre                         -  Ah! No, vero? Con le carezze, vero? Crede non gliene abbia fatto, di carezze? Che non l'abbia preso con le buone, con i ragiona­menti, con le preghiere? Suo padre era un gran galantuomo, sa? Non l'ha imparato da noi, a fare quello che fa. Non ho fatto altro che insegnargli a tirare per la sua strada, a non buttarsi dalla par­te del male... Gliel'ho insegnato stroncandomi le braccia, le gambe, la schiena... Lo vede come sono ridotta? Per lui. Solo per lui. Senza riuscire a niente.

Silvia                               -  Può darsi che stavolta gli serva di le­zione...

La Madre                         -  Non ci credo più.

Silvia                               -  Ma adesso, qui con noi...

La Madre                         -  (quasi sfidando) E che cosa possono insegnargli, loro, più di quanto non sia riuscita a insegnargli io? Anni e anni, sa? E lei crede che in pochi giorni...

Silvia                               -  Ha soggezione, di noi. Ed è così giovane.

La Madre                         -  Vuol provarcisi lei?

Silvia                               - (come raccogliendo la sfida) Può darsi...

La Madre                         -  (sogghignando amara) Non lo conosce. Non lo conoscono. Io sola lo conosco bene. Sono sua madre, l'ho fatto io. L'ho visto crescere giorno per giorno, anno per anno.

Silvia                               -  Ci sono tanti mezzi, per raddrizzare un albero che cresce male...

La Madre                         -  Certo. Ma non vorrà farmi capire che la colpa è mia...

Silvia                               -  Dio me ne guardi. Lei avrà fatto tutto il possibile...

La Madre                         -  (quasi beffarda) ...Ma lei crede di poter fare dippiù, vero?

Silvia                               -  Si spera sempre.

La Madre                         -  Ha figli, lei? E' madre?

Silvia                               -  No.

La Madre                         -  Ecco. E' tutto qui. Bisogna provare, signora. Bisogna aver tenuto un figlio sulle ginoc­chia, avergli dato il latte, e averlo sorretto nei pri­mi passi, e aver visto spuntare coi denti i primi impulsi del suo carattere... E aver avuto il sospetto che il latte con cui lo si è nutrito fosse avvelenato...

Silvia                               - (reagendo) Si direbbe che quanto noi s'è fatto per Mario, le dispiaccia...

La Madre                         -  Non dica. Io capisco tutto, e, certo, anche la ringrazio. Gli hanno evitato un pericolo. Ma in quanto a raddrizzarlo... ce ne corre.

Silvia                               -  Mio marito ha intenzione di prenderselo con sé, in negozio...

La Madre                         -  In mezzo a tutta quella roba d'oro?

Silvia                               -  Quando fossimo certi del suo ravvedi­mento...

La Madre                         -  E lei?

Silvia                               -  Io...

La Madre                         -  Una seconda madre. Anzi, la madre, dal momento che io non sono stata capace di ti­rarlo su in altro modo... (Pausa, freddamente) Va bene. E poi?

Silvia                               - (sorpresa) Come, e poi?

La Madre                         -  Sì, dico, che cosa avverrà poi? Mio fi­glio resterà qui, con loro? In negozio con suo ma­rito. A casa con lei. Per sempre? E io, scusi?

Silvia                               -  Ma lei verrà qui a vederlo quando vorrà. Lei potrà anche venire a lavorare qui, se le aggra­derà.

La Madre                         -  No. Qui, sotto gli occhi di mio figlio, a sciacquare i piatti suoi e loro, no. Mai. Io sono una madre fallita. Sono una madre che non ha sa­puto né tirarlo su, né raddrizzarlo.

Silvia                               -  Allora abbiamo fatto male a tenerlo qui, a non denunciarlo, e non farlo gettare in galera...

La Madre                         -  Loro hanno fatto anche troppo. Io, lei lo capisce, sono una povera donna, non ho saputo mai vedere le cose dal loro lato giusto. Io ho sem­pre saputo soltanto sbagliare. Il destino ha voluto che mio figlio incontrasse lei, suo marito, loro due, insomma. Può forse essere la sua fortuna. Io mi ritiro. Facciano pure loro.

Silvia                               -  Immagino che ora vorrà vederlo, suo figlio. Lo chiamo...

La Madre                         -  (quasi con un grido) No... Cioè, sì, certo, lo voglio vedere. Ma non ora, subito. Aspetti ancora un momento. Mi lasci abituare all'idea... all'idea di doverlo lasciare qui. E' questione di pochi minuti.

Silvia                               - (con dolcezza, avvicinandosi alla madre, prima sfiorandole una mano, poi prendendogliela tra le sue) Si calmi. Accadono - alle volte -tante cose strane nella vita. Lei credeva che Mario fosse lontano, e temeva per lui, e lo aspettava in ansia. Ora sa che è qui. Sano e salvo. Non le sem­bra consolante, tutto questo? Il destino, va bene. Ma il destino ce lo facciamo con le nostre mani. Lo accetti anche lei sotto lo stesso segno. Mario può restare qui, come fosse in pensione da noi. Cambia d'aria, è come quando un medico ordina, per un bambino debole o malato, il cambiamento d'aria, la montagna, il mare...

La Madre                         -  (diffidente) Lei gli vuole già bene, al mio Mario?

Silvia                               - (con un lieve tremito nella voce) Certo. Qui, in questi pochi giorni, s'è mostrato pentito, desideroso di costruirsi un avvenire, premuroso, attento, educato...

La Madre                         -  (dubbiosa) Sarà. Ma dovrà fargli cam­biare molte idee, molte abitudini.

Silvia                               -  Certo. E poi mio marito...

La Madre                         -  Non lo lasci più tornare all'osteria del­le Tre Vie: è là che si rovina: quell'uomo, quella donnaccia... Sono loro che me l'hanno rovinato del tutto... La donna, poi, che di ogni giovane, anche del mio Mario, si fa un uomo nuovo... Puah!

Silvia                               -  Non ci ritornerà più, glielo assicuro.

La Madre                         -  Ma lui sa che potrà lavorare giù, nel negozio di suo marito?

Silvia                               -  Non so, non ricordo se già mio marito gli ha fatto capire qualcosa...

La Madre                         -  E lo tengano lontano dai compagni, da quel Gino, da quell'Alessandro maledetti...

Silvia                               -  Certo.

La Madre                         -  Se loro riusciranno a tanto...

Silvia                               -  Potremo. E lei ci aiuterà.

La Madre                         -  Oh! io...

Silvia                               -  Verrà qui quando vorrà, anche tutti i giorni...

La Madre                         -  Sarà lui che...

 

Silvia                               -  Che cosa?

La Madre                         -  Niente. Ora non so dire altro. Ho la testa confusa. Non posso più pensare.

Silvia                               -  Un bicchierino di roba forte. Un cognac.

La Madre                         -  No, non si disturbi. Non sono abituata.

Silvia                               - (servendo) Lo beva. Le farà bene. Le darà forza. E ora chiamerò il suo Mario.

La Madre                         -  (quasi implorando) Un momento. Un momento ancora. (Beve di colpo il cognac, tossisce) Per carità, gli dica subito che non sono stata io a cercarlo, che non sono venuta qui di mia iniziativa... Mi raccomando.

Silvia                               - (sorpresa) E se fosse stata proprio lei, a venire da noi, saputo chissà come che lui è qui?

La Madre                         -  Guai!

Silvia                               -  Ma allora lei ha paura di suo figlio?

La Madre                         -  (riprendendosi) No, quale paura? Ma lui è fatto così, non vuole essere cercato, infasti­dito... Si adombra... Sa, come quei cavalli matti, che un niente li fa impennare...

Silvia                               - (decisa) Va vene. Dirò subito la verità, e cioè che siamo stati noi a cercarla, va bene? Co­m'era nostro dovere, del resto. Aspetti. (Esce da sinistra).

La Madre                         -  (rimasta sola, smarrita, impaurita, tenta di riassettarsi la gonna, ravviarsi i capelli; mormo­ra) Dio, Dio, mio Dio...

Silvia                               - (riappare, cedendo subito il passo a Ma­rio) Ecco, Mario. Qui c'è tua madre.

Mario                               -  (resta inchiodato; poi, come trovando le pa­role a fatica) Sei tu? Qui?

La Madre                         -  (balbettando) Questi signori... mi han­no mandato a chiamare... Ero tanto in pensiero, sai...

Silvia                               -  L'ho già detto: l'abbiamo cercata noi.

Mario                               -  Come hanno fatto a trovarla?

Silvia                               -  E' andato mio marito. Ha chiesto, ha par­lato con qualcuno...

La Madre                         -  Mario... Mario... (Fa l'atto di avvici­nargli).

Mario                               -  (senza muoversi) Non è accaduto niente. Poi ti spiegherò. Proprio niente.

La Madre                         -  La signora mi ha tanto parlato. Ti aiu­teranno a lavorare, in un modo diverso.

Silvia                               - (a Mario) Non abbracci tua madre? (Ma­rio si avvicina e abbozza un abbraccio, senza il minimo segno di commozione).

Silvia                               - (a Mario) Abbiamo parlato a lungo, tua madre e io.

Mario                               -  Si sarà lamentata di me, vero?

Silvia                               -  Non si è lamentata. Ma io ho capito egualmente.

Mario                               -  (brusco, alla madre) A casa, qualcuno mi ha cercato?

La Madre                         -  Nessuno. Io credevo proprio tu fossi in giro, con qualche camion. Un giro lungo.

Mario                               -  Hai visto il Gino, l'Alessandro?

La Madre                         -  (dopo aver gettato un'occhiata d'intesa a Silvia) Non li ho visti, non si sono fatti vivi...

 

Mario                               -  Se tu dovessi incontrarli, se venissero a chiedere di me a casa, di' che sono fuori, con il camion del Giulio, e che mi sono ammalato da qualche parte, che non sai dove sono, che non sai niente di me da tanti giorni. Capito?

La Madre                         -  Va bene. Ma quei due...

Mario                               -  Piantala. Quei due sono quel che sono. E io non li voglio neppure più guardare in faccia...

La Madre                         -  Così va bene. (A Silvia) Vede, signora?...

Mario                               -  Ma ora...

La Madre                         -  Tu devi promettere a me e a questa brava signora, che cambierai vita: come se tu ri­nascessi...

Mario                               -  (infastidito) Sì, va bene, l'ho già detto e promesso... Cosa devo dire di più?

La Madre                         -  Dirlo meglio. Sembra che ti costi una gran fatica. Hai avuto un bel colpo di fortuna, tro­vando queste brave persone... Poteva finire molto male, sai? E invece sei qui, ti proteggono, pensano a te... Spero avrai ringraziato, e che ti comporterai bene...

Mario                               -  (c. s.) Ma sì, sì, stai tranquilla... Ora va...

La Madre                         -  (a Silvia) Lo vede, lo sente? Ha solo un desiderio: quello di mandarmi via. Vorrebbe fossi già lontana di qui...

Silvia                               -  Mario, ma questa è tua madre...

Mario                               -  Lo so. Non ho detto niente di male. Solo mi dispiace il disturbo che le dà...

La Madre                         -  E tu? (Aggressiva) Ci sei forse arri­vato in carrozza, qui?

Mario                               -  (a Silvia) Sa tutto?

Silvia                               -  Qualcosa ho pure dovuto dirle.

Mario                               -  (alla madre) Ma tu starai bene zitta, adesso. Con tutti. Hai capito bene? Con tutti. Non una parola.

La Madre                         -  Certo. Ho capito.

Mario                               -  (a Silvia) E' una chiacchierona, mia ma­dre. Parla, con tutti. Racconta di me, del Gino, dell'Alessandro... Mi può rovinare, con una parola...

La Madre                         -  (scattando) Ah! sì, vero? Adesso sono io che lo rovino. Sono io che lo faccio prendere dal­le guardie...

Mario                               -  (incattivito) Lo hai già fatto.

La Madre                         -  Per il tuo bene.

Mario                               -  (c. s.) Due notti in guardina, a dormire nel piscio...

La Madre                         -  Per il tuo bene.

Mario                               -  E vai a denunciarmi anche adesso. Vai a denunciare anche chi mi ha dato asilo. Vai. Corri.

Silvia                               - (spaventata) Mario! Ma è tua madre. Ha cercato di fare quello che avrebbe fatto ogni madre!

Mario                               -  Rovinarmi, vero? Una volta che in Que­stura si sono messi in testa che uno ha sbagliato, anche se rubano un borsellino in fondo allo stivale vengono a cercare me! Bella roba.

La Madre                         -  (a Silvia) Lo vede? Lo sente? E' fatto così, lui. Lui ha bisogno di stare solo, e che nes­suno fiati, e che nessuno osi rivolgergli la parola... E' fatto così.

Mario                               -  Basta ora.

La Madre                         -  Basta, va bene. Me ne vado. Verrò soltanto se mi chiamerai, se questi signori mi di­ranno che tu hai bisogno di me. Ma non ci conto. Ti avevo già perduto da un pezzo. Ora capisco che non c'è più niente da fare. Tu, di me, non hai mai saputo che fartene. Solo un peso, una noia. Avrei dovuto morire, per farti contento. (Silvia sincera­mente commossa, fa l'atto di abbracciarla, la madre resiste, poi, anche lei, si getta nelle braccia di Sil­via, singhiozzando seccamente, come se le si spac­casse il cuore. Mario guarda le due donne abbrac­ciate, senza dire una parola. La madre scioglien­dosi, vergognosa) Mi scusi, mi scusi, signora.

Silvia                               -  Ma che dice. Si calmi. Si tranquillizzi. Vedrà che Mario cambierà. (A Mario) Lo prometti, vero?

Mario                               -  (con falsa arrendevolezza) Ma sì, certo.

Silvia                               -  Ecco, sente? Una promessa.

La Madre                         -  Mi scusi ancora. (A Mario) Ora vado via. Non dirò più niente. Aspetterò tue notizie. Sai dove farmele avere. Ti porterò un altro vestito, e della biancheria. A lei, signora, e a suo marito, non so più cosa dire. Li ringrazio, con tutto il cuore che mi resta. (Si avvicina a Mario) Ciao, Mario. Fai il bravo. Ricordati di tuo padre, ch'era un galantuomo. Mettiti sulla sua strada. Pensa a lui, più che a me...

Mario                               -  Sì, ora vai. Sarò buono. (L'abbraccia sten­tatamente, quasi a fatica; la madre gli si stringe al collo, lui se ne distacca) Vai, ora...

La Madre                         -  Signora, signora mia...

Silvia                               -  Vada tranquilla. Arrivederci. E venga quando vuole... (L'accompagna verso la porta di destra. La madre prima di uscire si volta a guar­dare Mario che tiene gli occhi bassi, fissi a terra -un lungo sguardo - un tentennamento del capo -poi esce rapidamente. Silvia rientra - si avvicina al tavolo - un lungo imbarazzante silenzio).

Mario                               -  (è tornato umile, remissivo; le sue prime parole sono impacciate, tiene sempre lo sguardo fisso a terra) Sa, dalla morte di mio padre, mia madre... (Fa cenno con l'indice alla fronte, come dire: svampita) Non creda che l'abbia ridotta io, mia madre, in quello stato lì... Sì è come fissata, nei miei riguardi... Fin da quando andavo a scuola, sempre ad aspettarmi all'uscita, anche quand'ero già grande... I miei compagni mi prendevano in giro. E per la strada, sempre mi teneva stretto per una mano, fino a farmi male... Fissata.

Silvia                               - (pronta, semplice) Non occorre tu mi dica del tuo, del vostro passato. So già abbastanza. Non voglio neanche tenere conto di quanto ci avevi detto prima, di tua madre...

Mario                               -  Non volevo venisse qui, a disturbare...

Silvia                               -  ... Vorrei solo essere sicura che tu intendi, da uomo d'onore e di coscienza, che intendi mettere una pietra sul passato... questo vorrei, e lo vuole anche mio marito. Solo così sarà possibile aiutarti, fare di te un uomo vero, onesto, pulito... (Mario d'improvviso è scosso da un tremito che cresce sempre più, fino a trasformarsi in un singhiozzo secco disperato violento; s'accascia su una sedia, col capo stretto fra le mani. Silvia profondamente col­pita, poi visibilmente commossa, s'avvicina a Mario, gli mette una mano su una spalla) E adesso, che co­sa succede? Su, non fare così. Non devi. (Aumenta la sua commozione) Lo vedi che sei ancora un bambino? Basta. Non piangere più. Vedrai. Sei ancora in tempo. Ti rifarai la strada. Avrai un lavoro che ti darà soddisfazione. Bisogna dimenti­care tutto, sai? Cancellare tutto quello che è pas­sato. Sei nelle migliori condizioni per poter fare tutto questo. Siamo qui per aiutarti. Lo sai quanti vorrebbero liberarsi del passato, e non ci riescono perché non sono aiutati da nessuno, perché l'am­biente non li favorisce, perché il passato è sempre troppo vivo, troppo pesante? Tu invece ti sei la­sciato tutto alle spalle. Sei in un mondo nuovo, diverso, sano... Ora, per te, tutto dev'essere chiaro e facile. Ci siamo qui noi, ad aiutarti. Non sei solo. Non devi più lottare da solo. Capisci? Su, alza la testa. Basta con queste lacrime... (Ma i singhiozzi crescono, Silvia lo accarezza sui capelli, poi gli afferra il capo e se lo stringe al petto) Lo capisci che qui hai trovato chi ti vorrà bene? Tu hai biso­gno di tanto affetto. Forse è questo che ti è man­cato. Ora non ti mancherà più. (Con tenerezza, infervorandosi) Avrai tutto quello che vorrai, se dentro di te nascerà un Mario nuovo, un vero uomo... Come un gioco capisci? Il Mario di prima sparisce, e ne appare un altro... Con gli stessi ca­pelli - (glieli accarezza, teneramente, come ad un bimbo), con lo stesso viso, con gli stessi occhi... Un bel ragazzo, ma dentro tutto cambiato, tutto diverso da quello di prima. (Gli appoggia una guan­cia ai capelli, continua ad accarezzarlo).

Mario                               -  (improvvisamente svincolandosi, scatta in piedi, poi, con voce arrochita) Basta. Mi lasci stare. Basta. (Più alto di tono, quasi un grido) Basta!

Silvia                               - (con un grido) Che ti succede, adesso?

Mario                               -  (confuso, tentando di frenarsi) Mi scusi, non volevo... (Si chiude il viso tra le mani) No, non voglio essere trattato così. (Tra sé, con durezza) E' assurdo, è assurdo...

Silvia                               - (trasognata) Ma che cosa è assurdo?

Mario                               -  Questo. Tutto questo. Non so. Non riesco a spiegarmi meglio. Mi scusi. Ma ora comincio a capire. E' stata la visita di mia madre.

Silvia                               -  Tua madre? E che cosa è cambiato, con la sua visita?

Mario                               -  Non so. Ma tutto. Mi sembrava di avere il coraggio di cominciare davvero a vivere diversa­mente. Invece no, siamo ancora alle raccomanda­zioni, ai richiami, alle promesse... Tutto come prima. (Con una disperazione infantile ma decisa) E io non voglio, non posso promettere niente. Non posso sentirmi dire certe cose. Non voglio essere trat­tato così.

Silvia                               -  Non vuoi che ti si voglia bene?

Mario                               -  Non so, ma forse è così. Mi pesa, mi soffoca.

Silvia                               -  Eppure tu sei venuto qui - e in che modo - per chiedere aiuto...

Mario                               -  (quasi fuori di sé) Perché sono uno sporco vigliacco. Poco fa ho pianto. Me ne vergogno. Sono un debole. Non riuscivo più a capire niente, di lei, di me, di mia madre, di tutti. Come fossi stato ubriaco. Ora comincio a vederci chiaro. Mi risve­glio. Ho sognato. Bello o brutto, questo è un sogno. Bisogna risvegliarsi. Voglio uscirne.

Silvia                               -  Ma tu hai chiesto, implorato il nostro aiuto!

Mario                               -  (rabbioso) Le ho detto: perché avevo una fifaccia maledetta. Ecco che cosa è stato. Sono un sacco di paura. Mi conosco. Le gambe mi tremano. Va bene. Imparerò da solo a non lasciarle più tre­mare. Le pianterò bene in terra, fin qui. (Accenna alle cosce, pestando forte i piedi).

Silvia                               - (lo guarda attonita, più che spaventata; ha le mani congiunte) Tu... Tu parli così...

Mario                               -  Avevo paura del Gino, dell'Alessandro, delle guardie, della prigione. Avevo paura che quei due venissero a cercarmi a casa, che mi caricas­sero di botte... Il Gino e l'Alessandro lo hanno già fatto, con l'Arturo, con Antonio il Gobbo... Paura, marcia paura. E quando ho paura, non ragiono più. Divento un altro. Mi ammazzerei, pensando a quel pezzo di marcio vigliacco che divento...

Silvia                               - (balbettando) Solo questo mi sai dire? E' questo che ho meritato, che abbiamo meritato?

Mario                               -  Non l'ha meritato. Nessuno l'ha meri­tato. Ma io lo dico lo stesso. Lo dico a lei come un giorno l'ho detto a mia madre, e l'ho vista cadere a terra come fulminata, e sono uscito senza voltarmi indietro, sbattendomi la porta alle spalle. Perché io sono questo, non quell'altro che mia madre e lei vorrebbero. Sono fatto così. Bisogna credermi solo quando sono così. L'altro è falso, è tutta una invenzione degli altri. L'invenzione delle madri, dei padri. Ma non si può restare inven­tati per tutta la vita. Bisogna essere quello che si è. Non c'è più tempo per cambiare tutto. Io sono fatto così, e non mi cambio con nessuno. Non c'è un altro Mario: c'è solo questo, e basta. Questo. (Si picchia i pugni sul petto) Sono anni che lo dico, ma nessuno mi vuole credere. Sono nato così. Devo vivere così. So cosa m'aspetta. Adesso ho ancora delle sporche paure. Poi la paura passerà. E io sarò il Mario che devo essere. Finirò male? Lo so già. Qualche volta o l'altra i miei compagni mi faranno fuori perché io li farò scoprire con la mia fifa? Mi starà bene. Ma non posso continuare a nasconder­mi dietro un pupazzo nel quale tutti vogliono cre­dere, e io non credo affatto. Va bene? E mi creda almeno lei. Lo domando come una grazia. Prima le ho chiesto di salvarmi: è perché avevo paura. Ora non ho più paura. Ora torno il Mario che se l'ha fatta addosso, ma poi tornerà a cercare il Gino e l'Alessandro, per combinarne una da farci stare bene per anni, oppure andare in galera e non par­larne più.

Silvia                               -  Ma tu mi fai paura!

Mario                               -  (come forsennato) Io devo fare paura! Noi dobbiamo fare paura. Siamo nati per questo. Guai a chi non sa farsi largo impaurendo la gente, il mondo, le madri, tutti... Non si ragiona che con la paura, schifo di una vita! E se diamo retta a voi, che ci combinate a tutta birra la maschera dei buoni, la vita ci schiaccia, non si fa un passo avanti, si resta a terra appiattiti come gli scarafaggi sotto le suole delle scarpe. Non ve ne accorgete che ci rovinate, con la vostra bontà, coi sentimenti gene­rosi, con l'amor al lavoro? Basta, insomma. E se proprio vuole che le dica tutto... ecco qualcosa ancora, tanto per arrivare fino in fondo. Io sono un uomo, e lei è una donna. Mi capisce? Lei vor­rebbe farmi da madre, e io, da quando sono entrato qui, l'ho sentita tutt'altro che una madre... E poco fa, quando lei mi teneva la testa fra le sue brac­cia, così, come fossi un bambino... (Silvia grida e si stringe le mani al viso) Non sono un bambino. Glielo grido perché voglio arrivare proprio a toc­care il fondo, spaccare tutto, buttare tutto all'aria... (L'afferra, Silvia sta per cadere, Mario se la trova fra le braccia, la stringe) E mi piace... Cristo, se mi piace... (Rabbioso. Gridando) Non sono un bam­bino di pezza. Non sono un giocattolo. Anche mia madre voleva giocare con me. Sono quello che sono. Basta. Mi piace, ogni altra donna, come la moglie dell'oste. Così... (Con un gesto rapido le afferra il capo, le dà un lungo bacio sulla bocca).

Silvia                               - (svincolandosi a fatica, spinge lontano da sé con tutte le forze Mario che barcolla, stordito. Inorridita, Silvia sta per perdere le forze- Poi d'im­provviso, si riprende, passandosi il dorso della mano sulla bocca, con un urlo soffocato) Via! Via! Via! Via! (Raccogliendo le forze che stanno per mancarle, si slancia su Mario, con i pugni gli col­pisce il petto, più e più volte, finché s'accascia a terra. Mario, ripreso dalla paura, sgomento si guarda attorno, poi, con gli occhi fissi su Silvia che si è accasciata al suolo, scappa verso l'uscita. Silvia lentamente riporta il dorso di una mano alle labbra, ripetendo il gesto di poc'anzi. Le forze le ritornano. Si alza. Barcollando si guarda attorno, capisce che Mario è scappato. Va al citofono, lo sol­leva, poi, cercando un tono di voce che non metta in allarme il marito) Gustavo?... Sì, puoi venire un momento su? No, un particolare... Sì, ora sei neces­sario... Già, si capisce... Subito, se puoi... (Nell'at­tesa, Silvia continua a guardarsi smarrita attorno. Come cercasse Mario. Va ad una scrivania, apre un cassetto, tira fuori la famosa rivoltella giocattolo, l'osserva, poi resta con l'arma stretta nel pugno).

Gustavo                           - (entrando, la sorprende in quell'atteggia­mento, sobbalzando) Che fai?

Silvia                               - (tentando di nascondere l'arma) Niente. Credi. Così...

Gustavo                           - Mi hai fatto una paura. Per fortuna che è solo un giocattolo.

Silvia                               - (con un sorriso amaro) Già. Non serve. Se fosse servita, forse, l'avrebbe usata contro di me.

Gustavo                           - Ma insomma. (S'avvicina, le strappa l'arma, la getta nel cassetto) Si può sapere... Dov'è quella donna?

Silvia                               - (come svegliandosi da un lungo sonno) La madre?

Gustavo                           - La madre, sì. Dov'è?

Silvia                               -  E' andata via.

Gustavo                           - E lui? Mario? E' di là? (S'avvia verso la camera di Mario, quasi minaccioso).

Silvia                               -  Via. Anche lui.

Gustavo                           - (fermandosi) Con lei? Insieme?

Silvia                               -  Insieme.

Gustavo                           - (con un respiro di sollievo) Ah! Ma allora tutto cambia. Me lo potevi dire subito. (Pau­sa) E tu?

Silvia                               -  Che cosa dovevo fare?

Gustavo                           - Ma i nostri progetti, i tuoi...

Silvia                               - (amara) Cose senza senso. Progetti che svaniscono al contatto della realtà... (Trattenendo a stento un fiotto di lacrime) Si dicono tante cose. Tutto sembra facile, possibile. Poi, ad un tratto...

Gustavo                           - (quasi trionfante) Lo vedi? Io lo sapevo. Per questo, sai, ho insistito per fare venire qui sua madre. Solo lei...

Silvia                               - (riprendendosi lentamente, mentre traspare lo sforzo di nervi compiuto per non rivelare la verità) Hanno parlato a lungo, davanti a me... Due povere creature. Lei, poi...

Gustavo                           - E pensare che lui ce l'aveva descritta...

Silvia                               -  Taci.

Gustavo                           - Ma almeno ha saputo che cosa abbiamo fatto per lui?

Silvia                               -  Qualcosa. Sai, non ho voluto insistere... Ora, da lui, saprà il resto...

Gustavo                           - (incredulo) E tu pensi che quanto s'è fatto noi sia servito,..

Silvia                               - (con un grande sforzo) Può essere. In certi casi, un gesto, un pensiero... (Come a se stessa, amara) A me è servito.

Gustavo                           - Ma non era precisamente questa la soluzione che tu avresti voluto.

Silvia                               -  Oh! Io... Ma noi contiamo poco. Estranei.

Gustavo                           - Mi sembri così poco convinta... Forse è accaduto, qui, qualcosa che non sò.7.

Silvia                               - (come impaurita) Niente, ti assicuro. Sai, sono rimasta un po' scossa...

Gustavo                           - (affettuoso) Sempre la stessa, incorreggibile... Vorresti vedere tutti felici, tutti a posto, attorno a te...

Silvia                               -  Già... Tutto a posto. Ma si sbaglia così facilmente.

Gustavo                           - In fondo, siamo riusciti a farli tornare insieme, evitando a lui un guaio che poteva essere grosso. Credi gli servirà di lezione?

Silvia                               - (stancamente) Certo. Per tutti.

Gustavo                           - In fondo, dev'essere un bravo ragazzo. Guastato, si sa. I compagni, i tempi... Ma ti ricordi com'era nei giorni scorsi? Un bambino!

Silvia                               -  Già. Un bambino.

Gustavo                           - Giocava.

Silvia                               -  A un brutto gioco. Te ne sei accorto a tempo.

Gustavo                           - Lo so, ma sono, come dire?, le scorie, le venature del male... Si può guarire. Una lezione l'ha avuta. Gli servirà. E ci serberà un po' di rico­noscenza. Lo rincontreremo uomo fatto, nella vita, e potremo pensare di aver collaborato a rimetterlo sulla strada buona...

Silvia                               -  Già.

Gustavo                           - (semplice) Sai, penso che la nostra casa gli sia servita come la gronda serve di riparo a certi uccelli durante le tempeste, nei grandi freddi... Veramente il tetto, la gronda, il riparo, sei tu... Lo sei sempre stata, per tutti. Anche per me.

Silvia                               - (roca) Zitto...

Gustavo                           - (teneramente infervorandosi) Eh! No, cara, bisogna dirlo. Se fosse stato solo per me... Ma io sono un uomo. Noi uomini certe cose non riusciamo mai a capirle. Ci vuole la donna... La madre...

Silvia                               - (c.s.) Taci. Te lo domando per pietà.

Gustavo                           - (assalito da un dubbio improvviso) Ep­pure, ho l'impressione che qualcosa, in mia assen­za, sia accaduto... Sai, a pensarci bene, questa uscita di tutti e due, madre e figlio...

Silvia                               - (ripetendo meccanicamente) Madre e figlio...

Gustavo                           - (siede, fa sedere Silvia accanto a sé, le prende una mano, l'accarezza dolcemente come parlasse ad una bambina - hanno entrambi lo sguar­do fisso, lontano - di Mario che s'allontana con sua madre accanto) Forse domani... Meglio non par­larne più... Un ricordo. Infine, penso che questa sia stata proprio la soluzione migliore... Con l'andar del tempo... No, no, meglio così. Avrebbe potuto serbarci qualche sorpresa, lasciarci un cattivo ri­cordo. Un gusto amaro...

Silvia                               - (lentamente, inconsapevolmente, porta il dorso della mano alla bocca e compie il gesto senza che Gustavo s'accorga di nulla - come in un soffio) Un gusto amaro...

FINE

* Copyright 1965 by Enrico Bassano

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 n ceno domo

ì un ceno anno in AULIDE

COMMEDIA IN TRE ATTI DI

Vico Fam

 

Incontro con Vico Faggi in casa di Ridenti, a Nervi; sono anni che queste riunioni si rinnovano con autori, attori, critici ed amici sim­patizzanti, ed un tempo c'era allegro e sdegnoso anche Giovaninetti, ora perduto per sempre. Questa volta abbiamo un ospite nuovo, al primo incontro con tutti, noi. Viene con Ivo Chiesa che lo ha tenuto a battesimo alla ribalta dello « Stabile » genovese con Processo di Savona dai cui documenti ha tratto un'opera di teatro, tutto rifacendo ma sempre ancorato alla nitida verità. L'autore è Vico Faggi, il nuovo ospite in casa Ridenti ed in questa rivista con la sua opera Un certo giorno, di nn certo anno, in Aulide.

Vico Faggi è il giudice di Tribunale, Alessandro Orengo. Quarantenne. Magrissimo, viso e occhi da asceta. Famiglia di buon ceppo genovese. Da un decennio si occupa anche di letteratura, ha collaborato al « Bel­li », a « Nuova Corrente », a « // Caffè », al « Diogene ». Critico acuto, saggista sottile. Poi arriva il teatro: una passione fervida, improvvisa. Parecchi atti unici, pubblicati e no. Uno, Questione di statistica rap­presentato a Brescia, alla « Loggetta » con la regìa di Mina Mezzadri. Di II processo di Savona che è cronaca di questa Stagione teatrale, il lettore di « Dramina » sa lutto, dal contenuto al successo. Lasciamo parlare Faggi della sua opera, dal gioco scenico di essa destinato ad avvicinare la storia di ieri alla vita convulsa d'oggi e alle memorie da tenere salde senza deformazioni o franamenti o sbiancature. Poi al­l'improvviso, come per liberarsi di qualche cosa che lo preme dentro e non riesce a venir fuori, Faggi domanda a Chiesa, con semplicità e timidezza :

     -  Così, all'incirca, come diritti d'autore quanto credi che II processo possa...

Ivo Chiesa, staccato, indifferente alle cifre, come se sbloccasse il regi' stratore di cassa con un colpo di manovella:

     -  Lo spettacolo è su da tre mesi, passa di successo in successo, repli- che a teatri zeppi, avrai già accumulato alla Società degli Autori qual­ che milione...

Forse Vico Faggi diventa pallido? o sarà la luce che cala sul mare al tramonto ed i riflessi s'allungano fino ai lunghi rami dell'albero seco­ lare che s'inquadra nella finestra della casa di Ridenti? Non dimen­ tichiamo che si tratta di un giudice di Tribunale, sia pure con due volli. B nona fortuna, Faggi. Hnviv.» Un*s;nui

 Persone

IL TESTIMONE

IN BIANCO

IL TESTIMONE

IN NERO

IFIGENIA

CLITENNE-

STRA

ACHILLE

PATROCLO

CALCANTE

ODISSEO

MENELAO

IL POETA

EPICO

IL POETA

ELEGIACO

SOLDATI

// Testimone in ne­ro e il Poeta Epi­co sono interpre­tati dallo stesso attore, il quale in­dossa, nella secon­da parte, un man­to e una corona. Per i soldati gli interpreti sono, al minimo, quattro, ma con semplici e palesi travestimen­ti figureranno di esser molti di più.

 

1TESTIMONE * BIANCO

TESTIMONE f NERO IGEAfiA

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sono, ai

quattro empiici e Wtimen-inno di ' dì più.

 ATTO PRIMO

due Testimoni)

Testimone in bianco        -  Mai, occhio umano vide tto più atroce, orecchio udì parole più terribili...

Testimone in nero            -  Mai, dico mai, occhio uma-

vide più nobili eventi, mai orecchio ascoltò

role più sublimi.

Testimone in bianco        -  Mai delitto più vile fu

nsumato...

Testimone in nero            -  Mai sacrificio più puro

lebrato...

Testimonio in bianco       -  Nel nome della civiltà...

Testimone in nero            -  Della civiltà... L Testimone in bianco           -  Della patria... i Testimone in nero       -  Della patria... l Testimone in bianco   -  Della religione. l Testimone in nero      -  Della religione.

Testimone in bianco        -  Noi usiamo le stesse parole, ma intendiamo le stesse cose? In me sono verità, in te luoghi comuni. In me ironia, àn te enfasi, retorica. (Continua malgrado un tentativo i interruzione) E poi non sono neanche le stesse ■arole perché tu ci metti le maiuscole. E tuttavia, importa... Noi siamo i testimoni, noi dobbia­mo riferire affinché non siano cancellati dall'oblio i fatti cui assistemmo. Gli uomini debbono sapere. Il Testimone in nero        -  Per commuoversi, stupire ed elevarsi.

Il Testimone in bianco     -  Per giudicare. (Indica il ubblico) Ma saranno loro, dopo, a stabilirlo. (Una breve pausa) Siamo in Aulide, nella Beozia. Ecco il porto: centinaia di navi vi sono raccolte. Hanno i fianchi dipinti e le prore di bronzo, ma i remi sono legati, le vele cadono inerti. Ecco la spiaggia, popo­lata di tende. Degli uomini si mostrano, alcuni fanno esercizi con le armi, altri lanciano il disco o si sfidano alla corsa. Tutti giovani, in genere. Sol­dati. Ma i più si limitano a prendere il sole, pigra­mente sdraiati sulla sabbia. Il Testimone in nero            -  Il loro aspetto è nobile, marziale. Ecco un gagliardo che, pur indossando la pesante corazza e l'elmo, si cimenta alla corsa con un carro trainato da un agile destriero. Due ercoli lottano, i loro muscoli si tendono, si con­traggono. Un altro, imponente, scaglia il giavel­lotto. Le loro armature, gli elmi, le spade, gli scudi, gli schinieri, sono splendidamente lavorati. La ci­viltà di un popolo si giudica dalle sue armi. Il Testimone in bianco    -  Una tenda più alta e spaziosa sorge al centro dell'accampamento. Deve essere quella del capo.

Il Testimone in nero        -  Un capo dal nome famoso: Agamennone figlio di Atreo. Con lui, sotto il suo scettro, tutti gli eroi dell'Eliade: Aiace di Oileo, Aiace di Telamone, decoro di Salamina, il forte Diomede, Achille figlio di Peleo e Teti, Odisseo figlio di Laerte, il bellissimo Nereo... Tutto il fiore della gioventù greca è qui raccolto. Nella tenda di Agamennone, dn questo momento, sono riuniti i comandanti. Prenderanno grandi decisioni, perché nobili imprese li attendono.

Il Testimone in bianco     -  Prenderanno una deci­sione. Siamo nell'anno... ma non posso dirlo: tra gli

 UN CERTO GIORNO

studiosi regna, in proposito, la massima discordia, e non è mio compito intromettermi. E del resto l'anno non conta.

Il Testimone in nero        -  Conta, invece. Bisogna precisare, limitare. Siamo in un certo giorno di un certo anno tra il xiv e il xn secolo. L'ordine regna nell'Eliade felice. Gli schiavi stanno al loro posto. Artigiani e contadini spargono il loro sudore, assiduamente. Nelle selve i pastori parlano con gli dei e con le Ninfe. Zeus nell'Olimpo, i principi sulla terra, reggono lo scettro nella ferma mano. L'uomo, che ha già scoperto cose essenziali - la poesia, la musica, forse la scrittura, certo la stra­tegia della guerra - darà la misura della sua gran­dezza e nobiltà.

Quadro secondo

(Odisseo, Agamennone, Menelao, Calcante, Achille, Patroclo - che gli sta sempre accanto - Poeta Epico, Poeta Elegiaco, i due Testimoni). Odisseo   -  Da tutta l'Eliade sono accorsi, qui in Aulide, i nobili guerrieri, con le loro flotte, le loro schiere, le loro armi più affilate. Tutti uniti dal giuramento, che è sacro, di vendicare l'offesa a Menelao e all'Eliade intera. Tutti decisi a conqui­stare Troia e distruggerla, perché non solo Paride, ma tutta la sua gente, deve pagare per il rapimento di Elena. La nostra è una missione di giustizia. Sacra come il giuramento. Ma qui, intanto, le vele pendono inerti sulle navi, non un soffio di vento le agita. Siamo incatenati a questa striscia di terra da oltre cinque settimane. I guerrieri sono turbati, cupi, impazienti. Temono che Agamennone ordini di sciogliere l'esercito, di tornarsene a casa. Che c'è di vero, Agamennone?

Agamennone                   -  Saggio è colui che non si oppone alla volontà degli dei, e gli dei, come vedi, sono contrari alla spedizione. Le navi non possono sal­pare verso la Troade, dunque è inutile prolungare l'attesa. Ritorniamo.

Il Poeta Epico                  -  No, il nostro destino è nella Troade.

Achille                             -  La strada della Troade è la strada del­l'onore.

Patroclo                           -  Dell'onore.

Agamennone                   -  Ritorniamo. L'ostinazione sarebbe un atto di empietà.

Menelao                           -  Non ti riconosco, fratello. Vuoi rinne­gare di giuramento? Vuoi rinunciare alla gloria che ti attende, e privarne anche noi e la nostra patria? I principi ti hanno eletto loro capo stimandoti il più degno e certo tu lo sei. Dunque vi è qualcosa che ci vuoi nascondere.

Calcante                          -  Sì, vi è un segreto, ed io credo che sia mio dovere, ora, rivelarlo, per quanto grave sia il dolore che dovrò arrecare ad Agamennone. Agamennone          -  Non procedere oltre, Calcante, se hai viscere umane.

Achille                             -  Ma noi abbiamo il diritto di sapere. Patroclo    -  Sì, di sapere. Calcante        -  Non puoi costringermi a tacere la vo-

 41

 VICO FAGGI

 lontà degli dei. La loro voce echeggia nella mia.

10 non posso venir meno al mio compito sacro. Non voglio tradire l'aspettativa dell'Eliade e il suo glorioso destino. Sento su di me gli occhi dei po­ steri.

Odisseo                           -  iParla, Calcante, perché tuo è il dono profetico e conosci i segreti del passato, del pre­sente e dell'avvenire.

Calcante                          -  E' Artemide che si oppone alla partenza delle nostre navi. E' Artemide che ha placato il vento. Noi dobbiamo placare la sua ira. Già l'ho rivelato ad Agamennone. Un grande sacrificio è necessario...

Menelao                           -  Quale sacrificio?

Calcante                          -  ... ed è proprio Agamennone che deve compierlo. Artemide - tremate nobili principi -chiede la vita di sua figlia, Ifigenia. Agamennone          -  La folgore si è abbattuta su di me. Menelao                               -  Ahimé, se il mio onore richiede, per la sua vendetta, tale sacrificio; se per riavere Elena io debbo cagionare la morte di Ifigenia; se il prezzo è così alto e terribile, ebbene, io vi sciolgo dal vostro giuramento. Agamennone         -  Ti ringrazio, fratello. Calcante                 -  Nessuno può scioglierci dai nostri doveri. Perché non è più di Menelao, ora, che si tratta, né di Agamennone, né di Odisseo o di Achille, o di me stesso. Dell'Eliade si tratta. Del suo nome e della sua libertà, che sono in pericolo. Dall'oriente ci è giunta una sfida che non possiamo ignorare. Ora la nostra frontiera è nella Troade. Là si annidano i barbari. Se non li combattiamo oggi, se non li pieghiamo al più presto, i loro ap­petiti cresceranno, aumenterà la loro audacia e prepotenza, e saranno loro ad attaccarci, nel mo­mento che giudicheranno più propizio. Odisseo         -  Saremmo ciechi se non vedessimo la minaccia; anzi peggio: saremmo dei mentecatti.

11 Poeta Epico                 -  Dei vili.

Il Poeta Elegiaco             -  Dei traditori. Calcante      -  E non è vero, Agamennone, che gli dei siano contrari alla guerra. Gli dei sono con noi, con la civiltà, contro le barbarie. Essi chiedono soltanto un sacrificio. E noi dobbiamo farlo, anche se ci costa lacrime cocenti. Ad Artemide quello che è di Artemide. Ma ci consoli il pensiero che, immolata sull'altare, Ifigenia vivrà nei secoli futuri nella gratitudine dell'Eliade, nella luce della sua fama, nelle parole dei poeti.

Il Poeta Epico                  -  Questo io giuro nel nome di Calliope. Non mancherà, nei miei versi sonanti, la sua lode. E' un poeta che lo giura. Il Poeta Elegiaco       -  Ed io giuro nel nome di Eu­terpe. Nei miei versi commossi risuonerà il suo compianto.

Menelao                           -  No, Ifigenia non deve morire, il suo sacrificio è contro ogni sentimento umano. Calcante                                              -  Il tuo sentimento è nobile, ma sbaglia. Risparmiare Ifigenia, rinviare la guerra, vuol dire prepararci a più gravi lutti; per salvare una vita, che ci è cara, condannarne mille. Umano, vera­mente umano, è chi vuole la guerra, subito, per

 distruggere Troia e assicurare al mondo una pace vera e duratura.

Achille                             -  Queste mie armi, forgiate da Efesto, questo mio braccio che nessuno ha mai piegato, sono al servizio della vera pace. Patroclo   -  Della vera pace.

Odisseo                           -  Agamennone, ora devi scegliere. Nes­suno vuol forzare la tua volontà. Scegli. E' terri­bile ma devi farlo. Ecco la fatale bilancia: da un lato tua figlia, la nobile e dolce Ifigenia, dall'altro l'Eliade, la civiltà, l'onore, la libertà. Da una parte il tuo amore di padre, dall'altra il tuo dovere di re. Io sento che tu saprai decidere. Calcante         -  Da un lato il tuo privato sentimento, Agamennone, dall'altro i tuoi obblighi verso la patria comune.

Il Poeta Epico                  -  Sempre siamo vissuti come liberi. Dobbiamo rassegnarci a morire come schiavi? Agamennone                        -  No, non moriremo in schiavitù.

10 non tradirò l'Eliade. Ho riflettuto, mi sono tor­ mentato ed ho deciso, vincendo me stesso. Prefe­ risco sapere Ifigenia morta, sì morta, piuttosto che costretta a vivere sotto il giogo di un satrapo orientale.

Calcante                          -  Agamennone ha deciso. Onore ad

Agamennone!

Tutti                                 -  Onore a lui! (Emergono dall'ombra i due

Testimoni).

11 Testimone in nero       -  E noi, che abbiamo assi­ stito trepidando al conflitto che Agamennone ha sofferto in sé e superato, reputiamoci fortunati ed onorati di essere stati presenti in questo giorno, che resterà nei secoli memorabile.

Il Testimone in bianco     -  Memorabile giorno di un certo anno tra il xiv e il xn secolo... Sarebbe comodo vero, se le cose fossero andate così. Come sarebbe bello ed onorevole. Come vi sentireste tranquilli! Ma questo non è che un mucchio di men­zogne. Abbiate il coraggio di specchiarvi e di rico­noscervi.

Quadro ter^o

(Odisseo, Agamennone, Menelao, Calcante, Achille e Patroclo, Poeta Epico, Poeta Elegiaco, i due Testimoni).

Odisseo                           -  Siamo fermi da cinque settimane ed è ora di decidere qualcosa. I soldati sono stanchi di aspettare e bisogna che li teniamo a bada. Molti vogliono tornare a casa, dicono che gli affari pri­vati di Menelao non li interessano. Altri dicono che le loro casse ormai sono vuote, come se non fos­simo qui proprio per riempirle. Tra un mese, a lasciarli fare, se ne andranno tutti; e allora, addio guerra di Troia!

Agamennone                   -  Tra un mese la stagione cambierà, tornerà il vento e potremo partire. Odisseo           -  Non ne dubito, ma i soldati, nel frat­tempo, chi li convince a rimanere? Agamennone          -  Ci penseranno Calcante, gli aedi, i sacerdoti, con la loro eloquenza. Odisseo        -  Non scherziamo. Le chiacchiere non bastano. La situazione è seria e quasi compro­messa. Noi comandanti non possiamo rinunciare

 UN CERTO GIORNO

 alla guerra. Ci perderemmo la faccia e il resto. Abbiamo delle magnifiche armi di nuova costru­zione e dobbiamo usarle, tanto più che non ab­biamo ancora finito di pagarle. Menelao     -  Io sono il più interessato. Un troiano mi ha offeso e voi avete giurato, tutti, di vendi­carmi. I Troiani non parlano il greco, dunque sono dei barbari. Debbono pagarla, è una questione di principio. Hanno violato la legge dell'ospitalità. Se non li mettiamo a posto, nessuna sposa greca sarà più sicura in casa sua.

Il Testimone in bianco     -  Sciocchezze. Elena se ne è andata di sua volontà, nessuno l'ha costretta. Suvvia, lo sanno tutti. E allora che senso c'è a far la guerra? A morire per Elena? Il Poeta Epico            -  E invece sì, bisogna morire per Elena.

Il Poeta Elegiaco             -  Per Elena bisogna vincere. Il Poeta Epico    -  Per lei che è la forma terrena ma immortale della bellezza. Non c'è mai stata, parola di poeta, una causa di guerra più nobile. Sarà una guerra cavalleresca. Il fascino dell'av­ventura, il brivido rapinoso del pericolo, il tumulto del sangue, la grande prova della virilità: tutto questo per una donna, è impagabile. Il Testimone in bianco                              -  Tu la guerra non l'hai mai provata.

Il Poeta Epico                  -  E con questo? Vuoi opporre dei fatti, dei nudi, volgari fatti, alle parole di un poeta?

penso che tu sia un pacifista, e i pacifisti sono degli imbelli o dei venduti.

Poeta Elegiaco                 -  lo penso, a differenza del mio ardente collega, che la guerra sia male, lutto e rovina, causa di carestie e pestilenze, ma il male è necessario. L'uomo ne ha bisogno per temprarsi e purificarsi, il poeta per ispirarsi. Sì; il poeta si china, pietoso, sul dolore umano, la sua parola è consolazione...

Odisseo                           -  Non divaghiamo. La guerra è già stata decisa e dobbiamo farla. A Troia ci attendono ric­chezze per i nostri forzieri e schiavi per i nostri campi. Ne abbiamo bisogno. La terra greca è po­vera di ferro. Ne abbiamo necessità; e dove pren­derlo se non nella Troade?

Il Poeta Epico                  -  Odisseo ha il realismo del grande politico.

Odisseo                           -  Abbiamo fatto uno sforzo inaudito per raccogliere i soldati da ogni regione dell'Eliade. Una occasione come questa non si ripete. Dunque il problema è di impedire che il nostro esercito si squagli. Dobbiamo trattenere i nostri uomini e legarli, sì, incatenarli alla causa della guerra. Oggi e domani. Qui e nella Troade. Suvvia, Calcante, spremi le tue meningi.

Calcante                          -  Lungamente ho riflettuto, ho pregato e interrogato gli dei. Gli dei hanno parlato. E' l'ira di Artemide che ci impedisce di partire. Solo un sacrificio potrà placare la dea. Achille   -  Risparmiaci le tue prediche. Patroclo               -  Niente prediche. Il Testimone in bianco                                              -  Risparmia la religione, che non c'entra e non deve essere coinvolta.

 Il Poeta Epico                 -  Sei tu che non c'entri, non hai il diritto di intrometterti.

Odisseo                           -  Lasciate che Calcante arrivi dove vuole. Calcante       -  La religione è affar mio, io soltanto parlo nel nome degli dei. Ebbene, Artemide vuole il sacrificio di una vita umana. La vita di una ver­gine di nobile schiatta. Tutti gli uomini partecipe­ranno al sacrificio, tutti vi saranno coinvolti e ne saranno responsabili. Dopo aver pagato questo prezzo, nessuno potrà tirarsi indietro. Odisseo       -  Perfetto. Evviva Calcante! Nessuno ose­rà più mettere in dubbio l'utilità di oracoli e sacerdoti.

Menelao                           -  Non capisco l'entusiasmo di Odisseo. Odisseo            -  Pensaci su.

Menelao                           - < Ci sarà un sacrificio, un sacrificio umano. Che gliene importa ai soldati? Odisseo -  I soldati saranno tutti intorno all'ara. Terranno stretta la vittima. Menelao           -  E poi?

Odisseo                           -  La vittima sarà giovane, nobile e inno­cente.

Menelao                           - (sempre più affascinato, come gli altri) E poi?

Odisseo                           -  Si dibatterà disperatamente, griderà. Menelao             -  E poi?

Odisseo                           -  Il pugnale le squarcerà la gola. Menelao       -  E poi?

Odisseo                           -  Sprizzerà il sangue, il corpo sarà squas­sato dagli spasimi. Menelao     -  E poi?

Odisseo                           -  I soldati sentiranno il sangue, viscido e caldo, sulle loro mani, e per lavarle dovranno versare altro sangue. La guerra, capisci, sarà il loro lavacro. Dopo tale delitto, non si torna indietro. Calcante                -  Anche se saranno stanchi della guerra, non oseranno confessarselo. Là nella Troade sen­tiranno che solo la vittoria può giustificare il loro delitto. Si malediranno, ci malediranno, ma conti­nueranno a combattere.

Il Testimone in bianco     -  Ma la vittima? Chi sarà? Come potrete sceglierla, con quale diritto... Calcante         -  La scelta è già fatta, è logica. Una ele­mentare deduzione. Tanto più nobile è la vittima, tanto più efficace il sacrificio. Agamennone             -  Dove vuoi arrivare? Tu mi stai gio­cando uno sporco tiro, mascalzone... Calcante           -  Ti capisco, la medicina è amara. Ma non puoi negare che è quella giusta. Agamennone     -  Io ti squarcio il petto, ti strappo la lingua...

Odisseo                           -  Fermo, Agamennone, non scordare che sei il nostro capo. Devi guidare l'esercito, non scioglierlo. E' la ragion di Stato. Agamennone    - (a Odisseo) Perché non sacrifichi tuo figlio?

Achille                             -  Se occorre un sacrificio, fatelo senza storie. Una vittima o l'altra, a me non interessa. Sbrigatevela voi, ma fate presto. Patroclo        -  Fate presto.

Menelao                           - (ad Agamennone) Odisseo ha ragione. Tu hai voluto essere il capo. Per riuscirci, hai bri-

 VICO FAGGI

 gato in tutta la Grecia. Sei il nostro comandante. Un potere grande come il tuo, non l'ha mai avuto nessuno. Ora portane il peso. Agamennone      -  E tu saresti mio fratello? Odisseo    -  Hai grandi poteri, primo fra tutti quello di far le parti del bottino. E se c'è la contropar­tita, non la puoi scansare. Achille                  -  Questo mi sembra giusto. Patroclo          -  Giustissimo.

Menelao                           -  Devi guidarci, dar l'esempio. Un capo non può rinnegare il suo dovere. Agamennone                                              -  Io rinnego tutto, sciolgo l'esercito. Non avrete mia figlia, razza di canaglie. Achille     - (cui Patroclo fa eco) Perché no? Odisseo - (mentre gli altri fanno cerchio attorno ad Agamennone) Ragiona, Agamennone. Proprio perché ami la tua famiglia. Pensa a Clitennestra, a Elettra, a Oreste. Fin che sei in tempo, ascolta. Agamennone                        -  Siamo alle minacce? Odisseo       -  Ti faccio un quadro obiettivo della situazione. Tu valutalo freddamente. Non puoi uscirne. Anche se fuggi, potrai mai essere al si­curo? Pensa alla tua famiglia. E anche a te devi pensare. Perché noi non ti perdoneremmo il tradi­mento, ti saremmo addosso tutti, cancelleremmo dalla faccia della terra te e la tua gente. Il mio linguaggio è duro, ma tu sei un uomo di Stato e devi intenderlo. (La scena si oscura). Il Testimone in nero     -  Quando mai un uomo di Stato è rimasto sordo al linguaggio della ragione?

Quadro quarto

(Soldati).

Il primo Soldato              -  Allora è deciso. Il secondo Soldato              -  Cosa? Il primo Soldato           -  Che dobbiamo farci sbudellare per Elena.

Il secondo Soldato          -  Così dicono. Il primo Soldato        -  Ma è proprio tanto bella? Il secondo Soldato   -  Magnifica. Capelli biondi, lunghi, occhi azzurri, tutta tornita. E cammina, sai, con un passo così altero che sembra sospesa per aria. Che stile, che arroganza! Quando inventò la tunica corta per recarsi ai bagni, la gente faceva a spintoni per vederla. C'era tutta Sparta per le strade. E lei ci guardava come scarafaggi. Il primo Soldato       -  Una bella soddisfazione. Il secondo Soldato               -  I più matti per lei erano gli aedi, che la cantavano su tutte le arie. La chiama­vano divina, ornamento della patria, incremento del turismo.

Il primo Soldato              -  E Menelao? Il secondo Soldato      -  Lo trattava peggio di tutti. Scenate, parolacce, e peggio... Il primo Soldato    -  Vuoi dire che... (fa il segno delle corna).

Il secondo Soldato          -  Puoi immaginarlo... Sempre in mezzo ai fusti della guardia... Insomma Menelao le trottava dietro e lei lo cacciava a pesci in faccia. Una vita da cane. Così quando si sparse la voce del ratto, molti pensarono che l'avesse orga­nizzato lui.

 Il primo Soldato             -  Ma allora, perché farebbe la guerra?

Il secondo Soldato          -  Per l'onore. Il primo Soldato    -  Non vedo che onore ci sia a riprendersi in casa una donna che te ne fa di tutti i colori. Secondo me, l'onore di Menelao non è mai stato cosi bene come adesso. Il secondo Soldato            -  Tu sei un plebeo, che ne puoi sapere dell'onore? (Altri due soldati). Il terzo Soldato    -  La guerra di Troia. Una pas­seggiata, via. Le tue preoccupazioni sono esage­rate. Il più è arrivare sin là, dato che non tira il vento. Ma dopo ce la faremo in quattro e quat-tr'otto. Odisseo dice che sarà una guerra lampo, e quello è una vecchia volpe.

Il quarto Soldato             -  Ragione di più per non cre­dergli. Fa della propaganda. A lui la guerra fa comodo. Hai mai visto la faccia di Penelope? Il terzo Soldato    -  Che centra? Prova a ragionare con la tua testa. Vuoi che i Troiani siano così pazzi da combattere per una donna? E' bella, d'accordo, ma a loro che gliene viene? E poi con quel caratte­rino. Saranno felici di disfarsene e, per di più, ci pagheranno le riparazioni.

Il quarto Soldato             -  Potrebbero farne una que­stione d'onore.

Il terzo Soldato               -  Impossibile, sono dei barbari. (Altri soldati).

Il primo Soldato              -  La guerra lampo, lasciamelo dire, è una storia. Propaganda. C'è voluto un mese per arrivare qui. Qui è un mese che aspettiamo il vento. Campa cavallo prima di prendere Troia. Il secondo Soldato               -  Bisognerà assediarla e ci vor­ranno degli anni. E intanto noi dormiremo per j terra, tireremo la cinghia. Sai come è bello, nella tenda, quando piove.

Il primo Soldato              -  Se tu dici: sarà una guerra-lampo, Odisseo ti risponde: è per questo che la vinceremo. Se tu dici che sarà una guerra lunga, | Odisseo ti risponde: è proprio per questo che la vinceremo. Cosa vuol dire?

Il secondo Soldato          -  Ma... che la vinceremo in I ogni caso.

Il primo Soldato              -  No, che ci prende per stupidi. (Altri soldati).

Il terzo Soldato               -  Menelao fa la guerra perché sua moglie è bella. Odisseo fa la guerra perché sua moglie è brutta. E tu che sei scapolo, perché la fai? ] Il quarto Soldato    -  Perché la fai tu. Il terzo Soldato                                -  Ma io la faccio perché tu la fai. j Il quarto Soldato        -  Ma allora è facile, io non la] faccio più.

Il terzo Soldato               -  Bravo, mi hai convinto. Adesso I non ti resta che convìncere Odisseo. Il quarto Soldato                                              -  Impossibile. Ha la moglie ( brutta.

Il terzo Soldato               -  Prova con Menelao. Il quarto Soldato          -  Impossibile, ha la moglie; bella.

Il terzo Soldato               -  Accidenti, la guerra è proprio inevitabile.

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 UN CERTO GIORNO

 Quadro quinto

(I due Testimoni, Ifigenia e Agamennone. Ancora i due Testimoni).

Il Testimone in nero        -  E' arrivato, presso la tenda di Agamennone, un agile carro: due donne di nobile aspetto, regalmente vestite, ne discendono con l'aiuto delle loro schiave. Ecco, la prima ha già posato a terra il delicato piede, si volge verso l'al­tra, le porge la mano.

Il Testimone in bianco     -  Una è assai giovane e avvenente; l'altra, che sembra sua madre, ha il viso assorto di chi nutre contrastanti pensieri. Il Testimone in nero -  Volgono intorno lo sguardo, poi si dirigono verso la tenda. Agamennone, che si era fatto sulla soglia, si avvicina ad esse. La gio­vane guarda la madre per un attimo, come per chiederle il permesso, poi si distacca correndo e si precipita tra le braccia di Agamennone, che la stringe al petto. (Pausa).

Il Testimone in bianco     -  Il sole è tramontato e risorto. Nella notte, mentre tutti dormivano, Aga­mennone è uscito all'aperto ed a lungo si è trat­tenuto a meditare. Sempre solo. Una lunga notte. Il Testimone in nero                                  -  Il comandante, insonne, veglia sulla sicurezza dei suoi guerrieri. E medita sulla grandezza del suo compito, delle sue respon­sabilità.

Il Testimone in bianco     -  Vedo, ora, segni di ani­mazione. Agamennone è rientrato nella tenda. Alcuni soldati, intorno ad essa, montano la guardia. Il Testimone in nero          -  Il padre e la figlia si incon­trano e si parlano. E' il momento della commozio­ne. Il cuore di un padre, l'animo di una figlia. E' giusto che siano lasciati soli. (Pausa). Ifigenia -  Padre, sono felice di essere con te. Che sorpresa il tuo invito!

Agamennone                   -  Non so se sia stato bene, ma an­ch'io sono felice di vederti, figlia. Ifigenia    -  Però il tuo volto non è felice. Queste rughe, queste lacrime che scorgo nei tuoi occhi... Agamennone                                              -  E' duro il compito di un re. Mi sorprendo, talvolta, a invidiare la sorte di uno schiavo. Il comando impone notti insonni, doveri, pensieri assillanti.

Ifigenia                            -  Disperdili, padre! Rasserena il tuo volto. Sii con me come un tempo. Agamennone -  Come tu vuoi, Ifigenia. Ifigenia        -  No, non così. Perché continui a pian­gere?

Agamennone                   -  Presto dovremo separarci. Ifigenia               -  Non dire altro, comprendo. Non si con­viene a una figlia parlare col padre di nozze. Agamennone      -  La tua saggezza aumenta il mio dolore.

Ifigenia                            -  Allora dirò delle sciocchezze, per farti sorridere.

Agamennone                   -  La tua bontà, il tuo affetto, non li merito.

Ifigenia                            -  Vorrei starti sempre vicina per dimo­strarti il contrario. Agamennone             -  La guerra mi ha allontanato dalla

 mia casa, mi ha condotto in Aulide, mi spingerà sino a Troia.

Ifigenia                            -  E andrai così lontano, abbandonando tua figlia?

Agamennone                   -  Anche tu andrai lontano! Ifigenia -  Ma io vorrei accompagnarti. Agamennone       -  Navigherai anche tu, ricordandomi. Ifigenia   -  Mia madre mi accompagnerà? Agamennone                                              -  No, sarai sola, senza nessuno vicino. Ifigenia     -  E tu, padre, quando partirai? Agamennone    -  Dopo aver compiuto un sacrificio. Ifigenia             -  Io vi assisterò? Agamennone       -  Tu dovrai stare presso l'ara. Ifigenia        -  Io guiderò le danze, non è vero? Agamennone       -  O figlia, figlia, non posso conti­nuare! Non posso fingere più oltre. Ogni tua pa­rola scava nel mio petto, più profondo, il dolore. Io ti ho mentito, ti ho ingannato. Ogni mia parola è stata menzogna.

Ifigenia                            -  Mi spaventi, padre. Che vuoi dire? Agamennone        -  La verità è più spaventosa del dub­bio, ma debbo rivelartela, debbo farlo io. Non fu per condurti alle nozze che ti feci venire. Ifigenia                     -  Ma allora, perché? Certo per una causa grave. Una donna, qui, in mezzo ad un esercito... Agamennone    -  Debbo parlare, debbo ma non rie­sco. Sono vile a tacere, ma sarei spregevole a par­lare... Dammi un bacio, prima, amaro bacio, e stringimi forte la mano... Per lungo tempo non ci sarà più dato di rivederci. O gentile mia figlia! O sventurata!

Ifigenia                            -  Ma ora debbo sapere, non puoi lasciar­mi in un dubbio mortale. Non voglio perdere il senno!

Agamennone                   -  Gli dei ti sono ostili, figlia. Ifigenia              -  Quale pericolo mi sovrasta? Agamennone                                              -  Il più grave, e non si può sven­tarlo.

Ifigenia                            -  La morte mi minaccia? Agamennone            -  E' stata già decretata. Ifigenia            -  Chi vuole la mia morte? Chi tanto cru­dele?

Agamennone                   -  Artemide vuole il sacrificio della tua vita. Calcante lo ha rivelato ai principi, i prin­cipi l'hanno deciso.

Ifigenia                            -  Ma tu lo impedirai! Sei tu il capo degli Argivi!

Agamennone                   -  lo comando agli uomini, ma debbo cedere agli dei. La salvezza della nostra patria richiede il sacrificio.

Ifigenia                            -  Anche tu, allora, sei d'accordo? Agamennone -  lo sono straziato, vinto. Non posso sfuggire a ciò che è più forte di me. Ifigenia   -  Ma tu sei mio padre! Non puoi abban­donarmi. Che c'entro io con la salvezza della pa­tria...

Agamennone                   -  Se tu non sarai sacrificata ad Arte­mide, gli Achei non potranno raggiungere Troia, vendicare l'offesa ricevuta. Se non ti sacrifico, dovrò sacrificare la patria. Tu sei mia figlia, la prediletta, ma la patria è madre di noi tutti.

 VICO FAGGI

 Ifigenia                           -  La mia vita è mia! L'Eliade non è che una parola.

Agamennone                   -  Tu sei figlia di un re, discendi da nobile schiatta. L'Eliade non è un nome soltanto, tu lo sai, è il sangue che scorre nelle nostre vene, la lingua che parliamo, la nostra civiltà, il nostro modo di vivere. Solo il pensiero della patria ha potuto vincere il mio cuore di padre. Non puoi dubitarne, Ifigenia.

Ifigenia                            -  Le tue parole mi condannano. Agamennone    -  La mia voce, che ti sembra nemica, troverà la strada del tuo cuore. Ascoltala. (Pausa. Cambiamento di illuminazione). Ifigenia                                              -  Se una vita è necessaria alla salvezza comune, eccoti la mia vita. Padre, ora ho com­preso. Tutto questo è come un incubo... Per me non c'è scampo. Io debbo morire, è deciso. Que­sto orribile sogno... Voglio morire senza viltà, affrontando nobilmente la mia sorte. Sento che la patria ha rivolto lo sguardo su di me, attende il mio gesto. Scelgo la mia sorte. La mia vita perché la flotta salpi, perché il nostro esercito infligga a Troia il castigo che merita. I Frigi pagheranno caro il ratto di Elena e mai più oseranno, quei bar­bari, oltraggiare le donne degli Argivi, strappan­dole a forza dalla patria. Agamennone                        -  Figlia, quali parole... Ifigenia       -  Con la mia vita farò questo, con la mia morte guadagnerò una fama imperitura. Tutti gli uomini ripeteranno, di generazione in generazione, che Ifigenia, figlia di Agamennone, ha salvato la sua patria.

Agamennone                   -  Questi accenti, figlia... Ifigenia      -  Che conta la mia vita? La vita di una donna? Penso al tuo strazio, padre mio, ma tu non mi hai generata solo per te, ma per tutta la Grecia.

Agamennone                   -  Queste tue parole, questi accenti, io sono indegno di ascoltarli. Ifigenia        -  Tu sei mio padre. Il capo degli Argivi. Il più degno. Ecco, intorno a me, tutti i guerrieri dell'Eliade, pronti a combattere e a morire per vendicare la patria. Tra loro e la loro impresa, la mia vita. E' giusto che sia sacrificata e volentieri l'offro all'Eliade. Immolatemi, ma distruggete Troia! Le sue rovine saranno il monumento eretto alla mia memoria, assai più glorioso che illustri nozze e numerosi figli. Agamennone               -  Così sarà, figlia. Ifigenia         -  Sì, l'Eliade vincerà. I barbari debbono piegarsi agli Elleni, non gli Elleni ai barbari. Li­beri siamo nati, noi, ed essi schiavi. (La scena si oscura. Emergono dall'ombra i due Testimoni). Il Testimone in nero                -  Così parla una principessa, la figlia di un eroe argivo. Nulla potrà mai il tempo contro la nobiltà di questi detti. Cadranno le mura e le città, rovineranno i templi e i monu­menti, ma queste parole resteranno. Il Testimone in bianco     -  Nobilissime parole, chi potrebbe udirle senza lacrime? Ma Ifigenia non le disse. Essa disse ben altro e tutti debbono saperlo.

 Quadro sesto

(Ifigenia e Agamennone. Poi i due Testimoni. Ifi­genia e Agamennone ripetono, a scena muta, gesti e atteggiamenti del quadro precedente; i loro gesti si fanno via via più agitati; d'un tratto si ode la loro voce).

Ifigenia                            -  Non mi sacrifico, no, non sono pazza! Che m'importa della vostra guerra! All'inferno tutti, Calcante, l'Eliade...

Agamennone                   -  No, sarebbe troppo facile: si manda tutto all'inferno, ma poi? Qualcuno deve pagare. Paghi tu o paga tutta la famiglia. Siamo con le spalle al muro. Calcante e Odisseo non perdonano. Ifigenia             -  Capisco che voglio vivere, e tu vuoi farmi morire.

Agamennone                   -  Devi morire e devi dare il tuo consenso alla morte. Sei figlia di un re. Ifigenia          -  Sono figlia di un vile, di un uomo che non sa difendere sua figlia.

Agamennone                   - (torcendole il braccio e facendola ca­dere in ginocchio) Devi morire, è già deciso. Non puoi farti illusioni. Che serve ribellarsi? Da te dipende soltanto questo, decidere se vuoi morire vilmente, come una schiava, trascinata a forza dai soldati, scarmigliata, le vesti a brandelli, disprez­zata invece che compianta, oppure come una donna di nobile sangue, che non supplica, non trema, ma guarda in faccia il suo destino. L'hai capito questo? (Lasciandola) Sta in te che i posteri ricordino il tuo nome, ti onorino come una eroina. Ifigenia         -  Che t'importa di me? E' solo del tuo nome che ti importa. Il grande nome degli Atridi, imbrattato di sangue, lordo di tradimenti. Agamennone             -  Al mio nome e al mio onore penso io. Tu pensa al tuo. Che farai? Ifigenia        -  Dirò a Calcante, a tutti, che sono dei cani, che li odio.

Agamennone                   -  E che ne avrai? Il disprezzo e il biasimo dei principi, l'oblio di quelli che verranno. Non lo permetterò. Dovessi frustarti a sangue, farò che ti comporti come il tuo rango impone. Spero che non ce ne sia bisogno. Anche tu, donna, appar­tieni alla stirpe di Atreo. (La scena si oscura. Viene, illuminato il Testimone in nero, poi il Testimone in bianco).

Il Testimone in nero        -  Nessuno presti fede a questo orrore. Guai a chi raccoglierà il fango che è stato scagliato contro Agamennone ed Ifigenia. Qui si oltraggia lo spirito, si vilipende la patria. Il Testimone in bianco             -  Io non cerco che la verità. Tutta la verità. (La scena torna lentamente a illuminarsi).

Ifigenia                            -  Dunque è il momento della verità e della vergogna. (L'illuminazione è completa. Ad Agamennone) Perché mi hai fatta venire? Agamennone             -  Per sceglierti uno sposo prima di lasciare questa terra.

Ifigenia                            -  La mia mente è lontana dalle nozze. Non parlarmene, ti prego. Voglio restare con te. Io sono cresciuta nel riflesso della tua luce, all'om-

 UN CERTO GIORNO

 bra della tua potenza, nel culto della tua persona. Nessuno è degno di un confronto con te. Speravo che mi avessi chiamata per tenermi vicina. Non sono la tua figlia prediletta? Elettra ne era gelosa, mi invidiava.

Agamennone                   -  E invece è giunto il momento di dividerci. E non fosse mai arrivato! Ifigenia           -  Che vuoi dire? Nei tuoi occhi scorgo pensieri non espressi. Le tue parole sono oscure. Parli delle mie nozze, ma nulla dici dello sposo. Ed i preparativi? Da tre giorni sono arrivata e tu mi sfuggi. Ed io che credevo che fossi spinto dal­l'affetto! Ho atteso, giorno per giorno, di ora in ora, un tuo sguardo. Ho pensato al tuo volto, l'ho sognato, un oscuro turbamento è cresciuto in me. Agamennone     -  Parole oscure, le tue, insolite sulla bocca di una vergine.

Ifigenia                            -  Il pudore rende oscuri. E' difficile capire se stessi, più difficile trovare le parole. Agamennone                        -  Ma insomma... Ifigenia    -  Ardo e tremo, non posso parlare e non so tacere.

Agamennone                   -  Devi parlare, lo esigo. Ifigenia        -  La mia vita è senza peccato, te lo giuro. Ma il mìo animo? Sono responsabile, io, dei miei sogni?

Agamennone                   -  Come dei tuoi pensieri, anzi di più, perché nei sogni riveli a te stessa ciò che nel pen­siero non oseresti confessare. Ifigenia        -  Quand'ero bambina, stavo seduta sulle tue ginocchia, ogni sera, e lieta ricevevo i tuoi baci e le tue carezze. Io stringevo il tuo collo, forte forte, tra le mie braccia. Ora sogno... Agamennone            -  Stai per dire qualcosa di irre­parabile.

Ifigenia                            -  Il silenzio mi fa morire, non posso sof­focare le parole che mi vengono alle labbra. Ma anche le parole, lo capisco, mi fanno morire. Ma che importa? (Sommessamente) Nella notte, va­gando per la mia stanza, nere visioni mi blandi­scono, mi tentano con subdole parole; visioni di nozze e di morte. Ho sognato... Agamennone             -  Continua.

Ifigenia                            -  Ho sognato di essere tua sposa, e il sogno mi perseguita, sembra continuare nella ve­glia. Che vergogna, ora voglio morire. Agamennone   -  Sì, devi morire. Bisogna spegnere per sempre questo tuo sangue impuro, torbido di vizi inconfessabili. In te c'è qualcosa di mostruoso, che è necessario soffocare prima che si riveli e ci contamini.

Ifigenia                            -  Non posso più vivere, ora. Uccidimi, padre, con le tue mani. Ma sappi che io non ho voluto, che il male mi ha preso a tradimento, è penetrato in me senza che lo sapessi. Agamennone                        -  Morrai, ma non per mia mano. Avrai morte degna della figlia di un re. Sarai la vergine che Artemide reclama in sacrificio per la nostra vittoria sui Troiani. La vita ti avrebbe por­tato, di passo in passo, fatalmente, all'infamia; la morte ti porterà a una fama imperitura. Ringrazia dunque la sorte.

 ATTO SECONDO

Quadro settimo

(I due Testimoni. Achille e Ifigenia). Il Testimone in nero   -  Achille si dirige verso la tenda di Ifigenia. Ma nessuno deve avvicinarsi alla vergine destinata al sacrificio. Così impone la legge.

Il Testimone in bianco     -  Ifigenia deve scendere, sino in fondo, nella disperazione. Il Testimone in nero         -  Deve raccogliersi, pregare, elevarsi alla nobiltà del suo destino. Il Testimone in bianco                                              -  Achille si avvicina. Forse un dubbio è sorto nel suo animo. Il Testimone in nero                -  Non vi è posto per i dubbi nell'animo di un eroe.

Il Testimone in bianco     -  Anche un eroe ha il diritto di pensare. Anche un eroe ha la coscienza. Il Testimone in nero                                              -  Non è, a rigore, necessario. Per la sua grandezza basta il culto della patria e del coraggio. Il resto è contorno, o debolezza. (Achille e Ifigenia).

Achille                             -  Tu sei la figlia di Agamennone e Cliten-nestra? Ho sentito parlare molto di te e deside­ravo vederti. Veramente la tua bellezza è degna della tua fama. No, la tua fama è inferiore a te. Ifigenia                           -  Chi sei tu, che non mi parli di morte? Achille     -  Sono il figlio di Peleo e Teti, nato a Ftia, capo dei Mirmidoni.

Ifigenia                            -  Dunque sei Achille. Ti pensavo più grande e più anziano. Anche tu hai votato la mia morte?

Achille                             -  lo ho votato la guerra, sono un soldato. Non ho rimorso: ciò che ho fatto è giusto. Ifigenia                                              -  La guerra è giusta? Achille          -  E' giusto ciò che è necessario. Ma tu, perché hai accettato di sacrificarti? Ifigenia -  E' vero, ho consentito. Potevo rifiutare la mia vita per la salvezza della nostra patria? Achille -  Tu non sei sincera. Ifigenia                                -  Come lo sai? Achille        -  Basta guardarti.

Ifigenia                            -  Allora ti basti questo ; che io non debbo vivere.

Achille                             -  Ma non è una spiegazione. Ifigenia              -  Perché dovrei spiegarti? Aprirti il mio animo?

Achille                             -  Non ne ho il diritto, è vero. Però ne sento il desiderio. La tua vicenda mi interessa. La tua persona ancor più. Scopro con stupore la tua esistenza. Sei molto giovane e coraggiosa. Quanti anni hai?

Ifigenia                            -  Diciassette. Achille           -  lo venti.

Ifigenia                            -  Ma sono più vecchia io, che presto sarò morta. Non ho nemmeno cominciato a vivere... Achille                                 -  Anch'io so poco della vita. Ifigenia         -  Avrai tempo per imparare. Achille                  -  Vorrei conoscerti meglio. Una fanciulla è qualcosa di misterioso. Tu più di tutte. Ifigenia   -  Non guardare entro di me. Achille       -  I tuoi occhi sono puri.

 VICO FAGGI

 Ifigenia                           -  Il mio animo è di tenebra. Achille -  Il tuo sguardo è dolcissimo. Ifigenia    -  I miei sogni sono torbidi, impuri. Essi dicono che non sono degna di vivere. Per questo ho accettato la morte.

Achille                             -  Dei sogni non siamo responsabili. Quando essi vengono, nel cuore della notte, il nostro animo è assente. Si introducono furtiva­mente in noi. Chissà da dove vengono, chi li manda. Ma non sono che ombre. I miei sogni non sono me, io sono quello che faccio. Ifigenia                                              -  Anche tu temi i tuoi sogni? Achille         -  Penso che se ti avessi vicina, se potessi fissare il tuo volto, le mie notti sarebbero serene. Senza sogni.

Ifigenia                            -  Anch'io, forse, se potessi ascoltarti... Ma io debbo morire.

Achille                             -  No, non devi. Sei stata ingannata, tra­dita.

Ifigenia                            -  Da mio padre? Achille      -  Da chiunque vuole la tua morte. Ifigenia            -  Non strapparmi alla mia rassegnazione. Achille       -  Voglio strapparti ad una sorte ingiusta. Voglio che tu viva.

Ifigenia                            -  Che ne sai di ciò che è giusto? Hai detto che è giusto ciò* che è necessario. Calcante ha gridato che è necessaria la mia morte. Achille     -  Oggi so soltanto una cosa: che non devi morire. Non lo permetterò.

Ifigenia                            -  Tu solo contro tutti, che potrai fare? Achille    -  Non sarò solo, avrò i Mirmidoni con me. Non ti lascerò. Sei giovane e innocente. Io starò con te. Odisseo e Menelao mi temono. Ifigenia                                -  Perché, perché mi richiami alla vita? Achille       -  Perché ho bisogno di te. Ifigenia          -  Sì, voglio vivere, voglio vedere la luce del sole, non scendere nelle tenebre dell'Ade. Mi è cara, la vita. (Sommessamente) Achille, tu hai cancellato in me il volto di mio padre. Mi hai ridato il diritto di sperare e di vivere.

Quadro ottavo

(1 due Testimoni. Achille e il Poeta Epico. Achille e Odisseo. Achille e Agamennone. Achille e Patroclo. Achille e il Poeta Elegiaco. Ancora i due Testimoni). Il Testimone in bianco           -  Fulmineamente si è sparsa, tra i principi, la notizia che Achille si è dichiarato contro il sacrificio di Ifigenia. Il Testimone in nero                -  La notizia è falsa e ten­denziosa. Nessuno può dubitare del lealismo di Achille, che è un vero soldato, un greco. Il Testimone in bianco     -  Achille ha promesso la sua protezione a Ifigenia.

Il Testimone in nero        -  Ifigenia è una donna e quindi non conta. Conta invece, ed è sovrana, l'adunanza dei principi. Essi sono la legge, sono l'Eliade. (Il Testimone in nero indossa il manto e la corona da Poeta Epico e si avvicina ad Achille. I dialoghi che seguono sono strettamente conca­tenati. Gli interlocutori di Achille appaiono improv­visamente al suo fianco e nello stesso modo si eclissano).

 Il Poeta Epico                 -  Parlo nel tuo interesse, Achille.

Renditi conto che tutti, dico tutti i comandanti,

sono contro di te.

Achille                             -  Anche il padre di Ifigenia?

Il Poeta Epico                  -  Agamennone è il re e sa portare

scettro, per pesante che possa sembrargli. Achille       -  Non lo credevo così forte.

Poeta Epico                     -  Lascia l'ironia e bada a te. Nes­suno ha capito la ragione di questa tua levata di scudi. Ma io posso immaginarla.

Achille                             -  E che immagini?

Il Poeta Epico                  -  Una vicenda d'amore sullo sfondo della guerra di Troia, sì, penso che non stone­rebbe. Il contrasto sarebbe anzi poetico: un grande quadro tempestoso, scontro di popoli e di civiltà, una lotta all'ultimo sangue; e, in un angolo, pic­cola ma luminosa, un'oasi lirica. I dolci occhi di Ifigenia. Il suo sguardo di cerva impaurita. Potrei cavarne, sì, pagine immortali. Riuscirei a dimo­strare ai miei rivali che io, poeta epico, so suonare anche la lira. E invece dovrò rinunciarvi. Non pos­siamo permetterci queste debolezze. Achille          -  Il destino me lo scelgo io. Il Poeta Epico      -  Non essere ostinato. La tua strada è già segnata e si chiama guerra. Nel codice di un eroe stan scritte solo due leggi: la gaglìardia e l'onore. Non dimenticarle, non dimenticare che hanno senso soltanto nella guerra. Via, avrai tutto il tempo anche per innamorarti. Potresti, per esem­pio, restare avvinto al fascino di una troiana; il contrasto sarebbe ancor più drammatico. Ci pen­serei io a svilupparlo nei particolari. Achille                                 -  Quante sciocchezze! Il Poeta Epico        -  Tu sottovaluti i poeti. Dovresti sapere, invece, che noi contiamo più di tutti. L'El­iade è il paese dei poeti, dei nocchieri e degli eroi, ma i poeti vengono prima. I nostri canti sono la cosa che si diffonde più rapidamente e che resiste più a lungo. Che sarebbero Achille, Odisseo, Aga­mennone, se non ci fossimo noi ad eternarli? Ep­pure siamo spesso misconosciuti! Che ingratitu­dine! Ma ci penseranno i posteri, dopo la nostra morte, a risarcirci.

Achille                             - (toccando la spada) Posso avvicinare, se ci tieni, l'ora della tua rivincita. (Compare Odisseo). Odisseo                -  Mi mandano i principi. L'assemblea ha deliberato.

Achille                             -  Senza di me? Contro di me? Odisseo           -  Senza di te per non metterti, pubblica­mente, con le spalle al muro. Non abbiamo voluto, dinanzi a tutti, costringerti... Achille                                              -  E chi può costringere Achille? Odisseo   -  La ragione, quanto meno. Come può Achille, il primo dei guerrieri, essere contro l'eser­cito?

Achille                             -  Non sono contro nessuno. Voglio che Ifigenia sia salva.

Odisseo                           -  Non sfuggire il problema. Sai bene che, tra noi e la guerra, c'è Ifigenia. Bisogna toglierla di mezzo.

Achille                             -  Non vi lascerò toccare Ifigenia. Odisseo      -  Non essere incoerente. Anche tu hai

 accettato la proposta di Calcante, e dunque la morte di Ifigenia.

Achille                             -  E' facile condannare una persona che non abbiamo mai visto, di cui non sappiamo nulla. Basta qualche argomento per convincerci, che so, la ragion di Stato, l'interesse della patria... Ma quando una persona la conosci, l'hai guardata negli occhi, sai quello che pensa, allora le ragioni non contano più. Espedienti, menzogne... Resta sol­tanto il delitto.

Odisseo                           -  Ho già dimostrato all'assemblea che la morte di Ifigenia è indispensabile. Assolutamente. Nemmeno Agamennone ha potuto contraddirmi. Achille           -  La morte di Ifigenia per il ritorno di Elena. Non è un delitto?

Odisseo                           -  Non fare l'ingenuo. Sai bene che Elena non è che un pretesto. Si tratta di noi, soltanto di noi.

Achille                             -  Non di me.

Odisseo                           -  Siamo tutti legati allo stesso carro. Senza potenza, ricchezza, prestigio, cosa rimane degli eroi? Nessuno può dissociarsi dall'interesse della sua casta. Sarebbe un tradimento. Achille                                              -  Se abbandonassi Ifigenia, cosa sarebbe? Io voglio solo agire umanamente. Odisseo          -  E' un lusso, uno spreco. Un capo deve agire con realismo scegliendo il mezzo più effi­cace. Perciò contaci bene, uno per uno; conta i nostri soldati. E bada a te. Achille                 -  Hai contato i Mirmidoni? Odisseo          -  Manchi di senso pratico. Noi siamo uniti, legati dall'interesse. La nostra linea è chiara e coerente. La tua contraddittoria. In fondo, non hai argomenti. Accetti la guerra ma non le sue con­seguenze. Che assurdità. Sei un buon guerriero, ma non hai la stoffa del capo. Perciò i più forti siamo noi.

Achille                             -  E' una sfida? Ecco la soluzione: decide­remo noi due, spada contro spada, la sorte di Ifi­genia.

Odisseo                           -  Non mi batto con te. Se sei ancora un greco, io non mi batto contro i greci. Se sei un traditore, non mi batto contro i traditori. Achille            -  La tua lingua è pari alla tua fama. Il tuo coraggio, no.

Odisseo                           -  Non raccolgo l'insulto. Non mi tocca. Io sono al servizio dell'Eliade, non della mia va­nità. Così un patriota sa sacrificarsi per la sua patria.

Achille                             -  Storie: tu non ti batti perché hai paura. Odisseo           -  Diciamo che non vi ho interesse. Per­ché dovrei rischiare la vita per guadagnarmi ciò che posso ottenere senza rischio? Io guardo più lontano di te.

Achille                             -  Devi guardare lontano, molto lontano, Odisseo, per non vedere la tua viltà. (Compare Agamennone).

Agamennone                   -  Achille, cuor generoso. Achille       -  Agamennone, padre di Ifigenia. Agamennone                                              -  Un padre sventurato, sono. Achille         -  Nulla è perduto, se non cedi. Agamennone        -  Tutto ormai è deciso.

 Achille                            -  Io sono con te, per salvare tua figlia. Agamennone      -  Serba la tua spada per la Troade. Non voglio che il mio esercito si scinda. Non vo­glio che venga versato sangue greco. Achille                                 -  Tranne quello di tua figlia. Agamennone            -  Ifigenia è il pegno della guerra. Achille -  Allora rinuncia alla guerra. Agamennone            -  Lo vorrei, ma non posso. I principi vogliono la guerra. Achille        -  E il popolo? Agamennone -  Non conta. Achille                       -  Ed io?

Agamennone                   -  L'amore di un padre è più grande di quello di un amante. Dunque, se io sono per* suaso, anche tu devi esserlo.

Achille                             -  Non confrontarmi con te. Io non ab­bandono Ifigenia.

Agamennone                   -  Nei grandi momenti della storia, i destini individuali non contano. Mi si spezza il cuore, ma è così. A Ifigenia non resta che la morte. Non sottrarle la gloria di una morte coraggiosa. Fa che si offra al sacrificio. Quanto a noi, la guerra ci attende. Nel furore del combattimento dimen­ticheremo il nostro dolore. Torneremo carichi di gloria e di ricchezza.

Achille                             -  Sì, tu dimenticherai. Tu sei della razza che dimentica. (Compare Patroclo). Patroclo                                              -  Sono io, è un pezzo che ti cerco. Achille            -  Aspettavo la tua visita. Patroclo           -  La desideravi? Achille     -  L'aspettavo.

Patroclo                           -  Voglio sperare che non arriverai agli estremi. Rompere con Calcante, con Odisseo, con lo stesso Agamennone... sarebbe una follia. E rom­pere con me, un tradimento.

Achille                             -  Anche questo aspettavo: il ricatto dei sentimenti, della fedeltà. Ma non è che un ricatto. Come quello di Odisseo, che mi accusa di tradire la mia casta.

Patroclo                           -  Non è la stessa cosa. Tutti sanno del­l'amicizia di Achille e Patroclo. In tutta la Grecia i nostri nomi vengono pronunciati insieme. Non esiste Achille senza Patroclo, né Patroclo senza Achille. Una donna non ci può dividere. Ti conosco da quando eri adolescente. Non dirmi che hai dimenticato. O vuoi che ti faccia ricordare? Eri cresciuto troppo in fretta, sembravi buffo e sgra­ziato, ardevi di curiosità e di impazienza. E quando venne il tempo dell'iniziazione... La tua innocenza già rivelava la malizia, ma la tua malizia tradiva l'innocenza.

Achille                             - (bruscamente) Cose lontane, finite. Patroclo     -  Tutti questi anni, tutte le prove che ci siamo date, le promesse, non contano più? Eppure mi hai parlato della tua gratitudine, mi hai giu­rato fedeltà. Sì, l'hai giurato, e la tua voce era sincera.

Achille                             -  La mia vita comincia ora, il passato te lo lascio. Lasciami l'avvenire, lungo o breve che sia. Ma tu, che ti dici amico, perché non sei, oggi, dalla mia parte? Patroclo           -  Sto dalla parte del tuo interesse.

 VICO FAGGI

 Achille                            -  Il mio...

Patroclo                           -  Tuo e anche mio, certo. Ma, se per­metti, soprattutto tuo. E' il nome di Achille che è in gioco, e forse la sua vita. Patroclo può perdere un amico, Achille molto di più. Achille                                              -  Vi preoccupate tutti del mio interesse e del mio onore. Della mia vita. Siete commoventi. Ma tutto in me si rivolge verso Ifigenia. Un amico

10 capirebbe. Se no che amico è? Non mi neghe­ rebbe la sua spada per difenderla.

Patroclo                           -  Questa non è che infatuazione. Non ti seguirò su questa strada. Perché Achille il guer-giero, Achille il forte, non resterà legato ad una donna. Non si addice a un essere virile curarsi di una femmina. Non le abbiamo sempre disprez­zate? Nelle nostre giornate di caccia, nei banchetti, nei giochi, mai le abbiamo tollerate. Eravamo orgo­gliosi della nostra amicizia. Bastavamo a noi stessi. Achille         -  E' vero, una volta non ero che una parte di Patroclo, la sua ombra. Per la prima volta, ora, mi sento me stesso. Sono Achille e basta. Ho rag­giunto d'un tratto ciò che da anni, inconsapevole, cercavo. Ed è stato semplice: bisognava soltanto guardare Ifigenia. Questo non l'avevo mai posse­duto e ora non lo lascerò. Il senso di essere io, separato dagli altri e tuttavia capace di capirli. Un essere umano. Gettato qui, ma libero di sce­gliere.

Patroclo                           -  Chiacchiere insensate. Di che libertà stai vaneggiando? Quella di farti ammazzare per una donna?

Achille                             -  Non sarà facile uccidere Achille. Patroclo    -  Non ho mai desiderato la tua morte. Al contrario! Ti auguro di vivere a lungo, di ritor­nare in te, e cancellare questa debolezza. Io ti aspetterò. Quando mi cercherai, troverai l'amico. Patroclo è fedele. Sì, un giorno tu ritornerai, se vi è giustizia in questa terra. (Compare il Poeta Elegiaco).

11 Poeta Elegiaco            -  Salve, Achille. Perché non rispondi? Il tuo volto è crucciato. Ma ne hai giusto motivo.

Achille                             -  Tu mi dai ragione? Il Poeta Elegiaco            -  Assolutamente. Ifigenia non deve morire. Non dovrebbe: perché è giovane, è innocente, bella; perché la vita può sorriderle. La sua morte ripugna alla ragione. Achille    -  Così è.

Il Poeta Elegiaco             -  Sì, la ragione si ribella... ma la vita - tu, benché giovane, lo sai - è forse il regno della ragione? Tutto è caos, invece, disor­dine, arbitrio. La virtù è derisa, la giustizia calpe­stata, il merito spregiato. La vita è assurda, è un incomprensibile dolore che non si riscatta mai. Il destino, mio caro, bara cinicamente. Per questo c'è la poesia, l'unica cosa che si salva, che consola gli umani e, nel dolore, li purifica. Grazie ad essa, il dolore ci rende più nobili e forti. Achille                        -  Che significa questo? Il Poeta Elegiaco -  Non arrabbiarti. Ifigenia, l'ho detto, non deve morire. I dolci occhi di Ifigenia, il suo sguardo di cerva impaurita... Ma appunto

 perché non deve deve morire, morirà. Perché la vita è cieca e insensata, una forza irresistibile e malvagia. E' inutile tentare di resisterle. Achille    -  Io resisterò.

Il Poeta Elegiaco             -  Questo è bello e giusto. Anche se inutile. Tu non puoi cambiare quanto il fato ha prestabilito, nemmeno gli dei possono tanto. Forse sta scritto che ti opporrai e lotterrai, ma non altro. Il corso delle cose è già fissato e per ognuno è scritta la sua parte. Non ci resta che interpretarla nel modo più dignitoso. Agamennone, sia lode a lui, l'ha compreso. Il mio collega canterà l'ira fune­sta del Pelide Achille, io canterò il lamento di Andromaca dinanzi al cadavere di Ettore, il pianto delle Troiane cadute in servitù. Achille -  Io resisterò. Questo soltanto è il mio compito. Ma tu, poeta, da che parte sei? (La scena si oscura. Vengono illuminati i due Testimoni). Il Testimone in nero          -  Ora il poeta risponderà ad Achille. Con nobiltà e profeticamente. Il Testimone in bianco   -  Spargerà, forse, lacrime e saliva, ma non muoverà un dito per la salvezza di Ifigenia.

Il Testimone in nero        -  Non è compito suo. Non sta a lui scendere nella mischia. Dovrebbe forse contaminare la purezza della sua arte?

Quadro nono

(Il Poeta Elegiaco declama accompagnandosi con la lira. E' fiancheggiato da due fanciulle, con le quali civetta). Il Poeta Elegiaco                     -

Piango la tua sventura, Ifigenia,

un torrente di lacrime versando

e amari rivi bagnano le guance.

Già risuona la terra di lamenti,

geme il flutto marino sugli scogli,

geme il fondo del mare.

Le sorgenti dei fiumi si lamentano

ed il cielo si piega intenerito. O giovinetta Ifigenia, a te, come a una giumenta che discenda intatta dai petrosi antri montani, voglion gli Argivi incoronar la chioma inanellata, per il sacrificio. Dalla tenera gola virginale farà sprizzare il sacerdote il sangue.

Piango la tua sventura, Ifigenia,

non vissuta tra i canti dei bifolchi

e non fra le zampogne dei pastori,

ma cresciuta vicino alla regale

tua madre Clitennestra, ed educata

come figlia di re, pura e gentile

e destinata a illustri

nozze con un principe dell'Eliade. La bellezza, il pudore, la virtù nulla possono in terra. Ahimè, trionfa ovunque la empietà e la violenza, la saggezza è derisa, calpestata la legge ed ogni sentimento umano. La licenza dilaga. Più nessuno ha timore dell'ira dei celesti.

 UN CERTO GIORNO

 Piango la tua sventura, Ifigenia, e ti offro il mio pianto di poeta. (Mentre esce il Poeta Elegiaco, entra il Poeta Epico accompagnato da alcuni ragazzi che commentano la sua declamazione poetica con suono di raganelle e zufoli).

Il Poeta Epico                  -  Ed io, son forse da meno? Io posso ben altro. E poi il lamento elegiaco non è sufficiente, non è adeguato. Mai dimenticare il lato eroico! Bisogna che il canto abbracci la grandezza degli eventi che maturano, non limitarsi al com­pianto sulla sorte della fanciulla. Ecco, così: Il mio canto è di morte, il mio canto è di vita. Il mio canto è di morte e sacrificio. Il mio canto è di vita e di vittoria. La vita è sacrificio e la morte è vittoria. Attraverso la morte e il sacrificio si conquista, pei secoli, la vita.

O tu percossa dal furor dei nembi, esile vela sugli abissi, tu, sei pegno del trionfo degli Elleni, Ifigenia!

Ti darà vita sempiterna, fama più perenne che il ferro degli scudi e delle spade degli eroi, la sorte che in Aulide ti attende. E fosse la mia sorte, Ifigenia! Tu intercedi dai numi, per gli Atridi, per il figlio di Peleo, per gli Aiaci, per Odisseo, per Nestore e Diomede e per l'Eliade tutta, la vittoria. Dunque non pianto per il tuo destino, non lamento né tremito. Ma elevi ogni forte guerriero il giuramento di riuscir degno del tuo sangue, degno di lanciare il tuo nome come sfida sul volto del nemico. Ifigenia!

Quadro decimo               - (Soldati).

Il primo Soldato              -  Non capisco perché Elena, con tanti giovani che aveva sotto mano, si sia incapric­ciata di uno straniero. Oltretutto, ha mancato di patriottismo.

Il secondo Soldato          -  La colpa è stata delle brache... Il primo Soldato          -  Le brache? Il secondo Soldato                                              -  Sì, quelle di Paride. Nessuno in Grecia aveva mai portato delle brache così ele­ganti e variopinte. Che stoffa, che taglio, che classe! Elena ne rimase fulminata. Capirai, in quelle brache c'era il fascino dell'esotismo, l'oriente mi­sterioso, tutto un mondo sconosciuto... Il primo Soldato       -  Non avrei mai creduto che un paio di brache contenesse tante cose. Il secondo Soldato           -  Che ti credi, balordo, che noi si faccia la guerra per un paio di brache qual­siasi? (Altri soldati).

Il terzo Soldato               -  Menelao sposa Elena, affar suo. Elena pianta Menelao, affar suo. Menelao se la lega

 al dito, affar suo. Agamennone prende le sue parti, affar suo. Poi dichiara la guerra... Il quarto Soldato            -  Affar suo. Il terzo Soldato -  Un corno. Affare mio, tuo, di tutti. Un brutto affare, amico! Ce ne accorgeremo nella Troade. (Altri soldati). Il primo Soldato          -  Se faremo la guerra e la vince­remo, ci sarà il bottino da dividere. Oro, argento, stoffe, schiavi. Le Troiane, dicono che sono molto belle.

Il secondo Soldato          -  Una bazza per i comandanti! Il primo Soldato             -  Chi farà le parti? Il secondo Soldato                                -  Agamennone, naturalmente. Il primo Soldato    -  Pensi che assegnerà anche a me una bella schiava? Ne vorrei una giovane, alta. Il secondo Soldato                                              -  Puoi contarci. Se ti va bene, se giungi vivo sino in ultimo, avrai la tua parte. Qualche moneta di rame, una vecchia megera e i reumatismi. Contento? E se ti va male, un bel pez­zetto di terra, che concimerai tu stesso, senza fatica e senza accorgerti. (Altri soldati). Il terzo Soldato        -  Questa storia della guerra per Elena non mi convince. Non c'è senso comune. Il quarto Soldato        -  Odisseo dice che bisogna fare la guerra per catturare degli schiavi. La nostra terra, dice, ha bisogno di schiavi abbondanti e a buon mercato.

Il terzo Soldato               -  Per me, non ne ho bisogno. Il mio campo è così piccolo che posso coltivarlo da solo. Se avessi uno schiavo, non ce la farei a mantenerlo.

Il quarto Soldato             -  Potresti venderlo. Il terzo Soldato1               -  A chi? La mia paura è che i principi, quando possederanno molti schiavi, avran­no bisogno della terra per farli lavorare, e fini­ranno per prendersi la mia.

Quadro undicesimo

(Clitennestra. Poi i due Testimoni. Poi Clitennestra e Agamennone).

Clitennestra                     -  La ragione mi spinge a disperare, la viltà mi tenta, mi induce a dubitare, a illudermi. La mente mi rammostra, in tutte le sue fila, la trama di un delitto atroce; ma la speranza, mai vinta, vuol dimostrarmi che mi sbaglio e mi mostra una strada di salvezza. Mi inganna, la speranza? L'istinto si ribella al pensiero di tanta nefandezza, ma la mente non trova pace e, inquieta, insazia­bile, domanda. O Zeus, se così ti chiami, se questo è il tuo nome, Zeus, tu soltanto puoi liberarmi dal-l'incubo che avvelena la mia anima. T'ho mai offeso, dio? Dimmi che facciamo, Ifigenia ed io, in questa terra, lontane dalla nostra casa. Vogliono un sacrificio. Che ha deciso, Agamennone? E' un marito, un padre o un nemico spietato? Gli ho generato tre figli e ancora non so che uomo sia. E' male, questo. Ma la colpa è mia? Sventurato il giorno che l'ho conosciuto. Maledetta l'ora che mi ottenne in sposa. Con la violenza è entrato nella mia vita. Doveva morire per mano dei miei fratelli ma si gettò ai piedi di mio padre e seppe impie­tosirlo. Lo spingeva l'amore o l'interesse? L'ombra

 VICO FAGGI

 della violenza, ora, pende su di me e su mia figlia. Ma non è la sua figlia prediletta? Mio padre fu clemente con lui, ch'era un estraneo, lui sarà spie­tato col suo sangue? Sul volto di Ifigenia è scritta la disperazione, ma anch'essa mi nasconde qual­cosa. Esiste qualcosa che una madre non possa ascoltare dalla figlia? Voglio vederlo il mio nobile signore, il condottiero, il semidio. Si degnerà final­mente di rispondermi? Forse c'è ancora una spe­ranza. Dammi la forza di affrontarlo. Zeus, ispi­rami le parole. Ora voglio sapere, a tutti i costi, domani mi pentirò di avere chiesto, rimpiangerò i dubbi e l'ignoranza.

Il Testimone in bianco     -  Il sole è disceso e ancora è risalito sulla terra di Beozia. Un giorno è pas­sato. Ventiquattro ore: un tempo insignificante nella vita di un uomo. Tutta una vita per Ifigenia. Ogni ora ha pesato su di lei come un macigno. Con pari crudeltà ha pesato sul cuore di sua madre. E' a Clitennestra che penso. Il Testimone in nero   -  Io penso al dramma di Agamennone. E' lui il vero personaggio tragico, lacerato nel conflitto tra due principi universali: il dovere del genitore e la missione del condottiero. Ma in lui ha già vinto il valore etico più alto. Aga­mennone è l'uomo che guarda oltre se stesso e si misura sulla scala della storia. Nel suo cedere, senza iattanza, al fato, nel suo piegarsi al volere degli dei, vi è un altro senso di religiosità. Clitennestra        -  Perché mi hai fatto venire con Ifi­genia in questa terra inospitale? Rispondi, non volgere il capo.

Agamennone                   -  Tu mi fai domande troppo difficili. Clitennestra          -  Una domanda sola. Perché l'hai fatta venire? Lo so, bada, ma non voglio, non posso crederlo ancora! Dimmi che non è vero! Agamennone                        -  Perché dovrei mentire? Lasciami, soffro anch'io.

Clitennestra                     -  Soffrire, tu? Sei forse un essere umano?

Agamennone                   -  Sono il padre di Ifigenia. Clitennestra          -  Tu immolerai tua figlia e chissà quali preghiere saprai trovare durante il sacrificio. E poi, finita la guerra, tornerai glorioso a Micene e stringerai al petto gli altri figli. Non posso pen­sarci... La vita di mia figlia in cambio di Elena! E' mostruoso, assurdo...

Agamennone                   -  E' mostruoso, sì, ma non c'è scam­po. Dobbiamo piegarci al fato. Ascoltami. Dopo avervi ordinato di venire, subito me ne pentii, feci partire un messaggero con l'ordine di fermarvi. Ma non è arrivato. L'hanno fermato appena fuori del­l'accampamento e gli hanno chiuso la bocca, per sempre. Capisci questo? Amo i miei figli, amo più di tutti Ifigenia, ma sono nella trappola e non posso uscirne.

Clitennestra                     -  Come puoi resistere alla dispera­zione di una madre, alle lacrime di tua figlia... Come potrai resistere al rimorso... Che senso avrà, dopo, la tua vita, la mia...

Agamennone                   -  Guardati intorno. Queste tende, queste navi, questi carri, li vedi: ci sono centinaia di guerrieri che vogliono conquistare Troia, a tutti

 i costi. Nessuno li fermerà. Hanno deciso, loro, che Ifigenia deve morire, che ciò è necessario per la guerra. Chi potrebbe trattenerli? Le tue lacrime? Clitennestra           -  Se una vittima è necessaria, ucci­dete me. Se del sangue deve scorrere, che sia il mio. E' più giusto, perché io sono la sorella di Elena, pagherò per lei.

Agamennone                   -  Vogliono una vergine innocente, una giovane appena sbocciata alla vita. Clitennestra                                              -  Il sangue di una regina, di una madre, non basta alla sete di Calcante? Agamennone       -  No, Calcante e Odisseo vogliono il sacrificio più atroce, il più ingiustificato che mente umana possa concepire. Che ricada su di tutti. Che ci faccia orrore di noi stessi. Clitennestra     -  E tu, il grande condottiero, non conti più nulla? Comanda, fatti obbedire. Che nes­suno tocchi, pena la morte, Ifigenia. Agamennone        -  I miei ordini valgono finché vanno d'accordo con gli interessi dei princìpi. Loro vo­gliono il sacrificio, tutti. Persino Menelao. Clitennestra    -  Se non valgono i tuoi ordini, fa valere la tua spada. Raduna i soldati di Micene e battiti. Mostra di essere un padre, che dico un padre? un uomo. Achille ti aiuterà. Agamennone            -  Achille conta per uno. Clitennestra                          -  Ricorda che sei venuto qui con cento navi. Odisseo ne ha soltanto sedici. Tu con­duci un esercito, lui un pugno di pastori. E Cal­cante non ha che le sue chiacchiere. Agamennone     -  Credi che non ci abbia pensato? Mille volte, ma è inutile. Tutti gli eroi sono con Odisseo. Sono battuto in partenza. E sarebbe la fine della nostra dinastia: la morte per te, per me, per Oreste ed Elettra, la distruzione di Micene. Me l'hanno detto in faccia, e non scherzavano. Clitennestra -  Hai fatto i tuoi calcoli, con pru­denza. Hai pesato, misurato e concluso. Il conto torna e ti rassegni. Ma tu sei un padre! Un padre lotta, tenta l'impossibile...

Agamennone                   -  Io sono un uomo di Stato, capo di una città e di una dinastia. Tu puoi ascoltare il cuore, io debbo piegarmi alla ragione. La dispera­zione non mi aiuta. Tu puoi pensare al presente, io debbo provvedere al futuro. Mo non sono inumano. Clitennestra          -  In fondo all'anima, sei vile. Tu non ascolti la ragione ma la paura. E' il pensiero della morte, della tua morte, che ti ha convinto. Ecco cosa c'è nei tuoi occhi: la meschina paura di uno schiavo. Io ti leggo dentro. Sei trasparente per me.

Agamennone                   -  Perché non guardi dentro Ifigenia? Clitennestra          -  Che vuoi dire? Agamennone                                              -  Che tu forse hai il diritto di odiarmi, non quello di disprezzarmi. Forse un giorno qualcuno capirà che io ho seguito la via più giusta. Che un uomo chiamato al comando, gli piaccia o no, deve seguire la sua strada. Maledetto il giorno che accettai di essere il capo! Fui stolto a piegarmi all'ambizione. Ma tu, che mi dai addos­so, non mi spingevi, allora? Non ti sorrideva di essere la moglie del condottiero degli Argivi? Clitennestra             -  Accusami. Getta la colpa su di me.

 U!N CERTO GIORNO

 Sfoga la tua meschinità. Tu che strisciasti ai piedi di mio padre.

Agamennone                   -  Non ti accuso, ma tu devi com­prendermi.

Clitennestra                     -  Come ti ho compreso! E pensare che per anni - che nausea, che onta... - ho diviso il tuo letto. Sento odio, vergogna del mio corpo, perché le tue mani l'hanno toccato, queste tue mani di carnefice.

Agamennone                   -  Non sono ingiusto, io. So capire la tua rivolta, il tuo furore. Tu sei donna e madre. Clitennestra                          - (cadendo al suolo) Che ne sai, tu, di una madre? Le tue piccole ragioni, i tuoi ca­villi. Io ricordo il giorno in cui Ifigenia disse, per la prima volta, mamma, e ancora sento, al ricordo, un tremito in me. La mia prima figlia! Quando la allattavo, il mio seno era piagato dalle ragadi, suc­chiava sangue insieme al latte, ed io piangevo di dolcezza e dolore. Quand'era malata, io sentivo contro il mìo fianco, nella notte, il suo piede ar­dente di febbre, e l'ansia mi rodeva. Le sue pic­cole labbra, mentre le insegnavo a parlare, si apri­vano alle parole e ai baci. Io accorrevo, poi, a scacciare i suoi incubi notturni. Io la consolavo dei suoi dolori infantili, delle sue buffe dispera­zioni. Tu, impettito, tronfio, passavi in rivista i tuoi soldati e penetravi, gonfio di vino e di libi­dine, nelle stanze delle nostre schiave. Che vuoi saperne di una madre...

ATTO TERZO

Quadro dodicesimo

(Clitennestra e Ifigenia).

Clitennestra                     -  Dormi, bambina, è notte tarda. Ifigenia        -  Non posso dormire. Troppi pensieri si agitano entro di me. Provo, a momenti, una gioia acuta che m'invade tutta, in altri il terrore mi afferra, il sangue mi percuote nelle tempie. Ora tutto mi sembra chiaro, ora tutto diventa oscuro e minaccioso. Così mi esalto e mi abbatto e mai non trovo pace.

Clitennestra                     -  Povera bambina, coraggio. Non dobbiamo disperare. Tutto si risolverà. Non può essere che... Quale dio potrebbe consentire?... Ma perché siamo partite da Micene? Ifigenia -  Così ci è stato ordinato. Clitennestra -  Non dovevo obbedire a tuo padre. Dovevo diffidare, guadagnar tempo, cercare di in­formarmi. La vanità materna mi ha tradito. Splen­dide nozze, prometteva! Io, illusa, ho creduto. E' questo che non so perdonarmi. Ifigenia   -  Non rimproverarti, mamma. Mia è la colpa. Io ero impaziente. Io ho insistito, pregato, supplicato. Volevo correre da mio padre, pazza com'ero, non vedevo il momento di arrivare. Clitennestra                          -  Sì, eri impaziente, ma sei giovane, puoi sbagliare. Una madre non ne ha il diritto. Ora pago il mio sbaglio, qui, in questa terra ino­spitale, tra questi soldati ostili ed inumani. Ifigenia    -  Non rimproverarti, non ne hai colpa, nessuno potrà mai accusarti. Non disperare, non

 bisogna! Achille mi salverà. Oggi gli ho parlato. Ecco, se non fossimo venute, non avrei conosciuto Achille. Felice il giorno, dunque, che sono partita. E' il guerriero più giovane e il più forte. Il suo sguardo è aperto, leale. Io credo in lui, nella sua promessa. Mi salverà. La sua spada fa paura a tutti. I suoi soldati, nessuno li può vincere. Clitennestra            -  Sì, bambina, hai ragione, non bi­sogna disperare. Tuo padre, ora che Achille ha parlato, avrà più animo per resistere. O avrà meno scuse...

Ifigenia                            -  Non credo più in mio padre, non mi aiuterà, per me non trova che disprezzo... Clitennestra                          -  Sono io che lo disprezzo. Ifigenia           -  Mi disprezza e mi farà morire! Clitennestra      -  No, gli dei non permetteranno. Achille non vorrà.

Ifigenia                            -  Achille è tanto giovane. E' leale. Cir­condato, come me, da nemici crudeli. Mi sembrano ragni mostruosi che tessono una ragnatela di in­ganni. Saprà prevedere, sventare? Ahimè, vi è peri­colo per lui. Mamma, lo uccideranno! Come me, lo uccideranno!

Clitennestra                     - (stringendola fra le braccia) No, figlia, no. Calmati, tutto si risolverà. E' solo un brutto sogno, finirà. Calmati, riposa. Ora dormi, la notte è inoltrata, chiudi gli occhi, calmati, riposa, tua madre è con te, non ti abbandona, dormi dormi dormi. (Una pausa).

Ifigenia                            -  Non posso dormire. Non voglio. Le om­bre dei sogni mi tormentano. Calcante mi minaccia nel nome degli dei, Odisseo nel nome della patria, Menelao della famiglia. Mi stanno intorno con le mani alzate, le dita adunche. Gonfi, enormi. Mio padre è il più grande di tutti e mi minaccia di vergogna e di morte.

Quadro tredicesimo

(Soldati).

Il primo Soldato              -  Perché fai questa faccia?

Il secondo Soldato          -  Sono preoccupato.

Il primo Soldato              -  Di che?

Il secondo Soldato          -  Penso alle mura di Troia.

Dicono che sono alte.

Il primo Soldato              -  Altissime.

Il secondo Soldato          -  Come faremo, allora, a

scalarle?

Il primo Soldato              -  lo non lo so, ci penseranno i

capi.

Il secondo Soldato          -  Certo: loro ci penseranno e

tu dovrai arrampicarti. (Altri soldati).

Il primo Soldato              -  Mi sai dire, almeno, perché

combattiamo?

Il secondo Soldato          -  Per difendere la famiglia.

Il primo Soldato              -  Ma se io, per fare la guerra,

sto lontano per anni, la mia famiglia andrà in

rovina.

Il secondo Soldato          -  Anche la mia, accidenti.

Il primo Soldato              -  Ma allora, per difendere la

famiglia, bisogna rovinare una massa di famiglie.

Che vantaggio c'è?

Il secondo Soldato          -  Un vantaggio tutto spirituale.

 VICO FAGGI

 Il primo Soldato             - (rivolgendosi a un altro) E tu,

sai perché facciamo la guerra?

terzo Soldato                   -  Per la difesa della patria, che è minacciata dal nemico.

Il primo Soldato              -  Non sapevo che fosse minac­ciata. A me non mi ha minacciato nessuno. Il terzo Soldato                                              -  Per forza, tu non conti nulla. Il primo Soldato    -  Ma allora perché mi portano in guerra?

Il terzo Soldato               -  Perché la patria è minacciata. Il primo Soldato - (rivolgendosi a un altro) Dimmi tu, perché facciamo la guerra? Il quarto Soldato              -  Per difendere il nostro modo di vita.

Il primo Soldato              -  Il mio è molto scomodo, lavoro dodici ore al giorno, sudo e fatico e mangio poco. Il secondo Soldato                  -  Io mi rompo le braccia lavo­rando.

Il terzo Soldato               -  Io mi spezzo la schiena. Il primo Soldato     -  E allora, cosa difendiamo? Il quarto Soldato                                -  Il loro modo di vita. (Altri soldati).

Il primo Soldato              -  Devi riconoscerlo, amico: che faremo noi senza gli eroi?

Il secondo Soldato          -  Io continuerei a fabbricare vasi.

Il primo Soldato              -  Senza gli eroi non ci sarebbe gusto a fare nulla. Sono loro che ci guidano, ci comandano. L'eroe è sempre in testa: nella guerra, nei giochi, nei banchetti.

Il secondo Soldato          -  Specialmente nei banchetti. Hanno un appetito formidabile. Il primo Soldato           -  Mangiano per rinforzarsi e combattere meglio.

Il secondo Soldato          -  Una bella ragione: per com­battere debbono mangiare, per mangiare debbono razziare, per razziare debbono combattere, per combattere debbono mangiare... Non si fermano mai?

Il primo Soldato              -  Impossibile. Un eroe che si ferma è perduto. (Altri soldati). Il primo Soldato            -  Agamennone è tanto eroico che sacrifica sua figlia.

Il secondo Soldato          -  Non ci credo. Perché dovreb­be farlo?

Il primo Soldato              -  Perché Artemide ci conceda il vento per partire.

Il secondo Soldato          -  Il vento verrà da solo, appena cambia la stagione.

Il primo Soldato              -  Se Artemide vuole, la stagione non cambierà.

Il secondo Soldato          -  Tanto meglio, non faremo la guerra.

Il primo Soldato              -  Ma tu, non sei un patriota? Il secondo Soldato            -  No, sono un contadino. Il primo Soldato                                -  Invece Agamennone è un eroe e sacrifica sua figlia per la causa. Il secondo Soldato    -  Farà fuori una schiava e dirà che era sua figlia. E dopo ci presenterà il conto, che pagheremo in contanti, noi: tu ci rimet­terai un braccio, lui la gamba, quell'altro la pelle. (Il soldato indicato fa gli scongiuri). Il terzo Soldato            -  E' vero, la guerra è una pazzia,

 questa più di tutte. Dovremmo ribellarci, tornare

tutti a casa.

Il primo Soldato              -  Perché non cominci tu?

Il terzo Soldato               -  Non vorrai che mi metta in

mostra, io ho famiglia.

Altri                                 - (in coro) Anch'io. Anch'io.

Il quarto Soldato             -  Io ho moglie e quattro figli.

Anche la suocera a mio carico.

Il primo Soldato              -  Tutti hanno famiglia. Forse è

per questo che scoppiano le guerre.

Quadro quattordicesimo

(I due Testimoni).

Il Testimone in nero        -  Oggi sarà la giornata deci­siva.

Il Testimone in bianco     -  Achille è con Ifigenia, ma Odisseo si lavora i suoi Mirmidoni. Il Testimone in nero -  Benché la corruzione, co­me mezzo di lotta, sia riprovevole, non posso ne­gare la sua efficacia. La deploro ma mi inchino. Il Testimone in bianco       -  Clitennestra è partita. Inebetita dal dolore, l'hanno indotta a cercare appoggi alla sua causa nella città della Beozia. Calcante vuole che la faccenda venga sbrigata nel modo più rapido e pulito. Una madre sarebbe terri­bilmente d'ingombro.

Il Testimone in nero        -  E tutti i soldati che son venuti qui contro voglia, che si lagnavano, che volevano ritornare, che faranno? Il Testimone in bianco -  Nulla, certo. Si sfogano l'uno con l'altro e si consolano a vicenda. Oppure fanno dei pettegolezzi. Non sono massa ma pol­vere, non popolo ma gregge. Ci vorran secoli per­ché imparino, se mai impareranno. No, non voglio disperare: gli uomini impareranno. Forse il giorno in cui basterà premere un bottone per cancellare la vita della terra...

Il Testimone in nero        -  Oggi, dunque, è deciso. Guerra! La parola ai guerrieri e ai poeti! Il Testimone in bianco                                              -  La parola ai carnefici. (Una pausa).

Il Testimone in nero        - (mentre parla la scena viene illuminata da colori vivacissimi) E' una giornata splendida, luminosa. Una giornata di gloria. Il mare è tutto un tremito di sole e il bosco sacro un dolce ondulare di fronde. Il cielo sorride all'Eliade. Il Testimone in bianco    - (la scena, mentre parla, è investita da una luce squallida) E' una giornata fredda. Gli uomini rabbrividiscono nelle tende, fra-dice di pioggia. Le sentinelle trascinano i piedi nel fango. Volti chiusi, sguardi che si sfuggono. Una luce livida su tutto. Un giorno da delitti. Gli alberi sono spogli, si stagliano contro il cielo neri come delle forche.

Quadro quindicesimo

(Ifigenia e Achille. Poi i due testimoni. Ancora Ifigenia e Achille).

Ifigenia                            -  Il giorno è ormai inoltrato. Un altro giorno. Mi sono abituata a contarli come se cia­scuno fosse l'ultimo. Mia madre ancora non torna. Achille       -  Starà fuori a lungo, forse dei giorni. Ifigenia                     -  Mai l'attesa mi è sembrata così lunga.

 UN CERTO GIORNO

 Non so se attendo mia madre o qualcos'altro. Le mie mani sono di ghiaccio. Stasera non sarò più viva. Come è assurdo morire quando si è trovata una ragione di vivere.

Achille                             -  Ma io sono con te. Non ti lascio. Sono qui per difenderti. Ifigenia     -  Dove sono i tuoi soldati? Achille                    -  Non lontano, sta sicura. Aspettano il mio segno, che non mancherà, perché è venuto il giorno dell'azione. Basta con gli indugi. Tessalo verrà tra poco a prendere gli ordini. Tutto è pre­disposto. Dovrebbe essere già qui. Ma non man­cherà. E' un soldato fedele. Sarei ingiusto a dubi­tare di lui.

Ifigenia                            -  Sono così stanca di aspettare, di tre­mare, che la morte sarà quasi una liberazione. Achille                                              -  Odisseo e Calcante non oseranno met­tersi contro di me e i miei Mirmidoni. Ifigenia      -  Mia madre non doveva partire. Non so chi l'abbia convinta. Da chi può sperare aiuto? Po­vera madre mia! A Tisbe, a Cheronea si getterà inu­tilmente ai piedi di gente che non può ascoltarla. Delusa, umiliata, tornerà, mi cercherà, e forse sarà troppo tardi.

Achille                             -  E qui, che farebbe? Attendere è peggio. Chi s'affanna ad agire, ha meno tempo per tor­mentarsi.

Ifigenia                            -  Sono egoista, perdonami... Dovrei dirti vattene, lasciami sola, non morire per me. Ma sono troppo vile ed egoista per dirlo con sincerità. Achille         -  Non voglio che tu lo dica. Nemmeno che lo pensi. I nostri destini sono inseparabili. (Una pausa).

Ifigenia                            -  Sento gente, fuori, che si muove. Achille     -  La guardia alla tenda è stata rinforzata. Gente nuova, facce sconosciute. E Tessalo non arriva ancora. Forse ho sbagliato tutto. Ho voluto essere cauto, temporeggiare. Invece... Ifigenia     -  Stringimi le mani. Sì, sento che sono viva, so che vivere sarebbe terribilmente bello. Ti ringrazio, Achille.

Achille                             -  Sono io che ti ringrazio. Cos'ero prima di conoscerti?

Ifigenia                            -  Eri un soldato senza problemi; un uomo felice.

Achille                             -  Ero nulla, lo sai.

Ifigenia                            -  lo ero un nodo di incubi e rimorsi. Ora tremo di paura, rabbrividisco, ma il mio cuore è senza macchia.

Achille                             -  Perché non ti ho conosciuta prima? Ifigenia     -  Non mi avresti neppure guardata. Solo la morte, che pendeva su di me, ha richiamato il tuo sguardo e ti ha permesso di vedermi. La nostra vita, prima, era avvolta di nebbia. L'aria fredda che la dissolve è quella della morte. Achille                                 -  E' caduta la scorza che mi copriva. Mi credevo un eroe, un semidio, e non ero che una macchina di guerra. Ho imparato a conoscere e amare, ma anche a giudicare e odiare. Ma quanto costa divenire un essere umano! Ifigenia         -  lo peso troppo su di te. Achille        -  Non accusarti. Io amo il tuo peso, il tuo destino congiunto con il mio. Divenire un uo-

 mo, è privilegio di pochi. Tutto appare diverso, nitido, ogni cosa col suo significato. Ma le mie mani e il mio petto sono inermi, non sono più il capo del Mirmidoni. Ifigenia          -  Noi siamo perduti. Achille                                              -  Sì, siamo perduti. Tessalo non verrà. E' troppo tardi. I Mirmidoni sono soldati di me­stiere, si guadagnano il pane con la guerra. Ero pazzo a contare su di loro.

Ifigenia                            -  Sono molto stanca, Achille, dimmi che dobbiamo fare. No, lo so: io debbo morire... Ma tu salvati. Salvati, ti prego. Vedi che posso dirlo, che ho imparato. Salvati, vattene. Achille                                              -  Io resterò con te. E' questo il prezzo che debbo pagare per essere un uomo. Il mio do­vere è resistere, lottare sino all'ultimo respiro. Non bisogna cedere al male. I carnefici vogliono il consenso della vittima, la sua comprensione, la sua complicità. Vogliono che il delitto si mascheri da sacrificio. Hanno sete e fame di belle parole.

I loro poeti sono pronti a versare miele sulle pia­ ghe, a cantare il purissimo olocausto. Ma è un delitto, lo capiranno. Sapranno che c'è stato qual­ cuno che si è opposto e ha combattuto sino all'ul­ timo. La nostra morte non sarà inutile.

Ifigenia                            -  Tu mi hai dato una ragione per vivere, ora mi dai una ragione per morire. Achille     -  Noi lanciamo un messaggio ai posteri, che un giorno qualcuno raccoglierà. Ifigenia            - (dopo una pausa) Ora verranno e si get­teranno su di noi. Sento i loro passi, si avvicinano. Achille                                 -  Non avranno il nostro consenso. E' poco, ma non possiamo di più. La tua vita, la mia, non le avranno senza combattere. (Si fa buio. Poi da esso emergono i due Testimoni).

II Testimone in nero        -  Rifiutano il sacrifìcio ma accettano la morte, una morte oscura e senza glo­ ria. Solo questo concedi a Ifigenia? E' banale, meschino.

Il Testimone in bianco     -  E' la verità. Il Testimone in nero     -  Una verità insignificante. Vale più la mia. Basta così poco, guarda. (Achille e Ifigenia. L'illuminazione è completa e diversa da prima).

Ifigenia                            -  I tuoi soldati non arrivano. Achille               -  Non sono più il capo dei Mirmidoni. Loro stanno con Odisseo. Ifigenia -  Noi siamo perduti. Achille        -  Sì, siamo perduti, non ho saputo salvarti. Ifigenia       -  Non hai potuto, nessuno lo poteva. Era destino. E' finita. Mi trascineranno all'altare come una schiava. Una morte sordida mi attende. Achille        -  Io resterò con te. Morirò con te. Ifigenia              -  Ognuno muore solo. La morte non unisce. Ognuno è schiacciato dalla sua e non c'è posto per gli altri. La mia morte sarà soltanto mia. Tu salvati, sei ancora in tempo. Achille            -  Non voglio salvarmi, voglio vendicarti. Pagheranno le nostre vite col sangue. Ifigenia     -  E' questo che mi offri? Una fine sor­dida e selvaggia. Una pagina turpe, da dimenticare. Achille   -  Ricorda che il nostro dovere è di rifiu­tare il nostro consenso ad un delitto.

 VICO FAGGI

 Ifigenia                           -  Io posso qualcosa di più grande. Posso trasformare il delitto in un sacrificio. Lo farò per me. Non sarò vittima, ma vincitrice. Achille    -  No, avevamo deciso di resistere. Dob­biamo.

Ifigenia                            -  In nome di che?

Achille                             -  Degli uomini che verranno, della verità. Ifigenia         -  La verità è la morte che mi attende. Non mi resta che scegliere la morte più bella. Non hai il diritto di negarmelo. I posteri non contano. Morirò con coraggio, con dignità. Non sarò trasci­nata a forza, salirò da sola l'altare. Li guarderò negli occhi con disprezzo. Tu resterai a ricordarmi. Non voglio che tu muoia, voglio che tu mi ricordi e mi compianga. Solo tu hai conosciuto Ifigenia.

10 vivrò in te, se tu vivrai. Ti prego, Achille, è la mia ultima preghiera. Salvati, ricordami. Addio.

Quadro sedicesimo          - (Testimone in nero. Ifigenia, Calcante, Agamen­none, principi e soldati. Testimone in bianco).

11 Testimone in nero       -  Io narrerò ai posteri la sorte gloriosa di Ifigenia. Nel giorno segnato dagli dei, quando venne il momento decisivo, essa si distaccò senza tremare dal fianco della madre, che si strappava le vesti ed i capelli, si segnava le guan­ ce con le unghie. « Non piangere, madre, - disse Ifi­ genia - non vestire abiti di lutto, non recidere la tua chioma. La mia sorte è lieta perché è causa di salvezza all'Eliade. Non odiare mio padre! ». Clitennestra la stringeva in un abbraccio convulso; Ifigenia si sciolse con dolcezza, ordinandole di non seguirla. Clitennestra voleva trattenerla ancora, sin­ ghiozzando la supplicava. « Non voglio più vedere lacrime, - rispose Ifigenia - potrei perdere il corag­ gio ». Si avviò seguita da molte giovani donne, non sorretta da alcuna, perché il suo passo era fermo come la sua voce. Nel bosco sacro alla dea l'atten­ devano il padre, il sacerdote con le acque rituali, l'esercito degli Elleni ansiosi di prendere le armi contro i Frigi. (Buio. Poi appare Ifigenia, che avan­ za nel bosco sacro, dove l'attendono Agamennone, Calcante, ì principi e i soldati).

Ifigenia                            -  Eccomi, son pronta. Ifigenia è pronta al sacrificio. Dove sono le ghirlande? Cingetemi il capo. Così. Non tremate. Io reco alla patria la sal­vezza e la vittoria. (Agamennone si copre il volto, gemendo) Non piangere, babbo, non si deve. Volen­tieri io offro il mio corpo all'Eliade sacra, come l'oracolo della dea ha comandato. Non piangere, dunque. E voi, Argivi, ascoltate. A ciascuno io au­guro felicità e vittoria e un glorioso ritorno alla sua casa. (Alcuni soldati si avvicinano a Ifigenia per immobilizzarla) Nessuno mi tocchi! Indietro! Io non fuggo, non tremo. Da sola, impavida, por­gerò alla spada la mia gola. (/ soldati si allonta­nano da lei).

Calcante                          - (sguaina una spada acuminata e la pone in un canestro d'oro) 0 divina Artemide, figlia di Zeus, invitta cacciatrice, fulgida luce del silen­zio notturno, ecco la vittima che l'esercito greco e Agamennone ti offrono. Accoglila benevolmente, accogli il puro sangue che sprizzerà dal suo collo

 virginale, e a noi concedi di raggiungere e conqui- I stare le torri di Troia. (Ifigenia fa un passo innanzi I e si inginocchia dinanzi all'ara. Calcante impugna I la spada, tocca con la sinistra il collo della giovane, \ cerca il punto da colpire. Mentre la sua spadam scende sulla vittima, la scena si fa di colpo buia). I Il Testimone in nero           - (uscendo dall'ombra) I

I soldati non fiatavano e non osavano alzare la I testa. Non vi erano né canti né danze in quell'ini- 1 petibile sacrificio, e nemmeno preghiere, ma sol- j I tanto silenzio e silenzio. Il tremito della mano di I Calcante era visibile. In ognuno il cuore batteva oppresso da un intollerabile dolore. Ma ecco, d'un tratto, un prodigio si avvera: mentre la spada ; scende, luminosa e spietata, verso la vittima, e sta 1 per incidere la carne, ecco che Ifigenia non c'è più, j è scomparsa, miz-acolosamente rapita dalla dea. Al i suo posto giace, sanguinante, una grande cerva i dalle belle forme. Fu un grido generale di stupore, di sollievo, di giubilo! Calcante, allora, levò la sua voce: « 0 Argivi, principi e uomini d'arme, con­ template questa vittima che Artemide, pietosa, ha I posto sull'ara affinché non fosse macchiata dal] sangue della vergine. La dea ha gradito la nostra j offerta ed ora ci concede di salir sulle navi e navi-4 gare, con l'aiuto dei venti propizi, verso la Troade. I Avanti, corriamo alle navi, ciascuno al suo posto. I E' tempo di salpare! ». Non aveva ancora finito, che I già Zeus fa sentire il suo tuono. Il vento si scatena, I flagella gli alberi; il mare risponde con muggiti. I Le onde, frangendosi sugli scogli, lanciano in aria I la schiuma biancheggiante. II cielo sfolgora di Iam- f| pi e sembra aprirsi. I marinai tendono le vele. E I così, stupiti ancora dal portento, confortati dal! segno di benevolenza degli dei, gli Argivi lascia- I rono Aulide e si avviarono verso la guerra, versoM la vittoria. (7/ Testimone in nero si ritira. Avanza I invece verso il pubblico il Testimone in bianco, I il quale regge tra le braccia il corpo insanguinato I di Ifigenia, le cui vesti sono a brandelli).

II Testimone in bianco    -  Giudicate, uomini. VoM dovete giudicare. Ifigenia è morta, la sua giovi- I nezza se ne è andata col sangue che colava dalle I ferite. Non credete ai poeti che mentono, sputate 1 sui falsi testimoni. Ifigenia non vivrà, nessuna dea I l'ha salvata. Eccola, è morta. Non lasciate che lei belle parole vi ingannino. L'hanno uccisa ed è stato ■ un delitto che ne prepara uno più grande, ia guerra, 1 che genererà nuovi delitti. Ifigenia non si è offerta I al sacrifìcio, l'hanno trascinata, ed essa urlava, si dibatteva, li ingiuriava. L'hanno sgozzata come una bestia mentre Achille veniva sopraffatto. Giudicate, J uomini. Il delitto è stato consumato, nessuno ha saputo impedirlo. Achille ha cercato ma era solo.] Ditelo voi: l'uomo che si oppone al male dovrai sempre essere solo? Uomini, svegliatevi. Non serve chiudere le porte e le finestre. La pietà e le lacrime non servono. Quando è tempo di agire, chi sa of­ frir soltanto lacrime è un nemico.

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