La vedova spiritosa

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LA VEDOVA SPIRITOSA di Carlo Goldoni

LA VEDOVA SPIRITOSA

di Carlo Goldoni

La presente Commedia fu per la prima volta rappresentata in Venezia nell'Autunno dell'Anno 1757 in verso, come ora è stampata, indi in Roma nell'Anno 1758 ridotta in prosa.

A SUA ECCELLENZA LA SIGNORA DONNA

GIACINTA ORSINI

BONCOMPAGNI LUDOVISI

DUCHESSA D'ARCE

Se è vero (come pur troppo ho anch'io qualche volta sperimentato), che dopo una grande allegrezza, qualche sensibile dispiacere ordinariamente succeda, qual sarà il mio destino per l'avvenire, dopo quell'estrema consolazione che mi ha recato vedermi in Roma sì dolcemente accolto, e con tanto favorevole prevenzione felicitato? Sono parecchi anni che in questa illustre eccelsa Metropoli dell'Universo vengono le mie Commedie rappresentate, e sono state sempre, per mia fortuna, benignamente sofferte. Ora vi sono io in persona a dirigerle nel gran Teatro di Tordinona; e so che la mia venuta ha impresso nell'animo di qualcheduno, che l'esito delle Comiche mie rappresentazioni in quest'anno abbia a sorpassar di gran lunga il fortunato incontro delle passate. Questa buona opinione che mostrasi aver di me, mi pone nella maggiore angustia del mondo. So quanto siano pericolose queste magnifiche prevenzioni; so pur troppo, che poche volte ritrova il Pubblico l'esito alla espettazione corrispondente, onde ho questa bella obbligazione a me stesso, di esser venuto da me medesimo a pregiudicarmi. Nel dedicare adunque all'E. V. questa Commedia mia, che prima delle altre in quest'anno, sotto la mia direzione, in questa gran Città si produce, intendo non solamente all'altissima protezione di Lei raccomandarla, onde si disponga l'animo suo generoso a soffrirla, ma l'amore paterno inverso di questa povera mia figliuola mi sprona interessare il credito di una Principessa sì grande, sì dotta, ed in sì alto modo dal Pubblico rispettata, onde se la sorte non avrà di piacere, non abbia almeno la fatale disavventura di essere calpestata. La benignità clementissima con cui l' E. V. si è degnata di accogliermi nei primi giorni del mio arrivo in Roma, la parzialità generosa ond'ella favorisce le opere mie stampate, mi fa altresì coraggioso nel supplicarla umilmente a voler prediliger questa, onorata col di Lei nome in fronte; potendo io costantemente asserire che fra tante altre mie difettose, parmi la meno indegna di una sì venerabile Prottetrice. Non creda già l'E. V. che io per passione soltanto nell'animo mio alle altre sorelle la preferisca, ma solito essendo a giudicar i miei parti coll'opinione più universale del Pubblico, ho principiato ad amarla, dopo che dall'esito fortunato mi parve sufficientemente arricchita. Con questo sì buon augurio ho trasportato io la mia Vedova Spiritosa su queste Scene; ma chi sa se avrà ella in Roma la medesima sorte? So bene che in qualunque evento sarà sempre invidiabile la sua fortuna, uscendo alla luce sotto i gloriosi auspicii dell'E. V. il di cui Nome è sì noto al Mondo, che non vi ha bisogno di elogi per magnificar la grandezza di un sì alto fregio. Basta dir che Voi siete Principessa Romana, Figlia di quell'Orsini, Pronipote della Santa Memoria di Benedetto XIII, di quel Domenico Orsini, che (sciolto da morte il nodo matrimoniale) veste la Sagra Porpora, e fa risplendere in alto grado le virtù eccelse, le virtù luminose. Passaste a felicitar colle Vostre Nozze l'Eccellentiss. Principe D. Antonio Boncompagni Ludovisi, Duca d'Arce, Figlio degnissimo di D. Gaetano, Principe di Piombino, Pronipote di due Gregorj XIII e XV; e bastano


Nomi tali per una voluminosa Istoria. Ma chi volesse parlar di Voi, senza entrar punto a disaminare le glorie innumerabili dell'antichissimo Sangue Vostro e dell'eccelso lignaggio dell'Amabilissimo Vostro Sposo, sono tali e tanti i pregi della Vostra Persona, che basterebbono questi soli a farvi grande, quando anche tale non foste nata. La Natura istessa vi ha reso giustizia coll'avvenenza del volto e colla chiarezza dell'intelletto, e Voi contribuiste sì bene ai doni della fortuna, che se di più vi restasse a desiderare, di più ancora meritereste. Quale obbligazione non vi hanno le Lettere e le Muse del nostro Secolo, se Voi nel più bel fiore degli anni a così alto segno le rendete cogli esercizi Vostri onorate? Ah, se in Voi la modestia non fosse l'arbitra delle Vostre Virtù, quante vezzose rime non uscirebbero dalla Vostra penna, a onor di Roma, a gloria d'Italia, ed a conforto del Vostro sesso, che dalla maggior parte degli uomini non si vorrebbe ai migliori studi impiegato? Ma Voi, che oltre le scienze felicemente acquistate, avete il dono della buona Filosofia, volete compiacer Voi medesima coi migliori studi, senza rendere altrui né mortificazione, né invidia. Chi sa discernere nella Vostra moderazione le Vostre esimie Virtù, tanto maggiormente vi loda, e vi ammira, e vi rispetta, e vi ama, ed io nei pochi giorni che trovami in mezzo alle magnificenze Romane ho tanto inteso parlar di Voi, che preferisco a ogni altro diletto l'onore che mi fu concesso, di conoscere una Principessa adorabile, e di acquistarmi una Protettrice magnanima e virtuosa. Sia frutto adunque della Vostra umanissima protezione, l'accogliere sotto dei Vostri auspicii questo miserabile parto del mio scarso talento, e quando non venissero tollerati in Roma quei difetti che altrove furono alla Commedia mia perdonati, fatela rispettare coll'autorevole Vostro Nome, e siano risparmiati gli insulti ad uno che per liberalissima grazia Vostra ha il grande onore di essere

Di Vostra Eccellenza

Umiliss. Devotiss. Ossequios. Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Io ho sempre temuto il Pubblico, ma non mai tanto quanto nella congiontura presente. I motivi del mio timore li ho espressi nell'antecedente Epistola Dedicatoria, e dopo di essermi raccomandato ad una sì gran Protettrice, mi raccomando altresì a questo Pubblico istesso, che mi ha in distanza con tanta generosità compatito, e da vicino sinora con tanto amor consolato. Dovrebbe animarmi a sperar di essere compatito, la buona ciera che altrove a quest'Opera mia fu fatta, ma quantunque fosse diverso in Roma il di lei destino, non ardirò mai di dolermene, né di far confronti fra il gusto di un Paese, e quello di un altro. Può essere che non riesca bastantemente giocosa, ma l'arte insegna di crescere nel ridicolo colle opere posteriori. Insomma, quanto ho scritto finora spiega bastantemente ch'io temo, e questo è un segno del mio rispetto verso una Città ripiena di uomini insigni, di uomini letterati, che sono capaci di decidere e di giudicare, ma che avranno altresì, come io spero, disposto l'animo a compatire.

Ognuno può facilmente ravvisare dalla precedente Lettera Dedicatoria e dal susseguente ragionamento al Lettore essere stata rappresentata in Roma la presente Commedia, e colà per la prima volta stampata. Ella per altro fu da me in tale occasione convertita in prosa, e in tal maniera sarà da me in altro tempo fra le opere mie collocata. Ora la do al Pubblico come originalmente fu scritta, e come venne in Venezia ed altrove dai nostri comici recitata.

Deggio altresì con mio estremo cordoglio piangere nuovamente in quest'occasione la dolorosa perdita che ha fatto il Mondo della ornatissima Illustre Dama a cui ebbi l'onore di dedicare la Commedia stessa; ed io che fui testimonio di vista degl'infiniti suoi pregi, posso asserire con mille altri che la perdita è grande, e degna del comun pianto. Non ho voluto per altro defraudare i miei Tomi di un sì rimarchevole fregio, poiché anche estinta, basta l'onorata memoria di una sì amabile Protettrice a decorare colui che può vantarsi di aver goduto la di Lei protezione, e di aver conosciuto sì da vicino il vero modello di una gran Dama, dotta, virtuosa e gentile.


Personaggi

Don BERTO liberale e di buona fede.

Donna PLACIDA vedova, nipote di don Berto.

Donna LUIGIA sorella minore di donna Placida.

Don FAUSTO avvocato.

Don SIGISMONDO cavaliere.

Don FERRAMONDO capitano.

Don ANSELMO falso amico di don Berto.

Don ISIDORO amico della tavola di don Berto.

CLEMENTINA serva in casa di don Berto.

PAOLUCCIO servitore di don Berto.

Un altro SERVITORE di don Berto.

La Scena si rappresenta in Milano.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di donna Placida

Donna Placida e donna Luigia.

PLA.                 Grazie al cielo, germana, l'anno è di già compito,

Che vedova rimasi in casa del marito. Supplito per un anno all'uso ed al dovere, Lasciai le meste soglie, lasciai le spoglie nere. Padrona di me stessa, ritorno in casa mia; Con voi, cara Luigia, ritorno in compagnia. Don Berto nostro zio, che con amor paterno, Mancati i genitori, di noi preso ha il governo, Unendo agli altri beni i frutti di mia dote, Manterrà senz'aggravio la vedova nipote.

LUI.                  Don Berto è il più buon uomo che dar si possa al mondo;

Sarebbe lo star seco un vivere giocondo, Se non avesse intorno due perfide persone, Un scrocco adulatore e un falso bacchettone.

PLA.                 L'un sarà don Anselmo, l'altro don Isidoro.

Lo so che il pover'uomo fa tutto a modo loro. Pare un destin che sempre un capo di famiglia Abbia ad aver d'intorno chi male lo consiglia; Un coll'adulazione, l'altro coll'impostura, Ciascun per il suo fine dirigerlo procura. Almen con buona grazia sapesser profittare; Ma scroccano la mensa, e voglion comandare.

LUI.                  Di più quel don Anselmo, uomo da ben stimato,

Di me segretamente io so ch'è innamorato.

PLA.                 Ecco il perché ha studiato il perfido impedire

Che in casa io non venissi le trame a discoprire. Ci sono, e a poco a poco, con arte e discrezione, Se ne anderanno i tristi, noi sarem le padrone.

LUI.                  Sorella, sono stanca di vivere fanciulla,

Se voi non m'aiutate, dal zio non spero nulla.

PLA.                 Tanto di maritarvi vi stimola il desio?

LUI.                  Quello che l'altre han fatto, bramo di fare anch'io.

Voi pur lo desiaste, e foste consolata, E spero di vedervi ancor rimaritata. Se voi fissato avete di star senza marito, Vedete di trovare per me qualche partito.

PLA.                 L'esempio mio non bastavi per sconsigliarvi a farlo?

LUI.                  Se incerto è il destin nostro, anch'io vorrei provarlo.

Molte incontrano male, è ver, ma vi rispondo, Che se temesser tutte, terminerebbe il mondo.

PLA.                 Bella ragione invero, per cui le donne tenere


Sagrifican se stesse a pro dell'uman genere.

Pur troppo ho chi m'insidia. Pur troppo intorno a me

Sono gl'insidiatori di libertade in tre.

Evvi don Sigismondo, un cavalier compito,

Che mi serviva ancora vivente mio marito.

Evvi don Fausto amabile, quel celebre avvocato,

Che mi ha contro i cognati la dote assicurato.

Don Ferramondo poi, capitan valoroso,

Insiste più d'ogni altro per essere mio sposo.

Ma ci penserò bene pria di saltare il fosso.

La libertà acquistata vo' conservar, s'io posso.
LUI.                  Fate così, sorella; se non vi preme alcuno,

Dei tre che vi vorrebbero, cedetemene uno.
PLA.                 Qual vorreste di loro?

LUI.                                                       Per verità non so.

Lasciate ch'io li veda, e poi ci penserò.
PLA.                 Tutti han merito grande, ma tutti i tre soggetti

Hanno le lor virtudi, ed hanno i lor difetti.

Il capitano è pieno di spirto e di buon cuore,

Ma facile ad accendersi di sdegno e di furore;

Parla ben, pensa bene il giovane avvocato,

Ma nei ragionamenti è un poco caricato;

E l'altro cavaliere, ricco e di bell'aspetto,

A forti distrazioni spessissimo è soggetto.

Qual dei tre scegliereste?
LUI.                                                             Non sembrami gran fatto,

Che veggasi talvolta un cavalier distratto.

E se l'affettazione anche il legal trasporta,

Quand'egli è un uomo buono l'affettazion che importa?

E in quanto al capitano, che è facile allo sdegno,

Se è saggio ed amoroso, non è d'amore indegno.
PLA.                 Sian buoni, sian cattivi, sian belli o siano brutti,

Sorella, a quel ch'io sento, a voi piacciono tutti.
LUI.                  Mi sembra onestamente pensar come conviene,

Se trovomi disposta a prender quel che viene.
PLA.                 Certo che il matrimonio può pareggiarsi a un lotto.

Chi studia più, sa meno; chi l'indovina, è dotto.

Tante che si hanno scelto lo sposo, innamorate,

Credendo di far bene, rimasero ingannate.

E tante che il marito hanno pigliato a sorte,

Son state fortunate, felici insino a morte.

Pone l'amor sovente alla ragione il velo.

Sempre sarà il migliore quel che destina il cielo.
LUI.                  Chi viene a questa volta?

PLA.                                                         Don Fausto, il mio legale,

Che vi par dall'aspetto?
LUI.                                                          Mi par non vi sia male.

PLA.                 Spero che gli altri due verranno parimenti

A consolarsi meco ch'io son co' miei parenti.

Andate, ed attendete ch'io ve ne ceda alcuno.
LUI.                  (Temo non sia disposta a cedermi nessuno). (da sé e parte)


SCENA SECONDA Donna Placida, poi don Fausto.

PLA.                 Ha voglia di marito; da ridere mi viene:

Povera mia sorella, è stanca di star bene.
FAU.                 Servo di donna Placida.

PLA.                                                         Don Fausto riverito. (da sé)

(Eccolo, sempre lindo e sempre mai compito).
FAU.                 Godo vedervi escita da quei recinti avari

A vivere contenta fra i vostri patrii lari.

Merita ben, chi unito ha il senno alla bellezza,

Nuotar felicemente nel mar di contentezza.
PLA.                 Vostra mercé, signore, dagli avidi cognati

I frutti della dote abbiam ricuperati.
FAU.                 Astrea ragion vi fece, e prospera vi fu.

Ha vinto il vostro merito, non già la mia virtù.
PLA.                 Eh, il mio dottore amabile, questa signora Astrea

Da pochi si conosce per arbitra e per dea.

Se usato non aveste per me l'arte e l'ingegno,

Escita non sarei sì facil dall'impegno.
FAU.                 Vantar soverchiamente il mio valor non uso,

Ma pur gli encomi vostri non sdegno e non ricuso;

Poiché labbro gentile che di sue lodi onora,

Anche un terreno sterile, anche un vil campo infiora.
PLA.                 Sedete, se vi aggrada.

FAU.                                                      Seder non si concede

Al servo, allor che stassi la sua signora in piede.
PLA.                 Ambi sediamo. (siede)

FAU.                                          Un cenno puote obbligarmi a farlo.

PLA.                 Sempre gentil don Fausto.

FAU.                                                            Arrossisco e non parlo.

PLA.                 Dunque sperar possiamo che vinti ed avviliti

Gl'indocili avversari non tentino altre liti.
FAU.                 Vivete pur sicura, sotto i legali auspici

Godrete in lieta pace, godrete i dì felici;

Ma provvida pensate, e liberal qual siete,

Che altrui render felice, che altrui bear potete.
PLA.                 Deggio ai poveri forse donar l'argento e l'oro?

FAU.                 Far parte altrui dovete di un più ricco tesoro.

PLA.                 Di che? Non vi capisco.

FAU.                                                         Spirto a virtute amico

Può quel che dire intendo, capir da quel ch'io dico.

Pur se vi sembra arcano di mie parole il nodo,

Porgermi può di sciorlo un vostro cenno il modo.
PLA.                 Soddisfa al genio mio chi parla apertamente.

FAU.                 Dunque non sarò ardito, sarò condiscendente.

Signora, il nuovo stato di vostra vedovanza


Destata ha in più d'un seno la fervida speranza. Il primo possessore di voi tratto dal mondo, Si può sperar che possa succedere il secondo?

PLA.                 No, don Fausto, credetemi, non voglio più arrischiarmi

A violentar un cuore per obbligo ad amarmi.

FAU.                 Obbligo tal sarebbe sì dolce e fortunato,

Che alcun desiar non puote d'esserne dispensato.

PLA.                 E ben, se alcun mi crede degna di qualche affetto,

Che mi ami in libertade, senz'essere costretto. Eccovi del mio cuore tutta l'idea spiegata: Io non vo' tormentare, né essere tormentata. Capace son d'amare sino all'estremo giorno, Ma ciò non vi prometto con un legame intorno.

FAU.                 Amar senza un legame, e amar fida e costante!

Signora, io non v'intendo. Qual genere d'amante?

PLA.                 Ad uomo qual voi siete, è van che più si dica.

L'amor di cui favello, è amor di vera amica. Quella amistade onesta che di esibir mi lice, Un cuore che ben ama, può rendere felice. Chi più da me pretende, chi più mi chiede audace, Aspira ad involarmi dal cuor la cara pace. Nell'uomo non può dirsi amore una virtù, Se brama, per piacere, la donna in schiavitù.

FAU.                 Tutti non son capaci di un virtuoso affetto.

10  forse più d'ogni altro di ciò mi comprometto.
In me poiché quest'alma i pregi vostri ammira,
Nuovo amor, nuova fede, un bell'esempio ispira.
Sarem, se vi degnate di preferirmi a tanti,
Sarem coll'amor nostro la scuola degli amanti.

PLA.                 In general finora parlai del genio mio.

Son donna, e son capace d'una catena anch'io; E quel che in secondarmi più liberal si fa, M'insidia più d'ogni altro la cara libertà. Priegovi, se mi amate, esser men facilmente A quel che vi propongo di cuor condiscendente. Se voi mi obbligherete a risentir l'affanno, Dirò che lo faceste con arte e con inganno. Avrete una vittoria, è ver, sul mio talento, Ma un dì vi darà pena vederne il pentimento. Siate nei sacrifizi più accorto e più discreto:

11 troppo compiacermi ancora io vi divieto.
FAU.                 Piacemi il bel comando: un non so che vi trovo,

Vi trovo una bellezza di carattere nuovo.

Se voi foste veduta ad arringar nel foro,

Giudici non saprebbero negarvi i voti loro,

E Paride fra mille, non che fra tre donzelle,

Voi giudicar dovrebbe la bella infra le belle.

Signora, lungamente restai più del dovere,

Né so se vi recassi piacere o dispiacere

Vorrei partir temendo di rendermi molesto. (si alza)

Ma no, rammento il cenno. Per dispiacervi io resto.


PLA.                 Certo i' sarei dolente restando di voi priva. (teneramente)

FAU.                 Con voi, se ciò sia vero, resterò fin ch'io viva. (con tenerezza)

PLA.                 Ecco una compiacenza che mettemi in periglio

Ah, voi mi costringete fuggir dal vostro ciglio. (s'alza)
Se ingrato e compiacente valete a cimentarmi,
Addio. Sarò la prima io stessa a licenziarmi. (vuol partire)
FAU.                 Fermatevi un momento. Perdono io vi domando,

Se male col divieto confondemi il comando. Partirò, e per non esservi grato, partendo, o ingrato, Dirò che al mio dovere mi chiama il magistrato. Farò, se il permettete, ritorno a riverirvi. Spesso verrò, sperando di meglio infastidirvi. Se in me per obbligarvi temete un qualche dono, Odiatemi per questo, che il soffro e vi perdono. (parte)

SCENA TERZA

Donna Placida sola.

PLA.                 Certo non può negarsi, un poco è caricato,

Ma nelle affettazioni ha un brio che riesce grato. Se alla germana mia ceder dovessi alcuno, Il povero don Fausto, no, non saria quell'uno. Sì sì, la libertade del cuor con tutto il zelo Vo' conservar se posso, ma se destina il cielo Ch'io torni a vincolarmi, lo dico e lo protesto Più tosto che con altri, mi legherei con questo. Restar quando si prega, è facile virtù; Partir quando si voglia, mi piace ancora più. Non che di dolce amante la compagnia sia dura, Ma il troppo bene al mondo è un ben che poco dura. E per averlo a grado, e per poter prezzarlo, Il bene qualche volta convien desiderarlo. (parte)

SCENA QUARTA

Don Isidoro e don Anselmo.

ISI.                    Buon giorno, don Anselmo.

ANS.                                                               Don Isidoro mio,

Il ciel vi dia quel bene che bramo avere anch'io.
ISI.                    Don Berto non si vede?

ANS.                                                         Don Berto, il poveraccio,

Con questa sua nipote si è preso un bell'impaccio.
ISI.                    Questa signora vedova intesi dir che sia

Una di quelle donne che fanno economia.

Avvezza col marito ad esser la matrona,


Chi sa che ella non voglia qui pur far da padrona?

ANS.                 Per me, ch'ella comandi, poco ci penso, o nulla:

Spiacemi solamente per l'altra, ch'è fanciulla. Chi ha praticato il mondo, ch'è un consiglier sì empio, Non può che alle innocenti servir di mal esempio. Donna Luigia amabile è una colomba pura. (Temo per acquistarla perduta ogni mia cura). (da sé)

ISI.                    Son da tant'anni avvezzo dispor di questa casa,

Io sono il consigliere, io son mastro di casa, Comando al cantiniere, comando alla cucina: Che ora costei venisse a far la dottorina? Mi spiacerebbe, affé. Noi siam bene avvezzati Mangiare con don Berto bocconi delicati. Di tutte le primizie la tavola è ripiena: Si mangia bene a pranzo, meglio si mangia a cena. E siam padroni noi più del padrone istesso; E che costei venisse a comandare adesso?

ANS.                 Eh, per mangiar non preme; si piglia quel che viene.

ISI.                    Però se vi è del buono, voi vi portate bene.

ANS.                 Per la mia bocca facile i ceci anche son buoni.

ISI.                    Mi pare che vi piacciano le trute ed i capponi.

ANS.                 Se vi son, non li sdegno. Son creati per l'uomo;

Ma basta per nudrirci una radice, un pomo. Per vivere digiuno avrei forza e virtute, Del prossimo potendo giovare alla salute.

ISI.                    Ecco viene don Berto.

ANS.                                                      Convien discreditare

Costei; non per il sozzo desio di mormorare, Ma sol perché don Berto scacci la donna pazza, Che può nel mal costume condurre una ragazza.

ISI.                    A voi preme la figlia, a me sol la cucina.

ANS.                 Ah, non sapete quanto vaglia un'innocentina.

SCENA QUINTA Don Berto e detti.

BER.                 Amici, eccomi qui. Finora mi han fermato,

Per via di donna Placida, in certo magistrato. Libero dagli affari per la nipote mia, Eccomi qui a godere la vostra compagnia.

ISI.                    Oggi che c'è da pranzo?

BER.                                                         Non andaste in cucina?

ISI.                    Andarvi non ardisco: or v'è la signorina.

BER.                 Perché vi è la nipote, deesi aver soggezione?

Oh bella! in casa mia non sarò io padrone? Il solito costume non cambiasi per lei: Voglio mangiare, e voglio goder gli amici miei. Presto, andate in cucina. Io spendo, ed io comando.


Sollecitate il cuoco, a voi mi raccomando.
ISI.                    Vado immediatamente. Mi ha detto il bottegaio,

Che avea delle pernici.
BER.                                                         Che se ne compri un paio.

ISI.                    Oggi siam cinque a tavola. Saran poche due sole.

BER.                 Che se ne comprin quattro; più fatti e men parole.

ISI.                    Mando lo spenditore a prenderle a drittura.

(La cosa in questo modo non andrà mal, se dura). (da sé, e parte)

SCENA SESTA

Don Berto e don Anselmo tiratosi da una parte.

BER.                 Cosa fa don Anselmo involto in quel mantello?

ANS.                 (Per giugnere al disegno conviene andar bel bello). (da sé)

Stava fra me pensando al figlio di un amico

Caduto per disgrazia in un luttuoso intrico.

Era il più buon figliuolo che abbia mai conosciuto;

Ma seco un suo parente ad abitar venuto,

Gl'impresse il mal costume nel core a poco a poco,

Ed or quel miserabile sente d'amore il foco.

Chi ha figli o figlie in casa da custodir, vi pensi

Tenera gioventute ha delicati i sensi.

Al mal natura inclina, è un seduttore il vizio,

E basta un mal esempio per trarne al precipizio.
BER.                 Grazie al ciel che lontano son io da tai perigli.

Non ho mai presa moglie per non aver dei figli.
ANS.                 Però di due nipoti il ciel vi ha caricato.

Buon per voi che la peggio per tempo ha preso stato;

Ma vi ritorna in casa vedova, accostumata

All'odierno stile di donna maritata.

Vorrà conversazioni, vorrà serventi al fianco.

Male per donna Placida, ma pur per essa è il manco.

Orribile è il periglio della germana nubile.

Buona è donna Luigia, ma pare un po' volubile;

E temo, se non veggasi a tempo rimediato,

Il caso dell'amico in voi verificato.
BER.                 Voi mi mettete in capo tal pulce e tal spavento,

Che di aver preso in casa la vedova mi pento.

Ma la dovea lasciare abbandonata e sola?
ANS.                 Tutto, fuor che introdurla dappresso a tal figliuola.

BER.                 Or non vi è più rimedio.

ANS.                                                         Sì, vi è rimedio ancora:

Il ciel non abbandona chi il suo consiglio implora.

La vedova star sola non dee, l'accordo anch'io;

È troppo tristo il mondo. Udite il parer mio.

Togliete ogni periglio, troncate ogni rigiro:

Finché si rimariti, ponetela in ritiro.

Sul cor della germana colà non potrà nulla.


BER.                 Ma non sarebbe meglio chiudere la fanciulla?

ANS.                 No, don Berto, la gente di senno è persuasa

Che meglio custodite sian le fanciulle in casa. È ver che non ha madre questa nipote vostra, Ma a ogni obbligo supplisce l'educazione nostra. Voi coll'esempio vostro, io coi consigli miei, Possiam perfezionare ogni virtude in lei. Levatele d'intorno la scaltra vedovella: Avrà donna Luigia il cuore di un'agnella.

BER.                 Voi trovate il ritiro, ed io la chiuderò.

ANS.                 Sia ringraziato il cielo, a ritrovarlo andrò. (parte)

SCENA SETTIMA

Don Berto, poi donna Placida.

BER.                 In casa il precipizio adunque era venuto?

Caro il mio don Anselmo! il ciel mi ha provveduto.

10  credo facilmente, e vedo che son stato
Da questa mia nipote sedotto ed acciecato.
Ma il mio fedele amico, sincero per costume
Nel buio dell'inganno mi porge un chiaro lume

PLA.                 (Parte quell'impostore, e appena mi saluta.

Inutilmente io spero non essere venuta). (da sé)
BER.                 (Eccola; chi direbbe sotto quell'umil ciglio

Tanta malizia fossevi, e tanto rio consiglio?) (da sé)
PLA.                 Serva, signore zio.

BER.                                                Nipote, vi saluto.

Vi dirò in due parole di voi che ho risoluto.
PLA.                 Sì, signor, comandate, solo obbedirvi aspiro.

BER.                 Vo', finché siete vedova, che andiate in un ritiro.

PLA.                 (Capisco donde viene cotal risoluzione:

11 fingere opportuno deluda la finzione). (da sé)
BER.                 (Mi par che non le comodi). (da sé)

PLA.                                                               In verità, signore,

Dar non mi potevate consolazion maggiore.

Moglie fui per mio danno, il mondo ho già provato,

E vivere destino nel libero mio stato.

Ma son tanti i perigli, tante le insidie sono,

Che ora l'offerta vostra accetto per un dono.

Che sono i falsi beni di questa terra ingrata?

Ogni più dolce brama dal tosco è amareggiata.

Speranza ingannatrice ogni piacer distrugge,

E solo il tristo mondo può vincere chi fugge.

Spero nel mio ritiro un vivere beato.

Mi si aprano le porte.
BER.                                                      (Son rimasto incantato). (da sé)

PLA.                 Signor, padre amoroso non siete di me sola,

Ma di Luigia ancora, d'amore a voi figliuola.


Fate ch'ella non meno, fuggendo ogni deliro, Venga meco a godere la pace del ritiro.

BER.                 Fanciulla... giovinetta... direi, a parer mio,

Fosse meglio educata in casa dello zio.

PLA.                 Oh, in questo perdonate. Ho pratica del mondo.

Il bene, il mal conosco, e franca vi rispondo, Che un uom che ha sue faccende, di ciò sa poco o nulla, E che maggior custodia esige una fanciulla.

BER.                 È ver, ma in luogo mio, a custodirla viene

Un certo don Anselmo, ch'è uom saggio e dabbene.

PLA.                 Ah, m'inspirasse il cielo tal forza e tal consiglio,

Da farvi rilevare l'inganno ed il periglio. Se un uom con donna giovine a conversar si metta, Chi è quel che prosontuoso resister si prometta? Sia don Anselmo un vecchio, anche nei vecchi il foco Ad onta delle nevi si accende a poco a poco. Sia virtuoso e forte; abbiam più d'un esempio, Che il saggio in occasione è divenuto un empio. Tutti siam d'una pasta misera, inferma e frale, Tutti ad errar soggetti.

BER.                                                      (Affé, non dice male). (da sé)

PLA.                 Avrete cuor, signore, di espor la paglia al foco?

BER.                 Ci ho quasi un po' di dubbio... ci penseremo un poco.

SCENA OTTAVA Don Isidoro e detti.

ISI.                    Don Berto, le pernici son belle e comperate,

E le ho colle mie mani e concie e preparate.

Tolto del pan francese, dentro ben ben scavato,

Delle pernici il ventre nel pane ho collocato;

E il grasso del salvatico dallo schidion stillando,

Cade nel pane a goccia, e il pan si va ingrassando.

Ah, quel pane abbrostito che buon sapore avrà!

Subito che son cotte, in tavola si dà.
BER.                 Bravo, bravo davvero.

PLA.                                                      Signor, ditemi un poco,

Chi siete in questa casa? lo spenditore o il cuoco? (a don Isidoro)
ISI.                    Son di don Berto amico, non cuoco o spenditore.

BER.                 È un che la mia tavola frequenta e mi fa onore.

PLA.                 Per quei pochi di giorni che in questa casa io resto,

Caro signor, vi prego non impacciarvi in questo.

Son così stravagante nel gusto di cibarmi,

Che il grasso di pernice potrebbe stomacarmi. (a don Isidoro)
BER.                 Questo mi spiacerebbe.

ISI.                                                            Ciascuno ha i gusti suoi.

Se voi non ne volete, le mangerem da noi. (a donna Placida)
BER.                 Da noi. (a donna Placida)


PLA.                              L'odor mi annoia.

BER.                                                            L'annoia, poverina. (a don Isidoro)

ISI.                    Che stia nella sua camera. (a don Berto)

BER.                                                            Sì, per questa mattina.

PLA.                 Sì signor, volentieri, si faccia il suo consiglio. (a don Berto)

Per altro, perdonatemi, di voi mi maraviglio. (a don Isidoro)

È ver che in questa casa non vanto autorità;

Ma si usa colle donne trattar con civiltà.

Permettere ch'io stia rinchiusa in una stanza

Per satollar la gola, vi par discreta usanza?

Signor, spiacemi il dirvi che tai villani amici (a don Berto)

Non mertano di essere trattati con pernici;

Ma son de' pari suoi degnissime vivande

La paglia ed il trifoglio, il frutice e le ghiande.

Andrò fra pochi giorni a ritirarmi in pace,

Potrete i vostri beni gittar con chi vi piace,

Ma almen per carità pensate alla nipote,

Di cui lasciovvi il padre in man la propria dote.

Questi che vi circondano, ingordi per costume,

Non pensan che a se stessi. Il ventre è il loro nume.

E voi che in soddisfarli siete corrivo e pronto,

Dovrete al cielo e al mondo del speso render conto.

Perdon di ciò vi chiedo. (a don Berto) Lo chiedo a voi, signore,

Se il titolo vi diedi di cuoco o spenditore.

Confesso che il mio labbro fu inavveduto e sciocco:

Vi darò in avvenire il titolo di scrocco. (a don Isidoro, e parte)

SCENA NONA

Don Berto e don Isidoro.

BER.                 Sentiste mia nipote? Per dirla, io non vorrei...

ISI.                    Di tante impertinenze offendermi dovrei.

Ma sono amico vostro, e per quei pochi dì

Ch'ella con voi rimane...
BER.                                                         Non verrete più qui?

ISI.                    Anzi, per amor vostro venire io vi prometto.

Verrò per l'amicizia, verrò per suo dispetto.

Gli amici si conoscono nelle occasioni, e spero

Che ora conoscerete se sono amico vero.

Ad onta de' strapazzi e degl'insulti suoi,

Saldo, costante e fido vengo a pranzar con voi.
BER.                 Meco verrà a pranzare per atto di amicizia.

Parmi in un tal discorso che non vi sia malizia.

Se ascolto lui, mi appaga. Se lei, dice benone.

Sempre chi parla l'ultimo, mi par che abbia ragione. (parte)


ATTO SECONDO SCENA PRIMA

Don Anselmo e Clementina.

ANS.                 Ehi, dite, Clementina! (incontrandosi con Clementina)

CLE.                                                      Comandi.

ANS.                                                                        La zitella

Dov'è, che non si vede?
CLE.                                                         Sarà con sua sorella.

ANS.                 Ecco qui, tutto il giorno chiuse, appartate insieme.

CLE.                 A voi che cosa importa?

ANS.                                                         Sa il ciel perché mi preme.

Dite a donna Luigia, per parte del padrone,

Che venga dal maestro a prender la lezione.
CLE.                 Il padron non l'ha detto. Voi che virtù insegnate,

A dire una bugia, signor, mi consigliate?
ANS.                 Distinguer non sapete ancor, figliuola mia,

Dai leciti pretesti l'illecita bugia.

È vero, anch'io l'insegno quest'ottima morale:

Per conseguire un bene, non si può fare un male.

Però nel caso nostro dirle che il zio l'impone,

Non è mal, se il comando è onesto, e si suppone.

Fate quel ch'io vi dico.
CLE.                                                      Signore, in vita mia

Almen che mi ricordi, non dissi una bugia.

Non voglio principiare ad avvezzarmi adesso.

Non la dirò per certo.
ANS.                                                      Ostinazion del sesso!

Che sì, che se vi chiedo qual sia la vostra età,

Saprete senza scrupoli negar la verità?
CLE.                 Che sì, se vi domando se siete un uom sincero,

Cento bugie mi dite per sostener ch'è vero?
ANS.                 Posso giurar ch'io sono nemico degl'inganni.

CLE.                 Come poss'io giurare che son di dodici anni.

ANS.                 (Costei può rovinarmi, e mi può far del bene.

Con doni e benefizi convincerla conviene). (da sé)

Voi mi credete un tristo: lo soffro e vi perdono;

Venite qui, vo' farvi conoscere chi sono.

Un galantuom mi ha dato cento zecchini nuovi,

Perché una buona giovane da maritar ritrovi.

Si trovan scarsamente le buone ai giorni nostri:

Se l'occasion trovate, i ruspi sono vostri.
CLE.                 Signor, voi condannate cotanto l'impostura.

E poscia mi venite con tal caricatura.
ANS.                 Voi non mi conoscete. Il ver dico e ragiono,

E se all'impegno io manco, un mentitore io sono.
CLE.                 Che mi diciate il vero, provisi pria dal fatto,


E poi de' miei sospetti mi pento e mi ritratto.
ANS.                 Trovatevi lo sposo.

CLE.                                                   Lo sposo fate il conto

Che l'abbia ritrovato. Non è lontano. È pronto.

Paoluccio il servitore ha per me dell'affetto.
ANS.                 Paoluccio è un ragazzaccio, ma alfine è giovanetto:

La testa anch'ei col tempo può mettere a partito;

E poi la buona moglie può fare il buon marito.

Se ciò vi torna comodo, sposatevi domani,

E il danar fate conto d'averlo nelle mani.
CLE.                 In fatti si conosce, e confessar conviene

Ad onta dei maligni, che siete un uom dabbene.
ANS.                 Non basta che il diciate così fra voi e me;

Ma ditelo a chi ardisce pensar quel che non è.

Sappialo donna Placida, che mal di me si sogna,

Ed abbiane rimorso, ed abbiane vergogna.

Donna Luigia il sappia, che ancor di più mi preme;

E non ci disturbate, se ci vedete insieme.

Anzi a chiamarla andate, che venga alla lezione.
CLE.                 Subito vado e dico che l'ordina il padrone.

ANS.                 Bravissima, e badate di darle da qui innanti

Consigli che non sieno dai miei troppo distanti.
CLE.                 Le dirò, per esempio, che agli uomini si crede.

ANS.                 A quei principalmente, qual io, di buona fede.

CLE.                 E le dirò, se mai pensasse a maritarsi,

Che un uomo un poco vecchio non è da disprezzarsi.
ANS.                 Un uom che con prudenza conosca i dover suoi.

CLE.                 Un uomo, per esempio, che fosse come voi.

ANS.                 Io fui lontano sempre dall'essere legato

Ma non si può sapere se il ciel l'ha destinato.
CLE.                 Quel che destina il cielo, l'uomo fuggir non suole.

ANS.                 Metteteci voi pure quattro buone parole.

CLE.                 Lasciate fare a me. Prima averei operato

Se la vostra intenzione mi aveste confidato.

So che voi sposereste la giovane, non già

Per bassa compiacenza, ma sol per carità.

Ed io non mi esibisco per i cento zecchini,

Ma perché non si sa quello che il ciel destini. (parte)

SCENA SECONDA

Don Anselmo, poi don Berto.

ANS.                 Costei è donna scaltra, ed io godo più molto

Col furbo aver che fare, anzi che collo stolto. Lo so che il mio disegno vede patente e chiaro, Ma in mio favor l'impegna la gola del danaro; E se coi suoi consigli aiuta i desir miei, Anch'io la mia parola vo' mantener con lei.


Se a tutte le passioni resistere non so,

Voglio esser pontuale in quello che si può.
BER.                 Caro il mio don Anselmo, siete già ritornato!

ANS.                 Sì, amico, ed il ritiro l'ho bello e ritrovato.

BER.                 Ho piacer; donna Placida sarà contenta anch'ella.

Ma è ben che ci mettiamo ancor l'altra sorella.
ANS.                 Don Berto, vi scordaste sì presto il mio consiglio?

BER.                 A una fanciulla in casa più facile è il periglio.

Non può farle la guardia una servente, un zio:

Pericolar potrebbe.
ANS.                                                   Come? non ci son io?

BER.                 Lasciate che vi parli... che diavi un arricordo.

(Dirò quel ch'ella disse, se più me ne ricordo). (da sé)

Se un uom con donna giovane a conversar si metta,

Chi è quel che prosontuoso resister si prometta?

Sia virtuoso e forte; abbiam più d'un esempio,

Che il saggio in occasione è divenuto un empio.

Tutti siam d'una pasta... e siamo in conclusione

Tutti ad errar soggetti.
ANS.                                                      (So di chi è la lezione). (da sé)

Ah don Berto, pur troppo l'uom di malizia pieno

Di convertir procura il balsamo in veleno.

Son queste, a me ben note, massime tutte buone,

Ma ponderar conviene il cuor delle persone.

Io sarò quel malvagio? Oh ciel! sarò quell'empio,

Di cui narran le storie il luttuoso esempio?

Non credea meritarmi da voi sì fiero torto,

Per mortificazione lo prendo e lo sopporto.

Merito peggio, è vero, l'accordo e lo protesto;

Reo di più colpe io sono, ma non lo sono in questo.

Pazienza. In questo mondo tutto soffrir conviene.

Don Berto, io vi perdono.
BER.                                                            (Ah che uomo dabbene!) (da sé)

Basta... sia per non detto, non ne diciam più nulla.

Che vada donna Placida, che resti la fanciulla.
ANS.                 No, non vo' che si dica...

BER.                                                         Io il dico, ed io lo voglio.

ANS.                 Da voi più non ci vengo.

BER.                                                         Oh, questo è un altro imbroglio.

Se voi mi abbandonate, chiuder sarò forzato

Anche donna Luigia nel luogo disegnato.
ANS.                 Oh amicizia, oh amicizia! a che son io costretto?

Verrò; che resti in casa.
BER.                                                         Che siate benedetto!

L'altra anderà ben presto. Di ciò l'ho già avvisata.
ANS.                 Sì facile al ritiro che siasi accomodata?

BER.                 Eh, quando parlo, parlo. Quando ho ragion, non cedo.

Ella vi andrà, vi dico.
ANS.                                                      (Ancora io non lo credo). (da sé)

BER.                 Quant'obbligo vi devo! Voi non faceste poco

A ritrovar sì presto l'occasione e il loco.


Dov'è? si può sapere?
ANS.                                                      Sì, lo saprete poi.

Per ora un'altra grazia desidero da voi.

Non per me, che di nulla al mondo io non mi curo,

Ma far, qualora posso, del bene altrui procuro.
BER.                 Per voi, per tutti quelli che voi raccomandate,

In quel ch'io son capace, senz'altro comandate.
ANS.                 Una fanciulla giovane, da tutti abbandonata,

Sta per pericolare dai discoli insidiata.

Vorrebbe collocarsi, e pronta è l'occasione;

Ma senza un po' di dote non pigliala il garzone.

Chiede cento zecchini: signor, se voi li date,

D'averla assicurata il merito acquistate.
BER.                 È in occasion la giovane?

ANS.                                                            Sì, certo, e perigliosa.

BER.                 È bella?

ANS.                                 Sì, pur troppo; questa è la peggior cosa.

BER.                 E vuol cento zecchini? Se bella esser si vanta,

Non può la sua bellezza valerne almen cinquanta?
ANS.                 Eh, quei che la bellezza apprezzano, son rari.

Al giorno d'oggidì vonn'essere danari.

E tante buone figlie, belle siccome è il sole,

Quando non han la dote, persona non le vuole.
BER.                 Or sovvenir mi fate, parlando della dote,

Che preparar la deggio anch'io per la nipote;

E troppo liberale s'io son coi doni miei,

Forse il bisogno un giorno mi mancherà per lei.
ANS.                 Questo sospetto avaro nel vostro cuore è novo:

Il solito don Berto in voi più non ritrovo.

Veggo che qualche ingrato vi parla e vi consiglia,

E temo che il nemico non sia nella famiglia.

Per me più non ricerco; mi duole e mi confondo

Vedere affascinato voi pur dal tristo mondo.

Ed io che ho tanto fatto per voi senza interesse.

Potea temer che pari amor mi si rendesse?

A me sì vil danaro negar per carità?

Non vi credea capace di simile viltà.
BER.                 Via, non andate in collera.

ANS.                                                            In collera? perché?

Quel che vi chiedo è forse un utile per me?
BER.                 Cento zecchini adunque...

ANS.                                                            A un altro i cercherò

BER.                 Non mi mortificate, che io ve li darò.

ANS.                 Quando? perché la cosa non merta dilazione.

BER.                 Tosto andiamo a pigliarli.

ANS.                                                            (È pure il buon pastone). (da sé, e partono)

SCENA TERZA


Donna Placida e Paoluccio.

PLA.                 Vieni qui, Paoluccio. Da che non ti ho veduto,

Tu sei nella persona moltissimo cresciuto.

PAO.                 Ma! la mal'erba cresce.

PLA.                                                         È ver, non me ne appello.

Qual sei cresciuto in carne, sei cresciuto in cervello? Dimmi, sei più com'eri da prima, un precipizio?

PAO.                 Mi par, se non m'inganno, d'aver fatto giudizio.

PLA.                 Per farti un po' di merito, il dirlo poco costa.

PAO.                 Se gli altri non lo dicono, lo dico a bella posta.

PLA.                 Don Berto ti vuol bene?

PAO.                                                         Di lui non mi lamento.

Di tutto quel ch'io faccio, suol essere contento; Ma vengono per casa due cari amici sui, Che a tutta la famiglia comandan più di lui. Ei suol la cioccolata pigliare ogni mattina, Ma sia presto o sia tardi, perciò non si tapina. E quei scrocchi insolenti la voglion di buon'ora, E se non è ben carica, san lamentarsi ancora; E tanto all'ingordigia son per costume avvezzi, Che oltre quella che bevono, ne mangiano dei pezzi. Caffè loro non manca, qualor mi sia ordinato, Pur sempre me ne pigliano di quel polverizzato, Ed hanno un ripostiglio d'ogni delizia adorno, Per replicar la dose tre o quattro volte al giorno. È cosa che fa ridere vederli a pranzo e a cena Mangiare a crepa corpo, mangiare a bocca piena. E non contenti ancora, presti allungar le mane, Porsi le frutta in grembo e nelle tasche il pane. Vorrebber mangiar tutto. Han la vivanda in mano, Un occhio al lor vicino, quell'altro al più lontano. Tosto che viene in tavola un piatto, essi con arte Lo girano, se il meglio non è dalla lor parte. Non vogliono che alcuno s'incomodi a trinciare; Essi vonn'esser primi a scegliere e a pigliare. E quando si hanno preso una porzione onesta, Ritornano nel piatto, e mangian quel che resta. Non von che a dar da bere alcun faccia fatica, Vonno dappresso il vino, von bevere all'antica. Bevono molto e spesso, e sempre il vino puro, E due o tre bottiglie le vogliono sicuro, E quando non si portano, arditi le domandano, E colla servitude e gridano, e comandano, E al cuoco dan dell'asino, se il pranzo a lor non piace, Ed il padron che spende, tutto sopporta e tace.

PLA.                 Davver me l'ho goduta la descrizion ben fatta

Di questi due scrocconi. È veramente esatta. Niente di caricato vi trovo a parer mio, Poiché degli altri simili ne ho conosciuti anch'io. Ma dimmi il ver, Paoluccio, hai tu scoperto nulla,


Che aspiri don Anselmo al cuor della fanciulla?
PAO.                 Mi pare a qualche segno, mi pare aver veduto

Ch'ei l'ami, e che l'amore copra il vecchiaccio astuto.

Ma quel che più mi preme, si è che questa mattina

Lo vidi a testa a testa parlar con Clementina.
PLA.                 Colla serva di casa?

PAO.                                                   Appunto, e non vorrei

Ch'egli volesse entrare negl'interessi miei.
PLA.                 Quali interessi passano fra te e la cameriera?

PAO.                 Eh niente!

PLA.                                    Bricconaccio! ti conosco alla cera.

Che sì, che non del tutto finito ancor di crescere,

Te pure in amoretti non ti vergogni a mescere?
PAO.                 Signora, anch'io nel mondo vo' far la mia figura.

Non credo che in amore si guardi alla statura.

E se la Clementina per sposo mi vorrà,

Mi par pel matrimonio di essere in età.
PLA.                 Sì, ma l'età non basta; vi vuole il fondamento.

PAO.                 Ambi serviamo; ognuno ha il suo mantenimento.

Tanti e tanti si sposano senza far niente al mondo,

E pur godono tutti un vivere giocondo.

Io servo, e se il padrone con lui non mi vorrà,

Perciò non mi confondo. Sarà quel che sarà.
PLA.                 Quel che sarà, sarà: sposarsi a precipizio.

E mi dicesti in prima, che hai fatto più giudizio?

Si vede che prudenza nel tuo cervel non vi è;

E quella che ti bada, più pazza è ancor di te.

Col semplice salario che in due vi guadagnate

Se avrete dei figliuoli, come campar sperate?

Se mandavi don Berto fuori di queste soglie,

Cosa farà Paoluccio colla signora moglie?

Ella a far le calzette, ed egli il vagabondo.

Oh la bella figura che voi farete al mondo!

Briccon, ti fideresti nel volto della sposa?

Meriteresti un laccio pensando a sì vil cosa.

Cresci in età, ragazzo, fa il fondamento, e poi

Trova una buona dote, e sposati, se vuoi.
PAO.                 Mi ha detto Clementina, che avrà cento zecchini.

PLA.                 Come li potrà avere? li semina i quattrini?

Cosa può guadagnare? dodici scudi all'anno?

O ruba al suo padrone, o medita un inganno.

Lascia ch'io parli un poco ad essa in chiare note,

Vedrò s'ella t'inganna sul punto della dote.

Sarà quel che sarà? Quando è passato il dì,

Ti pentirai, meschino, e non dirai così.

Gente è nell'anticamera.
PAO.                                                         Vado a veder chi è.

Vedo che il matrimonio per or non fa per me. (parte)


SCENA QUARTA Donna Placida, poi Paoluccio che torna.

PLA.                 Ecco quel che succede, quando un padron non bada;

Tutto nella famiglia va per la peggior strada.

Deve aprir bene gli occhi chi in guardia ha gioventù;

E chi ha serventi in casa, ha un obbligo di più.
PAO.                 Certo don Sigismondo brama venir da lei.

PLA.                 Venga pur, ch'è padrone.

PAO.                                                         Signora, io non vorrei

Parlando a Clementina...
PLA.                                                         Non si disgusterà...

SCENA QUINTA Don Berto e detti.

BER.                 Ma signora nipote, che è questa novità?

Sempre si han da vedere da voi nuove persone?

In casa mia, vi avverto, non vo conversazione.

Vi è una fanciulla, e poi... e poi non istà bene...

E poi son io padrone.
PLA.                                                   (Capisco donde viene). (da sé)

Signor, quel che poc'anzi a visitarmi è stato,

Fu, se non lo sapete, don Fausto, il mio avvocato.
BER.                 Fu l'avvocato dunque?

PLA.                                                      Certo; e non può venire

Don Fausto alla cliente gli eventi a riferire?
BER.                 Bene. Di lui non parlo, ma parlovi di questo.

Chi è quel che ora è venuto?
PLA.                                                               È un cavaliere onesto.

Era di mio consorte amico sviscerato;

Mi ha sempre, fin ch'ei visse, in casa praticato.

Or che tornata io sono in casa dello zio,

Trattar non mi è permesso con gente da par mio?

Andrò, non dubitate, fra poco a ritirarmi,

Ma intanto che ho da dire a chi vuol visitarmi?

Lo zio non lo permette? Lo zio severo e strano

Vuol vivere in sua casa da stoico, da villano?

Siete pur nato bene; vostro fratel maggiore

Fu pur dei cavalieri lo specchio e lo splendore.

Si ha da dir che lo fate per secondar gli amici?

Cosa diran le lingue di voi mormoratrici?

Per me, poco ci penso; voi comandar dovete.

Licenzio il cavaliere?
BER.                                                      Fate quel che volete. (dopo aver pensato un poco, e parte)

PLA.                 (Ei cede facilmente a tutte le ragioni). (da sé)

Venga don Sigismondo. Ditegli che perdoni. (A Paluccio che parte)


SCENA SESTA Donna Placida, poi don Sigismondo.

PLA.

Teme per la fanciulla! sarebbe il timor saggio,

Se non lo promovesse un impostor malvaggio.

Ma parla per se stesso l'uom che si finge onesto.

Son tanto più in impegno di collocarla, e presto,

SIG.

Signora, compatite se vengo a importunarvi...

PLA.

Anzi mi fate onore. Vi prego accomodarvi. (siedono)

SIG.

Quei quadri che ho osservato di là, del Tintoretto,

Io non li ho più veduti, mi par, nel vostro tetto.

PLA.

Ci siete stato ancora qui in casa di mio zio?

SIG.

Ah! sì, avete ragione. Col capo ove son io?

Credea che foste ancora in casa del marito.

PLA.

(Eccol dall'astrazioni al solito assalito). (da sé)

SIG.

Come vi conferisce il nuovo alloggiamento?

PLA.

Fra le paterne mura vi ho tutto il mio contento.

Son qui colla germana.

SIG.

Avete una sorella?

PLA.

Signor, non lo sapete?

SIG.

Sì, è ver, giovane e bella. (tira fuori la tabacchiera)

PLA.

(Questo per mia germana sarebbe un buon partito.

Vo' fare ogni possibile che l'abbia per marito). (da sé)

SIG.

Non prendete tabacco? (le offre tabacco)

PLA.

Signor, bene obbligata.

Ne prendo qualche volta, ma non son vizïata. (ne prende una presa)

SIG.

Che novitadi abbiamo delle guerre presenti? (prende tabacco)

Oh, starete assai meglio con i vostri parenti.

PLA.

Certo che più contenta, come diceva, io sono

Col zio, colla germana...

SIG.

Questo tabacco è buono. (le offre tabacco)

PLA.

L'ho ancora infra le dita.

SIG.

Io mi diletto assai

Di novità del mondo.

PLA.

Io non ne cerco mai.

SIG.

Come passate il tempo?

PLA.

Moltissimo occupata

Finor fui nella lite.

SIG.

L'avete guadagnata?

PLA.

Sì, signore, don Fausto la guadagnò.

SIG.

Sì, bravo.

Ei me lo disse, è vero; non me ne ricordavo.

Anch'io nelle mie liti da lui non mi distacco.

PLA.

È un uom da farne conto.

SIG.

Volete del tabacco? (le offre tabacco)

PLA.

Obbligata, l'ho preso.

SIG.

Voleva dir, signora


Farete in vedovanza lunghissima dimora?

Non crederei: voi siete nel fior di vostra età,

Non mancanvi né beni, né spirto, né beltà.

Volano i giorni e gli anni; riflettere conviene,

Che ogni dì che si perde, si perde un dì di bene.

Quello che dice Ippocrate, considerar si deve

Che lunga è cotal arte, e che la vita è breve.

E lo disse Petrarca, seguendo il greco autore:

Breve è la vita nostra, lunga è l'arte d'amore.

Dunque, se così dissero uomini di virtù...

Di che si discorreva? non mi ricordo più.
PLA.                 Voi principiaste a dirmi...

SIG.                                                             È vero, or mi sovviene:

Che a prender nuovo sposo pensare a voi conviene.
PLA.                 Signor, dal mio pensiero tal brama è ancor lontana;

Vorrei, prima di farlo, dar stato a mia germana.
SIG.                  Tabacco... (vuole offerirle tabacco, poi si trattiene)

Ah, mi sovviene che poco ne pigliate.

Dunque pria la germana di collocar bramate?
PLA.                 Parmi convenïente. È nubile di età,

Piena, non fo per dire, di ottime qualità.

Il merto non le manca di grazia e di bellezza;

Ma questo è forse il meno. Quello che in lei si apprezza

È la bontà di cuore, e l'ottimo costume.

Giovane che sa molto, ma tace e non presume.

Ancor non ebbe in seno alcun straniero affetto.

Lo sposo che le tocca, godrà un amor perfetto.

Non è sì poco rara al mondo l'innocenza.

Donna Luigia è tale...
SIG.                                                       Ma con vostra licenza,

Chi è donna Luigia?...
PLA.                                                      Non vi parlai finora

Della germana mia?
SIG.                                                    È vero, sì, signora.

Perdonate, vi prego; a un mio fattor briccone

Pensava, ed ho patito un po' di distrazione.

Sento quel che mi dite, ammiro i pregi suoi.

Basta, perché sia bella, che si assomigli a voi;

Che abbia qual voi negli occhi quel certo non so che...
PLA.                 Se vedeste Luigia! quanto è miglior di me!

SIG.                  Per dirla, è molto raro sentir che una sorella

Sostenga che sia l'altra più amabile e più bella.

Se fosser centomila, voi le porreste in sacco.

Orsù, parliamo d'altro; prendete del tabacco. (le offre tabacco)
PLA.                 Ma, signor, non ne prendo.

SIG.                                                                Eh sì, me ne ricordo.

Diceste qualche volta; lo so, non son balordo.

Una presa, una presa. (seguita ad offerirle tabacco)
PLA.                                                      Lo fo per obbedirvi.

SIG.                  Volete che giochiamo? volete divertirvi?

PLA.                 Qui sono ancor di fresco. Ancor non mi è permesso


Di far conversazione.
SIG.                                                       Ah, mi pareva adesso (si alza)

Fosser quei giorni istessi, ne' quali a voi vicino

In casa dell'amico sedeami al tavolino.

È ver ch'era don Claudio fastidiosetto un poco;

Non intendea ragione, quando perdeva al gioco,

Eh! lasciò qualche debito... io sicurtà gli fui...

(Ancor ducento scudi ho da pagar per lui). (da sé, distraendosi)
PLA.                 Ecco la mia germana. Chiamiamola? che dite?

SIG.                  L'averò per finezza.

PLA.                                                   Luigia, favorite.

SCENA SETTIMA

Donna Luigia e detti.

LUI.                  Son qui, che comandate?

PLA.                                                         In compagnia vi bramo.

SIG.                  (La cambiale è scaduta; oggi quanti ne abbiamo?) (da sé, in distrazione, tirando

fuori un taccuino)
LUI.                  (Chi è questi?) (piano a donna Placida)

PLA.                                          (Uno dei tre. Come vi sembra grato?) (a donna Luigia)

LUI.                  (Per dir la verità, mi piace l'avvocato). (a donna Placida)

PLA.                 (Povera innocentina!) (da sé)

LUI.                                                       (Non guarda, non favella?) (a donna Placida)

PLA.                 Signor, non vi degnate favorir mia sorella? (a don Sigismondo)

LUI.                  (Questi sarà l'astratto) (da sé)

SIG.                                                       Domandovi perdono.

M'inchino alla signora, e servitor le sono.
LUI.                  Serva sua riverente.

PLA.                                                   Sediamo, se vi piace. (a don Sigismondo)

SIG.                  Deggio partir, signora. (Davver non mi dispiace). (da sé, osservando donna Luigia)

Vuol tabacco, signora? (a donna Luigia, offerendolo)
LUI.                                                       Mi farà grazia. (prende tabacco)

SIG.                                                                               (Affé,

Mi par più compiacente. Sprezzabile non è). (da sé, ponendosi a sedere)
PLA.                 Dunque anche noi sediamo. (a donna Luigia, sedendo)

LUI.                                                                Sediam, come volete. (siede)

PLA.                 Don Berto e don Anselmo. (a donna Luigia, osservando)

LUI.                                                             Oimè! (alzandosi un poco)

PLA.                                                                        Non vi movete. (fa sedere donna Luigia)

SCENA OTTAVA
Don Berto e detti.
BER.                 Signora, una parola. (a donna Placida con isdegno, alzandosi tutti)


PLA.                                                   Ecco, don Sigismondo,

Ecco il signore zio, ch'è il miglior zio del mondo. Saputo che a graziarmi venuto è un cavaliere, Anch'ei brama conoscervi, e fare il suo dovere. Spero che quel rispetto che aveste a mio consorte L'avrete per don Berto, padrone in queste porte. Senza di lui ricevere a me non si concede. Ei stima i vostri pari, e volentier vi vede. Brama di avervi amico, vi vuole in compagnia, E pregovi gradirlo, per grazia e cortesia.

SIG.                  Chi è questi? (a donna Placida)

PLA.                                       È il signor zio. (Or or mi fa dispetto). (da sé)

SIG.                  Signor, vi sono amico. Le grazie vostre accetto.

Sento che mi esibite l'onor di frequentarvi. Ora restar non posso. Ma verrò a incomodarvi. (parte)

SCENA NONA Donna Placida, donna Luigia, don Berto.

PLA.                 Del sacrifizio vostro grazie vi rendo umile,

Siete, non può negarsi, amabile e gentile.

Adorabile zio! avete un gran bel cuore!

Viva la bontà vostra. (E crepi l'impostore). (da sé, e parte)
LUI.                  Se così caro e buono sempre trovarvi io soglio,

Pensate a collocarmi; ma un vecchio non lo voglio. (parte)

SCENA DECIMA

Don Berto, poi don Anselmo.

BER.                 Don Anselmo. (chiamandolo)

ANS.                                          Signore. (ironicamente)

BER.                                                         Sentiste le ragioni?

ANS.                 Siete un uomo di stucco! che il ciel me lo perdoni. (parte)

BER.                 Chi tira per di qua, chi tira per di là.

Io che cosa ho da fare? oh bella, in verità.

Tutti mi fanno grazia di dir: siete il padrone.

E all'ultimo, che sono? la rima alla canzone. (parte)


ATTO TERZO SCENA PRIMA

Paoluccio e Clementina.

CLE.                 Dopo che ti conosco, mai più m'hai favellato

Con simile arroganza. Ti sei forse cambiato?

Qualche pensier novello ti gira per la testa?

Che novità, Paoluccio?
PAO.                                                         La novitade è questa.

Vi voglio ben, vorrei che uscissimo d'imbroglio;

Ma senza i cento ruspi sposare io non vi voglio.

Faceste male a dirmelo, prima d'averli in tasca.

Or che lo so, li voglio.
CLE.                                                      Va, che sei una frasca.

PAO.                 Quando sarem sposati, di noi cosa sarà?

Se ci verran figliuoli, chi li mantenirà?
CLE.                 Questo pensier non dico che non sia giusto e onesto,

Ma ci dovevi, ingrato, pensare un po' più presto.

Sono due anni e mezzo che ci facciam l'amore:

Per me, se or mi lasciassi, sarebbe il bell'onore!

Veduto io non ti avessi, che viverei tranquilla.
PAO.                 Certo l'ho io sedotta la povera pupilla. (ironico)

Voi mi insegnaste amare, io non sapea nïente.
CLE.                 Non conosceva amore il povero innocente! (ironica)

Malizioso!
PAO.                                    Alle corte: che cosa concludiamo?

CLE.                 Eh! converrà sposarci.

PAO.                                                      Di dote come stiamo?

CLE.                 Non ci pensasti in prima?

PAO.                                                            Tardi, è ver, ci pensai.

Ma sapete il proverbio? meglio è tardi che mai.
CLE.                 Cento zecchini d'oro mi fur promessi, è vero;

Da chi me li ha promessi, di conseguirli io spero;

Ma se non me li danno?
PAO.                                                         Vel dico in sul mostaccio:

Non ne facciam nïente.
CLE.                                                      Veramente asinaccio.

PAO.                 Rispondervi saprei qual meritate, affé;

Ma taccio, perché avete degli anni più di me.
CLE.                 Oh oh, gran differenza fra noi ci passerà!

PAO.                 Io non ho ancor vent'anni.

CLE.                                                            Ed io? eh, siamo là.

PAO.                 Se quando io venni in casa, ero un fanciullo ancora,

E quel che siete adesso voi eravate allora?


CLE.                 Io? che ti venga il fistolo! Non eravam puttelli,

Che tutti si credevano che fossimo fratelli?
PAO.                 Oh, più di cento volte intesi, e non da un solo,

A dire che di voi credevanmi figliuolo.
CLE.                 Temerario, insolente. (alzando la voce)

PAO.                                                   Or ora anch'io vi dico... (alzando la voce)

CLE.                 Va via, più non ti voglio. (come sopra)

PAO.                                                         Non me ne importa un fico.

SCENA SECONDA

Don Anselmo e detti.

ANS.                 Cos'è, figliuoli miei?

CLE.                                                   M'insulta.

PAO.                                                                     Mi strapazza.

ANS.                 Siate buono, figliuolo; chetatevi, ragazza.

Sotto un padron sì docile che vi ama e vi governa,

Fate che fra voi regni la carità fraterna.
CLE.                 Gli dissi della dote; ed ora non mi vuole

Senza i cento zecchini.
ANS.                                                      Donna tacer non suole.

CLE.                 Soffrir non voglio in casa questo novello affanno.

Se non li ho, men vado.
ANS.                                                         Zitto, che ci saranno.

Guardate: in questa borsa vi son delle monete,

Vi son cento zecchini; ma, figli miei, tacete.

Quello che a voi li dona, non vuol che il sappia ognuno;

Io pur di me non voglio che parlisi ad alcuno.

Ecco i cento zecchini per voi, se vi sposate.

Ma zitti, e non si sappia.
PAO.                                                         Non parlerò.

ANS.                                                                              Giurate

PAO.                 Giuro al ciel ch'io non parlo.

CLE.                                                               Anch'io giuro lo stesso.

ANS.                 Giuramento difficile per il femmineo sesso!

PAO.                 Via, dateci il danaro.

ANS.                                                   Sa Clementina il come

Puote acquistar la dote, e di consorte il nome.

Faccia quel che le ho detto, mostrisi grata e pronta;

E si fa tosto il nodo, ed il danar si conta.
CLE.                 Per me, quel che far posso, sono disposta a fare.

PAO.                 Signor, questo latino spiegatemi in volgare.

Non vorrei che la sposa, prima di maritarsi,

Avesse quella dote con voi da guadagnarsi.
ANS.                 Questo sospetto vano cacciatevi dal cuore;

Non son un uom ribaldo, non sono un impostore.

Ite, buona fanciulla, a far quel che mi preme;

Poscia il danaro è vostro, e vi sposate insieme.


PAO.                 Sì, Clementina, andate, che a farlo io mi apparecchio.

CLE.                 (Chi sa non mi riesca di consolare il vecchio) (da sé, e parte)

SCENA TERZA

Don Anselmo e Paoluccio.

PAO.                 Signor, fin ch'ella torna, potressimo il danaro

Principiar a contare.
ANS.                                                   Ah no, figliuolo caro,

Non vo' sentirvi tanto avido di monete.

Non è l'oro e l'argento quel ben che voi credete.

Se d'oro, se d'argento, non fosse il mondo pieno,

I vizi ed i pericoli sarebbero assai meno.

Comprasi a caro prezzo dall'uom la sua rovina,

E l'uom quanto è più ricco, più al precipizio inclina.

Felice chi di poco sa contentare il cuore,

Felice chi guadagna il pan col suo sudore.

Qui dentro voi credete vi sia la vostra sorte,

E voglia il ciel pietoso che non vi sia la morte.

Ah, quest'oro è un veleno. (mostrando la borsa)
PAO.                                                            Signor, vi prego darmi

Un poco di quell'oro. Vorrei avvelenarmi.
ANS.                 Viene il vostro padrone; seco parlare io deggio.

PAO.                 (Quell'oro sarà nostro? nol credo, se nol veggio) (da sé, e parte)

SCENA QUARTA Don Anselmo, poi Don Berto.

ANS.                 Sono nel grande impegno: finor mi ho conservato

Buona riputazione; ma amor mi ha corbellato. Conviene colla figlia superar la vergogna, E confidarlo al padre, e favellar bisogna.

BER.                 Sentite, don Anselmo, non basta il consigliarmi;

Ma sempre restar meco, né mai abbandonarmi. Quando mi favellate, voi mi mettete a segno; Ma poi tutto mi scordo, se sono in un impegno. Ha un'arte donna Placida nel labbro e nell'aspetto, Che senza il vostro aiuto di nulla mi prometto.

ANS.                 Vi par ch'ella sia scaltra?

BER.                                                            Ci può condurre a scuola.

ANS.                 Quell'altra è in gran pericolo.

BER.                                                                  Sì, povera figliuola.

ANS.                 Forse il male a quest'ora nel cuore ha principiato

A piantar le radici. Pensate a darle stato.

BER.                 Vada anch'ella in ritiro.


ANS.                                                         Io so che non v'inclina.

BER.                 Facciasi andar per forza.

ANS.                                                         Per forza? ah no, meschina.

Guai a quelle donzelle che a forza van serrate,

E guai a chi nel chiuderle le misere ha forzate.
BER.                 Se guai vi son per tutto, quel che mi far non so.

Consigliatemi voi.
ANS.                                                Sì, vi consiglierò.

Tenera giovinetta che di pensier si cangia...

SCENA QUINTA

Don Isidoro e detti.

ISI.                    Don Berto, don Anselmo, che si fa? Non si mangia?

ANS.                 Abbiamo un interesse da terminar per ora.

ISI.                    Sonato è il mezzogiorno, e non si mangia ancora?

BER.                 Abbiamo un interesse.

ISI.                                                         Tutte le cose a tempo.

Vi è per parlar, per scrivere, per divertirsi il tempo.

Ma quando il cuoco dice che di pranzare è tempo,

Si mangia e si procura di terminar per tempo.

Le pernici son cotte; il pan bene arrostito;

Par nello spiedo un pezzo di zucchero candito.

Di dentro e per di fuori già penetrato è l'unto,

E perde il suo sapore, se non si mangia in punto.
BER.                 Andiam, che parleremo quando averem pranzato. (a don Anselmo)

ANS.                 Vi par che sia l'affare da ponere in un lato?

Dee l'uomo per la gola lasciar gli affari suoi?
BER.                 Aspettate anche un poco, si mangerà dopoi. (a don Isidoro)

Amico degli amici, vorrei piacere a ognuno:

Fra voi accomodatevi, per me sarà tutt'uno.
ISI.                    Via, don Anselmo, andiamo, che vi sarò obbligato.

Proprio mi sta sul cuore quel pane abbrustolato.

SCENA SESTA

Paoluccio e detti.

PAO.                Signore, un forestiere la vedova domanda.

Sono venuto a dirlo in prima a chi comanda. (a don Berto)

ISI.                   Non si riceve alcuno. (a Paoluccio)
ANS.                Colei è la gran diavola.

BER.                Ora non si riceve. (a Paoluccio)

ISI.                                                   Presto, che diano in tavola. (a Paoluccio)

PAO.                Comanda ella, signore? (a don Isidoro)
ISI.                   Va a far quel che ti ho detto. (a Paoluccio)


PAO.                 (Vo' che il forestier venga; vo' farlo per dispetto). (da sé, e parte)

SCENA SETTIMA Don Berto, don Anselmo, don Isidoro, poi don Ferramondo.

ANS.

Visite tutto il giorno?

ISI.

Le visite a quest'ora?

ANS.

Fatela rinserrare.

BER.

Sì, sì, non vedo l'ora.

ISI.

Pensate, se vogliamo che venga a far rumori

Contro la nostra tavola.

FER.

Servo di lor signori.

ISI.

Come! non ve l'han detto che a tavola si va?

FER.

Chi è il padrone di casa? (a don Anselmo)

ANS.

Signore, eccolo qua. (accennando don Berto)

BER.

Son io, ma mi riporto a questi amici miei.

FER.

Non siete voi don Berto?

BER.

Son servitor di lei.

ISI.

Di grazia... (a don Ferramondo)

BER.

(State zitto). (piano a don Isidoro; mostrando aver paura)

FER.

Signor, vi son tenuto,

Che in ora così incomoda mi abbiate ricevuto.

Cercai di donna Placida; mi disse il vostro servo,

Che pria da voi venissi, e i vostri cenni osservo.

BER.

Anzi mi favorisce.

ISI.

(Ah schiuma de' bricconi!

Paoluccio me l'ha fatta). (da sé)

ANS.

Anzi, la mi perdoni,

Fe' dire a lei don Berto, che ora non si poteva

Ricever le sue grazie. (a don Ferramondo)

ISI.

E che pranzar voleva. (a don Ferramondo)

FER.

Il servo tal risposta non fece all'imbasciata,

Né un cavalier mio pari l'avrebbe meritata.

Don Ferramondo io sono, signor di Belvedere,

Fra le truppe alemanne capitan granatiere.

Conobbi donna Placida sin quando avea marito;

Se vengo a visitarla, non so d'essere ardito.

L'ora del mezzogiorno non parmi ora indiscreta;

Pure il costume vostro seguir non vi si vieta;

Ma non vi si concede meco un trattar villano.

ISI.

Signor, con chi parlate?...

BER.

(Zitto, ch'è un capitano). (piano a don Isidoro)

FER.

Se negli amici vostri vi è tanta indiscrezione,

Saprò sopra di loro pigliar soddisfazione.

Gente malnata e vile sa poco il suo dovere.

ANS.

Signor, non vi adirate...

BER.

(Zitto, ch'è un granatiere). (piano a don Anselmo)

FER.

Cerco di donna Placida. (a don Anselmo)


ANS.                                                         A me? non ne so nulla.

BER.                 Sarà di là, signore. (accenna la sua camera)

ANS.                                                (No, che vi è la fanciulla). (piano a don Berto)

ISI.                    Volete donna Placida? di là potete andare. (a don Ferramondo, accennando la

camera)

(Lasciate che egli vada! che andremo a desinare). (piano a don Berto)
FER.                  Lo sa ch'io la domando?

BER.                                                         Le farem l'imbasciata.

ISI.                    Può andar liberamente, che già non è occupata.

ANS.                 Un cavalier bennato, che ama la civiltà,

Sa ben che non conviene a lui tal libertà.
FER.                  Io sono un galantuomo che sa i doveri suoi,

Né vo' le convenienze apprendere da voi.
ANS.                 Signore, ed io son uno che con amor sincero

Dico liberamente a chi mi ascolta il vero.

Si lascian star le donne che son nel proprio tetto,

E non si va a tentarle. Sia detto con rispetto.
FER.                  Chi sei tu, che pretendi di farmi il correttore,

Zelante inopportuno, famelico impostore?

Vieni a ostentare, ingordo, la tua dottrina immensa

In casa di don Berto, per guadagnar la mensa?

O pur ribaldo ascondi sotto mentita pelle

D'agnello il cor di lupo, per insidiar donzelle?

L'uno o l'altro pensiero ravvolge il tuo talento,

Poiché senza ragione moralizzar ti sento.

Un cavalier che visita donna civile, onesta,

Dà un segno di rispetto, amor non manifesta;

E chi sospetta a torto degli andamenti altrui,

Fa veder che la colpa ha le radici in lui.

Don Berto è un uom dabbene, egli ti crede, il vedo;

Io che son uom di mondo, a un impostor non credo.
ISI.                    (Beva quel sciroppetto). (da sé)

BER.                                                         (Dite delle ragioni). (piano a don Anselmo)

ANS.                 (Per umiltà sto zitto). (piano a don Berto) Il ciel ve lo perdoni. (a don Ferramondo,

e parte)

SCENA OTTAVA

Don Berto, don Isidoro e don Ferramondo.

BER.                 (Non so cos'abbia a credere). (da sé)

FER.                                                                Del detto io non mi pento;

S'ei tace e si avvilisce, più forte è l'argomento.
ISI.                    (E intanto non si desina). (da sé) Signore, un cavaliere.

Può andar liberamente.
FER.                                                       Conosco il mio dovere.

Correggere un par mio temerità si chiama;

Ma non andrò, se prima non sappialo la dama.
ISI.                    Alfine quest'istoria abbiam da terminarla.


Volete donna Placida? Anderò ad avvisarla. (parte)

SCENA NONA

Don Berto e don Ferramondo.

BER.                 Signor, se andar volete, per me non dico nulla;

Spiacemi che con essa vi è l'altra, ch'è fanciulla.
FER.                  So il mio dover, vi dico; non vo sì arditamente.

Con donne in ogni stato io tratto onestamente.

Lodo che voi vegliate di femmine all'onore,

Ma in casa non vi lodo tenghiate un impostore.

Discolo di costume un militar si crede;

L'accesso di mal animo a un giovin si concede;

E poi a chi sa fingere contegno ed umiltà,

In casa si permette talor la libertà.

Non dico non vi sieno degli uomini dabbene

Ma prima di fidarsi, conoscerli conviene.

In noi temer si suole l'ardir, la presunzione;

In lor temer si deve l'inganno e la finzione.
BER.                 (Parla ben, parla bene. Un militar così

Parlar non ho più inteso). (da sé) Oh, mia nipote è qui.

SCENA DECIMA

Donna Placida, don Isidoro e detti.

PLA.                 Oh signor capitano!

FER.                                                    Scusatemi, signora,

Se incautamente io scelsi al mio dover quest'ora.

È ver che mi fu detto, ma la credea una favola,

Che innanzi al mezzogiorno da voi si desse in tavola.
ISI.                    È più di un quarto d'ora che il mezzodì è sonato.

BER.                 Per me prenda il suo comodo. (Ehi, giudizio, è un soldato). (piano a don Isidoro)

PLA.                 È un onor ch'io non merito, che sia per onorarmi

Venuto un cavaliere sì presto a visitarmi.

Spiacemi l'ora incomoda.
ISI.                                                            Possono restar qua.

Noi pranzeremo intanto.
BER.                                                         Con tutta libertà.

FER.                  Certo che donna Placida esser non può avvezzata

Pranzare a un'ora insolita cotanto anticipata.

S'ella ritrova incomodo il desinar sì presto,

Con vostra permissione, seco alcun poco io resto.
BER.                 Sì, signor capitano, resti quanto gli pare.

(Con gente granatiera non vo' precipitare). (da sé)
PLA.                 Signor, voi conoscete da ciò nel cuor del zio


Per voi tanto rispetto, quanto ne vanta il mio. Il pranzo ai convitati più differir non puote, E sol per compiacervi restar fa la nipote.

10 pur nel primo giorno che son nei tetti sui,
Dovrò, se il comandate, pranzar senza di lui;

Ma un cavaliere avvezzo trattar con compiacenza, Spero che mi dispensi da tale inconvenienza. Tornar siete padrone, il zio non lo contrasta,

11 zio con tutto il mondo dolcissimo di pasta.

Ma in questi pochi giorni ch'esser dobbiamo insieme,
Grata mostrarmi ad esso col mio dover mi preme.
Pregovi per finezza in libertà lasciarmi,
E prima della sera tornare ad onorarmi.
FER.                  Sarei un indiscreto, sarei un incivile,

Qualor non mi appagassi di un animo gentile. Accetto le finezze, onde onorato io sono. Tornerò innanzi sera. Domandovi perdono. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Don Berto, don Isidoro e donna Placida, poi un Servitore.

ISI.                    Brava, brava davvero. Vi lodo estremamente.

BER.                 Cara la mia nipote, per me sì compiacente?

Quasi quasi mi spiace che andiate in un ritiro.
PLA.                 Signor, voi lo vedete, se di aggradirvi aspiro.

ISI.                    Caro don Berto, in tavola.

BER.                                                            In tavola. (forte verso la scena)

ISI.                                                                              Per dirla...

SER.                  Signora, è qui don Fausto! che brama riverirla. (a donna Placida)

ISI.                    Ditegli che ritorni quando averem pranzato. (al Servitore)

PLA.                 Non posso dispensarmi di udire il mio avvocato.

Quando a quest'ora ei viene, saravvi una cagione.

Chi ha liti, ha da temere.
BER.                                                         Mia nipote ha ragione.

ISI.                    Maladetti gl'impacci! sempre una novità.

PLA.                 Signor, per or vi prego lasciarmi in libertà. (a don Berto)

BER.                 Volete che aspettiamo? (a donna Placida)

ISI.                                                         S'ha da aspettar? (a don Berto, con maraviglia)

PLA.                                                                                 Chi sa

Non siavi della lite qualch'altra novità?

Ho un certo affar legale, tessuto ed ordinato,

Su cui deggio il parere sentir dell'avvocato.
ISI.                    Vuol che da noi si desini; lo dice in chiare note.

Via, signor zio gentile, servite la nipote.
BER.                 Quando così le piaccia, non voglio contraddire.

Mangiate a piacer vostro, e fatevi servire. (a donna Placida, e parte)
ISI.                    Sia ringraziato il cielo, alfin si pranzerà,

Quando non arrivassero dell'altre novità.


Per voi una pernice si metteria da parte;

Ma io, se non vi piacciono, godrò la vostra parte.

Perché non si dilati il fumo dell'arrosto,

Farò che le pernici si mangino ben tosto.

Ah, che non vedo l'ora che mi conceda il fato

Giugnere a divorarmi quel pane abbrustolato. (parte)

SCENA DODICESIMA

Donna Placida ed il Servitore.

PLA.                 A don Fausto, che venga. (al Servitore)

SER.                                                          (È ora, in verità). (da sé, e parte)

PLA.                 Di sì lunga anticamera don Fausto che dirà?

È tanto compiacente, tanto pien di rispetto, Ch'essere compatita da lui mi comprometto. Ma chiedo a me medesima: perché con tal pretesto Sottrarmi al capitano, e poi ricever questo? Sarebbe mai codesta forza di occulto amore? Ah, vincerò gl'impulsi, e terrò in guardia il core.

SCENA TREDICESIMA Don Fausto e la suddetta.

FAU.                 Temerei con ragione venir rimproverato

Di essere inopportuno sollecito tornato, Se grazia non sperassi, anzi che sdegni ed onte; Qua dove delle grazie è situato il fonte.

PLA.                 Esser con più giustizia da voi rimproverata

Potrei d'aver sì tardi risposto all'imbasciata, Se certa non foss'io che il vostro cuor non usa Per accordar perdono attendere la scusa.

FAU.                 Signora, io mi rammento la legge ed il comando:

Quel che voi comandaste, per grazia io vi domando.

Meno gentil deh siate, meno cortese meco,

Se il cor ne' suoi trasporti dev'essere men cieco.

PLA.                 Come! vi scordereste quel ch'io ricuso e temo?

FAU.                 Bramo di compiacervi, ma di me stesso io tremo.

Lungi da voi, virtude parmi d'aver sì forte, Da non temer di perdere la gloria in queste porte. Ma nell'udirvi appena a ragionar sì umile, Ah che il valor vien meno, ah che ritorno un vile. Dove s'intese mai nel militar conflitto, Che sia contro al nemico resistere un delitto? Pur nella pugna vostra, se bramo aver vittoria, Deggio fuggirvi, e perdere di vincervi la gloria.


Perdo, se vi conquisto, del mio trionfo il merto,

E se vi cedo il campo, il mio morire è certo.
PLA.                 Guerra d'amor dissimile è al guerreggiar di Marte;

Altre le leggi sono, altro il costume e l'arte.

Là tra le fiamme e il ferro, gloria il valor concede,

Qua un generoso amante trionfa allor che cede.

Nell'insultare il vinto gode il guerriero audace:

Un amator discreto cela le palme, e tace.
FAU.                 Sì, celar la vittoria son dal dovere accinto;

Basta che voi diciate che ho trionfato e vinto.
PLA.                 Nol dissi, e non sperate che segno alcun vel mostri.

FAU.                 Se il labbro a me lo tace, parlano gli occhi vostri.

PLA.                 Se gli occhi a mio malgrado vagliono a lusingarvi,

Fuggirò in avvenire anco di rimirarvi.

Troppo in mio cor prevale l'amor di libertate;

Temo le insidie vostre; non vi lusingo: andate.
FAU.                 Vi ubbidirò. All'amore prevalga il mio rispetto.

Ah, che son io vincendo a perdere costretto. (in atto di allontanarsi)
PLA.                 Don Fausto. (chiamandolo dolcemente)

FAU.                                       Mia sovrana. (rispondendo dolcemente)

PLA.                                                            Partite?

FAU.                                                                           Ah sì, lo veggio

Che ogni lusinga è vana, e che lasciarvi io deggio.
PLA.                 Ma non vi rammentate, che più d'ogni insistenza

Soglio del vostro cuore temer la compiacenza?
FAU.                 Posso restar?

PLA.                                       Restate. (Sento un interno affanno!) (da sé)

FAU.                 S'io resto, quei begli occhi mirar non mi vorranno!

PLA.                 No, sì crudel non sono. (mirandolo con tenerezza)

FAU.                                                      Bei sguardi lusinghieri! (mirandola dolcemente)

PLA.                 Vincer voi mi volete. (come sopra)

FAU.                                                   Dite ch'io v'ami, e speri. (come sopra)

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Luigia, e detti.

LUI.                  Senza di noi, germana, siede alla mensa ognuno?

PLA.                 (Era lì per cadere; il soccorso è opportuno). (da sé)

Andiam, donna Luigia; lo zio cortese e grato

Permise ch'io potessi restar coll'avvocato.

Gl'ingordi han ricusato di differire un poco;

Andiam, che per noi pure è riserbato il loco.
FAU.                 Potria donna Luigia preceder un momento.

PLA.                 No, no, vogliamo andare, scusate il complimento. (seria)

LUI.                  Oibò, per mia cagione non vo' che si patisca,

Non vo' che per mia colpa l'affar si differisca.

Sola preceder posso; vi lascio in libertà.

(Tutto per lei procura. Per me non vi è pietà). (da sé, e parte)


SCENA QUINDICESIMA

Don Fausto e donna Placida.

FAU.                 Dunque sperar io posso.

PLA.                                                         Speranza inconcludente.

Amo la libertade: vel dico apertamente.

FAU.                 Tornino almen quegli occhi a serenare i rai.

PLA.                 Senza del cuor questi occhi han delirato assai.

Di lor non vi fidate; siano sereni o oscuri, Non son della speranza interpreti sicuri.

FAU.                 Se dall'amor passate ad un rigor severo,

Che dal rigor torniate alla dolcezza, io spero.

Al tribunal d'amore giudice delegato,

Tratterò la mia causa cliente ed avvocato. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Donna Placida sola.

PLA.                 Pur troppo è ver, degli anni si soffre un rio tormento,

E il cuore e la ragione si perde in un momento. Ero a cader vicina, vicina a dichiararmi, Se pronta la germana non venia a risvegliarmi. L'amo, l'amo pur troppo, e quel che più m'incresce, Tento ammorzar la fiamma, e più s'accende e cresce, Se vinsi or nel cimento a caso, e non per gloria, Chi può in un caso simile promettermi vittoria? Si dice, si propone, si sforza e si contrasta, Ma oimè, nelle occasioni siam tenere di pasta.


ATTO QUARTO SCENA PRIMA

Donna Placida e Clementina.

CLE.                 Signora, ho da parlarvi di cosa che mi preme,

E ho piacer che non siavi l'altra sorella insieme.

PLA.                 Che sì, che l'indovino di che parlar mi vuoi?

CLE.                 Nessuno indovinarlo potria meglio di voi.

Foste fanciulla un tempo, siam del medesmo sesso: Quel che per voi bramaste, io per me bramo adesso.

PLA.                 Marito?

CLE.                              Sì signora; ma non senza quattrini.

PLA.                 Dicono che di dote avrai cento zecchini.

CLE.                 Già so che Paoluccio, senza pensarvi su,

Vi ha detto qualche cosa passata a tu per tu. Cento zecchini infatti!... e quel che me li dà Senza malizia alcuna, lo fa per carità. Anzi, né io conosco quel che li mette fuora, Né sa il benefattore qual sia la sposa ancora. Vi è una persona in mezzo, persona di proposito, Che ha in mano i cento ruspi tenuti per deposito; Ma il galantuom nemmeno vuol esser nominato, Ed io di non parlare promisi, ed ho giurato. Ora io sono a pregarvi per noi dirlo al padrone, Perché senza contrasti ci dia la permissione.

PLA.                 Sai che don Berto è facile, che accorda ogni richiesta;

Non ti saprà negare cosa sì giusta e onesta. Io mi rallegro teco della buona fortuna: È assai trovar la dote senza fatica alcuna. Bada ben, Clementina, come e con chi t'impicci; Bada, pria d'impegnarti, che non vi sian pasticci. Che poi quell'uom dabbene che ti ha beneficata, Non intendesse un giorno d'averti comperata.

CLE.                 Eh, semplice non sono; se avesse tal pazzia...

Ma so che vuol comprare un'altra mercanzia.

PLA.                 Parlami schietto almeno.

CLE.                                                         Ne avrei tutto il contento,

Ma favellar non posso, il vieta il giuramento. Voi lo saprete un giorno. Intanto i miei pensieri Dite al padron, vi prego.

PLA.                                                         Lo farò volentieri.

CLE.                 Dov'è donna Luigia?

PLA.                                                   In stanza ritirata.

CLE.                 Deggio andare a trovarla, per farle un'imbasciata.


PLA.                 Per parte di quel tale che offre i zecchini cento?

CLE.                 Oh pensate, signora! non ho tal sentimento.

Per parte di donn'Anna, figlia di don Fabrizio...

Deggio, pria ch'io mi scordi, pregarla di un servizio.

Parlar di certi affari... (Affé, l'ho fatta grossa.

Diavolo maladetto! mi ha fatto venir rossa). (da sé, e parte)

SCENA SECONDA Donna Placida, poi don Berto.

PLA.                 Costei fa qualche imbroglio. Dai segni io la ravviso.

Vanta innocenza meco, e poi si cambia in viso.

È troppo scarsa al mondo la pietà, l'amicizia,

Temo che i cento ruspi non sian senza malizia.

Vuol parlare a Luigia, e la ragion mi asconde;

Le dico un mio sospetto, si turba e si confonde.

Ah, queste serve giovani, dove ci son zitelle,

Non son guardie bastanti a custodir agnelle.
BER.                 Oh nipote, ho piacere di ritrovarvi qui.

Parliamo un po' sul serio, pria che tramonti il dì.

Quando risolto avete d'andare a ritirarvi?
PLA.                 Son pronta ogni momento.

BER.                                                            Ed io per contentarvi

Per darvi, qual bramate, consolazione vera,

Son pronto nel ritiro a chiudervi stassera.
PLA.                 S'è di già ritrovato?

BER.                                                Certo, e obbligazione

Abbiamo a don Anselmo. Ei trovò l'occasione.
PLA.                 Signore, i vostri cenni solo obbedir mi cale;

Anch'io bramo il ritiro, ma non con mezzo tale.

Pace non mi prometto fra incognite persone,

Qualor mi sia di scorta un falso bacchettone.
BER.                 Voi di quell'uom dabbene che opinione avete?

Credetemi, nipote, che voi nol conoscete.

Ha un vero amor per tutti, di voi parlò in maniera

Che si conosce in esso la carità sincera.

Pentito ero, il confesso, di chiudervi sì presto;

Che non fe', che non disse il galantuomo onesto,

Perché mi risolvessi di non frappor dimora?

Per voi, per persuadermi, ha faticato un'ora.
PLA.                 Essere non potrebbe l'amor, la carità

Timor ch'io gl'impedissi l'usata libertà?

Piacer di veder sola in casa una fanciulla?
BER.                 Oh ciel! che avete detto? Oibò! non ne sa nulla.

Non vuol donne. Le donne son per lui tante furie.

Quelle del capitano furon calunnie, ingiurie.

Sentirsi a dir tai cose, tanto l'afflisse e tanto,

Che l'ho veduto io stesso a piangere in un canto.


PLA.                 Mortificarsi e piangere e lamentar si suole

Ciascun, qualor si sente toccar dove gli duole.
BER.                 Oh oh, via, donna Placida. Pensar mal non conviene.

Don Anselmo, vi dico, so io ch'è un uom dabbene.
PLA.                 Quali nuove ne avete?

BER.                                                      Ne vedo ogni momento.

Sentitene una fresca, che val per più di cento.

Invigila all'onore di semplici donzelle,

Procura l'uom dabbene di maritar zitelle;

E non saran tre ore che a lui de' miei quattrini,

Per maritarne una, died'io cento zecchini.

Queste son opre buone.
PLA.                                                         (Che sì, che la sposina

Ch'ebbe i cento zecchini, sarà la Clementina?) (da sé)
BER.                 Di lui direte male? Ah! dubitar potrete?

PLA.                 Questa buona zitella, signor, la conoscete?

BER.                 Non vuol che alla ragazza sia noto il nome mio,

Né vuol ch'io la conosca.
PLA.                                                            Saggio costume e pio.

Ma che direste voi se io la conoscessi,

E il nome della giovane e il grado vi dicessi?
BER.                 Ne avrei piacer, per dirla.

PLA.                                                            Saperlo a me sortì.

Ma non lo dico adesso; voi lo saprete un dì.
BER.                 Che dite or del buon uomo? Non ha un cor che innamora?

PLA.                 Tutta la sua bontade non conoscete ancora.

Ora discuopro in esso un zelo, una virtù,

Che l'onestà del cuore giustifica di più.

Pria che tramonti il giorno, pubblicamente io spero

Che lo conosca ognuno, e che si scuopra il vero.
BER.                 Via, ritrattate adunque ogni sospetto insano.

Mi preme soprattutti smentito il capitano.

Andrem con don Anselmo, andrem poscia al ritiro.

Vogl'ire a consolarlo. Nipote mia, respiro. (parte)

SCENA TERZA Donna Placida, poi don Isidoro.

PLA.                 Oh perfido vecchiaccio! la carità l'ispira.

La carità vuol dire che a maritarsi aspira, E vuole una fanciulla, e impiega per averla Una serva, ch'ei crede capace a persuaderla. Ma sopra ogn'altra cosa questa mi par più vaga: Insidia la nipote, e il zio gli dà la paga.

ISI.                    (Eccola. Andarsi a chiudere? Eh, che non ha tai voglie.

Me la vo' fare amica, se resta in queste soglie). (da sé)

PLA.                 (E più che gli si dice, lo zio non sa nïente).

ISI.                    Servo di donna Placida.


PLA.                                                         Serva sua riverente.

(Quest'altra buona pezza). (da sé)

ISI.                                                               Ecco, signora mia,

Son venuto a tenervi un po' di compagnia. Se fuor bramate uscire, se in casa star volete, La sera e tutto il giorno di me dispor potete. Con voi verrò in carrozza, quando non siavi alcuno, Pronto a cedere il posto liberamente a ognuno. Alla conversazione mi offro di accompagnarvi, Partir quando vi aggrada, tornare a ripigliarvi; Darvi la man, se un altro servente non vi sia; Seguirvi di lontano, se siete in compagnia. E se farete mai qualche secreto accordo, Sappiate ch'io son muto, sappiate ch'io son sordo. All'opera con voi venire io vi prometto, E sola, se bisogna, lasciarvi nel palchetto. E se trattar doveste qualche segreto affare, Starò, fin che volete, di fuori a passeggiare. Non sdegnerò, signora, se voi lo comandate, Recapitar viglietti, portar delle imbasciate. Saprò nelle occorrenze servir da secretario, Sarò con voi di tutto fedel referendario. Portarvi la mattina saprò le novità Di quello che succede per tutta la città. Vedrò nella famiglia se nascon degli errori. Vi saprò dir la vita de' vostri servitori. Del zio, della germana, di quei che vi frequentano, Tutto vi saprò dire allor che non mi sentano. Di me dispor potete, potete comandare, Né vi darò altro incomodo che a cena e a desinare.

PLA.                 Bravo, don Isidoro. Tai sono i galoppini,

Che diconsi alla moda serventi comodini. Vi offendete di questo?

ISI.                                                            Oibò, liberamente

Dite quel che volete, che non me n'ho a mal niente.

Se mai andaste in collera, quando quel tal non vi è

Che il dispiacer vi ha dato, sfogatevi con me.

E siete anche padrona di strapazzarmi un poco,

D'esser fastidiosa quando perdete al gioco.

Posso esibir di più? sarò schiavo in catena,

Né chiedo in ricompensa che un pranzo ed una cena.

PLA.                 Dirò, signor servente, di voi son persuasa:

Ma credo di restare per poco in questa casa. E quando vi restassi, sapete chi è il padrone. Io comandar non posso. Don Berto è che dispone.

ISI.                    Don Berto, per parlarvi con tutta confidenza,

È un uomo che non ha né spirito, né scienza. Condur da chi lo pratica si lascia per il naso. Voi col vostro giudizio sareste il di lui caso. L'altra sorella vostra è giovane, è fanciulla, Non sa d'economia, di casa non sa nulla.


Solo di frascherie, di mode è sol maestra; E son le sue faccende lo specchio e la finestra. La serva è una pettegola, il servitore è peggio, Non fanno il lor dovere, e rubano alla peggio. Vi è poi quel don Anselmo, falsario, bacchettone, Che domina don Berto, che vuol far da padrone; Che aspira a un matrimonio colla minor nipote, Non già per vero affetto, ma sol per la sua dote; Che sotto un finto zelo sa mascherare il vizio, E manda dell'amico la casa in precipizio. Tutta gente cattiva; io che son uom sincero, Dissimular non posso, e vi discopro il vero.

PLA.                 Per dir la verità, voi pontuale, esatto,

A ognun di questa casa faceste il suo ritratto.

A voi per tal fatica gratissima mi mostro,

Ma avrei piacere ancora, che mi faceste il vostro.

ISI.                    A me non appartiene farvi il ritratto mio.

PLA.                 Verissimo; aspettate, che farvelo vogl'io.

Voi siete, a quel ch'io sento, un uomo che convince

A forza di finezze, ma tien da quel che vince.

S'io resto, s'io comando, a me tutta la stima.

S'io parto e mi ritiro, don Berto è quel di prima.

Parlando a don Anselmo, lodate i pregi sui,

A me lo biasimate, parlandomi di lui.

Lo stil della germana voi meco or criticate;

Poi seco ragionando, lo so che la lodate.

Dite dei servitori più mal che non conviene.

Di lor, quando vi servono, non fate che dir bene.

La tavola vi piace; se un dì si mangia poco

Dite mal del padrone, del spenditor, del cuoco.

Amante del buon tempo, del faticar nemico,

Sordido internamente, in apparenza amico,

Satirico in distanza, adulator sul fatto;

Scrocco di prima riga. Ecco il vostro ritratto. (parte)

SCENA QUARTA Don Isidoro, poi don Sigismondo.

ISI.                    La vedova garbata mi presentò uno specchio;

Ma quel ch'entra per uno, va fuor per l'altro orecchio.

Vada, che se la porti il diavol maladetto;

Ma s'ella resta in casa, ci verrò a suo dispetto.
SIG.                  O di casa!

ISI.                                       O di casa, si dice in una stanza?

In sala non si aspetta? È nobile l'usanza.
SIG.                  La civiltà, signore, la so al pari d'ognuno.

A basso, sulle scale, in sala, non vi è alcuno.

È ver che in altro loco dovevasi chiamare;


Ma son venuto innanzi, così, senza pensare.

Chi siete voi per altro, che vuol rimproverarmi?
ISI.                    Sono amico di casa. Vi prego di scusarmi,

Se ho detto quel che ho detto. Signor, chi domandate?

Quando servirvi io possa, chiedete e comandate.
SIG.                  Cerco di donna Placida.

ISI.                                                            Fummo finor qui insieme:

A me svelar potete quel che da lei vi preme.

Io son di donna Placida l'amico, il confidente.

Senza di me la vedova mai non risolve niente.

Anzi con me, per dirvela, poc'anzi ha consigliato

Sulla proposizione di prender nuovo stato.

Fra lo sposo e il ritiro risolta ancor non è,

E può la nuova scelta dipendere da me.

Volete che le parli? per voi posso far nulla?
SIG.                  (Non è da disprezzarsi la giovane fanciulla). (da sé)

ISI.                    Via la soggezione. Siam uomini di mondo.

SIG.                  (Mi pare il di lei volto più ilare e giocondo.

Vorrei un'altra volta poterla almen vedere). (da sé)
ISI.                    Volete ch'io la chiami?

SIG.                                                       Mi farete piacere.

ISI.                    La cortesia negli uomini è una virtute umana.

SIG.                  Vederla non potrei senza la sua germana?

ISI.                    Perché una donna vedova venir con sua sorella?

Anzi verrà soletta.
SIG.                                                 È vedova ancor ella?

ISI.                    Vi è ignoto il di lei stato? Ah, non sapete nulla.

SIG.                  Finora ho giudicato che fosse ancor fanciulla.

ISI.                    È stata maritata. È morto suo marito,

Ed or vuol, quanto prima, riprendere partito.

Se voi vi dichiarate, io sono il confidente.
SIG.                  Vi prego, ma che l'altra or non sappia niente.

ISI.                    Vi servirò da amico. (Un merito così

Mi fo con donna Placida). Donna Luigia è qui. (a don Sigismondo, con dispiacere)
SIG.                  Lasciatemi con lei.

ISI.                                                   Con lei? colla fanciulla?

SIG.                  Fanciulla? Non è vedova?

ISI.                                                               Voi non capite nulla.

Vedova è donna Placida. Questa è zitella ancora.
SIG.                  Che è morto suo marito, non mi diceste or ora?

ISI.                    Dell'altra, e non di questa.

SIG.                                                             Sarà; non vi ho capito.

ISI.                    (Oh che testa di legno! Mi pare scimunito). (da sé)

SIG.                  Dunque dell'altra siete il confidente amico.

ISI.                    Dell'altra, sì signore.

SIG.                                                    (Entrai nel bell'intrico). (da sé)

ISI.                    Ma possovi con questa servir, se il comandate.

SIG.                  Vi prego, a donna Placida per or non lo svelate.

Dov'è donna Luigia, che non la vedo più?
ISI.                    L'avrà da noi sottratta pudor di gioventù.

Ma verrà, s'io le parlo.


SIG.                                                       Fatemi la finezza.

ISI.                    Infatti ha la minore più grazia e più bellezza.

La vedova è una donna ch'è assai pontiglïosa,

Questa è ancor giovinetta, è semplice e amorosa.

Vado a servirvi subito. Prometto a voi mandarla.

(Coll'altra mi fo merito, se vado ad avvisarla). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA Don Sigismondo, poi donna Luigia.

SIG.                  Come vogliamo credere l'equivoco sia nato?

Sarà distrazïone, ch'è il mio difetto usato.

Più che tener procuro raccolto il mio cervello.

La fantasia mi gira siccome un mulinello.
LUI.                  Signor, che mi comanda?

SIG.                                                             (Balzami ognor la mente...) (astratto, senza veder donna

Luigia)
LUI.                  Chiede di me, signore?

SIG.                                                       Oh, servo riverente. (avvedendosi di donna Luigia)

Perdonate, signora, l'ardir che mi son preso.
LUI.                  Che voi mi ricercate, con maraviglia ho inteso.

Credo però uno sbaglio. Vorrete mia germana.
SIG.                  (Quanto è vezzosa in fatti, quanto è gentile e umana!)

LUI.                  Cercate donna Placida?

SIG.                                                          (Bella fisonomia). (da sé, osservandola fissamente)

LUI.                  (S'egli non mi risponde, meglio è ch'io vada via).

SIG.                  Dove andate, signora?

LUI.                                                       Se voi non mi badate...

SIG.                  Ero nel bel confuso. Vi supplico, restate.

LUI.                  Sola restar non lice.

SIG.                                                    (Questa onestà mi piace). (da sé)

LUI.                  (Più vago è l'avvocato. Ma pur non mi dispiace). (da sé)

SIG.                  (Disse ben donna Placida. Ha un'aria che consola). (da sé)

SCENA SESTA

Don Anselmo e detti.

ANS.                 (Un uom colla ragazza? Che fan da solo a sola? (da sé)

LUI.                  (Ecco il vecchio importuno). (da sé)

ANS.                                                               A tempo io son venuto. (a donna Luigia)

SIG.                  Cara donna Luigia... (ah, non l'avea veduto). (accorgendosi di don Anselmo)

ANS.                 Se voi non mi vedeste della fanciulla allato,

Ah povero infelice! amor vi avrà acciecato.

E voi, buona fanciulla, sola ad un uom vicina?

Dov'è la suora vostra? dov'è la dottorina?


Quella che sa dir tanto contro chi pensa al bene,

Perché la pecorella a custodir non viene?
SIG.                  (In fatti è mia la colpa, e sofferir bisogna,

D'un uom che dice bene, gl'insulti a mia vergogna). (da sé)
LUI.                  (Signor, voi che sì saggio e virtuoso siete,

Col mezzo della serva da me che pretendete?) (piano a don Anselmo)
ANS.                 (Vi parlò Clementina?) (a donna Luigia, dolcemente)

LUI.                                                       (Mi parlò, sì signore). (a don Anselmo)

ANS.                 (Sopra di tal proposito cosa vi dice il core?) (a donna Luigia)

LUI.                  (Mi dice il cuor che un uomo tanto lontan dal mondo,

Lo fa per rilevare che penso e che rispondo.

Tale proposizione esser non può sincera.

A me voi non pensate). (a don Anselmo)
ANS.                                                      (Vi sposo innanzi sera). (a donna Luigia)

LUI.                  (Voglia mi vien di ridere). (da sé)

ANS.                                                            (Non dice ancor di no). (da sé)

SIG.                  (Alfin che può succedere? alfin la sposerò.

Cotanto donna Placida di lei mi disse bene,

Che averla favorevole sperar non isconviene). (da sé)

(da sé, passando nel mezzo fra donna Luigia e don Anselmo)

Signora, in questa casa per voi non son venuto;

Ma tosto mi piaceste, allor che vi ho veduto.

Se la germana io trovo seconda al desir mio,

Farò quel che conviene con essa e collo zio.

Vi chiederò in isposa, di me se vi degnate.
ANS.                 Ehi padrone... (tirando don Sigismondo per la manica)

SIG.                                        Va in pace. Oh signor, perdonate. (a don Anselmo, dopo avergli dato

una spinta)
ANS.                 A me simile insulto?

SIG.                                                    Non mi veniste in mente,

E vi ho creduto a un tratto un povero insolente.
LUI.                  (Mel disse donna Placida, ch'ha delle astrazioni). (a don Anselmo)

ANS.                 Per me vi compatisco. Il ciel ve lo perdoni. (a don Sigismondo)

SCENA SETTIMA Donna Placida e detti; poi Paoluccio.

PLA.                 (Certo don Isidoro venne a narrarmi il giusto.

Ma che don Sigismondo ami Luigia, ho gusto). (da sé)

Che fa il vecchio importuno?
ANS.                                                                  Qui, qui, signora mia;

Vedete il bel profitto di vostra compagnia. (a donna Placida, accennando donna

Luigia e don Sigismondo)
LUI.                  Venni da lui chiamata. (a donna Placida, accennando don Sigismondo)

SIG.                                                       Domandovi perdono.

Secondo il concertato, da voi tornato io sono. (a donna Placida)
ANS.                 Concerti fraudolenti!

PLA.                                                   Signor, voi non ci entrate.


A comandar, se piacevi, in casa vostra andate. (a don Anselmo)

Resti don Sigismondo, resti Luigia ancora. (alli due)

Ci son io; voi partite. (a don Anselmo)
ANS.                                                   Non vo' partir, signora.

Son qui, son vigilante per ordin dello zio.

Dite quel che volete, vo' fare il dover mio.
PLA.                 Restate pur, non curo, in faccia a un testimonio,

Per una figlia nubile trattar di matrimonio.

Se un cavalier la brama, s'ella acconsente al nodo,

Tosto lo zio si chiami...
ANS.                                                         No, non è questo il modo.

Io mi oppongo al contratto.
SIG.                                                                Signor, con qual ragione? (adirato, a don Anselmo)

ANS.                 (Non vorrei gli venisse qualche distrazïone). (da sé, ritirandosi un poco)

PLA.                 Non parlate, sorella? (a donna Luigia)

LUI.                                                    La cosa a voi rimetto. (a donna Placida)

SIG.                  Se voi siete contenta...

ANS.                                                      Non si farà, il prometto.

Tentate a mio dispetto di superarla invano.
PAO.                 Signora. (a donna Placida)

PLA.                              Chi è venuto?

PAO.                                                      È il signor capitano.

ANS.                 (Oimè!) Basta, il vedremo. (timoroso, in atto di partire, sentendo l'arrivo del

capitano)
PLA.                                                            Spiegatevi più aperto. (a don Anselmo)

ANS.                 Ah se ciò succedesse... (ammazzerei don Berto). (da sé, e parte timoroso, perché

vede in distanza il capitano)
PLA.                 Germana, se vien gente, a ritirarvi andate.

Voi, se la pretendete, itene, e al zio parlate. (a don Sigismondo)
LUI.                  (Converrà ch'io lo pigli, se lo destina il fato.

Quanto più fortunata sarei coll'avvocato!) (da sé, e parte)
PLA.                 Venga don Ferramondo.

PAO.                                                         Vo ad avvisarlo subito. (parte)

SCENA OTTAVA

Donna Placida e don Sigismondo; poi don Ferramondo.

SIG.                  Posso sperar che mi ami?

PLA.                                                            Dell'amor suo non dubito.

Siate di ciò sicuro, ma andate dallo zio,

Prima che seco parli quel tristo vecchio e rio.

Egli, ve lo confido, sopra il suo cuor pretende,

Sa che don Berto è debole, e di sedurlo intende.
SIG.                  Ora capisco il zelo dell'indiscreto indegno

Ora di conseguirla vo' mettermi in impegno.

La chiederò a don Berto. (in atto di partire)
FER.                                                          Eccomi di ritorno.

SIG.                  La chiederò a don Berto. (va per partire, ed urta forte don Ferdinando)


FER.                                                          Siete briaco o storno? (a don Sigismondo, respingendolo)

SIG.                  Che impertinenza è questa? (a don Ferramondo, incalzandolo)

FER.                                                                A me? Non sai chi sono? (si ritira ponendo mano alla

spada)
SIG.                  Non vi avea conosciuto. Domandovi perdono:

Un che fu qui poc'anzi, sdegno mi accese in petto.
PLA.                 Abbiate sofferenza. Sapete il suo difetto.

SIG.                  Scusatemi, vi prego. (a don Ferramondo)

FER.                                                    Basta così, vi scuso.

Con chi conosce il torto, insistere non uso. (ripone la spada)
SIG.                  La collera talora fa che d'un vel coperto... (a don Ferramondo)

Ah, che mi perdo invano. Volisi da don Berto. (parte)

SCENA NONA

Donna Placida e don Ferramondo.

FER.                  Che ha don Sigismondo, che l'agita a tal segno?

PLA.                 Nel di lui sen combatte l'amore collo sdegno.

Par che donna Luigia di conseguire ei brami. Non so se per impegno, o di buon cuor se l'ami. Appena l'ha veduta, la cerca, la pretende, Freme perché un indegno rival gliela contende.

FER.                  Che dice la fanciulla?

PLA.                                                      Vuol far la vergognosa,

Ma nulla più desidera che di essere la sposa

FER.                  Siete in ciò favorevole, o pur contraria ad essa?

PLA.                 Anzi procuro al nodo sollecitarla io stessa.

FER.                  Dunque sembra a voi pure codesto il miglior stato.

PLA.                 Certo, lo sposo è un bene per chi non l'ha provato.

FER.                  Per voi che lo provaste, dunque lo sposo è un male?

PLA.                 So che la libertade ad ogni ben prevale.

FER.                  Spiacemi che tal massima fitta vi abbiate in core,

Che siate divenuta nemica dell'amore. Vi amo, già lo sapete. Sperai costante e fido Fra i riposi di Marte le grazie di Cupido. Servirvi eternamente saprò in libero stato.

PLA.                 Star libera in eterno, signor, non ho giurato.

FER.                  Dunque sperar si puote che amor vi accenda il petto?

PLA.                 Chi sa ch'io non mi accenda d'amore a mio dispetto?

FER.                  Quand'è così, il mio cuore ripiglia i dritti suoi.

PLA.                 Quale ragion ch'io debbami accendere di voi?

FER.                  Sono d'amore indegno?

PLA.                                                         Degnissimo voi siete;

Amor, stima e rispetto voi meritar potete: Ma delle donne il cuore sapete come è fatto: Talor senza pensarvi si accendono ad un tratto. Io sceglierei voi solo, se avessi a consigliarmi, Ma temo di me stessa, se giungo a innamorarmi.


FER.

Io non sarei capace?

PLA.

Chi sa? può darsi ancora.

FER.

Per me vi punge il core?

PLA.

No, non mi par, per ora.

FER.

Quando vi son lontano, smania provate in seno?

PLA.

Quando lontan mi siete, per verità non peno.

FER.

Allor che in campo armato a militare andai,

Piangeste il mio periglio?

PLA.

Oh, io non piansi mai.

FER.

Finor voi non mi amaste.

PLA.

Può darsi anche di no.

FER.

E in avvenir, signora?

PLA.

Io l'avvenir nol so.

FER.

Come poss'io l'amore sperar di meritarmi?

PLA.

Può guadagnarmi il cuore chi giugne a innamorarmi.

Bramo di restar vedova, la libertade io stimo.

Ma se legar mi deggio, chi m'innamora è il primo.

FER.

Che far per invaghirvi, dite, che far dovrei?

PLA.

Dirvelo a me non tocca.

FER.

Tutti gli affetti miei,

Tutto il mio cor non basta, che vi consacri in dono?

PLA.

Tanto bastar dovrebbe, ma accesa ancor non sono.

FER.

Esser ognor vi piace servita e vagheggiata?

PLA.

Ciò ancor mi annoierebbe, se fossi innamorata.

FER.

Amate divertirvi? Feste teatri e gioco?

PLA.

L'offerta è generosa, ma tutto questo è poco.

FER.

Deggio dolente in viso piangere a voi dinanti?

PLA.

No, l'allegria mi piace, ed abborrisco i pianti.

FER.

Posso offerirvi il sangue.

PLA.

Che farne io non saprei.

FER.

Chi mai può innamorarvi?

PLA.

Chi piace agli occhi miei.

FER.

Quello io non son per altro.

PLA.

No, non lo siete ancora.

Una sorte, un incontro, un attimo innamora.

FER.

Attenderò quell'ora per me più fortunata.

PLA.

Ma se alcun altro è il primo, non mi chiamate ingrata.

Vivere dolcemente in libertade inclino:

Se cedo a nuove fiamme, sarà per mio destino.

Ed il destin che accende fiamme d'amore in petto,

A suo voler dispone del foco e dell'oggetto.

Fate gli sforzi vostri, la piazza è ancor difesa:

Ha degli assalti, è vero, ma non è vinta e resa.

Un capitan sa bene che, ad onta del valore,

La piazza non resiste al forte assalitore;

Né basta che il nemico sia poderoso, armato:

Delle battaglie il nume è spesse volte il fato.

FER.

Vincere il fato ancora saprò colla mia spada.

PLA.

Per un affar vi prego permettere ch'io vada.

FER.

Mi licenziate, ingrata?

PLA.

Io vi rispetto e stimo.


FER.                  Posso sperar quel core?

PLA.                                                         Chi m'innamora è il primo. (parte)

FER.                  Non anderò per ora lontan da queste porte.

Sì, per essere il primo, tentar vo' la mia sorte. Per vincere la piazza, se l'assediarla è vano, Tenterà per assalto d'averla un capitano. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Donna Placida e donna Luigia; poi don Isidoro.

LUI.                  Non si sa nulla ancora di quel che abbiano fatto?

PLA.                 Senza l'assenso vostro è vano ogni contratto.

Se anche per don Anselmo fosse soscritto il foglio,

Basta che voi diciate: Signore, io non lo voglio.

E se vi manca il cuore, temendo i sdegni suoi;

Io vi sarò in aiuto, io lo dirò per voi.

Non crederei...
LUI.                                           Chi viene?

PLA.                                                            Don Isidoro.

LUI.                                                                                  Io spero

Ci darà delle nuove.
PLA.                                                   Basta che dica il vero.

ISI.                    M'inchino a queste due degnissime sorelle.

LUI.                  Vi è novitade alcuna?

ISI.                                                         Ne porto delle belle.

L'istoria è graziosa; udir se la volete,

Porgetemi l'orecchio e non m'interrompete.

Dopo che don Anselmo ebbe con voi quel certo

Battibuglio rissoso, corse a trovar don Berto.

Disse che donna Placida volea darvi marito,

Ch'era don Sigismondo un pessimo partito,

Che alfine una nipote dal zio dovea dipendere,

E che l'arbitrio in questo vi si dovea contendere.

Don Berto che in sua vita non disse mai di no,

Dissegli: Sì signore, io lo contenderò.

Soggiunse don Anselmo: Alla figliuola audace

Si vede che lo stato di libera non piace.

Onde di collocarla dee accelerarsi il dì;

Don Berto, maritatela. Ed egli: Signor sì.

Per sé voleva chiedervi il celebre volpone,

Ma avea nello scoprirsi non poca soggezione.

Disse: Lasciate fare, che il ciel provvederà;

Ritroverò un partito che a lei si converrà.

Per zelo d'amicizia di faticar prometto.

Mi permettete il farlo? Ed ei: Ve lo permetto.

In questo, a noi si vede venir don Sigismondo;

Appena ci saluta, pareva un furibondo.

Rivolgesi a don Berto, gli chiede la fanciulla.

Egli confuso al solito, restò senza dir nulla.

Pretende don Anselmo di dir la sua ragione;


Quell'altro arditamente parla, contrasta, oppone.

Si scaldano i rivali. Uno ha il bastone in mano,

L'altro una sedia, e in questo arriva il capitano.

Trema il vecchio in vederlo; quell'altro prende fiato,

Don Berto si confonde; io tiromi da un lato.

Il capitan chiamato a dare il suo giudizio,

Dice che non è cosa da farsi a precipizio.

Vuol che si prenda tempo, e tutti han consigliato

Di mettere la cosa in man di un avvocato.

Don Berto, che cercava d'avere un qualche aiuto

Mandò a cercar don Fausto. Don Fausto è alfin venuto.

Ed ei ch'è buon legale, disse in una parola:

Sentiam prima di tutto l'idea della figliuola.

Allora don Anselmo, gli occhi levando al cielo,

Disse: Per lei m'ispira la caritade, il zelo.

Prima che mal si perda la giovane amorosa,

Don Berto, il ciel m'aiuti, ve la domando in sposa.

Fuori di sé il buon zio, quando tal cosa udì,

Prese la penna in mano, e disse: Signor sì.

Ma tutti a lui si opposero, e l'avvocato allora

Replicò: Che si senta l'idea della signora.

Ebb'io la commissione di rendervi avvisata,

E siete dal consesso in camera aspettata.

Però quel vecchio astuto, tiratomi in disparte,

Mi pregò di adoprare con voi l'ingegno e l'arte,

Per persuadervi a scegliere lui sol per vostro sposo,

Dicendovi che l'altro è sciocco e difettoso.

Ma sono un galantuomo, e dicovi col cuore,

Che s'uno è mal partito, quest'altro è ancor peggiore.
PLA.                 Affé, don Isidoro, bizzarra è la novella;

È degna di un teatro codesta istoriella.
LUI.                  Anzi che don Anselmo, ch'è l'uom più rio del mondo,

Certo son io disposta pigliar don Sigismondo.

Ma per dir schiettamente quel che ho nel cor celato,

Darei la man di sposa piuttosto all'avvocato.
PLA.                 (Questo poi no, lo giuro). (da sé)

ISI.                                                            Certo saria un bel scherzo,

Che or fra i due litiganti vi guadagnasse il terzo.

L'idea non mi dispiace. Voglio provarmi, affé.

Vo' parlare a don Fausto, fidatevi di me. (in atto di partire)
PLA.                 No, non v'incomodate. (a don Isidoro, trattenendolo)

LUI.                                                       Lasciate ch'egli vada. (a donna Placida)

ISI.                    Con due parole buone vi spianerò la strada.

Gli parlerò in disparte. Son galantuomo onesto.

Principierò il negozio, voi compirete il resto.
PLA.                 Eh, che don Sigismondo...

ISI.                                                               Eh, che va ben così.

Gli dico due parole, e ve lo mando qui.

Don Sigismondo alfine di mente è difettoso.

(Don Fausto è più corrente, più ricco e generoso) (da sé, e parte)


SCENA SECONDA

Donna Placida e donna Luigia.

PLA.                 (Questa ci mancherebbe!) (da sé)

LUI.                                                             Sorella, a quel ch'io vedo

Preme a voi pur don Fausto. L'amate? io ve lo cedo.
PLA.                 Me lo cedete? infatti grand'obbligo vi devo!

Che fosse cosa vostra don Fausto, io non credevo.
LUI.                  Don Fausto cosa mia? Voi mi mortificate.

PLA.                 Ei non è cosa vostra, e cederlo vantate?

LUI.                  Lo dissi all'impazzata, senza pensarvi su.

Lo so che dissi male, non parlerò mai più.

SCENA TERZA Paoluccio e dette.

PAO.

Signore, tutte due vi aspettano di là.

PLA.

È lo zio che mi cerca?

PAO.

Per dir la verità,

Chiamar donna Luigia ei sol mi ha incaricato;

Ma quel che vi desidera, signora, è l'avvocato.

PLA.

Andate voi, germana, non serve ch'io ci venga;

Senza di me, puol essere da voi che più si ottenga.

Dite che siete libera nell'accettar partito:

Tre sono i concorrenti. Sceglietevi il marito.

LUI.

Son tre? Don Isidoro testé mi ha rinonziato.

PLA.

Eh, son tre, sì signora; il terzo è l'avvocato.

PAO.

Cosa ho da dir, signore?

PLA.

Dirai ch'ella verrà,

E se don Fausto chiede...

PAO.

Don Fausto, eccolo qua.

PLA.

Sentendo il genio vostro, ei viene a bella posta. (a donna Luigia)

PAO.

Dunque al signor don Fausto darete la risposta. (parte)

SCENA QUARTA Donna Placida, donna Luigia, poi don Fausto.

PLA.                 Accelera don Fausto per voi la sua venuta;

Mi rallegro che siate la bella combattuta.
LUI.                  Non so che dir, germana; perché non vi lagniate,

Parto senza vederlo.
PLA.                                                   No, no, vo' che restiate.


LUI.                  E poi?...

PLA.                                 Fate ogni sforzo, che farlo io vi permetto.

(Vedrò se sia quel core volubile in affetto). (da sé)
FAU.                 Eccomi d'ambedue sollecito al comando.

PLA.                 Cercavi mia germana; per me non vi domando.

FAU.                 Due pretensor discesi nell'amoroso agone,

Attendon della pugna da voi la decisione.

D'ambi vi è noto il merto, d'ambi l'amor vi è noto:

Arbitra di voi stessa, date al più degno il voto. (a donna Luigia)
PLA.                 Via, rispondete ai detti del mediatore amico. (a donna Luigia)

S'ella per rossor tace, io il suo pensier vi dico.

Nell'amorosa arringa, a cui l'un l'altro è accinto,

Un pretensore occulto senza parlare ha vinto.

Soffrano i due rivali, se avversa a lor si mostra;

Li ha combattuti amore, e la vittoria è vostra. (a don Fausto)
FAU.                 Gioco di me prendete? (a donna Placida)

LUI.                                                       (Ah, mi palpita il cuore). (da sé, mortificandosi)

PLA.                 Prova di quel ch'io dico, mirate in quel rossore.

FAU.                 Ah, se mai fosse vero che ardesse ai lumi miei,

Della gentil donzella più molto arrossirei;

Arrossirei scorgendomi indegno del suo cuore,

Di renderle incapace amore per amore.
LUI.                  (Dunque l'impresa è vana). (da sé)

PLA.                                                            Perché cotanto ingrato? (a don Fausto)

FAU.                 Perché ad amor più tenero mi vuol costante il fato.

Il cuor serba gli affetti, serba gl'impegni suoi,

E dubitar potriane ognun fuori di voi.
LUI.                  (Si amano, a quel ch'io sento. Non m'ingannò il pensiero). (da sé)

PLA.                 Ella di voi lusingasi. (a don Fausto)

LUI.                                                    No, signor, non è vero.

Non ho di donna Placida lo spirito e il talento;

Ma semplice qual sono, so dir quello ch'io sento.

Certo che più d'ogni altro vi stimo e vi rispetto,

Per voi però non giunsi a accendermi d'affetto;

E quel che far potrebbe l'amabile catena,

Fare non pon quegli occhi che ho contemplati appena.

Gli accenti e i dolci sguardi veggo e conosco anch'io;

Non cedo alla germana un cuor che non è mio.

Ma lasciola in possesso, ed il mio cuore inclina

Ad accettar lo sposo che il cielo a me destina. (parte)

SCENA QUINTA

Donna Placida e don Fausto.

PLA.                 (Sotto i placidi sdegni cela d'amore il foco). (da sé)

FAU.                 (L'amor della germana mi somministra un gioco). (da sé)

PLA.                 Miraste, come facile al suo destin s'accheta?

Quanto è di me Luigia più docile e discreta?


Di lei ditemi franco quello che il cuor vi dice.
FAU.                 Dicemi che fia d'essa il possessor felice.

PLA.                 Tanta felicitade perder non vi consiglio.

FAU.                 Amor dalla sua reggia condannami all'esiglio.

PLA.                 Qual Proteo amor si cangia, e regna in più d'un petto:

La reggia ha del piacere, ha quella del dispetto.

Se vi esiliò da un cuore, ove tiranno impera,

V'invita alla sua sede più dolce e men severa.
FAU.                 Siano le antiche leggi dure, penose e gravi,

Mi tiene alla catena chi ha del mio cuor le chiavi;

E libertà quest'alma invan cerca e pretende,

Finché un amor tiranno al mio piacer contende.
PLA.                 Poss'io nulla a pro vostro?

FAU.                                                            Ah, sì, tutto potete.

PLA.                 Ite a miglior destino, che libero già siete. (s'allontana e in distanza siede)

FAU.                 Ho in libertade il piede? grazie, pietoso amore.

Ma dove andar io spero, se ho fra catene il core?

Veggo chi mi discaccia. Conosco a che m'invita.

Sarà del laccio il fine il fin della mia vita.

Ma o non intendo il bene che amor farmi destina,

O vuol l'ostinazione formar la mia rovina.

Scuotasi il giogo alfine che amor m'impose al dosso.

Fuggasi il crudel regno. Ah, che fuggir non posso. (mostra voler partire, si

allontana, ed abbandonasi sopra una sedia distante)
PLA.                 (Non sa partir l'ingrato). (guardandolo sott'occhio)

FAU.                                                         (Parmi che in cuor patisca). (da sé, guatandola)

PLA.                 (Non me lo tolga amore). (da sé, con passione)

FAU.                                                         (Amor l'intenerisca). (da sé, con passione)

PLA.                 Sì lento si va incontro a un dolce amor che invita? (a don Fausto)

FAU.                 Eccomi ad incontrare quel ben che amor mi addita. (s'alza impetuosamente, e corre

da donna Placida)
PLA.                 Amor non è più meco; è in sen della germana.

FAU.                 Quanto a ingannare è pronta una lusinga insana! (si scosta)

PLA.                 Via, perché non correte a porgerle la destra?

FAU.                 Siete voi, donna Placida, d'infedeltà maestra?

PLA.                 Sì son io che v'insegna a superar del cuore

Gli stimoli importuni, l'inutile rossore.
FAU.                 L'insegnamento è dubbio, l'eseguirò allorquando

Voi me lo comandiate.
PLA.                                                      Andate, io vel comando.

FAU.                 Deggio obbedir la legge. (si allontana a poco a poco)

PLA.                                                         (Mi lascia il traditore). (da sé)

FAU.                 Vuol obbedirvi il piede, ma nol consente il core. (volgendosi a lei, e ponendosi

smaniosamente a sedere)
PLA.                 (Ah no, mi ama davvero). (da sé, guardandolo un poco)

FAU.                                                            (Par che sereni il ciglio) (da sé, guardandolo)

PLA.                 (Ah, che pur troppo io vedo la libertà in periglio). (da sé)

FAU.                 Chi mai di donna Placida, chi mai l'avria creduto,

Che ad altri mi cedesse? (in maniera di farsi sentire)
PLA.                                                         Come? v'ho io ceduto? (alzandosi verso di lui)

FAU.                 Non è ver? (alzandosi, ma fermo al suo posto)


PLA.

Non è vero. (facendo qualche passo)

FAU.

Dunque quel cor mi adora. (tenero, e fermo al suo posto)

PLA.

Gli arcani del mio core non vi ho scoperto ancora.

FAU.

(Cederà a poco a poco.) (da sé, sedendosi)

PLA.

(Amore, ah sei pur tristo!) (da sé)

FAU.

(Tentisi un nuovo assalto). (da sé)

PLA.

(Se dura, io non resisto). (da sé)

FAU.

Il mio dover mi chiama, esige il mio rispetto.

Che a riferire io vada qual sia lo sposo eletto.

PLA.

Ite da mia germana. Ella che il può, lo dica.

FAU.

Rassegnata è al destino. D'obbedienza è amica.

L'arbitrio è in vostra mano. Partendo il confermò.

PLA.

Ch'ella don Fausto ha scelto, manifestar si può.

FAU.

Lo comandate voi? (alzandosi lentamente)

PLA.

Non vel comando, ingrato. (alzandosi con dell'impeto)

FAU.

Se voi mel comandaste, sarei pur sfortunato!

PLA.

Però vi adattereste ad obbedir tal cenno.

FAU.

Non ho sì falso il core, non ho sì corto il senno.

PLA.

Lodaste pur mia suora.

FAU.

Dovea lingua villana

Sprezzar donna Luigia in faccia a una germana?

PLA.

Barbaro! discortese!

FAU.

Or perché m'ingiuriate?

PLA.

Perché la libertade di togliermi tentate.

FAU.

Se amore ai labbri miei tanto poter concede

Per meritar gli insulti, eccomi al vostro piede. (s'inginocchia)

PLA.

Alzatevi.

FAU.

Non posso.

PLA.

Alzatevi.

FAU.

La mano.

PLA.

(Misera me!) Lasciatemi. (dopo averle data la mano per sollevarlo, don Fausto

seguita a tenerla stretta)

FAU.

Voi lo sperate invano.

PLA.

Per pietà!

FAU.

No, mia vita.

PLA.

Lasciami, traditore.

FAU.

Se questa mano io lascio, mi donerete il cuore?

PLA.

Oimè!

FAU.

Sì, mio tesoro, vedo che amor mi aiuta.

PLA.

Prendi la mano e il cuore: misera! io son perduta.

FAU.

Perdite fortunate, che vagliono un tesoro.

PLA.

Vien gente a questa volta. Si salvi il mio decoro.

FAU.

Cedere un cuore onesto vi par sia riprensibile?

PLA.

Dunque ho il mio cor ceduto? ancor parmi impossibile.

SCENA SESTA Don Berto, don Sigismondo, don Ferramondo, don Anselmo, don Isidoro e i suddetti.


BER.

Voi ci avete piantati per non tornar mai più. (a don Fausto)

FAU.

Parlai colla fanciulla.

BER.

E ben, che cosa fu?

FAU.

Ella a voi si rimette.

ANS.

Egli a me la concede. (a don Fausto, parlando di don Berto)

SIG.

Parli donna Luigia; a lei si presti fede.

FER.

Dica liberamente la figlia il suo pensiero.

FAU.

Pria la maggior germana si può sentire.

BER.

È vero.

Dite l'opinion vostra. Il punto lo sapete. (a donna Placida)

PLA.

So tutto, signor zio. Dirò, se il permettete.

Venga donna Luigia, vengano i servitori.

BER.

Vengano tutti quanti.

PLA.

Uditemi signori.

Sempre fra due rivali vi è quel che merta più;

Abbia la sposa in dono colui che ha più virtù.

Far non pretendo un torto: sono di tutti amica.

Chi ha più virtù e più merito, vo' che la prova il dica.

So che don Sigismondo è un cavalier perfetto,

Degnissimo, malgrado a un picciolo difetto.

Soggetto è alle astrazioni, ma questa è poca cosa,

È il cuor che fortunata può rendere una sposa.

Don Anselmo per altro a gloria sua conviene

Dir che nessun l'eguaglia nell'essere dabbene,

Nella virtù esemplare che gli uomini governa,

E nell'usare a tutti la carità fraterna.

Eccovi un chiaro esempio dell'opere sue belle;

Impiega ogni suo studio a maritar donzelle.

Don Berto più di tutti può dir se a questo inclini,

Ei che gli diè per una testé cento zecchini.

BER.

È vero, io non lo dico altrui per vanità:

Sia detto a gloria sua, questa è la verità.

PLA.

Che dice don Anselmo?

ANS.

Per me non dico nulla.

PLA.

A noi lo potrà dire la povera fanciulla.

Venga avanti, signora. (verso la scena)

SCENA SETTIMA

Clementina, Paoluccio e detti.

CLE.

Sono io la chiamata?

PLA.

Ecco, signor don Berto, la sua beneficata:

La semplice zitella, ch'era in un gran pericolo

D'essere rovinata.

CLE.

Piano su questo articolo

Non sono una sfacciata.

BER.

La dote a Clementina? (a don Anselmo)

ANS.

Se non si soccorreva, era a perir vicina.


CLE.                 Il danar non l'ho avuto.

PLA.                                                      Deesi svelar perché;

E s'altri non lo dice, si ha da saper da me. La caritade, il zelo, ch'anima l'impostore, È di donna Luigia il mascherato amore. Il perfido per questo offre a costei la dote, E fa pagar dal zio le insidie alla nipote. Ecco l'uomo dabbene...

ANS.                                                      Quel labbro è menzognero.

SCENA OTTAVA Donna Luigia e detti.

LUI.

Sì, don Anselmo è un perfido, è innamorato, è vero.

Ecco chi può saperlo. (a Clementina)

CLE.

Ma il danar non l'ho in mano.

BER.

Cosa ho da far, signori?

PLA.

Lo dica il capitano.

ANS.

Non signor, non s'incomodi di dar la sua sentenza.

Confesso che ho fallato, farò la penitenza.

Ecco i cento zecchini. Non ho pretensioni.

Ah, voi mi rovinaste! Il ciel ve lo perdoni. (parte)

BER.

Ma io resto di sasso.

FER.

Passarsela non speri.

Lo farò bastonare da quattro granatieri.

FAU.

No, signor capitano; domani dallo stato

Farò che dal governo sia colui esiliato.

BER.

Povero don Anselmo!

PLA.

Il falso bacchettone

Ancor vi sta sul cuore? (a don Berto)

BER.

No, no, avete ragione.

PLA.

Vada le mille miglia l'empio lontan da noi,

E vada anche la serva a fare i fatti suoi.

BER.

Vada la serva ancora.

CLE.

Pazienza. Paoluccio,

Di', mi vorrai più bene?

PAO.

Eh, non son così ciuccio. (parte)

CLE.

Domandovi perdono. Povera Clementina!

Venuto è un impostore a far la mia rovina.

Tardi averò imparato a spese mie, signori:

La dote guadagnarla dobbiam con i sudori.

Quando è male acquistata, il ciel così destina.

In semola va tutta del diavol la farina. (parte)

BER.

Cose, cose... son cose da perdere il cervello.

PLA.

Che fa don Sigismondo? Si perde in sul più bello.

Eccolo astratto in guisa che pare un insensato.

Dico: don Sigismondo.

SIG.

Son qui. Chi m'ha chiamato?


PLA.

In mezzo a tanti strepiti siete in distrazione?

SIG.

Di rimanere estatico non ho forse ragione?

Pieno di tristi è il mondo. In che stagion mai siamo?

Appunto. Che risolve la giovane ch'io bramo?

PLA.

A voi, donna Luigia.

LUI.

Germana, io non dispongo.

PLA.

Il signor zio che dice?

BER.

Figliuola, io non mi oppongo.

PLA.

Dunque la man porgete al cavalier che vi ama.

LUI.

Ecco la man.

SIG.

Sì, cara, contenta è la mia brama.

BER.

Alfin voi mi lasciate, nipote mia carissima;

Siete contenta almeno?

LUI.

Signor, son contentissima.

BER.

Ed io resterò solo? Voi pure abbandonarmi?

Voi nel ritiro andrete? (a donna Placida)

PLA.

Non penso a ritirarmi.

BER.

Che? vi è venuto in mente qualche miglior partito?

PLA.

Non so. (guardando don Fausto)

BER.

Cosa ha risolto? (a don Fausto)

FAU.

Di prendere marito

È ver?

PLA.

Potrebbe darsi.

FER.

Ed è meco impegnata,

Quando amor la consigli.

PLA.

Mi avete innamorata? (a don Ferramondo)

FER.

Tempo non ebbi a farlo; ma di arrivarvi io stimo.

PLA.

Dissi vel rammentate, chi m'innamora è il primo.

Di conseguir tal forza un altro ebbe la sorte.

M'innamorai, son vinta, don Fausto è mio consorte.

FER.

Come! a me sì gran torto?

PLA.

Di un torto vi dolete?

Che colpa han gli occhi miei, se voi non mi piacete?

Dovea forse più a lungo soffrire un tal cimento?

Vi è noto che si accendono le fiamme in un momento?

Lo sa chi mi possiede, lo sa quanto ha costato

Alla sua sofferenza l'avermi innamorato;

E quel che non poterono lunghi sospiri e duolo,

Non vi saprei dir come potuto ha un punto solo.

Se la ragion vantate, se cavalier voi siete,

Perdono, a chi vi stima, concedere dovete;

E rilevando il vero che puramente io dico,

Esser di me qual foste, e di don Fausto amico.

FER.

Non so che dir, conosco che mi vien fatto un torto.

Da una donna di spirito l'ammiro e lo sopporto.

PLA.

(Poco non è, che il fiero siasi a ragion calmato). (da sé)

LUI.

(Ora sarà contenta, alfin se l'ha pigliato). (da sé)

BER.

Eccovi spose entrambe, io povero sgraziato,

Eccomi solo in casa da tutti abbandonato.

Cospetto! se mi salta, anch'io prendo una moglie.

PLA.

Signor, se l'aggradite, noi stiamo in queste soglie.


Don Fausto avrà piacere di rimanervi allato.
FAU.                 In me, signore, avrete un servo e un avvocato.

BER.                 Bene, restate meco; alla minor nipote

Darò, qual si conviene, giustissima la dote.

E voi che siete stata, e siete una gran donna,

Di tutta casa mia vi fo donna e madonna.

SCENA ULTIMA Don Isidoro e i suddetti.

ISI.                    Che vivano gli sposi. So tutto, e mi consolo.

Mandai otto pernici a comperar di volo.

Il pane abbrustolito stamane andò in malora,

A cena questa sera sarà più buono ancora.
PLA.                 Signor, son maritata. Anch'io, come vedete,

Resto padrona in casa col zio, se nol sapete.

Scrocchi non ne vogliamo. Vi venero, vi stimo;

Ma voi di questa casa ve n'anderete il primo.
ISI.                    Don Berto, cosa dite?

BER.                                                   Oh, lascio fare a lei.

ISI.                    Non mancano le case, signora, ai pari miei.

M'avrà don Sigismondo amico e servitore.
SIG.                  Sì, un servitor trovatemi, mi farete favore,

Un braccier per la sposa.
ISI.                                                            Io, io la servirò.

LUI.                  Scrocchi per casa mia? Rispondo, signor no.

ISI.                    Tavola a me non manca, non manca compagnia.

(Dove comandan donne, vi è troppa economia.

Lo troverò ben io, lo troverò sì certo

Un altro baccellone, compagno di don Berto). (da sé, e parte)
PLA.                 A compiere le nozze andiam col rito usato.

L'amore e la concordia a noi conservi il fato.

Lungi dai tetti nostri gli scrocchi e gl'impostori,

Che son delle famiglie nemici e seduttori.

Grazie alla sorte amica, la casa ha ben ridotta

Un poco di buon spirito, un poco di condotta.

In una sola cosa lo spirto mi è mancato;

Volea la libertade, e alfin mi ho innamorato.

Questo è quel passo forte, a cui gli spirti umani

Resistere non possono che standovi lontani.

Io coraggiosa e forte, costante e prevenuta,

Fidando di me stessa, coll'altre son caduta.

Spero però felice non meno il mio destino:

Godo di aver per sempre tal sposo a me vicino;

E goderò più molto, se chi mi ascolta e vede,

A noi degli error nostri grazia e perdon concede.

Fine della Commedia.