La villeggiatura

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Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

LA VILLEGGIATURA

Questa Commedia fu per la prima volta rappresentata in Venezia

nel Carnovale dell'anno 1756.

AL CHIARISSIMO SIGNOR ABBATE

GIO BATTISTA VICINI

ACCADEMICO DUCALE E POETA PRIMARIO

DI SUA ALTEZZA SERENISSIMA

IL SIGNOR DUCA DI MODONA

Fu delle maggiori che dar si possano la mia allegrezza, Chiarissimo Signor Abbate, allora quando il nostro comune Amico, il signor Avvocato Gio: Francesco Renzi, Segretario perpetuo di codesta illustre Accademia Ducale, si compiacque con un suo gentilissimo foglio darmi la notizia ber me onorevole, inaspettata, d'esser io stato ascritto fra i valorosi Accademici compagni vostri. Si accrebbe ancora più il mio giubilo e la mia sorpresa, nell'annunziarmi ch'ei fece essere stato Voi il promotore di questo fregio al mio nome, con che darmi voleste una nuova testimonianza dell'amor Vostro; di quell'amore che nell'anno 1754 mi avete in Modona liberalmente manifestato, consolandomi colla presenza vostra in una mia penosa convalescenza, e frammischiando agli eruditi vostri ragionamenti tali osservazioni e tai giudizi sulle opere mie, che mi facevano insuperbire. Fu dono dell'ingenuo amabilissimo Renzi nostro l'incontro per me felice della preziosa vostra amicizia; ma partito di Modona poco sano, ed assalito in Milano da una tenace malattia di spirito, che mi accompagnò crudelmente fino al mio ritorno in Venezia, non ho avuto agio di coltivarla, e ho trascurato, fra tanti altri, ancor questo bene. Non è colpa vostra, se poi in qualche occasione, in cui giovar mi poteva la grazia vostra, vi siete di me scordato. L'amicizia forma tra gli uomini il più utile, il più necessario commercio, e se ogni altro commercio devesi con assiduità coltivare, questo principalmente, che non d'interesse ma sol d'amore si pasce, va più di tutti con parzialità coltivato. Oh quanti amici mi ha atto perdere la mia mala fortuna; ma lode al Signore, col tempo e colla verità facendo loro conoscere che, più dei loro sdegni mi si doveva la compassione, li ho quasi tutti ricuperati. Foste Voi dei più facili a ridonarmi l'affetto vostro, segno che avete l'animo assai ben fatto, che non arrivano le passioni a guadagnarvi lo spirito, che un luogo sempre serbate nel vostro cuore per accogliere la verità, qualunque volta vi si presenta, e che malgrado gli adombramenti, sperate sempre di ritrovare la luce. Piansi la vostra perdita amaramente, ed era ben ragionevole il mio cordoglio. Noi non viviamo di solo pane. L'onore è il nutrimento dei galantuomini, e questo vien dalla stima degli uomini somministrato. Quanto sono più in credito gli estimatori, tanto più onorati si reputa chi ne va in traccia, e siccome Voi, per lettere e per dottrina, in altissimo loco siete dal merito collocato, potete colla vostra benevolenza felicitare, siccome, per lo contrario, non meritare la grazia vostra è lo stesso che viver senza credito e senza fama. Voi dunque, nel ridonarmi l'affetto vostro, mi avete resa la miglior vita, e perché un simil dono, se non è pubblico, al donatario non giova, registrato lo avete in una rinomata Accademia, alla presenza di tanti Nobili valorosi Soggetti, onore e gloria del Panaro non solo, ma della nostra cara alle Muse, colta, invidiabile Italia. Ma a un segno sì manifesto della vostra sincerissima dilezione non cercherò io corrispondere comunque possa? Vero è, che qualunque sforzo ch'io faccia per dimostrarvi la mia gratitudine, sarà sempre dal benefizio vostro distante, ma posso, se non adempiere alla ricompensa, far almeno valere la confessione del debito e la brama di soddisfarlo. Trovansi a' giorni nostri dei debitori che si vergognano di esser tali, e, abboniscono i creditori, non potendo nemmen soffrire i discreti rimproveri dei loro sguardi. Se pagar possono, sono ingrati; se non le possono, sono vili. Quando non si può pagare, si prega; si offerisce quel che si ha. Così ho pensato far io con Voi, ornatissimo Signor Abbate; non potendovi soddisfar per intiero, vi offro quella miserabile ricompensa che mi somministrano le mie forze. Ma che parlo io di pagamento e di ricompensa? Chi dona, non aspetta mercede; e qualunque minima cosa che il donatario al donatore destina, è sempre un dono arbitrario, e sempre un dono novello. Voi mi donaste assai perché assai dar potete; poco io vi dono, perché non posso darvi di più; e siam del pari, se non per la forza, almen per l'animo certamente. Il dono dunque ch'io vi presento, è di una miserabile mia Commedia. Quel che sono opere mie, lo sapete. Niuno meglio di Voi ne può formare giudizio; è vano dunque ch'io ve ne parli. Di una sola cosa, intorno a questa che or vi presento, vi devo render ragione. Forse vi recherà meraviglia, che ad un Poeta, quale Voi siete, una commedia in prosa, anziché in verso, abbia voluto io dedicare. Ma ditemi, se Dio vi salvi, ad un poeta del vostro merito quai versi si dovevano presentare? Possono i miei in verun conto paragonarsi coi vostri? Non rispondete Voi; mi rispondano tutti quelli che vi conoscono. Dicalo prima di tutti il Serenissimo Signor Duca di Modona, che avendo ereditata dagli Avi la protezion delle Lettere, vari Poeti onora coll'augusto suo nome, ma Voi distingue col fregio di suo Poeta Primario. Dicalo l'Eccelsa Illustre Accademia Ducale, e tante altre a cui foste gelosamente ascritto. Ma quando finirei di scrivere, se tutti invitassi a rispondermi quei che del vostro sapere e dell'ammirabile vostra Poesia far possono testimonianza? Ciascuno sa che pochi Lirici al giorno d'oggi vi eguagliano; che i vostri sciolti hanno tutte le grazie italiane e tutta la forza greca; e se parliamo dei Martelliani (che Voi sapete aver io primo, dopo il Martelli, nelle commedie usati), sono i vostri così eleganti, così espressivi e vivaci, che si vergognano i miei di comparire al confronto. Pure vi degnaste più volte, dopo quei giorni per me torbidi e calamitosi, frammischiare il mio nome fra le dolcissime rime vostre, farlo risuonar dalle scene e uscir glorioso dai torchi. Grande è la vostra bontà, ma non voglio cimentarla presentandovi Commedia in versi. Pur troppo ne avete lette di queste arie mal rimate, e ne potete leggere in questo Tomo, ma a Voi non sono dirette; non mi potrete dir prosontuoso.

Spero sarete ben persuaso, che l'essere scritta in prosa questa Commedia, non le accrescerà un difetto di più e che se altri non la oscurassero, questo solo non la renderebbe imperfetta. Io trovo il verso nelle Commedie più comodo assai per me, che per gli Uditori. Quante volte ho io l'obbligazione alla rima di una bella espressione, di un bel concetto! quanto più spiegasi concisamente in verso! e quanto più diletto ritrovasi nel faticare! Ma il numero degli ascoltatori è diviso. Alcuni mi danno animo a seguitare i versi, altri mi vorrebbero ricondurre alla prosa. A Roma principalmente dove soffrono assaissimo le Commedie mie, non le vogliono sentire in versi, e deggio far la fatica di tradurle io medesimo in prosa.

So che siete Voi per i versi; ciò non ostante il mio rispetto fa che in questa, che vi offerisco, sia preferita la prosa; spero non per tanto l'aggradirete comunque sia, all'opera non riflettendo, ma al cuore che ve la porge, con cui vi assicuro di essere ossequiosamente.

Di Voi, Chiarissimo Signor Abbate,

Devotiss. Obbligatiss. Servidore ed Amico

Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa commedia sarebbe stata più fortunata, se alcune scene fossero state scritte con meno studio e con minor volontà di dir bene. Parve ad alcuni (o ad alcune) che i pensieri portati in Italia dal viaggiatore abbiano un po' dell'impertinente, e se mai tali massime venissero in qualche parte adottate, temono che si sconvoglierebbe il regno della galanteria. Oh verità benedetta, pochi ti vedono di buon occhio!

Lettor carissimo, avrei da dirti parecchie cose, ma il tempo stringe, e si avvicina la mia partenza per Roma. Come! (pare che tu mi dica) vai a Roma? Sì, vado a Roma. Ed abbandoni Venezia? No, spero in Dio di tornare. Ma perché vai a Roma? In pubblico i fatti miei non li voglio dire. Sei chiamato? Son chiamato. Da chi? Dal Teatro di Tordinona. A far che? A dirigere alcune Commedie mie, di quelle già fatte, e da me trasportate dal verso alla prosa; e mi danno di regalo... Non voleva dir niente, e ho quasi detto anche quello che non mi vien domandato. E il tuo Teatro in Venezia lo abbandoni così? Lo abbandono? Perché lo abbandono? A tenor della mia scrittura il mio dover l'ho adempiuto. Quando è così, va a buon viaggio. Sì, Lettor gentilissimo, spero che il Signore mi darà un buon viaggio e un felice ritorno, e che l'anno venturo ci rivedremo. Intanto pregoti non fare sopra di me di quelle scene che si fecero due anni sono, quando per essere stato in Parma al servizio di S.A.R., mio Padron clementissimo, si sono inventate di me tante favole, e che ero morto, e che ero decapitato, e che ero andato in Francia, in Spagna, nell'Indie, e che so io quante diavolerie si sono dette di me. Circa alle mie Commedie, i Comici son provveduti. Non mancherà loro il bisogno, e fra l'abilità loro e la mia preventiva assistenza, spero che il Pubblico non resterà malcontento. Dirà taluno: Questo discorso al Lettore si potea risparmiare. È vero, ma costa tanto poco, che ciascuno lo può soffrire pazientemente.


PERSONAGGI

Don GASPARO

Donna LAVINIA sua moglie

Donna FLORIDA

Don MAURO

Don PAOLUCCIO

Don EUSTACHIO

Don RIMINALDO

Don CICCIO

La LIBERA

La MENICHINA

ZERBINO

SERVITORE

La Scena si rappresenta in una casa di villeggiatura di don Gasparo.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Sala terrena di conversazione in casa di don Gasparo.

Don Riminaldoche taglia al faraone, Don Ciccio, Don Mauro, che puntano; Donna Floridae Don Eustachioad un altro tavolino, che giocano a picchetto. Donna Laviniasedendo da un'altra parte, leggendo un libro.

FLO. Facciamo che questa partita sia l'ultima; già non vi è gran differenza.

EUS. Finiamola presto dunque, che voglio veder di rifarmi alla bassetta. Colà giocano ancora.

FLO. Sì, sì, andate anche voi al tavolino di quei viziosi. Giocherebbono la loro parte di sole. Bella vita che fanno! giorno e notte colle carte in mano. Vengono in villa per divertirsi, e stanno lì a struggersi ad un tavolino. Questi giochi d'invito non ci dovrebbono essere in villeggiatura. Sturbano affatto la conversazione. (sempre giocando)

EUS. So che donna Lavinia ci patisce, che in casa sua si giochi d'invito.

FLO. Anch'ella ieri sera ha perduto vari zecchini, ed ora eccola lì con un libro in mano. Ma se ci fosse il suo cavaliere, non farebbe così.

EUS. Mi maraviglio di don Mauro, che fa il terzo in quella bella partita.

FLO. Non mi parlate di don Mauro, che mi si desta la bile. Tutto il giorno a giocare, e a me non bada come se non ci fossi.

EUS. Veramente un cavaliere polito, com'egli è, non dovrebbe far cosa che dispiacesse alla dama.

FLO. Sa che io ci patisco, quand'egli gioca, e vuol giocare per farmi dispetto.

EUS. Sapete che cosa m'ha egli detto ieri sera?

FLO. Che cosa v'ha detto?

EUS. Ve lo dirò, ma promettetemi di non dirgli niente.

FLO. Non dubitate: non glielo dirò certamente.

EUS. Mi ha detto che voi lo tormentate un po' troppo; che tutto quello che fa, secondo voi è mal fatto; che se parla, lo riprendete, se tace, lo rimproverate: onde, per ischivare d'essere tormentato, gioca in tempo che non giocherebbe.

FLO. Gioca, e non giocherebbe! don Mauro garbato! per non essere tormentato! (forte verso don Mauro)

EUS. Ma signora, voi mi avete dato parola di non parlare.

FLO. Io non gli dico, che voi me l'abbiate detto. Gioca per forza; per non essere tormentato. (forte come sopra)

EUS. Capirà bene che possa venir da me...

FLO. Non ci pensi, che avrà finito di essere tormentato. (forte come sopra)

EUS. Ho inteso. Abusate della mia confidenza.

FLO. No, don Eustachio. Dico così per ridere. Avete fatto lo scarto?

EUS. L'ho fatto. Gran cosa, che una donna non possa tacere.

FLO. Io non dico più di così. Cinquantaquattro del punto.

EUS. Non vale.

FLO. Quinta bassa.

EUS. Non è buona.

FLO. Tre re.

EUS. Non vagliono.

FLO. Come non vagliono?

EUS. Non vedete che vi mancano tre assi?

FLO. Dalla rabbia non so che cosa mi faccia. Bravo, signor don Mauro! Si diverta, per non essere tormentato. Spade uno. Spade due. Spade tre...

EUS. Voi non fate più cinque, signora.

FLO. Non m'importa. Vada al diavolo chi n'è causa. Don Mauro me la pagherà. (forte al solito, e getta le carte in tavola)

EUS. (Sia maledetto quando ho parlato). (da sé)

MAU. (Si stacca dal tavolino, e s'accosta a donna Florida)Mi avete chiamato, signora?

FLO. Oh signor no; la non s'incomodi. Vada a giocare.

MAU. Ho finito di giocare.

EUS. Avete vinto? (a don Mauro, mescolando le carte)

MAU. Ho perduto.

FLO. La testa.

MAU. Obbligatissimo.

EUS. Alzate, signora. (a donna Florida)

FLO. Finiamola questa partita. (alzando)

EUS. Chi vince alla bassetta? (a don Mauro)

MAU. Don Riminaldo.

EUS. Al solito. E don Ciccio?

MAU. Perde.

EUS. Perdo anch'io sei partite.

MAU. Donna Florida è buona giocatrice.

FLO. Brava seccatrice, vorrete dire.

MAU. Don Eustachio è troppo civile per pensar così delle dame.

FLO. È bene altrettanto incivile don Mauro.

MAU. A me, signora?

FLO. A lei per l'appunto.

MAU. Non mi pare di meritarlo.

EUS. Scartate, se vi piace. (a donna Florida)

FLO. Oh, per iscartare son fatta a posta. Principio da don Mauro.

MAU. Scarta me donna Florida? Che carta sono io?

FLO. Una cartaccia che non conta niente.

MAU. Finezze solite di una mia padrona.

FLO. Non dubitate che vi tormenti più, che non vi è pericolo. Non andate a perdere i danari alla bassetta, per istar lontano da me, che già io non ho bisogno di voi.

MAU. Che linguaggio è questo, signora?

FLO. Non vi è bisogno che andiate dicendo: gioco per liberarmi dal tormento di donna Florida. Se vi cerco più, possa essere scorticata.

MAU. (Don Eustachio mi ha fatto la finezza di dirglielo. A me poco importa; ma la sua non è buona azione). (da sé)

EUS. (Sono stato pur sciocco io a fidarmi). (da sé)

MAU. Lo sapete, se ho per voi del rispetto... (a donna Florida)

FLO. Oh, lasciatemi un po' giocare.

MAU. Desidero giustificarmi...

FLO. Quando voi giocate, io non vi vengo a seccare; fate lo stesso con me.

MAU. Benissimo. Sarete servita. (Don Eustachio è un amico da non fidarsene). (da sé, scostandosi, e va vicino a donna Lavinia)

EUS. Brava, donna Florida!

FLO. Mi avete dato due volte la mano. Rimescoliamo le carte, che tocca a me.

EUS. Chi non si confonderebbe, trovandosi in un impegno per cagion vostra?

FLO. Io non ho parlato di voi.

EUS. Ma egli ha capito benissimo...

FLO. Se non tacete, vi pianto.

EUS. (Cattivo impicciarsi con certe tali). (da sé)

MAU. Che legge di bello donna Lavinia? (accostandosi a lei)

LAV. Leggo un libro che mi dà piacere: La Primavera. Poema in versi martelliani.

MAU. Di chi è?

LAV. Di Dorino. Di un poeta che stimo per la sua virtù e per la sua modestia.

MAU. Dove trovasi questo libro?

LAV. È stampato in Venezia; ma se gradiste di leggerlo, vi posso servire di questo.

MAU. Vi sono critiche? Dice mal di nessuno?

LAV. Non signore. Quando fosse di tal carattere, non lo leggerei.

MAU. Dite bene. Ma il libro, se non critica, non averà molto spaccio.

LAV. Dovrebbe averlo appunto per questo, perché alla buona filosofia ha congiunta la più discreta morale.

MAU. Permettetemi che ne legga uno squarcio.

LAV. Servitevi.

FLO. Ha trovato di divertirsi il signor don Mauro.

EUS. Quindici, e sei ventuno, e tre assi ventiquattro...

FLO. Via, via: picchetto d'ottanta, e niente. Quattro partite. Restano due. Faremo pace un'altra volta. (s'alza)

EUS. Eccovi due partite. (mettendo la mano in tasca)

FLO. No, no, un'altra volta. (s'accosta verso don

Mauro)

EUS. Favorite... (seguendo donna Florida)

FLO. Che bel libro, signor don Mauro?

MAU. Un libro, che mi ha favorito donna Lavinia.

FLO. Donna Lavinia è una dama virtuosa, che divertirà il signor Mauro molto meglio di me.

MAU. Ma voi signora...

FLO. Io non sono buona che per tormentarvi: però vi consiglio a non venirmi d'intorno. Che s'io vi secco, voi mi avete inaridito da capo a piedi. (parte)

LAV. (Si sdegna per poco quella signora). (da sé)

EUS. (Meglio è ch'io vada, per isfuggire un rimprovero dall'amico). (da sé, e parte)

SCENA SECONDA

Donna Lavinia, Don Mauro Don Riminaldo, Don Ciccioche giocano.

MAU. (Don Eustachio sa la sua coscienza). (da sé)

LAV. Donna Florida mi scandalizza, don Mauro.

MAU. Io credo ch'ella abbia avuto in animo di scherzare.

LAV. Mi spiacciono in casa mia queste scene.

MAU. Per conto mio, non credo di aver dato motivo.

LAV. No, don Mauro, voi siete un cavalier savio e gentile; ma in verità, al giorno d'oggi compatisco quei che s'astengono dall'usare a noi altre donne delle attenzioni. Siamo troppo difficili, per dir il vero.

MAU. Non tutte, signora mia, sono tagliate a un modo. In quanto a me, pongo fra il numero delle felicità l'onore di onestamente servire una discreta dama.

LAV. Ne avete voi trovate delle discrete?

MAU. Se tutte somigliassero a voi, la servitù sarebbe un piacere.

LAV. Non è da vostro pari l'adulazione.

MAU. Perché vorreste voi che mi compiacessi adularvi? Per introdurmi con questo mezzo all'onor di servirvi? Siete impegnata con don Paoluccio, e non farei un torto ad un amico per tutto l'oro del mondo.

LAV. Né io son capace di usare ingratitudine con chi non la merita. Don Paoluccio mi ha onorato tre anni della sua amicizia. Ha pensato di voler far il giro d'Europa; me ne ha richiesto consiglio, ed io l'ho animato a porre ad effetto un sì ottimo pensamento. In due anni ch'ei manca, non potrà dire nessuno avermi veduta due giorni in compagnia di uno più che d'un altro. In città, in villa, tratto tutti con indifferenza, e se don Paoluccio vorrà continuarmi le sue finezze...

MAU. Non è egli ritornato alla patria?

LAV. Sì certamente. Mi ha avvisata del suo ritorno in città tre giorni sono; e a momenti l'aspetto qui, a terminare con noi la villeggiatura.

MAU. Può ben egli dirsi felice, servendo una dama che fra gli altri pregi, ha quello della costanza.

LAV. Io la credo necessarissima in una donna ch'è nata nobile.

MAU. Beato il mondo, se tutti pensassero come voi.

LAV. Don Mauro, non vorrei che donna Florida avesse occasione di pensare diversamente di me.

MAU. Volete dire ch'io m'allontani, non è egli vero?

LAV. Non fate ch'ella abbia a dolersi di voi.

MAU. Ma se più ch'io faccio, meno sono aggradito!

LAV. Regolatevi con prudenza.

MAU. Dubito che non ci potrò durar lungamente.

LAV. Vi prego durarla almeno fino che siete qui. Non amerei che in casa mia nascesse uno scioglimento, che dai bei spiriti si mettesse poi a mio carico.

MAU. Soffrirò in grazia vostra assai più di quello ch'io sia disposto a soffrire.

LAV. Vi sarò obbligata, don Mauro.

MAU. Andrò a divertirmi col vostro libro, se mi permettete.

LAV. E perché no colla dama?

MAU. Perché prevedo ch'ella sarà meco sdegnata.

LAV. E non vi dà l'animo di placarla? Colle donne convien essere un poco più tollerante.

MAU. Lo sarei con chi sentisse ragione. Lo sarei, se avessi l'onor di servire... Basta, vado per obbedirvi, e vi assicuro che donna Florida averà più obbligo a voi, che a me, delle mie attenzioni. (parte)

SCENA TERZA

Donna Lavinia; Don Riminaldoe Don Ciccioche giocano.

LAV. In fatti par impossibile che il temperamento di don Mauro possa adattarsi a quello di donna Florida. Ella è inquieta sempre, è sempre malcontenta, e pretende troppo. Ogni anno ella viene da noi, e la vedo sempre con visi nuovi. Non ha mai durato con lei una stagione intera un servente. Io non la posso lodare, ed è una di quelle amicizie che non m'importerebbe di perdere. Quest'anno non l'ho nemmeno invitata a venir con noi, ma ci viene da sé. È in possesso di venir qui; e le pare che sia casa sua questa. Ha un marito che non ci pensa, che la lascia andar dove vuole. Ma! il mio pure fa lo stesso con me. Viene in campagna meco, ma è come se non ci fosse. Il suo divertimento è la caccia. Le sue conversazioni le fa con i villani e colle villane: cosa che mi dispiace infinitamente, perché mio marito, benché avanzato un poco in età, lo amo e lo stimo, e non mi curerei di altro, s'egli si compiacesse di stare un poco con me. Signori miei, avete da giocar tutto il giorno? Non volete prendere un poco d'aria? Oggi abbiamo una bella giornata. Prima che venga l'ora di desinare, andiamo a fare due passi. (Spiacemi questo gioco. Don Ciccio non ne ha da perdere, e don Riminaldo guadagna sempre). (da sé)

RIM. Sono a servire donna Lavinia.

CIC. Mantenetemi gioco.

RIM. Un'altra volta. Oggi, questa sera.

CIC. Un punto ancora. Questo po' di resto.

LAV. Via, caro don Ciccio. Siate buono, e contentatevi così.

CIC. Sì, che mi contenti! dopo che ho persi i danari.

LAV. Avete perduto molto?

CIC. Mi par di sì, non mi son restati che dieci soldi.

LAV. Bravo, don Riminaldo, glieli avete guadagnati tutti al povero don Ciccio.

RIM. In tre ore che si gioca, quanto credete voi ch'io gli abbia guadagnato?

LAV. Non saprei.

CIC. Non mi ha mai dato un punto.

LAV. Capperi vuol dir molto. Gli averete guadagnato qualche zecchino.

RIM. In tutto e per tutto dodici lire.

CIC. Mi ha cavato dodici libre di sangue.

LAV. E un giocator della vostra sorte sta lì tre ore per un sì vile guadagno? (a don Riminaldo)

CIC. E non mette i dodici zecchini che ha guadagnato a don Mauro.

LAV. Compatite, signore, ve l'ho detto altre volte. Siete padrone di tutto, ma in casa mia non ho piacere che si facciano di questi giochi. Veniamo in campagna per divertirci, e non v'è cosa che guasti più la conversazione, oltre il giocar d'impegno. Anch'io ho perduto vari zecchini... Basta, non dico altro.

RIM. Io non invito nessuno. Mi vengono ad istigare; ma vi prometto che dal canto mio sarete servita. Al faraone non gioco più.

CIC. Oh, questa è bella. Non mi potrò ricattare io?

LAV. La perdita non è poi sì grande...

CIC. L'ho sempre detto: in questa casa non ci si può venire.

LAV. Nessuno vi ci ha invitato, signore.

CIC. Si perde i suoi danari, e non si può giocare.

LAV. Fatelo in casa vostra, e non in casa degli altri.

CIC. Volete venir da me a giocare? (a don Riminaldo)

RIM. Verrò a servirvi, se me lo permette donna Lavinia.

LAV. Per me, accomodatevi pure. Bastami che non si giochi da noi.

CIC. Prendiamo le carte. (prende le carte dal tavolino)

LAV. V'ho da mantenere a carte anche in casa vostra?

CIC. Gran cosa! un mazzo di carte usate! Siete ben avara. Quando avremo giocato, ve lo riporterò.

LAV. No, no. Servitevi pure. Non v'incomodate di ritornare.

CIC. Siete in collera? Faremo pace: con voi non voglio collera. So che avete un piatto di funghi preziosi. Ne voglio anch'io la mia parte.

LAV. No, signor don Ciccio: non vi prendete tanta libertà in casa mia.

CIC. Ho inteso. Bisogna lasciarvi stare per ora. Andiamo a giocare. (a don Riminaldo)

RIM. Ma avvertite, che sulla parola non gioco.

CIC. Giocheremo danari.

RIM. Mi diceste poco fa non aver altro che dieci soldi.

CIC. Guadagnatemi questi, e poi qualche cosa sarà.

RIM. Un'altra volta, signor don Ciccio. Non voglio disgustare donna Lavinia. Ella ha piacere che non si giochi, ed io, per obbedirla, non gioco. (parte)

LAV. Caro signor don Ciccio, risparmiateli quei dieci soldi. Siamo fra voi e me, che nessuno ci sente. Voi non ne avete da gettar via.

CIC. Se non ne ho da buttar via, non verrò da voi per un pane.

LAV. Lo so che non avete bisogno né di me, né di alcuno. Lo avete detto per ischerzo di voler venire a desinare da noi. Non sarebbe decoro vostro venir in un luogo, dove vi fanno le male grazie.

CIC. Eh, so che si scherza; so che mi vedono volentieri. Ci verrò per i funghi che mi piacciono, perché la mia cuoca non li sa cucinare. E poi, che serve? Con don Gasparo siamo amici. Amico del marito, servitor della moglie vengo qui di buon cuore, come se venissi da miei parenti. Ma che dico da miei parenti? Ho tanto amore per questa casa, che ci vengo come se venissi a casa mia propria (parte)

SCENA QUARTA

Donna Lavinia, poi Zerbino.

LAV. Veramente è una gran finezza che ci vuol fare. Don Ciccio è un di quei poveri superbi, che credono di onorare la casa, quando vengono a mangiare il nostro. Gran cosa che in una villeggiatura non s'abbiano ad aver solamente quelle persone che piacciono; ma che si debbano soffrire ancora quei che dispiacciono. Se don Gasparo volesse fare a mio modo... ma egli non si cura di niente. Non bada a chi va e chi viene. Tanti giorni non sa nemmeno chi mangi alla nostra tavola. Egli non pensa ad altro che alla sua caccia, e a divertirsi con i suoi villani. Bel marito che mi ha toccato in sorte! Ehi, chi è di là?

ZER. Signora.

LAV. È ritornato ancora il padrone?

ZER. Non signora, non si è ancora veduto.

LAV. A che ora è partito questa mattina?

ZER. Appena, appena si vedeva lume. Quei maladetti cani da caccia mi hanno destato, ch'io era sul primo sonno.

LAV. Che indiscretezza! partir dal letto senza dirmi nemmeno addio.

ZER. Non le ha detto niente, prima di levarsi dal letto?

LAV. Non l'ho sentito nemmeno.

ZER. È molto che non l'abbia sentito, perché, quando s'alzò il padrone, poco tempo poteva essere passato da che ella erasi coricata.

LAV. Così credo ancor io, ma il sonno mi prese subito.

ZER. Tutti due dunque si sono portati benissimo. Ella coricandosi ha lasciato dormire il marito, ed egli alzandosi non ha disturbato la moglie.

LAV. Gran dire che con don Gasparo non si vada d'accordo mai!

ZER. Anzi mi pare che vadano d'accordo bene. Se ciascheduno fa a modo suo, non ci sarà che dire fra loro.

LAV. Sarà andato alla caccia dunque.

ZER. Sì signora. Ha preso seco i suoi cani, il suo schioppo, un uomo con del pane, del salame e del vino, e camminava come se fosse andato a nozze.

LAV. Eh, quando andò a nozze, non camminava sì presto!

ZER. Sento i cani che abbaiano. Il padrone sarà tornato.

LAV. Sarà capace di non venir nemmeno a vedermi.

ZER. Vorrà prima riposare un poco.

LAV. Va a vedere s'egli è tornato. Digli che favorisca di venir qui.

ZER. Lo vuole subito?

LAV. Subito.

ZER. Puzzerà di selvatico.

LAV. Spicciati; non mi stordire.

ZER. (Poverina! la compatisco. Vorrebbe ora l'addio che non le ha dato questa mattina). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Donna Lavinia, poi Don Gasparoda cacciatore, collo schioppo in spalla.

LAV. Non so s'egli lo sappia, che oggi si aspetta don Paoluccio. Vorrei che gli si preparasse un accoglimento onorevole. È un cavalier che lo merita, ed ha per me una bontà assai grande. Oh, se mio marito avesse tanta stima di me, quanta ne ha don Paoluccio, sarei contentissima!

GASP. Eccomi qui ai comandi della signora consorte. Per venir presto, non mi ho nemmeno levato dalle spalle lo schioppo.

LAV. Eh voi quel peso lo soffrite assai volentieri.

GASP. Sì certo. Tanto a me piace lo schioppo, quanto a voi un mazzo di carte.

LAV. Io gioco per mero divertimento.

GASP. Ed io vado a caccia per mera soddisfazione.

LAV. Non so come facciate a resistere. Ogni giorno faticare, camminare, sudare! Non siete più giovinetto.

GASP. Io sto benissimo. Non ho mai un dolore di capo.

LAV. Fareste molto meglio a starvene a letto la mattina, come fanno gli altri mariti colle loro mogli.

GASP. Allora non istarei bene, come sto.

LAV. Già, chi sente voi, la moglie è la peggiore cosa di questo mondo.

GASP. La moglie è buona e cattiva secondo i tempi, secondo le congiunture.

LAV. I tempi e le congiunture fra voi e me sono sempre simili.

GASP. Perché non c'incontriamo nell'opinione.

LAV. Il male da chi deriva?

GASP. Non saprei. Io vado a letto alle quattro. Ci sto fino alle dodici. Ott'ore non vi bastano?

LAV. E chi è, che da questi giorni voglia andare a letto alle quattro?

GASP. E chi è colui, che ci voglia stare sino alle sedici?

LAV. Non c'incontreremo mai, dunque.

GASP. Mai, se seguiteremo così.

LAV. La sera non posso abbandonare la conversazione.

GASP. La mattina non lascierei la caccia per la più bella donna di questo mondo.

LAV. Per la moglie non si può lasciare la caccia?

GASP. Per il marito non si può lasciare la conversazione?

LAV. Bene. Lasciate voi la caccia, ch'io vedrò di sottrarmi dalla conversazione.

GASP. Verrete voi a dormire, quando ci anderò io? Verrete voi a letto alle quattro?

LAV. Sì, ci verrò. E voi starete a letto sino alle sedici?

GASP. Diavolo! dodici ore si ha da stare nel letto?

LAV. Dunque vi anderemo più tardi.

GASP. Dunque ci leveremo più presto.

LAV. Già, quando si tratta di stare meco, vi pare di essere nel fuoco.

GASP. Dodici ore di letto? altro che andare a caccia.

LAV. Ma io non posso la mattina levarmi presto.

GASP. Ed io non posso la sera stare levato tardi.

LAV. Pare siam fatti apposta per essere d'un umore contrario.

GASP. Divertitevi dunque, e lasciatemi andare a caccia.

LAV. E dopo la caccia, in conversazione con i villani e colle villane.

GASP. Io con i villani, e voi con i cavalieri. Se non v'impedisco di fare a modo vostro, perché volete impedirmi di fare al mio?

LAV. Bene, bene. Lo sapete che oggi si aspetta don Paoluccio?

GASP. Ben venga don Paoluccio, don Agapito, e don Marforio, e tutta Napoli, se ci vuol venire.

LAV. Voi forse non lo vedrete nemmeno.

GASP. Lo vedrò a desinare; non basta?

LAV. Un cavaliere amico di casa, che torna dopo tre anni, merita che gli si faccia un accoglimento grazioso.

GASP. Ehi! viene per trovar me, o viene per ritrovar voi?

LAV. Non è amico di tutti due?

GASP. Sì; ma circa all'accoglimento pensateci voi, cara donna Lavinia.

LAV. Qual camera, qual letto gli vogliamo noi dare?

GASP. Basta che non gli date il mio.

LAV. Spropositi! il vostro ed il mio non è il letto medesimo?

GASP. Per questo diceva...

LAV. Voi avete voglia di barzellettare.

GASP. Sono allegro questa mattina. Ho preso sei beccaccie, quattro pernici ed un francolino.

LAV. Ho piacere che vi sia del selvatico. Se viene don Paoluccio...

GASP. Oh, del mio selvatico don Paoluccio non ne mangia.

LAV. E che ne volete fare dunque?

GASP. Mangiarmelo con chi mi pare.

LAV. Colle villane?

GASP. Colle villane.

LAV. Si può sentire un gusto più vile?

GASP. Consolatevi, che voi avete un gusto più delicato.

LAV. Se non foss'io che sostenessi l'onore della casa...

GASP. Veramente vi sono obbligato. Se non ci foste voi, non averei la casa piena di cavalieri.

LAV. E che cosa vorreste dire?

GASP. Zitto; non andate in collera.

LAV. Se stesse a me, quanti meno verrebbono a mangiar il nostro. Don Ciccio per il primo non ci verrebbe.

GASP. Guardate che diversità d'opinione! Ed io quello me lo godo infinitamente.

LAV. Fra voi e me non si va d'accordo perfettamente.

GASP. Ehi, ps, ps. (chiama verso la scena)

LAV. Chi chiamate?

GASP. Chiamo quelle ragazze.

LAV. Che cosa volete da loro?

GASP. Quello che vogl'io, non lo avete da saper voi.

LAV. Andate lì; che bisogno c'è che le facciate venire in sala?

GASP. Non ci possono venire in sala? Avete paura che dai piedi delle contadine sia contaminata la sala della vostra nobile conversazione?

LAV. Quando ci sono io, non ci devono venire le contadine.

GASP. Il ripiego è facile, cara consorte.

LAV. Come sarebbe a dire?

GASP. Non ci devono essere, quando ci siete voi: io voglio che ci sieno, dunque andatevene voi.

LAV. Ho da soffrir anche questo?

GASP. Soffro tanto io.

LAV. Non occorr'altro; sarà questo l'ultimo anno che mi vedete in campagna.

GASP. Oh, il ciel volesse che mi lasciaste venir da me solo!

LAV. Indiscretissimo.

GASP. Tutto quel che volete.

LAV. Nemico della civiltà.

GASP. Sfogatevi pure.

LAV. Senza amore per la consorte.

GASP. C'è altro da dire?

LAV. Ci sarebbe pur troppo. Ma la prudenza mi fa tacere. Parto per non vi dire di peggio; perché l'onore non vuole ch'io faccia ridere la brigata di me, di voi, e del vostro modo di vivere e di pensare. Divertitevi colle villane; meritereste ch'io vi amassi come mi amate, e che insegnassi ad un marito indiscreto come si trattano le mogli nobili, le mogli oneste. (parte)

SCENA SESTA

Don Gasparo, poi la Menichina e la Libera.

GASP. Servitor umilissimo. (dietro a donna Lavinia)Ehi, venite, ragazze, che non c'è nessuno.

LIB. È andata via la signora?

GASP. Sì, è partita. Venite pure liberamente. Non abbiate paura.

LIB. Paura di che? Non ho paura di nessuno io.

MEN. Ed io? Non ho paura di mia madre; figuratevi se avrò paura di lei.

GASP. Lo sapete; quando ella c'è, non vorrebbe che ci veniste voi.

LIB. E io ci voglio venire. Son nata qui; son figlia di un lavoratore di qui; son moglie dell'ortolano; ci sono sempre stata, e ci voglio venire.

MEN. Quando ci veniva la padrona vecchia, ero sempre qua io, e mi voleva bene. Che cosa è di più questa signora sposa, che non mi vuole?

GASP. Lasciamo andare, lasciamo andare. Finalmente sono padrone io. Quando vi chiamo io, veniteci; quando c'è la signora, sfuggitela.

MEN. Lo so io, per che cosa è in collera meco.

GASP. Perché? che cosa le avete fatto?

MEN. Un giorno sono andata nella sua camera, ch'ella non c'era. Ho trovato sul tavolino un vasetto con certa polvere rossa; vi era la sua cagnolina; ed io, sapete che ho fatto? l'ho tinta tutta di rosso. È venuta la signora, la mi voleva dare uno schiaffo. Ho gridato: la cagnolina si è spaventata; è fuggita via; e tutta la villa ha detto che la cagnolina era dipinta come la sua padrona.

GASP. Avrei riso anch'io, se ci fossi stato.

LIB. E con me se sapeste per che cosa è sdegnata!

GASP. E perché è sdegnata con voi?

LIB. Perché vede che tutti quelli che vengono qui, mi vedono volentieri. Per bontà loro mi fanno delle finezze. Vengono a ritrovarmi a casa. Mi vogliono a ballar con loro.

MEN. E io dirò, come dice il signor don Eustachio, sono l'idolo di questa terra.

LIB. Il signor don Riminaldo m'ha detto cento volte, che se non ci fossi io qui, non ci verrebbe nemmeno lui.

GASP. Ehi, donne mie, a che gioco giochiamo? Non vorrei così bel bello venir qui io a farvi il mezzano. Mi è stato detto che si divertono con voi questi signori che mi favoriscono.

LIB. Signor don Gasparo, che dic'ella? Io sono una donna che, non fo per dire, ma nessuno può dire...

MEN. Io sono stata allevata da mia madre, che certo era una donna che per allevare...

LIB. E ponno fare con me, e ponno dire, che non c'è da dire...

MEN. Io sono una fanciulla, che non c'è da pensare…

LIB. Se venissero coll'oro in mano...

MEN. Né meno se mi dessero non so cosa..

LIB. E ho da fare con un marito...

MEN. Ho una madre, che per diana..

LIB. Qui ci si viene così, così...

MEN. Si viene, perché si viene...

GASP. Avete finito?

LIB. Se mio marito se lo potesse pensare.

MEN. Se io sapessi che si dicesse...

GASP. Non ancora?

LIB. Posso andare così io, colla faccia mia, sì signore.

MEN. E chi dicesse ch'io... per questo... non lo potrebbe dire...

LIB. E sono conosciuta da tutta questa viggilatura...

MEN. E la Menichina può stare in conversazione...

LIB. E domandatelo...

MEN. E sì signore.

GASP. Ma finitela una volta. Tenete, voglio regalarvi un poco della mia caccia.

LIB. Chi mi vuole, mi prenda; e chi non mi vuole mi lasci.

MEN. Non c'è pericolo ch'io dica...

GASP. Tenete. (dà qualche selvatico alla Libera)

LIB. Non sono una donna... che si lasci... così per poco...

GASP. Tenete voi. (fa lo stesso colla Menichina)

MEN. Se qualcheduno vuol dire, che cosa può dire? (prendendo il selvatico con disprezzo)

GASP. Questo è bello. Tenete. (alla Libera, poi alla Menichina)

LIB. Sono stomacata di queste cose. (come sopra)

MEN. Certe bocche non si ponno soffrire.

GASP. Ma voi mi avete stordito.

LIB. Chi è, che di me possa dire?

GASP. Nessuno.

MEN. Chi può vantarsi che io...

GASP. Nessuno.

LIB. Chi l'ha detto?

GASP. Nessuno.

MEN. Chi ha parlato?

GASP. Nessuno.

LIB. L'averà detto la signora.

MEN. L'illustrissima l'averà detto.

GASP. Oh povero me!

LIB. E se l'ha detto lei...

MEN. E se è venuto da quella parte...

LIB. Anch'io potrò dire.

MEN. Anch'io mi potrò sfogare.

GASP. Non posso più.

LIB. Che ne so di belle di lei.

MEN. E di lei, e di lui, e di loro.

GASP. Vado via.

LIB. E di loro, per cagione di lei.

MEN. E di lei, per cagione di loro.

GASP. E di lei non ci penso, e di voi sono stanco. Vado via: mi avete fatto tanto di testa. (parte)

LIB. Vado a dirlo al signor don Eustachio.

MEN. Vado a raccontarlo al signor don Riminaldo.

LIB. E gli voglio donare queste beccaccie. (parte)

MEN. Ed io gli voglio donare questa pernice. (parte)

SCENA SETTIMA

Donna Laviniae Donna Florida; poi Servitore.

FLO. Che voglia è venuta a don Mauro di giocare al trucco a quest'ora? Per causa sua tutti ci hanno lasciate sole.

LAV. È meglio che giochino al trucco, piuttosto che al faraone.

FLO. Fa cose don Mauro, che non si posson tollerare.

LAV. In che mai può mancare un cavaliere così compito, che ha tutti i numeri della civiltà e del buon garbo?

FLO. Cara amica, non sapete niente. Lo difendete, perché non lo praticate. L'uomo non ho veduto più disattento di lui. È capace di uscire dalla sua camera due ore dopo di me. Conoscerà ch'io non ho voglia di discorrere, e mi darà una seccatura terribile con istorielle che non importano niente affatto. Se siamo in camera soli, avrà l'abilità di prendere un libro, porsi a leggere, e lasciarmi dormire; e poi, quel ch'è peggio, se gli dico una parola, se gli do un rimprovero, si ammutolisce, non dice niente, mi lascia taroccar da me sola, che è una cosa che mi fa la maggior rabbia di questo mondo.

LAV. In verità, donna Florida, siete assai delicata: queste non mi paiono cose da farvelo dispiacere.

FLO. Ne sono stufa, stufissima, che non ne posso più.

LAV. Ho paura che vi piaccia mutar spesso i serventi.

FLO. Se non se ne trova uno, che sappia servire.

LAV. Non so che dire. Don Mauro mi pareva il caso vostro.

FLO. No, no; non è il mio caso per niente.

LAV. Ma perché dunque lo continuate a tener soggetto?

FLO. Perché non voglio star senza. Se qui ci fosse un altro che mi desse nel genio, vorrei farvi vedere a piantarlo caldo, caldo, di bel domani.

LAV. Povero cavaliere, gli vorreste fare un bel tratto.

FLO. Eh, non piangerebbe no per questo; e poi, se piangesse, ci sarebbe chi gli asciugherebbe le lagrime.

LAV. Chi mai, donna Florida?

FLO. Chi mai? Cara donna Lavinia, non entriamo in questo discorso.

LAV. Capisco benissimo che cosa volete dire, e l'ho capito poc'anzi ancora, quand'egli venne vicino a me per osservare quel che leggevo: ma v'ingannate assaissimo, non mi conoscete davvero. Stimo don Mauro, ma non vi è pericolo che ve l'usurpi. Prima di tutto, sono impegnata con don Paoluccio...

FLO. Stimo assai, che l'abbiate aspettato due anni.

LAV. E anche sei l'avrei aspettato. Non ho motivo di trattar male con chi meco ha trattato bene. Non lo lascierò per un altro; e senza questo ancora, assicuratevi, donna Florida, che non ho l'abilità d'insidiare nessuno, che rispetto le amiche, e male azioni non sono capace di farne.

FLO. Certamente, quantunque sia annoiata di don Mauro, mi spiacerebbe ch'ei fosse il primo a lasciarmi.

LAV. Per conto mio statene pur sicura.

SERV. Signora, è arrivato in questo punto il signor don Paoluccio.

LAV. Perché non viene innanzi?

SERV. Parla con il padrone.

LAV. Digli che l'aspetto, per dargli il benvenuto. (Servitore parte)

FLO. Donna Lavinia, mi rallegro con voi.

LAV. Per dir vero, son contenta del di lui arrivo.

FLO. Eccolo ch'egli viene correndo.

SCENA OTTAVA

Don Paoluccioe dette; poi Servitori.

LAV. Ben ritornato, don Paoluccio.

PAOL. Ben ritrovata, donna Lavinia. Servitore di donna Florida.

LAV. Avete fatto buon viaggio?

PAOL. Buonissimo. La fortuna ha preso impegno di favorirmi. I miei viaggi, le mie dimore, tutto è stato piacevole, e per compimento di due anni di vero bene, ho l'onore di riverirvi.

FLO. Molto compito, don Paoluccio.

PAOL. Mi rallegro, donna Florida, vedervi in compagnia di donna Lavinia. La vostra amicizia è sempre la stessa, costante, singolare, esemplare. (verso donna Lavinia)

LAV. La costanza della mia amicizia vi dovrebbe esser nota. (a don Paoluccio)

PAOL. È vero, ho prese anch'io le prime lezioni sotto una sì gentile maestra; ma! non saprei: l'aria del gran mondo guasta il cuore degli uomini. Lo credereste? Dacché manco dal mio paese, la mia costanza non ha avuto periodo lungo più di quindici giorni.

FLO. Veramente è una cosa comoda quel variare.

LAV. Dunque don Paoluccio non ha per me la bontà solita, non ha la solita stima.

PAOL. Sì certamente. Ho tutto il rispetto per donna Lavinia. Voi meritate di essere adorata. Ho sempre riputati felici i primi giorni della mia libertà che a voi ho sacrificata; e l'unico rammarico mio fu sinora, non sapere chi sia stato il mio successore nel possedimento della grazia vostra.

LAV. Voi mi offendete, dubitando che possa avere mancato con voi al dovere dell'amicizia.

PAOL. Questo è un dovere che non impegna a vivere solitari. Voi mi farete arrossire, se mi parlerete di cotali eroismi. So che lo dite per farmi insuperbire, ma non lo credo. Donna Florida, con realtà, in confidenza, chi è il cavalier servente di donna Lavinia?

FLO. Ch' io sappia, non ne ha nessuno.

PAOL. È oculata a tal segno? Non vuole che le sue inclinazioni traspirino? (verso donna Lavinia)

LAV. Arguisco dal vostro modo di dire, che giudicate in altri impossibile quella costanza di cui non siete capace.

PAOL. Facciamo a parlar chiaro, donna Lavinia. Torno al mio posto, se la piazza è disoccupata; ci ritorno a costo di riceverla dalle mani dell'ultimo posseditore: ma non mi obbligate a comparirvi dinanzi coll'impostura di una fedeltà romanzesca. Sarei stato costante, se avessi creduto necessario di esserlo; ve lo saprei dare ad intendere, se vi credessi pregiudicata a tal segno: ma io tengo per fermo, che la semplice servitù abbia più limitato il confine.

FLO. Dice benissimo. In distanza non obbliga la servitù. Non fa poco chi si mantiene in vicinanza costante, e mi piace infinitamente quella limitazione di una quindicina di giorni.

LAV. Sarebbe meglio per voi, don Paoluccio, che non aveste viaggiato.

PAOL. Anzi, compatitemi, io credo d'avermi procurato un gran bene. Oh, se sapeste di quanti pregiudizi liberato mi sono! In proposito dell'amore, ho scoperto de' grandi errori.

LAV. Avrete inteso a dir da per tutto, che l'onore impegna la parola del cavaliere.

PAOL. Eh, che non s'interessa l'onore in queste picciole cose.

FLO. Questa è una franchezza ammirabile. Dove l'avete appresa, don Paoluccio?

PAOL. Dove l'ho appresa, l'esercitano con troppo fuoco: l'ho temperata sotto un clima più docile. Ho fatto un misto di cose, che qualche volta mi hanno fatto del bene. Spero non mi renderanno indegno della grazia di donna Lavinia.

LAV. Per quindici giorni non prendo impegno.

FLO. È meglio quindici giorni di servitù polita, che un anno di servitù male aggraziata.

PAOL. Signora, voi avete sopra di me l'antico potere. La mia soggezione sarà illimitata.

LAV. Se questo mio da voi chiamato potere, non ha avuto forza di conservarsi in distanza, non posso lusingarmi di riacquistarlo sì presto. Questa sincerità che mi ha confessato la vostra incostanza, potrebbe ora essere tradita dalla soggezione. Però pensateci, che vi è tempo. Compatitemi, ci rivedremo. (in atto di partire)

PAOL. Voi andate a consigliarvi col mio rivale. Ci scommetto che il favorito è qui, senza che nessuno lo sappia.

LAV. Mi maraviglio che pensiate sì bassamente di me.

FLO. Eppure, eppure si potrebbe dare che faceste l'astrologo. (a don Paoluccio)

LAV. Donna Florida, voi mi offendete.

PAOL. Ecco qui i pregiudizi nostri; noi prendiamo sovente le galanterie per offese.

SERV. Quando comandano, si dà in tavola. (parte)

LAV. Andiamo, se vi contentate.

PAOL. Permettetemi ch'io vi serva. (a donna Lavinia)

LAV. La sala della tavola non è lontana: vi rendo grazie. (parte)

PAOL. Ma voi altre italiane siete pur puntigliose. (a donna Florida)

FLO. Oh, io non lo sono certo.

PAOL. Sempre più mi confermo, che donna Lavinia abbia la sua passione.

FLO. Anch'io ho de' sospetti.

PAOL. Due anni senza passione? Una donna costante in lontananza due anni? Non me lo dia ad intendere, che non lo credo. (parte)

FLO. Dice bene, non è da credere. In due anni io ne ho cambiati sette. Quando sono in campagna, non mi ricordo più niente di quelli della città; quando sono in città, non mi ricordo più niente di quelli della campagna. Sono amante della novità, e quando arrivi ad essere costante un anno, faccio subito testamento. Posso però vantarmi, che nessuno ancor mi ha piantato; che se ho la facilità di lasciar chi voglio, ho anche l'abilità d'incatenar chi mi preme. E s'io da per me stessa non li disciolgo, si disperano, si tormentano, ma stanno lì finch'io voglio, finché mi piace; fremono, ma stanno lì. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

La Libera e la Menichina coi loro cesti infilati nel braccio, coperti da un panno bianco.

LIB. Oggi non la finiscono mai di pranzare.

MEN. Sarà per causa del forestiere che è venuto.

LIB. Sarà contenta l'illustrissima signora dama, ch'è ritornato il suo damo.

MEN. E poi dirà di noi..

LIB. E ella fa peggio di noi...

MEN. Ella lo ha tutto l'anno al fianco, e noi solamente un poco ora, da questa stagione.

LIB. E ne avrà tre o quattro.

MEN. Io non parlo con altri che con don Gasparo e con don Eustachio.

LIB. Io con don Gasparo qualche volta, perché è il padrone di mio marito; per altro non faccio torto a don Riminaldo. Non vedo l'ora di dargli questo po' di selvatico. (accenna essere nel cestino)

MEN. Aspetto anch'io don Eustachio, per dargli questo. Credete voi che lo aggradiranno?

LIB. Eccome! Egli è vero che qui non lo mangieranno, perché don Gasparo loro dà da mangiare, ma lo manderanno in città a regalare gli amici.

MEN. Mi dispiace ch'è poco.

LIB. Se don Gasparo ce ne donerà dell'altro, lo serberemo per loro.

MEN. State zitta, voglio vedere se ne posso avere da Cecco.

LIB. Da Cecco lavoratore?

MEN. Sì, lo sapete che mi vuol bene, che mi ha fatto chiedere alla madre mia per isposa. Si diletta anch'egli nei dì di festa d'andare a caccia. Se prende delle beccaccie, voglio che me le doni.

LIB. Per darle al signor don Eustachio.

MEN. S'intende.

LIB. Anch'io ho mandato mio marito al bosco a raccogliere de' funghi, e li ho regalati a don Riminaldo.

MEN. Eh! anche don Eustachio mi dona poi qualche cosa.

LIB. Don Riminaldo mi ha portato quest'anno da coprire un busto.

MEN. E a me un bel paio di scarpe: ma zitto, che non vo' che Cecco lo sappia.

LIB. Le vedrà bene, quando le porterete.

MEN. Gli dirò che me le ha comprate mia madre.

LIB. E vostra madre non dirà niente?

MEN. Oh ella! me ne dessero, come ne prenderebbe!

LIB. Anche mio marito lo ha per ambizione, che mi regalino.

MEN. E le altre contadine hanno di noi un'invidia terribile.

LIB. Eccome! Dicono ch'io sono la favorita.

MEN. E me? Mi chiamano la figlia dell'oca bianca.

LIB. Vedete il paggio, che viene con non so che cosa nelle mani.

MEN. Andrà alla tavola facilmente. Vorrei far chiamare don Eustachio.

LIB. Sì, facciamolo; ma con maniera che non se ne avveda.

SCENA SECONDA

Zerbino con un tondo o altra cosa simile, con cose dolci; e dette.

ZER. Oh giovanotte, vi saluto.

LIB. Addio, Zerbino.

MEN. Dove andate ora?

ZER. A portar questi dolci.

MEN. Alla tavola?

ZER. Sì, alla tavola. Mi hanno mandato a prenderli dalla credenza.

LIB. Sarà stata la padrona, per fare onore al suo forestiere.

ZER. Oibò. È stato quello scroccone di don Ciccio, che li ha domandati. Dopo aver mangiato come un lupo, ha detto che non vi erano dolci in tavola, che se non mangia un poco di biscotteria sul fine, gli pare di non aver desinato. Il padrone si è posto a ridere, e mi ha mandato a prendere queste galanterie per soddisfare quel ghiottonaccio.

LIB. Ehi, dite: sono vicini a tavola donna Lavinia col forestiere?

ZER. Oibò; sono lontanissimi anzi. Uno da un capo, e uno dall'altro.

MEN. L'avranno fatto per guardarsi meglio nel viso.

LIB. Siete ben maliziosa, la mia Menichina.

MEN. Non si fa così anche da noi? Chi si vuol bene, non istà mai da vicino. Sono le occhiate che giocano.

ZER. Così fate voi altre ragazze in villa; ma in città tutto all'opposto: chi si vuol bene, procura starsi d'appresso, per poter giocar di piedino.

LIB. Donna Lavinia starà di lontano per non fare sospettare il marito. Per altro mi ricordo tre anni sono, che con don Paoluccio erano sempre vicini.

ZER. Ora pare che si conoscano appena. Egli non fa che parlare dei viaggi, delle città che ha veduto, delle avventure che gli sono accadute; e la padrona tiene gli occhi sul tondo, e non parla mai.

LIB. Eh, farà così...

MEN. La gatta morta...

LIB. Per non parere...

MEN. Perché non si dica...

LIB. Dopo tavola poi...

MEN. Al passeggio...

LIB. Nel laberinto...

ZER. Oh che buone lingue che siete! Vado, vado, che non mi aspettino.

LIB. Ehi, sentite. Vorrei che mi faceste un servizio.

ZER. Anche due, se son buono.

LIB. Vorrei... Ma non sono io veramente che lo vorrebbe, è la Menichina.

ZER. Son qui: anche alla Menichina.

MEN. Non occorre dire di me; lo vorressimo tutte due.

ZER. Comandatemi tutte due.

LIB. Vorrei che diceste... diteglielo voi, Menichina.

MEN. Se glielo dico io, non vorrei che credesse... diteglielo voi, madonna Libera.

LIB. Sentite. Vorrebbe la Menichina che diceste al signor don Eustachio e al signor don Riminaldo, che venissero qui, che una persona vorrebbe loro parlare.

ZER. La Menichina vorrebbe il signor don Eustachio e il signor don Riminaldo?

MEN. Per me, quando s'ha da dire, mi basta il signor don Eustachio.

ZER. Lo dirò a lui dunque.

LIB. Ditelo a tutti due.

ZER. Uno per lei, e uno per voi. (alla Libera)

LIB. Dite che venghino, e non pensate altro.

ZER. Una per l'uno, l'altra per l'altro. E per me niente.

MEN. Eh, voi avete la cameriera per voi. Non vi degnate di noi.

ZER. Mi degnerei io di voi, se vi degnaste di me.

LIB. Se non ci donate mai niente.

ZER. Che cosa volete che vi doni un povero ragazzo, che serve per le spese, senza salario?

LIB. Quell'altro che c'era prima di voi, mi donava sempre qualche cosa di buono.

MEN. Anch'io aveva sempre da lui qualche pezzo di torta, qualche bastone di cioccolata.

LIB. Quasi tutti i giorni mi dava il caffè, e mi regalava de' cartocci di zucchero.

MEN. E io? portavo via sempre qualche fiaschetto di vino buono.

ZER. Se potessi farlo, lo farei ancor io; ma non mi lasciano la libertà di poterlo fare.

LIB. Eh, quando si vuole, si fa.

MEN. Chi vi tiene ora, che non ci diate due di quei dolci che avete su quel tondino?

ZER. Il credenziere me li ha contati.

LIB. Anche il lupo mangia le pecore contate.

MEN. Due più, due meno, non se ne potranno accorgere.

ZER. Per due ve li posso dare. Uno per una.

MEN. Che ne ho da fare di uno?

ZER. Tenetene due dunque. (alla Menichina)

LIB. E a me niente?

ZER. E due anche a voi. (alla Libera)

LIB. Vi ringrazio.

ZER. L'è, che ne voglio due per me ancora. (ne prende due per sé)

MEN. Preziosi! datemene altri due. (dolcemente)

ZER. Altri due?

LIB. E a me, caro?

ZER. Caro?

MEN. Due soli

ZER. Tenete.

LIB. E a me?

ZER. Caro?

LIB. Sì, carino.

ZER. Tenete. Ma ne voglio altri due per me.

LIB. Ecco don Riminaldo.

MEN. E don Eustachio.

ZER. Povero me! la tavola sarà finita. Non sono più a tempo. M'avete fatto perdere...

LIB. Avete paura?

ZER. Oh, per ora non mi lascio vedere.

MEN. Dove porterete quei dolci?

ZER. Non lo so davvero.

LIB. Date qui, date qui. (gli leva il tondo di mano)

MEN. A noi, a noi. (s'accosta alla Libera)

ZER. Ma io come ho da fare?

LIB. Niente, niente; metà per uno. (divide i dolci colla Menichina)

MEN. Le parti giuste.

ZER. E a me?

LIB. Il tondo. (rende il tondino a Zerbino)

ZER. Almeno due.

LIB. Andate, che non vi trovino.

ZER. Voi avete gustato il dolce, e a me toccherà provare l'amaro. Basta, verrò da voi, che s'aggiusteremo. Addio, ragazze. Vogliatemi bene, che non vi costa niente. (parte)

SCENA TERZA

La Libera e la Menichina.

LIB. Che ne dite, eh? Il buon ragazzino!

MEN. Eh, non è poi tanto piccolo.

LIB. Certo, che per voi non sarebbe fuor di proposito.

MEN. Se potessi, mi mariterei in città volentieri.

LIB. Vi compatisco io; colà se ne vedono sempre delle belle parrucche.

MEN. E qui s'aspettano una volta l'anno.

LIB. Eccoli, eccoli.

MEN. Non vorrei che venisse qui la signora, e che ci trovasse.

LIB. Spicciamoci presto, che poco potrà tardare.

SCENA QUARTA

Don Eustachio, Don Riminaldoe dette.

EUS. Oh ragazze, che fate qui?

MEN. Aspettavo vossignoria. (a don Eustachio)

LIB. Ed io lei aspettavo. (a don Riminaldo)

RIM. Avete bisogno di qualche cosa?

LIB. Niente, signore, vorrei prendermi una libertà.

RIM. Dite pure; che non farei per la mia cara Libera?

MEN. E io pure gli vorrei dare una cosa, se si contentasse... (a don Eustachio)

EUS. Volete regalarmi? Io accetterò per una finezza.

MEN. La prego di godere per amor mio questo po' di selvatico.

EUS. Volete voi privarvene?

LIB. Noi non mangiamo di questa roba. Anch'io, signor don Riminaldo, la prego di accettare... (gli dà il selvatico)

RIM. Vi sono bene obbligato. Ma noi siamo qui trattati da don Gasparo, amico nostro.

LIB. Lo tenghi per sé, non lo faccia vedere a don Gasparo.

MEN. Lo mandi a regalare a qualche amico suo di città.

LIB. È fresco, fresco; preso questa mattina.

EUS. Da chi l'avete avuto questo selvatico?

LIB. L'ha preso mio marito.

MEN. Me l'ha regalato mio zio.

RIM. Non so che dire. Vi sono molto obbligato. (alla Libera)

LIB. Oh caro signore, che cosa non farei per vossignoria?

EUS. Gradisco il vostro buon cuore. (alla Menichina)

MEN. Il mio cuore, signore, gli vorrebbe dare qualche cosa di più.

RIM. Aspettate, qualche cosa voglio donarvi anch'io. Tenete questo fazzoletto da collo. (alla Libera)

LIB. Oh bello! Menichina. Bello! (mostrandole il fazzoletto)

EUS. (Avete niente da dare a me, che mi faccia onore?) (piano a don Riminaldo)

RIM. (Son buon amico. Servitevi). (dà a don Eustachio un involto con del gallone)

EUS. Tenete questo gallone per guarnire un paio di maniche. (alla Menichina)

MEN. Oh bello! Libera. Bello! (mostrando il gallone)

LIB. Il fazzoletto è bello.

MEN. Il gallone è più bello.

LIB. Obbligata. (a don Riminaldo)

MEN. Grazie. (a don Eustachio)

LIB. (Non dite niente, sapete). (alla Menichina, piano)

MEN. (Eh! nemmeno voi). (alla Libera piano)

LIB. (Dirò che me l'ha mandato... una mia sorella). (come sopra)

MEN. (Io dirò che me l'ha donato... chi mai?) (come sopra)

LIB. (Dite ch'io ve l'ho donato). (come sopra)

MEN. (Oh sì, sì, voi). (come sopra)

RIM. Vien gente, mi pare.

LIB. Oh andiamo, andiamo, che non ci vedano. Padrone la ringrazio tanto. Verrà a ritrovarmi; questa sera l'aspetto. (a don Riminaldo, e parte)

RIM. Arrivederci. (alla Libera)

MEN. Grazie. La riverisco. (a don Eustachio)

EUS. Vogliatemi bene. (alla Menichina)

MEN. Tanto, tanto. (parte)

SCENA QUINTA

Don Eustachioe Don Riminaldo, poi Don Gasparo.

EUS. Son godibili queste donne. Vi ringrazio del gallone, che a tempo mi avete dato, ditemi il valor suo, che intendo di soddisfarvi.

RIM. Ve lo dirò un'altra volta. Quando vengo in villa, porto sempre in tasca qualche cosa da regalare a costoro.

EUS. Esse a noialtri darebbono il cuore.

RIM. Ma che cosa vogliamo fare di questo selvatico?

EUS. Io non saprei. Possiamo darlo in cucina.

RIM. Ecco don Gasparo. Doniamolo a lui, che ci faremo un poco d'onore.

EUS. Sì, sì, lo gradirà, ora che c'è un forestiere.

GASP. Avete veduto il paggio?

EUS. Qui non l'abbiamo veduto.

GASP. Non si trova più il disgraziato.

RIM. Signor don Gasparo, compatite l'ardire. Ci permetterete di mandar in cucina questo po' di selvatico.

EUS. È poco, ma compatirete.

GASP. Vi ringrazio.

RIM. Eccolo. Voi ve ne intenderete.

EUS. Siete cacciatore; conoscerete se è buono.

GASP. Certo, son cacciatore; lo conosco, e conosco benissimo che queste pernici e queste beccaccie le ho ammazzate io questa mane con il mio schioppo. Come le avete avute?

RIM. Da un contadino...

EUS. Ci sono state...

RIM. Vendute.

GASP. Eh, ora che mi ricordo io le ho donate alla Menichina e alla Libera. Ed esse le avrebbono forse donate a voi, eh?

RIM. Non le potrebbono aver vendute?

EUS. Caro don Gasparo, accettatele da noi; graditele, e non curate di più. (Chi mai se lo poteva sognare?) (da sé, e parte)

RIM. Il dono è sempre dono. I doni girano; e non c'è un male al mondo per questo. (Quest'accidente mi fa un poco ridere, e un poco arrossire). (da sé, e parte)

GASP. Ho capito. Egli è poi vero, che questi signori ospiti villeggianti non si contentano di mangiare e di bevere in casa mia, e di giocare; ma vogliono anche il divertimento delle villanelle, e colle mie s'attaccano; e io fo loro il mezzano. Ed io regalo le donne, e le donne regalano loro. Bella, bella, da galantuomo. Causa mia moglie; causa ella di tutto. Se non fosse per lei, verrei qui solo, da me, e tutto il buono sarebbe il mio. Hanno avuto il selvatico, e dopo il selvatico si prenderanno il domestico. Basta, basta, non ne vo' più. Un altro anno, io a ponente, e la signora a levante. Già a che serve che stiamo insieme? Ella viene nel letto quando io mi alzo. Povero matrimonio! (si soffia sulla mano, e parte)

SCENA SESTA

Donna Lavinia, Donna Florida, Don Mauro e Don Paoluccio.

PAOL. Compatitemi, se mi scaldo in un proposito che mi tocca sul vivo. Il signor don Mauro ed io siamo di contraria opinione intorno ad alcune massime della vita civile. Donna Lavinia si è dichiarata del suo partito; ed io non son contento, se non vi vedo convinti.

LAV. Sarà difficile, signor mio caro...

FLO. Lasciatelo parlare, se volete intendere la ragione.

PAOL. Qui s'abbiamo a battere non colla spada, ma colle parole.

LAV. Ricordatevi, che le leggi di buona cavalleria vogliono che sia il combattimento con armi eguali. Voi non l'avete da soverchiare.

PAOL. Volete dire, ch'io parlo troppo. L'avete detto con grande spirito: alla maniera francese. Un frizzo simile mi disse un giorno madama di Sciantillon, cognata del duca di Scenleuriè.

FLO. Fan buono queste applicazioni concise.

MAU. Voi non mi farete uscire dal mio costume. Se vi comoda udire le mie ragioni, ascoltatele: quando no, io non vo' gareggiare né colla vostra voce, né colle vostre parole.

PAOL. Parliamo alla foggia vostra, basso quanto volete, e adagio quanto vi comoda. Sediamo, se comandate.

LAV. Chi è di là? Da sedere. (Servitori accostano le sedie, e tutti siedono)

PAOL. Favorite, don Mauro, acciò possiamo ridurre la questione al suo vero principio. Favorite darmi la definizione della costanza.

MAU. La costanza è una fermezza d'animo, una perseveranza in un proposito creduto buono, la quale né dal timore, né dalla speranza può essere deviata.

PAOL. Signore mie, vi sottoscrivete a questa definizione? (alle donne)

LAV. Io sì certamente, e non può essere concepita meglio.

FLO. Io non ne sono assai persuasa. Mi aspetto da don Paoluccio qualche cosa di più.

PAOL. Per dir il vero, la definizione di don Mauro è scolastica troppo, e troppo comune. Questo termine di perseveranza è buonissimo in altre occasioni, non in quella in cui ci troviamo, non nel proposito di cui si tratta. Piacquemi, quando egli disse essere la costanza una fermezza d'animo; ma l'animo può esser fermo, senza essere perseverante. Fermezza non vuol sempre dire durevolezza in un proposito che non si muta; ma fortezza, virilità, superiorità di spirito nelle passioni, quello che dagli oltramontani si chiama spirito forte: ond'io riduco la virtù ammirabile della costanza ad una intrepidezza di animo che tutto soffre, e delle proprie passioni non si fa schiavo.

LAV. Voi dunque distruggete la fedeltà.

PAOL. No, perdonatemi, non la distruggo; ma questa bella virtù non può mai esser tiranna.

MAU. Permettetemi dunque ch'io dica...

FLO. Voglio dire la mia opinione ancor io. Ho paura che voi altri signori abbiate preso una chimera per argomento; prima di decidere qual sia la fedeltà e la costanza, conviene riflettere se la costanza, se la fedeltà, si ritrovino.

PAOL. Bellissima riflessione. Se donna Florida fosse stata a Parigi, non potrebbe dir meglio. Colà si burlano di queste passioni sì malinconiche; ma io sono ancora italiano; non voglio adular me stesso, facendo forza per non sentirle; intendo profittar solamente delle cognizioni acquistate, per moderarle; e vorrei far questo bene alla patria mia, spregiudicando un poco gli animi, che si affaticano per impegno a tormentar se medesimi.

LAV. Ringraziate il cielo, don Paoluccio, che vi siete ben bene spregiudicato; voi non mi tormenterete, per quel ch'io sento, colla soverchia costanza.

PAOL. Io non dico per questo...

MAU. Signore, voi avete finora parlato solo. Se mi darete luogo a rispondere...

PAOL. Bene; è giusto che difendiate la vostra tesi.

FLO. Scommetterei la testa in favore di don Paoluccio.

MAU. Alla costanza, di cui parliamo dee presupporsi un impegno. Che un uomo volesse essere costante (per esempio) nell'amare una donna che non lo amasse, nel servire una dama che nol gradisse, la sua non si potrebbe dire costanza, ma ostinazione o stoltezza, poiché le virtù non vanno mai disgiunte dalla ragione. Supposto dunque l'impegno che lega l'animo colle parole, necessaria è la costanza per uno de' due motivi, o per affetto, o per gratitudine. Chi per affetto è costante, prova dolci le sue catene; chi è astretto ad esserlo dalla gratitudine, non può sottrarsi senza un delitto. Chi crede poterlo fare, mi ha da trovare una legge che autorizzi l'essere ingrato per proprio comodo, che distrugga le convenienze tutte della vita civile, e riduca la società all'interesse unico della propria soddisfazione, rendendo l'uomo ben nato alla vilissima condizione di chi non conosce i vincoli dell'onore.

LAV. Ah, don Mauro, voi avete studiato le vere massime dell'onest'uomo. Mi glorio sempre più di quel cielo sotto di cui son nata, se altrove pensasi diversamente.

PAOL. Credete voi che il ragionamento di don Mauro non ammetta risposta?

FLO. Benché io non sia stata né a Parigi, né a Londra, vorrei, donna qual sono, abbattere i di lui sofismi.

LAV. Non è cosa meravigliosa, che fra di noi si trovi chi non pensa nella maniera comune.

PAOL. Anche a Parigi si suol dir per proverbio: tante teste, e tante opinioni. Ma la più universale è questa: abbiamo tanti mali congiunti alla nostra misera umanità; perché vogliamo noi procacciarci di peggio, con una serie d'incomodi dalla nostra immaginazione prodotti?

MAU. L'esentarsene è cosa facile. Niente obbliga in questo mondo ad incontrare un impegno che costi pena. La costanza può trionfare egualmente nella libertà degli affetti. Mi spiegherò con un paragone: chi obbliga l'uomo a contrarre un debito con un altr'uomo, facendosi, per esempio, prestar danaro od altra cosa di che abbisogni? Ma contratto che ha il debito, qual legge lo disimpegna dalla dovuta restituzione? Chi obbliga un cavaliere alla rispettosa servitù di una dama, impegnandola a distinguere lui dagli altri? Ma ottenuta la distinzione con il reciproco impegno, qual legge d'onestà lo può esimere dalla costanza?

PAOL. Il paragone è fuor di proposito. Poiché chi contrae un debito, sa di dover restituire cosa che ha realmente ottenuta; e quest'impegni di servitù sono, come suol dirsi, castelli in aria.

LAV. (Alzandosi)Orsù, vedo che il vostro ragionamento si avanzerebbe un po' troppo. Lasciatemi continuare nell'abbaglio de' miei pregiudizi, giacché non avete l'abilità di disingannarmi. Restate voi nella quiete delle novelle massime, che avete sì facilmente adottate. L'unica grazia che ardisco chiedervi, è questa: parlatemi di tutto altro, che di servitù e di costanza. (parte)

SCENA SETTIMA

Donna Florida, Don Mauro, Don Paoluccio.

PAOL. Eccola montata in isdegno. La conversazione è finita. Qui non si può sperare di trattar lungamente un articolo di galanteria. A Parigi, in una questione simile, sarebbesi trovata materia di discorrere una veglia intera.

FLO. Donna Lavinia è dominata dalla passione. Le spiace che don Paoluccio, dopo due anni d'assenza, torni colle massime di uno spirito forte. Un po' più debole lo vorrebbe sul proposito di cui si tratta.

PAOL. Io non ho detto per questo di aver cambiato nell'animo il proposito di servirla; ma vorrei ch'ella mi accordasse il merito della gratitudine, senza l'obbligo della costanza.

MAU. Amico, la distinzione vostra, la vostra bizzarra idea, ha un poco troppo del metafisico. Le donne fra di noi non sono a tal segno speculative, e se lo sono, non crediate ch'esser lo vogliano in nostro solo vantaggio. Il disimpegno vostro dalla costanza è una proposizione che salta agli occhi. Voi le comparite in aria d'un uomo franco, e la franchezza vostra ha tutto l'aspetto della indifferenza, la quale rammentando gli impegni vostri, non può che dirsi incostanza.

PAOL. S'ella pensa così di me, non so che giudicare di lei. Posso credere che non le dispiaccia trovarmi disposto a lasciarla nella sua libertà, e posso eziandio giudicare che i vostri ragionamenti tendano a confermarla nelle sue massime, per occupare il mio posto. Se così fosse, userei la costanza dell'animo mio nel non curarmi di lei, ma altresì delle mie ragioni, per sostenere i miei diritti contro di voi.

MAU. Amico, voi non mi conoscete. La materia di cui si tratta, è delicata un po' troppo. Nel luogo in cui siamo, non mi è lecito giustificarmi, assicuratevi però, che in ogni altro sito mi troverete pronto a difender l'onor della dama ed il mio. (parte)

SCENA OTTAVA

Donna Floridae Don Paoluccio.

FLO. Credetemi, don Paoluccio, che voi non pensate male. Il cuore di don Mauro e quello di donna Lavinia veggio che s'intendono. Dai detti loro poco si può raccogliere, ma gli occhi mi fanno dubitare di qualche cosa.

PAOL. È bellissima la pazzia di favellare cogli occhi; di là dai monti non s'usa. Ma s'io non erro, donna Florida, parmi aver rilevato, dalle poche ore che qui mi trovo, che don Mauro sia il cavalier che vi serve.

FLO. Volete dire il cavalier che m'annoia. Son pochi mesi che mi fa le sue distinzioni. L'ho accettato, conoscendolo poco; ma il suo temperamento non ha che far col mio.

PAOL. È melanconico, egli mi pare.

FLO. Ed io sono allegrissima. Oh, vedete se andiamo d'accordo. Ma quest'è il meno. Pare anche geloso.

PAOL. Geloso di che? Non siete voi maritata?

FLO. Non sapete che questi nostri adoratori sono gelosi perfino delle parole nostre?

PAOL. Oh Francia felicissima in questo, perché in essa la gelosia è sconosciuta. Guai a quell'uomo, in cui notata fosse una sì vil passione. Fanno studio anzi gli amanti, non che i serventi, di occultare in faccia del pubblico la parzialità, l'inclinazione, l'amore. Pompa si fa dell'indifferenza. Non vedrete mai nei ridotti star vicine due persone che s'amino. Non vedrete mai al passeggio incontrarsi affettatamente due che abbiano dell'inclinazione. Vegliano sopra di ciò i curiosi; e guai a chi è scoperto per debole; diviene il ridicolo delle conversazioni. Mi direte voi: colà non si ama? Vi risponderò, che si ama. Mi domanderete: di che si pasce l'amore? Vi dirò, che tutto il mondo è paese, ma che in pubblico l'amore cede il luogo alla società, e non s'incomoda altrui per il frenetico umore della gelosia.

FLO. Don Paoluccio, le vostre parole m'incantano. In un luogo simile viverei vent'anni di più.

PAOL. Certamente a Parigi voi fareste col vostro spirito una figura non ordinaria.

FLO. Ma se la mia costituzione non mi permette di andarvi, non sarebbe però impossibile che s'introducesse qui il bel costume.

PAOL. Principiate voi ad usarlo.

FLO. Sola non posso farlo. Se voi mi deste animo coll'opera e col consiglio...

PAOL. Facilissimo è il farlo. Avete voi dell'inclinazione per me?

FLO. Chi non l'avrebbe per un cavaliere di tanto spirito?

PAOL. Io l'ho per voi. Ecco fatto il contratto della nostra amicizia.

FLO. Che dirà donna Lavinia?

PAOL. Ella non lo ha da sapere.

FLO. Se ne accorgerà col tempo.

PAOL. Non se ne deve accorgere.

FLO. Ma se vedrà che mi usate delle distinzioni?...

PAOL. Questo è quello che non deve né da lei, né da altri, vedersi. Io non userò distinzioni a voi; voi non ne userete a me.

FLO. Come si coltiverà la nostra amicizia?

PAOL. Col sapere che siamo amici.

FLO. Vedendosi solamente?

PAOL. Vedendoci in mezzo agli altri; favellandoci all'altrui presenza; ma in cotal modo, che né dalle nostre parole, né dagli occhi nostri, si possa arguire la nostra occulta parzialità.

FLO. È un poco difficile veramente.

PAOL. Il merito sta appunto nella difficoltà.

FLO. Mai ci abbiamo a vedere a quattr'occhi?

PAOL. Non abbiamo da procurarlo. Il tempo offre a caso dei momenti felici.

FLO. Il metodo è assai bizzarro. La novità mi piace; ma se don Mauro, o alcun'altro più gentile di lui, credendomi in libertà, mi offerisce servirmi?

PAOL. Accettate la servitù. Noi rideremo della lor debolezza, e saremo amici senza essere conosciuti.

FLO. Questo mi proverò di farlo. E voi, se donna Lavinia insiste perché le facciate giustizia?

PAOL. La servirò in pubblico per convenienza; ma noi in segreto saremo amici.

FLO. E qual pro della nostra amicizia?

PAOL. Il piacere unico di saperlo noi soli.

FLO. Si riduce a poco, mi pare.

PAOL. Provatelo, e vi chiamerete contenta. Assicuratevi, che in ciò consiste la più fina delicatezza della passione. Viva chi ha inventato il felice metodo; viva Parigi; non ci lasciamo trovare uniti. Principiamo da ora l'osservanza delle nostre leggi. Siamo amici. Vi servo coll'animo. Il cuore è vostro. Addio, madama, non mi ricercate di più. (parte)

SCENA NONA

Donna Floridasola.

FLO. È poco veramente, è poco. Non che mi caglia d'aver vicino il servente, per aver in esso un amante. Son maritata, son dama onesta, e non posso pensare diversamente dal mio carattere e dal mio costume. Ma che dirà di me il mondo, se mi vedrà andar sola, senza uno che con impegno mi favorisca? Chi potrà mai immaginarsi, che il mio cavaliere mi serva alla moda di Francia? Non so che dire. Proverò per un poco, e se non mi comoda la foggia nuova, penerò poco a ritornare all'antica. (parte)

SCENA DECIMA

La Libera e la Menichina.

LIB. Sono andati via tutti; non c'è più nessuno.

MEN. Se tornasse qui don Eustachio, glielo vorrei dire che non mi basta.

LIB. Non vi basta l'argento per le maniche?

MEN. No; ne mancherebbono quattro dita.

LIB. Aspettiamolo, che verrà.

MEN. Se voi non volete restare, non preme, ci starò da me.

LIB. Carina! vorreste restar qui sola, eh?

MEN. Dico così, perché ho sentito dire dalla castalda, che vostro marito vi cerca.

LIB. Che importa a me di mio marito? Mi cerchi pure, a qualche ora mi troverà.

MEN. Non vorrei che per causa mia vi gridasse. L'ho sentito dire anche questa mattina, che non ha piacere che venghiate qui.

LIB. È curioso quel mio marito. Non vorrebbe ch'io venissi, che praticassi; e poi, quando ha bisogno di qualche cosa, si raccomanda a me. Se non foss'io, non si starebbe nella casa dove si sta. Non paga mai la pigione, e il padrone di casa non dice niente.

MEN. Sta zitto per voi?

LIB. E per chi poi? Per me.

MEN. Anche mia madre mi racconta, che quando andava in città con mio padre, stavano dei mesi da un suo compare, e non ispendevano niente.

LIB. Quand'io vado in città, mio marito non ce lo voglio; ma quando torno poi, gli porto sempre qualche cosa.

MEN. Non ci sono stata ancora in città io; mia madre non mi ci vuol condurre.

LIB. Perché non vi vuol condurre?

MEN. Dice così, che le pietre della città scottano e bruciano per noi altre.

LIB. Per dirla, non dice male. E si trovano certi tali...

MEN. E chi sono?

LIB. Sono gente, che quando possono...

MEN. Che cosa fanno?

LIB. Lo sa ben vostra madre.

MEN. E voi lo sapete?

LIB. So, e non so. Così, e così...

SCENA UNDICESIMA

Don Ciccioe dette.

CIC. Oimè non posso più. Mi sento crepare.

LIB. Che c'è, signor don Ciccio?

CIC. Ho mangiato tanto, che non posso più.

MEN. Sarà stato un bel desinare.

CIC. Roba assai, ma tutta cattiva.

LIB. Se la roba era cattiva, perché ha mangiato tanto?

CIC. Perché, quando ci sono, ci sto. L'appetito ordinariamente non mi serve male.

MEN. Mi ricordo ancora, quando è venuto da noi il signor don Ciccio. Ha mangiato egli solo quello che doveva servire per tutti gli uomini che crivellavano il grano.

CIC. Val più una minestra delle vostre, e un paio di polli grassi, com'erano quelli di quel giorno, che tutto il desinare di oggi. Uno di questi giorni ci vo' tornare da voi. (alla Menichina)E anche da voi voglio venire, madonna Libera.

LIB. Sarò anche capace di dargli da desinare. Non siamo signori, ma abbiamo il nostro bisogno in casa; abbiamo le nostre posate di stagno, i nostri tondi di terra, la nostra biancheria di lino nuovo.

CIC. Lasciatemi sedere, che la pancia mi pesa. (siede)

MEN. Che cosa ha mangiato di buono?

CIC. Ho mangiato due piatti di minestra, un pezzo di manzo che poteva essere una libra e mezza, un pollastro allesso, un taglio di vitello, un piccione in ragù, un tondo ben pieno di frittura di fegato ed animelle, due bragiolette colla salsa, tre quaglie, sedici beccafichi, tre quarti di pollo grasso arrostito, un pezzo di torta, otto o dieci bignè, un piatto d'insalata, del formaggio, della ricotta, dei frutti, e due finocchi all'ultimo per accomodarmi la bocca.

LIB. Non si può dire che non si sia portato bene.

MEN. Mi par che sia stato un buon desinare, e perché dice tutta roba cattiva?

CIC. Era tutto magro; vi era pochissimo grasso. A me piace la carne grassa: i polli colla pelle grassa, i stufati col lardo grasso, l'arrosto che nuoti nel grasso, e anche l'insalata la condisco col grasso.

LIB. Come diavolo vi piace il grasso, e siete così magro?

CIC. Ho piacere io d'essere magro; se fossi grasso, mangierei meno. Perché, vedete? il grasso che si vede di fuori, è anche di dentro; e si restringono le budella, e vi capisce tanta roba di meno. (sbadiglia)

LIB. Gli piace molto il mangiare, signor don Ciccio.

CIC. In che cosa credete ch'io abbia consumato il mio? Tre quarti in mangiare, e un quarto negli altri piccoli vizi. Se si potesse vivere senza mangiare, tant'e tanto vorrei mangiare. (sbadiglia)

LIB. Ha sonno, signor don Ciccio?

CIC. Quando ho mangiato, mi vien sonno. Se fossi a casa mi spoglierei tutto, e andrei a gongolare nel letto.

MEN. Se ha sonno, può dormire anche qui. Queste sedie poltrone sono buonissime per dormire.

CIC. Non vi è pericolo; quando non sono a letto con tutti i miei comodi, non posso dormire. (va sbadigliando e contorcendosi per il sonno)

LIB. Io poi, quando ho sonno, dormo per tutto.

CIC. Volete mettere voi con me? (stirandosi)

LIB. Come sarebbe a dire? Chi sono io?

CIC. Voialtre avete gli ossi duri. (appoggiando le testa)

LIB. Noialtre? Chi siamo noialtre?

CIC. Sì... due gentildonne... di campagna. (addormentandosi)

LIB. Or ora, se non fossimo qui...

MEN. Non vedete? è briaco, che non sa quello che si dica.

LIB. Scrocco, che va a sfamarsi di qua e di là.

MEN. Linguaccia cattiva.

LIB. Venga, venga da me, che sarà ben accolto!

MEN. Neanche da noi non iscrocca più certo. Lo dirò a mia madre.

LIB. Ehi! dorme. Quello che, se non è sul letto, non può dormire.

MEN. Ha le ossa delicate, il signor porcone.

LIB. Mi vien voglia ora di pelarlo come un cappone.

MEN. Se avessi un lume, vorrei dar fuoco a quella sua parrucca di stoppa.

LIB. Facciamo una cosa, giacché dorme, leghiamolo.

MEN. Con che volete che lo leghiamo?

LIB. Osservate, che gli cadono i legaccioli delle calze.

MEN. Che sudicione!

LIB. Procuriamo levarglieli del tutto, e leghiamolo alla sedia.

MEN. Sì, sì, facciamolo. Pian piano, che non si desti. (gli vanno levando i legaccioli, e poi lo legano alla sedia)

LIB. Io crederei che questi nodi non si sciogliessero.

MEN. Né meno i miei certamente.

LIB. Lasciamo che si desti da sé.

MEN. Vien gente; non ci facciamo vedere. (parte)

LIB. Sta lì, mangione, scroccone; che tu possa dormire sino ch'io ti risveglio. (parte)

SCENA DODICESIMA

Don Ciccioaddormentato e legato; poi Don Riminaldoe Don Gasparo.

RIM. Caro amico, non vi offendete di questo. Sono galanterie.

GASP. Ma io queste contadinelle me le vado allevando... Chi è quello?

RIM. Don Ciccio.

GASP. Dorme?

RIM. Non volete ch'ei dorma? Ha mangiato e bevuto come un vero parassito.

GASP. Oh diavolo! chi l'ha legato?

RIM. Qualcheduno che si è preso spasso di lui.

GASP. Questa la godo da galantuomo. Bisognerebbe destarlo.

RIM. Se ci vede, crederà che siamo stati noi, e se n'averà a male. Sapete che lingua egli è.

GASP. Eh niente; sono burle che in villeggiatura si fanno. Aspettate; ora mi viene in mente di far la cosa più amena. Sapete tirar di spada voi?

RIM. Qualche poco.

GASP. Aspettatemi, che vengo subito. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Don Riminaldo, Don Cicciocome sopra; poi la Libera e la Menichina.

RIM. Ma chi può essere mai, che siasi preso lo spasso di legare don Ciccio?

LIB. Ehi. (si fa un poco vedere)

RIM. Oh madonna Libera, che vuol dire? qui ancora?

LIB. Vedete don Ciccio?

RIM. L'hanno legato.

LIB. Zitto: sono stata io.

RIM. Bravissima.

MEN. E una manina ce l'ho messa anch'io. (facendosi vedere)

RIM. Brave tutte due. Ecco qui don Gasparo.

LIB. Zitto. (parte)

MEN. Non gli dite niente. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Don Riminaldo, Don Cicciocome sopra, Don Gasparo

con due spade, due cappelli di paglia, due mute di baffi.

GASP. Presto, presto.

RIM. Che imbrogli avete portato?

GASP. Levatevi il giustacore.

RIM. Perché?

GASP. Fate quel che vi dico. Me lo levo anch'io.

RIM. Eccolo levato.

GASP. Mettetevi questi baffi e questo cappello di paglia.

RIM. Bene, e poi? (fa come dice don Gasparo)

GASP. Tenete questa spada spuntata; tiriamoci de' colpi, facciamo svegliare don Ciccio, e facciamolo spiritar di paura.

RIM. Ma non vorrei...

GASP. Quando ci sono io, di che cosa potete voi dubitare?

RIM. Facciamo come volete.

GASP. Animo. Ah!

RIM. Ah! (si tirano dei colpi)

CIC. (Si sveglia)Aiuto.

GASP. Ti voglio cavare il cuore. Ah!

RIM. Ti caverò l'anima. Ah! (tirano verso don Ciccio)

CIC. Oimè! sono assassinato. (Li due seguono a tirar fra li loro, prendendo in mezzo don Ciccio, il quale, trovandosi legato, fa sforzi per isciogliersi; ed essi due dopo qualche tempo si ritirano, mostrando di battersi)

SCENA QUINDICESIMA

Don Cicciocome sopra, poi Donna Lavinia, Donna Florida, Don Paoluccioe Don Mauro; poi Zerbino.

PAOL. Venite, venite: non abbiate timore

LAV. Ch'è questo strepito?

FLO. Che ha don Ciccio?

CIC. Non vi è nessuno che mi sciolga per carità?

MAU. Se mi permette donna Lavinia, lo scioglierò io.

LAV. Sì, scioglietelo pure.

PAOL. Ha troppo mangiato, ha troppo bevuto il poverino. L'hanno legato, perché non poteva reggersi.

CIC. Quest'è un affronto, che mi è stato fatto mentre dormiva; e di più, mi hanno voluto uccidere colle spade.

FLO. Oh bella! bellissima veramente!

LAV. Sarà stato uno scherzo, una burla amichevole.

PAOL. Una burla simile ho veduto fare a Marsiglia.

CIC. Queste non sono burle da farsi; e ne voglio soddisfazione.

LAV. No, don Ciccio, acchetatevi.

CIC. Ne voglio soddisfazione.

MAU. Non l'hanno fatto per offendervi.

CIC. Tant'è, ne voglio soddisfazione.

FLO. È curioso davvero.

PAOL. Un pazzo tal e quale, come lui, l'ho conosciuto a Lione.

CIC. E non ci verrò più in questa casa di pazzi, di malcreati.

LAV. Come parlate, signore?

MAU. Moderate il caldo, don Ciccio.

FLO. È temerario un po' troppo.

PAOL. (A me, a me). Signore. (a don Ciccio)

CIC. Che cosa vuole vossignoria?

PAOL. Voi avete perduto il rispetto a tutta questa conversazione.

CIC. E tutta questa conversazione l'ha perduto a me.

PAOL. Chi ha d'aver, si paghi. Fuori di qui.

CIC. A far che, fuori di qui?

PAOL. A batterci colla spada.

CIC. Colla spada?

PAOL. Sì, colla spada.

LAV. Eh, non fate. (a don Paoluccio)

PAOL. (Contentatevi; anderà bene, un caso simile è accaduto a Brusseles). Avete coraggio? (a don Ciccio)

CIC. Ho coraggio, sicuro.

PAOL. Andiamo dunque.

CIC. Andiamo.

PAOL. Seguitemi. (parte)

CIC. Vengo.

FLO. Eh via, don Paoluccio, non istate a precipitare. (parte dietro a don Paoluccio)

CIC. Lasciatelo fare.

LAV. (Le preme che non precipiti don Paoluccio. Come presto si è interessata per lui! ) (da sé, e parte)

CIC. Gl'insegnerò io, come si tratta.

MAU. Caro amico fermatevi; lasciate operare a me.

CIC. No certo; voglio soddisfazione.

MAU. Portate rispetto al padrone di casa.

CIC. Non conosco nessuno.

MAU. Volete battervi con don Paoluccio?

CIC. Battermi con don Paoluccio.

ZER. Signori, con licenza. Il signor don Paoluccio fa divotissima riverenza al signor don Ciccio, e gli manda queste due spade, perché scelga delle due quella che più gli piace.

CIC. (Ora son nell'impegno). (da sé)

MAU. Animo dunque; già che siete risoluto, scegliete.

CIC. Orsù ho pensato a quello che mi avete detto. Non voglio che per causa mia si funesti la conversazione. Le donne si spaventano; la villa si mette sossopra. Vedete voi di accomodarla amichevolmente. Fatemi dare qualche onesta soddisfazione, e dono tutto, mi scordo tutto; non crediate già ch'io lo faccia per paura di don Paoluccio, ma lo faccio... perché son generoso.

MAU. Viva don Ciccio. Vado ora a procurarvi le vostre soddisfazioni, e a pubblicare a tutti la vostra magnanima generosità. (parte)

ZER. Certo vossignoria è un signore magnanimo; me ne sono accorto questa mattina alla tavola.

CIC. Porta via quelle spade, e di' a don Paoluccio, che se l'intenderà con don Mauro.

ZER. Sì signore, pubblicherò a tutto il mondo la vostra magnanima poltroneria. (parte)

CIC. Sarebbe bella, che dopo le insolenze fattemi, mi ammazzassero per darmi soddisfazione. Voglio vivere ancora un poco. Voglio salvar la pancia, non per i fichi, ma per i beccafichi. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Don Eustachioe Don Riminaldo.

RIM. Vi assicuro che ho riso la parte mia.

EUS. Don Ciccio è il condimento migliore di questa villeggiatura.

RIM. La scena poi con don Paoluccio ha finito graziosamente.

EUS. Ora ha una paura grandissima, non si lascia vedere nemmeno.

RIM. Don Gasparo per altro m'ha detto che la vuole accomodare con don Ciccio; che non vuol perdere una sì bella occasione di ridere e di divertirsi.

EUS. Poveri noi se restiamo senza don Ciccio. È terminato lo spasso. In casa, fuori di un po' di gioco, non si fa altro.

RIM. E da qui innanzi non vogliono che si giochi più al faraone. I piccioli giochi non mi divertono, onde faccio conto d'andarmene.

EUS. È venuto ora don Paoluccio a stordirci il capo col suo Parigi, colla sua Londra.

RIM. E credo sia anche venuto a disseminare un poco di discordia fra queste nostre signore.

EUS. Per me ci penso poco di questo. Non bado io alle signore, mi diverto più volentieri colle contadine.

RIM. Anch'io, per un poco, ma mi stufo presto; quando non si gioca, non so che fare.

SCENA SECONDA

Zerbino e detti.

ZER. Servitore umilissimo di lor signori.

EUS. Che c'è, buona lana?

ZER. Male assai. Se non mi aiutano, son per terra.

RIM. Che vuol dire? Che cosa è stato?

ZER. La padrona mi ha licenziato.

RIM. Perché vi ha licenziato?

ZER. Per niente.

EUS. Già, per niente. È il più buon ragazzo di questo mondo. L'averà licenziato per niente. (con ironia)

ZER. Per un poco di roba dolce mi ha licenziato.

RIM. Sarà quella che si aspettava sul fin della tavola.

EUS. Quella che ha domandato don Ciccio.

RIM. Ve l'averete mangiata, eh?

ZER. Un poco mangiata, un poco donata.

EUS. A chi donata?

ZER. A due belle ragazze.

EUS. Ah barone!

ZER. Sono baroni quelli che danno alle ragazze? (a don Eustachio)

EUS. Sicuro.

ZER. Quei che danno la roba dolce, sono baroni? (a don Riminaldo)

RIM. Sicurissimo.

ZER. E quei che danno i fazzoletti e l'argento, che cosa sono?

RIM. Ehi! sentite? (a don Eustachio)

EUS. Che galeotto!

RIM. Che cosa sapete voi di fazzoletto, d'argento?

ZER. So tutto io. So anche del padrone, che va a tirar alle beccaccie e poi le dona alle contadine.

EUS. E per questo? voi non ci avete da entrare. Un ragazzo non si ha da mettere cogli uomini; un servitore non si ha da mettere con i padroni.

ZER. Dice bene vossignoria. Ma ho un natural così fatto: quando le donne mi pregano, non posso dire di no.

RIM. Vi hanno pregato dunque?

ZER. Ehi! zitto. Mi hanno fatto carezze.

EUS. Ah briccone!

ZER. Sono un briccone, perché mi hanno fatto carezze? (a don Eustachio)

EUS. Sicuro.

ZER. Perché mi hanno fatto carezze, sono un briccone? (a don Riminaldo)

RIM. Certo.

ZER. Zitto, che nessuno ci senta. Ne hanno fatto anche a lor signori.

EUS. E chi sono costoro?

ZER. La Menichina e la Libera.

EUS. Noi le abbiamo regalate, perché ci han donato dei fiori.

ZER. Ed io perché mi han promesso dei frutti.

RIM. Che ne dite eh, di costui? (a don Eustachio)

EUS. Vuol essere un bel fior di virtù.

ZER. Mi facciano la carità. Parlino per me alla padrona che la mi tenga almeno fino che sono in istato di maritarmi. Perché poi, quando sarò maritato, non avrò più necessità di servire.

RIM. Che mestiere farete quando avrete moglie?

ZER. Il mestier di mio padre.

RIM. Che vuol dire?

ZER. Niente affatto.

EUS. E chi manteneva la casa?

ZER. Mia madre.

EUS. Che mestiere faceva?

ZER. Niente affatto.

EUS. Figliuolo mio, siete la bella birba.

ZER. Obbligatissimo alle grazie sue.

RIM. Crescete così, che sarete un bel capo d'opera.

ZER. Mi fanno questa grazia di parlare per me? Anch'io, se occorrerà, parlerò per loro.

EUS. A chi?

ZER. Alla Libera e alla Menichina.

EUS. Mi fa ridere costui. Don Riminaldo, vediamo di fargli questo servizio.

RIM. Fate voi, che farò ancor io quel che posso.

EUS. Via dunque, parleremo a donna Lavinia. Spero che vi terrà a riguardo nostro; ma siate buono, se volete che la vi tenga.

ZER. Che sia buono! se sono la stessa bontà. Fatemi questa grazia, signori, e se ora non potrò far niente per loro, può essere che un giorno sposi la Menichina, e farò ch'ella faccia le parti mie. Servitor umilissimo di lor signori. (parte)

SCENA TERZA

Don Riminaldoe Don Eustachio.

EUS. Crediamo noi che parli con malizia, o con innocenza?

RIM. Io credo che colui abbia più malizia di noi.

EUS. Per altro è un ragazzo che serve i forestieri con attenzione. Per solito la servitù suol fare delle male grazie agli ospiti, quando non regalano bene. Zerbino si contenta di poco: onde vo' parlare per lui; e siccome il mancamento è leggiero, voglio credere che donna Lavinia mi farà il piacere di tenerlo.

RIM. Fate pure come vi aggrada. Già io me ne vado domani.

EUS. Che dite eh, delle nostre ninfe? S'attaccano a tutto: padroni, servitori, grandi e piccoli. Pur che buschino qualche cosa, tutto loro comoda.

RIM. Benché siano donne di villa, non invidiano quelle della città nell'arte del saper fare.

EUS. L'interesse domina da per tutto. Non vi è altra differenza, se non che in città vi vogliono dei zecchini, e qui con pochi paoli si fa figura. (parte)

SCENA QUARTA

Don Riminaldo, poi la Libera.

RIM. Don Eustachio va con economia nelle cose sue. E uno di quelli che vanno in villa cogli amici, per risparmiar la tavola a casa loro.

LIB. Ebbene, signor don Riminaldo, come è andata la cosa di don Ciccio?

RIM. Benissimo. Avete dato motivo a tutti di ridere coll'averlo legato su quella seggiola.

LIB. Ora mi dispiace, che si vorrà vendicare. Mi raccomando a lei che ci difenda.

RIM. Io vi posso difender per poco.

LIB. Perché?

RIM. Perché domani me ne voglio andare.

LIB. Bravo! vuol andar via? Così, senza dirmi niente?

RIM. Che? vi ho da domandare licenza per andar via?

LIB. Quando si vuol bene, non si fa così.

RIM. Io voglio bene a voi, come voi ne volete a me.

LIB. Me ne vorrà assai, dunque.

RIM. Appunto tanto, quanto voi ne volete a Zerbino.

LIB. Io a Zerbino?

RIM. Poverina! a Zerbino! oh figuratevi.

LIB. Non so niente io di Zerbino.

SCENA QUINTA

Don Paoluccioe detti.

PAOL. Bravo don Riminaldo. Chi è questa bella ragazza?

LIB. (Si pavoneggia)

RIM. È una giovine qui del paese; villereccia, ma benestante.

PAOL. Sì sì, anche a Versaglies si trovano di queste bellezze del basso rango, piacevolissime quanto mai dir si possa. Che nome ha questa bella ragazza?

RIM. Ha nome Libera.

PAOL. La signora Libera! oh bellissimo nome ch'è la signora Libera!

LIB. Io non sono signora; son chi sono, e non mi burlate, che vi saprò rispondere come va risposto.

PAOL. Garbata! Avete alcuna giurisdizione sopra di lei? (a don Riminaldo)

RIM. È maritata.

PAOL. Non parlo io della giurisdizion di marito, ma di quella di buon amico, di quella che vien dal cuore.

RIM. Veramente ho qualche stima per questa giovane.

LIB. Per sua bontà del signor don Riminaldo.

PAOL. Avete alcuna difficoltà, ch'io mi trattenga a ragionar seco?

RIM. Servitevi pure liberamente.

PAOL. Ci ho tutto il mio piacere a stare una mezz'ora in buona compagnia, fuori di soggezione.

LIB. Non crediate già di prendervi confidenza con me.

PAOL. Mi par di vedere una pastorella di Francia, polita, linda, graziosa.

RIM. Amico, se mi permettete, vi lascio in buona compagnia.

PAOL. Mi fate piacere.

RIM. Vado per un affare.

PAOL. Accomodatevi con libertà. A buon rivederci. (alla Libera)

LIB. Discorreremo poi sul proposito di Zerbino.

RIM. Sì, sì, accomodatevi con chi volete, che non me n'importa un fico. (parte)

SCENA SESTA

Libera e Don Paoluccio.

LIB. (Sentite che bel modo di dire? Se dicesse davvero il signor don Paoluccio, scambierei in meglio). (da sé)

PAOL. Cara signora Libera! quanti adoratori averà la signora Libera?

LIB. Io non sono signora, vi torno a dire; e non occorre diciate d'adoratori, ch'io non ho nessuno che mi guardi.

PAOL. Nessuno che vi guardi? Una bellezza come la vostra nessuno la guarda? nessun la coltiva?

LIB. Chi volete che si degni di me?

PAOL. Mi degnerei ben io, se voi ne foste contenta.

LIB. E che cosa vorrebbe da me?

PAOL. Niente altro che la grazia vostra.

LIB. Vossignoria è un cavaliere, ed io sono una contadina...

PAOL. Ora non so niente di cavalleria. Andatevi voi alzando bel bello, io bel bello mi anderò abbassando, e vo' che siamo del pari.

LIB. Che caro signor don Paoluccio!

PAOL. Sapete anche il mio nome?

LIB. L'ho veduto qui delle altre volte negli anni passati: me ne ricordo, e ho sempre detto... Basta; non dico altro.

PAOL. Ed io non mi ricordo di avere veduta voi. Sfortunatissimo che sono stato! se prima vi conosceva, non andavo a Parigi, non andavo a Londra, non andavo in Fiandra; non mi partivo da questa villa.

LIB. Oh, oh! adesso capisco che mi burlate.

PAOL. Dico davvero, siete la più bella giovine di questo mondo...

SCENA SETTIMA

La Menichina e detti.

MEN. L'ho trovata alla fine.

PAOL. Chi è quest'altra ragazza? (alla Libera)

LIB. Una mia amica.

MEN. La riverisco. (a don Paoluccio)

PAOL. Bella, bella essa pure.

LIB. È ancora ragazza la Menichina.

PAOL. La Menichina! oh bella la Menichina! graziosa la Menichina!

MEN. Non sono una signora io; non sono per piacere a lei.

PAOL. Mi piacete assaissimo; vi stimo più di una principessa.

LIB. E io, signore, non vi piaccio più dunque?

PAOL. Sì, tutte due mi piacete. Non faccio torto a nessuna io.

LIB. La Menichina ha il suo merito, non dico, ma io sono una donna, alla fine.

PAOL. È maschio forse la Menichina?

MEN. Signor no, sono femmina.

PAOL. È tutt'uno dunque.

LIB. Ma ella sa poco di questo mondo. Che cosa volete fare di lei?

PAOL. Quello che voglio fare di voi. Tutte due servirvi, se posso; amarvi, se vi contentate.

SCENA OTTAVA

Donna Laviniae detti.

LAV. (Chi direbbe che fosse quello?) (da sé)

PAOL. Oh! donna Lavinia, compatitemi per oggi non sono colla nobiltà: sono colla campagna. Ho trovato qui due ninfe di questi boschi, che mi fanno ricordare le pastorelle di Siena.

LAV. Ma voi altre siete qui a tutte l'ore.

LIB. Sentite? dice a voi. (alla Menichina)

LAV. Dico a tutte due io; ma sarà finita.

LIB. (Ha invidia, si conosce).

MEN. (Ha paura che le si levi).

PAOL. Donna Lavinia, la vostra gentilezza non ha da permettere che siate rigorosa a tal segno.

LAV. E la loro petulanza non dovrebbe a tanto avanzarsi.

PAOL. Zitto, per carità.

LIB. Gli leveremo l'incomodo. (Signore, sto qui poco lontana). (a don Paoluccio, e parte)

MEN. Non verremo più a disturbarla. (Venga da mia madre, che lo vedrà volentieri). (a don Paoluccio, e parte)

PAOL. Non credeste già ch'io facessi caso di loro. Mi diverto: così si fa in Inghilterra. (a donna Lavinia)

LAV. In Inghilterra, in Francia, e per tutto il mondo, si deve usare la civiltà.

PAOL. Ed io dappertutto l'ho usata, siccome intendo d'usarla qui.

LAV. Non mi pare che voi l'usiate moltissimo.

PAOL. Che a voi non paia, spiacemi infinitamente; ma non so come possa chiamarsi atto incivile il dire due barzellette a delle villane, che si trovano accidentalmente in campagna.

LAV. Se usar sapete la civiltà, mostratelo almeno in questo. Lasciatemi sfogare almeno la mia passione, e non vi sottraete colla vostra disinvoltura da un rimprovero che vi è giustamente dovuto.

PAOL. Giusto o non giusto che sia il rimprovero, lo riceverò senza scuotermi, e vi prometto di non difendermi, per timore che la difesa mia vi possa essere di dispiacenza.

LAV. Lasciatemi dire, e quando ho detto, difendetevi se potete. Bello spirito, bella disinvoltura che acquistata avete ne' vostri viaggi! Poteva dare io maggior prova di stima ad un cavaliere, oltre questa di vivere per due anni lontana da ogni impegno civile, per aspettare il vostro ritorno? E voi potevate meco più ingratamente, più villanamente procedere?

PAOL. Ma signora mia...

LAV. Mantenetemi la parola.

PAOL. Non parlo.

LAV. Vantate in faccia mia l'incostanza, ponete in ridicolo i miei giusti risentimenti. Il primo giorno del ritorno vostro mi lasciate sola in un canto; preferite a me un'altra dama non solo, ma donne ancora di bassissimo rango; e dovrò io dissimulare cotali insulti e donarvi tutto, in grazia del bel profitto che fatto avete ne' viaggi vostri?

PAOL. Finalmente, madama...

LAV. Mantenetemi la parola.

PAOL. Non parlo.

LAV. No, non mi conviene soffrirlo, senza meritarmi i dispregi vostri. Tutto quello ch'io posso fare per voi, si è il rendervi la libertà intera, senza che vi resti alcun rimorso di dispiacermi. Vi resterà quello di esser meco un ingrato; ma tal sia il premio di chi è la colpa. Finita sia l'amicizia nostra.

PAOL. Avete terminato, madama?

LAV. Sì, ho terminato.

PAOL. Posso difendermi?

LAV. No, arditissimo, non vi potete difendere.

PAOL. Se non mi posso difendere, altro non mi resta adunque che usare della mia costanza di animo, inchinarvi e partire. (parte)

SCENA NONA

Donna Laviniasola.

LAV. S'egli cammina di questo passo, non arriva domani, che mi rende ridicola a tutta la conversazione, ma prima che giunga domani, vi rimedierò, e forse pria che giunga la sera. Non mi comprometto di tanta virtù che vaglia a frenarmi nell'occasione di risentirmi. È meglio sciogliere la compagnia, troncar le scene per tempo, finir la villeggiatura, e con un pretesto ragionevole e sano tornare innanzi sera in città. Quattro miglia si fanno presto. Le carrozze son leste; chi vuol restar, resti; io vado certo, e spero che mio marito non mi lascierà partir sola. La compagnia di don Mauro non mi sarebbe discara; ma non voglio che di me si dica quello che in altri da me si condanna. Quantunque donna Florida lo disprezzi, lo tiene ancora soggetto né per me vo' che risolvasi di abbandonarla. S'ei fosse in libertà... potrebbe darsi... Basta... ecco mio marito.

SCENA DECIMA

Don Gasparoe detta.

GASP. Siete qui? Appunto di voi cercava.

LAV. Sono qui a prendere un poco d'aria. Ho un dolor di capo grandissimo.

GASP. Gran che! voi altre donne avete sempre qualche cosa che vi duole.

LAV. E credo d'aver la febbre ancora.

GASP. Eh, malinconie! divertitevi, e non sarà niente. Tutti vi cercano. Abbiamo da godere una bella scena. Don Ciccio è imbestialito contro di tutti, per la burla fattagli delle legature e delle spade, e perché gli altri lo sbeffano. Ora abbiamo pensato di dargli soddisfazione, domandandogli scusa tutti, e perdono dell'offesa fattagli; ma questo domandargli perdono, ha da essere un nuovo motivo di ridere, perché studierà ciascheduno di farlo in modo particolare.

LAV. Voi badate a discorrere, ed a me cresce il dolor di capo a segno che non mi posso reggere in piedi.

GASP. Me ne dispiace assaissimo. Andate a letto, cara consorte, che vi passerà.

LAV. Marito mio, ho del mal grande intorno, mi sento una pulsazione interna, un'agitazione negli spiriti, una lassitudine universale con giramenti di capo, che mi minaccia qualche disgrazia.

GASP. Niente, saranno convulsioni.

LAV. Assolutamente conosco e sento, che se non mi cavano sangue, vado a pericolo di morire.

GASP. Andate a letto; e domani si farà venire il chirurgo, e vi caverà sangue.

LAV. Da qui a domani posso essere precipitata.

GASP. In questa villa non c'è chirurgo. Bisogna mandare in città.

LAV. Fatemi un piacere, don Gasparo; ve lo domando per grazia, per quanto amor mi portate, per quanto vi preme la mia vita e la mia salute andiamo noi in città.

GASP. Quando?

LAV. Innanzi sera.

GASP. E piantare la compagnia?

LAV. Vi preme dunque la compagnia più della vita di vostra moglie?

GASP. Non dico questo io. Ma non vi sarà poi tal pericolo.

LAV. Tornerete fuori, quando io starò meglio. Tornerete solo: vi divertirete meglio di quel che ora fate.

GASP. Benissimo. Lo desidero per verità star un poco solo, senza questa folla di seccatori. Ma come ho da fare ora a dirlo alla compagnia?

LAV. Vi vuol tanto? Lo dirò io, se non lo volete dir voi.

GASP. Facciamo le cose con buona grazia.

LAV. Sì, anderà tutto bene; lasciate fare a me, che ora fo che lo sappiano. I nostri due legni servono per tutti. Vado io ad allestirmi; date voi gli ordini opportuni alla servitù; tutto si fa in un'ora; tre ne mancano a sera; siamo in città prima del tramontar del sole. (parte correndo)

SCENA UNDICESIMA

Don Gasparosolo.

GASP. Dice che ha le palpitazioni, le lassitudini, i giramenti; mi pare che parli bene e cammini meglio. Non la so intendere. Queste donne si fanno venir male quando vogliono. Dubito che sia un pretesto questa sua lassitudine. Don Paoluccio le averà fatto venire le pulsazioni. È venuto il diavolo quest'anno, a farmi perdere il gusto della villeggiatura. (parte)

SCENA DODICESIMA

Donna Floridae Don Mauro.

FLO. Che cavaliere sgarbato! vi domando se sapete dove si trovi don Paoluccio, e mi rispondete con sì bella grazia?

MAU. Signora, con voi ho poca fortuna. Il dirvi che non lo so e non mi curo saperlo, non è risposta che vi possa offendere.

FLO. È una delle solite risposte vostre, ruvide ed incivili.

MAU. L'inciviltà posso assicurarmi di non averla né con voi, né con chi che sia. La ruvidezza poi è un difetto mio naturale, che se vi dispiace, potete disfarvene facilmente.

FLO. Fate conto che me ne sia disfatta.

MAU. Accetto per grazia la libertà che vi compiacete restituirmi.

FLO. Se vi premeva la libertà, chi vi ha tenuto in catene?

MAU. Il mio rispetto, signora.

FLO. Potevate ben conoscere dalla maniera mia di condurmi, che poco mi premeva della vostra amicizia.

MAU. È vero, l'ho conosciuto benissimo. Ciò non ostante, una volta che impegnato mi era a servirvi, mi vedeva in debito di soffrire, per non comparire incivile.

FLO. Che pensar ridicolo! Oh sì, se vi sentisse don Paoluccio riderebbe davvero!

MAU. Vi ringrazio della mercede con cui ricompensate la mia sofferenza.

FLO. Compatite la mia schiettezza. Vedo che avete dell'amore per me, ma io...

MAU. No, signora, v'ingannate; non ho un'immaginabile passione per voi. L'ho avuta a principio, quando meno vi conosceva; ma è qualche tempo che mi sono disingannato.

FLO. Ma perché seguitare a venir con me?

MAU. Per impegno d'onore.

FLO. E non per altro?

MAU. Non per altro.

FLO. E non penate un poco a lasciarmi?

MAU. Niente davvero; niente, signora mia, niente affatto.

FLO. Siete un simulatore dunque.

MAU. La mia simulazione derivò da un principio buono.

FLO. Da un principio stolido, dovevate dire.

MAU. Come comandate.

FLO. Ora dite così, perché vi piace lo spirito letterato della padrona di casa.

MAU. A voi non rendo conto de' miei pensieri.

FLO. Capperi! si è messo in gravità il signor don Mauro.

MAU. Non cambio temperamento. Sono il medesimo che sono stato.

FLO. Sì, è vero; sempre burbero ed accigliato.

SCENA TREDICESIMA

Don Paoluccioe detti.

PAOL. Signori miei, la sapete la bella nuova?

FLO. C'è qualche novità di don Ciccio?

PAOL. No di don Ciccio, ma di donna Lavinia. Ella dice che ha il mal di capo: si allestisce per andare in città a farsi cavar sangue. Il marito crede, o finge di credere. Vuol partire con lei, e noi siamo tutti belli e licenziati.

FLO. Questa è una vendetta di donna Lavinia.

PAOL. Lo credo ancor io. Se questo caso nascesse a Parigi, lo metterebbono sul Mercurio Galante.

FLO. E con tanta inciviltà licenzia la compagnia?

PAOL. Non dicono che si vada via. Offeriscono anzi casa, cuoco, servitù e libertà di restare; ma chi è quello che accettar voglia una simile esibizione?

FLO. Io non ci resterei per tutto l'oro del mondo.

PAOL. Non volendo restare, esibiscono il comodo di due legni; e ora con don Gasparo abbiamo fatto la distribuzione così: in uno donna Lavinia, don Eustachio, don Riminaldo ed io; nell'altro donna Florida, don Mauro, don Gasparo e don Ciccio, se vorrà venire.

FLO. La distribuzione non è ben fatta. Don Mauro anderà volentieri nella carrozza di donna Lavinia.

MAU. Anderò dove mi sarà detto ch'io vada.

PAOL. Anzi, s'egli è vero che don Mauro abbia della parzialità per donna Lavinia, cercherà di starle lontano per non far conoscere la sua passione.

MAU. Così voi farete con donna Florida.

FLO. Bene dunque, don Paoluccio, per far vedere che non avete premura alcuna per me, venite voi nella mia carrozza.

MAU. Così tutti due manifestate la vostra passione, egli allontanandosi colla sua costanza di animo; voi desiderandolo vicino colla debolezza comune.

PAOL. Bravo, don Mauro. Ha parlato ora come un visionario di Londra.

MAU. Credetemi, che anche senza viaggiare, uno si può erudire nello studio delle passioni.

FLO. Ecco donna Lavinia. Sentiamo che cosa sa dire.

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Laviniae detti.

LAV. Avete inteso, signori miei, la necessità in cui mi trovo di andar in città per le mie indisposizioni...

FLO. (Poverina!) (da sé)

LAV. Mio marito non vuole lasciarmi andar sola nello stato in cui mi ritrovo...

FLO. (Che tenerezza di sposo!) (da sé)

LAV. Non intendiamo per questo di disturbare la compagnia...

FLO. (C'intendiamo). (da sé)

LAV. Chi vuol restare, è padrone.

FLO. (Bel complimento!) (da sé)

LAV. Se il cielo mi darà presto la mia salute, ritorneremo anche noi..

FLO. (Potrebbe crepar davvero). (da sé)

LAV. Vi chiedo scusa di tal disordine; ma quando il male c'è, non si può dissimulare.

FLO. (Non si può fingere con più franchezza). (da sé)

PAOL. Dispiace a tutti l'incomodo che dice di soffrire donna Lavinia, quantunque la cera non lo dimostri. Ci sono dei mali interni, che non si credono se non da quei che li provano. Tutta volta sappiamo, che senza un giusto motivo donna Lavinia non fa una tale risoluzione; e per quello che sento dire da tutti, ciascheduno vuol avere il contento d'accompagnarvi.

FLO. Sì, donna Lavinia, il vostro male lo conosco benissimo. Sarete più quieta in città; risanerete più presto.

PAOL. Eppure l'allegria può essere il migliore vostro medicamento. Io certo procurerò divertirvi.

LAV. Il mio gravissimo dolor di capo non mi permetterà d'ascoltarvi. Voi non vi potrete adattar a tacere. Vi prego passar nell'altra carrozza.

FLO. Don Mauro tace assai volentieri; sarà una compagnia buonissima per il vostro bisogno.

MAU. Voi, signora, non fate che disporre di me, in tempo che avete rinunziato solennemente a quell'autorità che vi avevo concessa. (a donna Florida)

PAOL. Vi ha rinunziato donna Florida? (a don Mauro)

MAU. Sì, per grazia del cielo.

PAOL. Male, signora, male. (a donna Florida)

FLO. Bene, anzi benissimo.

PAOL. Voi, avendo ciò fatto dopo la mia venuta, farete credere d'averlo licenziato per mia cagione. Signori, protesto dinanzi a lei, che per donna Florida ho il rispetto che devesi ad una dama, ma niente più.

FLO. (Dite il vero, signore?) (piano a don Paoluccio)

PAOL. (Arguite da ciò, se vi son vero amico). (piano a donna Florida)

FLO. (Non capisco niente). (da sé)

PAOL. Prima che di qua si parta, vuole don Gasparo che si complimenti don Ciccio, come egli merita; e l'idea non può essere più graziosa. Vado, per meglio intendere la condotta di certa baia che gli si prepara. Donna Lavinia, assicuratevi che la mia costanza di animo non può mancare; che se mi è vietato il difendermi, spero però di essere conosciuto; che cento donne mi vedranno far il galante d'intorno a loro, ma una sola è la dama ch'io venero, una sola avrà il mio cuore divoto, la mia servitù, la mia sincera amicizia. (Le parole a lei, ed il cuore a voi; questa è la vera foggia di mantenere la fede in segreto). (piano a donna Florida, e parte)

SCENA QUINDICESIMA

Donna Lavinia, Donna Florida, Don Mauro.

FLO. (Mi pare un poco difficile, per dir vero. Temo che se un altro, che mi piaccia più di don Mauro, si esibisce di servirmi in pubblico, mi scorderò di quello che mi vuol servire in segreto). (da sé)

LAV. Se voi, donna Florida, ricusate di star qui, e che vi risolviate di venir con noi, fate voi la vostra partita. Scegliete chi vi comoda nella vostra carrozza.

FLO. Lascio disporre alla padrona di casa.

LAV. Faremo così dunque. Voi, don Paoluccio, don Mauro e don Eustachio.

FLO. E voi vorreste andare in compagnia del marito?

LAV. Vi cederò anche lui, se il volete.

FLO. Troppo generosa, signora. Io non intendo di togliervi il cavaliere, e molto meno il marito. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Donna Laviniae Don Mauro.

LAV. La sentite, don Mauro? Che ve ne pare di lei?

MAU. Non posso giudicare delle altrui debolezze. Ho troppo da corregger le mie.

LAV. Voi siete un cavalier prudentissimo.

MAU. Vorrei esserlo, ma altro non so di certo, che di essere sfortunato.

LAV. Perché vi lagnate della fortuna?

MAU. Perché mi ha fatto impiegare le mie attenzioni in chi non le ha degnate d'aggradimento.

LAV. Ed io poteva essere trattata peggio?

MAU. E pur si danno queste combinazioni fatali!

LAV. Se ne danno anche di favorevoli.

MAU. Certamente gli avvenimenti di questo mondo non sono che una vicenda di male e di bene di piacere e di dispiacere.

LAV. L'ingratitudine di don Paoluccio mi ha profittato l'acquisto della mia libertà.

MAU. E l'alterigia di donna Florida mi ha disimpegnato dalla più severa catena.

LAV. Pensate voi di mantenervi sempre così?

MAU. Sarebbe tempo, che io pure gustassi il dolce di qualche amabile servitù.

LAV. Fortunata colei che saprà conoscere i pregi vostri, e avrà il vantaggio della vostra amicizia!

MAU. La bontà vostra mi fa sperare ogni maggiore felicità.

LAV. Basta, don Mauro, voi mi favorirete nella mia carrozza.

MAU. Obbedirò agli ordini vostri.

LAV. Vi spiacerà di perdere donna Florida?

MAU. Come dispiacerebbe ad un ammalato la perdita della febbre.

LAV. Graziosissimo! (ridente)Andiamo. (parte)

MAU. Che compitissima dama! (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Giardino con pergolati, sedili erbosi, uno de' quali in mezzo.

Don Gasparo, Donna Florida, Don Paoluccio, Don Riminaldo, Don Eustachioa sedere in fondo; la Libera e la Menichina da un lato; poi Don Ciccio e Zerbino.

ZER. Favorisca di venire con me.

CIC. Tu sei quello che ha mangiato le robe dolci.

ZER. La padrona mi ha perdonato; mi perdoni anche vossignoria.

CIC. Ti perdono, ma con patto che me ne porti dell'altre.

ZER. Lasci fare, che sarà servita.

CIC. Ora, che cosa vogliono da me?

ZER. Vogliono domandargli scusa di quello che gli hanno fatto. Eccoli lì tutti preparati. S'accomodi, che ora verranno. (Credo che lo vogliano burlare più che mai. Se posso, voglio far anch'io la mia parte). (si ritira)

CIC. Se mi daranno le mie soddisfazioni, m'acquieterò; altrimenti farò qualche risoluzione. Dovevano veramente venire a casa mia a farmi il complimento di scusa, ma ho piacere che non vedano i fatti miei; non ho certo modo di riceverli. È stato meglio che sia venuto qui. (siede)Oh, non si credano già che sia un babbuino! So mantenere il mio punto fino all'ultimo sangue; e se non mi dispiacesse di disgustar don Gasparo... ma da lui si può venir a desinar qualche volta, onde convien soffrire, e contentarsi di quel che si può.

GASP. Signor don Ciccio, io, come padron di casa, e vostro buon servitore ed amico, vengo prima di tutti a domandarvi scusa della burla fattavi, di cui avete mostrato di sentir dispiacere; ed in segno di buona amicizia, vi prego, finché dura la presente nostra villeggiatura, venire ogni giorno a pranzo da noi.

CIC. (Sedendo con gravità)Gradisco le scuse che voi mi fate, e per attestarvi un amichevole aggradimento, accetto per capitolazione le vostre grazie, e sarò esattamente, fino che durerà la villeggiatura presente, vostro quotidiano commensale perpetuo.

GASP. (Oh sì, che vuol mangiare un pezzo alla lunga). (da sé)

FLO. Signor don Ciccio, sento che siete adirato con tutti, e dubito che lo siate ancora con me. Se il ridere è delitto, v'accerto che son rea la mia parte; però vi domando scusa, e per farvi vedere quanta stima ho di voi, voglio preferirvi a tutti, e fin che stiamo qui in villeggiatura, voglio che siate il mio cavaliere.

CIC. Voi altre donne credete di poter offendere impunemente. Ma i galantuomini della mia sorta si rispettano un poco più. Dono al sesso, dono alla gioventù, dono anche alla buona grazia, accetto l'onor che mi fate di essere il vostro cavaliere, e può essere che facciamo disperar qualcheduno.

FLO. Credo anch'io che passerà poco tempo, che vedremo alcuno in disperazione.

PAOL. Eccomi a voi dinanzi, don Ciccio, supplichevole in atto; e dell'ardire presomi di farvi vergognosamente tremare, vi chiedo orgogliosamente perdono. Prometto in faccia di questa dama e di questi cavalieri, che vi hanno sonoramente burlato, prometto in attestato di quella stima che non ho mai avuta per voi, ma che procurerò d'avere in appresso, prometto in tutto quel tempo che resteremo in questa villeggiatura, servirvi e mantenervi di tabacco di Spagna perfetto, di cioccolata di Milano esquisita, di rosolio di Corfù preziosissimo, e di veneziani sceltissimi parpagnacchi.

CIC. Quantunque io non rilevi bene che razza di parlare sia il vostro, tuttavia, credendolo oltramontano, vi perdono ogni cosa. Vi accetto per buon amico, e vi prendo in parola circa al tabacco, al rosolio, alla cioccolata; e benché non sappia che cosa sieno, credendoli mangiativi e buoni, mi saranno cari anche i veneti parpagnacchi.

PAOL. Bravissimo! che gravità ammirabile! Voi mi parete uno di quei superbi villani di Castiglia, che vanno a lavorare i campi colla spada di Catalogna.

CIC. Un villano?

PAOL. Acchetatevi, caro don Ciccio, che se finora avete avute le umiliazioni de' rei secondari, ora vi si presentano dinanzi agli occhi i rei principali. Venite, arditelle, tracotanti, maligne: venite a chieder perdono a don Ciccio della vostra audacia. (verso la scena, da dove vengono le due donne)Gli uomini di questa sorta non si legano per le braccia, ma per il cuore; e però domandategli scusa, e contentatevi di ripetere le parole che dirò io.

MEN. (Io non mi posso tener di ridere). (piano alla Libera)

LIB. (State forte, che rideremo dopo). (piano alla Menichina)

PAOL. Signor don Ciccio...

MEN. Signor don Ciccio...

PAOL. Gli domandiamo perdono...

LIB. Gli domandiamo perdono...

PAOL. Dispiacendoci aver fatto poco..

MEN. Dispiacendoci aver fatto poco...

PAOL. Aver fatto poco il nostro dovere...

LIB. Il nostro dovere...

PAOL. E gli promettiamo..

MEN. Gli promettiamo...

PAOL. Fino che dura la presente villeggiatura..,

LIB. Fino che dura la presente villeggiatura...

PAOL. Mandarlo...

MEN. Mandarlo...

PAOL. A servire di lavature di biancheria...

MEN. Di lavature di biancheria...

PAOL. Serva umilissima del signor don Ciccio.

LIB. Serva umilissima del signor don Ciccio.

PAOL. Serva umilissima del signor don Ciccio

MEN. Serva umilissima del signor don Ciccio.

PAOL. Siete contento? (a don Ciccio)

CIC. Sono cose, e non sono cose; intendo, e non intendo. Basta, siete donne, e non voglio guerra con donne. Lavatemi la biancheria fino che si sta qui, e non se ne parli più.

SCENA DICIOTTESIMA

DONNA LAVINIA e detti.

PAOL. A voi, donna Lavinia, tocca a voi far i vostri complimenti a don Ciccio.

LAV. Io posso esibire al signor don Ciccio un posto nella mia carrozza, se vuol venire con noi.

CIC. Dove?

LAV. In città.

CIC. A far che in città?

LAV. Non lo sa che ora si parte, e che per quest'anno è terminata la nostra villeggiatura?

CIC. Come! terminata ora la villeggiatura? Don Gasparo, che dite voi?

GASP. Io dico quel che dice donna Lavinia. Le carrozze sono pronte, si parte or ora, e per quest'anno è finita.

CIC. E le promesse fattemi finché dura la villeggiatura?

PAOL. La parola vi si mantiene. Tutti sono impegnati con voi finché dura; disgrazia vostra, ch'ella abbia finito presto.

CIC. Questa è una sbeffatura peggiore ancor della prima. Con i pari miei non si tratta così. Giuro al cielo, domando soddisfazione; e se partite ora, saprò raggiungervi... (Ma se partono, che fo io qui?) (da sé)Sono azioni che non sono da farsi. Son chi sono; mi chiamo offeso, e cospetto di bacco, voglio vendetta, voglio soddisfazione. (parte)

PAOL. Oh, se fosse in Venezia, che bella commedia che farebbono di lui!

LAV. Non vorrei però ch'ei ci disturbasse.

GASP. Non dubitate. Non ha spirito, non ha forze, si placherà.

LIB. Dunque partono davvero?

RIM. Così è; a rivederci un altr'anno.

LIB. Povera me, mi vien da piangere.

MEN. Anche il signor don Paoluccio?

PAOL. Partiamo tutti. Restate, ninfe gentili, coi vostri amanti pastori.

EUS. Se vi basta Zerbino, ve lo faremo restare.

ZER. Eh, signore, in città ne trovo ancor io di meglio.

GASP. Garbate giovani, ho capito; in avvenire mi regolerò.

SCENA ULTIMA

Don Mauroe detti.

MAU. Signori, ho trovato don Ciccio afflitto. Egli si duole d'essere stato doppiamente deriso; ma più si duole, che non sa che fare restando qui, e non ha il modo di condursi decentemente in città, dice avergli donna Lavinia offerto un posto nella carrozza, ed ei l'accetta, se si contentano.

PAOL. Non ve l'ho detto io?

GASP. Venga, venga, è padrone. Anche questa è accomodata. Vo a consolarlo, e voi altri, signori, accomodatevi per i posti, ché le carrozze vi aspettano. (parte)

LAV. Scegliete, donna Florida, chi v'aggrada.

FLO. Ci sarà nessuno, che si degni di venir con me? Che dice il signor don Mauro?

MAU. Un cavaliere da voi scartato non può aspirare all'onor di servirvi. Dispensatemi, signora, altri vi sono di me più degni.

FLO. Il signor don Paoluccio mi fa la grazia?

PAOL. Non posso, donna Florida, e già sapete il perché.

FLO. Parmi il vostro perché una scioccheria, una stolidezza. Ricusare di servire una dama, perché non si sveli la stima che s'ha di lei, è un'ingiuria che le vien fatta, come se indegna fosse di esser servita. Ho voluto pubblicare il fanatismo delle belle regole della vostra cavalleria, per non espormi ad esser ridicola presso di chi mi vede. Venite, non venite, per me è lo stesso. Se uno ricusa di palesare la stima che fa di me, troverò dieci che se ne faranno una gloria; e voi, colle vostre massime oltramontane, nella nostra Italia non troverete un can che vi guardi. (parte)

PAOL. Vedete? Ecco il caso della costanza. Uno spirito forte non si risente, e di perderla non m'importa un zero.

MEN. Serva, illustrissima.

LIB. Buon viaggio, illustrissima.

LAV. Vi riverisco. State bene. A rivederci; e vi avviso, per vostra regola, non prendervi in avvenire tanta confidenza coi villeggianti, perché di già vi burlano, e correte pericolo di perdere la vostra quiete e la vostra riputazione.

LIB. Grazie del buon avviso. Se lo tenga per lei.

MEN. Eh signora, si vedono i difetti degli altri, e non si conoscono i suoi.

LAV. Intendo quel che vogliono dire queste due buone donne. Mi vogliono rimproverare qualche mia debolezza. Per quanto abbia studiato celarla, qualche cosa si è traspirato. Voi, don Paoluccio, ne foste causa.

PAOL. Vi domando perdono. Castigatemi, che lo merito. Privatemi della vostra grazia. Cedo il posto a don Mauro, ed io colla mia costanza di animo soffrirò quest'ultimo dispiacere.

LAV. Volete dire, che v'importa di me, come di donna Florida. Don Paoluccio, vi consiglio mutar paese e mutar costume, o voi sarete il ridicolo delle nostre conversazioni. Qui s'apprezza la vera costanza, quella che in una nobile servitù è l'unico prezzo della fatica. Ero io disposta a serbarvela eternamente, voi m'insegnaste a mutar pensiero. Non vi lagnate che di voi stesso, se lasciandovi in quella libertà che mostrate desiderare, consacrerò in avvenire tutte le mie oneste attenzioni, tutte le mie nobili brame, al virtuoso don Mauro.

PAOL. Costanza d'animo, non mi abbandonare.

LAV. Ecco terminata la nostra Villeggiatura: sarebbe stata assai più piacevole, se le gelosie, se i puntigli non l'avessero intorbidata; comunque stata ella sia, potrà dirsi felice, se onorata sarà dagli umanissimi spettatori di un clementissimo aggradimento.

Fine della Commedia.