L’adorazione de’ Re Magi

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L’ADORAZIONE DE’ RE MAGI

Opera drammatica in tre atti

di ALESSANDRO ADIMARI

PERSONAGGI


RE VECCHIO, RE MORO E RE GIOVANE, MAGI


GETULIO

LUCRINO

CALFURNIO

LABANO

ARMINDO

NATAM

MESSER POSSIDONIO

SALAMONE CORCOS

BITURGO

ZAMPALEO

MADAMA GEMMA

NISETTA

ERMILLA

MADAMA TEAGONA

BETTOLINO

RACCHELLO e GIORDANO

CHERINDO e DORINO

NARSETE e LAMFRIDIO

MARGUTTE

Garzoni e contadini che non parlano

vecchio ricco avaro, padre d'Armindo

suo servitore

notaio

vecchio pastore povero

giovane figliolo di Getulio

pastore ricco

alchimista

furiere d'Erode

oste

suo cuoco

moglie di Labano

sua figiola

figliola di Natam

sua madre

ragazzo contadino

giovani contadini

paggi

staffieri

nano





Il mercurio de' filosofi (Giov. Batt. Nazari - Della tra­mutazione metallica). Damerini, nella sua introduzione spiega come il personaggio dell'alchimista Passidonio fosse dall'autore ricalcato dal vero, cioè da persona esi­stente alla sua epoca. Tipi del genere che immagina­vano di produrre l'oro erano frequenti. Questo dragone, secondo il Nazari, vuole essere il discendente del ser­pente gnostico, che secondo la filosofia ermetica tra­sforma i metalli.

 (La scena si rappresenta in Effrata, villaggio nei dintorni di Betlemme).

GETULIO               - Io no, che non mi rallegro d'avervi incontrato.

CALFURNIO         - E perché, messer Getulio?

GETULIO               - Perché voi altri Ufficiali e Giudici di Tribunale siete come la grandine, che di nessun tempo giova, e se anche alle volte non porta danno, nondimeno fa sempre paura. Dite su, che buone faccende vi conducono oggi da queste parti?

LUCRINO               - Non crediate, Padrone, che sia per pigliar aria; simile gente non viene in campagna per questo e non patisce d'oppilato.

 CALFURNIO        - Oh, questa volta voi non mi dove­te vedere di mal'occhio, perché vengo in particolare per portare onore e grandezze alla vostra casa.

GETULIO               - Utile, avreste dovuto dire; delle grandezze e degli onori ne lascio il pensiero a quelli che vanno alla giostra. Pure dite, che c'è di buono?

CALFURNIO         - Giunsero ieri in Gerusalemme tre nobilissimi personaggi Re dalle parti d'Oriente, con grandissimo numero di cammelli, dromedari e servitori.

GETULIO               - Il Ciel ce la mandi buona, che non ci venga qualche nuovo balzello.

LUCRINO               - O cosa simile, state pur certo.

CALFURNIO         - Questi, non so come, avendo inte­so che pochi giorni sono è nato in Betlemme un Fanciullo ch'esser deve il Re d'Israele, diligen­temente ne vanno domandando e ricercando. Onde Erode, sapendo che verso noi s'indirizzano, ha ordinato che passando per questo nostro Co­mune, siano ricevuti, alloggiati e spesati con ogni onore possibile. Mi ha fatto scrivere che da parte sua vada comandando a ciascuno le cose neces­sarie per ben trattarli.

GETULIO               - O piglia su questa nespola. E passe­ranno di qui di certo?

CALFURNIO         - Come, se passeranno? Sono alle porte: li vedrete domattina, al più tardi, in casa vostra.

GETULIO               - Come in casa mia, diavolo? Dunque, tre Re a casa di un pover'uomo?

CALFURNIO         - A casa vostra, signorsì. Perché ho ordine di scrivere tutte le abitazioni buone di questi dintorni, e non essendocene migliori della vostra, eccola qui in capo di lista destinata al servizio di questi Personaggi. Sicché, messer Getulio, servitevi dell'avviso e fatevi onore, che di simili occasioni non ne passa ogni giorno.

GETULIO               - E quando non ne passasse mai, non mi terrei nulla di peggio.

CALFURNIO         - Orsù, non vi fate scorgere. Ho più caro che tocchi a voi quest'onore che ad altri, per l'amicizia che passa fra noi. Non avete a pensare se non a legna, biancheria, olio, aceto, zucchero, vetri, vasellami, spezie e simili altre bagattelle.

GETULIO               - Bagattelle? Vi bacio le mani. Il vostro deve esser l'amor del tarlo, poiché bramate di vedermi rodere e consumare. Ed oltre a queste cose, chi deve fare il resto?

CALFURNIO         - A spese del pubblico. Perciò dò ordine qui a Biturgo Oste: provvegga quanto biso­gna e tenga buon conto, il Maestro di casa d'Erode lo soddisferà. Ma sarebbe vergogna che i Re si ricevessero nelle osterie. E maggiore ancora, se una casa d'un ricco par vostro non ci mettesse qualche attenzione del suo.

GETULIO               - No, no. Non guardate a questa ver­gogna. Non sono tanta sensibile. E poi di che sono io ricco? di pelli d'anguille.

LUCRINO               - Che dirà d'esser povero, il mise­racelo?

CALFURNIO         - Fate quel tanto che io vi ordino, e non pensate ad altro, sotto pena della disgrazia del Re. Io so benissimo lo stato vostro, e non vi potete scusare. Vado a comandare lo stesso a degli altri ed in particolare a rivedere come si trova l'Osteria.

GETULIO               - Udite, Calfurnio mio caro. Se io potessi mostrarvi che davvero sono povero, mi liberereste da questa briga?

CALFURNIO         - Voi mi burlate. So bene che riu­scirete meglio a pane che a farina: addio. (Esce).

GETULIO               - Hai inteso, Lucrino, che vantaggio è questo?

 LUCRINO              - Tocca a voi l'intendere. A me fa piuttosto caldo che freddo.

GETULIO               - Come, caldo?

LUCRINO               - Caldo sì, per le fatiche che dovrò fare. Del resto nient'altro mi ha da toccare. E farò nondimeno tutto volentieri per servizio dei pa­droni.

GETULIO               - Anch'io mi ci metterei volentieri, se non dovessi rimetterci altro che la persona, come voi servitori che siete pagati per lavorare e vi basta far sera. Oh, roba con tanti sudori acqui­stata, quanti nemici hai!

LUCRINO               - Non dite, padrone, che la vostra non vi tocca. Forse che voi avete molti figlioli che la scialacquano?

GETULIO               - Uno solo ne ho e basta per consu­marmela tutta. Son nato in campagna, mi ci trat­tengo per risparmiare, ed egli nondimeno gioca, veste e spende più superbamente che se fossimo in città. Ma non la durerà, credi a me. Bolle in pentola qualcosa che gli sarà ostico.

LUCRINO               - Volete forse riprender moglie?

GETULIO               - Ha capito subito. E sai? ne ho adoc­chiata una buona per sdebitarmi un poco con te, che mi sei sempre stato amorevole e fidato.

LUCRINO               - Fino alla morte e più, se più si può.

GETULIO               - Sai perché io ti ho condotto oggi con me?

LUCRINO               - Veramente, se non me lo dite... Mi pare che tutto il giorno ci siamo aggirati senza far nulla.

GETULIO               - Non sono stato a contare i merli. Sono uscito per fare un pochettino all'amore, tan­to per dirtela in segreto.

LUCRINO               - Come, all'amore? Siamo giunti a questo punto? E con chi?

GETULIO               - Con il fiore, con il sole delle bellezze di questo paese. Conosci Ermilla, figliuola dì Natam, ricco pastore?

LUCRINO               - Chi? Quella bella giovinetta, che sarà unica erede?

GETULIO               - Quella è la mia dama.

LUCRINO               - Potrei dire ch'ella è anche la mia, se basta una sola parte per l'accordo. E che fine sperate per questo vostro amore?

GETULIO               - D'averla per moglie. Che altro fine vuoi tu che io abbia? E senti i motivi. Tutte le cose che muovono l'animo nostro devono essere utili ed oneste. Di modo che le oneste sono buone, le utili sono migliori; le utili e le oneste insieme sono ottime. Perciò, desiderando in quest'ultimo della mia vita di fare cosa buonissima, non so vedere la migliore che prender questa fanciulla in moglie. Non discorro bene? non ho ragione?

LUCRINO               - Ne avete da vendere, purché troviate chi ve la faccia.

GETULIO               - O Lucrino, di questo lasciane il pensiero a me. Son già nella Terra Promessa, e tanto ti basti.

LUCRINO               - E perché non darla piuttosto ad Ar­mindo, vostro figliolo? .

GETULIO               - Perché la voglio per me, Barbagianni. E mi duole assai che proprio nel tempo in cui volevo attendere alla conclusione di questo nego­zio, la disgrazia voglia che questi Forestieri ci vengano a disturbare. Se noi trovassimo modo di trarcene fuori, ti vorrei donare il mio santambarco vecchio. Pensaci un poco, di grazia.

LUCRINO               - Lasciatemi dare un poco due gratta­tine al cervello.

GETULIO               - Vedi, non c'è altro che far credere a Calfurnio che io sia povero.

LUCRINO               - State fermo: l'ho trovata. (Fra sé) Ho pensato di cavarne il matto umore a questo vecchio e di aiutare Armindo mio padrone giovane.

GETULIO               - Sentiamola.

LUCRINO               - Andiamo a casa, e fatemi una cedola nella quale vi confessate debitore di diecimila ducati di qualche mercante grosso. GETULIO - Grosso sei tu a consigliarmi simili cose. E se me li chiedesse poi davvero?

LUCRINO               - Metteteci un nome finto, o un nome d'un morto.

GETULIO               - E se venissero gli eredi o quel morto risuscitasse, e fosse di uno vero?

LUCRINO               - Non ha da uscire di mia mano. Basta che io me ne serva tanto quanto io lo faccia vedere a messer Calfurnio, e ve la renda subito. GETULIO     - E a che mi gioverà cotesta tua inven­zione?

LUCRINO               - Come egli constaterà che voi avete sì grosso debito, non solo vi libererà dalla briga dell'alloggio, ma da ogni altra futura imposizione. GETULIO          - Tu canti benissimo, Lucherino mio bello, ma che non si sappia da altri, che mi pregiu­dicherebbe nelle cose del parentado. Andiamo in casa, che la voglio distendere or ora come tu vuoi. Ma ricordati che le cedole non stanno in mano al debitore.

LUCRINO               - Datela a me, che troverò un uomo di paglia che mostrerà venire di Val di Magoga a chiederne il pagamento.

GETULIO               - E se quel buon uomo di paglia diven­tasse di carne? E volesse realmente riscuoterla? Questa invenzione comincia a non piacermi.

LUCRINO               - O io sono un uomo dabbene, o no; fidatevi di me. Vi farò una controcedola.

GETULIO               - A questo modo son contento. (Esco­no. Entrano Labano ed Armindo).

LABANO                - Infine io farò quello che tu vuoi, ma mi par che tu faccia un gran torto a te medesimo.

ARMINDO             - Labano mio, per la dolce memoria di quei primi anni, quando tu pure ardesti della tua carissima Gemma, ti prego d'aver compassione di questo mio ardente affetto, che, come già ti ho detto, è fondato sopra un onestissimo desiderio. Non so vedere perché mi debba apportar danno o vergogna alcuna.

LABANO                - Dubito che Getulio tuo padre non se n'abbia d'accontentar mai. Perché l'ho conosciuto sempre avido di accumular roba, per condursi un giorno ad abitare la città e farsi nobile. Sì che vorrà che tu prenda moglie in Gerosolima, e non per i contadi.

ARMINDO             - T'inganni, Labano. Mio padre non ambisce altro che roba. Trasportato da questa ingordigia, si contenta che io vesta questi abiti civili, non ch'io vada ove gli onori portano servitù e spesa grandissima. Anzi, essendo Ermilla figliola unica di Natam, ricco di così grossa facoltà, credo che egli piuttosto desidererà ch'io m'imparenti con questa, che con la più nobile di Giudea.

LABANO                - Orsù, mettiamo pure ch'egli se ne contenti, ma non manchi tu alla tua naturai dote di gentilezza con la quale potresti, ora che hai la roba, avanzarti nella città in gradi onoratissìmi? Vorrai dunque per avidità di questi quattro ar­menti di Natam, troncarti la strada di pervenire a maggior gradi di felicità, che le ricchezze non portano? Pensala bene, Armindo.

ARMINDO             - Tolga il cielo, che per vii desiderio di roba, io ami la bellissima Ermilla. Siede gene­rosamente nell'animo mio il pregio del suo valore, la castissima onestà e bontà sua; a questa sola guardo, a questa sola mi rivolgo. E se anche fosse priva di fortuna ricchissima la riterrei, e non meno amata mi sarebbe sempre.

LABANO                - Godo di vedere così perfettamente radicato il tuo amore. Con tutto ciò questo affetto negli anni giovanili è un fuoco impetuoso, che molte volte presto si estingue, e ne resta dopo un tardo e noioso pentimento.

ARMINDO             - Il pentimento non corre se non die­tro al piacere e poiché onesti sono i miei pensieri, piglia pure animosamente l'impresa di trattarne con Natam, e non ci metter tempo in mezzo, se ami la mia vita.

LABANO                - La difficoltà maggiore è che Natam è uomo all'antica, e come tale restio ai giovani di garbo del tempo d'oggi. Dico questo per espe­rienza, essendo avvenuto che un giovane fu licen­ziato da un bello ed onorato parentado, solo per­ché ai vecchi della fanciulla non piacquero tante garbatezze.

ARMINDO             - Io non sono in grado di poter contrastare col tuo senno; pure ho udito dire che l'apparenza esteriore è particolare indizio di buon animo e non che questo possa dar fastidio. Ma muterò anche gli abiti, se necessario.

LABANO                - Armindo, poiché così ti piace, ten­terò questo guado col miglior termine che mi sarà possibile. Forse avresti potuto ritrovare altro pre­stigioso mediatore essendo io povero vecchio, non pratico d'altro che d'affari di questa campagna e delle poche pecore che il Cielo m'ha date.

ARMINDO             - Tu sei tale quale benissimo ti cono­sce il mondo. Vorrei io poter valere te.

LABANO                - Ti ringrazio del cortese animo. Però vattene a casa, e mentre io procuro di trovare Natam, tenta un poco l'inclinazione di tuo padre e disponi da per te stesso a far apparecchiare le stanze e quello che occorre per la venuta di questi Principi incamminati, per quanto si dice, ad ado­rare il Salvatore del Mondo. Sai che il vecchio è piuttosto trascurato che altro. Non perdere sì bella occasione di esercitarti nel servizio di chi per la nostra salute è disceso di Cielo in Terra. Egli ti ripagherà alla fine d'ogni tuo giusto desi­derio.

ARMINDO             - Così farò, Labano. Andate in pace. (Escono. Entrano Biturgo e Zampaleo).

BITURGO               - Finalmente ogni tempo viene a chi lo può aspettare. Io presi quest'osteria a dispetto di cento furbi, che per invidia me la fecero rincarare quattordici dragme e non pensai d'averci a fare le faccende che ci ho fatte. Ora spero, con l'occa­sione di questi Principi d'Arabia, di toccare più soldi in un giorno che non in un anno chi mi vuole male.

ZAMPALEO           - Biturgo, gli uomini sono quelli che fanno i siti. Un principe che ha buon consigliere appresso, sempre aumenta il suo stato.

BITURGO               - Canchero, tu fai una gran compara­zione.

ZAMPALEO           - Anzi, piccola, trattandosi fra un oste nobile come voi ed un cuoco esperto come sono io. Perché non so quale maggior negozio o più importante alla vita umana sia di quello del mangiare. Ora voi, in questa taverna risiedendo come re, per dispensare ai sudditi vostri, cioè ai passeggeri, abbondante vitto, vi sono ancora io come consigliere, che cerco darvi utile e gusto per gli onorati avventori.

BITURGO               - Veramente non posso se non lodare la tua molta diligenza e studio di ben cucinare. Ma tu non sai fare col poco. Ed il nostro mestiere vorrebbe più apparenza che effetto.

ZAMPALEO           - Sì, se gli stomachi si empissero di aria. Quando gli ospiti pagano voi non vi conten­tate del suono dei denari, ma volete che ve li contino e paghino. Padrone, roba buona, ben cotta e pulita danno fama all'osteria ed arricchiscono gli osti.

BITURGO               - Orsù, Zampaleo, oggi bisogna met­tersi a bottega e spogliarsi, come si dice, in capelli, non solo per farsi onore, ma per corrispondere alla buona opinione che ha avuto di noi Calfurnio, che ci ha dato la cura di provvedere per tutta questa corte.

ZAMPALEO           - Padrone, datemi dei denari che io possa provvedere alla vettovaglia abbondante­mente. E lasciate fare a me. Voglio fare le più golose invenzioni, i più saporiti manicaretti che si possa immaginare. Dovendo cucinare per la bocca di quei Re, oltre alle superbe vivande in­viate da Erode, voglio tenere differente stile da quello che usano certi cuochi moderni nei ban­chetti reali: non voglio entrare in pasticci freddi, in paste dorate, in capri, porci e cignali, tutte cose da far mostre da speziali e da satollar facchini. Faccio disegno di por loro in tavola una ventina di polpette, fatte di petti di pernici arrostite, bat­tute diligentemente ed incorporate con torli di uova fresche, polvere di mostaccioli di Napoli, grasso di cappone ed un tantino di erbicce odo­rose e ripartite, come si deve; cuocerle in tegame con brodo di vitello di latte ed infine due spol­verate di cannella. Credo abbiano a trasecolare. Porrò ancora davanti a loro mezza dozzina d'ana-trotti di dieci in dieci giorni affogati dentro il latte, ben unti di burro e ripieni d'ostriche, infusi in delicatissimo olio e pepe e stufati dentro un conveniente vaso di terra. Son sicuro che faranno loro per gusto e maraviglia sugger le labbra e inarcar le ciglia.

BITURGO               - Mi fai suggere ed inghiottire il palato a me con la semplice narrazione. Orsù, piglia questi denari, provvedi a tuo modo, che se tu eccedi con lo spendere, io m'aiuterò con la penna ad aggravar nel conto.

ZAMPALEO           - Voglio fare in maniera che oltre al pagamento vi abbiano a dare cento scudi di mancia. Ma per questa notte attendete da voi all'osteria. Io, comprata che avrò la roba, me n'entrerò per il giardino, in casa di messer Getu-lio, per ordinare le vivande con maggior comodità, non essendo conveniente che il piatto dei Principi abbia da uscire dall'osteria.

BITURGO               - Va' pure, che mi risparmierai qual­cosa di legna ed essi pagheranno lo stesso conto. (Zampaleo esce. Entra Lucrino).

LUCRINO               - L'invenzione è buona; la cedola sta bene ed appare sottoscritta da tre testimoni: tutt'è che la gabelli a quel tristo di Calfurnio. Dove dia­volo ho io sognato Salamone Corcos, il pagabile? L'ho sentito nominare e non me ne ricordo. Ma ecco appunto Biturgo, mi saprà dar nuova di Cali'urnio.

BITURGO               - Addio Lucrino, so che da quando il padrone ti conduce a spasso e t'ha fatto suo segre­tario, sei superbo.

LUCRINO               - Colpa di Biturgo: di tutto è causa quello sciagurato che trovò il mestiere dello stare con altri.

BITURGO               - Voi servitori dite così per non essere trattati con astio; trovate a tutte le ore la tavola apparecchiata e la cantina aperta a spese d'altri. Io infelice, se mi voglio cavar la voglia di un bic­chier di buon vino, avendolo prima molto ben pagato, vengo a bere del mio proprio sangue. Così non mi sa mai buona alcuna cosa.

LUCRINO               - Sappiamo come ti sa buono il vino, sappiamo...

BITURGO               - Non ti nego che il bere non mi piac­cia, ma se faccio venire qualche buon vino di Falerno da Roma o da Ischia di Napoli, costano tanto i noli che se io non voglio andare a gambe levate, bisogna che li guardi e li lasci stare.

LUCRINO               - Oh, che ti manca la comodità d'az­zuffarti con la Malvasia di Candia e con le Lacrime di Chio, che son molto più vicine?

BITURGO               - A dirti il vero, io vorrei per mio uso un buon vino vermiglio, leggiadro, maturo, odori­fero, spiritoso, che nell'aspetto sembrasse un ru­bino, nell'effetto un cherubino, saltasse nel bic­chiere, e, nello stomaco stesse a sedere.

LUCRINO               - Infine tu sei il re dei beoni.

BITURGO               - Senti, la regola è questa: i buoni vini debbono avere cinque effe: Fortia, Formosa, Fra­granza, Frigida, Frisca. Vuoi venire a fare un brin­disi con un vinettino vermiglio, che fin di Toscana mi son fatto venire, da un villaggio che si chiama Chianti?

LUCRINO               - Vin di Chianti? Vin da Santi. Verrò volentieri, che appunto cerco di Calfurnio. E' in casa?

BITURGO               - Entra, è su che riposa; ma oggi sì che voi farete il fianco, avendo alloggiato tre Re in casa vostra.

LUCRINO               - O ladrone, tu dubiti di non potere graffignare a tuo modo. Mal ne sa al mio padrone.

BITURGO               - Così egli ci avrà a metter del suo gran cosa? Ho ordine di provvedere e cucinare a spese di Erode per la persona dei Principi e per ogni altro.

LUCRINO               - Se tu mi volessi bene, non m'invidie-resti questa fortuna.

BITURGO               - Vieni meco, voglio che tu vegga ch'io non ti voglio male. Ti voglio dare un bicchiere di quel glorioso vino ad ogni modo. (Escono. En­trano Labano e Natam).

 NATAM                 - Io so benissimo che chi ha figliole ha una mercanzia che, tardando sempre, perde di credito. Ma so ancora che il negozio d'accasarle è il più difficile, massimo ai tempi d'oggi, dove se tu vuoi persona ben nata, non trovi roba. Se invece ne vuoi trovi mille cattivi costumi. Se cerchi gio­ventù, vi è dissolutezza e inesperienza. E spesse volte, non trovi né l'una né l'altra.

LABANO                - O Natam, il partito che io ti propongo è libero da gran parte di questi sospetti. Tu hai conosciuto sempre Armindo, fino da quando nac­que, e conoscesti e conosci benissimo Getulio suo carissimo padre, uomo nato in questo villag­gio. Che col mercanteggiare e' risparmiare, e con la dote e l'eredità che ebbe della moglie, ha messo insieme di stabili quello che vai meglio di tre­centomila ducati. Io non ti saprei dire altro. Que­sto mi pare uno di quei partiti a cui dovresti andar dietro tu e non lasciarli sfuggire. NATAM       - Eh, Labano, tutto quello che riluce non è oro. E poi non vedi quel giovanetto     - dato che desideri il nostro parentado, il che non credo -ti pare ch'egli sia già da moglie? Ma se ha la bocca che gli sa di latte?

LABANO                - A me sì. Essendo unico figliolo col padre vecchio.

NATAM                  - E a me pare di no. Un Ganimede che non sa se non titillare un liuto e tirarsi una cal­zetta. Non è fatto mio. E poi io non ho fretta di maritare la mia figliola.

LABANO                - Tieni conto che la pena di avergli a consegnare la dote non ti ritardi il diletto di vederti scherzare dolcemente i nipotini d'attorno.

NATAM                  - Per ora non ti posso dir altro. Ci an­drò pensando. Poi queste son cose che bisogna misurarle cento volte e tagliarle una. Ma dimmi, di grazia, con che fondamenta me ne ragioni tu?

LABANO                - Mi ha fatto venire su questa conside­razione il tuo discorso, che essendoti state scritte le stanze per servizio di questi forestieri sono andato considerando di quanta soggezione siano le fanciulle e quanto stiano male senza compagnia. Che se la tua n'avesse, non occorrerebbe ora che te ne pigliassi altro pensiero.

NATAM                  - La mia ne ha quanto qualsiasi altra; ma è forza confidarti che Ermìlla, la mia figliola, è promessa a Getulio. Però poco durerò ad averne pensiero e mi rallegro d'aver fatto cosa appro­vata dall'altrui consiglio, giacché tanto m'esorti a metterla in quella casa.

LABANO                - Getulio? Oh, potrà ben dire: nonno mio, andiamocene a letto.

NATAM                  - Coteste son baie. Le fanciulle si de­vono dare al senno e non alla gioventù. Vuoi tu che la dia a quella fraschetta? Un uomo di senno è più stabile: così facevano i nostri antichi. Co­munque andiamo a casa tua, che già le donne vi devono essere arrivate e discorreremo meglio di questo fatto.

LABANO                - A patto ch'io ti possa dir sempre il parer mio. [Escono. Entrano Lucrino e Calfurnio).

LUCRINO               - Voi siete notaio, messer Calfurnio, e tanto basta per dire che intendete tutte le furberie del mondo. Questa cedola, in effetti, è uno strat­tagemma del vecchio per vedere se vi poteva dar ad intendere ch'ei fosse povero e sfuggire la briga dell'alloggio. Ma poi che voi avete trovato il pelo nell'uovo, vediamo se la pania tenesse per un altro tordo. Dovete sapere che l'asino è entrato in zurlo e vuol pigliar per moglie quella bella fanciulla unica figliola di Natam. Ora, il mio povero padrone giovane ne è innamorato anche lui. Però, se volete fare un atto eroico e liberare sì bella cosa dalle mani di quel vecchio, distraete questo parentado, col pubblicare questo debito.

CALFURNIO         - Ma che prò ne risulterà ad Ar­mindo, se mettiamo in voce di popolo che suo padre si è indebitato sì grossamente?

LUCRINO               - Il debito di Getulio non nuoce allo stato di Armindo, perché è ricco per eredità e dote materna. Non lo sapevate? E poi di cosa nasce cosa.

CALFURNIO         - Io per me la calerei a questo vec­chio misero. E Natam inclina a dargliela?

LUCRINO               - Così intendo. Perché anche lui è mez­zo matto, e dice il proverbio che ogni scimmia pettina la sua scimmia.

CALFURNIO         - O che concetto. Io non ho inte­resse, se non che sono stato giovane e innamorato anch'io, però farò quello che vorrai, perché simil pera non caschi in bocca a sì tristo porco.

LUCRINO               - Certo che è un peccato. Non solo per rispetto della fanciulla, ma del povero Armindo ancora, che se ne dispera.

CALFURNIO         - Non dubitar Lucrino, ho già pen­sato come deve esser fatto.

LUCRINO               - E come, di grazia?

CALFURNIO         - Quel nome di Salamone Corcos, che tu inavvedutamente hai fatto mettere in questa cedola, è il nome del furiere d'Erode, che sarà qui con i Re domattina: è un piacevolissimo uomo, ed amico mio particolare.

LUCRINO               - Sì sì. E' quello che va innanzi e indie­tro a riscuotere i censi dalle Comunità: è passato cento volte di qui. Non mi maraviglia più come mi venne in mente. [Entra Bettolino).

BETTOLINO          - O perché non ho io cento gambe, come ho cento pensieri d'essere in cento punti diversi?

LUCRINO               - Dove vai così allegro, Bettolino?

 

BETTOLINO          - A chiamare fanciulle, garzoni, suo­natori, che stasera si fa veglia a casa di Labano.

LUCRINO               - Perché stasera?

BETTOLINO          - Perché è andata a stare da Madama Gemma la bella del paese, insieme con madama Teagona sua madre.

CALFURNIO         - Che? Madama Teagona, moglie di Natam, veglia stanotte in casa di Labano? E vi ha condotta Ermilla sua figlia?

BETTOLINO          - Messer sì. Lasciatemi andare, ho fretta ed ho da trovare perfino chi faccia dei giochi.

LUCRINO               - Se non vi sarà altri, darò nel matto io, Bettolino. Vi sarà la tua dama?

BETTOLINO          - Io non l'ho ancora, perché il babbo non mi vuol comprare il santambarco e la camicia coi dondoli.

LUCRINO               - Dunque, chi non ha dondoli o un bel santambarco, non può aver dama? Non dubitare, te ne voglio trovare una io.

BETTOLINO          - Accattamela stasera, che ne ho bisogno per ballare.

LUCRINO               - Che dite, ser Calfurnio, ci vogliamo pigliare questo poco di spasso, stanotte?

CALFURNIO         - Io ci verrò volentieri. Perché ad un tempo stesso, avrò comodità di comandare a parec­chi contadini che domattina vadano a spianare la strada tutta ingombra. Perciò, arrivederci stanotte.

LUCRINO               - Arrivederci. Io voglio andare a dar la nuova ad Armindo e mettere a letto il vecchio.

BETTOLINO          - Andate, come le lucciole.

FINE PRIMO ATTO

ATTO SECONDO

GETULIO               - (dall'interno della sua casa, gridando) Armindo, Lucrino, Armindo, Lucrino. Diavolo, che sentano!

LUCRINO               - (di fuori) Lasciami camminare, ch'io entri in casa avanti che il padrone si levi, se no sentirò la predica. Ma guarda, la bestia è già in piedi.

GETULIO               - Olà, non c'è nessuno in casa? Oh povero me, non li trovo. Mi avranno rubato, gli assassini, portato via i denari. Ma il chiavistello è intatto e non è stato tocco il granaio; vediamo se si notano impronte che abbiano trasportato roba fuori.

LUCRINO               - Che tu possa ardere come quel lume, vecchio matto.

GETULIO               - (esce di casa con una lanterna in mano)

                                 - Oh, che tramestìo e non è ancor dì. Eppure quella bestia di cuoco è due ore che tempesta in cucina. Oh povera mia legna, so che te ne vai in fumo. Gran canaglia sono i giovani e i servitori d'oggi. Tutta notte a zonzo senza considerare che abbiamo gente nuova per casa.

LUCRINO               - Mi vien voglia di fargli qualche burla.

GETULIO               - Chi è qua? o là? bel tomo, a questa ora si rincasa? e del servizio con Calfurnio che n'è stato?

LUCRINO               - Ho fatto pulito, padrone. Gli sarà presentata la cedola da un mercante mio amico. E di già gli ho cominciato a zufolar negli orecchi che so che avete di molto debito. Sì che penso sarete esaudito.

GETULIO               - O Dio volesse che per oggi mi tenessi povero. Benché il mal mi prema, mi spaventa il peggio.

LUCRINO               - Chissà se è a conoscenza di quanti mangiapane vi siano nel mondo.

GETULIO               - Mi disse un amico che ha lettere da Roma, come il numero dei sudditi dell'Impero, ascenda a quattrocento milioni, quattrocentodieci­mila e tredici uomini.

LUCRINO               - Quei tredici li donerei dì vantaggio. Vedete che dominio!

GETULIO               - E tutto finisce per ferire le borse di noi poveri uomini. Ma torniamo a noi. Dove sei tu stato stanotte?

LUCRINO               - Quando io vi dicessi altrimenti, voi non lo credereste; e quindi confesso: vengo da una veglia.

GETULIO               - Da una veglia? E così presto si fanno quest'anno le veglie, che non siamo ancora di Carnevale? Bugiardaccio.

LUCRINO               - Non ingiuriatemi, che ho proprio detto il vero. Domandatene a Labano vostro, che stanotte ha fatto veglia per amor di Ermilla, che andò iersera con suo padre e con sua madre a casa sua; per via che loro sono state segnate le stanze per quei forestieri e temevano arrivassero innanzi giorno.

GETULIO               - Che ti venga, potevi anche farmi saper qualcosa.

LUCRINO               - Non pensavo che vi interessasse.

GETULIO               - Come, interessasse? Se ci avevo la dama.

LUCRINO               - Se ha da esser vostra moglie, ve ne caverete la voglia.

GETULIO               - Sei un pezzo d'asino. Non te la per­donerò mai. Mi dovevi chiamare e sarei venuto, sebbene non avessi avuto gambe. Ma io l'ho intesa: quel ribaldello d'Armindo gli si vorrebbe addomesticare d'intorno; ma non l'avrà, voglio andare or ora a trovare messer Calfurnio e sco­prirgli la cosa della cedola. Non mi curo più che mi scusi; voglio anzi che mi tenga ricco. E che mi faccia una bozza di scritta di parentado ben cautelata, e subito me la vado a far sottoscrivere da Natam e concludere il negozio. E vengano i Re e gli Imperatori, e pesti il cuoco a sua posta, che non voglio però che i fatti d'altri guastino i miei. Rendimi intanto quella polizza.

 

LUCRINO               - Stai fresco. Non vi ho detto che l'ho data ad un mio confidente, che facesse quel ser­vizio?

GETULIO               - Fattela rendere. Non voglio mi serva ad altro. Ma guasterò ben io l'incanto come trovo Calfurnio.

LUCRINO               - Fate quel che vi pare.

GETULIO               - Lo farò bene. Tien qui questa lan­terna. Spegnila, rimetti l'olio nella stagnata. Stri­glia la mula. Spazza la casa ed attacca quelle stuoie intorno alla sala, che forse forse la venuta di questi Re non mi farà ripulire le stanze a spro­posito. (Escono. Entrano Raccheto, Giordano e Bettolino con ferri da lavoro).

RACCHELLO        - Gli è una gran cosa che noi poveri non s'abbia mai un'ora di bene, che non ce ne corrano dietro cento di male. Ci siamo un poco ricreati stanotte alla veglia? Ora, in cambio di riposarci un poco, ci comandano di andare a lavo­rare per le strade. Che possa raffreddarsi ser Caldoinforno, che ce l'ha imposto.

GIORDANO           - Fratello, appena abbiamo uno spasso ecco che ci apparecchiano mille fatiche.

BETTOLINO          - Lasciate dire a me, che sono stracco dall'andare a chiamare le fanciulle, ripor­tare i candelieri, le forme da bastoncelli ed altro, e non ho mai ballato; che venga lo zinzero alle dame. Perché sono piccolo non ho grazia con esse. Ma se cresco...

RACCHELLO        - Fatti in qua Bettolino, che cosa hai di dietro?

BETTOLINO          - Il santambarco vecchio. Sono andato a spogliarmi anch'io perché l'aver tutt'oggi a trascinar sassi, mi frusterebbe quel poco di giubbarello che ho.

RACCHELLO        - Anche noi abbiamo fatto come te, ma questa è una strana foggia di santambarco: sembrano calzoni, invece.

BETTOLINO          - O povero me, sono i calzoni del nonno, li ho presi quasi al buio e non me ne sono accorto.

GIORDANO           - Ah, ah, ah! questo è uno scherzo: se tu lo facevi iersera a veglia, ci facevi crepar di ridere. Ah, ah, ah!

BETTOLINO          - Sono forse ladro per questo? Av­viatevi oltre, che voglio andare a riportarli. Vi rag­giungerò per i traghetti.

GIORDANO           - Va' via, che ce ne andremo pian piano. In effetti, Racchello, bisogna che questo sia il vero Messia, poiché si muovono perfino i Re a venire a visitarlo. E io, per me, mi sento una gran divozione nel cuore. E perciò vado oggi volentieri a faticare per amor suo. Ma non ti pare che sia una gran cosa che essendo egli il Figliolo di Dio, se ne stia di questi tempi in un Presepe così umile?

RACCHELLO        - Giordano, i segreti di Dio sono altissimi. Labano, che fu a visitarlo la notte in cui nacque, dice che così è necessario per il peccato del nostro primo padre Adamo. E che da questo dobbiamo conoscere l'infinito suo amore e miseri­cordia.

GIORDANO           - Piaccia alla Sua Divina Bontà, che lo possiamo conoscere perfettamente. Ma ecco Calfurnio. Poveri noi, se non ci trova sul lavoro. (Escono. Entrano Calfurnio ed Armindo).

CALFURNIO         - Quietatevi, Armindo, che vostro padre non vi farà mai torto. E tenete conto di Lu­crino, perché egli è un buon servitore. Egli stesso, senza che voi lo pregaste, ha trovato il rimedio di guastar queste nozze. Lasciate fare a me che so quello che mi dico.

ARMINDO             - Messer Calfurnio, io non saprei esagerare con parole d'obbligo, ma vi dirò solo che se io non avrò Ermilla, mi sentirò perduto. Fate ch'ella sia mia sposa. E per darvi fede del­l'immenso amore ch'io le porto, basta che abbiate visto stanotte l'infinita sua grazia e bellezza.

CALFURNIO         - Veramente è bellissima, ma per gli occhi amanti le vaghezze sempre appariscono maggiori.

ARMINDO             - Voi non mi negherete che ella sia tutta grazia e leggiadria?!

CALFURNIO         - E' vero, ve lo confesso, e mi sotto­scrivo in questo proposito. Vorrei esser poeta per celebrare le sue bellezze.

ARMINDO             - O padre ingrato. Vuoi esser proprio colui che mi invola così dolce tesoro?

CALFURNIO         - Non ve la prenderà di certo. Fida­tevi di me.

ARMINDO             - In voi mi rimetto: fate in modo che questo negozio si concluda a mio favore, voglio che più vi renda questa giornata che non un anno intero il vostro banco forense.

CALFURNIO         - A me basta la grazia vostra. Ma che rumore è quello che io sento? Certo sono quei Principi. Su, presto, andatevene in casa per rice­verli, ed io ritornerò nell'osteria a dare alcuni ordini. Ma ecco qua tutto affannato l'interprete, anzi, il re dei milioni d'alchimia; al solito deve essere sopra qualche suo ghiribizzo. (Armindo esce. Entra Possidonio).

POSSIDONIO        - Metallo in prima materia redu-cenda sunt...: Distillazione, calcinazione, rubifica-zione e sublimazione. Avrei ben fatto io, con meno spesa, un monte d'oro, quanto non può portarne seco il Re arabo. Se n'avessero data cura a me filius artis, avrei arricchito il mondo con i miei tesori...

CALFURNIO         - Buon giorno signor Possidonio, non conoscete più il vostro Calfurnio?

 POSSIDONIO       - Ch'io non conosca un sì caro e veterano amico? E non rammemori la dolce con­versazione che avemmo nei nostri primi anni imberbi? Mi dice l'animo esilarato, che il mio caro Calfurnio anch'egli agnoscit suos laetusque ad moenia ducit.

CALFURNIO         - Vi condurrò, non dubitate, agli alberghi, anzi vi siete giunto, che questa è una osteria preparata per voialtri signori. Ma com'è che voi non siete col resto della corte?

POSSIDONIO        - Parlerò volgare con voi per esser meglio inteso. La corte, con i tre Re, è già nel contado d'Effrata e Salamone Corcos, il furiere, ha fatto riporre nelle stalle alle radici di questo monte tutte le bighe, gli equi, le quadrighe. I Principi, per loro diporto, hanno voluto fare que­sto poco di salita a piedi fino all'ospizio loro, per corroborazione di sanità. E però essendo il mio compito, come dovete sapere, d'interprete regio in questa occasione, quindi cavalco talvolta avanti.

CALFURNIO         - Mi avveggo dalla toga che la ca­valcatura non è stata facile: siete tutto fango, pover'uomo.

POSSIDONIO        - Se voi non parlaste con quella formula commiserationis che...

CALFURNIO         - Non dite più oltre, v'intendo; so benissimo che vi si pose nome Possidonio, poiché voi possedete ogni dono, anzi siete più d'ogni uomo ricchissimo.

POSSIDONIO        - Possidonio è epiteto di Nettuno, cioè del Mare che abbraccia la terra, onde, io a guisa di mare, radunando quanti tesori ha la terra, posso a gran ragione reputarmi ricchissimo. Se vi piacesse una volta rendermi quanto avete di mio, mi rendereste grazia. Ho lasciato il mio liber ratio-num in Jerusalem, perciò non mi sovvengono i nomi. Voi che mi faceste più rogiti dei denari che io diedi a diversi, ve ne potreste forse ricordare.

CALFURNIO         - Posso dare un'occhiata al mio protocollo, intanto mi torna in mente una grossa posta che deste in cambio ad un Getulio Levitani, il più facoltoso uomo di questi paesi.

POSSIDONIO        - E questo sarà il primo a metter mano al suo borsellino. Quanti furono?

CALFURNIO         - Seimila ducati, se ben ricordo. E furono dei primi che vi riuscirono dopo che impa­raste a congelar Mercurio.

POSSIDONIO        - Sì, sì, di codesti furono appunto, ripetetemi il nome del debitore.

CALFURNIO         - Getulio Levitani.

POSSIDONIO        - Non mi resterà che domandar­ glieli, ma dubito che quel Getulio non me li darà mai. ,

CALFURNIO         - Non vi fate paura con l'ombra: qui si tien ragione ed io amministro tutti ugualmente. Ve ne richiamerete al mio banco forense, e se io non vi servo avete diritto a lamentarvi di me.


POSSIDONIO        - Entriamocene dall'oste, che io vi informerò bene dei meriti. Intanto mi riposerò.

CALFURNIO         - (fra sé) M'informerà dei meriti quando non è neppur consapevole del fatto, o gran bufalo. C'è fitto fino ai gomiti. Ora sì che m'è venuto in taglio di servire Armindo e Lucrino.

(Entrano i tre Re Magi, tre Paggi, tre staffieri o più; il Nano, Armindo, Getulio, Salomone).

IL RE VECCHIO   - Io per me sarei d'animo, si­gnori, che più non domandassimo agli uomini di questo Celeste Fanciullo.

IL RE GIOVANE   - E perché, Sire?

IL RE VECCHIO   - Perché ho avvertito che con quanta maggior diligenza ne abbiamo interrogato, con tanta maggior oscurità ne siamo rimasti igno­ranti. Già vedemmo la sua Stella in Oriente, ma quando chiedemmo in Gerusalemme che ci fosse mostrato il luogo dove era nato il Re dei Giudei, sparì dagli occhi nostri quel glorioso lume e dal­l'animo ancora lo spirituale contento che ci faci­litava il cammino.

IL RE MORO          - Io ho fatto più volte riflessione di questa cosa. Ed in effetto dubito sia stato errore chieder l'umano aiuto, quando l'immensa libera­lità di Dio ci aveva concesso il divino.

IL RE GIOVANE   - Veramente per insegnarci il luogo doveva bastarci la profezia di Michea, aven­do detto chiaro: et tu Bethlem Terra luda nequa-quam minima es in principibus luda,'ex te enim exiet Dux, qui regat populum meum Israel.

IL RE VECCHIO   - Lieve pensiero, e con penti­mento lo confesso, fu il trattenerci con quel cu­rioso Re Erode. E non so come ci uscì dall'animo la memoria delle mirabili azioni di Dio.

IL RE GIOVANE   - Io m'indussi facilmente a do­mandarne, credendo che questa gente avesse più chiara cognizione del mirabile Natale; ma non l'hanno. Ero persuaso che risuonasse qui, più che nelle nostre contrade, il vaticinio della Delfica Sibilla, che lasciò scritto: «nascerà il Profeta da una Vergine senza congiungimento d'uomo ». In­vece non sono consapevoli di tanto mistero.

IL RE MORO          - Forse ne sono indegni per i lor peccati; un'altra Sibilla ha detto: « tu gente senza vergogna non hai conosciuto il tuo Dio ». Aggiun­gerò ch'io n'andavo chiedendo novella, non tanto per apprendere il luogo, quanto per ritrovar qual­che riscontro d'un fatto così meraviglioso: che Dio scenda di Cielo in Terra, e che in Israel si faccia uomo.

IL RE VECCHIO   - Non è meraviglia, dunque, che se la fede vacillò nei nostri petti siamo cascati dalla mirabile protezione di Dio. E pur compren­demmo questa verità, quando vedemmo apparire la nuova stella non registrata in alcuna delle im­magini celesti.

IL RE MORO          - Come sento ora aprirmi l'intel­letto! Per la dolcezza di questi santi ragionamenti e l'avvicinarmi, come penso, a quell'ardente sfera di sapienza e d'amore, dobbiamo chieder per­dono a Dio di questo errore, e seguitare il nostro viaggio solo confidando nella Divina Provvidenza.

IL RE GIOVANE   - Seguitiamo dunque verso Betlem, ch'io spero, avanti che questo sole s'ascon­da, che avremo grazia di vedere quell'eterno Sole, per la cui ineffabil luce ogni lume risplende.

SALAMONE          - Serenissimi, questo è il villaggio d'Effrata, destinato per il pranzo di questa mat­tina.

IL RE VECCHIO   - Ora, nel nome del Signore, conduceteci agli alberghi e fate rinfrescare la gente. Non curate di ricercarci fin che non vi domandiamo, e che i nostri, che sono dietro, si distribuiscano per queste case e non arrechino danno. Intendete?

SALAMONE          - Così faremo, Serenissimo Signore.

CALFURNIO         - Le Maestà vostre si degneranno passare in questa casa preparata per loro, ove potranno riposarsi. E scusino le angustie e qua­lità del luogo.

IL RE GIOVANE   - Con troppo cortese pensiero seguita Erode ad onorarci dappertutto; i suoi ministri puntualissimamente eseguono.

GETULIO               - Le Maestà vostre sono accolte nella casa di un pover'uomo, ve lo ricordo.

ARMINDO             - Ritiratevi, padre. Non occorrono que­ste cerimonie: lasciate fare a me. (Entra la Corte in casa di Getulio. Vengono in scena Lampridio e Narsete, staffieri).

LAMPRIDIO          - Questo è un bellissimo paese, Narsete, ma la gente mi sembra sempliciotta.

NARSETE               - Bello come un paradiso, ma ancora non si ragiona di mangiare né bere.

LAMPRIDIO          - Voglio dire che siamo fra gente quieta, e se ci allontaniamo un poco dalla corte, non credo che abbia ad andare il mondo sotto­sopra.

NARSETE               - Io per me ho bisogno d'andar di corsa ai carriaggi, che mi sono scordato le casse di quei tesori che hanno preparato per offrire a questo Messia, quando lo troveranno. Tu sai che le casse debbono stare sempre appresso di loro, così le farò condurre per la porta di questo giardino, perché il maestro di casa non s'avvegga di questa mia negligenza.

LAMPRIDIO          - Non t'invidio, io mi contento d'aver le chiavi delle borracce e delle cantinette, che si possono sempre riempire per le osterie, ma a te, se ti manca qualche cosa, arrivederci in Galilea.

(Escono. Rientrano Cherindo, Dorino, Possidonio, Salomone e Biturgo).

CHERINDO            - Padron riposto, servitor disposto; fratelli, chi si può salvar si salvi: languo di fame.

DORINO                 - Beati noi, che non ci tocca il servizio e non abbiamo oggi il maestro che ci liscia il pelo. Io per me vo' darmi alla brusca, il furiere è galan­tuomo. Oh, ecco qua questo viso d'allocco che vuol fare il vice Demostene; con chi diavolo ce l'ha?

BITURGO               - Cos'è questo dire che mi tenete debi­tore di tanta somma, se io non v'ho mai visto da che vi detti a balia?

POSSIDONIO        - Ah, dunque non ricordi? Ed io avrò sparso invano tanti gloriosi sudori? Non ri­cordi quando da me ti furono largite le cento dragme del mio elisir trasformato in oro purissimo?

BITURGO               - Né puro né torbido; mai ebbi cosa alcuna da voi.

POSSIDONIO        - Se si pagassero i debiti col negare, voialtri osti sareste i migliori cassieri del mondo. Infine, ciò che è in questa osteria mi appartiene.

CHERINDO            - Che bel divertimento è questo, il povero oste che non sa l'umor di costui, va tutto sossopra.

POSSIDONIO        - O secolo corrotto, così si pagano i servizi ricevuti?

BITURGO               - State nei termini e parlate onesto, perché io sono uomo dabbene, e come tale rico­nosciuto.

SALAMONE          - Messer oste, non adombratevi delle parole, se avete debito con messer Possi­donio, pagherò io per voi.

POSSIDONIO        - Accetto il fidejussore, e se m'ac­comoderete d'un paio di giuli, gli rimetto per amor vostro duecento ducati.

 SALAMONE         - Anche di questi mi contento, tor-natevene dentro ed abbiate cura di questi fan­ciulli.

POSSIDONIO        - Fanciulli d'indole ingenua e di chiarissimo sangue, benché io non sia qui vostro maestro, sentite nondimeno quel che comanda il signor Salamone.

CHERINDO            - Mi parrebbe essere un asino s'io dovessi imparare da voi la vera fatica.

DORINO                 - E perché non un bue, che più dura e più ti somiglia? Addio. (Escono Cherindo, Dorino e Possidonio. Entrano Margutte, Calfurnio e Zam-paleo).

MARGUTTE           - E di noi che sarà?

SALAMONE          - Non dubitare Anania.

MARGUTTE           - Io non dubito di nessuno. Voi misurate il mio appetito con la mia persona e non considerate che io sono razza di rondone, che ha più corpo che gambe.

SALAMONE          - Sta di buona voglia, io veggo qua messer Calfurnio che avrà provvisto per noi be­nissimo.

CALFURNIO         - Se non bene, almeno volentieri. Messer Salamone, come state?

SALAMONE          - Per servirvi prontissimo.

CALFURNIO         - Mi rallegro vedervi con buona sanità. Dio vi mantenga.

SALAMONE          - Ma non già in queste fatiche di viaggi, massime dell'aver ad accompagnare gente sì savia, che mangia e dorme a punti di luna e cavalca con più fretta che un corriere spedito in diligenza.

CALFURNIO         - Orsù, vi ristorerete un poco questa mattina. Facciamo tavola insieme qua da Biturgo, mio amicissimo: ci tratterà bene. Vi discorrerò intanto d'un servizio appartenente ad un giovane paesano che sarà cosa breve e di gusto.

SALAMONE          - Io m'impegnerò sempre volentieri d'un servizio vostro e degli amici vostri. Ma po­tremmo vedere un poco l'oste?

CALFURNIO         - Egli è dentro a ripor le bestie. Ma ecco qua il suo cuoco. So che s'affoga, è vero, Zampaleo?

ZAMPALEO           - Non mi trattenete, Calfurnio. Che venga... sto per dire... Avevo ordinato una doz­zina d'ortolani e in casa Getulio non si trova uno spiedo a proposito.

CALFURNIO         - Non usate voi infilzarli in uno stecco e poi legarli allo spiedo?

ZAMPALEO           - Messer sì, ma quando lo spiedo è sì grosso che li copre mezzi, non si cuociono egualmente per tutto. Io ho bisogno di cuocerli con una fettolina sottile sottile di lardo bianco ed una fronda di salvia fra l'uno e l'altro, sì che per il piacere l'istessa bocca ne versi e ne stilli lacrime di dolcezza.

SALAMONE          - Me li hai fatti mandar giù quasi in ispirito. Infatti, messer Calfurnio, questo deve essere un valent'uomo. Avremo noi cose di sua mano questa mattina?

ZAMPALEO           - Mandate un poco questo scim­miotto a dire a Biturgo che mi mandi lo spiedo piccolo da beccafichi, che fra tanto vi voglio dare alla svelta una lezioncina per desinar bene.

SALAMONE          - Va' via, Margutte, cammina. (Mar­gutte esce).

ZAMPALEO           - Fatevi dare questa mattina una crostatella di pasta morbida, bianca e sottile, ripiena di coratelle di piccioni e di pollastri, con quattro fettoline di prosciutto, venti grani d'agre­sto, abbondante di zucchero, cannella e burro. Di poi una minestrina di tartufi in brodo di cap­poni grassi. Indi, un pasticcio d'occhi di vitella di latte e caprettini. Un paio di pernicioni morbida­mente arrostiti e ripieni di lamprede e d'ani­melle. E non altro perché, dice il proverbio, poco ma buono.

SALAMONE          - Se mangiamo tutta cotesta roba, non parremo digiuni. (Ritorna Margutte con lo spiedo) Ma ecco lo spiedo.

ZAMPALEO           - Addio. Povero me, Dio voglia che quei guatteri non m'abbiano giustiziato quell'ar­rosto di fagiani.

BITURGO               - Signori, entrate: la tavola e la vi­vanda è in ordine.

MARGUTTE           - E l'appetito non è in disordine. Mio primo. (Escono tutti. Entrano Madama Gem­ma, Madama Tcagona, Ermilla e Nisetta).

TEAGONA             - Voi mi perdonerete, Madama Gem­ma, intendo che la corte parta oggi: me ne voglio tornare a casa mia, in ogni modo. Vi ho dato fin troppo disagio.

GEMMA                  - Come disagio? Ci è stato consola­zione. E poi la mia Nisetta non prova altro bene che quando è da Ermilla.

ERMILLA               - Ma noi ci vediamo di rado. S'ella mi volesse bene quant'io a lei, mi verrebbe più spesso a vedere.

NISETTA                - Da me non resta Ermilla. Dio sa quanto lo desidero. Se voi faceste alle volte dei balli e delle veglie, forse che mio padre mi lascie-rebbe venire.

TEAGONA             - A noi non si conviene far veglie.

NISETTA                - E perché no, che siete più ricche degli altri?

TEAGONA             - Perché questa è l'infelice condi­zione di chi ha qualcosa, non poter far del suo a proprio modo. Godono più le fanciulle povere, credi a me.

GEMMA                  - Vi lascerò dire, Madama Teagona mia. Credetemi che alle volte non posso menar Ni­setta al Tempio, perché non ho il modo di farle neppure uno zinale nuovo. Ed oggidì si costuma andar con tanto sfoggio che le fanciulle non si conoscono dalle spose. E quello ch'è peggio, tanto vuol fare il povero quanto il ricco. E chi si sta nei suoi cenci è mostrato a dito.

TEAGONA             - Non bisogna badare a questo. La bontà è il vero ornamento delle fanciulle. Vota­tevi, Madama Gemma a questo nuovo gran Pro­feta, che ci dissero quei pastori esser nato vicino a Betlemme, che vi darà grazia di condurre a onore questa e tutte le altre vostre figliuole.

GEMMA                  - Così fossi io degna d'essere esaudita.

NISETTA                - Tua madre ha bel tempo, che ti può fare molte vesti. Vedi bene che si dice che tu sia per maritarti. E Dio sa quando ne troverò io, perché non posso andare adorna come te.

ERMILLA               - E chi t'ha detto ch'io sto per mari­tarmi? E a chi?

NISETTA                - O fattene nuova, a un ricco!

TEAGONA             - Che ragionate voi di marito, fra­schette? Su Ermilla, cammina.

GEMMA                  - Sapete che vi ho a dire, madama Tea­gona, non vi lasciate intrappolare che questa figliola sia data a quel vecchio, che sarebbe troppo gran danno. Avete quel giovanetto d'Ar­mindo che la terrà come gemma nell'anello. TEAGONA     - Sorella mia, voi sapete che noi donne non abbiamo voce in capitolo. Io per me, me ne contenterei, ma lascerò fare a chi fa. (Entrano Labano, Natam e Margutte).

NATAM                  - Orsù, meno ciance; non c'è tempo da stare tutto il giorno per le strade.

TEAGONA             - Signore, non possiamo volare. (Le donne con Margutte entrano in casa).

NATAM                  - Io mi ti sono aperto liberamente, La­bano. Non posso più tornare indietro. Sono obbli­gato di parola. Bisogna che la sia sua.

LABANO                - Al nome del Signore, ogni cosa per il meglio. Alla fine l'ambasciator non porta pena. T'ho detto l'animo mio.

NATAM                  - Voglio vedere se nell'osteria c'è Cal-furnio, mi consulterei volentieri del modo per fare il contratto. Perché sebbene la mia figliola sarà erede, non si pensi Getulio ch'io gli voglia dare di presente ogni cosa in conto di dote. Vo­glio essere padrone fin ch'io viva e pensare ancora per i figlioli che mi potrebbero nascere.

LABANO                - Quanto a figlioli, le son sonate.

NATAM                  - E perché Labano? par che tu mi tenga decrepito.

LABANO                - Io riguardo solamente la soprascritta.

NATAM                  - Le soprascritte son bugiarde. So bene io come mi sento in gambe. E poi non ha avuto un figlio pochi dì sono, Zaccheria sacerdote in Montana Judea, che ha sette anni più di me?

LABANO                - Sarà stato un miracolo.

NATAM                  - Miracolo o altro; quello ch'è già stato una volta, può essere un'altra volta. Lasciami do­mandare di Calfurnio. (Batte alla porta).

LABANO                - Ed io raggiungerò le mie donne. Arri­vederci con più comodo; spero che dopo la con­sulta, possa trovarti d'un altro parere. (Esce. Na­tam bussa un'altra volta. Si affaccia Margutte alla finestra).

MARGUTTE           - Chi è là? Chi batte?

NATAM                  - Amici, una parola.

MARGUTTE           - Non si può. Non c'è nessuno.

NATAM                  - Come nessuno? ci sei pur tu.

MARGUTTE           - Ed io ti dico che non ci sono, perché non ci voglio essere.

NATAM                  - Aprimi, sciagurato! (Bussa ancora).

MARGUTTE           - Ti verserò questa pignatta di brodo in testa, se non ti levi di lì, disgraziato. Ti ho io dato noia quando tu avevi faccende?

NATAM                  - E che faccende sono queste? tener l'uscio dell'osteria serrato e non aprire?

MARGUTTE           - Così costumiamo noialtri principi quando mangiamo ritirati.

NATAM                  - Hai ragione, fratello. Tengo solo a sapere se c'è messer Calfurnio.

MARGUTTE           - Aspettate, che viene a basso. (Margutte si ritira; entra Getulio).

GETULIO               - Io sono più impaniato fra queste cerimonie cortigianesche che un pulcino nella stoppa. Mi è parso mille anni che quei Principi abbiano desinato e se ne siano andati come hanno fatto, segretamente, per la strada più breve di Betlemme. Ohimè, se avessi a stare a questa vita lungo tempo, crederei di crepare!

NATAM                  - Dio ti salvi, Getulio, son qui pel nostro servizio.

GETULIO               - Credi pure ch'io mi struggo che si venga alle conclusioni.

NATAM                  - Giacché siamo qui, facciamo stender la scritta a messer Calfurnio che sa come va fatta e spediamola. Ho tutto il giorno tanti rompicapi per questa benedetta figliola, che mi par mill'anni levarmela dinanzi.

GETULIO               - Subito Natam. Ma chi è questo sa­pientone? (Entrano Possidonio, Calfurnio, Salamone, Dorino e Cherindo).

POSSIDONIO        - Avete crapulato abbastanza?

CHERINDO            - Quel canapino alla gola, serbatelo per voi, signor interprete contabocconi.

POSSIDONIO        - Su, mettetevi all'ordine, non sen­tite che i padroni si sono già avviati?

NATAM                  - Tiriamoci da parte; non son bazziche da nostri pari. Sentite come parlano?

GETULIO               - Deve essere spagnolo.

NATAM                  - E' troppo sudicio.

POSSIDONIO        - Ite, ego in quest'interim, vedrò s'io posso trovare questo Getulio e riscuotere i miei denari.

NATAM                  - Getulio, mi meraviglia: tu debitore a gente di corte? Apri l'occhio, Natam!

GETULIO               - E' cosa inverosimile ch'io possa aver debito con simil gente.

POSSIDONIO        - Siete voi per sorte quello che mi ha a dare seimila ducati?

NATAM                  - Sono il malanno, come sto per dir-vela: non ho debito con nessuno, cerco di riscuo­tere il mio e vengo qua dal signor Calfurnio pei fatti miei e passerò con vostra licenza, signor forestiero.

POSSIDONIO        - Ma se voi non siete Getulio Levitane mio debitore, almeno credo me lo saprete indicare. E di tanto vi ringrazio. Il detto Levitani mi deve pagare seimila nummi aurei, altrettanti credo che me ne dobbiate voi.

NATAM                  - Quanto a me so che non vi debbo niente. Getulio potrebbe essere che ha maneg­giato talvolta danari del Comune. Oh Getulio, fatti qua, piglia su questa nespola.

POSSIDONIO        - Messer Getulio, i miei denari.

GETULIO               - Che denari? Chi siete voi? ch'andate abbaccando?

POSSIDONIO        - I seimila ducati ch'io vi detti a cambio come per contratto. Aspettate, verrà fuori messer Calfurnio.

DORINO                 - Signor interprete, è in ordine il ca­vallo; venite ad aggiustarvi le staffe.

POSSIDONIO        - Vengo, che ho bisogno far tro­var il protocollo ed aggiustarmi ancor con questo galantuomo.

GETULIO               - O Natam, io trasecolo, ma in che terra siamo? (Escono Possidonio, Dorino e Che­rindo).

CALFURNIO         - Io non so come questa volta mi vedrete volentieri.

GETULIO               - Volentierissimo, perché abbiamo bisogno di voi.

CALFURNIO         - E' Salamone che ha bisogno di voi.

GETULIO               - Chi?

CALFURNIO         - Messer Salamone Corcos, cui do­vete pagare questa cedola di diecimila scudi.

GETULIO               - Che Corcosso? che cedola? io non vi conosco. Non so di cedola. Non so quello che vogliate dire.

CALFURNIO         - Buono in fede, ma ve ne rende­rete conto che questa è di vostra mano Getulio?

GETULIO               - Si che lo è; ma vi dirò perché la feci.

SALAMONE          - Per cautelarmi del mio. Chi ne dubita?

GETULIO               - Messer no. Voi non avete ad aver niente da me. Questa è una ladroneria, un inganno, un tradimento di Lucrino.

SALAMONE          - L'inganno ed il tradimento sa­rebbe dalla parte vostra, se non me la voleste pagare. Io sono Salamone Corcos, a cui dovete questa somma. Son Ministro Regio, venuto qui apposta per riscuoterla; e se non volete pagar­mela per amore, ho dato ordine qui a messer Calfurnio che vi costringa per giustizia.

GETULIO               - Per giustizia non lo farà, che questa è una cedola finta. E vi mostrerò la controcedola SALAMONE   - E di mano di chi?

GETULIO               - Di Lucrino.

SALAMONE          - Lucrino non può liberare i miei crediti. Mi sembrate impazzito: con le parole non si pagano i debiti.

NATAM                  - Quanto ha di debito Getulio per que­sta cedola?

SALAMONE          - Diecimila ducati, rimessigli in ma­no quando era mio sostituto per l'esazione del censo lustrale.

NATAM                  - Non maraviglia che gli lustrasse il pelo. Seimila ducati in una, e diecimila ducati in un'altra posta, eh? Addio Getulio, ti volevi rifare sulla roba mia, eh? Domeneddio mi ha aiutato, che la cosa si è scoperta a tempo. Ti disdico la parola ed il parentado.

GETULIO               - Ohimè, ohimè! Aspetta Natam! O povero me, così si tratta con un uomo dabbene? Voglio battere il capo nel muro. Voglio gridare sino al cielo. Sono assassinato. Sono assassinato.

SALAMONE          - Il dibattervi ed il gridare non vi varrà, buon vecchio, ma occorre essere ragione­vole.

CALFURNIO         - Getulio, questa cedola ha l'ese­cuzione pronta, e non si può opporre altro che fine, compensazione o pagamento. Se non gli mo­strate una di queste tre cose e non gliela pagate prontamente, farò una tenuta sopra ai vostri beni, che così richiede la giustizia.

GETULIO               - La giustizia chiederebbe che voi foste tutti impiccati. Ma voglio correr dietro a quei principi, dovessi camminare fino al Presepio, e raccontar loro come sta questo fatto. Non posso credere che non v'abbiano a castigare, tristi ri­baldi, che mi volete rubare la roba, l'onore e la moglie ch'è peggio. (Getulio esce).

SALAMONE          - Lasciamolo pur dibattere un poco. In ogni modo quando pur lo dica a quei Signori, ho già pensato come dobbiamo fare che quel povero giovane innamorato ottenga l'intento suo.

CALFURNIO         - Ammettiamo che raggiungendoli e contandola a suo modo, non prevalga in loro la prima impressione e non ci tengano in cattivo concetto. Sarebbe forse meglio trovar Natam per avvertirlo e che prometta di fare il paren­tado a nostro modo.

SALAMONE          - Tutto il contrario. Bisogna star forte con Natam più che con altri, e mostrare che questo debito sia vero. Perché quando vedesse un fatto sì inverisimile sospetterebbe che non fosse uno strattagemma per favorire Armindo e incaponerebbe tanto più di darla a Getulio.

CALFURNIO         - Voi discorrete benissimo, come un Salomone in persona.

SALAMONE          - Anzi, per maggior sicurezza vo­glio mi facciate un'aggiudicazione di beni in paga­mento, affinché io possa fingere di prenderne pos­sesso: tutto a buon fine riposto nell'animo mio. Vi voglio far vedere come riesco quando mi metto a servire un amico.

CALFURNIO         - Ho capito dove volete arrivare. Andiamo.

FINE SECONDO ATTO

ATTO TERZO

ARMINDO             - Veramente è stata una bella inven­zione la tua, una sottigliezza da non dire. Come gli Accademici lo sapranno, ne faranno uso per soggetto di commedia. Può volere il mondo, che tu m'abbia voluto rovinare in questa maniera?

LUCRINO               - Come rovinare? Raccomodare invece, farvi beato e ricco, s'io potrò.

ARMINDO             - Un bel farmi ricco. Metterci in considerazione a Natam d'uomini indebitati sopra i capelli, e pensare che m'abbia a dare la figliola? O infelice me, son pure sventurato. Non so chi mi tenga, ch'io non te ne dia qualche ricordo.

LUCRINO               - Lasciatemi la cura di rappezzare la cosa, poveretto che siete. Se non la rimediavo io, a quest'ora Ermilla era vostra matrigna. Ma infine è vero; bisogna far male, essere un raggiratore ed un bugiardo per aver bene dai giovani par vostri, che avete la collera pronta, più che i vecchi la gocciola al naso.

ARMINDO             - Io per me non so capire come tu possa mai condurre questa nave a buon porto. Il vecchio è in collera, fa gran chiasso e non intende ragioni.

LUCRINO               - Chi fece uno fece mille, non vi disperate. Lasciate fare a me.

ARMINDO             - Ma come farai?

LUCRINO               - Non è tempo ora di spiegare.

ARMINDO             - E quando sarà tempo? dopo la mia morte? Ah Lucrino, Lucrino, dovresti pur aver compassione di me.

LUCRINO               - Né voi l'avete di me, che non m'ave­te lasciato desinare stamattina. Oh, ecco Natam. (Entrano Natam e Calfurnio).

NATAM                  - Capperi, o che ci vai scalzo per questa strada? Dice bene il proverbio: danari e santità, credine metà della metà. Diecimila scudi di debi­to! Mi è entrato un tremito addosso, che se io non vado a discredermene con qualcuno, non avrò pace, oggi.

ARMINDO             - Caro Lucrino, non lasciar scorrer ancora questa burla. Aiutami, ti prego.

LUCRINO               - Orsù, vedete il mio proposito che questa tempesta vi torni in una gran bonaccia. E io son l'uomo adatto. Buongiorno, Natam.

NATAM                  - Buongiorno e buon anno, servo son vostro, ma denari non ho, mallevadorie non fo e roba non presto. Bisogna metter le mani innanzi con simil gente rovinata.

LUCRINO               - Non ci occorre alcuna di coteste cose, e per grazia di Dio quando aveste bisogno voi di tremila scudi, sappiamo dove sono.

NATAM                  - Ed io lo so. Ma non vi posso metter su le mani.

ARMINDO             - Io so benissimo che non v'occorrono, ma all'occorrenza, ne potreste disporre come di cosa vostra. Così pure di me e d'ogni mio avere, che vi amo e vi onoro come mio padre e anche più. Ed anco fino seimila scudi potrei senza mio scomodo accomodarvi.

NATAM                  - (tra sé)             Costoro mi vogliono chiap­pare a qualcosa. Queste moine, queste belle parole...

LUCRINO               - Io parrò forse presuntuoso.

NATAM                  - Gran virtù conoscersi da se stesso.

LUCRINO               - Se voi voleste maritare la vostra figliola qui ad Armindo, mi darebbe il cuore che il padrone di quella cedola si contenterebbe di farne un presente alla sposa.

NATAM                  - O tu sei troppo astuto o tu mi tieni per un barbagianni. Ma ecco veggo qua Calfur­nio. Ora vi chiarirò con precisione. Messer Cal­furnio, Messer Calfurnio, una parola. In effetto mi son chiarito ed ho toccato con mano che la cosa di quella cedola è una fiaba. E son disposto a dare Ermilla a Getulio in ogni modo. Venite che voglio ne stendiamo la scritta.

ARMINDO             - Ohimè, Lucrino, così mi fai vedere le tue prodezze? Così mi fai ricco e beato? che maledette siano le tue girandole. Sono morto.

LUCRINO               - Vecchio tristo. Forse posso avvertire Calfurnio. E Dio sa che gli sovvenga quello che in simil caso ha da fare.

CALFURNIO         - Natam, io farò quello che volete, ma quanto al debito, che sia vero e reale non ne state punto in dubbio. Poco può stare a compa­rire Salamone, è andato a pigliare il possesso dei beni aggiudicatigli in pagamento. Eccolo appunto. (Entrano Giordano, Racchello, Bettolino e Saia-mone).

SALAMONE          - Datemi pur qua tutte le chiavi.

GIORDANO           - Queste son quelle del granaio; questa è della cella; quest'altre son delle co­lombaie.

SALAMONE          - Venite ora tutti con me dal notaio, che vi farò fare il precetto: d'ora innanzi dovete riconoscere soltanto me per padrone.

BETTOLINO          - E dove state voi, e come vi chia­mate, sapientone?!

SALAMONE          - Salamone Corcos mi chiamo, e sto in Gerusalemme.

BETTOLINO          - O vacci e restici in Matusalemme. Povero Armindo, mi rincresce proprio che tu non abbia da esser più il mio padroncino. Uh, uh, uh!

ARMINDO             - Lucrino, non mi pare che la faccen­da stia nei termini di burla. Com'è la storia?

LUCRINO               - Confesso che proprio non l'intendo.

NATAM                  - L'intendo ben io. Anche voi mi vole­vate raggirare, eh garzonotti? Volevo vedere se riusciva a voi quel che non è riuscito a Getulio. V'ingannate. Siete spogliati dei beni. Non avete un pane che sia vostro. Ecco spiegato. Addio. (Escono Natam, Giordano e Bettolino. Entrano uari contadini).

LUCRINO               - Messer Calfurnio, ci avete conciati e rovinati ad un tempo.

CALFURNIO         - Me ne dispiace, ma non ci posso fare nulla. Salamone, diamo un poco di schiari­mento anche a loro.

ARMINDO             - Avevamo pensato d'ingarbarla col vecchio e stracciar questa cedola in sua presenza. SALAMONE   - Piano a stracciarla. Solo dopo pa­gata, potrete farne quello che vi piace.

LUCRINO               - O Calfurnio, a che gioco giochiamo noi?

CALFURNIO         - O Lucrino, con chi credi tu d'aver a trattare?

ARMINDO             - Non ci tenete più sui trampoli. Ren­deteci la nostra cedola.

SALAMONE          - Fin che non son fatte le stime dei poderi e steso il contratto...

LUCRINO               - Oh, insomma, non sapete ch'è una burla?

SALAMONE          - Una mala burla sarà per voi altri. Ho la mia cedola di mano di Getulio, bella e buona riconosciuta in gabella. E voglio riscuo­terla ad ogni costo.

ARMINDO             - E con che coscienza, messer Sala-nome? Sapete bene a che fine è stata fatta. Falsa. Mi maraviglio di Calfurnio.

CALFURNIO         - La maraviglia viene da ignoranza. Con che coscienza volete ritenere il denaro d'al­tri? Ho io forse visto fare questa cedola? Ho io da credere che Getulio sia un falsario, benché lo dica? Quando è comparso qui il legittimo padrone, uomo degno di fede, che dice esser venuto ap­posta per riscuoter questa somma. Leggete un poco, Salamone.

SALAMONE          - (legge la lettera) « Nel primo sab-bato del mese di Farnuzio nella centesima nona-gesima Olimpiade, Io Getulio di Mosè Levitarli mi chiamo vero e legittimo debitore di messer Salamone Corcos della somma e quantità di scudi diecimila di moneta. Di tanto sono rimasto debi­tore per saldo di conti fra noi. La qual somma prometto pagare a lui o a chi per lui mi presen­terà questa cedola. Obbligando perciò me, miei eredi e beni presenti e futuri in ogni miglior modo. Ed in fede ho scritto di mia propria mano questo dì ed anno suddetto, alla presenza degli infrascritti testimoni. In Effrata, Getulio Levitani manu pro­pria. Io, Lucrino Girandoli, fui presente. Io, Gua­dagnino Avviluppi, fui presente».

CALFURNIO         - Or che potete voi dir contro? Vi pare che manchi qualcosa? Non sapete che in materia di debito la scrittura si presume sempre contro lo scrivente?

LUCRINO               - Ah Calfurnio, così volete assassinare chi si è fidato di voi?

CALFURNIO         - Guarda come parli. Ti farò met­tere in prigione.

LUCRINO               - Poveri noi, poveri noi. Che abbiamo fatto? Oggidì non ci si può fidar di nessuno. Alla giustizia, Armindo, alla giustizia di Gerusa­lemme.

ARMINDO             - O infelice Armindo. Questo è il fine dei tuoi lunghi e sospirati amori: cadere in pover­tà e perder l'amata. Che poteva venir di peggio?

RACCHELLO        - E noi che faremo, padron nuovo?

SALAMONE          - Vi sarà detto. Ma ecco il ritorno dei nostri Signori, (Entrano i tre Re Magi con Getulio).

IL RE VECCHIO   - In molte forme ed in molti modi ha parlato Dio ai Padri nostri per bocca dei Pro­feti. Ma a noi parla oggi con il proprio Figliolo, il quale come Egli è splendore di gloria e figura della sua sostanza, siede alla destra dell'eccelsa Sua Maestà. Onde è cosa mirabile negli occhi nostri il vedere tanto immensa Deità in così pic­colo tugurio, e che noi siamo stati degni d'ado­rarla.

IL RE GIOVANE   - Non sentiste voi le dolci melo­die che risonavano sopra quel benedetto Presepio?

GETULIO               - Io per me porto il cuore colmo di così profonda umiltà, avendo visto il Creatore dell'Universo, cui servono gli Angeli in quell'umil capanna, che mi pare essere indegno di vestire questo cilicio.

IL RE MORO          - Conservatevi, fratello, in questo santo proposito. E non vi dolga abbandonare il mondo per imitare la povertà di Chi per arric­chirne è venuto al mondo.

GETULIO               - Come dolere? Mi par mill'anni d'arri­vare davanti al mio figliolo per fargli rinuncia d'ogni mia facoltà. E poi che per avarizia di poca cosa mi son lasciato indurre a far quella cedola che vi ho detto, se me la vogliono rendere, li voglio dispensar tutti per l'amor di Dio.

BETTOLINO          - O padrone, con licenza di questi Galantuomini, che cosa siete voi diventato? Il debito imbruttisce dunque tanto l'uomo?

GETULIO               - Figlioli, non sono più vostro padrone, ma come voi servo.

GIORDANO           - Lo sappiamo, Getulio, e ce ne in­cresce sino al cuore. Ma chi fa debito convien che paghi.

IL RE VECCHIO   - Entriamo in casa, Getulio, per riposarci un poco e poi riprendere il nostro viaggio.

SALAMONE          - Ora, messer Calfurnio, non mi par più tempo da burlare. Bettolino, corri e vedi di raggiungere Armindo e Lucrino, e dirgli da parte mia che suo padre è tornato e che s'accomoderà quel servizio.

BETTOLINO          - Volo. (Esce).

RACCHELLO        - Io strabilio a ciò che ho visto e udito.

GIORDANO           - Io strasecolo. Domando se l'ha fatto per non pagare i debiti.

RACCHELLO        - Forse. E' cattivo abbastanza, per questo.

CALFURNIO         - Non fate questo temerario giudi­zio. Egli s'è ridotto per se medesimo a stato di penitenza e non ve ne meravigliate, figlioli. Mag­giori effetti fa la bontà divina quando comincia col suo dolce fuoco ad infiammare un'anima. Così datene gloria a Dio e pregatelo che ancora a voi tocchi il cuore.

RACCHELLO        - A noi ci farebbe poca fatica a ridurci in penitenza, che portiamo i panni strac­ciati ad ogni modo ed il più del tempo stiamo a pane ed acqua come gli Eremiti.

SALAMONE          - La bontà non consiste nell'abito: conta essere buoni nell'interno. E resta nella tua semplicità che ancor questa è grazia di Dio. Va', cammina a casa di Natam e digli di venir qui ora.

GIORDANO           - Io vo, ma se glielo dico da parte vostra, penserà mi sia messo a fare lo sbirro. (Esce. Ritorna Bettolino).

BETTOLINO          - Sono trafelato tanto mi avete fatto correre.

ARMINDO             - (entrando) Orsù, ti ristorerò, Betto­lino, caso che per me ci siano buone nuove. Ma se Labano qui non m'intratteneva, avevi che cor­rere, che non ci raggiungevi fino in Gerusalemme.

BETTOLINO          - Io ci sarei venuto anche volentieri per amor vostro peranco in capo al mondo.

LABANO                - A non farvi seguitare il viaggio, non vi ho fatto danno. Credetemi.

BETTOLINO          - Labano, se tu sapessi quello che sembra Getulio: un gatto mammone. Eccolo, guarda.

LABANO                - Ritiratevi tutti, ora, che rientrano questi Signori. (Ricompaiono i tre Re con Getulio).

 IL RE GIOVANE - Favorite, signori, d'ascoltarmi segretamente. Io non so se anche per lorsignori è intervenuto il medesimo incantesimo che a me, mentre ci ritirammo in camera.

IL RE VECCHIO   - Dica prima Vostra Signoria, che dopo anch'io ho da conferir loro qualcosa.

IL RE GIOVANE   - Sentite: improvvisamente ag­gravato da un pesante sonno, appena ebbi ve­lato l'occhio, mi parve che un Angelo mi s'acco­stasse all'orecchio e dicesse: tornatevene segreta­mente alle Patrie vostre e non passate in modo alcuno più da Erode.

IL RE MORO          - La medesima visione ho avuto anch'io, ed ero impaziente di farvene parte.

IL RE VECCHIO   - Ed io nel medesimo tempo e nell'istesso modo sentii risonarmi al cuore uguali voci. Sì che questo è un particolare avviso del Signore Dio, per qualche suo celato mistero, un mistero che dovremmo conoscere prima d'incam­minarci per strada segreta ai nostri Paesi. Ma qual sentiero, inesperti di queste montagne, ten­teremo noi?

IL RE GIOVANE   - Chiamiamo Getulio. Egli po­trà additarcelo e di lui ci possiamo fidare.

IL RE VECCHIO   - Getulio, accostatevi. E' nostro pensiero partirci segretamente di queste contrade e ridurci verso i confini d'Arabia per la più segreta strada, diversa dalla già percorsa, quanto possibile. Conoscete, per caso, di dove incamminarci e come ci dobbiamo regolare per non essere scoperti?

GETULIO               - Non solo conosco le strade più remote ed ascose di queste montagne, ma se posso pre­garvi d'una grazia, vorrei esservi io stesso scorta fidata. Perché in ogni modo voglio abbandonare questo paese e recarmi a far penitenza nei più aspri deserti del Libano.

IL RE MORO          - Che vi ritiriate a vita così meri­toria vi lodiamo, ma non vorremmo per causa nostra v'incomodaste troppo.

GETULIO               - O Signori, io ne riceverò singoiar grazia e contento, sapendo ch'è al servizio del­l'Altissimo. Anzi, desidero quest'occasione per ricalcare a piedi nudi, in atto di penitenza, quei sentieri che tante volte calpestai avido di guada­gno e di roba, con mille sotterfugi e contrabbandi. Solo vi prego di concedermi quel po' di tempo necessario a che possa disporre le cose mie.

 IL RE VECCHIO  - Giusto e santo pensiero. Noi stessi vi aiuteremo. (Entra Natam).

NATAM                  - Vedi, Getulio, occorre tu non ci pensi più, né che tu metta per intercessori quei grandi Signori, che ancor loro dirò di no. Ma che abito è questo?

GETULIO               - Natam, fratello. Altre nozze, altra sposa desidera oggi l'animo mio. Ho caro vederti per dirti l'ultimo addio e perché sia presente ancor tu a questa mia deliberazione. Tu, figliol mio, vieni avanti, e voi, Calfurnio, fatemi grazia di notare di mano questo mio ultimo testamento, al quale voi sarete, con altri quattro dei vostri, buoni testimoni.

ARMINDO             - O Dio, che novità è mai questa.

GETULIO               - Per prima cosa raccomando l'anima mia all'Onnipotente Dio. Dipoi confesso d'aver fatto una finta cedola per dimostrarmi povero, dichiarandomi debitore di diecimila ducati, a per­suasione qui di Lucrino, di voi Salamone Corcos; ma voi sapendo sicuramente di non doverli aver da me, siate contento di sgravarvene l'anima e render lo scritto al mio figliolo. Al quale mio figliolo consegno questa chiave, acciò guardi nella volta sotto una lastra di marmo e troverà un'arca di ferro: in essa sono venticinquemila ducati. Di questi, se ne dispensi ai poveri di Dio, quanto nel contenuto di detta cedola. Tutto per ragione di legato.

IL RE VECCHIO   - Certo che se voi siete consa­pevole di tal verità, fareste gran mancamento a non accomodar questo fatto.

SALAMONE          - Vedranno, o Signori, innanzi che ci partiamo, una bellissima e lodevole azione. E credano pure che amo l'anima mia sopra ogni te­soro del mondo.

GETULIO               - Dei restanti miei beni, qualunque cosa io possegga o potessi in futuro possedere, costi­tuisco erede universale Armindo mio figlio, con questa condizione: che pigli moglie entro un anno, e goda il tutto, se non in vigore di testa­mento, in virtù di donazione.

NATAM                  - Chi avrebbe mai creduto che questo vecchio avesse tanti denari? Ora sì che quel par­tito, Labano, di che mi ragionavi stamane, sarebbe a proposito.

LABANO                - Chi non fa quando può, non fa quando vuole. Dio sa di che animo sarà questo giovane, vedendosi sì ricco.

GETULIO               - Avete scritto, Calfurnio?

CALFURNIO         - Messer sì.

GETULIO               - Parimenti rimetto ai miei contadini tutto il debito che hanno meco fino ad oggi, ed a Labano in particolare lascio tutto il bestiame che m'appartiene.

LABANO                - Il Cielo vi benedica. Ebbi pur sempre fede nel Signore Dio, che un giorno avesse a prov­vedere alla povertà di quelle mie povere figliole.

GETULIO               - A serve e servitori di casa, cento scudi per ciascuno.

LUCRINO               - Dio ve lo rimeriti ad occhi aperti.

CALFURNIO         - I legati andavano detti prima, ma io accomoderò poi ogni cosa in forma legale.

ARMINDO             - Caro ed amato padre, che risolu­zione è questa che prendete oggi? Dunque mi vo­lete lasciare?

IL RE VECCHIO   - Non piangere, figliolo, egli non ti lascia, ma solo abbandona gl'inganni di que­sto mondo, ed in Paradiso vi ritroverete.

GETULIO               - Figliolo, ti lascio nelle mani di Dio. Già ti ho condotto in età che più non hai bisogno di me. Temi il Signore, ama il prossimo, osserva in ogni parte il giusto. Io me ne vo dove la divina ispirazione mi chiama, a vita più quieta ed alla penitenza dei miei peccati. Non piangere, figliolo, che questa risoluzione è per me eterna beati­tudine.

ARMINDO             - Beneditemi, caro padre, beneditemi prima e rimettetemi gli errori della gioventù mia, che umilmente genuflesso ve ne chieggo perdono.

GETULIO               - Eccoti il santissimo bacio. Il Signore ti perdoni e ti dia ogni bene terreno. Resta in pace.

IL RE VECCHIO   - Se altro non avete da disporre, desidero che non perdiamo più tempo. E con l'esempio vostro ancora noi cominciamo a spo­gliarci di queste superfluità temporali. Lasciamo, per gratitudine dell'ospitalità dataci, tutte le no­stre argenterie ad Armindo vostro figlio. SALAMONE     - E degli altri carriaggi e robe, che son qua in questa osteria, che se n'ha da fare, Signori? Si hanno da cominciare a caricare ancora?

IL RE MORO          - Divideteli fra voi.

SALAMONE          - Io, per me, non voglio nulla. Resti tutto a quel poveretto dell'oste ed ai suoi garzoni. Da quando veggo sì magnanimi atti di penitenza, Iddio mi chiama a seguirvi non curandomi più di tornare alla corte di Gerusalemme. Però concede­temi ch'io vi serva il resto di questo viaggio.

IL RE GIOVANE   - Venite, acciò tanto meno Erode sappia il nostro cammino. E fate che l'altra gente nostra ci segua con quei soli arnesi, che possono bastare al nostro semplice vitto. Non altro.

SALAMONE          - Getulio, per quiete dell'animo vo­stro, ecco la cedola. Ma con vostra licenza, ne voglio fare un presente qui a Natam, con patto che servano per sopradote dell'Ermilla sua figliola, sempre si contenti darla per moglie ad Armindo.

NATAM                  - Se mi contento? me ne struggo. Signore Dio, fatemi grazia che non gliene sia passata la voglia.

IL RE VECCHIO   - Ora conosciamo il buonissimo vostro pensiero, Salamone, e ve ne lodiamo eter­namente. (I tre Re partono).

GETULIO               - Io non mi voglio impacciare più di queste cose terrene. Disponga di sé, ch'io appro­verò il tutto e seguirò questi Signori. Addio figliolo, addio servi, patria e amici, addio. (Esce).

LABANO                - Così muto e smarrito rimani, Armindo?

ARMINDO             - Vi confesso che mi ha vinto la tene­rezza che mi ha posto nel cuore questa risoluzione di mio padre. Non riesco a trovar parola.

RACCHELLO        - Tu sei al contrario degli altri gio­vani, che par loro mill'anni si muoia il vecchio.

CALFURNIO         - Che vuoi fare, figliolo. Piace così a Dio, che chiama Getulio alle consolazioni spiri­tuali e te alle fatiche del mondo.

LABANO                - Però seguendo la tua vocazione, di­chiara d'essere ancora del parere di prender mo­glie, sì come io dichiaro ch'è molto meglio che tu t'accontenti di questo nostro paese semplice e ru­stico, che cedere alle lusinghe delle grandi città. Perché infine ogni cosa è vanità. NATAM (tra sé) Oh Dio, che dica di sì.

ARMINDO             - Che ne dice Natam?

NATAM                  - Figlio mio, tu mi parevi giovane, per questo non porsi orecchio a darti la mia figliola, ma poiché sei diventato capo di casa, il che ti cagionerà pensieri da vecchio, son contento di dartela. Ma bada, con quella sopradote di dieci­mila ducati e che io per ora non debba pensare ad altro. Poi, se non avrò figlioli, dopo di me, ogni cosa è tua.

ARMINDO             - Sono contento d'averla sposa e che i diecimila scudi vadano a quel conto. Perciò come suocero amatissimo e nuovo padre v'abbraccio.

NATAM                  - Figliol mio, genero mio dolce.

ARMINDO             - E perché la volontà di mio padre non resti defraudata, giacché Dio abbondante­mente m'ha provvisto, voglio che altrettanta som­ma di quel tesoro s'impieghi in servizio di maritare cento fanciulle povere. E voi, Calfurnio, tale scrit­tura di questa mia volontà rendetela in forma di ragion valida.

RACCHELLO        - La mia dama, padrone, è poveris­sima e figliola di persona dabbene.

GIORDANO           - E la mia non ha nulla, ve la rac­comando.

BETTOLINO          - Ed io poverino che non l'ho, non ho a godere di questa bonaccia?

ARMINDO             - Consolerò tutti, non dubitate.

GIORDANO           - Che Dio v'accresca e vi rimeriti.

LABANO                - Magnanimo, pietoso e santo pensiero è stato il tuo, Armindo. Non lo dico per interesse, ma perché credo non si possa fare cosa più grata a Dio che provvedere alle povere fanciulle. Esse saranno le vere gemme che adorneranno le tue nozze.

CALFURNIO         - Non poteva con più generosa reso­luzione mostrare la grandezza dell'animo suo. Siatene voi testimoni ed io rogato.

BETTOLINO          - Sì sì, che non si penta. Nozze, nozze. Chi ha d'andare a dirlo alla sposa?

ARMINDO             - Vacci tu, che per la gioia ti sarà benefica.

BETTOLINO          - S'intende, padrone. Buon prò vi faccia. (Esce).

ARMIDO                - Suocero, entriamocene in casa. E voi, messer Calfurnio, venite, che daremo ordine a quanto occorre per l'esecuzione della volontà di mio padre e ricompenserò ancora voi di tante fa­tiche e disagi che v'abbiamo dato. (Armindo esce con Calfurnio e Natam).

BITURGO               - (entrando con Dorino, Cherindo e Zarapaleo) Coi fanciulli, fanciullo, vecchio coi vec­chi. Infine, signorini, ho fatto quello che voi volete, perché io mi accomodo alle stagioni come fanno gli ottimi vini.

DORINO                 - Siete un galantuomo. Ma infine avete voi fatto quel servizio?

BITURGO               - Messer Possidonio è già montato a cavallo nella stalla al buio, col pretesto d'aggiu­stargli le staffe, come gli abbiamo dato ad intendere, ma in effetti perché non s'accorga che gli abbiamo messo sotto due nostri guatteri nella falsa pelle di un ronzino. Poi lo abbiamo aggiustato bene legandolo come se fosse un galeotto. Eccolo che viene. (Entra Possidonio a cavallo).

POSSIDONIO        - Il passo di questo cavallo è sal­tellante, ma non capisco che cavallo sia; mai ne vidi uno simile. Comunque, se è un cavallo, cam­minerà. Orsù, contatemi il mio denaro e che sia presto.

BITURGO               - Su, garzoni, portate qua quei sac­chetti e cominciate a contare. Tirate. Messer Pos­sidonio, e uno, e due, e tre.

POSSIDONIO        - Ohimè, ohimè, cos'è questa gran­dine calcitoria? Fermi, fermi, che sia finita.

BITURGO               - Menatelo via e conducetelo al piano. Alla malora.

CHERINDO            - Addio, messer oste, vi ringraziamo delle cortesie che ci avete fatte. Salute. Andiamo, compagno, che son già tutti a cavallo.

BITURGO               - Andate sani e ricordatevi di quel vino che m'avete promesso.

DORINO                 - O gran beone, non pensa mai ad altro.

BITURGO               - Io me ne tornerò a levare i conti, dove, se la penna mi dirà il vero, la cassa non calerà. (Escono tutti meno Zampaleo e Lucrino).

LUCRINO               - Zampaleo, dove riporti gli ordini da cucinare?

ZAMPALEO           - Alla nostra osteria, perché?

LUCRINO               - Vatti a impiccare; ma come? ora che s'hanno a fare nozze in casa, vuoi dileguarti?

ZAMPALEO           - Diavolo ti pigli, che dici?

LUCRINO               - Il diavolo piglia te e Armindo è lo sposo.

ZAMPALEO           - E la sposa?

LUCRINO               - La vedrai.

ZAMPALEO           - Non me ne curo, purché vegga la cucina adorna e gaia.

LUCRINO               - C'è di meglio: sei diventato ricco. Quei Re, oltre al pagamento, hanno lasciato una somma d'importanza.

ZAMPALEO           - Che quel vantaggino di Biturgo non mi faccia scherzi. Lasciami andare a vedere il fatto mio. Ma eccolo che viene. (Entra Biturgo con Giordano).

BITURGO               - Zampaleo, fosti profeta. Ecco qui l'inventario e la stima di quello che ci è stato lasciato.

ZAMPALEO           - Che mi tocca?

BITURGO               - A fare da buoni compagni, la metà.

ZAMPALEO           - Ne voglio spendere novantanove in vivande da stare novantanove ore a tavola, il resto per rivestirmi e raffazzonarmi un poco.

LUCRINO               - Tu sfornirai i pizzicagnoli e i polla­ioli: è la tua sorte.

 

BITURGO               - Vuoi venire a fare il diviserunt?

ZAMPALEO           - Senti, bisogna che sia io a servire le nozze d'Armindo. M'è avanzata della roba. Quelli non hanno quasi mangiato niente, ci sono polli, piccioni, pasticci a iosa e più di quattro­cento ostriche. Ne voglio metter la metà in un pasticciotto morbido, cotte in vino gagliardo ed olio di uliva purissimo, col suo pepe, e quattro grani di uve di Corinto, sicché condite nel loro medesimo umore e coi suddetti accessori, ne re­sulti un brodo soavissimo. E poiché cruda l'ostrica è anche saporitissima a chi ha gusto buono, voglio apparecchiare l'altra metà in un piatto cavandole dai lor gusci e tuffandole in un vino prelibato tanto che sparisca. Si viene così a bere e man­giare in un medesimo tempo.

LUCRINO               - Meraviglia: sei il re dei cucinieri.

ZAMPALEO           - Tu mi onori più che non feci io stesso quando mi detti titolo di consigliere. Ma dove si va Giordano?

GIORDANO           - A dire a Madama Teagona che metta in ordine la sposa, che sono iti al Tempio per il Sacerdote, e fra poco vogliono esser là a dargli l'anello. E voi, Biturgo, dice il padrone che siate con Zampaleo, e prepariate in casa sua quan­to vi parrà a proposito per queste nozze.

BITURGO               - Prometto che troverò buon vino, il resto mi turba meno.

ZAMPALEO           - Io voglio essere l'Archimandrita di queste nozze.

LUCRINO               - Come l'Archimandrita? Questo nome non ha significato; l'Architiclino vuoi dire?

ZAMPALEO           - L'Arcitino diciamo, purché lo sto­maco degli sposi sia grande per poter ricevere maggior copia di vivande.

BITURGO               - Alle faccende fratelli. Io vo chiudere l'osteria. Per stasera il guadagno è fatto.

ZAMPALEO           - Ricorda che ci è rimasto quel nano, che non muoia di fame, il povero.

BITURGO               - Il povero? il poltrone vorrai dire: bevuto com'è dorme come un tasso.

LUCRINO               - E che ne farete d'un simile pinguino?

BITURGO               - Lo daremo alla sposa in cambio d'un pappagallo.

FINE