L’adulatore

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[Prefazione]

L’ADULATORE.

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta

in Mantova la Primavera dell’Anno 1750.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

ANTONIO VENDRAMIN

NOBILE PATRIZIO VENETO

Fra i benefizi ch’io riconosco dalla Provvidenza, singolarissimo è quello onde mi fu concesso poter servire l’E. V. Cavaliere benignissimo, pieno di merito e di virtù, che alla grandezza del sangue accoppia mirabilmente le più belle doti dell’animo.

V. E., Padrone di un antico, spazioso, accreditato Teatro, e di una compagnia di Comici valorosi, ha scelto me per Componitore di cose nuove; mi ha per dieci anni avvenire onorato di cotal carico, fidandosi ch’io possa (in questi nostri giorni, in cui si è reso il Popolo oltremodo difficile ad esser soddisfatto) sostenere l’onor delle Vostre Scene e quello degli Attori Vostri. Un non so che avete Voi, Eccellentissimo Signore, di affabile e di gentile, che obbliga ciascheduno ad amarvi, e fa desiderare a chi che sia di servirvi: ciò mi ha convinto ad essere cosa Vostra, molto più di quell’annua pensione, che Voi mi avete generosamente accordata, poiché giudico io non darsi piacer maggiore in chi serve, oltre quello di avere un Padrone amabile. Quantunque però conoscessi il gran bene, che da Voi mi veniva offerto, ebbi il coraggio di rinunziarvi per fare un sagrifizio all’amicizia, alla convenienza, e a certa mia medesima predilezione.

V. E. mi ha dato i più efficaci segni di benignità, di amore, alloraché penando io a distaccarmi da quella Compagnia Comica, per cui aveva cinque anni sudato, seppe in me compatire le mie onestissime convenienze, diè tempo ad altri di vincolarmi; e allora a braccia aperte mi accolse, quando forse, per il lungo stancheggio, avrebbe potuto ragionevolmente scacciarmi.

Volle il destino ch’io godessi una tal fortuna, e voglio credere che Iddio, il quale vedeva la sincerità delle mie intenzioni, abbia voluto premiarle, concedendomi un bene, che io mi credeva in debito di ricusare. Faccia Iddio parimenti, che vaglia io a corrispondere al dover mio, alle grazie Vostre, all’espettazione del Mondo. Questa, confesso il vero, mi reca qualche apprensione. Da un uomo, che in cinque anni ha dato al Pubblico una sì lunga serie di Comiche Rappresentazioni, alcuni aspetteranno assai più, altri crederanno non poter attendere cosa buona. I primi, fondati sulla ragione che l’arte si migliori coll’uso; i secondi, sul fondamento che l’intelletto dell’uomo abbia tanto più facilmente ad isterilirsi, quanto più rapidamente si è affaticato. Può essere l’uno e l’altro; né io medesimo saprei decidere una tal questione, la quale sarà poi sciolta dall’avvenire. Se fidarmi volessi d’un certo spirito, che mi anima, di un certo fuoco, che mi rende sollecito a digerire una moltitudine di nuove idee, che mi si affollano in mente, spererei darla vinta a quelli che in me avvantaggiosamente confidano. Tuttavolta niente più abborrisco di una temeraria prosunzione. Capisco benissimo quanto difficile sia il piacere ad un Pubblico, soggetto anche a stancarsi e a pretendere la novità delle opere e degli Autori. Preveggo purtroppo le avversità degli emuli, le persecuzioni dei malcontenti, ma sordo mi propongo di essere a qualunque voce ingiuriosa degli appassionati nemici, bastandomi che l’E. V. in me riconosca l’ardente brama che ho di servirla, e di corrispondere, per quanto a me sia possibile, alle infinite grazie ch’Ella si degna di compartirmi. Per un primo attestato dell’umilissima servitù mia, offerisco e dedico all’E. V. questa Commedia, che ha per titolo l’adulatore, ma quel che le oferisco e dedico con maggior animo, egli è tutto me stesso. Voglia il Signore, che quanto al mio talento di produr fia concesso, tutto in di Lei pro sia prodotto, e morirò glorioso bastantemente, se finirò i miei giorni, siccome io spero, in di Lei servigio, protestandomi con profondo ossequio

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Non vi è fra gli uomini il più pernicioso alla società oltre il perfido adulatore; poiché distrugge negli animi quel rossore, ch’è talvolta freno alle colpe, e colorisce i vizi talmente, che più non si ravvisano da chi li coltiva, ed è disperata l’emenda.

Io abborrisco in sì fatto modo gli adulatori, che non mi sazierei d’ingiuriarli, per quanto scrivessi in discredito della loro arte maligna, scandalosa, inumana. Mi sono contro di essi sfogato un poco nella presente Commedia, e non l’avrei finita sì presto, se dalle leggi del tempo non fossi stato costretto a non oltrepassar le misure. Avevami trasportato il mio irritamento contro costoro a far avvelenare l’Adulatore, e a presentarlo al Popolo moribondo a confessar le sue trame, mandandolo a finir di vivere tra le scene, accompagnato dalle ingiurie e dalle maladizioni de’ spettatori. Ho conosciuto col tempo, che il tragico fine dell’uomo indegno non lasciava di rattristare i più sensitivi all’umanità, e che l’orror della morte, benché dovuta ad un empio, facea partir melanconici gli uditori, onde ho cambiato il di lui destino, mandandolo in ferri in potere della Giustizia, da che si prevede, se non si vede, il di lui castigo, con meno orrore del Popolo, e con più lieto fine della Commedia.

So che taluni han detto non essere Don Sigismondo un Adulatore, ma un Ministro infedele, un uomo disonesto, un usurpatore. Egli è tutto quel ch’essi dicono, ma servendosi, per arrivare a’ suoi fini, dell’adulazione io lo trovo un accortissimo adulatore. Niuno adula per il semplice piacer di adulare. Non lo farebbe, se non aspirasse a profittare dell’arte indegna, ed è necessario che si veggano i tristi effetti di chi gli crede. Io non ho scelto un adulator del bel sesso, contento di cattivarsi la buona grazia soltanto di qualche vana bellezza; sarebbe troppo leggiero il carattere per colpir dalle scene. Né tampoco mi son contentato di un Adulatore grazioso, vago di amicizie e di protezioni. I vizi mezzani non imprimono tutto quell’odio che si vuol destare contro la ribalderia, ed è necessario tingere di colori forti il Protagonista, perché sia rimarcato. Ecco un Adulatore sfacciato; eccolo al fianco di un Padrone semplice e malaccorto; eccolo immerso nel pelago delle insidie, degl’inganni, delle ragioni. Odiatelo, amici, ch’ei ben lo merita, e Dio vi guardi dalle pessime arti di cotal gente, che sono l’ira del Cielo e l’obbrobrio degli uomini.


Personaggi

Don SANCIO Governatore di Gaeta;

Donna LUIGIA di lui consorte;

Donna ISABELLA loro figliuola;

Don SIGISMONDO segretario, adulatore;

Donna ELVIRA moglie di don Filiberto, che non si vede;

Donna ASPASIA moglie di don Ormondo, assente;

Il conte ERCOLE romano, ospite del Governatore;

PANTALONE de’ BISOGNOSI mercante veneziano;

BRIGHELLA decano della famiglia bassa del Governatore;

ARLECCHINO buffone del Governatore;

COLOMBINA cameriera della Governatrice;

Un STAFF. Genovese;

Uno STAFFIERE bolognese;

Uno STAFFIERE fiorentino;

Uno STAFFIERE veneziano;

Un PAGGIO;

Un GABELLIERE;

Il BARGELLO.

tutti parlano

La Scena stabile rappresenta una camera nobile, con varie porte, nel palazzo del Governatore.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Don Sancioa sedere, don Sigismondoin piedi.

SIG. Eccellenza, ho formato il dispaccio per la Corte. Comanda di sentirlo?

SANC. È lungo questo dispaccio?

SIG. Mi sono ristretto più che ho potuto. Ecco qui, due facciate di lettera.

SANC. Per ora ho poca volontà di sentirlo.

SIG. Compatisco infinitamente Vostra Eccellenza: un cavaliere nato fra le ricchezze, allevato fra gli agi, pieno di magnifiche idee, soffre mal volentieri gl’incomodi. (Tutto ciò vuol dire ch’egli è poltrone). (da sé)

SANC. Scrivete al Segretario di Stato, che mi duole il capo; e con un complimento disimpegnatemi dallo scrivere di proprio pugno.

SIG. A me preme l’onore di Vostra Eccellenza quanto la mia propria vita. Se mi fa l’onore di riportarsi alla mia insufficienza nel formare i dispacci, ho piacere che di quel poco ch’io so, si faccia ella merito.

SANC. Se vi ordino i dispacci non è perché non abbia io la facilità di dettarli, ma per sollevarmi da questo peso. Per altro so il mio mestiere, e la Corte fa stima delle mie lettere.

SIG. (Appena sa scrivere). (da sé) Eccellenza sì: so quanto si esalti alla Corte, e per tutto il mondo, lo stile bellissimo, terso e conciso de’ di lei fogli. Io, dacché ho l’onore di servirla in qualità di segretario, confesso aver appreso quello che per l’avanti non era a mia cognizione.

SANC. Lasciatemi sentire il dispaccio.

SIG. Obbedisco. (legge)

Sacra Real Maestà.

Da che la clemenza della M.V. mi ha destinato al governo di questa Città, si è sempre aumentato in me lo zelo ardentissimo di secondare le magnanime idee del mio adorato Sovrano, nell’esaudire le preci de’ suoi fedelissimi sudditi. Bramano questi instituire una Fiera in questa Città, da farsi due volte l’anno, ed hanno già disegnato il luogo spazioso e comodo per le botteghe e per li magazzini, facendo essi constare, che da ciò ne risulterà un profitto riguardevole alla Città, e un utile grandioso alle regie finanze. Mi hanno presentato l’ingiunto Memoriale, ch’io fedelmente trasmetto al trono della M.V., dalla di cui clemenza attendesi il favorevol rescritto, per consolar questi popoli intenti a migliorar la condizione del loro paese, e aumentare il real patrimonio...

SANC. Fermatevi un poco. Io di questo affare non ne sono informato.

SIG. Quest’è l’affare, per cui, giorni sono, vennero i Deputati della città per informare V. E., ed ella, che in cose più gravi e serie impiegava il suo tempo, ha comandato a me di sentirli, e raccogliere le istanze loro.

SANC. Mi pare ch’essi venissero una mattina, in cui col mio credenziere stava disegnando un deser.

SIG. Gran delicatezza ha V. E. nel disegno! In verità tutti restano maravigliati.

SANC. In ogni pranzo che io do, sempre vedono un deser nuovo. I pezzi sono i medesimi, ma disponendoli diversamente, formano ogni volta una cosa nuova.

SIG. Ingegni grandi, talenti felici!

SANC. Ditemi, quant’è che non avete veduto donna Aspasia?

SIG. Ieri sera andai alla conversazione in sua casa.

SANC. V’ha detto nulla di me?

SIG. Poverina! Non faceva che sospirare.

SANC. Sospirare? Perché?

SIG. V. E. se lo può immaginare.

SANC. Sospirava forse per me?

SIG. E chi è quella donna, che dopo aver trattato una volta o due con V. E., non abbia da sospirare?

SANC. Voi mi adulate.

SIG. Perdoni, aborrisco l’adulazione come il peccato più orribile sulla terra. Il marito di donna Aspasia è ancora presso la Corte, per impetrare da S.M. di poter venire colla sua compagnia a quartiere d’inverno a Gaeta.

SANC. Come lo sapete?

SIG. Evvi la lettera del Segretario di Stato.

SANC. Io non l’ho letta. Che cosa dice?

SIG. Egli ne dà parte a V. E., e siccome si sa alla Corte che don Ormondo, marito di donna Aspasia, aveva un’inimicizia crudele col duca Anselmo, chiede per informazione se siano reconciliati, e se può temersi che il ritorno di don Ormondo alla patria possa riprodurre de’ nuovi scandali.

SANC. Mi pare che queste due famiglie sieno da qualche tempo pacificate.

SIG. È verissimo.

SANC. Dunque don Ormondo verrà a Gaeta.

SIG. Piace a lei ch’egli venga?

SANC. Se ho da dire il vero, non lo desidero molto.

SIG. Ebbene, si vaglia della sua autorità. Risponda al Segretario di Stato, che la quiete di questa città esige che don Ormondo ne stia lontano. Con due righe d’informazione contraria al memoriale di don Ormondo, è fatto tutto.

SANC. Fatele, ed io le sottoscriverò.

SIG. Sarà ubbidita. (Giovami tenerlo occupato negli amori di donna Aspasia, per maneggiarlo a mio modo). (da sé)

SANC. Ditemi, e voi come ve la passate con donna Elvira?

SIG. Qualche momento che mi avanza, l’impiego volentieri nell’onesta conversazione di quella onoratissima dama.

SANC. Mi dicono che suo marito sia molto geloso.

SIG. Lodo infinitamente don Filiberto. Egli è un cavaliere onorato, e tutto fa ombra alla delicatezza del suo decoro.

SANC. Mi pare però ch’egli non abbia gran piacere che voi serviate la di lui moglie.

SIG. Oh! la mi perdoni. Siamo amicissimi. Anzi vorrei pregare V. E. di una grazia in favor del mio caro amico.

SANC. Dite pure, per voi farò tutto.

SIG. L’affare contenuto in questo dispaccio preme sommamente alla città di Gaeta. Vi vuole a Napoli una persona che agisca e informi con del calore; onde bramerei ch’ella appoggiasse un tal carico a don Filiberto, e gli ordinasse portarsi immediatamente alla Corte, e là dimorasse sino alla consumazione di un tal affare.

SANC. Bene, stendete il decreto, ch’io lo sottoscriverò.

SIG. V. E. è sempre facile, è sempre clemente, quando si tratta di beneficare.

SANC. Ditemi sinceramente, è tutta amicizia quella che vi sprona ad allontanare da Gaeta don Filiberto, o vi è un poco di speranza di migliorar la vostra sorte con donna Elvira?

SIG. Oh! signore, le mie mire non sono di tal carattere.

SANC. Parliamoci schietto. Né meno io vedrei volentieri il ritorno di don Ormondo.

SIG. V. E. non è capace di preferire il proprio piacere al pubblico bene.

SANC. Ma la lontananza di don Ormondo mi giova.

SIG. Che giovi a lei, è un accidente che non decide, ma giova moltissimo alla quiete della città, che colla di lui assenza si mette al sicuro dai torbidi, che produrrebbe la di lui presenza.

SANC. Caro don Sigismondo, voi mi consolate. Con qualche rimorso m’induceva io a procurare l’allontanamento di don Ormondo, ma poiché voi mi assicurate che il farlo sia un atto di equità e di giustizia, pongo in quiete l’animo mio, e riposo sopra il vostro consiglio.

SIG. Bella docilità, bella chiarezza di spirito, che apprende tutto con facilità, e discerne a prima vista il vero, il bene, la ragione ed il giusto!

SANC. Potrei parlare con donna Aspasia?

SIG. La faremo venire a Corte. La inviti a pranzo.

SANC. Mia moglie che dirà?

SIG. Ella non è dominata dallo spirito della gelosia, ma da quello dell’ambizione.

SANC. La sua passione è l’invidia.

SIG. Un marito saggio, come V. E., saprà correggerla.

SANC. Non prendo cura della pazzia d’una donna.

SIG. Fa benissimo. Pensi ognuno per sé.

SANC. Qualche volta per altro mi fa venire la rabbia.

SIG. Il marito alla fin fine comanda.

SANC. Ma per goder la mia quiete, dissimulo e lascio correre.

SIG. Oh bel naturale! Oh bel temperamento! Lasciar correre. Invidio una sì bella virtù.

SANC. Quello che più mi pesa, è Isabella mia figlia. Ella cresce negli anni, e mi converrà collocarla.

SIG. Certamente. Le figlie nubili non istanno bene alla Corte. Giacché il conte Ercole la desidera, può liberarsene.

SANC. Ma io non vorrei incomodarmi nel darle la dote.

SIG. Sarebbe bella che V. E. avesse da incomodarsi per la figlia! Pensi a godere il mondo, che per la figlia non mancherà tempo.

SANC. Ma, caro segretario, ella è alquanto semplice, non vorrei mi pericolasse.

SIG. Oh! quand’è così, maritarla.

SANC. La mariterei volentieri, ma non mi trovo in istato di scorporare da’ miei effetti la dote.

SIG. Per amor del cielo, non incomodi la sua casa. Vede in che impegno si trova. Governatore di una città, pieno di credito, avvezzo a trattarsi.

SANC. Ecco mia moglie. Non la posso soffrire.

SIG. Per dirla, è un poco odiosetta.

SANC. Voglio andar via.

SIG. Vada; si liberi da una seccatura.

SANC. Ma no, voglio trattarla con disinvoltura.

SIG. Bravissimo! Felici quelli che sanno dissimulare. Io non sarei capace. Il mio difetto è questo; quello che ho in core, ho in bocca.

SANC. Qualche volta bisogna fingere. Voi non sapete vivere.

SIG. È verissimo, io non so vivere. V. E. ne sa assai più di me.

SCENA SECONDA

Donna Luigiae detti.

LUIG. Signor marito, signor Governatore, per quel ch’io vedo, siamo venuti a Gaeta per farci burlare.

SANC. Perché dite questo?

LUIG. In questa città capitano frequentemente de’ nobili napoletani col tiro a sei, e voi mi fate andare col tiro a quattro.

SANC. Questi che hanno il tiro a sei, sono principi e duchi.

LUIG. Il Governatore deve essere più di loro.

SANC. Io non mi voglio rovinare per complimento.

LUIG. Mandatemi a casa. Qui senza il tiro a sei non ci voglio stare.

SANC. Segretario, dite la vostra opinione.

LUIG. Sì, dite voi, che siete un uomo di garbo.

SIG. Perdonino, di queste cose non me n’intendo. (Tenga forte, dica di no). (piano a don Sancio)

SANC. Orsù, non vi è bisogno d’altri discorsi. Donna Luigia, andiamo. Lasciate che il segretario vada a finire le sue incombenze.

LUIG. Voglio ch’egli risponda per me a questa lettera di premura. (dà una lettera aperta al segretario)

SANC. Risponderà poi; lasciatelo andare.

LUIG. La voglio adesso. (alterata)

SANC. Se seguiterete a dire questa parola voglio, a Napoli vi rimanderò con poco vostro piacere. (parte)

SCENA TERZA

Donna Luigiae don Sigismondo

LUIG. Che dite, segretario, dell’indiscretezza di mio marito?

SIG. In verità io mi sentiva agghiacciar il sangue.

LUIG. L’altre vanno col tiro a sei, ed io anderò col tiro a quattro?

SIG. Sarebbe una mostruosità.

LUIG. Una dama della mia sorte?

SIG. Una delle prime famiglie d’Italia.

LUIG. Una Governatrice?

SIG. Ha da comparire con più pompa assai dell’altre.

LUIG. Il tiro a sei lo voglio assolutamente.

SIG. È giusto: l’averà.

LUIG. Ditemi, con sessanta doppie troveremo due cavalli da accompagnare i quattro della mia carrozza?

SIG. Li troveremo.

LUIG. Mi fareste voi il piacere di provvedermeli? Non mi fido d’altri che di voi.

SIG. Grazie a V. E. della confidenza che ha di me. La servirò con tutta attenzione.

LUIG. Per dirvela, è venuto l’altr’ieri il cassiere della Comunità; ha portate sessanta doppie; mio marito non c’era, l’ho prese io, e me ne voglio servire.

SIG. Fa benissimo. Finalmente le impiega per onor proprio, e per onor della casa.

LUIG. Manco male che voi, che siete un uomo savio, me l’approvate.

SIG. L’approvo, è verissimo; ma per amor del cielo, avverta, non dica nulla al padrone, perché se mi prende in sospetto ch’io sia del di lei partito, non averò più la libertà di servirla.

LUIG. Dite bene, non lo saprà. Ecco le sessanta doppie, vi prego trovarmi presto questi due cavalli.

SIG. Sarà immediatamente servita. Ma favorisca, in grazia, come va l’affare del Conte colla signora Isabella?

LUIG. Guardate che pazzia si è posta in capo quel caro Conte. Trovandosi egli di passaggio in Gaeta, e trattato da mio marito per una raccomandazione di Napoli, si è perdutamente innamorato di me. Vede ch’io son maritata, vede che dalla mia onestà non può sperar cosa alcuna, ed egli ha risoluto voler per moglie Isabella mia figlia.

SIG. Segno ch’egli ama in V. E. la nobiltà del sangue, la virtù, la bontà, tutte cose che averà ella comunicate alla figlia.

LUIG. Ma vi pare ch’io possa avere una figlia da marito?

SIG. Questo è quello che mi ha fatto maravigliare, quando ho sentito parlare di questo matrimonio. Come mai, diceva fra me medesimo, la mia padrona può avere una figlia da marito?

LUIG. È vero che io mi sono maritata di undici anni e mezzo, ma non sono altro che dieci anni, che ho marito.

SIG. (E sua figlia ne ha diciotto). (da sé)

LUIG. Sarà un bel matrimonio ridicolo.

SIG. Io giuoco che da V. E. alla signora Isabella non distingueranno chi sia la sposa.

LUIG. Tutti dicono che siamo sorelle.

SIG. Ed io, sia detto con tutto il rispetto, se fossi un cavaliere e avessi a scegliere fra loro due, mi attaccherei più volentieri alla madre.

LUIG. Oh che caro segretario! Isabella non ha giudizio, e pure, quando sente parlare di matrimonio, si consola tutta.

SIG. Di quell’età?

LUIG. Ora nascono colla malizia in corpo.

SIG. Ma non è maraviglia, se si è maritata tanto bambina anche la madre.

LUIG. Don Sigismondo, siete amico voi del conte Ercole?

SIG. Sì signora, egli mi ha fatte delle confidenze.

LUIG. È ricco?

SIG. Moltissimo.

LUIG. Mi pare anche disinvolto e grazioso.

SIG. Egli è romano, ed ha tutto il brillante di quel paese.

LUIG. Peccato ch’egli si perda con quella scimunita d’Isabella.

SIG. Ma se V. E. è tanto rigorosa e severa, che nulla vuol avere di condescendenza per lui, credo lo faccia per una specie di disperazione.

LUIG. Sentite, faccio a voi una confidenza, che non la farei ad altra persona di questo mondo. Il Conte è una persona ch’io stimo e venero infinitamente; sono donna onorata; ma tutto quello che può sperarsi da una moglie nobile ed onestissima, forse forse l’averà egli da me.

SIG. Perdoni la mia ignoranza; sono all’oscuro affatto di questa bellissima specie di condescendenza. Un cavaliere che ama, non so che cosa possa sperare da un’onestissima moglie.

LUIG. Non importa che voi lo sappiate. Fra il Conte e me c’intendiamo perfettamente.

SIG. Dice bene; questi arcani non sono accessibili alla gente bassa.

LUIG. Bastami che voi, don Sigismondo, troviate il modo di farglielo gentilmente sapere.

SIG. Lo farò con tutto lo spirito, con tutta la cautela.

LUIG. Non fate sinistro concetto di me, poiché vi assicuro che i miei sentimenti sono onestissimi.

SIG. Di ciò ne sono più che certo. Ella ama onestissimamente il signor Contino.

LUIG. No; non è l’amore, che m’induca a procurarmi l’acquisto del cuor del Conte. Ma il mio decoro non soffre vedermi ancora preferita la figlia. Può credere alcuno ch’ella sia in un’età da far ritirar la madre dal più bel mondo ed io troppo presto altrui cedendo il mio loco, tradirei me stessa, calpestando il più bel fiore dell’età mia. Don Sigismondo, m’avete inteso. (parte)

SIG. Bel carattere è questo! Invidiosa sino della propria figlia. Le madri amano i loro figliuoli, sin tanto che questi non recano danno alla loro ambizione; e il piacere che provano nel vedere i figli de’ loro figli, vien loro fieramente amareggiato da quel brutto nome di nonna. Ma si lasci la Governatrice co’ suoi catarri, e pensiamo a noi. Eccomi in una carriera che mi promette la mia fortuna, scortato dalla dolcissima adulazione. Questo è il miglior narcotico per assonnare gli spiriti più vigilanti. Eccomi con questa ingegnosa politica fatto padrone del cuore del Governatore, secondando la sua pigrizia, e di quello della di lui moglie, adulando la di lei invidiosa ambizione. Queste imprese sono a buon porto: non mi resta, per esser felice, che superare l’ostinata avversione di donna Elvira, la quale, troppo innamorata di suo marito, non soffre le mie adorazioni. Ma la staccherò dal suo fianco, la ridurrò in necessità d’aver bisogno di me e otterrò forse dall’artifiziosa simulazione quello che sperare non posso dall’amore dalla servitù e dal denaro medesimo, il quale suol essere per lo più la chiave facile per ispalancare ogni porta. (parte)

SCENA QUARTA

Donna Isabellae Colombina con uno specchietto in mano.

COL. In verità, signora padroncina, che questa scuffia vi sta assai bene.

ISAB. È vero? Sto bene?

COL. Benissimo, e non potete star meglio. Io, in materia di far le scuffie, ho una mano tanto buona, che incontro l’aria di tutti i visi.

ISAB. Mi voglio un poco vedere.

COL. Ecco lo specchio, guardatevi.

ISAB. Uh, sto tanto bene. Tieni, Colombina, un bacino.

COL. Quando vi farete sposa, ve ne farò una ancora più bella.

ISAB. Io sposa?

COL. Certo che vi farete sposa.

ISAB. Quando?

COL. Presto.

ISAB. Domani?

COL. Oh! domani è poi troppo presto.

ISAB. Dopo domani?

COL. Che credete? Che il maritarsi sia come mangiare una zuppa?

ISAB. Eh! lo so che cosa vuol dir maritarsi.

COL. Sì? Che cosa vuol dire?

ISAB. Vuol dire, prender marito.

COL. Brava! siete spiritosa.

ISAB. So anche qualche cos’altro, ma non te lo voglio dire.

COL. Voi ne sapete più di me.

ISAB. E come! So... Ma senti, non lo dir a nessuno.

COL. No, no, non parlerò.

ISAB. So che i matrimoni si fanno anche tra uomo e donna.

COL. Anche?

ISAB. Ma io con un uomo mi vergognerei.

COL. E pure vi è il signor conte Ercole, ch’è innamorato morto di voi.

ISAB. Di me?

COL. Sì, di voi.

ISAB. Poverino!

COL. Vi piace?

ISAB. È tanto carino.

COL. Lo prendereste per marito?

ISAB. Un uomo? Ho paura di no.

COL. Povera semplice che siete!

ISAB. Io semplice? Semplice è stata mia madre.

COL. Per che causa?

ISAB. Perché ha preso un uomo, e ho sentito dir tante volte, che per causa sua è quasi morta.

COL. Chi ve l’ha detto?

ISAB. La balia.

COL. Ecco la vostra signora madre.

ISAB. Zitto, non ci facciamo sentir parlare di queste cose.

SCENA QUINTA

Donna Luigiae dette.

LUIG. Che si fa qui?

ISAB. Guardi, signora madre, come sto bene con questa scuffia.

LUIG. Chi ve l’ha fatta?

ISAB. Colombina.

COL. Sì, signora, io l’ho fatta; non istà bene?

LUIG. Per lei è troppo grande. Lascia vedere, me la voglio provare io.

COL. L’ho da levar di testa alla signorina?

LUIG. Gran cosa! Signora sì.

ISAB. No, cara signora madre.

LUIG. Sì, cara signora figlia. Animo, la voglio vedere.

COL. Via, bisogna obbedire.

ISAB. Ho tanta rabbia!

LUIG. Via, signorina, vi fate pregare?

ISAB. (La straccierei in mille pezzi). (da sé)

COL. Lasciate fare a me. (leva la scuffia ad Isabella) Eccola, Eccellenza. (Di tutto s’innamora, ha invidia di tutto). (da sé)

ISAB. (Quando sarò maritata, non mi caverà la scuffia). (da sé)

LUIG. (Osserva la scuffia che ha in mano)

ISAB. Signora madre, la mia scuffia.

LUIG. Andate via.

ISAB. Ho da andar senza scuffia?

LUIG. Colombina, dammi una scuffia da notte.

COL. La servo. (va a prenderla in camera)

ISAB. (Se non fosse mia madre, gliela strapperei di mano). (da sé)

COL. Eccola. (dà la scuffia da notte a donna Luigia)

LUIG. Tenete, mettetevi questa. (la dà ad Isabella)

ISAB. Una scuffia da notte?

LUIG. Questa è bella e buona per voi.

ISAB. Per me? Grazie. (la getta, e parte)

SCENA SESTA

Donna Luigiae Colombina

LUIG. Impertinente, sfacciatella. Presto, fammela venir qui.

COL. Cara signora padrona, convien compatirla; le piaceva tanto quella scuffia! Le stava tanto bene! Poverina! Le ha dato un dolor tanto grande.

LUIG. Voglio essere obbedita.

COL. Un’altra volta non farà così.

LUIG. L’hai fatta tu questa scuffia?

COL. Eccellenza sì. Che dice? Non è ben fatta?

LUIG. Mi pare antica.

COL. In verità è all’ultima moda.

LUIG. Queste ale non mi piacciono.

COL. E pure si usano.

LUIG. Oibò, che brutta scuffia! Non mi piace.

COL. Se non le piaceva, poteva lasciarla a quella povera ragazza.

LUIG. Tu non sei buona da nulla.

COL. Pazienza. (Ho una rabbia, che la scannerei). (da sé)

LUIG. Tieni questa scuffia.

COL. La tengo.

LUIG. Dove hai ritrovati quei fiori?

COL. Mi sono stati donati.

LUIG. Chi te li ha dati?

COL. Il buffone.

LUIG. Arlecchino? Il buffone te li ha dati? Fraschetta! Fai forse all’amore?

COL. Io non faccio all’amore. Mi ha usata questa finezza, perché qualche volta do dei punti al suo abito buffonesco.

LUIG. Dammi quei fiori; li voglio io.

COL. Non sono fiori da pari sua. (Ha invidia anche di questi fiori). (da sé)

LUIG. Dammeli che li voglio.

COL. Eccoli, si serva. (Maledetta!) (da sé)

LUIG. Tutta fiori la signora graziosa!

COL. (Non ci starei, se mi desse due doppie al mese). (da sé)

LUIG. Il Conte dove si trova?

COL. Io l’ho veduto nel salotto, che beveva la cioccolata col padrone.

LUIG. Va a vedere dov’è, e s’egli è solo, digli che gli voglio parlare.

COL. La servo. (Poveri i miei fiori! Vuol tutto per lei, tutto per lei). (da sé, e parte)

LUIG. Oibò! Questi fiori puzzano. Non li voglio. (li getta via)

SCENA SETTIMA

Arlecchino e detta.

ARL. (Entra senza parlare, e va bel bello dove sono i fiori; li guarda con attenzione e sospira)

LUIG. Chi ti ha insegnato le creanze? Vieni e non ti cavi il cappello?

ARL. (Senza parlare prende i fiori, li osserva e sospira)

LUIG. Ti spiace vedere strapazzati quei fiori, che tu hai donati alla tua favorita?

ARL. (Sospirando e piangendo torna a buttar i fiori in terra, con una esclamazione)

LUIG. Possibile che quei fiori ti facciano piangere e sospirare?

ARL. No pianzo per quei fiori, no sospiro per lori.

LUIG. Dunque perché fai tante smanie?

ARL. Pianzo per vu, sospiro per causa vostra.

LUIG. Per me? Spiegati, per qual cagione?

ARL. Quella povera rosa stamattina a bonora l’era bella, fresca e odorosa; adesso l’è fiappa, pelada, strapazzada. Pianzo, perché un zorno l’istesso sarà anca de vussignoria. (parte)

LUIG. Temerario briccone. Ehi, chi è di là?

SCENA OTTAVA

Brighella e detta.

BRIGH. Eccellenza, cossa comandela?

LUIG. Presto, fa che si arresti il buffone e fagli dar delle bastonate.

BRIGH. Per che causa, Eccellenza?

LUIG. Perché mi ha perso il rispetto.

BRIGH. La perdona, no sala che l’è un buffon? No se sa che i buffoni i perde el respetto anca a chi ghe dà da magnar? El patron lo protegge, e nol se pol bastonar.

LUIG. Mio marito è pazzo a mantener quel briccone.

BRIGH. No l’è solo. Ghe n’è dei altri che stipendia della zente a posta per sentirse a strapazzar.

LUIG. Ed io averò da soffrirlo?

BRIGH. Eccolo qua che el torna.

LUIG. Ardisce ancora comparirmi dinanzi?

SCENA NONA

Arlecchino con un nerbo, e detti.

ARL. (Fa una riverenza alla Governatrice, poi presenta il nerbo a Brighella, senza parlare)

BRIGH. Coss’oio da far de sto nervo?

ARL. Bastonarme mi.

LUIG. Sa il suo merito, quel briccone.

BRIGH. Bastonarve? Perché?

ARL. Perché ho dito una baronada. Ho paragonà la padrona a una rosa fiappa e pelada. El paragon no va ben. Le rose, anca fiappe, le sa da bon; le donne, anca fresche, le manda cattivo odor. (parte)

LUIG. Ah, non posso più tollerarlo.

BRIGH. No la vada in collera. La sa che l’è un buffon.

LUIG. Costui vuol esser la rovina di questa nostra famiglia.

BRIGH. Eh, Eccellenza, nol vol esser lu la rovina de sta Corte, ma un altro.

LUIG. E chi dunque?

BRIGH. Se no gh’avesse paura de precipitarme, lo diria volentiera.

LUIG. Parla, e non temere.

BRIGH. Son servitor antigo de casa; e succeda quel che sa succeder, no posso taser, e no devo taser. Per i mi patroni son pronto a sagrificar anca el sangue. La persona che tende alla rovina de sta fameia, l’è el sior don Sigismondo.

LUIG. Come! Un uomo di quella sorte? Un uomo che fa tanto per noi? Così umile, così rispettoso, così interessato per i nostri vantaggi?

BRIGH. L’è un adulator, l’è un omo finto; so mi quel che digo.

LUIG. Va via sei una mala lingua.

BRIGH. Col tempo e la paia se madura le nespole. Pol esser che un zorno la se recorda de ste mie parole.

LUIG. Sai cosa ha di male don Sigismondo? È un uomo economo. Suggerisce qualche volta le buone regole, e voi altri servitori non lo potete vedere.

BRIGH. El suggerisce l’economia per i altri, per ingrassarse lu solo. L’è do mesi che no tiremo salario, né cibarie, e me vien dito che sto sior economo abbia avudo l’ordene de pagarne.

LUIG. Orsù, basta così. Da un altro servitore non avrei sofferto tanto.

BRIGH. Son trent’anni che servo in sta casa, e me recordo quando el padron ha sposà Vostra Eccellenza vint’anni fa...

LUIG. Vent’anni sono? Pezzo d’asino, dov’hai la testa?

BRIGH. Mo quanto sarà, Eccellenza?

LUIG. Undici, dodici anni al più.

BRIGH. Se l’illustrissima siora Isabella la ghe n’ha disdotto!

LUIG. Sei una bestia: non è vero.

BRIGH. Se l’ha lattada mia muier!

LUIG. Animo, basta così.

BRIGH. La perdoni... (Ecco qua: chi vol aver fortuna bisogna adular. Se anca mi la savesse burlar, saria el so caro Brighella). (da sé, parte)

LUIG. Già questi servitori antichi di casa vogliono sempre sapere più dei padroni.

SCENA DECIMA

Colombina e detta.

COL. Eccellenza, or ora il signor Conte verrà.

LUIG. Benissimo, non occorr’altro.

COL. (I miei fiori! Oh poveri i miei fiori!) (vedendoli in terra)

LUIG. Tira avanti due sedie.

COL. La servo. (nel metter l’ultima sedia, s’abbassa per prenderli)

LUIG. Lascia lì.

COL. (Col piede della sedia li pesta rabbiosamente)

LUIG. Che cosa fai?

COL. Questa sedia non vuole star ritta. (come sopra)

LUIG. Eh rabbiosetta, veh!

COL. (Possano diventar tanti diavoli, che le saltino per il guardinfante). (da sé, parte)

LUIG. Non so se don Sigismondo avrà ancora parlato col Conte, a tenore del mio discorso. Basta, mi conterrò diversamente con lui, e s’egli ha della soggezione a dichiararsi per me, gli farò coraggio. Eccolo che viene.

SCENA UNDICESIMA

Il conte Ercolee detta.

CON. Faccio umilissima riverenza alla signora Governatrice.

LUIG. Serva, signor Conte.

CON. Avete riposato bene, signora, la scorsa notte?

LUIG. Un poco inquieta.

CON. Che vuol dire? Avete qualche cosa che vi disturba?

LUIG. Da tre mesi in qua non trovo più la mia solita pace.

CON. Tre mesi son per l’appunto, ch’io sono ospite in vostra casa. Non vorrei che la vostra inquietezza provenisse per mia cagione.

LUIG. Conte, accomodatevi.

CON. Obbedisco.

LUIG. (Vorrei ch’ei m’intendesse, senza parlare). (da sé)

CON. Signora donna Luigia, che risposta mi date intorno alla signora donna Isabella?

LUIG. Avete voi parlato con don Sigismondo?

CON. Da ieri in qua non l’ho veduto.

LUIG. Mi rincresce.

CON. Aveva egli a dirmi qualche cosa per parte vostra?

LUIG. Per l’appunto.

CON. Che bisogno c’è di parlar per interprete? Signora, se avete a dirmi cosa di qualche rimarco, ditemela da voi stessa.

LUIG. Vi dirà il segretario quello ch’io dir non oso.

CON. Evvi qualche difficoltà?

LUIG. Se quei sentimenti che ho da voi raccolti, sono sinceri, tutto anderà a seconda de’ vostri desiri.

CON. Tant’è vero che io parlo sinceramente, che ho già preparato l’anello.

LUIG. Per darlo a chi?

CON. Alla signora donna Isabella.

LUIG. Alla signora donna Isabella?

CON. Per l’appunto alla mia sposa.

LUIG. Alla vostra sposa?

CON. Signora, voi mi parlate con una frase, che non intendo.

LUIG. Sarà magnifico quest’anello.

CON. Eccolo. L’ho portato da Roma. Vi sono dei diamanti più grandi, ma forse non ve ne saranno dei più perfetti.

LUIG. Favorite.

CON. Osservate. (le dà l’anello)

LUIG. Veramente è assai bello. (se lo pone in dito) S’accomoda al mio dito perfettamente.

CON. Spero starà egualmente bene in dito alla signora donna Isabella.

LUIG. Isabella è ancora troppo ragazza.

CON. È vero, è ragazza; ma è in una età giustissima per farsi sposa.

LUIG. Credetemi, è ancor troppo presto. Che potete sperare da una, che non sa distinguere il ben dal male?

CON. Spero ch’ella intenda il bene, senza conoscere il male.

LUIG. Conte, amate voi veramente Isabella?

CON. L’amo con tutto il cuore.

LUIG. Parlatemi sinceramente; perché l’amate?

CON. Perché è vezzosa, perché è bella, perché è savia, perché è vostra figlia.

LUIG. L’amate perché è mia figlia?

CON. Così è; voi l’avete adornata di tutti quei pregi, di tutte quelle virtù che la rendono amabile.

LUIG. (Non m’ingannai; egli si è prima innamorato della madre, e poi della figlia). (da sé)

CON. Ella ha sortito da voi la nobiltà di quel sangue...

LUIG. Il sangue poche volte innamora. Ditemi, Isabella vi pare che mi somigli?

CON. Moltissimo. Ella è il vostro ritratto.

LUIG. Chi apprezza il ritratto, farà conto dell’originale.

CON. Parmi, signora, avervi dati in ogni tempo dei contrassegni del mio rispetto.

SCENA DODICESIMA

Don Sigismondoe detti.

SIG. Eccellenza, posso venire? (di dentro)

LUIG. Sì, venite, venite.

SIG. Con permissione di Vostra Eccellenza. (esce)

LUIG. Perché non venite a dirittura?

SIG. So il mio dovere.

LUIG. Per voi non vi è portiera.

SIG. Grazie alla bontà di Vostra Eccellenza.

CON. Riverisco il signor segretario.

SIG. Servitor umilissimo di V.S. Illustrissima.

CON. Sta bene?

SIG. Ai comandi di V.S. Illustrissima.

LUIG. Volete nulla? (a Sigismondo)

SIG. Eccola servita della risposta della lettera, che mi ha onorato di comandarmi.

LUIG. (Dite: avete detto nulla al Conte?) (piano a Sigismondo)

SIG. (In verità, non ho avuto campo di servirla). (piano a Luigia)

LUIG. (Ditegli ora qualche cosa; frattanto leggerò questa lettera). (piano) Conte, permettetemi ch’io legga questo foglio, che devo sottoscrivere.

CON. Prendete il vostro comodo.

LUIG. (Operate da vostro pari. Fategli animo, acciò si dichiari per me, ma non avventurate il mio decoro e la mia onestà). (piano a Sigismondo)

SIG. (So come devo contenermi). (piano)

LUIG. (Vedete quest’anello? Me l’ha dato il Conte). (come sopra)

SIG. (Vostra Eccellenza meriterebbe tutte le gioje del mondo, poiché è la gioja più preziosa del nostro secolo). (piano)

LUIG. (Via, non mi burlate). (legge la lettera piano)

SIG. (Signor Conte, frattanto che la padrona legge quel foglio, mi permette che possa dirgli due paroline?) (piano al Conte)

CON. (Volentieri, eccomi da voi).

SIG. (Mi dica, in grazia; ma perdoni se troppo m’avanzo...)

CON. (Parlate liberamente).

SIG. (Ama ella veramente la signora Isabella?)

CON. (L’amo quanto me stesso).

SIG. (L’ama per pura inclinazione, oppure per una specie d’impegno?)

CON. (L’amo perché mi piace, perché mi pare amabile, e niente mi sprona a farlo, fuorché il desiderio di conseguirla in isposa).

SIG. (Eppure la signora donna Luigia si lusinga che V.S. Illustrissima...) (ride)

CON. (Che cosa?)

SIG. (Fosse... innamorata di lei).

CON. (Oh, questa è graziosa! Pare a voi ch’io fossi capace d’una simile debolezza?)

SIG. (So benissimo quanto sia grande la prudenza di V.S. Illustrissima).

CON. (Ch’io volessi tradire l’ospitalità? Insidiar l’onore di don Sancio, mio caro amico?)

SIG. (Un cavaliere onorato non pensa così vilmente).

CON. (E poi, che volessi preferire alla figlia la madre?)

SIG. (Il signor Conte non è di questo cattivo gusto).

CON. (Voi che mi consigliereste di fare?)

SIG. (Darò a V.S. Illustrissima il consiglio più universale. Quando si compra, comprar giovine).

CON. (Anch’io sono della stessa opinione).

SIG. (Però ella ha donato l’anello alla signora donna Luigia).

CON. (Donato? Non è vero: Ora me lo renderà).

SIG. (Non faccia).

CON. (Perché l’ho da perdere?)

SIG. (Non sa quel che dice il proverbio?)

CON. (Che dice?)

SIG. (Chi vuol bene alla figlia, accarezzi la mamma).

CON. (È una carezza, che costa troppo).

SIG. (La politica vuol così).

CON. (Non vorrei con questa politica perder Isabella).

SIG. (Si fidi di me).

CON. (So che siete un galantuomo).

SIG. (Son l’uomo più sincero di questo mondo).

CON. (Ma presto ne voglio uscire).

SIG. (Non ci pensi. Si lasci servire). (s’accosta a donna Luigia)

CON. (Donna Luigia ha queste pazzie nel capo? Ora intendo gli enigmi de’ suoi graziosi discorsi). (da sé)

LUIG. (Va bene?) (a don Sigismondo)

SIG. (Benissimo). (a donna Luigia)

LUIG. (Si è dichiarato?)

SIG. (Apertamente).

LUIG. (Per me?)

SIG. (Per Vostra Eccellenza).

LUIG. (Posso parlar liberamente?)

SIG. (Ancora no).

LUIG. (Perché?)

SIG. (Ha i suoi riguardi. Parleremo con comodo). Signor Conte, la mia padrona non è niente disgustata per le dichiarazioni che mi ha fatte.

LUIG. No, Conte, anzi starò più cheta, or che vi siete spiegato.

CON. Io credeva essermi bastantemente spiegato alla prima.

LUIG. Eppure io non vi aveva capito.

CON. O che non mi avete voluto capire.

LUIG. Può anche darsi, furbetto, può anche darsi.

SIG. Due ingegni così sublimi si devono facilmente intendere.

LUIG. Guardate, don Sigismondo, il bell’anello che mi ha regalato il Conte.

CON. Quello era destinato...

SIG. Era destinato per la signora donna Luigia, né doveva passare in altre mani che nelle sue.

CON. Eppure...

SIG. Eppure, quasi più... Basta, so io quel che dico.

LUIG. Lo so ancor io.

CON. Anch’io v’intendo.

SIG. Ecco, tutti tre c’intendiamo.

SCENA TREDICESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Eccellenza, l’è qua la siora donna Elvira, che desidera reverirla.

LUIG. Vi è nessun cavaliere con lei? (a Brighella)

BRIGH. Eccellenza sì. Gh’è el signor...

LUIG. Ecco qui. Tutte hanno il cavaliere che le serve ed io non l’ho. Conte, tocca a voi.

BRIGH. La senta, Eccellenza: con la siora donna Elvira no gh’è miga nissun, se la m’intende. Gh’è sior don Filiberto, so consorte.

LUIG. Vedete? I mariti delle altre vanno colle loro mogli; mio marito con me non viene mai; par che non mi possa vedere.

SIG. (Ora per invidia le viene volontà anche di suo marito). (da sé)

BRIGH. Sior don Filiberto l’è partido, e la siora donna Elvira l’è restada sola, e la desidera udienza da V. E.

LUIG. Dille che passi.

BRIGH. Manco mal. (La servitù de donna Elvira dirà che mi gh’ho poca creanza). (da sé, parte)

CON. Signora, con vostra buona licenza, vi levo l’incomodo.

LUIG. Perché volete privarmi delle vostre grazie?

CON. Il signor Governatore mi aspetta.

LUIG. Non so se l’attenzione che avete per lui, l’avrete per me.

CON. So la stima che devo a ciascheduno di voi. All’onore di riverirvi. (in atto di partire)

LUIG. Conte, l’appartamento di mio marito resta di qua. Di là si va nella camera d’Isabella.

CON. Ecco la dama che arriva. Non anderò né di qua, né di là. (parte per la porta di mezzo)

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Luigiae don Sigismondo

LUIG. Il Conte veramente mi ama, non mi vuol dar gelosia.

SIG. Con permissione. (vuol partire)

LUIG. Perché partite?

SIG. Il mio dovere lo vuole.

LUIG. Credo non vi dispiacerà veder donna Elvira. Restate.

SIG. Resterò per ubbidirvi, non già per altro.

LUIG. Sì sì, c’intendiamo.

SCENA QUINDICESIMA

Donna Elvirae detti.

ELV. Serva umilissima.

LUIG. Donna Elvira vi riverisco.

SIG. Servitor ossequiosissimo della signora donna Elvira.

ELV. Serva sua. (Costui non lo posso vedere). (da sé)

LUIG. Accomodatevi.

ELV. Per ubbidirvi. (siedono)

LUIG. Don Sigismondo, sedete.

SIG. Obbligatissimo alle grazie di V. E. (siede vicino a donna Elvira)

LUIG. Donna Elvira, dove avete comprata quella bella stoffa? (osservando il vestito di donna Elvira)

ELV. A Napoli, mia signora.

LUIG. Oh! quanto mi piace questa stoffa.

SIG. (A lei piace l’abito, e a me la persona). (da sé)

LUIG. Quanto l’avete pagata?

ELV. Io credo averla pagata sei ducati il braccio.

LUIG. Come si potrebbe fare a trovarne della compagna?

ELV. Si può scrivere a Napoli. Se comandate, vi servirò.

LUIG. Segretario, osservatelo, vi piace questo drappo?

SIG. Mi piace infinitamente. (osservando donna Elvira nel viso, più che nell’abito)

LUIG. Vi pare che a quel prezzo si possa prendere?

SIG. Non vi è oro, che possa pagare la sua bellezza. (come sopra)

LUIG. Siete voi di buon gusto?

SIG. Così foss’io fortunato, come son di buon gusto.

ELV. (Costui mi fa l’appassionato, ed io l’aborrisco). (da sé)

SIG. Permetta, in grazia, che dia un’altra guardatina a quest’opera. (a donna Elvira, come sopra)

ELV. Mi pare che l’abbiate veduta abbastanza. Signora Governatrice, sono venuta ad incomodarvi per supplicarvi di una grazia.

LUIG. Dove posso, vi servirò. Chi vi ha così bene assettato il capo?

ELV. Il mio cameriere.

LUIG. Di dov’è?

ELV. È francese.

LUIG. Lavora a maraviglia. Mi fareste il piacere di mandarlo da me?

ELV. Sarete servita.

LUIG. Segretario, osservate quel tuppè; può esser fatto meglio?

SIG. È una cosa che incanta.

ELV. (Sono ormai stufa). (da sé, si volta un poco)

SIG. Signora, mi permetta.

ELV. Queste sono osservazioni da donne.

SIG. Eh! signora, quel ch’io vedo, è cosa più per uomo che per donna.

ELV. Come sarebbe a dire?

SIG. M’intendo dire che quel tuppè non è opera di donna, ma di un parrucchiere francese. (A suo tempo la discorreremo meglio). (da sé)

ELV. Signora, la grazia di cui sono a pregarvi, è questa. A Napoli ho data la commissione, perché mi provvedessero un finimento di pizzi all’ultima moda che sarà incirca venti braccia. Fu consegnato l’involto ad un vetturino; i birri lo hanno ritrovato e me l’hanno preso. Supplico la vostra bontà a intercedermi la grazia presso il signor Governatore, di poter riavere i miei pizzi.

LUIG. Sono belli questi pizzi?

ELV. Devono essere de’ più belli. Costano quattro zecchini il braccio.

LUIG. Capperi! quattro zecchini?

ELV. Così mi hanno mandato il conto. Ottanta zecchini, senza il porto.

LUIG. Ottanta zecchini in un fornimento di pizzi?

ELV. Erano ordinati per le mie nozze, e me li hanno spediti ora. Posso sperare di essere favorita?

LUIG. (Se sono belli, se sono alla moda, li voglio per me assolutamente). (da sé)Pensava al modo più facile per riaverli. Segretario, che dite? Li averemo noi facilmente?

SIG. Ci vuol essere qualche difficoltà. Sopra le gabelle il signor Governatore non ha tutta l’autorità, poiché i finanzieri pagano un tanto alla Camera, e i contrabbandi diventano cosa loro.

LUIG. In quanto a questo poi, quando mio marito comanda, lo hanno da ubbidire.

SIG. V. E. dice benissimo. (con una riverenza)

LUIG. Per facilitare dirò che questi pizzi sono miei, che li ho fatti venir io. Sarebbe bella che io non potessi far venire liberamente tutto quello ch’io voglio, senza dipendere dai gabellieri! Che dite, segretario?

SIG. V. E. non può dir meglio. (Ingiustizie a tutt’andare). (da sé)

LUIG. (Non vedo l’ora di veder questi pizzi). (da sé) Attendetemi, donna Elvira, vado subito da mio marito, perché dia l’ordine della restituzione.

ELV. Spiacemi il vostro incomodo. Speriamo che il signor don Sancio farà la grazia?

LUIG. Oh! mio marito fa poi a modo mio.

ELV. Anche negli affari del governo?

LUIG. In tutto. Grazie al cielo, ho un marito che non ha coraggio di dirmi di no. Egli comanda in apparenza, ed io comando in sostanza. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Donna Elvira, e Don Sigismondo

ELV. Che buona dama è questa signora Governatrice!

SIG. Non è dissimile il bel cuore di suo consorte, e l’uno e l’altra hanno della stima per la vostra nobilissima casa, e dell’amore particolare per il vostro degno consorte!

ELV. Mio marito non merita nulla, e nulla ha fatto per il signor Governatore, che vaglia a lusingarmi della sua generosa parzialità.

SIG. Eppure, senza ch’egli lo sappia, ha fatto a don Filiberto un beneficio, una grazia tale che agli altri darà motivo d’invidia.

ELV. Che mai ha fatto egli per mio consorte?

SIG. Sapete voi che ora si tratta di supplicar S.M. per la permissione delle due Fiere?

ELV. Lo so benissimo.

SIG. Il memoriale è disteso, il dispaccio è formato. Vi vuole alla Corte una persona che agisca, e il padrone ha eletto don Filiberto per un impiego sì degno e sì decoroso.

ELV. Signor segretario, avete voi operato nulla in questo affare in favore di mio marito, acciò egli se ne vada alla Corte?

SIG. Siccome lo amo e lo venero infinitamente, non ho mancato di far per esso de’ buoni uffici presso del mio padrone.

ELV. Già me ne avvedo. Ma spero che mio marito ringrazierà il signor don Sancio, e ne sarà dispensato.

SCENA DICIASSETTESIMA

Donna Luigiae detti.

LUIG. La grazia è fatta. Ecco l’ordine per riavere i pizzi.

ELV. In verità sono consolatissima. Quando li avremo?

LUIG. Or ora manderò il maestro di casa con quest’ordine, e li daranno.

ELV. Quanto vi sono obbligata!

LUIG. (Non vedo l’ora di vederli). (da sé)

ELV. Vi sarà alcuna spesa? Supplirò a tutto.

LUIG. Non avete a spendere un soldo.

SIG. Può essere che i gabellieri vogliano il dazio.

LUIG. Che dazio! Quando comando io, è finita.

SIG. V. E. dice benissimo.

ELV. Ma quando li vedremo questi pizzi?

LUIG. Aspettate. Chi è di là? Dove sono costoro? Non vi è nessuno?

SIG. Comanda? La servirò io.

LUIG. Isabella, Colombina, dove diavolo sono? (chiama)

SIG. (Senta. Non vorrei che la signora donna Isabella con Colombina... Basta, parlo col dovuto rispetto). (in disparte, a donna Luigia)

LUIG. (Che fossero col Conte?) (a don Sigismondo)

SIG. (Chi sa? Si potrebbe dare).

LUIG. (Voglio andar a vedere).

SIG. (Eccellenza sì, vada, e se ne assicuri).

LUIG. (Se fosse vero!)

SIG. (Vada subito e con cautela).

LUIG. Donna Elvira, attendetemi, che ora torno.

ELV. Vi servirò, se vi contentate.

LUIG. Trattenetevi. Vado in luogo, dove mi conviene andar sola.

ELV. Signora, mi volete lasciar qui...

LUIG. Don Sigismondo vi terrà compagnia.

ELV. Ma io, signora...

LUIG. Vengo subito, vengo subito. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Donna Elvirae don Sigismondo

SIG. Che vuol dire, signora donna Elvira? Ha tanta paura a restar sola con me?

ELV. Io non ho alcun timore, ma la convenienza lo richiederebbe...

SIG. Sono un uomo onorato.

ELV. Per tale vi considero.

SIG. Sono ammiratore del vostro merito.

ELV. Non ho merito alcuno, che esiga da voi né stima, né ammirazione.

SIG. E sono... (con tenerezza)

ELV. Don Sigismondo, basta così.

SIG. Permettetemi che dica una sola cosa e poi ho finito. E sono un adoratore della vostra bellezza.

ELV. Se prima mi avete adulata, ora mi avete offesa.

SIG. Le adorazioni d’un cuor amante non offendono mai la persona amata. Voi non potete impedirmi ch’io vi ami. In vostro arbitrio solo sta il corrispondermi.

ELV. Questo non lo sperate giammai.

SIG. Non potete nemmeno vietarmi ch’io lo speri.

ELV. Sì, ve lo posso vietare. Una donna onorata fa disperar chi che sia di ottener cosa alcuna, che pregiudichi al suo decoro.

SIG. Aspettate. Io non voglio sperare che voi mi amiate, ma voglio lusingarmi d’un’altra cosa.

ELV. E di che?

SIG. Che voi lascierete tutti questi pregiudizi; che diverrete col tempo meno selvatica, e un poco più compiacente.

ELV. Chi si lusinga di ciò, pensa temerariamente di me. (alterata)

SIG. Vedete, se principiate a scaldarvi? Al fuoco dello sdegno succede spesse volte quel dell’amore.

ELV. Don Sigismondo, abbiate più rispetto per le dame onorate.

SIG. Mi pare di rispettarvi, qualora vi venero, vi stimo e teneramente vi amo.

ELV. È qualche tempo che mi andate importunando ed io non l’ho fatto sapere a don Filiberto per non rovinarvi: guardatevi di non provocarmi più oltre.

SIG. Io ho sempre sentito dire, che si odiano i nemici, non quelli che amano.

ELV. Chi mi ama, come voi, è mio inimico.

SIG. Ma sapete voi come vi amo?

ELV. Già me l’immagino.

SIG. Se vi figurate l’amor mio disonesto siete più maliziosa di me. Vi amo onestissimamente, con un amore il più innocente, il più platonico che dar si possa.

ELV. Siccome adulate tutti, adulerete anche voi medesimo.

SIG. Giuro sull’onor mio, che dico la verità.

ELV. Non ama il proprio onore, chi tende insidie all’altrui.

SIG. Giuro su questa bellissima mano...

ELV. Temerario! Non posso più tollerarvi. O cangiate stile con me, o vi farò pentire dell’ardir vostro. Son dama, son moglie, sono onorata. Tre titoli, che esigono da voi rispetto. Tre condizioni, che vi faranno tremare. (parte)

SIG. Tre ragioni, che non mi spaventano niente affatto.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Don Sigismondosolo.

SIG. Dunque donna Elvira ha ottenuto dal Governatore che suo marito non parta? E don Filiberto resterà in Gaeta per cagion della moglie, e questa moglie superba mi disprezzerà per cagion del marito? Fin che saranno uniti, non potrò mai sperar nulla. Se non mi riesce allontanare don Filiberto co’ benefizi, lo allontanerò colla forza. Se questa volta il Governatore si è lasciato vincere dalle suppliche di una donna, né io sono stato in tempo per riparare al disordine co’ miei consigli, arte non mi mancherà per macchinare e costringere il Governatore medesimo a non ascoltare per la seconda volta questa mia adorata nemica.

SCENA SECONDA

Brighella e detto.

BRIGH. Signor segretario, ghe fazzo reverenza.

SIG. Oh! Decano mio gentilissimo! Caro Brighella amatissimo, vi occorre nulla? Posso far nulla per voi? Dite, parlate, caro galantuomo, uomo veramente dabbene.

BRIGH. (Eh forca, te cognosso!) Voleva pregarla d’una grazia.

SIG. Son qui tutto per voi, per il mio caro messer Brighella. Sentite, fra tutti i servitori voi siete il più abile e il più fedele.

BRIGH. De abilità no me vanto, ma in materia de fedeltà, no la cedo a nissun. Son omo schietto e real, e no posso adular.

SIG. Oh bravo! Oh bella cosa la realtà, la schiettezza di cuore!

BRIGH. Ma al dì d’oggi, chi è sincero, non ha fortuna.

SIG. Via, caro, via, dite cosa volete, perché ho da far qualche cosa.

BRIGH. Se la disturbo, vado via.

SIG. No, anima mia, no, non mi disturbate. Per voi m’impiego volentieri. (Non lo posso soffrire). (da sé)

BRIGH. Mi, come capo della fameia bassa de sta Corte, la supplico in nome de tutti i servitori de recordar al padron che son do mesi che no se tira né el salario, né i denari per le cibarie, e che no savemo più come far.

SIG. Poverini! Avete ragione. Fate una cosa, andate dal maestro di casa.

BRIGH. Son andà, e l’ha dito che lu no gh’ha denari, e che ella ha avudo l’ordene e i bezzi per pagarne.

SIG. (Come diavolo l’ha saputo?) (da sé) Io non ho avuto nulla. Ma per voi, se avete bisogno, ve li darò del mio. Per il mio caro messer Brighella farò tutto. Prendete tabacco? (cava la scatola)

BRIGH. Quel che la comanda. Receverò le so grazie. Bon, prezioso. (prendendo tabacco)

SIG. Vi piace?

BRIGH. El bon piase a tutti.

SIG. Avete la tabacchiera?

BRIGH. Una strazzetta de legno.

SIG. Oibò, un uomo par vostro una tabacchiera di legno! Tenete questa.

BRIGH. Ghe rendo grazie.

SIG. Eh, prendete.

BRIGH. La me perdona, no la togo seguro.

SIG. Quando non volete, pazienza. Ve la donava di cuore.

BRIGH. (No bisogna tor regali, chi no vol esser obbligà a far de quelle cosse che no s’ha da far).

SIG. Ditemi, vita mia, quanto avanzate voi di salario e panatica?

BRIGH. Quel che avanzo mi, l’è unido con quel che avanza anca i altri. Ecco qua la nota. Semo in otto persone; in do mesi ne vien in tutti dusento ducati.

SIG. Ma io, perché vi voglio veramente bene, voglio farvi una proposizione da vero amico. Prendete quello che si appartiene a voi, e non vi curate degli altri.

BRIGH. Cossa volela che diga i mi camerada?

SIG. Non vi è bisogno che dite loro d’aver avuto denaro. La cosa passerà segretamente fra voi e me. Poi quest’altro mese daremo a tutti qualche cosa.

BRIGH. Mo mi, la me perdona...

SIG. Sì caro, via, accettate l’offerta.

BRIGH. Ma perché no volela pagar tutti?

SIG. A voi, che siete un uomo savio ed onesto, confiderò la verità. Il padrone adesso non ha denari; ma zitto, che non si sappia. Mi preme l’onore del mio padrone.

BRIGH. L’onor del mio padron el me preme anca a mi, e me despiase che el fazza sta cattiva figura presso la servitù, e la servitù parla per tutto, e la zente ride. Ma za che la me dona tanta confidenza, la me permetta de dirghe una cossa con libertà, qua che nissun ne sente.

SIG. Dite pure.

BRIGH. Tutti sa che V.S. ha avudo i denari da pagarne, e se mormora assae.

SIG. Amico, non è vero.

BRIGH. Mi so tutto.

SIG. Orsù, vi consiglio prendere il vostro denaro e star cheto.

BRIGH. Questo po no. Non voio esser differenzià dai altri. Semo tutti camerada: o tutti, o nissun.

SIG. Oh bene! Non l’avrete nemmeno voi.

BRIGH. Che giustizia ela questa? Non avemo d’aver el nostro? Ricorrerò al padron.

SIG. Sì, caro, ricorrete. Dite le vostre ragioni, a me non fate torto. (lo accarezza)

BRIGH. Mi non ho bisogno de tante carezze; ho bisogno de bezzi per mi e per i mi compagni.

SIG. Siate benedetto! Fate bene a procurare per tutti. Ammiro la vostra onoratezza.

BRIGH. Quando saremo pagadi?

SIG. Ricorrete al padrone.

BRIGH. Me dala libertà che ricorra?

SIG. Sì, caro Brighella, ricorrete. V’introdurrò io.

BRIGH. (Bisogna che i denari nol li abbia avudi). (da sé)

SIG. Quando volete venire?

BRIGH. Se la me conseia, anderò stassera.

SIG. Sì, questa sera, vi farò io la scorta.

BRIGH. Basta; se l’avesse offesa, ghe domando perdon.

SIG. Caro amico, niente affatto. Vi compatisco. Comprendo il vostro zelo; vi lodo infinitamente.

BRIGH. La me permetta... (gli vuol baciare la mano)

SIG. Oh! non voglio assolutamente. Ecco un atto di buona amicizia. (lo abbraccia)

BRIGH. Me raccomando alla so protezion.

SIG. Disponete di me.

BRIGH. Ghe fazzo umilissima riverenza.

SIG. Addio, caro, addio.

BRIGH. (Stassera scoverzirò la verità). (da sé, parte)

SIG. Briccone, me la pagherai; avanti sera sarai servito.

SCENA TERZA

Il paggio e detto.

PAGG. Signore, vi è il signor Pantalone de’ Bisognosi che vorrebbe udienza dal padrone. Ella m’ha detto che non faccia passar nessuno senza prima avvisarla, onde sono venuto a dirglielo per obbedirla.

SIG. Caro paggino, avete fatto bene. Tenete, compratevi qualche galanteria. (gli dà una moneta)

PAGG. Obbligatissimo alle sue grazie.

SIG. Fatelo venir qui da me.

PAGG. Subito la servo. (Io son un paggio di buon cuore; servo volentieri quelli che mi regalano). (da sè, parte)

SIG. Se questo ricco mercante ha bisogno di qualche cosa, ha da dipendere da me.

SCENA QUARTA

Pantalone e detto.

PANT. Servitor obbligatissimo, sior segretario.

SIG. Oh! amabilissimo signor Pantalone, onor dei mercanti, decoro di questa città, in che posso servirla?

PANT. La prego de farme la grazia de farme aver udienza da So Eccellenza.

SIG. Oggi, caro, non dà udienza; ma se vi occorre qualche cosa, comandate, vi servirò io.

PANT. Averia bisogno de presentarghe sto memorial.

SIG. Oh! volentieri, subito. Consegnatelo a me, glielo porto immediatamente.

PANT. Ma averia piaser de dirghe qualche cossa a bocca.

SIG. Quanto mi spiace non potervi consolare! Oggi non gli si può parlare, è giornata di posta.

PANT. Me rincresce che stassera va via le lettere, e me premeva de scriver qualcossa su sto proposito ai mi corrispondenti.

SIG. Ditemi, di che si tratta?

PANT. Ghe dirò. La sa che mi ho introdotto in sta città la fabrica dei velludi, e la sa che utile ho portà a sto paese. Adesso un capo mistro se m’ha voltà contra, el xe spalleggià da do mercanti, e el pretende de voler eriger un’altra fabrica. Mi, che gh’ho el merito d’esser stà el primo, domando el privilegio coll’esclusiva de ogni altro: esibendome mi de crescer i laorieri, se occorre, a benefizio de la città.

SIG. L’istanza non può essere più giusta. Non dubitate, che sarete consolato. Date a me il memoriale.

PANT. Eccolo, me raccomando alla so protezion.

SIG. Riescono veramente bene questi vostri velluti?

PANT. I riesce perfettamente.

SIG. Non li ho mai considerati esattamente. Fate una cosa, mandatemene una pezza del più bello, acciò lo possa far vedere al signor Governatore, per animarlo a farvi la grazia.

PANT. (Ho inteso, el me vol magnar una pezza de velludo). (da sé) La sarà servida. Adessadesso la manderò, ma me raccomando.

SIG. Non ci pensate, lasciate fare a me.

PANT. Vago subito al negozio, e la mando. (Tanto fa: quel che s’ha da far, farlo subito). (da sé)

SIG. Ehi, dite: come si chiama questo capo maestro, che vi si vuol ribellare?

PANT. Menego Tarocchi.

SIG. Non occorr’altro.

PANT. La prego...

SIG. Sarete servito. Mandate subito il velluto.

PANT. Subito. (Per farme servizio, ghe preme sta lettera de raccomandazion). (da sé, parte)

SIG. Manderò a chiamare questo Menico Tarocchi e se le sue proposizioni saranno avvantaggiose non l’abbandonerò. Bisogna ascoltar tutti, far del bene a tutti, aumentare, quando si può, il regio patrimonio, ed anche nello stesso tempo i propri onesti profitti.

SCENA QUINTA

Il paggio e detto.

PAGG. Un’altra persona vuol udienza dal padrone.

SIG. E chi è?

PAGG. La signora donna Aspasia.

SIG. (Viene costei ora a disturbare gli affari miei. Se il padrone la riceve, s’incanta e non mi abbada più). (da sé) Fate una cosa, paggino, ditele che S.E. ha un poco da fare, e che aspetti.

PAGG. Sarà servita.

SIG. Via, andate.

PAGG. Non mi dona nulla?

SIG. Ogni volta vi ho da regalare?

PAGG. Se per l’ambasciata d’un uomo vecchio mi ha dato due carlini, per l’ambasciata d’una bella giovine mi dovrebbe dare uno zecchino.

SIG. Bravo, paggino, bravo. Siete grazioso, spiritoso. Vi farete, vi farete.

PAGG. A portar ambasciate, e a prender regali, s’impara presto. (parte)

SIG. Prima che passi donna Aspasia, voglio discorrere col padrone, e fargli fare tre o quattro cose che mi premono infinitamente, poi voglio vedere io donna Aspasia avanti di lui, per avvertirla d’alcune cose. Già ella è del mio carattere, e facilmente fra di noi c’intendiamo. (va per andar dal Governatore, e l’incontra)

SCENA SESTA

Don Sancioe detto.

SANC. Dove andate?

SIG. Veniva a ritrovare V. E.

SANC. Ho mandato a invitare a pranzo donna Aspasia.

SIG. Ella quanto prima verrà; così ha mandato a rispondere. Frattanto se V. E. mi permette, vorrei proporle alcune cose utili per la sua famiglia e necessarie per il governo.

SANC. Dite, ma brevemente: a me piace lo stile laconico.

SIG. Beati quelli che hanno l’intelletto pronto come V. E. Ella intende subito, e con due parole si fa capire.

SANC. Due parole delle mie vagliono per cento d’un altro.

SIG. È verissimo. Giuoco io, che a tre cose essenziali, che ora gli proporrò, V. E. risponde, risolve e provvede con tre parole.

SANC. Io non parlo superfluamente.

SIG. È necessario riformare la servitù. Tutta gente viziosa e di poco spirito.

SANC. Licenziatela.

SIG. Specialmente Brighella è un uomo ormai troppo vecchio, reso inabile e non buono a nulla.

SANC. Fate ch’ei se ne vada.

SIG. Verrà a ricorrere da V. E.; dirà che è antico di casa, che ha servito tanti anni.

SANC. Non l’ascolterò.

SIG. Ecco con tre parole accomodato un affare. Ora ne proporrò un altro. Pantalone de’ Bisognosi vorrebbe un privilegio per lavorare egli solo i velluti.

SANC. Se è giusto, farlo.

SIG. Vi è un altro che si esibisce introdurre un’altra fabbrica, a benefizio de’ poveri lavoranti.

SANC. Se è giusto, ammetterlo.

SIG. Se V. E. dà a me l’arbitrio, procurerò di esaminar la materia, e informerò la Corte per la pura giustizia.

SANC. Fate voi.

SIG. Bravissimo. Queste sono cose facili; ma ora devo esporre a V. E. una cosa di massima conseguenza.

SANC. Tutte le cose per me sono eguali.

SIG. Bella mente! Bella mente! Il signor don Filiberto non vuole andare alla Corte.

SANC. Lasci stare.

SIG. Ma io ho scoperto il perché.

SANC. Perché la moglie novella lo desidera a lei vicino.

SIG. Eccellenza, non è per questo. Egli fa il contrabbandiere. Introduce merci forestiere in questa città, negozia in pregiudizio della Camera e de’ finanzieri e colla protezione che gode della padrona, si fa adito a mille frodi, a mille cose illecite e scandalose.

SANC. Credo che ciò sia vero. Anche poco fa è venuta mia moglie a pregarmi per far restituire a donna Elvira venti braccia di pizzo, arrestatole dai birri per ordine de’ finanzieri.

SIG. Io, Eccellenza, parlo sempre colla verità sulle labbra. Ma i pizzi è il meno. Il tabacco, il sale, l’acquavite sono cose che rovinano le finanze.

SANC. In queste imprese vi ho anch’io il mio diritto. Costui mi defrauda.

SIG. È un contraffacente pubblico e abituato.

SANC. Don Sigismondo, che cosa abbiamo da fare?

SIG. Castigarlo.

SANC. Senza processarlo?

SIG. Formeremo il processo, ma bisogna assicurarsi della persona.

SANC. Fate voi.

SIG. Mi dà la facoltà di procedere e di ordinare?

SANC. Sì, fate voi...

SIG. Parmi sentir gente, permetta ch’io veda chi è.

SANC. Sì, fate quel che v’aggrada.

SIG. (Ora è tempo di divertirlo con donna Aspasia, per non dargli campo di pensare sugli ordini dati). (da sé, parte)

SANC. Che uomo illibato e sincero è questo don Sigismondo! È tutto infervorato per me, e, quello ch’io stimo, senza interesse, senza mai domandarmi nulla.

SCENA SETTIMA

Donna Aspasiae detto.

SANC. Ben venuta la signora donna Aspasia.

ASP. Signor don Sancio, sono venuta a ricever le vostre grazie.

SANC. Chi vi vuol vedere, bisogna pregarvi. Sedete.

ASP. E voi non favorite più di venirmi a ritrovare, come facevate una volta. (siedono)

SANC. Oggi siete venuta da me; un’altra volta verrò io da voi.

ASP. (Non me ne importa un fico). (da sé)

SANC. Avete veduta mia moglie?

ASP. Le ho fatta far l’ambasciata, e mi ha fatto rispondere che era impedita e che frattanto venissi da voi, che poi sarebbe anch’ella venuta a vederci.

SANC. Oh! Donna Luigia poi è di buonissimo cuore.

ASP. Ella è una donna che sa il viver del mondo.

SANC. Ditemi, avete avuto lettere da vostro marito?

ASP. Sì signore, stamattina ho ricevuta una sua lettera.

SANC. Che cosa vi scrive?

ASP. Per dirvi la verità, mi sono scordata di aprirla.

SANC. Per quel ch’io sento, vi preme assai di vostro marito.

ASP. È militare; oggi qua, domani là. Sono tanto avvezza a star senza di lui, che non mi ricordo nemmeno d’averlo.

SANC. Vorrebbe venire in Gaeta a quartier d’inverno.

ASP. Lo so, mi è stato detto.

SANC. Che dite? Lo facciamo venire, o non lo facciamo venire?

ASP. Faccia quel che vuole; per me è l’istesso.

SANC. Sta a me a farlo venire, o a farlo restare a Napoli.

ASP. Sentite: se ha da venire con dei denari, bene, se no, se ne può stare dov’è.

SANC. Vi occorre nulla? Avete bisogno di nulla?

ASP. Io son una che taccio, e fo come posso, per non incomodare gli amici. Per altro lo sapete... Basta, non dico altro.

SANC. Se vi occorre, comandate.

ASP. Vi ringrazio. La stima che ho per voi, non è interessata. Se amo la vostra conversazione, è perché siete veramente adorabile.

SANC. Voi mi consolate, cara donna Aspasia.

ASP. Sono unicamente a pregarvi della vostra protezione, in un affare di mia somma premura.

SANC. Comandate, disponete di me.

ASP. Sappiate, signore, che sono due anni che non si paga la pigione di casa. Il padrone di essa ha fatto tutti gli atti di giustizia contro di me, e se non pago, dentro domani sono soggetta a un affronto.

SANC. Quanto importa l’affitto?

ASP. Cento doppie.

SANC. (Il colpo è un poco grosso). (da sé) E che pensate di fare?

ASP. Voi potreste acquietar il padrone.

SANC. Sì, sì, gli parlerò. Lo farò aspettare.

ASP. Ma poi si dirà che voi fate delle ingiustizie per causa mia.

SANC. Lo farò con buona maniera.

ASP. No, no, per salvare il vostro decoro e la mia riputazione, manderò a vendere tutto quello che io potrò per pagar il debito.

SANC. Questo non è conveniente.

ASP. Come volete ch’io faccia?

SANC. Aspettate... più tosto...

ASP. Anzi, non voglio perder tempo. Voglio andar adesso a far chiamare un rigattiere...

SANC. Fermatevi. Gli si potrebbe dar la metà.

ASP. Questo poi no. Ho promesso in parola d’onore di pagar tutto.

SANC. Mandiamolo a chiamare; sentiamo un poco.

ASP. Vi dico che non voglio perder la mia riputazione.

SANC. Dunque?

ASP. Dunque vender tutto a rotta di collo.

SANC. Aspettate. Ehi, chi è di là?

SCENA OTTAVA

Arlecchino vestito con sotto il suo abito, poi con una livrea in un braccio, una giubba civile nell’altro braccio, dinanzi un grembiale da cucina, una parrucca arruffata, una frusta in mano, stivali in piedi; e detti.

ARL. Cossa comandela?

SANC. Oh buffone! Non cercava di te. Che razza di vestitura è quella che tu hai?

ARL. Una vestidura a proposito del tempo che corre. Questo l’è l’abito da camerier; questa l’è la livrea da staffier; questa l’è la perucca da mistro de casa; questo l’è el grembial da cogo; questa l’è la scuria da carrozzier; e questi i è i stivali da cavalcante.

SANC. Perché tutta questa roba intorno di te?

ARL. Perché el carissimo sior segretario ha licenzià tutta sta zente; no ghe sarà altri servitori che mi, e mi me parecchio a far ogni cossa.

SANC. Che ne dite? È grazioso costui?

ASP. Sì, è grazioso, ma il tempo passa e il mio creditore non dorme.

SANC. A proposito. Senti, Arlecchino...

ARL. Aspettè, sior padron, che me manca el meio. (vuol partire)

SANC. Senti, vien qui.

ARL. Vegno subito. (parte)

SANC. Voleva mandar a domandare il segretario, per il vostro interesse.

ASP. È vero che avete licenziata la vostra servitù?

SANC. Sì, don Sigismondo la vuol mutare.

SCENA NONA

Arlecchino e detti.

ARL. Son qua con quel che mancava.

SANC. Qualche altro sproposito. Che cosa hai?

ARL. Cognossì questi? (gli mostra un paio d’occhiali)

SANC. Quello è un paio d’occhiali.

ARL. Cognossì questo? (gli mostra un laccio)

SANC. Che pazzo! Quello è un laccio.

ARL. Questi per vu; e questo per el boia.

SANC. Spiegati. Che intendi di dire?

ARL. Questi per vu, acciò imparè meio a cognosser el vostro segretario. Questo per el boia, acciocché el lo possa impiccar.

ASP. (ride)

ARL. Ridè? Gh’ho una cossa anca per vu. (a donna Aspasia)

ASP. E per me, che cosa hai?

ARL. Una piccola galanteria a proposito. (cava una castagna) Eccola.

ASP. Questa è una castagna.

ARL.

«La donna è fatta come la castagna,

Bella de fora e drento la magagna.»

ASP. Temerario!

SANC. Compatitelo. È buffone.

ASP. Le sue buffonerie non sono a proposito per il mio caso.

SANC. Va, trova il segretario, e digli che venga da me.

ARL. Come comandela che vada? Da camerier, da staffier, da cogo, da carrozzier o da mistro de casa?

SANC. Va come vuoi, ma sbrigati.

ARL. Se vado da camerier, me metterò spada in centura, perucca spolverizzada e la camisa coi maneghetti del padron. Se anderò da staffier, prima de far l’ambassada dirò mal dei mi padroni colla servitù. Se anderò da cogo, me porterò el mio boccaletto con mi; se anderò da carrozzier, darò urtoni e spentoni senza discrezion: e se anderò da mistro de casa, anderò con un seguito de tutti quei botteghieri, che ghe tien terzo a robar. Ma se avesse d’andar dal segretario, vorria andar con una zirandola in man.

SANC. Perché con una girandola?

ARL. Perché el vostro segretario se serve de vu, giusto come de una zirandola da putei([1]). (parte)

SCENA DECIMA

Don Sancioe donna Aspasia

SANC. Tutti l’hanno con quel povero segretario.

ASP. Ah pazienza! (mostra di piangere)

SANC. Che cosa avete?

ASP. Quando penso alle mie disgrazie, mi vien da piangere.

SANC. (Povera donna, mi fa pietà!) (da sé)

ASP. Bisogna pagare.

SANC. Via, pagherò.

ASP. Cento doppie non sono un soldo.

SANC. Pazienza, pagherò io.

ASP. Ma se si saprà che le date voi, povera me! Sarò la favola della città.

SANC. Non si saprà, poiché il denaro lo darò a voi.

ASP. Oimè! Mi fate respirare.

SANC. Andiamo a pranzo, e poi si farà tutto.

ASP. Voi a pranzo ci state quasi fino a sera. Vorrei mangiar con un poco di quiete. Caro il mio bel don Sancio, compatitemi se vi do quest’incomodo.

SANC. Ehi. Chi è di là?

SCENA UNDICESIMA

Donna Luigiae detti.

LUIG. Chiamate quanto volete, nessuno risponderà.

SANC. Perché?

LUIG. La casa è tutta in rumore, tutti i servitori sono in disperazione. Don Sigismondo li ha licenziati, ed essi congiurano contro di lui, e lo vogliono morto.

SANC. Bricconi! Li farò tutti impiccare. Non vi è nemmeno il paggio?

LUIG. Il paggio, tutto intimorito, è corso nella mia camera e non vuole uscire.

SANC. Don Sigismondo dov’è?

LUIG. È fuori di casa.

SANC. E il Conte?

LUIG. Il Conte, il Conte, quel caro signor Conte.

SANC. Che vi è di nuovo?

LUIG. Dubito ch’ei faccia all’amore con Isabella.

SANC. Sì, egli me l’ha chiesta in isposa.

LUIG. È troppo giovane, non è ancor da marito.

SANC. Oh bella! Ha diciott’anni, e non è da marito?

LUIG. Come diciott’anni?

SANC. Signora sì. Quanti anni sono, che siete mia moglie?

LUIG. Compatitemi, donna Aspasia, non ho fatto il mio debito, perché aveva la testa stordita da quei poveri servitori, non per mancanza di stima.

ASP. So quanto sia grande la vostra bontà.

LUIG. Credetemi che vi voglio bene.

ASP. Compatite se sono venuta ad incomodarvi. Don Sancio ha voluto così.

LUIG. Avete fatto benissimo, anzi vi prego di venir più spesso. Mio marito va poco fuori di casa; ho piacere che abbia un poco di compagnia.

SANC. Mia moglie è poi caritatevole.

ASP. Fino che ci vengo io, sapete chi sono, ma guardatevi da certe amiche...

LUIG. Come sarebbe a dire?

ASP. Non fo per dir male; ma quella donna Elvira... Basta, m’intendete.

LUIG. Vi è qualche cosa di nuovo?

ASP. Tutta la città mormora. Suo marito fa contrabbandi a tutt’andare, e dicesi che voi li proteggete. (Bisogna ch’io faccia per don Sigismondo, s’egli ha da fare per me). (da sé)

SANC. Signor sì, e voi mi siete venuta a tentare per il rilascio de’ pizzi.

LUIG. Io non credeva che lo facesse per professione.

SANC. Don Filiberto avrà finito di far contrabbandi.

ASP. Perché?

SANC. Il perché lo so io.

LUIG. Amica, che bello spillone avete in capo!

ASP. È una bagattella che costa poco.

LUIG. È tanto ben legato, che fa una figura prodigiosa. Lasciatemelo un poco vedere.

ASP. Volentieri. Eccolo.

SANC. Il vostro, che non vi piace, che non avete mai voluto portare, è meglio mille volte di questo. (a donna Luigia)

LUIG. Eh, non sapete quel che vi dite. Questo è magnifico; muoio di volontà di averne uno compagno.

ASP. Se comandate, siete padrona.

LUIG. Quanto vi costa?

ASP. Che importa ciò? Tenetelo.

LUIG. No, no, quanto vi costa? Così, per curiosità.

ASP. Solamente tre zecchini.

LUIG. Datele tre zecchini. (se lo pone in capo, parlando a don Sancio)

ASP. Non voglio assolutamente.

SANC. Ora l’aggiusterò io. (parte)

LUIG. E quell’andriè, chi ve l’ha fatto?

ASP. Il sarto romano.

LUIG. Che bel colore! Che bella guarnizione! Quanto mi piace! Ne voglio uno ancor io.

SCENA DODICESIMA

Don Sanciocon uno spillone, e dette.

SANC. Ecco qui. Questo è lo spillone, che non piace a mia moglie. Ella ha avuto quello di donna Aspasia, e donna Aspasia si tenga questo.

LUIG. Lasciate vedere. (lo prende di mano a don Sancio) Signor no; lo voglio io. Datele tre zecchini.

SANC. (Quant’è invidiosa!) (da sé)

ASP. (Ed io perderò lo spillone. Ma se mi dà le cento doppie, non importa). (da sé)

SANC. Donna Aspasia, vi darò i tre zecchini.

LUIG. Dateglieli subito.

SANC. Venite; se volete, ve li do adesso.

LUIG. Presto, donna Aspasia, avanti ch’ei si penta.

ASP. (Non mi premono i tre zecchini, ma le cento doppie). (da sé) Voi non venite, donna Luigia? (si alza)

LUIG. Andate, che vi seguo.

SANC. Favorite. (le dà il braccio)

ASP. (Che uomo caricato! Mi fa venire il vomito). (da sé)

SANC. Oggi mi pare d’esser tutto contento.

ASP. (Se mi dà le cento doppie, vado via subito). (da sé, parte con don Sancio)

LUIG. Ehi, Colombina; Colombina, dico, dove sei?

SCENA TREDICESIMA

Donna Isabellae detta.

ISAB. Colombina non c’è, signora.

LUIG. E dov’è andata?

ISAB. Non lo so. È andata giù.

LUIG. Sarà andata anch’ella a pettegoleggiare coi servitori.

ISAB. Serva sua. (in atto di partire)

LUIG. Fermatevi. (Isabella si ferma) Tenete questo spillone; portatelo sulla tavoletta, e tornate qui.

ISAB. Signora sì. Oh, come mi starebbe bene! (se l’accosta al tuppè)

LUIG. Animo.

ISAB. Me lo lasci provare.

LUIG. Signora no.

ISAB. La prego.

LUIG. Via, impertinente.

ISAB. (Tremando parte)

LUIG. Grand’ambizione ha colei! Se niente niente la lasciassi fare, mi prenderebbe la mano.

ISAB. (Ritorna)

LUIG. Venite qui. (donna Isabella s’accosta) Tiratemi giù questo guanto.

ISAB. (Vuol che le faccia da cameriera). (da sé)

LUIG. Via, presto.

ISAB. Ma se non so fare.

LUIG. Uh sguaiataccia!

SCENA QUATTORDICESIMA

Il conte Ercolee dette.

CON. Perdonate, signora, se vengo avanti così arditamente. Non vi è un cane in anticamera. Tutti i servitori sono in tumulto.

LUIG. Non vi è nemmeno la mia cameriera. Via, tirate giù. (a donna Isabella)

CON. Signora, se comandate, lo farò io.

LUIG. Obbligata, l’ha da far Isabella. Ignorantaccia! nemmeno è buona a cavar un guanto. Presto, quest’altro.

CON. (Questa poi non la posso soffrire). (da sé)

LUIG. Tanto vi vuole, scimunita, sciocca?

CON. (E di più la maltratta). (da sé)

ISAB. Sono stretti, stretti.

LUIG. Sono stretti, stretti? Vi vuol giudizio. Ma tu non ne hai, e non ne averai.

CON. (Or ora mi scappa la pazienza). (da sé)

LUIG. (Pare che ci patisca il signor Conte). (da sé) Prendi, porta via questi guanti, e portami lo specchio.

ISAB. (Oh pazienza, pazienza!) (da sé, parte)

SCENA QUINDICESIMA

Donna Luigiae il conte Ercole, poi donna Isabellaritorna collo specchio.

CON. Ma, cara signora donna Luigia, compatitemi se a troppo mi avanzo, non mi par carità trattare così una figlia.

LUIG. Voi non sapete, come si allevino i figliuoli. Questa è una cosa che tocca a me.

CON. Io per altro so che le persone civili non trattano così le loro figliuole.

LUIG. Che vuol dire, signor Conte, che vi riscaldate tanto? Siete forse di lei innamorato?

CON. Quante volte ve l’ho da dire? Non sapete che la desidero per consorte?

LUIG. Questo sinora l’ho creduto un pretesto.

CON. No, signora, disingannatevi. Per voi ho tutta la stima, tutta la venerazione; per la signora Isabella ho tutto l’affetto.

LUIG. Benissimo. Ho piacer di saperlo. (sdegnata)

ISAB. Ecco lo specchio.

LUIG. Lascia vedere. (glielo leva con dispetto)

CON. (Or ora le dico qualche bestialità). (da sé)

LUIG. Vammi a prender il coltellino.

ISAB. (Oh son pure stufa!) (da sé)

LUIG. Via, ciompa, sbrigati.

ISAB. (Mi fa svergognare dal signor Conte). (da sé, parte)

CON. Signora, dopo essermi io dichiarato di voler vostra figlia, gli strapazzi che a lei fate, sono offese che fate a me.

LUIG. Garbato signor Conte! (donna Isabella ritorna)

ISAB. Ecco il coltellino. (lo dà a donna Luigia; ella lo lascia cadere e dà uno schiaffo ad Isabella, la quale, coprendosi il volto col grembiale, singhiozzando parte)

CON. A me quest’affronto?

LUIG. Voi come ci entrate?

CON. C’entro, perché deve esser mia moglie.

LUIG. Prima che Isabella sia vostra moglie, la voglio strozzare colle mie mani. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Il conte Ercole, poi don Sigismondo

CON. Ecco quel che fa la maledetta invidia. Vorrebbe essere sola vagheggiata e servita, e le spiace che la gioventù della figlia le usurpi gli adoratori. Ma, giuro al cielo, Isabella sarà mia moglie a suo dispetto. Don Sancio a me l’ha promessa, e se non mi manterrà la parola, me ne renderà conto.

SIG. Signor Conte, che vuol dire che mi pare turbato?

CON. Donna Luigia mi ha fatto un affronto, e ne voglio risarcimento.

SIG. A un cavaliere della sua sorte un affronto? Femmina senza cervello! Che le ha fatto, illustrissimo signore, che mai le ha fatto?

CON. Ha dato uno schiaffo alla figlia, in presenza mia.

SIG. A quella che deve esser moglie di V.S. Illustrissima?

CON. Che ne dite, eh? Si può far peggio?

SIG. Che donne! Che donne! Ed ella se la passa così con questa disinvoltura?

CON. Penserò al modo di vendicarmi.

SIG. Il modo è facile. Prender la figlia segretamente, condurla via, sposarla, e rifarsi dell’insolenza. (Così faccio risparmiar la dote al padrone). (da sé)

CON. Il consiglio non mi dispiace. Caro amico, come potremmo fare?

SIG. Lasci fare a me: si lasci servire da me.

CON. Mi fido di voi.

SIG. Ne vedrà gli effetti.

CON. (Questo è un bravo segretario. Fa un poco di tutto). (da sé, parte)

SIG. È necessario andar di concerto colla cameriera. Colombina? (alla porta)

SCENA DICIASSETTESIMA

Donna Isabellasulla porta, e detto.

ISAB. Colombina non c’è.

SIG. Oh! signora Isabella, una parola.

ISAB. No, no, che se viene mia madre, povera me!

SIG. Presto presto mi sbrigo. Il signor Conte vi riverisce.

ISAB. Grazie.

SIG. Ei vi vorrebbe parlare.

ISAB. Quando?

SIG. Questa sera verrò io a prendervi, e verrete con me; ma zitto, che la signora madre non lo sappia.

ISAB. Oh! io ho paura di lei.

SIG. Che paura? Il signor padre è contento, e quando è contento il padre...

SCENA DICIOTTESIMA

Donna Luigiain disparte, veduta da don Sigismondo, ma non da donna Isabella

SIG. Questo non è loco per voi. Andate nella vostra camera, ubbidite la signora madre, e mai più non parlate di maritarvi.

ISAB. (Il segretario è impazzato). (da sé, parte)

LUIG. Che! Ha detto forse colei di voler marito?

SIG. Oh signora, voi qui? Nulla, nulla, non ha detto nulla.

LUIG. Ma perché l’avete voi rimproverata?

SIG. In verità io scherzava, io non ho detto nulla.

LUIG. Voi siete un gran buon uomo. La volete coprire, ma io so ch’è una sfacciatella.

SIG. Povera ragazza! Qualche volta va compatita.

LUIG. Tutto soffrirò, ma che non parli di prender marito.

SIG. Mi date l’autorità, signora, di farle una correzione da padre?

LUIG. Sì, mi farete piacere.

SIG. Basta così, sarete servita.

LUIG. Il Conte me la pagherà.

SIG. Che mai le ha fatto, signora?

LUIG. Si è dichiarato per Isabella.

SIG. Come! Così manca a me di parola? Dopo l’espressioni che m’ha fatte per voi? Me ne renderà conto.

LUIG. Mortificatelo quell’incivile.

SIG. Lasciate fare a me, che resterete contenta.

SCENA DICIANNOVESIMA

Donna Elvirae detti.

ELV. Con permissione: si può passare? (di dentro)

LUIG. Chi è di là? Non c’è nessuno?

ELV. Compatitemi, non c’è nessuno. (esce)

LUIG. Se venite per i pizzi...

ELV. Eh, signora mia, non vengo per i pizzi, vengo per il povero mio marito, e darei per esso non solo le venti braccia di pizzo, ma tutto quello che ho a questo mondo.

LUIG. Che cosa gli è succeduto di male?

ELV. Egli è in carcere, e non so il perché.

SIG. Oh cieli! Che sento? Vostro marito in carcere?

ELV. Don Sigismondo, fingete voi non saperlo?

SIG. Io non so nulla. Stupisco altamente di questa terribile novità.

ELV. L’ordine chi l’ha dato della sua carcerazione?

SIG. Io non so nulla.

ELV. Andrò io dal signor Governatore; saprà egli dirmi la cagione di un tale insulto.

SIG. Anderò io, signora, io anderò per voi.

ELV. No, non v’incomodate. Donna Luigia, per carità, vi supplico, vi scongiuro colle lagrime agli occhi, impetratemi dal vostro consorte almeno di potergli parlare.

LUIG. Volentieri lo farò.

SIG. Signora, Sua Eccellenza è impedito.

LUIG. O impedito, o non impedito, quando io voglio, non vi sono impedimenti.

SIG. Bel cuore magnanimo e generoso della mia padrona! Vada, vada, parli per donna Elvira. (Che già non farà nulla senza di me). (da sé)

LUIG. (Guardate, come piangente ancora è bianca e rossa; ed io, quando ho qualche passione, subito impallidisco. Ho invidia a questi buoni temperamenti). (da sé) Ora vado, e vi servo. (parte)

SCENA VENTESIMA

Donna Elvirae don Sigismondo

SIG. Cara donna Elvira, da che mai ha avuto origine la disgrazia di don Filiberto?

ELV. Dubito che voi la sappiate molto meglio di me.

SIG. Io? V’ingannate. Se l’avessi saputa prima, l’avrei impedita: se la sapessi adesso, m’impiegherei per la sua libertà.

ELV. Qui nessuno ci sente. L’amor vostro e le mie ripulse hanno fatto la rovina di don Filiberto.

SIG. L’amore non può mai precipitare un amico. Se poi lo avessero fatto le vostre ripulse, la cagione del di lui male sareste voi, e non io.

ELV. Dunque vi dichiarate per autore della sua prigionia.

SIG. Voi non m’intendete. Non dico questo, e non posso dirlo.

ELV. Mio marito non ha commesso delitto alcuno.

SIG. Siete voi sicura di ciò?

ELV. Ne son sicurissima.

SIG. Se è innocente, sarà più facile la sua libertà.

ELV. Così spero.

SIG. Ma anche gl’innocenti hanno bisogno di chi s’impieghi per loro.

ELV. Io non ricorro ad altri, che a quello che mi ha da fare giustizia.

SIG. Io posso qualche cosa presso di S.E.

ELV. Pur troppo lo so.

SIG. Parlerò io, se vi piace, in favore di don Filiberto.

ELV. Fatelo, se l’onore vi suggerisce di farlo.

SIG. Ma se io farò questo per voi, voi farete nulla per me?

ELV. Nulla, nulla. Andatemi lontano dagli occhi. Non ho bisogno di voi.

SIG. Ecco il padrone, egli vi consolerà.

ELV. Così spero.

SCENA VENTUNESIMA

Don Sancioe detti.

SANC. Che cosa volete da me?

ELV. Ah, signore! Il povero don Filiberto è carcerato d’ordine vostro. Che mai ha egli fatto? Perché trattarlo sì crudelmente? Stamattina lo accoglieste come amico, e poche ore dopo lo fate arrestar dai birri, lo fate porre prigione? Ditemi almeno il perché.

SANC. Perché è un contrabbandiere che ruba ai finanzieri, e pregiudica alla cassa regia.

ELV. Quando mai mio marito ha fatto simili soverchierie?

SANC. Quando? Non vi ricordate dei pizzi?

ELV. Una cosa per uso nostro non è di gran conseguenza.

SANC. E il sale, e il tabacco, e l’acquavite?

ELV. Queste sono calunnie. Mio marito è un cavaliere che vive del suo, e non va in traccia di tai profitti.

SANC. Se saranno calunnie, si scolperà.

ELV. E intanto dovrà egli star carcerato?

SANC. Intanto... Non so poi. Dite voi, segretario.

SIG. Le leggi parlano chiaro.

SANC. Oh bene, operate dunque voi a tenor delle leggi, fate voi quello che credete ben fatto, ch’io vi do tutta la facoltà, ed approverò quello che avrete voi risoluto. Siete contenta di ciò? (ad Elvira)

ELV. Ah no, signore, non sono contenta.

SANC. Se non siete contenta, non so che farvi. Ehi. (chiama) In tavola. (parte)

SCENA VENTIDUESIMA

Donna Elvirae don Sigismondo

ELV. Così mi ascolta? Così mi lascia?

SIG. Vi lascia nelle mie mani. Vi lascia nelle mani di un vostro amico. Che volete di più?

ELV. Via, se mi siete amico, se amico siete di mio marito, ora è tempo di usar con noi gli effetti della vostra amicizia.

SIG. La mia amicizia è stata sempre sollecita, costante e leale, ma sfortunata. Ho protestato di non esser amico che degli amici.

ELV. Don Filiberto non è mai stato vostro nemico.

SIG. E voi, donna Elvira, confessate la verità, come vi sentite rispetto a me?

ELV. Ora non si tratta di me, si tratta di mio marito.

SIG. Ma chi è che prega per lui?

ELV. Una moglie afflitta, una moglie onorata.

SIG. Questa moglie onorata, che mi prega, è mia amica, o mia inimica?

ELV. Don Sigismondo, il signor Governatore vi ha imposto di far giustizia.

SIG. Chiedete grazia, o chiedete giustizia?

ELV. Chiedo giustizia.

SIG. Bene, si farà.

ELV. Quando uscirà di carcere il mio consorte?

SIG. Per far giustizia, bisogna far esaminare la causa.

ELV. E frattanto dovrà star carcerato?

SIG. Le leggi così prescrivono.

ELV. Deh, per pietà, valetevi dell’arbitrio concessovi, fatelo scarcerare. S’egli è reo, pagherà cogli effetti, pagherà colla vita istessa.

SIG. Questa che ora mi chiedete, non è giustizia, ma grazia.

ELV. Dunque ve lo chiedo per grazia.

SIG. Le grazie non si fanno ai nemici.

ELV. Nemica io non vi sono.

SIG. Lode al cielo, che avete detto una volta che non mi siete nemica.

ELV. Non mi tormentate d’avvantaggio, per carità.

SIG. Quando mi siete amica, avanti sera vi mando a casa il consorte.

ELV. Che siate benedetto! Voi mi ritornate da morte a vita.

SIG. Ma come mi assicurate della vostra amicizia?

ELV. Qual dubbio potete averne?

SIG. Le mie passate sfortune mi hanno insegnato a dubitare di tutto.

ELV. Che potete voi temer da una donna?

SIG. Nient’altro che essere sonoramente burlato.

ELV. Il mio caso non ha bisogno di scherzi.

SIG. E il mio ha bisogno di compassione.

ELV. Oh cieli! Non posso più. Don Sigismondo, voi mi trattate troppo barbaramente.

SIG. Una delle mie parole può consolar voi, e una delle vostre può consolare ancor me.

ELV. Orsù, v’intendo. L’amore, la passione, il dolore mi hanno lusingata soverchiamente di poter sperare da voi grazia, giustizia, discrezione, onestà. Siete un’anima indegna, siete un perfido adulatore, e siccome credo opera vostra la carcerazione di don Filiberto, così spero invano vederlo per vostro mezzo ritornato alla luce. So con qual prezzo mi vendereste la vostra buona amicizia ma sappiate che più di mio marito, più della mia vita medesima, amo l’onor mio: quell’onore che voi non conoscete, quell’onore che voi insidiate; ma spero vivamente nella bontà del cielo, che l’innocenza sarà conosciuta, che le mie lagrime saranno esaudite, e che voi sarete giustamente punito. (parte)

SIG. Servitor umilissimo alla signora onorata. Si gonfi del suo bel fregio, ma intanto suo marito stia dentro. Ora mi ha irritato piucché mai, e si pentirà degl’insulti che mi ha scaricati in faccia. Non mi sono alterato punto alle sue impertinenze, perché chi minaccia, difficilmente si vendica. Il mio sdegno è un fuoco, che sempre arde sotto le ceneri dell’indifferenza, ma scoppia poi a suo tempo; e tanto più rovina, quanto è men preveduto. Politica, che confesso a me stesso essere inventata dal diavolo; ma mi ha giovato sinora. Ci ho preso gusto, e non mi trovo in istato di abbandonarla. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Brighella, un cuoco genovese, uno staffiere bolognese, uno staffiere fiorentino, uno staffiere veneziano. Tutti e tre li staffieri senza la livrea.

BRIGH. Qua, fradelli, qua. Retiremose in sta camera, fina tanto che i patroni se trattien a tavola. Discorremola tra de nu e consolemose insieme in mezzo alle nostre desgrazie. Cossa diseu de quel can, de quel sassin del segretario? El n’ha magnà el salario de do mesi, e perché son andà mi a nome de tutti a domandarghe el nostro sangue, el n’ha messo in desgrazia del patron e el n’ha cazzà via quanti semo. I è vint’anni che mi servo in sta casa, e no gh’è mai stà esempio che el mio patron se lamenta de mi, e adesso per causa de sto adulator, de st’omo finto e maligno, me tocca andar via? Se avesse volsudo secondar le so iniquità e tenirghe man a robar, el m’ha offerto, oltre el mio salario, anca dei regali, ma son un galantomo, son un servitor onorato; voio ben ai mi camerada, e non ho volsudo tradir voialtri, per far del ben a mi solo. Me caverò la livrea, come avì fatto voialtri tre, la rinunzierò colle lagrime ai occhi, ma la rinunzierò onorata, come me l’ho messa, colla gloria d’esser stà sempre un servitor fedel, un bon amigo, un omo sincero e disinteressà.

STAFF. bolognese Per mi a son un om dsprà([2]). Nso dov m’andar. Stassira l’aspett ch’al vigna fora dcà e ai dagh una schiuptà in tla schina, e po a vagh a Bulogna.

BRIGH. No, caro amigo, no fe. El cielo ve provvederà. Se lo mazzè, invece de remediar alle vostre desgrazie, sarè intrigà più che mai, e se i ve chiappa, poveretto vu.

STAFF. bolognese Chi m’liva ‘l pan, m’liva la veta, e chi m’liva la veta a mi, s’a poss’, ai la vui livar a lu.

STAFF. fiorentino Badate a mene, lasciate ire: il monello si scoprirae a poco a poco. Senza che ci facciamo scorgere, aspettiamolo al paretaio.

BRIGH. Bravo fiorentino. Salvar la panza per i fighi.

STAFF. fiorentino Anch’io mi sapre’ ricattare; ma i penso ai me’ fighioli, e non voggio che la Giustizia mi mangi quelle quattro crazie che mi sono avanzato.

STAFF. bolognese Mi mo an n’ho un bagaron([3]), perché a son Lumbard e ai Lumbard ai pias magnar ben; e vu alter Fiorentin fe banchett, quand magnè la frittata d’una coppia d’ova.

STAFF. fiorentino Siete pure stucchevole.

BRIGH. Via, fradelli, non ve alterè tra de voialtri. Pensemo al modo de remediar.

CUO. genovese Eh, zuo a e die dee me muen([4])! O voggio mi giustà pe e feste sto siò segretajo. So Zeneise, ehi, e tanto basta.

BRIGH. Cossa penseressi de far, sior cogo?

CUO. genovese Ninte: avelenao e no atro.

BRIGH. Gnente altro che velenarlo? Una bagattella!

CUO. genovese Se o fuisse un omo da pao me, ghe daè una cotelà co o cotelin da o manego gianco; ma za che no ghe pozzo da’ una feja, con un poco de venin([5]) o mandiò all’atro mondo.

BRIGH. E po?

CUO. genovese E dopo andiò a Zena. Con quattro parpaggioe([6]) m’imbarco e me ne vago.

STAFF. veneziano Via, che cade! Lassemo andar ste cosse. Co se serra una porta, se ghe ne averze un’altra. I paroni no i sposa i servitori, né i servitori i sposa i paroni. Chi xe omo de abilitae, trova da servir per tutto.

CUO. genovese Oh che cao siò venezian! Lasseve cavà i eoggi e no dj ninte.

STAFF. veneziano Compare caro, i Veneziani i gh’ha spirito e i gh’ha coraggio, quanto possa aver chi se sia. Ma saveu quando? Quando da muso a muso i xe provocai. Da drio le spalle no i se sa vendicar; e stoccae mute no i ghe ne dà.

BRIGH. Bravo, el dis la verità. Sicché donca, fioi, cossa pensemio da far?

STAFF. bolognese Per me za a l’ho dett. Stassira al aspett, e s’al vin fora, tonfta. (fa l’atto di sparar l’archibuso) Av salud. (parte)

BRIGH. Bisognerà veder de impedir sto desordene. No voio che sto pover’omo, orbà dalla collera, el se precipita.

STAFF. fiorentino I’ vado a pigghiare i me’ cenci e me ne vado dalla me’ Menichina co’ me’ bambini. S’i’ non troverò da servire, mi ribrezzerò alla meglio. Farò l’acquacedrataio. (parte)

BRIGH. Questo l’è un omo che ha giudizio. Un mestier o l’altro, purché se viva, tutto ghe comoda.

CUO. genovese Bondì a vusigniia.

BRIGH. Dove andeu, sior cogo?

CUO. genovese Vago in cosinna a dà recatto a a me robba pre andamene.

BRIGH. No credo za che abbiè intenzion de far quel che avè dito col segretario.

CUO. genovese No, no aggiè puja([7]); pe’ mi, gh’ho perdonoo. (O veoggio fa moj([8]), se creesse che m’avessan da rostì in to forno). (parte)

BRIGH. E pur è vero; con tutto el mal che el m’ha fatto, no gh’ho cuor de sentir a manazzar la so vita.

STAFF. veneziano Perché sè un galantomo, perché sè de bon cuor anca vu, come son anca mi.

BRIGH. Ecco el patron.

STAFF. veneziano No se femo veder insieme.

BRIGH. Andè via, e lasseme parlar a mi.

STAFF. veneziano Fe pulito; arecordeve de mi; arecordeve che semo squasi patrioti. «Pugna per patria e traditor chi fugge». (parte)

SCENA SECONDA

Brighella, poi don Sancio

BRIGH. Sfazzadon, càzzete avanti. Vint’anni son che lo servo; spero che nol me cazzerà via coi calzi.

SANC. Che cosa vuoi tu qui?

BRIGH. Ah, Eccellenza, son qua ai so piedi a dimandarghe per carità...

SANC. Quello che fa don Sigismondo, è ben fatto. Non voglio altri fastidi.

BRIGH. Quel che la comanda; anderò via, no la supplico de tegnirme, ma solamente che la me ascolta per carità.

SANC. Via, sbrigati, cosa vuoi?

BRIGH. Xe vint’anni che son al servizio...

SANC. Se fossero anche trenta, non sei più buono, non fai più per me.

BRIGH. Chi ghe l’ha dito, Eccellenza, che no son più bon?

SANC. A te non devo rendere questi conti. Sei licenziato, vattene.

BRIGH. Anderò, pazienza, anderò. Ma zacché ho d’andar, almanco per carità la fazza che i me daga el mio salario che avanzo.

SANC. Come? Avanzi salario? Di quanto tempo?

BRIGH. De do mesi, Eccellenza; ma no solamente mi, ma tutta la servitù. E avemo d’andar via, senza quel che s’avemo guadagnà colle nostre fadighe?

SANC. Non posso crederlo. Io il denaro l’ho dato, e voi sarete stati pagati.

BRIGH. Ghe zuro da omo d’onor che no semo stadi pagadi. In vint’anni che la servo, polela mai dir che gh’abbia dito una busìa? Che gh’abbia mai robà gnente?

SANC. Ma come va la cosa? Il denaro l’ho dato al segretario.

BRIGH. Do mesi l’è che non avemo un soldo, e perché son andà mi a nome de tutti dal sior segretario, el n’ha perseguità, el n’ha fatto licenziar, el n’ha cazzà via.

SANC. Eccolo ch’egli viene. Sentirò da lui.

BRIGH. Son qua a sostener in fazza sua...

SANC. Va in sala e aspetta che ti farò chiamare.

BRIGH. Eccellenza, se el parla lu...

SANC. Va via.

BRIGH. (Ho inteso. No femo gnente). (da sé, parte)

SCENA TERZA

Don Sancioe don Sigismondo

SIG. (Brighella ha parlato col Governatore). (da sé)

SANC. Don Sigismondo, venite qui.

SIG. Eccomi ai comandi di V. E. (gli bacia la vesta)

SANC. Asserisce Brighella che i servitori non hanno avuto il salario di due mesi.

SIG. È verissimo. Sono due mesi che non l’ho dato.

SANC. Ma perché?

SIG. Dirò, Eccellenza, so che non ne hanno bisogno. Chi ruba nelle spese, chi ruba in cucina, chi ruba dalla credenza, chi tien mano a’ contrabbandi, chi fa qualche cosa di peggio. Tutti hanno denari, e quanti ne hanno ne spendono, e fanno patire le loro famiglie. Per questo io ritengo loro qualche volta il salario, o per darlo alle loro mogli, o per far che lo impieghino in qualche cosa di loro profitto. Ora che sono licenziati si vedrà quel che avanzano, e saranno saldati.

SANC. Fate male; si lamentano che non si dà loro il salario.

SIG. Basta che lo vogliano, io lo do subito: ogni volta che me lo domandano, non li fo ritardare un momento.

SANC. Dicono che lo hanno domandato e l’avete loro negato.

SIG. Oh cielo! Chi dice questo?

SANC. L’ha detto in questo punto Brighella.

SIG. V. E. mi faccia una grazia: chiami Brighella.

SANC. Volete ch’io lo faccia venire al confronto con voi? Non è vostro decoro.

SIG. Abbia la bontà di farlo venire per una cosa sola.

SANC. Lo farò, se così v’aggrada. Ehi, Brighella.

SCENA QUARTA

Brighella e detti.

BRIGH. Son qua a recever i comandi de V. E.

SIG. Caro il mio caro messer Brighella, voi che siete l’uomo più schietto e più sincero di questo mondo, dite una cosa, per la verità, al nostro padrone. Questa mattina non vi ho io esibito il vostro salario?

BRIGH. L’è vero, ma mi per altro...

SIG. Ma voi non l’avete voluto, non è egli vero?

BRIGH. L’è vero, perché quando...

SIG. Sente, Eccellenza? Io offerisco a costoro il salario, lo ricusano, non lo vogliono, e poi vengono a dolersi che non l’hanno avuto.

BRIGH. Mo no l’ho volesto, perché...

SIG. Per me non mi occorre altro; mi basta che V. E. abbia rilevata la verità ch’io sono un uomo d’onore e che costoro, credendo ch’io sia la cagione del loro male, mi tendono questa sorta d’insidie.

BRIGH. Se l’averà la bontà de lassarme parlar...

SIG. Eccellenza, io non devo star a fronte d’uno staffiere: se mi permette, l’ascolti pure, ch’io me n’anderò.

SANC. Va via, bugiardo. (a Brighella)

BRIGH. In sta maniera no se pol saver...

SANC. Vattene, non replicare.

BRIGH. Per carità...

SANC. Indegno! ti farò morire in una prigione. Calunnie s’inventano contro un uomo di questa sorta?

BRIGH. (El cielo, el cielo farà cognosser la verità). (da sé, parte)

SCENA QUINTA

Don Sancioe don Sigismondo

SIG. Dopo che sono al mondo, non ho provato un dolore simile a questo. Quando m’intaccano nell’onore, nella sincerità, nella verità, mi sento morire.

SANC. Sì, don Sigismondo, tutti gli uomini di merito sono invidiati.

SIG. S’io non avessi un padrone di mente e di spirito, come V. E., sarei precipitato. Sappia, Eccellenza, che un certo Menico Tarocchi desidera la permissione di poter erigere in Gaeta una fabbrica di velluti; e per l’incomodo che avrà V. E. di sottoscrivere il decreto, ha promesso un picciolo regaletto di cento doppie.

SANC. Avete steso il decreto?

SIG. Eccellenza no, perché prima ho voluto sentire il di lei sentimento.

SANC. In questa sorta di cose, fate voi.

SIG. Vi è un certo Pantalone de’ Bisognosi che si opporrebbe, come attuale fabbricatore, ma egli non può impedire che V. E. benefichi un altro.

SANC. Certamente non lo può impedire. Andate a stendere il decreto, e frattanto fate venire il nuovo fabbricatore.

SIG. V. E. resta qui?

SANC. Sì, qui v’attendo.

SIG. Comanda vedere il memoriale?

SANC. No, a voi mi riporto. Mi basta la sottoscrizione.

SIG. Quando l’ho steso, lo porto a sottoscrivere.

SANC. Sì, e se dormissi, svegliatemi.

SIG. Vado immediatamente a servirla. (parte)

SCENA SESTA

Don Sancio, poi il conte Ercole

SANC. Queste cento doppie le donerò a donna Aspasia.

CON. Signore, appunto desiderava parlarvi.

SANC. Eccomi ad ascoltarvi.

CON. L’affare di cui dobbiamo trattare, è di qualche conseguenza.

SANC. Mi rincresce, se la cosa è difficile, che non vi sia il segretario.

CON. In questo il segretario non c’entra. Voi solo avete a decidere.

SANC. Dite pure, io solo deciderò.

CON. Sono tre mesi ch’io godo le vostre grazie in Gaeta.

SANC. Io sono il favorito da voi.

CON. Sapete quanta stima fo di voi e di tutta la vostra casa.

SANC. Effetto della vostra bontà.

CON. Sapete che vi ho supplicato concedermi in consorte la signora donna Isabella, e spero che sarete in grado di mantenermi la parola che mi avete data.

SANC. Io non soglio mancare alla mia parola.

CON. Quand’è così, posso sperare di concludere quanto prima le nozze.

SANC. A mia figlia non ne ho ancora parlato. S’ella è qui nell’appartamento di sua madre, sentirò il di lei sentimento: poiché non ho altra figlia, e desidero di compiacerla.

CON. Vi lodo infinitamente, ma spero non sarà ella alle mie nozze contraria.

SANC. Due parole mi bastano. Isabella. (alla porta)

SCENA SETTIMA

Donna Isabellae detti.

ISAB. Che mi comanda, signor padre?

SANC. Dimmi, hai tu piacere di farti sposa?

ISAB. Io di queste cose non m’intendo.

SANC. Vedi là il signor Conte?

ISAB. Lo vedo.

SANC. Lo accetteresti per tuo marito?

ISAB. Per marito?

SANC. Sì, per marito.

ISAB. Vengo subito. (in atto di partire)

SANC. Dove vai?

ISAB. Vengo subito. (entra in camera)

CON. E così ha ella detto di no?

SANC. Ha detto, vengo subito. Vediamo se torna. Sentite, amico, mia figlia è una cosa rara al dì d’oggi. Ella è innocente come una colomba.

CON. Questo è quello che infinitamente mi piace.

SCENA OTTAVA

Donna Isabella, Colombinae detti.

ISAB. Signor padre, ecco qui Colombina. Risponderà ella per me.

SANC. Hai da maritarti tu, e non Colombina.

COL. Signore, compatisca la sua semplicità. Ella non ha coraggio; dica a me ciò che le vuol proporre, e vedrà che risponderà a dovere.

SANC. Io le propongo il Conte per suo marito.

COL. Avete sentito? (ad Isabella)

ISAB. Sì.

COL. Che cosa dite?

ISAB. (Ride)

COL. Lo volete?

ISAB. Sì.

COL. Signore, ella è disposta a far il voler di suo padre.

SANC. Già me l’immagino. Avete sentito? (al Conte)

CON. Io son contentissimo.

SANC. Ora è necessario far venire sua madre. Non è giusto che si sposi la figlia, senza ch’ella lo sappia.

ISAB. (Se viene mia madre non ne facciamo altro). (da sé)

CON. Voi dite bene, ma la signora donna Luigia è tanto nemica di sua figlia, che si opporrà, e non vorrà che si sposi. (a don Sancio)

ISAB. Signor padre, è invidiosa.

SANC. Invidiosa di che?

ISAB. Vorrebbe esser ella la sposa.

SANC. Come! Vorrebbe esser ella la sposa?

ISAB. Ha detto tante volte: Se crepa mio marito, voglio prendere un giovinetto.

SANC. Povera bambina! Può esser che succeda il contrario. Orsù, Colombina, va a chiamare donna Luigia, e dille che venga qui, senza spiegarle per qual motivo.

COL. Vado subito.

ISAB. Presto, presto.

COL. (Capperi! l’innocentina va per le furie). (da sé, parte)

SCENA NONA

Don Sancio, il conte Ercolee donna Isabella

CON. Signora Isabella, finalmente sarete mia sposa.

ISAB. Questa sera ho da venire?

CON. Dove?

ISAB. A trovarvi.

CON. Verrò io a ritrovar voi.

SANC. Che diamine dici? Tu vorresti andare a ritrovar il Conte?

ISAB. Me l’ha detto il segretario.

SANC. Che cosa t’ha detto il segretario?

ISAB. Che questa sera anderò segretamente a parlare al signor Conte.

SANC. Ma dove?

ISAB. Verrà a prendermi e mi condurrà; ma che mia madre non lo sappia.

SANC. Come va la faccenda?

CON. Vi dirò, signore: vedendo il segretario che donna Luigia maltrattava la figlia, e prevedendo ch’ella si sarebbe opposta alle di lei nozze, mi ha fatta la proposizione di farmi avere furtivamente la signora donna Isabella. Ma io sono un uomo d’onore, ci ho pensato sopra con serietà, ed ho concepito essere questa un’azione indegna di me, onde più tosto sono venuto io stesso a dirvi l’ultimo mio sentimento.

SANC. Questo mio segretario mi comincia a render cattivo odore.

SCENA DECIMA

Donna Luigia, Colombinae detti.

LUIG. Signori miei, che vogliono? Che si fa qui con Isabella?

SANC. Senza che ve lo dica, m’immagino che appress’a poco ve ne avvedrete.

LUIG. Si sposa forse al signor Conte?

SANC. Sì signora, e prima di farlo, vi si usa il dovuto rispetto.

LUIG. Mi chiedete l’assenso per farlo, e me ne date notizia dopo fatto?

SANC. Come vi piacerebbe che si facesse?

LUIG. Isabella è ancor troppo giovane, e non voglio che si mariti per ora.

ISAB. (Uh povera me!) (da sé)

CON. Signora donna Luigia, vi supplico d’acquietarvi. Ormai la cosa è fatta; ci siamo dati la fede, sarà mia sposa, e da qui a pochi giorni partirà meco per Roma.

LUIG. Io non voglio assolutamente.

SANC. Ed io voglio; e sono il padrone io.

LUIG. (Ho una rabbia, che mi sento crepare). (da sé)

SCENA UNDICESIMA

Il paggio e detti

PAGG. Eccellenza, il signor Pantalone de’ Bisognosi desidera udienza.

SANC. Venga. È padrone.

PAGG. Eccellenza sì. (Ho buscato mezzo scudo). (da sé, parte)

SANC. Che avete, donna Luigia, che parete una furia?

ISAB. (Ha invidia di me). (da sé)

SCENA DODICESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Eccellenza, la perdona se vegno a darghe sto incomodo. Mi son Pantalon dei Bisognosi, mercante venezian, servitor de Vostra Eccellenza.

SANC. Vi conosco.

PANT. Mi ho introdotto in sta città la fabrica dei velludi.

SANC. So tutto, e so che un certo Tarocchi ne vuole introdurre un’altra.

PANT. Per questo vegno da Vostra Eccellenza.

SANC. Voi non lo potete impedire.

PANT. El sior segretario m’ha assicurà, che V. E. me farà la grazia.

SANC. Il segretario mi ha parlato in favor del Tarocchi.

PANT. Nol gh’ha dà el mio memorial?

SANC. Non l’ho veduto.

PANT. E la pezza de velludo l’ala vista?

SANC. No certamente.

PANT. Ho mandà al sior segretario una pezza de velludo, che lu istesso m’ha domandà, per farla veder a Vostra Eccellenza.

SANC. Io vi replico, che non l’ho veduta.

PANT. Donca el sior segretario cussì el m’inganna? Cussì el me tradisce? El me cava dalle man una pezza de velludo, el me promette de farme aver la grazia, e po l’opera a favor del mio avversario! V. E. xe un cavalier giusto; spero che no la me abbandonerà. Son qua ai so piè a domandarghe giustizia. Mi son quello che ha beneficà sto paese coll’introduzion dei velludi e me par d’aver el merito d’esser preferio. Vorla che in Gaeta ghe sia un’altra fabrica per impiegar la povera zente? Son qua mi, la farò mi, me basta che la me conceda el privilegio, vita che vivo, che nissun possa far laorar altri che mi. Circa alla pezza de velludo, se el sior segretario me l’ha magnada, bon pro ghe fazza; pol esser che el se arecorda de mi sull’ora della digestion.

SANC. Signor Pantalone, non so che dire; senza il segretario non posso risolvere.

CON. Signore, con vostra buona grazia, mi pare che questo galantuomo abbia ragione, e che il vostro segretario sia un bel birbone. (a don Sancio)

SANC. A poco a poco, vado scoprendo quello che non credeva. Signor Pantalone, ne parleremo.

PANT. Me reccomando alla so bontà, alla so giustizia.

CON. Ditemi, signor Pantalone, avete delle belle stoffe?

PANT. Ghe ne ho de superbe.

LUIG. Se avete delle belle stoffe, mandatele a me, che le voglio vedere.

PANT. M’immagino che le servirà per la sposa, per quel che se sente a dir.

LUIG. Signor no, hanno da servire per me.

ISAB. (Oh che invidia!) (da sé)

PANT. Per la novizza gh’ho una bella galanteria.

CON. Lasciate vedere.

LUIG. Sì, sì, vediamola.

PANT. La varda. Un zoggieletto de diamanti e rubini, che averà valesto più de cento zecchini. I me l’ha dà in pegno per trenta, e adesso i lo vol vender.

CON. Quanto ne vogliono?

PANT. Manco de cinquanta zecchini no i lo pol dar.

CON. Che dite, signora Isabella, vi piace?

ISAB. E come mi piace!

LUIG. Lasciatelo vedere a me.

PANT. Cossa disela? Porlo esser meggio ligà? Quei diamanti tutti uguali con quella bell’acqua; el fa una fegura spaventosa.

LUIG. Aspettate, che ora vengo. Avvertite, non lo date via senza di me.

PANT. No la dubita gnente. L’aspetto.

LUIG. (Subito colei se n’è invogliata). (da sé, parte)

CON. Signor Pantalone, non si potrebbe avere con quaranta zecchini?

PANT. No ghe xe caso. Ghe zuro da omo d’onor, che a farlo far l’ha costà più de cento.

SANC. Veramente è assai bello. Conte, non ve lo lasciate fuggire.

CON. Quand’è così, per cinquanta zecchini lo prendo io.

LUIG. Signor no. Per cinquanta zecchini lo prendo io. (donna Luigia ritorna con una borsa)

SANC. Io non voglio spendere questi denari.

LUIG. Se non li volete spender voi, li spenderò io. Eccovi cinquanta zecchini.

PANT. E mi ghe dago el zoggielo.

ISAB. (Pazienza!) (da sé, piange)

CON. Che avete, cara, che avete?

ISAB. Niente. (piange)

CON. Via, mio tesoro, ve ne comprerò uno più bello.

LUIG. Che è questo mio tesoro? Che domestichezze sono codeste?

CON. È mia sposa.

LUIG. Ancora non è tale. In faccia mia mi avete a portar rispetto.

SCENA TREDICESIMA

Il paggio e detti.

PAGG. Eccellenza, sono qui i gabellieri ed il bargello, che domandano udienza.

SANC. Sono annoiato. Il segretario non c’è; che tornino.

PAGG. La cosa è di gran premura. Vi è con essi donna Elvira.

SANC. Qualche supplica per suo marito. Se vi fosse il segretario... Via, che passino.

PAGG. (Altri due scudi). (da sé, parte)

CON. Signore, guardatevi dal segretario, ch’è un uomo finto.

SANC. Ah, temo pur troppo che diciate la verità. I servitori esclamano, perché ha loro trattenuti i salari. Si è appropriata una pezza di velluto, che dovea venire nelle mie mani. Ha ingannato il povero Pantalone de’ Bisognosi; ha tentato di sedurmi la mia propria figliuola. Comincio a crederlo un impostore, un ribaldo.

CON. Guardatevi, signore, ch’egli può essere la vostra rovina. Voi presso la Corte sarete responsabile delle sue ingiustizie.

SANC. Sì, è verissimo. Cercherò per tempo di ripararmi.

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Elvira, quattro Gabellieri e detti.

ELV. Signore, eccomi a’ vostri piedi. Il povero mio marito pena in carcere ingiustamente. A pretesto di processarlo si tien ristretto tra’ ferri, e il suo processo in due parole si forma. Egli è imputato di contrabbandi; ma chi l’accusa? V’è alcun gabelliere, che lo quereli? Eccoli qui. Interrogateli. Niuno è inteso di questo fatto; niuno può lagnarsi di don Filiberto; tutti sanno la sua onoratezza. Vi è nessun che oltre i pizzi fatti venir per mio uso, possa imputargli una minima contravvenzione? Chi lo ha mai denunziato? Chi mai lo ha trovato mancante nel rispetto al Sovrano, e nel dar i diritti alla Curia? Sapete qual è il delitto di don Filiberto? Qual è l’accusatore che lo querela? Il suo delitto è una moglie onorata, il suo accusatore è un ministro adulatore, lascivo. Don Sigismondo è di me invaghito. Cercò allontanar mio marito coll’apparente titolo di buon amico. Non gli riuscì; diede mano alla calunnia, alla crudeltà. Spera di avermi, o colla forza, o colle lusinghe; ma il traditore s’inganna. Mio marito è innocente: ecco testimoni della sua innocenza quelli che, se reo egli fosse, esser dovrebbero i suoi avversari. O rilasciatelo dalle carceri, se credete giusto di farlo, o io stessa anderò alla Corte, mi farò intendere, domanderò al Sovrano quella ragione, quella giustizia, che mi viene negata da un suo ministro, accecato da un perfido adulatore.

SANC. Conte mio, in che imbarazzo mi trovo!

CON. Questo vostro segretario vi ha circondato con una serie d’iniquità.

SANC. Voi altri, che siete i direttori delle gabelle, che cosa dite?

GAB. Il nostro decoro vuole che informiamo la Corte non avere noi parte alcuna in questo fatto, e che rispetto a noi, la carcerazione di don Filiberto è una manifesta impostura. Io poi, che so tutta l’istoria di don Sigismondo con donna Elvira, farò sapere la verità.

SANC. Questa macchina si può rovesciare addosso di me.

CON. Assolutamente, vi può far perder il credito. Sapete quante volte per un cattivo ministro si sono precipitati degli onestissimi iusdicenti.

SANC. Dite bene. Conosco anch’io che don Sigismondo è stato un mio traditore. Che mai mi consigliereste di fare?

CON. Vi consiglierei far scarcerare subito don Filiberto, e mettere in ferri don Sigismondo.

SANC. Ehi, chiamatemi il bargello.

SCENA ULTIMA

Il bargello e detti.

BARG. Eccomi qui ai comandi di V. E.

SANC. Scarcerate subito don Filiberto, ed assicuratevi di don Sigismondo.

BARG. Sarà ubbidita. Perdoni, Eccellenza, se sapesse quante ingiustizie ha fatte fare don Sigismondo!

SANC. Davvero?

BARG. Io stesso che, per mia disgrazia, vivo delle disgrazie degli altri, mi sentiva inorridire. (parte)

SANC. Se ha fatto inorridire un birro, convien dire che abbia fatte delle grandi ribalderie.

ELV. Signore, il cielo vi rimeriti della vostra pietà.

SANC. È giusto. Vo’ che sappia la Corte, ch’io faccio giustizia.

ELV. Saprà tutto il mondo, che un ministro infedele vi ha ingannato. Volo ad abbracciare il povero mio consorte. Sarà egli a’ vostri piedi. Io vi ringrazio intanto; prego il cielo vi benedica, e lo prego di cuore che voi difenda, e tutti gli eguali vostri, dai perfidi adulatori, i quali colle loro menzogne rovinano spesse volte gli uomini più illibati e più saggi. (parte coi gabellieri)

SANC. Confesso la verità. Mi vergogno d’avermi lasciato acciecare da un adulatore sfacciato. Conosco la mia debolezza; temo i pericoli dell’avvenire, e risolvo di voler rinunziare il governo. Manderò a Napoli don Sigismondo, legato e processato, com’egli merita, e sarà dalla Regia Corte punito, a misura de’ suoi misfatti.

CON. La risoluzione è in tutto degna di voi.

SANC. Voi, Conte, nell’agitazioni nelle quali mi trovo, datemi almeno la consolazione di veder sposa mia figlia. Porgetele immediatamente la mano.

CON. Eccomi pronto, s’ella vi acconsente.

ISAB. Non vorrei che andasse in collera la signora madre.

LUIG. Sposati pure, già che il cielo così destina. (Conte ingrato, stolido, sconoscente!) (da sé)

CON. Porgetemi la cara mano. (ad Isabella)

ISAB. Eccola. (gli dà la mano)

CON. Ora sono contento.

ISAB. (Io giubilo dall’allegrezza).

SANC. Dov’è Brighella? Dove sono i poveri servitori? Trovateli, li voglio pagare, li voglio rimettere.

LUIG. Or toccherà a voi a pensare a provvedermi i due cavalli per il tiro a sei. (a don Sancio)

SANC. Perché?

LUIG. Perché ho dato sessanta doppie al segretario, ed egli me le ha mangiate.

SANC. Donde aveste le sessanta doppie?

LUIG. Dal cassiere della Comunità.

SANC. Oh me meschino! Sono assassinato da tutti.

PANT. Eccellenza, son qua, se la comanda, ecco le cento doppie.

SANC. Signor Pantalone, tenete il vostro denaro, io non voglio altri impegni. Voglio rinunziare il governo, onde riserbatevi ad informare il mio successore; e voi, signora donna Aspasia, signora imitatrice del mio buon segretario...

ASP. Basta così. Intendo quel che dir mi volete. Il fine del segretario m’illumina. Io correggerò i miei difetti, pensate voi a correggere i vostri. (parte)

PANT. Donca no la vol...

SANC. È finita. Non ne voglio saper altro. Confesso che non ho abilità per distinguere i buoni ministri dagli adulatori, onde è meglio che mi ritiri, e lasci fare a chi sa. Fissiamo sugli accidenti veduti, e concludiamo che il peggiore scellerato del mondo è il perfido Adulatore.

Fine della Commedia.


([1]) Da fanciulli.

([2]) Parla col dialetto bolognese.

([3]) Moneta che vale mezzo baiocco.

([4]) Eh, giuro alle dita delle mie mani: dialetto genovese.

([5]) Veleno.

([6]) Moneta picciola genovese.

([7]) Non abbiate timore.

([8]) Morire.