L’amante di sè medesimo

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L'AMANTE DI SÉ MEDESIMO di Carlo Goldoni

L'AMANTE DI SÉ MEDESIMO di Carlo Goldoni

La presente Commedia fu per la prima volta rappresentata in Milano nell'Estate dell'anno 1756.

A SUA ECCELLENZA

IL SIGNOR

ANTONIO GRIMANI

FU DI SIER ZAMBATTISTA

A ragione si maraviglierà l'Eccellenza Vostra, veggendosi comparire dinnanzi agli occhi, ed a Lei diretto, il rispettoso foglio di Uno che non ebbe finora titolo alcuno di servitù verso V. E., né mai ebbe l'onor di vederla, ne di essere da Lei veduto. Molto più crescerà la di Lei maraviglia ricevendo il foglio stampato, col di Lei nome impresso e in fronte collocato di una Commedia, reso V. E., senza saperlo, Mecenate di essa e di me Protettore. Grande audacia sembrerà questa mia all'E. V. non solo, ma a tutti quelli che ne vengono ora informati. Non usasi, particolarmente a' dì nostri, valersi de' rispettabili nomi de' rinomati Soggetti per decorare le opere, senza ch'essi ne siano intesi e pregati, e accordino di buona voglia l'onorevole fregio e la protezione. Io stesso non mi ricordo d'averlo fatto altre volte, eppure questa volta m'indussi a farlo, invogliato ed animato nel medesimo tempo da' vari ragionamenti di un Galantuomo, che ha l'onor di essere soventi volte coll'E. V., che ha per Lei una somma venerazione, ed ha per me dell'amore.

Conoscete Voi (mi disse un giorno l'Amico) l'Eccellentissimo Signor Antonio Grimani detto, per la dominicale sua abitazione, dei Servi? Conosco (risposi) l'antichissima illustre di Lui Famiglia, so le glorie, i fregi, gli onori del suo Casato, intesi parlar di Lui con somma venerazione e stima da tutti gli ordini delle Persone, ma rilevai altresì, che abbia egli preferita la quiete agli onori, che abbia la Città abbandonata, per vivere più tranquillamente in campagna, ond'io, che sono stato per lo più ambulante pel Mondo, non ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente. Così è (soggiunse l'Amico). Quest'amabile Cavaliere, dopo aver adempito ai doveri di buon Cittadino, sostenendo i pesi e meritando gli onori, pieno della più sana Filosofia, e coll'esempio degli antichi Padri della Romana Repubblica, si ritirò nel suo delizioso villereccio soggiorno di Martelago, dove non soddisfa a se stesso coll'inazione, colla solitudine ed il total dispregio del mondo, vita stoica, inoperosa menando; ma libero spazioso campo ritrova di esercitare l'esimia sua carità verso i poveri, facendo sua delizia, sua occupazione e sua prediletta cura soccorrere i bisognosi, visitare gl'infermi, e consolare gli afflitti. Soddisfatto alla pia inclinazione del suo bel cuore, non lascia di ricreare lo spirito con nobili ed onesti intrattenimenti. Ei tratta assai volentieri con Persone di buon carattere e di buon costume; accoglie i Galantuomini nella sua fioritissima abitazione, li alberga con esquisitezza e cordialità, fa delle graziosissime conversazioni, e fra queste hanno onorevole, costante luogo le vostre Commedie. Qui non potei lasciar d'interrompere il caro Amico, diedi in un trasporto di gioia, dissi alzando la voce: Dunque un Cavaliere sì saggio, sì pio ed amabile, ammette nel suo virtuoso ritiro la compagnia delle Opere mie, e le crede degne della sua bella mente e del suo bel cuore? Ah (seguitai dicendo), nell'udire il di Lui sistema e le ammirabili sue qualità, m'invogliava di conoscerlo, di inchinarmi ad Esso, di offerirgli la divota mia servitù; ma quest'ultima parte della vostra piacevole narrativa, oltre la mia curiosità, interessa la gloria mia e il mio decoro, e sento da essa solleticar l'amor proprio. Come potrei fare ad accostarmi a


Lui, come protestargli il mio ossequioso riconoscimento, come ringraziarlo della sua bontà, della sua protezione? Fate così (mi rispose l'onoratissimo Galantuomo), dedicategli una Commedia. Oh come (io dissi) posso ardire di farlo, senza merito, senza servitù, senza dirglielo? Non temete (soggiunse), io lo conosco bastantemente; so di che animo è il Cavaliere; Egli è solito di tutte le cose esaminare il fondo; conoscendo che a ciò vi mosse il rispetto, e se volete, anche un rispettoso riconoscimento, passerà sopra ad ogni formalità, e gradirà la Dedica che gli farete. Se glielo dite prima (soggiunse), correte il rischio che la sua singolare modestia ve lo divieti. Molte cose si lodano dopo fatte, che consigliando non si sarebbero fatte: la cosa non è indegna d'un Cavaliere illustre per meriti e per natali, giacché tant'altri vi hanno concesso un simile onore; egli vi ama, ve l'assicuro, e protegge tanto le cose vostre, che è impossibile non accolga la Dedica con benignità e con diletto. A tante belle parole chi non sarebbesi persuaso? Ecco, Eccellenza, come mi son lasciato condurre all'ardito passo di offerirle un pubblico testimonio dell'ossequiosa mia servitù, senza attenderne la di Lei permissione.

Se mai per avventura foss'Ella malcontenta del mio coraggio, supplico l'E. V. dividere i suoi rimbrotti fra me e l'Amico che mi ha sedotto; io non pertanto in qualunque evento ringrazierò sempre Colui che mi dié animo a farlo, sicuro che la dolcezza dell'animo di V. E., e la naturale sua benignità, ravvisando il cuore umilissimo, che per l'acquisto della di Lei protezione divenne ardito, mi accorderà un clemente perdono, e mi concederà liberalmente la grazia di poter essere, quale ossequiosamente inchinandomi ho l'onore di protestarmi

Di V. E.

Venezia li 22 Luglio 1760.

Umiliss. Devotiss. Obbligatiss. Servidore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia, che è stata assai fortunata nel buon incontro, svegliò qualche disputa sull'argomento. Pochi hanno riconosciuto nel Protagonista l'Amante di sé stesso, aspettandosi la maggior parte per un sì fatto titolo un uomo abbandonato a quelle disordinate passioni, che sogliono derivare dallo smoderato amor proprio. Quando io avessi fatto prevalere nel mio Protagonista una forte passione, o un vizio, o un difetto, avrei da quello denominato il di lui carattere, e avrei intitolata la Commedia, o il Superbo, o l'Avaro, o il Dissoluto ecc.; ma quando dico soltanto l'Amante di sé stesso, mi figuro un Uomo non trasportato da veruna passione, ma ragionevole, padrone di sé medesimo, che sente l'umanità, e gli appetiti, e i piaceri, ma che nell'occasione di prevalersi di alcuni beni, o di alcuni comodi, cerca di appagare sé stesso, senza assoggettarsi agli usi molesti della società, a certi inutili rispetti umani, o al fanatismo di una soverchia delicatezza, senza offendere l'onestà e il buon costume. Per esempio: un galantuomo a' dì nostri contrae un'amicizia con un'amabil Signora, prende impegno di servirla, la serve, e coll'andar del tempo scopre i difetti, e trova incomoda la servitù. L'uomo appassionato non sa distaccarsi; l'uomo debole soffre con dispiacere la sua catena; il politico per convenienza sta saldo. L'amante di sé stesso la pianta a drittura. Dicono alcuni: Per una sì fatta ragione l'Amante di sé stesso non dovria maritarsi, temendo la noia di una indissolubil catena. Dirò a tal proposito, che così pensa chi ama veramente sé stesso, ma all'incontro il mio Protagonista ha tante prove di virtù, di fedeltà, di amore della sua Bella, che si reputerebbe infelice a perderla, e per amor proprio la sposa.

Io non so, se queste ragioni basteranno a persuadere chi legge; ma in ogni caso si persuada col voto comune degli ascoltanti, che fece festa grandissima ad una tale Commedia. Io la scrissi a Colorno, villeggiatura amenissima del Serenissimo Reale Infante Padrone, e mi ricordo che nei bollori di un ardentissimo Luglio, fra il caldo e il sudore, mi divertì infinitamente lo scriverla, e tanta facilità vi trovai, e tanta dilettazione, che in otto giorni la ridussi al fine. In Settembre la posi io stesso in iscena a Milano, e tanto ebbe incontro in quel magnifico sontuoso Teatro, che a voce comune fu domandata la replica, e quattro volte in pochi giorni fu replicata. Bella consolazione, Lettor carissimo, per un Autore, allorché vede le Opere sue dall'universale aggradite! Bella cosa sentirsi dire: «Bravo! me ne consolo! che bella Commedia! È un capo d'opera. Non si può far di più». Ed è bello ancora il vedere alcuni malcontenti, o per invidia, o per costume, lodarla a mezza bocca, dirne bene in faccia all'Autore, e far d'occhio al compagno, e in mezzo alle lodi far nascere l'obbietto, la critica, o la derisione. Io li ringrazio assaissimo, poiché mentre mi tartassano una Commedia, mi somministrano l'argomento d'un'altra.


Personaggi

Il MARCHESE FERDINANDO feudatario di Castello Rotondo.

La MARCHESA IPPOLITA vedova.

Donna BIANCA.

Il CONTE DELL'ISOLA.

Don MAURO zio di donna Bianca.

Il signor DE' MARTINI agente del Feudo.

Il COMMISSARIO di Castello Rotondo.

Il signor ALBERTO Veneziano.

MADAMA GRAZIOSA moglie del Commissario.

FRUGNOLO lacchè.

Un NOTARO.

Un SERVITORE di don Mauro.

La Scena si rappresenta nel Castello di Monte Rotondo, parte in casa di don Mauro, e parte in casa

del Commissario.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Mauro

Il Conte dell'isola ed il signor Alberto.

CON.                Un'ora star con voi solo, amico, mi preme.

Berrem, se non vi spiace, la cioccolata insieme.
ALB.                 Sior sì, la cioccolata, per bona che la sia,

Par che la riessa meggio bevuda in compagnia.

Che vuol dir, a proposito, sior Conte mio patron?

No la la beve al solito ancuo in conversazion?
CON.                Mi sento stamattina lo stomaco indigesto.

Gli altri la bevon tardi; noi la berrem più presto.
ALB.                 Giersera qualcossetta m'ha parso de sentir.

Xelo un de quei che stenta le cosse a digerir?
CON.                So che volete dirmi. Ier sera veramente

Mi ha fatto donna Bianca scaldar terribilmente:

La bile mi è passata per altro in sul momento;

Non altero per donne il mio temperamento.

Amo con tenerezza, e con calor m'impegno,

Stimo le donne tutte, ma fino a un certo segno.

Vo' che l'amor mi comodi, non che dolor mi dia;

Per femmina, vel giuro, non piansi in vita mia.

Mi piace, mi diletta la grazia e la beltà,

Ma stimo più di tutto la mia felicità.
ALB.                 Senza doggia de cuor sarave un bell'amar,

Ma co l'è de quel bon, cussì no se pol far.
CON.                Di quel buono chiamate l'amor che vi tien privo

Di pace, di conforto? Pare a me del cattivo.

Non mancano pur troppo al mondo i nostri guai;

Accrescerli per gioco, affé, non imparai.
ALB.                 Donca per riparar da ste desgrazie el cuor,

Bisogna star in guardia lontani dall'amor.
CON.                Ma dall'amar lontani star sempre è cosa dura.

Amore è la più bella passion della natura.
ALB.                 Ma come s'ha da far, caro sior Conte mio?

CON.                S'ha da amar, caro amico, ma far come fo io.

Amare onestamente, finché si va d'accordo;

Quando si cambia 'l vento, far presto a voltar bordo.

Io, quando ho un'amicizia, la venero, la stimo;

Procuro di non essere a disgustarla il primo.

Ma un menomo motivo che diami di disgusto,

Col darle il suo congedo prestissimo m'aggiusto.
ALB.                 Gnente per la morosa? Gnente soffrir?

CON.                                                                              Oibò.

ALB.                 Gh'avè un bel cuor, compare


CON.                                                                Né mai mi cambierò.

ALB.                 Ma se per cussì poco, sior Conte, ve muè,

Disè, come sarala, se ve mariderè?
CON.                Finora ho sempre amato per genio e bizzarria;

L'amor del matrimonio non so che cosa sia.

Penso che in ogni caso, scemandosi l'affetto,

Restar può per la moglie la stima ed il rispetto.
ALB.                 Co sti princìpi in testa, sior Conte mio paron,

Xe meggio che stè solo, che parerè più bon.
CON.                Basta: mutiam discorso; il caso è ancor distante.

Spiacemi, amico caro, che or son senza un'amante.

E non ci posso stare; mi viene il mal di core,

Se sto mezza giornata senza far all'amore.
ALB.                 Cossa xe stà giersera con donna Bianca?

CON.                                                                                   Appunto

Di quel che volea dirvi siete arrivato al punto.

Donna Bianca è una giovane propria, civile, onesta;

Ma parmi fastidiosa e debole di testa.

Scherzai colla Marchesa un po' più dell'usato

Ella in tutta la sera non mi ha nemmen guardato.

Le dico qualche cosa, le parlo civilmente,

Giustificarmi io voglio, mi fa l'indifferente.

Siedo appresso di lei; s'alza, mi lascia solo:

La seguito, mi fugge, mostra negli occhi il duolo.

Mi sforzo contro il solito di sospirar; la credo

Tocca dai miei sospiri, e ridere la vedo.

Allor sdegno mi prende; ragion chiamo in aiuto;

Se vo per questa strada, dico a me, son perduto;

Risolvo sul momento lasciarla in abbandono.

Ho dormito benissimo, e libero già sono.
ALB.                 Troppo rigor, sior Conte. Se sa pur che xe fia

Del più sincero amor l'amara gelosia.
CON.                Se della gelosia padre indiscreto è amore,

In grazia della figlia ho in odio il genitore:

Se vuol ch'io lo ricovri ancor entro al mio petto,

Sia padre della gioia, sia padre del diletto;

Ma unito alla spiacente sua incomoda famiglia,

Lo mando dal mio seno lontano mille miglia.
ALB.                 Voleu che ve la diga? Vedo, cognosso adesso,

Che vu, caro sior Conte, sè amante de vu stesso.

Ve parlo da fradelo.
CON.                                                 Io da fratel rispondo:

Evvi dell'amor proprio più bell'amor al mondo?
ALB.                 Donca tutto l'amor provien dall'interesse.

CON.                Vi è dubbio? Senza speme chi è quel che amor volesse?

ALB.                 Ghe ne conosso tanti innamorai, gramazzi,

Senza mai sperar gnente.
CON.                                                         Questo è l'amor dei pazzi.

ALB.                 E l'amor d'amicizia saralo interessà?

CON.                Senza qualche interesse questo amor non si dà.

ALB.                 Me par che andemo avanti. Quando la xe cussì,


Col ben che me volè, cossa spereu da mi?
CON.                Oh, spero molto, amico.

ALB.                                                       Dasseno?

CON.                                                                    In un periglio

Vale la vita istessa d'un amico il consiglio.

E appunto stamattina desio di consigliarmi

Sopra un certo proposito: con voi vo' confidarmi.
ALB.                 Son qua pronto a servirve in quel che mai podesse,

Ma da bon Venezian, de cuor, senza interesse.
CON.                Lo so che i Veneziani son gente di buon core;

Ma so che non son stolidi in materia d'amore.
ALB.                 Certo che no i xe gnocchi, co i tratta una morosa.

Ma da un amigo...
CON.                                               Sempre si spera qualche cosa.

Bramo un consiglio solo, ed eccovi il perché

La cioccolata a bevere vi supplicai con me.
ALB.                 Xe un'ora che parlemo, e no la vien avanti?

CON.                Intanto che si aspetta, ragioneremo innanti.

Sappiate, amico caro, come già vi accennai,

Che colle passioncelle mi divertisco assai.

Mi piace, mi diverte questa villeggiatura,

Ma senza un amoretto per me è una seccatura.

Sono però dubbioso fra tre diversi oggetti,

A qual debba di loro rivolgere gli affetti:

Vi è la marchesa Ippolita, ma parmi un poco altera;

Vi è donna Bianca, e seco mi disgustai iersera;

Vi è madama Graziosa, moglie del commissario.
ALB.                 Pian, tra questa e quell'altre ghe passa un bel divario.

Le prime xe do dame, questa xe una pedina,

Che in grazia della carica vol far la signorina.
CON.                Codeste differenze non sono essenziali:

Le donne, se son belle, per me son tutte eguali.

Non voglio maritarmi, le tratto onestamente,

Ed oltre l'amicizia, da lor non vo' niente.

Se trovo dello spirito, dell'attenzion per me,

Sono, sia chi si voglia, contento come un re.

Ora ch'io son per scegliere, qual mi consigliereste,

Se foste nel mio caso, a scegliere di queste?
ALB.                 Mi ve conseggierave a preferir la dama.

CON.                Ma quale delle due?

ALB.                                                Quella che più ve ama.

CON.                Bravissimo. M'avete parlato in eccellenza:

Ad una delle due darò la preferenza.

A madama Graziosa fei fare un'imbasciata;

Ma so che non mi vuole: e con altri è impegnata.

Ed io, se trovo ostacoli, prestissimo mi stancano;

Di già delle occasioni al mondo non ne mancano.

Ecco la cioccolata.


SCENA SECONDA

Frugnolo lacchè, colla cioccolata, e detti.

ALB.                                                Via, sior lacchè, xe ora.

FRU.                 Signor Alberto, appunto lo cerca la signora.

ALB.                 Chi? donna Bianca?

FRU.                                                  Certo.

CON.                                                           Che sì, ch'ella parlarvi

Desidera di me. Sappiate regolarvi.
ALB.                 Che ordeni me deu, se la me intra in questo?

CON.                Dirò: s'ella si cangia, son cavaliere onesto;

Non voglio d'una dama sprezzare il pentimento.
ALB.                 Tornereu?

CON.                                 Perché no?

ALB.                                                    Ma per divertimento.

CON.                Non so; potrebbe darsi; sentiam quel che dirà.

ALB.                 (Che el fazza pur el franco. Oh, se el ghe cascherà!)

CON.                Che hai, caro Frugnolo, che sei oltre l'usato

Stamane melanconico?
FRU.                                                       Signor, son disperato.

Ieri sera nel correre ho rotto i miei scarpini;

E non ho, poveraccio, né scarpe, né quattrini.
ALB.                 Oh che baron!

CON.                                        Don Mauro non ti dà il tuo salario?

FRU.                 Me lo dà, ma si contano i giorni sul lunario.

CON.                Che vuol dir? Non capisco.

FRU.                                                            Vuol dir ch'egli è cortese,

Ma non mi dà un quattrino, se non finisce il mese.
ALB.                 Sentìu che raccoletta?

CON.                                                    Ma la villeggiatura

Non frutta degl'incerti?
FRU.                                                       Eh sì, qualche freddura.

CON.                Per esempio, quei paoli ch'io ti donai sovente,

Sono pel tuo gran merito una cosa da niente.
FRU.                 Vossignoria illustrissima m'ha sempre fatto grazia.

ALB.                 E i mi mezzi ducati, coss'èi, sior malagrazia?

FRU.                 I ducati che spesso mi diè vossignoria,

Il leon colle ali me li ha portati via.
ALB.                 Eh galiotto!

FRU.                                    Davvero ci penso e mi confondo.

Son sempre senza un soldo, e non ho un vizio al mondo.
ALB.                 Ma vardè che desgrazia!

CON.                                                         Vien qui; narraci un poco.

Come impieghi le ore?
FRU.                                                       Eh, mi diverto al gioco.

CON.                Bravo! non sai, meschino, dove il denar sen va?

ALB.                 Se nol gh'ha un vizio al mondo, povero desgrazià!

FRU.                 Questo non è gran cosa. Non troverà un lacchè,

Che sia, gliel'assicuro, men discolo di me.

Non son di quei che vadano sì spesso all'osteria.


CON.                Ma ci vai qualche volta.

FRU.                                                       Così per compagnia.

ALB.                 E nol gh'ha un vizio al mondo. Tiolè, sior virtuoso. (rimette la chicchera sul

tondino)
FRU.                 E non mi dona niente? So pur ch'è generoso.

ALB.                 Sì caro, un'altra volta. Vado a sentir la dama. (al Conte)

CON.                Poi venitemi tosto a dir quel ch'ella brama.

ALB.                 Se de vu la me parla?

CON.                                                    Sappiate regolarvi.

ALB.                 Possio prometter gnente?

CON.                                                           Sì, ma senza impegnarvi.

ALB.                 Amigo benedetto, tolè sto mio conseggio:

Se ve volè taccar, tacchève al vostro meggio.

Le donne maridae le s'ha da lassar star;

Co le vedue no digo, ma ghe xe da pensar.

Per mi se anca la fusse un tantinin più brutta,

Piuttosto che una vedua, me piaseria una putta.

Ma voleu far l'amor? Felo come se deve.

O sia vedua, o sia putta, sposèla, e destrigheve. (parte)

SCENA TERZA Il Conte e Frugnolo.

CON.                (Gran cosa! tutto il mondo vorrebbe maritarmi

Ci penserò ben bene innanzi di legarmi). (da sé)

FRU.                 (Non la finisce mai di ber la cioccolata?)

CON.                (Perché non può trattarsi la donna maritata?

Servirla onestamente? Oh madama non è Nata una gentildonna; che cosa importa a me?) Tieni. (rimette la chicchera sul tondino)

FRU.                           Con sua licenza. (vuol partire)

CON.                                                    Vien qui, non aver fretta.

Voglio discorrer teco.

FRU.                                                     Il padrone mi aspetta.

CON.                Via, tieni un testoncello, e non andar sì presto.

FRU.                 Ecco, metto giù il tondo, e fin che vuole, io resto.

CON.                Dimmi: È ver che don Mauro ha della inclinazione

Per la marchesa Ippolita?

FRU.                                                         Lo fa per compassione

La poverina è vedova, ed ha, se non m'inganno, Di rendita sicura seimila scudi all'anno. È imbrogliata, meschina, con tante facoltà; E farle il mio padrone vorria la carità. Ma per quel ch'io capisco dagli andamenti sui, La signora Marchesa fatta non è per lui. Il lor temperamento non si assomiglia un pelo: Ella ha il foco negli occhi, ei nelle membra il gelo. Quando li vedo uniti, parmi vedere al paro


Con il mese d'Agosto il mese di Gennaro.

Egli cammina adagio, nel dir non ha mai fretta;

Ella cammina e parla, che par una saetta.

Sfogarsi la Marchesa, gridar può quanto vuole,

Innanzi ch'egli arrivi a dir quattro parole.
CON.                Oh, se foss'io, vorrei farle arricciar il naso.

FRU.                 Eppure, signor Conte, sarebbe il di lei caso.

CON.                Per me? Frugnolo caro tu sei male avvertito.

Voglio godere il mondo. Per or non mi marito.
FRU.                 No, davvero? Perdoni il mio parlar da strambo;

Eppur s'intese dire, che si sperava un ambo

Fra lei e donna Bianca, nipote del padrone.
CON.                È ver, ma si è mandata a monte l'estrazione.

Al lotto delle donne la sorte spesso varia,

Quando che non si pigliano i numeri per aria.

Conosci tu la moglie del commissario?
FRU.                                                                              Certo.

Che giovine di garbo, che giovine di merto!

Quando così per grazia mi misero prigione,

Mi facea la mattina portar la colazione.

E quanto ben mi ha fatto, signore, e quante notti

Andar mi fece in camera a farle i papigliotti!

Mi aveano processato; ella il marito istesso

Obbligò a lacerare le carte del processo.

E posso dir che, in grazia di sua protezione,

Mi fecero innocente uscir dalla prigione.
CON.                Cosa avevi tu fatto?

FRU.                                                  Cose di gioventù.

Portavo lo stiletto, ma non lo porto più.
CON.                A madama Graziosa mandai certa proposta,

Finora attesi in vano il messo e la risposta.

A te darebbe l'animo? So che un grand'uom tu sei.
FRU.                 Non ho difficoltà. Per me la servirei;

Però al commissariato andar non mi è permesso,

Perché pagar mi resta le spese del processo.

È ver che i suoi diritti donommi il commissario;

Ma quel che a lui si aspetta, pretende l'attuario.

Potrei con uno scudo sperar di liberarmi,

Ma se non ho lo scudo, non posso assicurarmi.
CON.                Galantuom, v'ho capito. Eccovi bello e nuovo

Uno scudo di peso.
FRU.                                                Subito andar mi provo.

CON.                Portati bene, e bada condurti con destrezza.

FRU.                 Aprir con queste chiavi m'impegno una fortezza. (accenna uno scudo)

Se torno colle nuove d'uom valoroso e scaltro,

Meriterem lo scudo?
CON.                                                 Te ne prometto un altro.

FRU.                 (Vada due scudi al sette. Va paroli sul tre.

Sette a levar sull'asso. Sedici scudi a me). (da sé, come se giocasse)

(Va tutto alla corona. Tutto? non son sì tondo).
CON.                Ecco, tu pensi al gioco.


FRU.                                                       Oh, non ho un vizio al mondo. (parte)

SCENA QUARTA

Il Conte solo.

CON.                Viva l'uom senza vizi. Basta, chi più, chi meno,

Ne ha la sua parte in mente, ne ha la sua parte in seno.

10 posso dir per altro: non ne son senza affatto,
Ma non ne ho di quelli che fan diventar matto.
Gioco talor, ma il gioco non giunse ad impegnarmi:
Studio sovente ancora, ma senza riscaldarmi.

Gli esercizi violenti mi piacciono per poco. L'aria variar procuro in questo o in altro loco. Amo, finché mi piace. Sto saldo, finché giova. Non pongo mai per questo la mia salute in prova. In somma quel mi piace, ch'esser miglior mi addita Lo studio e la ragione al ben della mia vita. Senza pescar affanni vo' vivere giocondo. Quando son io perito, tutto perito è il mondo. (parte)

SCENA QUINTA

Giardino

Donna Bianca e il signor Alberto.

ALB.                 Con mi la se confida senza riguardo alcun,

Con tutta segretezza; qua no ghe xe nissun.

Taserò, se la vol; parlerò, se bisogna.

Ma via co sto fiffar(1), che la xe una vergogna.
BIA.                  Ma quando che ci penso, signor Alberto caro,

Quel che inghiottir io devo, è un boccon troppo amaro
ALB.                 Via, se tol delle volte delle pillole amare,

Ma le fa ben al stomego, le quieta el mal de mare.
BIA.                  Il Conte... (s'arresta piangendo)

ALB.                                 La finissa de dir; cossa xe stà?

BIA.                  È senza discrezione, è senza carità.

ALB.                 Chi ama, delle volte per troppo amar zavaria:

Xe mal tutte le mosche chiappar, che va per aria.

Vualtre putte un stomego gh'avè assae delicato.

El mondo, cara fia, savè come el xe fato.
BIA.                  Se avete in cuor pietade, se siete un uom bennato,

Abbiate compassione del misero mio stato.

Questa è la prima volta che amor provai nel petto;

11 Conte mi ha obbligato amarlo a mio dispetto.

Piangere.


Quali attenzion, qual arte non usò il traditore,

Per mettermi, infelice! una catena al cuore?

Pel corso di due mesi, sei, sette volte il giorno,

O nello sterzo, o a piedi, venia nel mio contorno.

Andassi da' congiunti, o in altro luogo usato,

Me lo vedea mai sempre dietro le spalle, o allato.

In casa s'introdusse, e colla sua maniera

Guadagnò di mio zio la confidenza intiera.

Non eravi la sera dubbio che altrove andasse,

Godea di starmi appresso, parea che mi adorasse.

Diceami tai parole, tali mi dava occhiate...

Quali donzelle accorte, ah, non sarian cascate?

Che non fe', che non disse cogli artifizi suoi

Per essere condotto a villeggiar con noi?

Sui primi giorni ei stava quasi le notti intere

Sotto le mie finestre, con gioia e con piacere.

Vien la marchesa Ippolita; con lei passeggia e parla,

E della vedovanza principia a consolarla.

Scherza con lei di cose che figlia non intende;

Conosce che mi spiace, conosce che mi offende,

E seguita la tresca l'ardito in faccia mia?

A simili disprezzi chi può star saldo stia.

Sola passeggio, e taccio; egli mi segue allora,

Col riso sulle labbra protesta che mi adora.

Eh, non è questo il modo di millantare affetto.

Si deve ad una dama più amore, e più rispetto.

Per me l'ho conosciuto, di lui più non mi fido;

E so che il di lui cuore della menzogna è il nido.

Mi costerà la vita, lo so per mia sventura,

Ma voglio dal mio cuore staccarmelo a drittura. (piange)

Piangerò qualche giorno pur troppo per suo vanto,

Ma finirà, sì certo, ma finirà anche il pianto.
ALB.                 (Mo cospetto del diavolo, che son fatto cussì;

Me vien, co vedo a pianzer, le lagreme anca a mi). (si asciuga gli occhi)

Donna Bianca carissima, ve parlerò sincero;

E po vardème i occhi, vederè se xe vero.

Digo anca mi che el Conte...
BIA.                                                               Zitto, che vien mio zio.

ALB.                 Gh'ho voggia che parlemo.

BIA.                                                               Sì, che n'ho voglia anch'io.

SCENA SESTA Don Mauro e detti.

ALB.                 Velo qua, l'è capace de andar drio delle ore,

E ogni quattro parole el dirà: Sì, signore.

MAU.                Oh campagna, campagna... che tu sia benedetta...

Ogni giorno si vede qualche novella erbetta...


Qua spunta un fior... là un frutto... qua, sì signor, l'ortica...

Oh campagna, campagna... che il ciel ti benedica.
ALB.                 Sior don Mauro, patron.

MAU.                                                     Oh schiavo... amico mio.

Nipote... vi saluto.
BIA.                                                 Serva sua, signor zio.

MAU.                Pensava... meditava... sì signor, fra di me,

Che... non vi è della villa... più bel piacer non vi è.

Mi figuro i villani, che levan di buon'ora.

Oh, sarà il bel piacere... levarsi coll'aurora.
ALB.                 No l'al gh'ha mai sto gusto?

MAU.                                                             Io no, perché mi piace...

Star a goder in letto, sì signor, la mia pace.
ALB.                 Ma per star con più comodo, ghe mancaria una sposa.

MAU.                Dieci anni, sì signore, pensato ho a questa cosa.

BIA.                  E per me, signor zio, ci penserete poi?

MAU.                Eh... altri dieci anni ci penserò per voi.

ALB.                 Sarà da qua dies'anni un pochetin tardetto.

BIA.                  Per me, signor, so pure che avete dell'affetto.

MAU.                Qua spunta la violetta, là spunta il gelsomino.

BIA.                  (Andiamo a ritirarci in fondo del giardino). (piano al signor Alberto)

ALB.                 Con so bona licenza. Andemo...

MAU.                                                                    Sì signore.

BIA.                  Io muoio, se non posso sfogar il mio dolore.

Andiam, signor Alberto, andiam per carità. (parte)
ALB.                 (Oh ste putte, ste putte, le me fa un gran peccà). (parte)

SCENA SETTIMA Don Mauro, poi il signor De' Martini

MAU.                Si vede la campagna... fruttifera per tutto.

Io solo son un albero, sì signor, senza frutto.

Se la marchesa Ippolita... volesse favorire,

Vorrei far qualche cosa... innanzi di morire.
MART.              Signor, vi riverisco. (parla sollecito ed altero)

MAU.                                              Padron. (colla solita flemma, alzando la mano al cappello)

MART.                                                        Son qui venuto

Per dirvi qualche cosa di un fatto che ho saputo.
MAU.                Son qui... dove che po...

MART.                                                      Certo signor Contino,

Che avete in casa vostra, egli è un bell'umorino.

Tenta le donne oneste con arte temeraria,

Tentò con imbasciate madama commissaria.

Ella è una savia femmina, che merita rispetto.
MAU.                Sì signor...

MART.                              Non riceve nessuno nel suo tetto.

E il dico, e lo sostengo, e sono un uom d'onore,

E mi farò conoscere chi sono.


MAU.                                                               Sì signore.

MART.              E dalla commissaria, se manderà il lacchè,

Cospetto! il signor Conte l'avrà da far con me.

Basta. M'avete inteso. Non sono un cavaliere,

Ma son chi sono alfine, e ho il modo, ed ho il potere.

Mi fu Castel Rotondo in affitto concesso,

E sono più padrone del feudatario istesso.

Poiché se vuol danari, dipendere ha da me;

E quando così parlo, parlo col mio perché.

Capite?
MAU.                           Sì signore...

MART.                                            E posso a voglia mia

Ciascun, quando mi piace, dal feudo mandar via.
MAU.                Non credo, sì signore...

MART.                                                   Perché, perché bel bello

Può darsi che mi riesca comprare anche il Castello.

E non sarebbe mica un caso estraordinario,

Che un agente si alzasse, cadendo il feudatario.

Parlo con voi, che siete buon galantuomo, amico;

E fate capitale di quel che ora vi dico.

Vi vedo volentieri, per bene vi avvertisco.

Faccio poche parole. Signor, vi riverisco. (parte)
MAU.                Questi è un uom, sì signore, che per me è fatto apposta.

Mi parla, e non ho briga di dargli la risposta.

Vuole ch'io dica al Conte?... Oibò, non me ne intrico.

Io sono, sì signore... della quiete amico.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Sala

La Marchesa Ippolita.

IPP.                   Non so che cosa m'abbia. Non so che cosa sia.

Mi par questa mattina d'aver melanconia. Son vedova, son ricca, chi sta meglio di me? Eppur, per istar bene, mi manca un non so che. Oh, siamo le gran pazze noi altre sciagurate! Ci pare una gran cosa quell'esser maritate. Alfine una fanciulla più di così non sa, Sagrifica alla cieca la propria libertà. Ma io, che ci son stata tre anni per disgrazia, D'una catena simile dovrei esserne sazia. Eppure mi circondano certi pensieri strani, Eppure a maritarmi ritornerei domani. La libertà è preziosa, so che del cielo è un dono, Ma ha il matrimonio ancora la sua parte di buono.

SCENA SECONDA

Il Conte e la suddetta.

CON.                Oh signora Marchesa, voi sola in questo loco?

IPP.                   Conte, son malinconica; divertitemi un poco.

CON.                Che ci vorrebbe mai per farvi divertire.

Per rallegrar gli spiriti?
IPP.                                                         Non so, nol saprei dire.

CON.                Eh, so ben io, signora, per voi che vi vorria.

IPP.                   Voi mi verrete al solito a dir qualche pazzia.

E poi, se donna Bianca vi sente a dir così,

Le vederete il grugno alzar per tutto il dì.
CON.                Donna Bianca è una dama ch'io rispettare intendo,

Ma soggezion di lei per questo io non mi prendo.
IPP.                   Ma quando di una donna l'amor si vuol pretendere,

Signor Contino amabile, da lei si ha da dipendere.
CON.                Dipendere, l'accordo, in cosa concludente,

Non in cose da nulla.
IPP.                                                    Dipender ciecamente.

CON.                Io non penso così, signora.

IPP.                                                              Poverino!

Se aveste a far con me, caro il mio bel Contino,

Star per amore, o a forza, alla passion dovreste.


CON.                Non ci starei, signora.

IPP.                                                       Oh oh, se ci stareste!

CON.                Voi avete un gran merito, lo vedo, lo confesso;

Ma qual faccio coll'altre, con voi farei lo stesso.
IPP.                   Ed io dopo tre giorni, Contin, vi manderei.

CON.                Ed io dopo tre giorni, Marchesa, me n'andrei.

IPP.                   Eh, quando si vuol bene, non si può dir così.

CON.                A dirlo, fin adesso amor non m'impedì.

IPP.                   Dunque mai non amaste.

CON.                                                         Anzi non stetti un giorno

Senza sentir d'amore qualche passione intorno.
IPP.                   Ma che vuol dir, che tante passion cambiate avete?

CON.                Vuol dir, che son le donne un po' troppo indiscrete.

IPP.                   Che pretendete voi?

CON.                                                 Dirò la verità:

Un po' di soggezione, e un po' di libertà.
IPP.                   Non mi dispiace, a dirla; mi par la cosa onesta.

CON.                Che spiaccia, o che dispiaccia, la mia ragione è questa.

Dico così, che amore non ci ha da recar duolo.

Pria che con altri piangere, vo' rider da me solo.
IPP.                   È una massima buona.

CON.                                                    Pretendono le belle,

Che s'abbia tutto il giorno a sospirar per elle;

Che si stia come statue. Non vedon col pensiero,

Che gli amanti si stancano?
IPP.                                                                Non dite male. È vero.

Avete certe regole da farne capitale.

Fra noi, a quel ch'io vedo, non si starebbe male.
CON.                Si starebbe malissimo.

IPP.                                                       Perché?

CON.                                                                Per la ragione

Ch'io non son uom sì facile da star alla passione.
IPP.                   Oh, mi credete poi sì strana? v'ingannate.

CON.                Io sento quel che dite; non so poi quel che siate.

IPP.                   Son una che agli incontri accomodar si sa.

CON.                Questa non è, per dirla, cattiva qualità.

Però da voi sentito ho cento volte e cento,

A dir che questi amori non sono che un tormento,

Che niuno in questo mondo legar non vi potria...
IPP.                   Quante cose si dicono così per bizzarria!

CON.                È vero, e può anche darsi che sia un bizzarro umore,

Volante, passeggero, il dir ben dell'amore.
IPP.                   Il bene, il mal d'amore anch'io distinguo e vedo.

Voi mi piacete assai.
CON.                                                 Oh, adesso non vi credo.

IPP.                   Perché?

CON.                            Quando le donne principiano a lodarmi

Ho subito sospetto che vogliano ingannarmi.
IPP.                   Dunque s'ha da sprezzarvi, per rendervi contento?

CON.                Le donne che mi sprezzano le pianto sul momento

IPP.                   Siete un bell'umorino.


CON.                                                    Son così di natura.

IPP.                   Che sì, che vi fo piangere?

CON.                                                           Non mi fate paura.

IPP.                   Gli è, che, per dir il vero, perdere non vorrei

Per voi la miglior traccia delli disegni miei,
CON.                Volete maritarvi?

IPP.                                                Oh signor Cavaliere,

Ella, con sua licenza, non è mio consigliere.
CON.                Altro ci vuol, signora, che li consigli miei,

Per reggere una donna bizzarra come lei.
IPP.                   Parmi, signor Contino, troppo eccedente il gioco.

CON.                Ma non mi avete detto, che vi diverta un poco?

IPP.                   Signor, io vi consiglio andar da donna Bianca.

CON.                Vi andrei, ma a dir il vero, troppo voler mi stanca.

IPP.                   So pur, che senza amori vivere non potete.

CON.                Ne posso degli amori trovar quanti volete.

IPP.                   Il merito del Conte ne trova da per tutto.

CON.                Un merto troppo sterile non può sperar buon frutto.

IPP.                   Certo, che mai non fruttano, o fruttano assai meno,

Le piante che non durano tre giorni in un terreno.
CON.                Ma se un terren trovassi, che fosse confacente,

Vorrei le mie radici fissarvi eternamente.
IPP.                   Dunque si può sperare vedervi maritato.

CON.                Io non giurai per anche serbare il celibato.

IPP.                   Fatelo.

CON.                            È un po' difficile.

IPP.                                                           Non ci pensate su.

CON.                Eh, quando è fatta, è fatta, e non si disfà più.

Voi che legata foste, ed or libera state,

Perché, s'è cosa buona, non vi rimaritate?
IPP.                   Perché laccio a proposito peno trovare anch'io.

CON.                Ditemi, in confidenza. Sarebbe buono il mio?

IPP.                   Voi scherzate, signore.

CON.                                                      E a voi preme davvero.

IPP.                   Mi prema, o non mi prema, non deggio a voi svelarlo.

Ma il modo, se ne ho voglia, non mancami di farlo.

Son libera, son giovane, non ho bellezza alcuna,

Ma ho dote, che può fare d'un uomo la fortuna.

Non cercherò un marito nel ceto degli eroi;

Mi basta non trovarlo sprezzante come voi. (parte)

SCENA TERZA

Il Conte, poi Frugnolo.

CON.                Questo per dir il vero, se tal voglia ne avesse,

Sarebbe un matrimonio per far il mio interesse. Ma pria di maritarmi tutto pensar conviene: Il matrimonio è un laccio. La libertà è un gran bene.


Son solo, e la famiglia vuol ch'io lo faccia, il so;

Ma la catena al piede più tardi che si può.

Mi piace la Marchesa brillante nei pensieri,

Farei l'amore un poco con essa volentieri,

E benché mostri altera sprezzarmi apertamente,

Mi par, se non m'inganno, piacergli internamente.

Oh, non durerà molto, perch'è una donna scaltra.

Eh ben, son sempre a tempo di ritrovarne un'altra.
FRU.                 Eccomi qui, signore.

CON.                                                 Che c'è? Vi è dell'imbroglio?

FRU.                 Madama commissaria gli manda questo foglio.

CON.                Sentiam che cosa dice.

FRU.                                                     Se potesse graziarmi,

Avrei necessità di presto liberarmi.
CON.                Che cosa vuoi?

FRU.                                         Mi pare, signor... così all'intorno...

Che m'abbia un altro scudo promesso al mio ritorno.
CON.                È ver, la mia promessa defraudare non voglio;

Ma lascia pria ch'io legga quel che contiene il foglio.

Vuoi tu, s'ella mi sprezza, ch'io ti regali ancora?
FRU.                 So io quel che di voi mi ha detto la signora.

CON.                Narrami qualche cosa.

FRU.                                                     Dal foglio sentirete.

Non le par d'esser degna.
CON.                                                         Dici davver?

FRU.                                                                               Leggete

CON.                Ha un gran brutto carattere.

FRU.                                                              Ha scritto in fretta in fretta.

Potrebbe, verbigrazia, darmi lo scudo?
CON.                                                                              Aspetta.

Signor Conte Illustrissimo. Intendo a discrezione.

Sono serva obbligata; lei sono mio padrone.

Le dico come quando, disse il Signor Lacchè

Vuol esser favorito Vossignoria da me.

Perché Vossignoria vuol esser favorito,

Ho detto la cagione di questo a mio marito.

E perché mio marito, ch'è il Signor Commissario,

In casa più non vuole l'Agente temerario.

Perché lui come quando vidde il signor Lacchè

Del Lustrissimo Conte ha strappazzato a me.

E io gli ho detto Asino, signor Conte Illustrissimo

E lui è andato in questo subito via prestissimo.

E come quando vuole, le faccio questo invito,

E il Signor Commissario ancora mio marito.

E scrivo questo foglio, e il Signor Conte mando,

E alla sua buona grazia son serva come e quando

Se vuol aver l'onore di venire da me;

E condurrà con lui anche il Signor Lacchè.

Che lettera, che lettera da mettere in cornice:

Se tratto questa donna, ho da essere felice!

Io che sol divertirmi cerco qualche momento,


Dove mai trovar posso miglior divertimento?

Prendi, che te lo meriti. (gli dà uno scudo) Da madama Graziosa

Anderò quanto prima.
FRU.                                                     Signore, un'altra cosa.

In fin di quella lettera ha detto, pare a me:

«E condurrà con lei anche il signor lacchè».
CON.                Temerario! Lo so, che voi altri bricconi

Volete essere a parte talor con i padroni.

Se ardirai di por piede mai più su quelle scale,

Affé, di bastonate ti fiaccherò le spalle.
FRU.                 Non ci anderò, signore, si fidi pur di me,

Quando non mi chiamasse a torcere il toppè. (parte)

SCENA QUARTA

Il Conte solo.

CON.                Ma che diran le dame, se vedon che mi getto

A fare a una pedina la corte a lor dispetto? Dican quel che san dire; non manco al mio dovere, Trattando alle ore debite con lor da cavaliere. Circa all'affetto poi posso con libertà Disporre, senza offendere la loro nobiltà. Donna Bianca è sdegnata, è ben troncar l'impegno, Che un dì potria condurmi a perdere l'ingegno. Mi è ancor della Marchesa l'inclinazione oscura, E madama Graziosa è pronta, ed è sicura. Credo impiegarla bene un po' di servitù. Io bramo divertirmi, senza cercar di più.

SCENA QUINTA Il signor Alberto e detto.

ALB.                 Amigo, son da vu con delle cosse tante.

CON.                Amico, in questo punto mi ho trovato un'amante.

ALB.                 Donna Bianca, gramazza, l'abbandoné cussì?

CON.                Che dice donna Bianca?

ALB.                                                       La pianze tutto el dì.

CON.                Ecco, codeste lagrime mi seccano all'estremo.

ALB.                 Le dise ben le donne. Gran omeni che semo!

Se una donna ne manca un attimo, un momento, Se cria, se dise roba, se fa ressentimento, El sesso tutto intiero se sente a maledir; E de nu, poverazze, cossa no porle dir?

CON.                Io non son stato il primo. Ragione ho sufficiente

Di staccarmi da lei.


ALB.                                                Ma la lassè per gnente.

CON.                Per niente? Ho da soffrire per sciocca gelosia,

Che mi perda il rispetto?
ALB.                                                         Tolè, la xe pentia.

CON.                Pentita? Non lo credo.

ALB.                                                    Conte, da quel che son

Mi l'ho ridotta infina a domandar perdon.
CON.                Perdono? Ad una dama tanto non si convien.

ALB.                 Eh, che no xe mai troppo, quando che se vol ben.

CON.                Chiedere a me perdono?

ALB.                                                       Sì ben, tra de nu tre.

CON.                Ma poi non lo farebbe.

ALB.                                                       No l'al faria? Perché?

Co ve lo digo mi.
CON.                                             Sarebbe un bel trionfo

Questo per un amante.
ALB.                                                    Deventeressi sgionfo.

CON.                Finor qualunque donna costretta a distaccarsi,

L'ho veduta crepare piuttosto che umiliarsi.
ALB.                 E questa la se umilia, questa sa far de più

De tutte le altre donne.
CON.                                                      È una bella virtù.

ALB.                 Via, andemola a trovar; no fe che la zavaria.

CON.                Mi ha mandato a chiamar madama commissaria.

ALB.                 E vorressi lassar per sto pettegolezzo

Una putta de un cuor, che al mondo no gh'ha prezzo?
CON.                Per dirvi quel ch'io penso, da amico confidente,

Dal cuor di donna Bianca son tocco internamente.

Ma ora s'io venissi a ragionar con lei,

La sentirei a piangere, e mi rattristerei.

Fate così: trovato, dite, che non mi avete;

Ditele che sperate, che alfin mi conoscete,

Che son un che si placa, quando un amico parla,

Cercate a poco a poco la via di consolarla.

Quando sarà calmata, verrò più volentieri.

Vedrem se son costanti frattanto i suoi pensieri.

Non dico ch'io pretenda ch'ella perdon mi chieda,

Ma dite che non pianga, che taccia e che mi creda.

Intanto da madama vo a trattenermi un poco:

Non vado per amore, vadovi sol per gioco.

Vado, perché la visita è da madama attesa.

Se nol sa, donna Bianca non può chiamarsi offesa.

Non fo che a me scemare la noia di quel pianto.

Finché voi la placate, vo a divertirmi intanto.

Quando si può un momento aver di quiete al mondo,

S'ha da lasciar per piangere? Signor no, vi rispondo.

Io sono un galantuomo, farò quanto vi dico;

Ma voglio divertirmi. A rivederci, amico. (parte)


SCENA SESTA

Il signor Alberto solo.

ALB.                 Con tutta l'amicizia, sì per diana de dia,

Che sto caro sior Conte quasi lo mandaria. Mi che son de buon cuor, che là son arlevà, Dove se pregia tutti d'aver della pietà, No me posso dar pase, che el tratta in sta maniera Una che ghe vol ben, che pianze e se despiera. Gh'ho proprio el cuor serrà: eh, matto che son mi; No gh'intro per un bezzo, e afflizerme cussì? Se tanto me dà tanto, se son appassionà, Cossa faravio allora, se fusse innamorà? Creperave, ho paura. Donca, scomenzo a dir Che el Conte gh'ha rason d'andarse a devertir. Ma el gh'ha torto, el gh'ha torto. Chi vol la libertà, Se lassa star le putte. La xe una crudeltà. Avanti de taccarse, bisogna aver inzegno. Dopo, chi è galantomo, no ha da lassar l'impegno. O el Conte ha da resolver de far quel che ghe digo

0  in mi, ghe lo protesto, el trova un so nemigo.

1       omeni onorati no i pol soffrir ste azion.

Son Venezian, né voggio far torto alla nazion. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera in casa del Commissario.

Madama Graziosa ed il Conte.

MAD.                Favorisca, illustrissimo. (alla dritta del conte)

CON.                                                      Oh, formiamo i capitoli.

Primo, che fra di noi s'ha da lasciare i titoli.
MAD.                Compatisca, son usa così titoleggiando,

Perché, veda, anche me mi van lustrissimando.
CON.                Bene, tutto va bene, vi venero, vi stimo,

Ma da una banda i titoli per capitolo primo.
MAD.                Come comanda lei: favorisca sedere.

Oh no, da questa parte. (passa alla sinistra)
CON.                                                      Oibò.

MAD.                                                               So il mio dovere.

CON.                Capitolo secondo: fra noi, vi raccomando

Che vadano per sempre le cerimonie in bando.
MAD.                Illustrissimo sì.

CON.                                          Via, madama carissima,

Sedete.
MAD.                           No, s'accomodi vossignoria illustrissima.

CON.                Oh, va lunga l'istoria. Se devo venir qui,


Vo' che trattiam del pari.
MAD.                                                        Illustrissimo sì.

CON.                Dunque alla commissaria, per fare i dover miei,

Darò anch'io l'illustrissima.
MAD.                                                          Come comanda lei.

CON.                (Oh, me l'ho da godere!) Che cosa mi comanda

Vossignoria illustrissima?
MAD.                                                          I titoli da banda.

CON.                Madama, è qualche tempo che aspiro a quest'onore,

D'essere vostro amico e vostro servitore.
MAD.                Se andate su nei cembali, signor, non vi rispondo.

Le cerimonie a parte. Capitolo secondo.
CON.                Così mi piace, e il terzo capitolo sarà,

Che abbiate a comandarmi con tutta libertà.
MAD.                Anch'io, se in qualche cosa potessi favorirla...

CON.                (Povera commissaria! Bisogna compatirla). (da sé)

MAD.                Starà molto da noi?

CON.                                               Sì, spero di fermarmi.

MAD.                Mi farà sempre grazia, se verrà a incomodarmi.

CON.                Ma voi vi confondete in vani complimenti.

I capitoli nostri saranno inconcludenti.
MAD.                Siccome sono avvezza legger continuamente,

Imparo i buoni termini, e me li tengo a mente.
CON.                Che leggete di bello?

MAD.                                                 Non mi ricordo più.

Leggo... come si chiama? Ah sì, il Fior di virtù.
CON.                Non avete commedie scritte sul stil moderno?

MAD.                Oh, che son tanto belle! le ho lette quest'inverno.

Ma non erano mie: se le potessi avere!
CON.                Le farò venir io.

MAD.                                          Mi farà ben piacere.

CON.                Sì, scriverò in Venezia.

MAD.                                                     Scrive a Venezia? Aspetti.

Faccia venire ancora un poco di fioretti.
CON.                Ben volontieri.

MAD.                                          E... senta. Potria coll'occasione

Ordinar dell'argento per una guarnizione:

Dieci o dodici braccia. Me lo farà mandare?
CON.                (Eh, per la prima visita mi posso contentare). (da sé)

Dirò, l'argento, i libri, i fiori, tutto insieme

Farà troppo volume.
MAD.                                                 Dei libri non mi preme.

CON.                Sentite, mia signora, voglio parlarvi schietto,

Per darvi un certo segno d'amore e di rispetto.

Son cavalier, son tale che il suo dover lo sa;

Che comandiate, ho detto, con tutta libertà.

Ma son uom capriccioso. Godo infinitamente

Che giungano le cose così improvvisamente.

Vedrò quel che vi piace, con animo di farlo,

Senza che vi prendiate fastidio a domandarlo.
MAD.                Oh, non son io di quelle che usano domandare.


Il cielo me ne guardi. Non saprei come fare.

Quello che mi bisogna, me lo fa mio marito;

Saran due settimane, che mi comprò un vestito.

Manca la guarnizione; vedrà ch'è necessaria;

Ma non domando niente, non son sì temeraria.
CON.                (A far i complimenti non ha molto imparato,

Ma per tirar dei colpi pare un libro stampato). (da sé)
MAD.                Lo vuol veder quest'abito?

CON.                                                           Lo vederemo poi.

Or, madama carissima, mi basta veder voi.
MAD.                Vede poco di buono.

CON.                                                 Eh, vedo un occhio scaltro.

Vedo, o di veder parmi (credo non ci sia altro).
MAD.                Come sta di amorose, signor Contino mio?

CON.                Non son ventiquattr'ore, che libero son io.

MAD.                Caspita, il ferro è caldo!

CON.                                                         Un ferro indebolito

Da voi più facilmente può essere colpito.
MAD.                Se potessi rispondere!

CON.                                                    Dite, son preparato.

MAD.                Direi che dall'amore il ferro è logorato.

CON.                Cospetto, questa frase è affatto romanzesca.

MAD.                Che crede, mio signore? Anch'io son Petrarchesca.

CON.                Sapete far sonetti?

MAD.                                              Oh sì, signore, in letto.

CON.                (Costei ha dello spirito. Ci ho gusto, ci ho diletto).

Il signor de' Martini vien da voi?
MAD.                                                                    No, signore.

Sarà, che non ci viene…
CON.                                                         Quanto sarà?

MAD.                                                                             Sei ore.

CON.                Madama, vi ho capito. Non siete sempliciotta.

E se il mio ferro è caldo, il vostro ferro scotta.
MAD.                Non lo voglio più certo quel prosontuoso ardito.

CON.                Che cosa vi ha egli fatto?

MAD.                                                        Ecco qui mio marito.

SCENA OTTAVA Il Commissario e detti.

CON.                Oh signor commissario, di grazia, si contenti (s'alza)

Gli faccia i miei divoti sinceri complimenti: A lei che tanto stimo, permetta che offerisca Servitù senza fine, e ch'io lo riverisca.

COMM.            Signor, troppo mi onora, venendo in queste soglie

favorir la casa, a favorir mia moglie. S'accomodi, la prego, la prego, signor mio.

CON.                Ella vuol star in piedi? (il Conte vuol prendere la sedia)


COMM.                                                Sederò un poco anch'io. (il Commissario la prende da sé, e

siedono)

Cosa abbiamo di nuovo delle cose del mondo?
CON.                Io colle novità davver non mi confondo.

La novità che stimo, in questo dì felice,

È l'amicizia vostra.
MAD.                                              Oh signor, cosa dice?

Nostro onor che si degni venire in questi quarti.
COMM.            Da brava, commissaria, fate voi le mie parti.

CON.                Gentil moglie e marito. Dite, signor, vi prego,

È molto che godete l'onor di quest'impiego?
COMM.            Il triennio è vicino a terminar ben presto.

E non so dir poi dopo, se resto o se non resto.

Si aspetta il feudatario da noi, oggi o domani:

Vorrei mi confermasse; ciò sta nelle sue mani.

Ma ho dei nemici molti: con arte e con malizia

Hanno disseminato ch'io vendo la giustizia.

Ciò non è ver, credetelo. Non sono interessato;

Ma siamo malveduti da tutto il marchesato.

Mia moglie, ch'è la donna più amabile del mondo

L'invidiano, l'invidiano quei di Castel Rotondo.

Dicono i maldicenti quel che lor viene in bocca;

Ed è la mia rovina, se andarmene mi tocca.

Oggi o doman si aspetta il nostro feudatario.

Signor, non vorrei essere ardito e temerario:

Altri che voi non puote far che il signor Marchese

Voglia un altro triennio tenermi nel paese.

Vi prego, signor Conte, di questa grazia, e poi...

Signora commissaria, pregatelo anche voi. (da sé)
CON.                (Oh, son bene impicciato!) (da sé)

MAD.                                                          Non ho merito alcuno...

CON.                Voi meritate molto.

COMM.                                           Signor Conte, io son uno (si alza)

Che non può lungamente parlare, e star seduto.

Mi raccomando, e basta. Vi abbraccio e vi saluto. (parte)

SCENA NONA Madama Graziosa ed il Conte.

CON.

(Son venuto in buon'ora). (da sé)

MAD.

E ben, sperar potrò

Che parliate al Marchese?

CON.

Signora, io parlerò.

MAD.

Si vederà da questo, se siete un vero amico.

CON.

(Ho da cercar fastidi, io che ne son nemico?

Basta, ci sono). (da sé)

MAD.

A dirla, poco lei mi consola.

CON.

Son cavalier, madama, vi do la mia parola.


Parlerò col Marchese con forza e con impegno Sol della grazia vostra per rendermi più degno. Faccio però lo sforzo maggior di vita mia: Son uno che mi piace la quiete e l'allegria.

MAD.                Oh caro signor Conte, non dubiti niente;

Staremo, in avvenire, staremo allegramente. Da me non averete altri fastidi al mondo.

CON.                Io penso a viver quieto, a vivere giocondo.

SCENA DECIMA Il signor De' Martini finanziere, e detti.

MART.

Si può venir? (di dentro)

CON.

Chi è questi?

MAD.

Costui più non lo voglio.

È il signor de' Martini.

CON.

(Oh, questo è un bell'imbroglio!)

MART.

Servo di lor signori.

CON.

Servitore obbligato.

MART.

Favorite: don Mauro, signor, non vi ha parlato?

CON.

Di che dovea parlarmi?

MART.

D'un certo non so che.

Che v'interessa voi, questa signora, e me.

MAD.

Oh signor de' Martini, vi dico apertamente,

Che qui non mi venite a far l'impertinente.

Finor, se vi ho sofferto, sapete come fu.

Ve lo ridico in faccia, non ci venite più.

MART.

Oh cospetto!...

MAD.

Portate rispetto al commissario.

Tocca a voi, signor Conte, punir quel temerario. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Il Conte ed il signor De' Martini.

MART.

Voglio soddisfazione.

CON.

(Orsù, questa non è

Casa, per quel ch'io vedo, da frequentar da me). (da sé)

MART.

Farmi un affronto simile? A me codesta azione?

CON.

Quietatevi, signore.

MART.

Voglio soddisfazione.

CON.

Ehi, signor de' Martini, zitto, che siamo in due;

Ognuno in questo caso può far le parti sue.
Ma io coi pari vostri, se von soddisfazione,
Zitto, signor Martini, adopero il bastone.
MART.              Vossignoria illustrissima non sa quel che m'han fatto.


CON.                Per me vi parlo schietto, non vo' diventar matto;

Non vo' scaldarmi il sangue; di core ve lo dico, Se posso compiacervi, vi sarò buon amico. Soffrite un giorno solo lontan da questo tetto, E poi la casa libera lasciarvi io vi prometto.

MART.              Perché un giorno lontano?

CON.                                                           Candidamente io parlo;

Son corso in un impegno, e voglio consumarlo. A momenti s'aspetta che venga il feudatario Promesso ho di parlare a pro del commissario. Puol esser che una volta qui di venir m'accada, E finché ci son io, vossignoria sen vada. Dopo, vi torno a dire, tornate francamente; Ve lo prometto e giuro, non m'importa niente.

MART.              Ritornerò domani.

CON.                                               Bene, ma intanto andate.

MART.              Aspetto il commissario.

CON.                                                      No, qui non l'aspettate.

MART.              Servitor umilissimo.

CON.                                                 Amico, vi son schiavo

MART.              Non son uom di paura, ma ho del rispetto. (parte)

CON.                                                                                     Bravo.

Dice bene il proverbio, lo provo in questo giorno: Alfine s'infarina, chi del mulin va intorno. Dai oggi, dai domani, cambia, ricambia amori, Alfin si trovan quelli che costano sudori: Impegni con signori, impegni con amanti, Pericolo alla vita, pericolo ai contanti. Per me, che son nemico di affanni e di tormenti, Sta volta ho ritrovato buon pan per i miei denti. Mi consolo per altro, che durerà per poco: Grand'acqua non ci vuole per spegnere il mio foco. Basta che trovi ostacolo alla mia pace vera, Mi accendo la mattina, son libero la sera. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA La Marchesa Ippolita, poi Don Mauro.

IPP.                   Eppur si danno al mondo dei colpi stravaganti.

Nascono delle cose non prevedute innanti.

Chi mai creduto avria, che avesse ad arrivare

Quel diavolo del Conte a farmi sospirare?

Eppure a mio dispetto, da poco tempo in qua,

Provar questa mi tocca graziosa novità.

Ho detto cento volte, ch'io non sarei sì pazza

Amar un che superbo le femmine strapazza.

Conosco, so benissimo ch'è un spirito volante,

Un cuore che non fissa, un animo incostante.

Eppur, ch'il crederebbe? eppure, a mio dispetto,

Mi ha fatto innamorare, che tu sia maladetto.

Ma che sperar poss'io da questo amor novello?

Vedermi, se mi spiego, piantata in sul più bello.

Ho una ragazza a fronte, ch'è prima in pretensione,

Ho il dubbio d'esser posta dal Conte in derisione;

E poi ho questa bella testaccia mamalucca, (vedendo venire don Mauro)

Che a forza di finezze mi stucca e mi ristucca.
MAU.                Posso? (in distanza)

IPP.                               Non è padrone?

MAU.                                                     Permette la signora? (avanzandosi un poco)

IPP.                   A far tre passi e mezzo ci metterete un'ora?

MAU.                Allor quando mi accosto... a quel vezzoso ciglio,

Io tremo, sì signora... qual timido coniglio.
IPP.                   Ma don Mauro carissimo, voi lo sapete pure,

Che sono inimicissima di tai caricature.
MAU.                Eh Marchesa, Marchesa! Se dir quello che bramo...

Potessi apertamente... Volete che sediamo?
IPP.                   Tutto quel che vi piace.

MAU.                                                     Vezzosa compiacenza! (caricato va per le sedie)

IPP.                   (Con questo seccatore ho una gran sofferenza!)

MAU.                Eccone una.

IPP.                                        Bravo. Via, siate svelto e lesto.

MAU.                Ecco qui. Sì signora... Ah, non ho fatto presto?

IPP.                   Bravissimo.

MAU.                                   Per voi, se fossi in alto, in alto...

Sollecito saprei precipitar d'un salto.

Ah! che vi par?
IPP.                                             Così. Dir presto la parola.

MAU.                Sì, mi farò prestissimo sotto la vostra scuola.

Oh! venendo al proposito... sì signor... son venuto...

E però... vorrei dire... e non è che un tributo...

Perché... sono avanzato... ma sono... di buon core...


Come vedete alfine... e posso... sì signore...

Non so se mi capite.
IPP.                                                    Poco.

MAU.                                                          Mi spiegherò.

Non ho mai... preso... moglie. E parenti non ho...

La nipote... ma presto... sì signore... anderà...

Io... sì signore... alfine ho delle facoltà.

I cinquanta non sono... e il medico mi ha detto...

Sì signore... mi ha detto... e non ho certo aspetto...

Vi son di quei che sono, sì signore, in età;

Ma io... grazia del cielo... ch'è poi la sanità.

Eh, non si parla... Basta... concludo... Se volete...

Per esempio... potrebbesi... Sì signora... intendete?
IPP.                   Signor, per vostra regola, vi dico e vi avvertisco,

Che più che mi parlate, io meno vi capisco.
MAU.                Toh! toh! sarà possibile? Questo mi riesce amaro.

Sono un poco confuso... ma... parlerò più chiaro.
IPP.                   (Già so che mi vuol dire lo sciocco innamorato).

MAU.                Principiamo da capo. (Sono un poco imbrogliato).

Oggi saran tre anni...
IPP.                                                    Ma via, don Mauro caro,

Quel che volete dirmi, ditelo presto e chiaro.
MAU.                (Sta un poco guardandola senza parlare, poi dice)

Questo termine caro... che voi mi avete detto,

Lo dite, sì signora... per burla, o per affetto?
IPP.                   Non ardirei burlare un uomo come voi.

MAU.                Eh! (sospira, e si accosta un poco più colla sedia)

IPP.                        Che avete, don Mauro?

MAU.                                                          Orsù, venghiamo a noi.

IPP.                   Via, presto.

MAU.                                   Son tre anni

IPP.                                                           Che cosa?

MAU.                                                                        Che vi adora...

IPP.                   Ma chi?

MAU.                           Quel che vi ama...

IPP.                                                           Siete voi?

MAU.                                                                        Sì, signora. (vergognandosi)

IPP.                   Vi dirò...

MAU.                                Ma di grazia, due parolette sole.

IPP.                   Perché andar per le lunghe?

MAU.                                                             Mi spiccio in due parole.

Vorrei...
IPP.                                 Cosa?

MAU.                                       Vorrei...

IPP.                                                         Essere mio marito?

MAU.                Sia ringraziato il cielo... che mi avete capito.

IPP.                   Avete altro da dirmi?

MAU.                                                 Eh, ci sarebbe ancora...

IPP.                   Volete ch'io risponda?

MAU.                                                   Se vi par... sì signora.

IPP.                   Voi mi onorate troppo, signor don Mauro amabile,


Credendomi una donna che sia desiderabile.

Avete, lo confesso, un merito perfetto;

Siete di bella età, siete di bell'aspetto. (don Mauro si accosta un poco più colla

sedia)

Per beni di fortuna siete un ricco signore,

E avete alla fortuna un animo maggiore.

Cento donne vorriano aver per loro sposo

Un uom così ben fatto, un uom sì generoso. (don Mauro s'accosta)

Ma in quanto a me, signore, vi svelo i pensier miei;

Parlo libera e schietta, io non vi piglierei. (don Mauro si ritira un poco)

Voi siete un uom flemmatico, io son donna furiosa.

Voi siete un uom pacifico, io son troppo stizzosa. (vuol ritirarsi don Mauro)

È ver che si suol dire, che il troppo unito al poco

Può moderar sovente gli estremi a poco a poco;

E voi col vostro gelo scemando in me il bollore,

Scioglierebbe il mio caldo il gel del vostro cuore. (don Mauro s'accosta)

Ma tutti due faremmo una fatica estrema,

Ed al pensarvi solo, sento che il cuor mi trema.

Onde, signor don Mauro, parlo liberamente,

Meglio per voi, per me, sarà non ne far niente. (don Mauro si scosta)

Siete voi persuaso di mia sincerità? (don Mauro si va strofinando in faccia)
MAU.                Non troppo.

IPP.                                      Riflettete.

MAU.                                                   Non mi persuaderà.

IPP.                   Sareste voi contento d'una consorte altiera?

MAU.                Perché no?

IPP.                                      D'una donna, per esempio, ciarliera?

Che a una parola vostra ne rispondesse sei?

Che spesso andasse in collera?
MAU.                                                                 Io non le baderei.

IPP.                   Una che far volesse in casa da padrona,

Disporre a suo talento?
MAU.                                                     Quando non mi bastona...

IPP.                   E voi non gridereste, sentendo ad ogni articolo

Oppor contraddizioni?
MAU.                                                     Gridar? non vi è pericolo.

IPP.                   Ma io, quando mi prende la bile, vado giù;

E quando non rispondono, vo in collera di più.
MAU.                Questo qui è il più difficile; gridare è il mio tormento.

Potrei, per darvi gusto, gridar per complimento.
IPP.                   (Un uom miglior di questo trovar io non potrei).

MAU.                Io son un, sì signore... che bado a' fatti miei.

Mi piace il vostro volto... per voi ho dell'affetto;

Non crederei voleste gridare anche nel letto.
IPP.                   Perché no? può arrivarmi là ancor qualche impazienza.

MAU.                Eh, dovrei, sì signore, soffrirlo con pazienza.

IPP.                   (Questi, per dir il vero, è un uomo estraordinario). (da sé)

SCENA SECONDA


Il Servitore e detti.

SER.                  Signore, in questo punto è giunto il feudatario.

MAU.                Il marchese Fernando? Che farne io non saprei.

SER.                  E ho inteso dir, che venga ad alloggiar da lei.

MAU.                Da me?

SER.                             Perché il palazzo, dicono, è rovinato.

MAU.                Oh signor feudatario, gli son bene obbligato. (con caricatura)

IPP.                   Signor, vi fa un onore. Non convien disprezzarlo.

MAU.                Quest'onor, sì signore, poteva risparmiarlo.

Sto qui con libertà; son uno che mi piace

Gli amici confidenti godermeli con pace.

E poi, cara Marchesa, ho altro in capo, affé.

Sono un poco confuso, e sapete perché.
IPP.                   State allegro, don Mauro, che non si può sapere,

Fino che siamo vivi, quel che ci può accadere.
MAU.                Ah furbetta, furbetta! Va dal mastro di casa;

Digli che faccia lui... che accomodi la casa.

Che la tavola... basta... avvisato non fui.

Digli che, sì signore... digli che faccia lui...

Eh... di' alla governante... che mettermi vorrei...

Che tiri fuori un abito... digli che faccia lei.
SER.                  E circa alla credenza vuol qualcosa di più?

MAU.                Credenza? sì signore... direi... basta, fa tu.

SER.                  (Parte)

IPP.                   Fa tu? Deve il padrone vedere i fatti suoi.

Se fossi vostra moglie…
MAU.                                                        E ben, fareste voi.

IPP.                   (Oh che marito amabile!)

MAU.                                                          Ehi, mi par di sentire.

IPP.                   Arrivano le sedie, andatevi a vestire.

MAU.                Andrò... basta, vorrei... Sì signor, risolvete.

Via, penar non mi fate... Già so che m'intendete. (parte)

SCENA TERZA

La Marchesa Ippolita.

MAR.                Non vi è meglio di lui, se si fa fare apposta,

Ma io con tutto questo non sentomi disposta. Lo so, lo so chi è il Conte; pur di buon occhio il veggio. Disse pur ben, chi disse che ci attacchiamo al peggio. Ma l'occhio che lo guarda, è un occhio traditore, E terrò bene in guardia contro gli sguardi il core; Ché si fa presto a dire un sì senza consiglio, Che forma eternamente di femmina il periglio. Vuol divertirsi il Conte? Ben, mi diverto anch'io.


L'amor suo è passeggero? tal sia con esso il mio.

Vien l'amica: non so, se sia pacificata.

Voglio spiar qua intorno, girando inosservata. (parte)

SCENA QUARTA Donna Bianca ed il signor Alberto

ALB.                 Mo cara donna Bianca, ghe l'ho pur dito avanti,

El Conte no vol smorfie, el Conte no vol pianti.

La me dise, Signor, non piango, vel prometto;

E po ghe vedo sempre ai occhi el fazzoletto.
BIA.                  Se foste nel mio caso! Basta, mi sforzerò.

Ma il Conte non si vede? Dove sarà?
ALB.                                                                            Nol so.

(El sarà a far el matto, sto sior senza giudizio).
BIA.                  Eh, questo suo ritardo è un bruttissimo indizio.

Voi con belle parole badate a speranzarmi,

Ma il cuor mi fa temere, né il cuor suol ingannarmi.
ALB.                 Mo za, vualtre donne gh'avè sta fantasia,

Che el cuor ve diga tutto: oh che malinconia!

Voleu che mi ve spiega cossa che xe sto cuor,

Che dise e che desdise, segondo el vostro umor?

In ogni dubbio evento se sente per natura

Un poco de speranza, un poco de paura.

Co vien la bona nova d'una felicità,

Se dise per usanza, el cuor l'ha indovinà.

Co vien la nova trista, oimè, mortificada,

Se dise, ah che el mio cuor me l'ha pronosticada.

Onde succeda pur quello che el ciel destina,

El cuor l'ha sempre dito, e sempre el l'indovina.
BIA.                  Un segno è il non vederlo, che meco ha dello sdegno.

ALB.                 Quando ch'el vegnirà, sarà finio sto sdegno.

BIA.                  Vedrete, che in tutt'oggi il Conte non verrà.

ALB.                 Via, cossa vederoggio? La toga; eccolo qua. (osservando fra le scene)

BIA.                  Oimè! nel rivederlo... (si pone il fazzoletto agli occhi)

ALB.                                                    Oh, la me fa un despetto!

Vorla zogar... debotto ghe sbrego el fazzoletto...
BIA.                  Non piangerò, vel giuro, vo' soddisfarlo in questo:

Non abbia di sdegnarsi sì debole pretesto.

Farò quanto potrò, per vincere un ingrato.
ALB.                 (Poverazza! Se vede, che la gh'ha el cuor ben fato).

SCENA QUINTA Il Conte e detti.


CON.

(Non trovo poi di meglio di donna Bianca).

ALB.

Oh, oh!

Ben vegnudo, sior Conte.

CON.

Eccomi, chi mi vuò?

BIA.

Né anche un saluto a me?

ALB.

Una finezza gnanca?

CON.

Son servitor divoto. Come sta donna Bianca?

BIA.

Bene, sien grazie al cielo. E starò meglio ancora,

Se sono in grazia vostra.

ALB.

Sentìu? (al Conte)

CON.

Oh mia signora!

ALB.

Oh signora, signora! Cossa andeu signorando?

No me fe stomeghezzi; molèghe, o che ve mando.

CON.

Donna Bianca sa bene, per lei se ho dell'affetto.

BIA.

Trattenermi non posso. (mette il fazzoletto agli occhi)

ALB.

Mo zo quel fazzoletto. (piano a donna Bianca)

CON.

Ma le sarà anche noto il mio temperamento,

Che il sospettare a torto suol fare il mio tormento;

E credere non posso, che vantisi d'amarmi

Chi senza fondamento congiura a tormentarmi.

Io son di un cuor sì tenero, che i pianti, che i sospiri

Mi toccano le fibre, mi portano ai deliri;

E per non comparire ridicolo ed insano,

Fo sforzi di natura, mi struggo e mi allontano.

ALB.

Séntela? (a donna Bianca)

BIA.

Non credeavi, signor, sì bilioso.

ALB.

Da cosa vien sta bile? Da un cuor che xe amoroso. (a donna Bianca)

No xe vero? (al Conte)

CON.

Sì certo; ho un cuor di una tal pasta...

Sono sì delicato... non sta a me dirlo... basta.

ALB.

Qua no ghe xe bisogno de barattar parole.

Vu disèghene cento, ghe ne voi dir do sole.

Ghe voleu ben, sior Conte?

CON.

Altri che lei non amo.

ALB.

Ghe voleu ben, patrona?

BIA.

Altri che lui non bramo.

ALB.

Donca non occorr'altro. Son un amigo onesto.

Mi ho fatto el mio dover: tocca a vualtri el resto.

SCENA SESTA

Il Conte e Donna Bianca.

CON.                Avete ancor scacciato dal sen quel rio timore,

Che mi tormenta l'anima?
BIA.                                                            Parlate con amore.

Voi siete di cuor tenero io non l'ho men flessibile;

E poi son donna alfine, di voi più compatibile.

Se tanto non vi amassi, sarei men tormentosa.


Amor mi fa stucchevole, amor mi fa sdegnosa.
Veder sugli occhi miei... ma via, non vo' annoiarvi.
Che non farei meschina, affin di soddisfarvi?
Voi siete il primier uomo, onde ad amare ho appreso:
Voi mi avete nell'anima il primo foco acceso.
E se da voi pretende la ricompensa il cuore,
Sdegno non è che il chiede; ve lo domanda amore. (piange)
Ah, signor, perdonate, se il lagrimar vi spiace.
CON.                No, cara, un pianto tenero è un lagrimar che tace. (restano un poco ammutoliti)

SCENA SETTIMA La Marchesa Ippolita e detti.

IPP.                   L'amor, per quel ch'io vedo, li fa dormir nel foco;

La carità m'insegna, che li risvegli un poco. (da sé, in distanza)
CON.                (Non so che dir; non trovo ragion per iscusarmi). (da sé)

IPP.                   Vi son serva, signori; è permesso avanzarmi?

BIA.                  Il luogo è tanto pubblico, che può venir chi vuole.

IPP.                   Ma perché, quando io vengo, sospender le parole?

Avete soggezione di me? Mi fate torto.

Vi farò da piloto per affrettarvi al porto.

Che non farei, amica, per non vedervi in duolo?

E per il signor Conte, ch'è tanto buon figliuolo?
CON.                Eh! la marchesa Ippolita sempre è bizzarra almeno.

BIA.                  Già non si può nascondere, quel che si chiude in seno.

Ognun sa che ci amiamo; e la Marchesa anch'essa

Tinta non sarà meno da questa pece istessa.
IPP.                   Come? credete voi, che ami il Contino anch'io?

BIA.                  Oh, non è ciò che intendo di dir col labbro mio.

Non vi è altri nel mondo? Ma chi scusar si suole

Fa veder che si sente toccar dove gli duole.
IPP.                   Se davver mi dolesse, pianger farei pur tanto!

BIA.                  Eh! chi sa che per voi qualcun non abbia pianto?

CON.                Signore mie...

IPP.                                           Codesto sarebbe troppo onore

Per me, che non ho merito.
BIA.                                                            Un bell'onor!

CON.                                                                                Signore.

Possibil che non possano darsi due donne unite;

Senza che si promova motivo d'una lite?
IPP.                   Caro Conte garbato!

BIA.                                                   Io sono in casa mia.

Non vo a insultar nessuno.
IPP.                                                              Signora, anderò via.

Se qua sono venuta, quasi a dispetto mio

Mi fe' quel seccatore venir di vostro zio.

A me, grazie alla sorte, da villeggiar non manca,

Senza un tale rimprovero soffrir da donna Bianca.


E se mi cal d'amanti, ce n'è penuria al mondo?

Se perduto ho un marito, non troverò il secondo?

È il Conte un amorino? È un principe d'altezza?

È l'idolo de' cori, l'idea della bellezza?

È tal che non lo stimo, e glielo dico in faccia.

Tenetelo, godetelo; per me, buon pro vi faccia.
BIA.                  Rispondervi non lice a una fanciulla onesta.

IPP.                   Oh oh, se non avete altra ragion che questa!

CON.                Se vi siete sfogata, posso sperare adesso,

Che mi sarà, madama, rispondervi concesso.

Son un che non mi stima la signora Marchesa.

Quello che dir s'intenda, non l'ho per anche intesa.
IPP.                   Non occor che mi spieghi.

CON.                                                           Son un che non mi stima.

Quando così si parla ci si riflette in prima.

Saprà che la mia casa non cede in nobiltà

A quelle che sostengono l'onor della città.

Non son prence d'altezza, ma il feudo ch'io possedo

Ha tale indipendenza, che a un principe non cedo.

Non sono un amorino, né l'idolo de' cuori,

Ma non penai gran cosa a mendicar favori.

E per mia gloria somma, so che di me s'è accesa,

Fra tante e tante dame, la signora Marchesa.
IPP.                   Io? Mentite.

CON.                                   Una donna, sia semplice, sia ardita,

A un uom impunemente può dare una mentita.

Rispondervi saprei; ma taccio, e non m'impegno.

Con femmine mi scaldo per altro che per sdegno.
IPP.                   Se fossi a testa a testa, io vi risponderei.

Deggio tacer per ora. Scaldatevi con lei. (adirata accennando donna Bianca; e

parte)

SCENA OTTAVA Donna Bianca ed il Conte.

BIA.                  Certo mi duol nell'anima, caro Contino amato,

Che voi per colpa mia vi siate inquietato.
CON.                Non m'inquietai per questo. Distinguere conviene

L'ingiuria di parole dal labbro donde viene.

Una donna adirata può dir quel che le pare;

Il sangue per sì poco non vogliomi guastare.
BIA.                  Per lei non vi adirate, che tanto disse e tanto;

Ed io vi movo a sdegno perfino col mio pianto?
CON.                Questa è la differenza, questo è d'amor il segno.

Con donna che non amo, di dentro non mi sdegno.

E se di voi mi accende un gesto, una parola,

Provien perché v'adoro teneramente e sola.
BIA.                  Quando è così, perdono a tutte le vostr'ire.


CON.                (In balsamo il veleno è ben di convertire). (da sé)

SCENA NONA

Frugnolo lachè, e detti.

FRU.                 Signor.

CON.                            Che cosa vuoi?

FRU.                                                       È giunto il feudatario.

CON.                Lo so.

FRU.                 Dice la moglie del signor commissario...

CON.                Va via.

BIA.                              Che cosa dice? Madama che comanda?

CON.                Vattene.

FRU.                               Al signor Conte di cuor si raccomanda.

CON.                Non vuoi andar?

FRU.                                           Signore

CON.                                                         Altro sentir non voglio.

FRU.                 Basta; le sue preghiere vi manda in questo foglio. (mostra una lettera)

CON.                Recalo a chi tel diede.

BIA.                                                     Eh, diamogli un'occhiata. (vuol prender la lettera)

CON.                Eh maladetto il foglio, il messo e l'imbasciata. (straccia la lettera, e la getta in

faccia a Frugnolo)
BIA.                  Or che vi vedo acceso d'insolito furore,

Signor, quel che vi accende, ditemi, è sdegno o amore?
CON.                Vorrebbe ch'io parlassi al marchese Fernando.

BIA.                  Sarà, me lo figuro, di madama un comando.

CON.                È il marito, che chiede d'essere confermato.

BIA.                  Ma vi averà, m'immagino, madama supplicato.

CON.                Di queste seccature non curo, e non ne voglio.

BIA.                  Avete fatto male a lacerar quel foglio.

CON.                Non l'avrei lacerato, se stima io ne facessi.

BIA.                  Potreste averlo fatto, perch'io nol leggessi.

CON.                Ecco un sospetto nuovo.

BIA.                                                          E senza fondamento. (ironica)

CON.                Eccoci qui da capo col solito tormento.

BIA.                  Povera me! (piange)

CON.                                   Piangete?

BIA.                                                     Almen, se mi tradite,

Lo sfogo delle lagrime, crudel! non m'impedite.

Non vi è tiranno al mondo, legge non vi è sì dura,

Che vietare ardisca gli effetti di natura.

So che non dovrei piangere, so che sfuggir dovrei

Un barbaro, che gode tradir gli affetti miei;

Ma sia l'inutil sdegno, sia debolezza o amore,

Le lagrime non posso racchiudere nel cuore.

Tutto quel che far posso, in segno di rispetto,

Si è togliervi dagli occhi un odioso oggetto.

Perché dal pianto mio non siate tormentato,


Andrò da voi lontana ad isfogarmi, ingrato! (parte)

SCENA DECIMA

Il Conte solo.

CON.                Venga l'intrepidezza a confortarmi adesso.

Povera donna Bianca! Ho rossor di me stesso. Che cerchi, che procuri il mio piacer, sta bene, Ma non coll'altrui pianto, ma non coll'altrui pene. Il titolo di barbaro, il titolo d'ingrato, Esaminiam noi stessi, cuor mio, l'hai meritato? Di quante donne al mondo, di quante donne amai, Di questa la più tenera, lo so che non trovai. Merita ben che ad essa sagrifichi l'amore... Ah, dovrò finalmente sagrificarle il cuore? Il cuor che sì geloso serbai per me finora, Cedere ad una donna? No, non lo cedo ancora. Dubbio mi resta in seno, che il pianto, che i sospiri Sien arti, sien lusinghe, sian sogni, sian deliri. E se ciò fosse, e un giorno tardi a pentir m'avessi? Maledirei le fiamme, abborrirei gli amplessi; Morirei disperato. Pace, mia cara pace, Deh non lasciarmi ancora per un desio fallace! Se d'una sposa al fianco pace goder si spera, Andiam la destra a porgere al laccio innanzi sera. Ma se la donna un giorno può fare il mio tormento, Pria di penar vivendo, voglio morir contento. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Giardino in casa di don Mauro.

Il signor Commissario, il signor De' Martini finanziere.

MART.              Signore, una parola. Vorrei saper perché

Madama vostra moglie tratta sì mal con me.
COMM.            Domandatelo a lei.

MART.                                            Che serve il domandarlo,

Se perdemi il rispetto allora ch'io le parlo?
COMM.            Madama non è donna di mala inclinazione.

Quando così vi tratta, avrà la sua ragione.
MART.              Non credo, per il tempo ch'io venni in casa vostra,

Che dolervi possiate dell'amicizia nostra.

Madama è onesta moglie, voi siete un onest'uomo,

Io sono un buon amico, io sono un galantuomo;

Ma temo che mi sieno fatti gl'insulti e l'onte,

Dacché si è in casa vostra intruso il signor Conte.
COMM.            Non dico che per lui voi siate il malveduto,

Ma dirvi la ragione deggio, perché è venuto.
MART.              Lo so, lo so il pretesto. Per esser confermato

Nel posto dal Marchese, a cui foste accusato.

Buono per tali uffizi me voi non giudicate?

Sapete ch'io riscuoto di lui tutte le entrate.

Sapete che del feudo ho in man tutto il maneggio.
COMM.            Amico, tutto questo lo so; ma so di peggio,

E per ben vi avvertisco. Sentito ho a mormorare,

Che vogliavi il Marchese dal feudo licenziare.
MART.              Perché?

COMM.                           Perché voi pure siete da gente trista

In faccia del padrone messo in pessima vista.
MART.              Che ponno dir?

COMM.                                      Si dice... compatitemi, amico,

Non credo che sia vero; ma quel che sento, io dico.

Si dice che il contratto, che feste col Marchese,

Gli ruba almeno almeno un terzo del paese,

E che per tal ragione sia nullo l'istrumento.
MART.              Gli si potrebbe fare un qualche accrescimento.

So di non esser reo, potrei giustificarmi:

Ma cosa più espedita saria l'accomodarmi.
COMM.            Trovate un qualche mezzo.

MART.                                                           Di chi potrei servirmi?

Se il Conte vostro amico volesse favorirmi...
COMM.            Oh, io non gliene parlo, e poco non sarà,

Se appresso del Marchese per me s'impiegherà.
MART.              Se madama volesse...


COMM.

Ha da pensar per lei.

MART.

Cento doppie di Spagna sagrificar vorrei.

COMM.

Sol perché gli parlasse?

MART.

Oh no, non son sì matto;

Cento doppie darei, sì, ma a negozio fatto.

COMM.

Si può veder.

MART.

Mi pare... (osservando fra le scene)

COMM.

Il Conte è quel che viene.

MART.

So che è un buon cavaliere, che inclina a far del bene.

Perché gli parli, il caso mi guida in queste soglie.

COMM.

No, sospendete, amico; gli parlerà mia moglie.

MART.

(Al suono delle doppie facile lo trovai). (da sé)

COMM.

(Cento doppie di Spagna non le ho vedute mai). (da sé)

SCENA SECONDA Il Conte e detti.

CON.                (Il commissario è qui, so che vorrà seccarmi.

Diedi la mia parola. Difficile è il sottrarmi). (da sé)
COMM.            Servo del signor Conte.

MART.                                                   Servitore divoto.

COMM.            È giunto il feudatario, credo vi sarà noto.

CON.                Sì, signor, l'ho veduto. Si è desinato insieme.

COMM.            Tanto meglio. Sapete, signor, quel che mi preme.

Anzi al rispetto mio, che protettor vi chiama,

I complimenti ancora unisco di madama.
CON.                Ringraziate madama; ditele che perdoni,

Se non verrò da lei, perché ho le mie ragioni.
COMM.            Siete padron di casa, quando venir vogliate.

MART.              Oggi, domani e sempre, quando vi piaccia, andate.

CON.                Se andar io vi volessi, non prenderei consigli. (al signor de' Martini)

COMM.            Signor Conte amatissimo, vicino è il mio periglio.

MART.              Anche di me, signore, che sono uomo onorato,

So che il signor Marchese è male impressionato;

E per repristinarmi nel cuore del padrone

Ardisco d'implorare la vostra protezione.
CON.                Oh, il signor de' Martini parla assai civilmente,

II solito suo caldo calmò placidamente.
MART.             Ognuno è sottoposto a dei trasporti insani.

Signor, d'un cavaliere mi getto nelle mani;

Lo so quanto si estende la vostra autorità.
COMM.            Le grazie che chiedete, nessun vi negherà.

MART.              Non può perir chi gode la sua protezione.

CON.                (Se farlo mi riuscisse, ci avrei dell'ambizione). (da sé)

COMM.            Voi siete tal signore, da cui esser pregato

Sarà per il Marchese un onor segnalato.
MART.              E sa, che se una grazia oggi per voi dispensa,

Aver può in casi simili da voi la ricompensa.


CON.               Basta, parlar m'impegno. L'uno e l'altro sperate.

COMM.           Prima per me, signore. (piano al Conte)

MART.                                                 Prima per me parlate. (piano al Conte)

COMM.           (Cerco il mio ben. Di lui non me n'importa un cavolo). (da sé, indi parte)

MART.             (Mando per l'interesse la commissaria al diavolo). (da sé, indi parte)

SCENA TERZA Il Conte, poi il signor Alberto.

CON.

Quello che a un cavaliere può dar riputazione,

È il poter esser utile, venendo l'occasione.

A un mio nemico istesso, potendo, gioverei,

Per far parlar il mondo bene de' fatti miei.

Pensare in tal maniera chi mi sentisse adesso,

Direbbe il mio sistema amore di me stesso;

Ma quando all'altrui bene un tale amor mi porta,

Quand'utile si rende, la mia passion che importa?

ALB.

Sè domandà, sior Conte, de là in conversazion.

CON.

Donna Bianca dov'è?

ALB.

Sentada in t'un canton.

CON.

Osservaste, che a tavola non mi ha guardato in viso?

ALB.

Ho visto, e m'è arrivada sta cossa all'improvviso.

Da chi vienla, compare?

CON.

Zitto, nessun mi ascolta.

Dubito io d'averlo il torto questa volta.

ALB.

Contèmela, disème; son qua, se gh'è bisogno...

CON.

Oh, non vi dico niente.

ALB.

No? Perché?

CON.

Mi vergogno. (ridendo, e parte)

SCENA QUARTA

Il signor Alberto.

ALB.                 El ride, el se la gode, ghe par divertimento

Far desperar le putte. Che bel temperamento! Se mi colla morosa savesse d'aver torto, E la vedesse a pianzer, sarave mezzo morto. Delle volte ghe penso, e digo tra de mi: Coss'è quel che diversi fa i omeni cussì? L'anima xe l'istessa, e pur l'operazion Dell'anima è diversa per varie inclinazion. I corpi? No xei tutti formadi d'una pasta? L'educazion, la scuola? La fa assae, ma no basta. I organi che forma sta macchina mortal, Xe quelli che produse diverso el natural.


No digo za che i sforza le operazion del cuor,

Ma i xe i princìpi veri del sdegno e dell'amor.

Lo so che la rason comanda da regina,

E alle passion resiste, dove la forza inclina;

Ma un omo che abbia fervido el sangue in ogni vena,

A superar la collera el sentirà più pena.

E un altro che no sia de fibre ben complesso,

El sarà per natura pacifico in se stesso.

E mi, che gh'ho le viscere che a tenerezza inclina,

Bisogna dir che gh'abbia le fibre de puina.

SCENA QUINTA

Madama Graziosa ed il sudetto.

MAD.                Signor, la riverisco.

ALB.                                                  (La tenerezza a monte). (da sé)

Padrona.
MAD.                              Mi sa dire, se ci sia il signor Conte?

ALB.                 El giera qua za un poco. Comàndela che el chiama?

MAD.                Sì signore.

ALB.                                 Ho da dirghe da parte de una dama?

MAD.                Come comanda lei; dica la commissaria.

ALB.                 (Adesso la cognosso. Una dama ordinaria). (da sé)

MAD.                La prego, perché ho fretta.

ALB.                                                           Se mai el me domanda,

Vorla che se ghe diga, cossa che la comanda?
MAD.                Vo' dirgli una parola.

ALB.                                                    La compatissa; a caso

La porla confidar? Za la sappia che taso.
MAD.                Voglio parlar con lui, caro signor garbato.

ALB.                 In verità in sto ponto me xe vegnù el mio flato.

No posso camminar, co me vien sto dolor.
MAD.                Ma io gli vo parlare.

ALB.                                                  L'aspetta un servitor.

MAD.                Voi non siete di casa?

ALB.                                                    Son ospite anca mi.

MAD.                Ospite!... Forastiere?

ALB.                                                  Giusto, cussì e cussì.

MAD.                Lo conoscete il Conte?

ALB.                                                       L'è stà qua fin adesso;

E po semo do amici che forma un cuor istesso.

Quel che sa lu, so mi; quel che mi so, lu sa.

La se pol confidar con tutta libertà.
MAD.                Volea dirgli una cosa.

ALB.                                                       Xela mo d'importanza?

MAD.                Sì: gli voleva dire, ch'è un uom senza creanza.

ALB.                 Fin qua me dago debito de dirghelo a pontin.

Ma la prego, per grazia, spiegarme sto latin.


MAD.                Fatemi voi giustizia, se siete quel che siete.

10  son la commissaria, questo già lo sapete.
ALB.                 Eh, lo so. (inchinandosi)

MAD.                                Or sappiate, che gli ho mandato un foglio

Per certa protezione, per via d'un certo imbroglio.

11 lacchè glielo porta di donna Bianca in faccia,
Ed egli, senza leggerlo, va in collera e lo straccia.
Oh, s'ero là presente, gli avrei menato un pugno.

ALB.                 (Adesso so el perché l'amiga ha fatto el grugno). (da sé)

Veramente l'ha fatto un'azion poco bona. La lassa far a mi; ghe parlerò, patrona.

MAD.                Ma fatemi la grazia almeno di chiamarlo.

ALB.                 Mo per cossa?

MAD.                                       Per niente. Solo per strapazzarlo.

Per dirgli impertinente, uomo senza rispetto, Senza riputazione, bugiardo e maledetto.

ALB.                 Crédela che el sia muto? El ghe responderia.

MAD.                Cosa potria rispondere, davanti a una par mia?

ALB.                 Che in fazza soa el tasesse, sperar se poderave;

Ma mi, se fusse in elo, so che responderave.

MAD.                Cosa direste voi, se foste nel suo caso?

ALB.                 Dirò per obbedirla; la senta se ghe piaso.

Diria, se fusse in elo: padrona reverita, La parla troppo franca, la parla troppo ardita. Se vede la so nascita dal so parlar istesso, E se de più no digo, che la ringrazia el sesso. Se ho strazzà quella lettera, ho avù le mie rason. Ste cosse le dissimula chi gh'ha reputazion. Se cerca con politica destruzer el sospetto, E no se vien in pubblico a perder el concetto. A matte de sta sorte la corda è necessaria. Servitor umilissimo, signora commissaria. (parte)

SCENA SESTA

Madama Graziosa sola.

MAD.                Era ben meglio assai parlar non lo facessi.

Non so come, in sentirlo, com'io mi trattenessi.

A una donna mia pari un simile strapazzo?

Con un matton, se passa sotto il balcon, l'ammazzo.

Vo' farlo andar prigione, vo' farlo processare,

Una querela falsa se credo d'inventare.

Ma se dal marchesato siam belli e licenziati,

Si vederanno in fumo tutti i disegni andati.

Senz'arte, senza posto, e poi senza quattrini...

Ah! manderò a chiamare il signor de' Martini. (parte)


SCENA SETTIMA

Sala.

Il Marchese Ferdinando e don Mauro, la Marchesa Ippolita sedendo da una parte, Donna Bianca più indietro sedendo; il Conte passeggia, qualche volta a lei accostandosi.

FER.                  Vi rinnovo, don Mauro, i miei ringraziamenti.

Scusatemi, vi prego.
MAU.                                                 Non so far complimenti.

FER.                  Venir qua d'improvviso qualche affar mi ha obbligato.

Sapete che il Castello è antico e rovinato.

Bastami aver da voi discreta abitazione,

La mensa non intendo di profittar.
MAU.                                                                      Padrone.

FER.                  Un uom quale voi siete, per onestà pregiato,

Onora il mio paese, onora il marchesato;

Dal sangue il vostro cuore dissimile non è.
MAU.                Conte, fatemi grazia rispondere per me.

CON.                Or men di voi capace sarei per complimenti. (passeggiando)

BIA.                  (Sol capace è l'ingrato di darmi dei tormenti). (da sé)

CON.                Oggi ho la testa mia di un insensato al paro. (passeggiando)

IPP.                   (Così ne fosse senza, che l'averei più caro). (da sé)

FER.                  Lasciam dunque da parte, caro don Mauro mio,

I complimenti inutili. Ne son nemico anch'io.

Ditemi, com'è andata quest'anno la ricolta?

Dell'uva in sulle viti speriam ne sia di molta?
MAU.                Dirò... l'uva quest'anno... può darsi... sì signore...

La stagione... ha piovuto... è maggiore e minore...

L'altr'anno s'è anche fatto si può sperar... così...

Con un poco di caldo... il vin... non s'incarì.

I contadini dicono ma... mi capisce... sono...

Eh, non ci sarà male... se ne farà del buono...

Oh, un buon bicchier di vino... un vin da galantuomo!

M'intende? sì signore... è la vita dell'uomo.
FER.                  (Fa un po' di pena invero. Ma! ognuno ha il suo difetto). (da sé)

IPP.                   (E mi vorresti in moglie, che tu sia benedetto!) (da sé)

MAU.                Permette?... (al Marchese)

FER.                                     Che vorreste?

MAU.                                                        Andar, con permissione.

FER.                  Potete accomodarvi.

MAU.                                                 (Son pure in soggezione). (da sé)

Già... ch'io il dica, o nol dica... Sì signore, benissimo...

Casa mia è casa sua... (dopo qualche pausa) Servitore umilissimo. (s'inchina per

andarsene)
FER.                  Il buon uomo!

MAU.                                       Marchesa... posso aver la fortuna... (accostandosi a lei)

Della grazia... di lei...
IPP.                                                       Andate via. (con qualche disprezzo, senza collera)

MAU.                                                                      (Ha la luna). (da sé, incamminandosi)


Cosa avete, nipote? State qui... poveraccia!

Vi duole qualche cosa? (accostandosi a donna Bianca)
BIA.                                                        Eh niente. (sospirando)

MAU.                                                                      (Uh che lunaccia!) (da sé, incamminandosi)

Voi l'avete la luna? (al Conte)
CON.                                               Pur troppo.

MAU.                                                                 Poverino!

Rimedio per la luna... sì signor... del buon vino. (ridendo parte)

SCENA OTTAVA Il Marchese, il Conte, le due Dame sedute, come sopra.

FER.                  Ma che fan queste dame, che paiono assonnate?

Spiacemi, mie signore, d'avervi incomodate.

Non so per qual cagione, colla presenza mia,

Sospendere vogliate la solita allegria.
BIA.                  Signor, son così sempre.

FER.                                                          La signora Marchesa

So pur che di buon cuore a ridere l'ho intesa.

Del vostro buon consorte fui buon amico anch'io.

(Ed ora questa vedova farebbe al caso mio). (da sé)
IPP.                   Signor, mi duole il capo.

FER.                                                          Basta, vi passerà.

Favoritemi voi, Conte, per carità.
CON.                Sono a' vostri comandi. (Or saria l'occasione

Opportuna di fargli la raccomandazione.

Se donna Bianca il sa, ne avrà del dispiacere:

Ma ho data la parola; alfin son cavaliere.

Farò che non mi senta). Signor, se non sdegnate,

Vo chiedervi un favore. (tirandolo in disparte)
FER.                                                       Sì, Conte, comandate. (piano)

CON.                Deggio raccomandarvi due vostri dipendenti.

Che son perseguitati per odio delle genti:

A pro del commissario ho di parlarvi impegno. (piano)
BIA.                  (Mostra curiosità di sapere)

FER.                  Voi in favor mi parlate d'un commissario indegno? (forte)

CON.                Dite piano. (guardando donna Bianca)

BIA.                                     Ho capito. (s'alza e parte)

CON.                                                    (Ho cento furie intorno). (da sé)

IPP.                   (Di gelosia la pazza possa crepare un giorno). (da sé)

FER.                  L'altro chi è? De' Martini? (al Conte)

CON.                                                           Sì signor, lo diceste.

FER.                  Non vi avreste impegnato, se voi li conosceste.

Uno della giustizia fe' mercatura infame;

L'altro per ingannarmi unì sordide trame.

Non son frivole accuse, che li hanno a me dipinti,

Sono con prove certe colpevoli e convinti.

Venni per discacciarli, e ciò per essi è poco;


Avran la loro pena dovuta in altro loco.
Da cavaliere onesto, signor, quale voi siete,
So ben che dal servirvi in ciò mi scuserete.
In altro comandatemi, di me siete padrone;
Ma indegni son coloro di vostra protezione.
CON.                Scusatemi, signore, vi credo e più non parlo.

(Per chi m'era impegnato così senza pensarlo! Ah, di rossor mi copre la vergognosa taccia Di facile, d'incauto, a un cavaliere in faccia). (da sé) Signor, non son contento, l'ardir di quei villani Se tardo, se non tento punir colle mie mani. A un cavalier mio pari formar simile inganno? Chi sia il Conte dell'Isola quei perfidi non sanno. Non è riuscito ancora ad uom di questo mondo, Far sì ch'io non vedessi d'un'impostura il fondo. Non son, grazie alla sorte, sì poco illuminato. Questa volta il confesso, sì, l'amor m'ha acciecato. (Vo' confessar piuttosto una mia debolezza, Anzi che mi si creda mancar per stolidezza). (da sé, parte)

SCENA NONA La Marchesa Ippolita ed il Marchese Ferdinando.

FER.                  Non so da che provenga l'idea di quel furore

Che l'anima a tal segno. (verso la Marchesa)

IPP.                                                         Vel dirò io, signore. (si alza)

Egli è di sé medesimo sì poco innamorato, Che freme, allor che dubita venir rimproverato. Ma l'ambizion l'inganna; poiché, per far la scusa D'una leggiera colpa, d'altra maggior si accusa.

FER.                  Spiacemi un tal incontro. Egli è smanioso, il veggio.

IPP.                   Lasciate ch'egli frema, che merita di peggio.

FER.                  Marchesa, chi d'un uomo parla con ciglio irato,

Fa credere che l'ami, o almen d'averlo amato.

IPP.                   Guardimi il ciel, che amassi tal che fede non ha.

FER.                  Non l'amaste, e vi è nota di lui l'infedeltà?

IPP.                   Lo so ch'è un incostante, che nell'amar si stanca,

Perché di ciò le prove vedute ho in donna Bianca.

FER.                  Si amano questi due?

IPP.                                                       Si amavano dapprima,

Ma il Conte di una donna non merita la stima.

FER.                  Marchesa, voi ed io facciamo a nostra gloria,

Unendoli di nuovo, un'opra meritoria.

IPP.                   Che prendasi tal cura da me non isperate.

FER.                  E questa renitenza vuol dir che voi l'amate.

IPP.                   Ah, mi fareste dire dei spropositi tanti.

FER.                  Son l'impazienze ancora fra i segni degli amanti.

IPP.                   Marchese, tai discorsi vi prego di lasciarli.


FER.                  Si tratta di piacervi? Di ciò più non si parli.

In ciò solo mi resta, io parlovi sincero, Un po' di vanità d'aver dato nel vero.

IPP.                   È lunga.

FER.                                Ho già finito. Passiamo ad altro articolo.

Sapete voi, che sono le vedove in pericolo?

IPP.                   Perché?

FER.                                Perché, sentite. Favorite, sediamo.

IPP.                   Questa mi par curiosa. (sedendo)

FER.                                                       Fra di noi discorriamo.

Già non abbiam che fare. Fino a doman non voglio Degli interessi miei esaminar l'imbroglio. Sentite, io vi diceva, cara Marchesa mia, La vedova o sta sola, o vive in compagnia. Se vuol star sola in casa, se vive ritirata, A viver miserabile per sempre è condannata. Se vuol godere il mondo con tutti i piacer suoi... (Marchesa, non credeste... io non parlo per voi), Allora dalla gente si critica, si parla, E la riputazione si stenta a riacquistarla. Di voi non vi è chi possa ardir di pensar male; Ho solo delle vedove parlato in generale.

IPP.                   Caro signor Marchese, non vi credea sì destro,

Che foste qua venuto per farmi da maestro. Le vedove mie pari son vedove onorate.

FER.                  Io parlo in generale, e voi vi riscaldate.

IPP.                   Eh, che la frase vostra, caro signor, l'ho intesa;

So che coll'altre vedove io pur sono compresa.

FER.                  Non so che dir: dall'altre io almen vi ho separata;

Ma se sapete d'essere coll'altre incorporata, Quel che di tante io dico, parlando qui tra noi, Temete che dal mondo non dicasi di voi.

IPP.                   Siete venuto apposta per farmi delirare?

FER.                  A tutti gli ammalati son le pillole amare.

IPP.                   Sono stanca di udirvi.

FER.                                                     Ma no, non vi sdegnate,

Perché, cara Marchesa; non vi rimaritate?

IPP.                   Ho da rendere a voi conto de' fatti miei?

FER.                  Vi offendo, se contenta vedervi io bramerei?

IPP.                   Il partito dov'è? Voi mi movete a sdegno.

FER.                  Sia ringraziato il cielo. Arriveremo al segno.

I partiti non mancano a chi ha qual voi, signora, Fresca età, vago volto, e ricca dote ancora.

IPP.                   Don Mauro si offerisce.

FER.                                                       Egli non è per voi.

IPP.                   Anche il Conte, per dirla, aveva i grilli suoi.

FER.                  Ma un giovane incostante voi non lo prendereste.

IPP.                   Signore, in tal proposito, che mi consigliereste?

FER.                  Confessatemi il vero, e vi consiglierò.

L'amaste?

IPP.                                    Sì, una volta.


FER.

L'amate più?

IPP.

Non so.

FER.

Di voi dir non ardisco sia indegno il cavaliero,

Ma non ha degli impegni con donna Bianca?

IPP.

È vero.

FER.

Per onestà, per legge, vano è dunque il pensarvi.

Ditemi apertamente: volete maritarvi?

IPP.

Perché no? Se la sorte mi offrisse un buon partito...

FER.

Marchesa, state zitta, vi troverò marito.

IPP.

L'avereste già in mente?

FER.

Chi sa?

IPP.

Chi è?

FER.

Indovinatelo.

IPP.

Non saprei indovinarlo.

FER.

Quand'è così aspettatelo.

IPP.

Posso saper il nome?

FER.

Bella domanda è questa!

IPP.

Il nome dello sposo non è domanda onesta?

FER.

Parvi di già d'averlo.

IPP.

Io son così, signore.

Quieta non posso vivere, quand'ho una cosa in core.

Se l'indovino, il dite?

FER.

Nei libri del destino

Voi non avete letto.

IPP.

Che sì, che l'indovino?

FER.

Non è tanto difficile.

IPP.

Qualche cosa capisco.

Serva, signore sposo. (s'inchina, e parte)

FER.

Sposa... vi riverisco. (s'inchina, e parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camera.

Il Conte ed il signor Alberto.

ALB.                 Amigo, v'ho da dar una nova bellissima.

CON.                Anch'io ne ho qualcheduna.

ALB.                                                              Ma la mia xe freschissima.

Gh'è la marchesa Ippolita, che proprio la se impizza.

CON.                Arde per me di sdegno?

ALB.                                                       Oibò; la xe novizza.

CON.                Sposa di chi?

ALB.                                      M'impegno, no indiviné in t'un mese.

La sarà quanto prima muggier de sior Marchese.

CON.                Del marchese Fernando?

ALB.                                                         De lu; negozio fatto.

CON.                Vi sarà stato in prima fra lor qualche contratto.

ALB.                 Cussì digo anca mi, qua no ghe xe risposta.

CON.                E il marchese Fernando sarà venuto apposta,

Col pretesto del feudo e dei ministri suoi. Ecco, signor Alberto, quel che san far gli eroi. Egli pur per amore, oppur per interesse, Mostrò le istesse brame, le debolezze istesse. Ora più non mi dica, che sconsigliato io fui, Ch'alfin son di qualch'anno più giovane di lui. Ancor mi stan sul core quei rimproveri amari; Seco farò lo stesso; voglio che siam del pari.

ALB.                 Ma quel boccon de dota intanto el porta via.

CON.                Eh, la marchesa Ippolita, se volevo, era mia.

Al mondo barba d'uomo non ci sarebbe stato Che me l'avesse tolta, s'io ci avessi aspirato, Né il marchese Fernando, né cento altri suoi pari; Ma io? eh, che non vado in traccia di denari, Non me n'importa, no, non me n'importa un fico; Son della pace mia, son del mio genio amico. Ma vo' al signor Marchese la nuova sia recata, Ch'ei sposa la Marchesa, perch'io non l'ho curata.

ALB.                 Che bisogno ghe xe de far pettegolezzi?

CON.                So che questi signori sono a sprezzare avvezzi;

Credono di esser soli in merito, in grandezza, E sian lor tributari l'amore e la bellezza. Però franco vi parlo: se avessi a esser marito, Val più della Marchesa donna Bianca in un dito.

ALB.                 Fin qua gh'avè rason: ricchezza, nobiltà,

Spirito... cosse belle. Ma stimo la bontà. Dove voleu trovar, caro el mio caro amigo,


Una putta più bona? Sentì quel che ve digo, E d'un che ve vol ben, da amigo e servitor, Pesè ben ste parole, e lighevele al cuor. Vu sè un che se stesso conosce, e se carezza. Lassè che ve lo diga, ve amè con tenerezza; Ma da sto amor medesimo avè da tor conseggio, Per far, per procurar, quel che per vu xe meggio. Finché vivè cussì da maridar, saltando Come de palo in frasca, in ogni mar pescando, Per furbo, per accorto che siè, vegnirà el zorno, Che amor ve cazzerà qualche malanno intorno. E ghe n'avè l'esempio de quel che mi ve digo: Quel della commissaria xelo stà un bell'intrigo! Sè solo, sè in ti anni; chi tardi tol muggier, Consolazion dai fioi xe difficile aver. Donca da ste premesse cavae dalla mia testa, V'avè da maridar, la conseguenza è questa.

CON.                Dite bene; ma quando facessi un passo tale,

Lo farei per accrescere l'amor che in me prevale, Per aver la mia pace, l'unico ben ch'io chieggio.

ALB.                 Tolè, sè fortunà; podeu cercar de meggio?

Donna Bianca è una putta dolce, bella, amorosa, Sincera, de buon cuor.

CON.                                                      Ma è un po' troppo gelosa.

ALB.                 El mal xe remediabile, caro amigo e paron.

Voleu che no la dubita? No ghe ne dè occasion.

CON.                Può dubitar per nulla.

ALB.                                                    Mettè le man al petto.

Gh'aveu dà fin adesso motivi de sospetto?

CON.                Per dire il ver, ho avuto poca attenzione in questo.

ALB.                 Bravo: cussì se parla. Sè un cavalier onesto.

La verità par bon in ogni tempo e logo. Donca xe compatibile de donna Bianca un sfogo.

CON.                Lo sarà, ma m'incomoda.

ALB.                                                         Oh, questa la xe vaga!

Voler la botta piena, e la serva imbriaga. Fe da omo una volta; pensè, che sta damina El ciel per vu l'ha fatta, el ciel ve la destina.

CON.                Ora è sdegnata meco, né so come acchetarla.

ALB.                 Eh, che con do parole fe presto a comodarla.

CON.                E poi, quando credessi la fosse al caso mio...

Converrebbe di questo discorrere allo zio.

ALB.                 Vedeu? Per st'altra parte togo l'impegno mi;

E son squasi seguro, che el ne dirà de sì.

CON.                Per qual ragion dovrebbe rispondere di no?

Don Mauro sa chi sono. Sa l'entrate ch'io ho. Sa le mie parentele; e un uom che non è cieco, Ha da desiderarlo d'imparentarsi meco.

ALB.                 Tutto quel che avè dito, xe pura verità;

E so che sti riflessi no i fe per vanità. Co l'amigo se pol parlar con confidenza.


Ah? che parla a don Mauro, Conte, me deu licenza?

CON.

Pensiamoci un po' meglio.

ALB.

Per mi gh'ho ben pensà.

Questo xe el vostro caso... Don Mauro eccolo qua.

CON.

Andiamo.

ALB.

No, parlémoghe.

CON.

Ma voi mi tormentate.

ALB.

Parlerò mi per vu.

CON.

Bene, da voi parlate.

ALB.

Ma vardè ben, compare, no me mettè in intrigo.

CON.

Son cavalier d'onore. (incamminandosi, poi parte)

ALB.

E mi ve son amigo.

SCENA SECONDA Il signor Alberto e Don Mauro.

MAU.

Oh signor Veneziano...

ALB.

Patron, v'ho da parlar.

Disème, vostra nezza la voleu maridar?

MAU.

Nezza? Chi è questa nezza?

ALB.

Vôi dir vostra nipote.

Parlo col mio linguaggio.

MAU.

Nezza vuol dir nipote?

Oh, quanto che mi piace il parlar veneziano!

ALB.

Anca mi, co bisogna, so favellar toscano.

Ma el stil del mio paese el me par bello e bon;

El piase, el se capisse da tutte le nazion.

E benché abbia viazà, mai m'ho volesto usar

Della mia cara patria la lengua a bastardar.

MAU.

Perché poi... sì signore... può dirsi... allo sproposito.

ALB.

Lassemo andar ste cosse, e tornemo a proposito.

La voleu maridar sta putta?

MAU.

Perché no?

ALB.

Cossa ghe deu de dota?

MAU.

Di dote... vi dirò...

Averà... sì signore... sua madre ha avuto in dote...

Suo padre le ha lasciato... alfine è mia nipote...

Averà... per esempio... in tutto... sì signore...

Quindici... venti... in circa... e forse anche maggiore.

ALB.

Quindese o venti cossa?

MAU.

Scudi romani.

ALB.

Sior?

Venti scudi? burlemio, o se femio l'amor?

MAU.

Eh, migliara m'intendo.

ALB.

Oh, adesso v'ho capio.

Arriveressi ai trenta, se 'l fusse un bon partio?

MAU.

Perché no?

ALB.

Quel partio, che ve offerisso mi,


El xe el Conte dell'Isola. Ve piase?
MAU.                                                                        Oh, signor sì.

Ci avevo... sì signore... quasi, quasi pensato.
ALB.                 El xe, per dir el vero, un cavalier garbato:

Nobile, generoso, ricco, pien de virtù.

Seu contento?
MAU.                                       Sì, ho detto... Io non ci penso più.

ALB.                 Se pol far el contratto?

MAU.                                                     Oh, sì signor fra noi.

ALB.                 Chi gh'el dirà alla putta?

MAU.                                                        Se volete... anche voi...

Io dirò... se bisogna... parlando... sì signore...
ALB.                 Se me dè permission...

MAU.                                                     Toh, toh! mi fate onore.

ALB.                 Vago a dirghelo al Conte.

MAU.                                                          Ci ho tutto il genio mio.

Ehi... dopo... sì signore... Eh! mi marito anch'io.
ALB.                 Bravo! gran noviziadi gh'avemo in sto paese.

Don Mauro, donna Bianca, el Conte, la Marchesa.

Evviva el matrimonio! Staremo allegramente. (parte)

SCENA TERZA Don Mauro, poi la Marchesa Ippolita.

MAU.                Che san della Marchesa?... io non dissi niente.

L'averà detto lei... Oh, eccola che viene.

Da questo... sì signore... vedo che mi vuol bene.
IPP.                   (Le mie risoluzioni non so se gli sien note). (da sé)

MAU.                Marchesa, lo sapete? Marito la nipote.

IPP.                   Col Conte?

MAU.                                   Sì signora.

IPP.                                                       (Un po' meno imprudente,

Potea pur esser mio, ancor l'ho nella mente). (da sé)
MAU.                E voi... quando volete... risolvere una volta...

Sì signore... di farlo?
IPP.                                                    Alfin mi son risolta.

MAU.                Ehi! me l'han detto. Brava... (ridente)

IPP.                                                                Siete contento?

MAU.                                                                                       Sì.

Pativo... sì signore... a vedervi così.
IPP.                   Ecco dunque abbracciato il vostro buon consiglio.

MAU.                Non passa neanche un anno... che voi avete un figlio.

Ehi! chi è di là?

SCENA QUARTA


Frugnolo lacchè, e detti.

FRU.                 Comandi.

MAU.                                Al signor commissario

Dirai, che favorisca venir coll'attuario...

Per far certi contratti...
FRU.                                                     Sappia vossignoria,

Che il signor commissario è già scappato via.
MAU.                Toh! perché?

FRU.                                      Disperando d'esser rimesso in grazia,

Si vedea sulle spalle qualche peggior disgrazia.

Prese quel che ha potuto, gli argenti ed i quattrini,

Ed è fuggito via col signor de' Martini.

Ma essendo il commissario uom puntuale e degno

Lasciò per i suoi debiti la commissaria in pegno.
IPP.                   Non perirà, meschina, avrà il suo protettore.

Il Contino dell'Isola è un uomo di buon cuore.
MAU.                Eh... che venga il notaro... gli detterò l'estesa.

S'han da far... sì signore... ah? non è ver, Marchesa?
IPP.                   Per me ci ho qualche dubbio, ma si vedrà fra poco.

MAU.                Dubbi! dubbi! che dubbi? Oh, oh, guardate un poco.

Che si chiami il notaro; sì signor, venga presto. (a Frugnolo; e Frugnolo parte)

Oh che dubbi! che dubbi! dubbi, Marchesa? io resto.

Eh, non avrete dubbi... Vado, Marchesa, e torno

Ho da far cento cose... e tutte in questo giorno.

La la... come si chiama? La... la nipote anch'ella...

Non voglio perder tempo... (Oh, che tu sei pur bella). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

La Marchesa sola.

IPP.                   È molto, che s'accomodi così placidamente.

Convien dir che di donne non gl'importi niente. Credea con questa nuova dargli un disgusto amaro; Ma quando a lui non preme, in verità l'ho caro. Ma! mi vo immaginando le nozze assai vicine, E ancor di questa cosa non è sicuro il fine. Quando si vide mai, che un simile contratto Fosse con due parole subito detto e fatto? Io credo che il Marchese sia venuto per questo, Per altro era impossibile concludere sì presto. Ma come si è introdotto? Che cavalier garbato! Si può parlar di peggio di quel che mi ha parlato? Parmi ancora impossibile, col mio temperamento, Di aver sofferto il filo del suo ragionamento. Eppur ci sono stata; e a forza d'insultarmi, Bel bello mi ha condotto dove volea guidarmi. Alfine è un gran partito. Non vi è eccezione alcuna,


Per me sposarmi a lui non è poca fortuna.

Basta che non m'inganni anch'egli, il malandrino:

Vi è poco da fidarsi del sesso mascolino.

Noi siam le capricciose, parlar chi sente gli uomini;

Specchiatevi nel Conte, signori galantuomini;

Oh, quanti ce ne sono, in cento e cento bande,

Amanti come lui del lor merito grande! (con caricatura, e parte)

SCENA SESTA

Sala con tavolino e sedie.

Donna Bianca , poi il Conte.

BIA.                  Che vuol da me l'ingrato, che mi circonda e tace?

È meglio che mi lasci, e che sen rieda in pace.

S'accosta, e poi tremante al guardo mio s'asconde:

Segno è che la coscienza lo morde e lo confonde.

Ma se pentito ei fosse dei tradimenti sui?

Sarei, s'io resistessi, più barbara di lui.

Ah, fui seco altre volte la prima a umiliarmi,

E dalla mia viltade apprese a disprezzarmi.

Non vo' guardarlo in faccia, pianger vo' a suo dispetto;

Chi non ha convenienza, non merita rispetto.
CON.                (Chi mai mi avesse detto, che avessi a sentir pene?

Ma! convien molto spendere, per comperare un bene). (da sé)

Donna Bianca. (Non sente, o non sentir s'infinge.

M'accosterò. Buon segno; di bel rossor si tinge).

Via, donna Bianca amabile, via, serenate il ciglio,

Delle mie colpe andate il pentimento è figlio.

Se recovi un trionfo nel domandar perdono,

Per voi le colpe istesse più orribili non sono.

Finor nel mar d'amore fui un corsaro audace,

Che depredando andava gioie, diletti e pace;

Ma se ogni bene unito in quel bel cuore attendo,

D'altro desio mi spoglio, e da voi sol l'attendo.
BIA.                  Conte, voi vi scordaste, nel mendicar piaceri,

Che d'un bel cuor più degni son sempre i più sinceri.

L'arte non ho di fingere per allettar gli amanti,

Ma veritade ho in petto saldissima e costante.

Più di me colte e vaghe cento ne avrete, e cento;

Poche nel seno adorne di quell'ardor ch'io sento;

Puro, discreto ardore, pronto a soffrir per voi

Tutti d'amore i pesi, tutti i tormenti suoi.

Ecco l'unico peso, ch'io sofferir non vanto;

Veder l'amante ingrato, e non sfogare in pianto. (piange)
CON.                Lagrime portentose, che han la virtù possente

D'avvilirmi, di rendermi angustiato, dolente.

Eccomi a voi già reso; ecco per voi la gloria


D'aver coll'amor vostro sopra del mio vittoria. Ma no, nell'adorarvi amo ancor più me stesso, S'emmi ogni ben possibile nel vostro amor concesso Vi adorerò costante: sarete mia, son vostro; Ecco negli occhi il pianto; ecco, che il cuor vi mostro.

BIA.                  Deh per pietà, signore, deh per pietà, cessate.

Nel favellar sì tenero, ah che morir mi fate. (siede)

CON.                (Ah, non provai nel mondo gioia più grande ancora.

Son pur belle le lagrime d'un ciglio che innamora!) Consolatemi, o cara, cessi quel dolor mio, Finché per me l'amico sposa vi chiede al zio.

BIA.                  Come, signor? Mi chiede? (alzandosi un poco)

CON.                                                           Per me, Bianca vezzosa,

A chi di voi dispone, ora vi chiede in sposa.

BIA.                  Oimè! (torna a sedere)

CON.                          Non è più tempo, che trafiggete il seno.

BIA.                  Deh in libertà lasciatemi di respirare almeno.

CON.                Sì, respirate, o cara; meno di voi nel petto

Non sentomi confuso fra il dolore e l'affetto. (si accosta)

Ah, mi pento, mi pento di quegli indegni ardori,

Che ad infestar mi vennero da mille e mille cuori.

Vorrei poter vantarmi d'aver nudrito in cuore

Un solo amore al mondo, ma di tutti il maggiore. (siede)

Quanto mai c'inganniamo!

SCENA SETTIMA Il signor Alberto e detti.

ALB.

(Veli qua tutti do.

Xeli in collera, o in pase? Adesso el saverò). (da sé)

Patroni reveriti.

CON.

Che nuove, amico mio?

ALB.

Le nove xe bonissime. Xe contento el sior zio.

CON.

Oh Alberto adoratissimo! (s'alza per abbracciarlo)

BIA.

Oh amico senza pari! (s'alza e s'avvicina ad Alberto)

ALB.

Oe, la pase xe fatta!

CON.

Tali amici son rari.

ALB.

Oe, ventimile scudi. (al Conte)

CON.

Bastami tal consorte.

ALB.

Eh, anca questo, compare, è un articolo forte.

CON.

Vadasi da don Mauro.

ALB.

L'ha da vegnir qua elo.

El xe tutto contento. El par giusto un puttelo;

E anca della Marchesa el mostra un gusto matto.

BIA.

È poi ver che si sposi?

ALB.

S'ha da far el contratto.

No manca che el nodaro, daresto gh'è el bisogno.

BIA.

E per me?


ALB.                                 Se gh'intende.

BIA.                                                          Ah, che mi par un sogno!

SCENA OTTAVA Don Mauro, la Marchesa Ippolita, il Marchese Ferdinando, un Notaro ed i suddetti.

MAU.                Sposi, sposi, siam qui. Gli sposi, che ora vengono...

Salutan, sì signore... quei che qui si trattengono.

Ah, sono anch'io brillante! Amor fa... sì signore.

Animo, due contratti stenda il signor... dottore.
CON.                Don Mauro, che col nome di zio chiamar m'è dato.

All'amor che mi muove, sempre il mio cuor fia grato.

Con giubbilo in isposa accetto la nipote.
MAU.                E ventimila scudi... sì signor, per la dote.

BIA.                  Foste sempre, signore, padre per me amoroso

E vi amerò qual figlia congiunta ad uno sposo.

Sposo che riconosco dal vostro amabil cuore.
MAU.                E ventimila scudi di dote... sì signore.

In faccia del notaro... in faccia ai testimoni,

Si faccian... sì signore... i nostri matrimoni.

Via, scrivete. (al Notaro, il quale si mette a scrivere ad un tavolino indietro)
FER.                                       Don Mauro, forse sarà creduto,

Che ad arte in casa vostra sia per amor venuto.

Ma non è ver, signore, lo giuro e lo protesto,

Né dee, né può mentire un cavaliere onesto.

Venni sol per punire due tristi scellerati;

Fuggir, ma saran presi, condotti e castigati.

Trovai qui la Marchesa, che in patria ho conosciuta,

Mesta, di duol ripiena, senza parlar seduta.

Pietà destommi in seno l'afflitta vedovella,

In età fresca ancora, nobile, ricca e bella.

Formo un discorso a caso, il dialogo s'avanza,

S'inoltran le parole, mi tenta una speranza.

Alfin, che più volete? S'accorda in sul momento.

Ella di ciò mi onora. Io son di ciò contento.
MAU.                E poi dicon ch'io parlo confuso... sì signore.

Se ho inteso che dir voglia, mi venga il mal di core.

Presto, signor notaro, signor dottore, presto.
NOT.                 Ho steso l'occorrente. In casa farò il resto.

Dian pur, quando comandano, la mano in mia presenza.
MAU.                Marchesa... sì signore... a voi la preferenza.

IPP.                   Per compimento accetto la grazia generosa:

Questi è lo sposo mio. (dà la mano al Marchese)
FER.                                                     E questa è la mia sposa. (dà la mano al Marchese)

MAU.                Toh... toh... che cosa è questa?... Scherzate, sì signore?

Non siete... voi... mia sposa? (alla Marchesa)
IPP.                                                                  Vostra? siete in errore.

Finora si è parlato di me con il Marchese.


MAU.

E il signor Veneziano... che disse?... di che intese?

ALB.

Anca mi ho sempre inteso de quei che s'ha sposà.

MAU.

E voi? (al Conte)

CON.

Anch'io di loro.

MAU.

Oh bella in verità!

FER.

Signor, resto sorpreso.

MAU.

Anch'io son stupefatto.

IPP.

Ma voi vedete bene, che quel ch'è fatto, è fatto.

MAU.

Dieci anni ci ho pensato... credea giunta quell'ora.

Pazienza, sì signore, non sarà tempo ancora.

BIA.

Signor, porgo la mano? (a don Mauro)

MAU.

Oh, io non son più io.

CON.

È questa la mia sposa. (con risoluzione)

BIA.

Questi è lo sposo mio.

CON.

A voi tocca, signore, di stendere il contratto.

NOT.

So quel che far conviene.

MAU.

Eh, quel ch'è fatto... è fatto.

SCENA NONA Madama Graziosa e detti.

MAD.                Ecco, signor Marchese, a domandar pietà

Una povera sposa, che sposo più non ha.
MAU.                Madama, siete vedova? (con un poco d'allegria)

MAD.                                                     Ah no, ma si è sottratto

Colla fuga il marito.
MAU.                                                 Ah! quel ch'è fatto, è fatto.

FER.                  Avrò pietà di voi. (a Madama)

MAD.                                            So che avete un bel core. (al Marchese)

IPP.                   Eh, che non vi è bisogno. Il Conte è il protettore.

CON.                Marchesa, il vostro labbro tende a rimproverarmi;

Non tocca a voi, signora, ma vo' giustificarmi.

Sappia madama, e sappialo chiunque mi vede e sente,

Che oggi cambiar intendo il cuor perfettamente.

E chi a calcar mi guida la via men perigliosa,

È un amico fedele, è un'amabile sposa.

Fui di me stesso amante, esserlo posso ancora,

Basta cambiare i mezzi, che seguitai finora.

Prevalga in me l'onore, sia l'onestà il mio nume;

M'accenda e m'innamori d'un docile costume.

Odio m'ispiri in seno ogni vulgare eccesso;

Posso amar la virtude anche in amar me stesso.

Basta per accertarmi, che quel ch'io dico è vero,

Di chi mi ascolta il plauso veridico e sincero.

Fine della Commedia