L’amica delle mogli

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L’AMICA DELLE MOGLI

 


1927

Dramma in tre atti

di LUIGI PIRANDELLO

Arnoldo Mondadori Editore - Milano

1962

PERSONAGGI

marta, l'amica delle mogli

francesco venzi

fausto viani

elena, sua moglie

anna, moglie di Venzi

il sen. pio tolosani, padre di Marta, Consigliere di Stato

la signora erminia,  sua   moglie

carlo berri,  deputato

rosa, sua moglie

paolo mordini

clelia, sua moglie

ninetta, sorella di Paolo, detta La Cognatina

guido migliori

daula, maestro di musica

Un medico

Un'infermiera

Antonia, prima cameriera

maria, seconda cameriera

Un cameriere

A Roma - Oggi.


ATTO PRIMO

La scena rappresenta l'hall d'un villino, addobbato e mobigliato con finissimo gusto. Stoffe e mobili nuovi. Molti specchi. In fondo, una grande porta vetrata lascia scorgere un salottino intimo, anch'esso arredato di mo­bili nuovi e delicati. In vista, un pianoforte. Oltre il sa­lottino, attraverso un altro uscio a vetri, si scorge una vasta sala da pranzo, splendida. La comune è a destra sul davanti. A sinistra, la parete è interrotta dal vano della scala che conduce alle stanze superiori.

Al levarsi della tela la scena è vuota e buja. Si sente il rumore d'una chiave introdotta nella serratura. La porta si apre. Entra Marta, seguita da due cameriere e un ca­meriere. Marta dà subito luce all'hall e appare con un gran fascio di fiori tra le braccia. È bellissima: fulva; occhi di mare, liquidi, pieni di luce. Ha ventiquattr'an­ni; contegno, non rigido, ma riserbatissimo, che non im­pedisce affatto però la pura espressione della più nobile grazia femminile. Veste con squisita eleganza. Anche le due cameriere reggono fiori.

marta.      Eccoci qua. Abbiamo fatto un po' tardi.

cameriere. La corsa arriva alle nove.

prima cameriera. C'è più d'un'ora.

marta.      Bisogna sbrigarci, perché tutto sia pronto. Que­sti fiori... (Al cameriere:) ecco, reggete un po'... (Ri­prendendosi:) No, meglio posarli qua. (Li posa su un tavolinetto.) Prendo le chiavi.

Apre la borsetta e ne cava un mazzetto di chiavi. Rivolgendosi alla seconda cameriera:

Intanto date luce, qua al salotto, e poi di là alla sala da pranzo. 

(La cameriera eseguisce.)

                                        

Bisogna apparecchiare subito la tavola. Per due. Ecco qua le chiavi delle vetrine e della credenza. (Al came­riere:) Vengo a darvi io la tovaglia. Poi vi farò la consegna di tutto. (Alla prima cameriera:) Posate qua i fiori anche voi. Penserò io a disporli un po' da per tutto. Anzi, no — aspettate — codesti sarà meglio portarli nella sala da pranzo. Su su. Sveltezza, mi rac­comando.

(Esce per la porta vetrata, seguita dal came­riere e dalla seconda cameriera. Al cameriere:)

Tene­te aperta questa porta a vetri.

(Il cameriere eseguisce. Alla cameriera:)

Questo è il salottino.

cameriera.   Bello.

marta.      Bisognerà averne molta cura. Altrimenti, è così delicato che si sciuperebbe subito. Andiamo, andiamo per la tavola.

cameriera. Le camere da letto?

marta.      Su a piano. Già apparecchiato, su. Resta qua la tavola e da disporre codesti fiori. (Al cameriere:) La­sciate aperto anche  quest'altro  uscio.

Il cameriere eseguisce. Ora sono tutti nella sala da pranzo, in fondo. Si vedrà Marta dare gli ordini e il cameriere e le due cameriere aggirarsi attorno alla tavola per apparecchiarla. Poco dopo, Marta ritor­nerà nell'hall; s'appresserà a uno degli specchi; si mirerà, levandosi il cappello e aggiustandosi i capel­li; si inciprierà.

Ah, sono proprio stanca.

Va a deporre il cappello, a sinistra, nel vano della scala. Si sente picchiare con un dito alla porta di destra come per un segno convenuto. Silenzio. Il picchio è ripetuto. Marta, ritornando, lo ode e ne è turbata. Dice tra sé:

La mamma? non è possibile.  (S'appressa alla porta e domanda:)   Chi  è?   Mamma!  

(Silenzio.  Il  picchio   è ripetuto.)

la voce di venzi. Apra, signorina.

marta       (senza aprire). Ah, lei Venzi Ma scusi, perché picchia così? C'è il campanello. Suoni. Credevo la mamma.

la voce venzi. Mi apra, ora.

marta       (aprendo). Ecco. Ma com'ha fatto a entrare dal cancello?

venzi         (sui quaranta: corporatura poderosa, segnatamen­te nel torace; spalle alte; grossa testa ricciuta e un po' grigia sulle terapie; volto bruno, sbarbato, ancora bel­lo benché ingrassato: tiene spesso le mani afferrate sul petto, la testa ciondolante, e volge gli occhi torbidi quasi bambinescamente, da ragazzo ingrugnato o sor­nione. Veste di scuro, senza cura).

L'ho trovato aperto.

marta.      Bisognerà allora chiuderlo. Ce ne siamo dimen­ticati.

venzi.        L'ho chiuso io. Non è sola?

marta.      Ci sono di là, come vede, le due donne é il ca­meriere che prendono servizio da questa sera. Ma co­m'ha saputo, scusi, che la mamma picchia così, senza suonare il campanello?

venzi.        Me l'ha detto mia moglie.

marta.      Ah. E a che proposito?

venzi.        Senza nessun proposito. Non sa com'è? Nota le cose più sciocche e le dice. Dice tutto.

marta.      E lei ne ha profittato. Perché?

venzi.        Per farle credere che fosse la mamma.

marta.      Non potevo crederle. L'ho lasciata a casa or ora.

venzi.        Eppure l'ha supposto, tanto è vero che ha chia­mato :   « mamma ».

marta.      Perché mi pareva impossibile. Tranne che non mi fosse corsa dietro per qualche motivo improvviso. Non capisco, Venzi, perché lei l'abbia fatto.

venzi         (dopo averla guardata). Dica che non vuol ca­pirlo.

marta       (con viso fermo). Le dico proprio che non ca­pisco.

venzi.        Se fosse Vero, non me lo domanderebbe con codest'aria di riprensione; immaginerebbe senz'altro che ho voluto farle uno scherzo.

marta.      So che non usa farne. Nessun'aria di riprensione. Non so di che dovrei riprenderla. Mi sembra strano appunto che lei l'abbia fatto e gliene domando la ra­gione.

venzi.        Vuole che me ne vada?

marta.      No, rimanga, ora ch'è venuto. Ma io ho da ba­dare ancora a tante cose. Ecco, disporre qua e nel sa-lottino questi fiori. (Eseguisce.) Insegnare alle perso­ne di servizio, che sono nuove anche della casa, co­me ci si debbano muovere. (Chiama una delle ca­meriere:) Ehi, Antonia! (La chiamata accorre.) Non state in tre, Dio mio, ad apparecchiare una tavola per due.

la cameriera. Se ci dà le chiavi di su...

marta.      Sì. Prendete di là (indica il vestibolo:) per pia­cere, la borsetta: è appesa. (Mentre la cameriera ese­guisce, a Venzi:) Debbo anche farle la consegna di tut­to. (Alla cameriera che ritorna e le porge la borsetta:) Grazie. Queste sono le chiavi di su. (A Venzi:) Ho vo­luto chiudere tutto per prudenza. (Alla cameriera:) Una e due: per le due camere da letto accanto.

venzi.        Li ha messi a dormire in due camere separate?

marta.      Come mi lasciò detto Viani.

venzi.        Ma in provincia non usa, e vedrà che la sposina non vorrà saperne.

marta.      Sarebbe un peccato, perché ho trovato per le due camere certi accordi... (Alla cameriera:) Ecco, sono tutte. (Le da parecchie chiavi nuove.) Vedrete. Quel­la più piccola è del bagno. Poi verrò su io. Andate.

La cameriera, via, per il vestibolo.

venzi.        L'accordo nelle camere...

marta.      Per quello degli animi ci penseranno loro. Sareb­be stato meglio che, invece di lei, fosse venuta sua moglie — ecco — ad ajutarmi: e lei più tardi, con gli altri, come s'era rimasti jersera.

venzi.        Sono venuto — se lo vuol sapere — per dirle che Anna, forse, non verrà.

marta       (restando).  Non verrà?   Perché?   (Lo guarda; e poi:) Al solito?

venzi         (con fosca espressione). Non la posso più soffrire!

marta.      Senta! questa volta, se lei ha litigato con sua moglie, sono proprio sicura che la colpa non è di Anna.

venzi.        Non è di Anna.

marta.      E di chi, allora?

venzi         (freddissimo). Sua signorina.

marta.      Mia? (Lo guarda.) Ma che dice?

venzi.        Dico:  sua.

marta.      Ma come, mia, scusi? Si spieghi! Ha un certo modo di parlare stasera.

venzi.        Supponga, per esempio, ch'io abbia indovinato la ragione per cui lei jersera si fece promettere con tanto impegno da mia moglie di non offrirmi il minimo pretesto di litigare con me.

marta.      Ebbene?

venzi.        Ebbene, capirà che, avendola indovinata —

marta.      — la ragione? ma è semplice!

venzi.        Ah, non è semplice! Tutt'altro che semplice! An­zi, complicatissima!  C'è tutta lei, in questa ragione!

marta.      Sentiamola, quale sarebbe, questa « mia » ra­gione, secondo lei, così complicata.

venzi.        Non c'è bisogno che gliela dica io. Si guardi attorno. Basta vedere questa casa, la cura che se n'è data, il gusto con cui ha comperato e disposto ogni cosa.

marta.      Non capisco. Sarebbe allora questa casa la ra­gione per cui mi sarei fatto promettere da Anna?

venzi.        Ma non la casa per sé: la persona per cui l'ha messa e curata così bene!

marta       (scattando, indignata). Ah, lei è pazzo! Potrebbe pensare che, quattr'anni fa, questa stessa cura —

venzi.        — oh, non la stessa, prego! —

marta.      — la stessissima, come cura! Certo che, allora, non potei... —

venzi.        — già! non ero in condizione, quattr'anni fa, di offrirle, come ora Viani, i mezzi per far vedere come lei sa metter su una casa.

marta.      Oh, insomma, Venzi, sa ch'è un bel modo codesto, di ringraziarmi della pena che mi sono data pre­standomi a venire in aiuto a vojaltri amici nell'imba­razzo d'approntare qua a Roma una casa —

venzi.        — per le mogli che siamo andati a cercarci lon­tano, quando potevamo trovarne una vicina —

marta.      — ecco — benissimo — che mi risparmiasse la responsabilità di grosse spese e della scelta di tutto: mobili, tappezzeria; col rischio anche di non indovi­nare i gusti. — Almeno lei, quattr'anni fa, mi stette un po' attorno; ma ora Viani...

venzi         (di scatto). Non mi richiami quel tempo!

marta.      Ha torto, ha torto se si vergogna di rivedersi col pensiero com'era allora! tanto, tanto più buono di ora! innamorato —

venzi         (c. s.). — ma che innamorato! —

marta.      — come!  —

venzi.        — per abitudine; lunga come una serpe; sei anni di fidanzamento!

marta.      Ma non dica, ora! Le scriveva ogni giorno!

venzi.        Sei anni d'amore epistolare:  che allegria!

marta.      Lettere innamoratissime!  Non  può negare:   sa che le ho lette.

venzi.        E lei sa che gliele ho lacerate appunto perché gliele ha date da leggere!

marta.      Ah sì, bella prodezza, povera Anna!

venzi.        Per me una donna che fa questo —

marta.      — se n'era voluta compiacere con me —

venzi.        — da stupida! si da a vedere a un'altra un simile compiacimento?

marta.      Lasciamo andare, lasciamo andare! Sa che io ho riprovato, indignata, quella sua cattiveria, e torno a riprovarla. — Viani, adesso è stato impareggiabile: se n'è andato al paese a godersi il suo mese prescritto di fidanzamento, lasciando a me il pensiero di tutto, senza sapermi dir nulla. — « Faccia lei! faccia lei! » —-Denari a profusione, libertà piena di disporne...

venzi.        Ma stia tranquilla che ne resterà ammiratissimo Viani —

marta.      — grazie tante! — io penso alla sposina! Vorrei che ne restasse contenta lei: l'ho messa su per lei!

venzi.        Mi piacerebbe tanto sapere come sarebbe questa casa, se lei invece l'avesse messa su per sé.

Sogghigna, frigido.

marta.      Certo, che gusti possa avere questa mogliettina di Viani, io ancora non lo so.

venzi.        Che gusti vuole che abbia! Glielo educherà poi lei, il gusto; se sarà suscettibile d'educazione.

marta.      Dato questo villino che Viani ha voluto compra­re di sua iniziativa, mi pare d'avere scelto tutto con proprietà.

venzi.        Oh, perfettissima! E vedrà che sarà una gioja per Viani abitarci con la moglie, che forse ci si sentirà spersa — mi par di vederla — come una gallina scappata dal pollajo.

marta.      Non la giudichi prima di conoscerla, santo Dio! — Si può sapere intanto che cosa è avvenuto tra lei e sua moglie, per cui crede che Anna non debba ve­nire?

venzi.        Una cosa naturalissima. Mi ha fatto tanta stizza, tutta questa mattina, con la sua remissione a ogni cosa che le dicevo, che alla fine non ho più potuto resistere alla tentazione di dimostrare quanto era stupida, ob­bedendole.

marta.      Obbedendo a me?

venzi.        Sì. Mantenendo la promessa che le aveva fatta.

marta.      Glie l'ha dimostrato?

venzi.        Così bene, che forse — le ripeto — non verrà.

marta.      Badi, Venzi, che lei comincia a urtarmi sul serio, avvelenando come fa le sue parole d'un veleno che non so, non vedo come e perché mi voglia mordere. Parli, parli chiaramente! Che dimostrazione ha fatto ad Anna?

venzi.        Oh, se vuole proprio che gliela dica, gliela dirò.

marta.      Sì, dica, dica.

venzi.        Le ho dimostrato che, d'ora in poi, arrivando questa sera la nuova sposa, passerà in seconda linea —

marta.      — chi? Anna? e perché? —

venzi.        — ma perché lei certamente volgerà tutte le sue attenzioni alla giovane moglie di Viani: come si può vedere dalla casa che le ha apparecchiato.

marta.      Questo è cattivo, e forse più che cattivo, inde­gno, scusi, da parte sua, Venzi, perché sa bene che do­po di lei sposò Berri, sposò Mordini; e l'amicizia, l'affetto che ho potuto avere per la moglie dell'uno e dell'altro, per Rosa, per Clelia e anche per la sorel­la di Clelia —

venzi.       — già! anche per la Cognatina!—

marta.      — (può non garbarmi come si comporta, ma le voglio bene) — non hanno detratto nulla, proprio nulla all'amicizia, all'affetto che ho per Anna. Se ora ha sposato Viani, non vedo la ragione perché questo dovrebbe avvenire. La moglie di Viani sarà — se vor­rà essere — un'amica di più: basta. Lei ha voluto in­gelosire Anna.

venzi.        La gelosia già c'era; l'ho accesa.

marta.      E perché l'ha fatto?

venzi.        Glie l'ho detto: per la stizza che m'ha cagiona­to —

marta.      — vedendola obbedire a me? Dunque confessa che è lei — se Anna obbediva — lei, a temere che questo possa avvenire. Perché?

venzi.        Mah! Lo intravedo. — Me n'accerterò. — Per­ché io sarò sempre qua. Viani si mette con me. Lo sa?

marta.      Lo so.

venzi.        Da domani il mio studio sarà qua.

marta.      E vuole che Anna non sia amica della moglie di Viani che sarà suo socio nello studio che metterete insieme?

venzi.        No, prego. Le cose a posto. Lo studio è mio. Viani — che è un signore — farà l'avvocato così per ridere — per darsi un da fare: lo prendo con me per­ché me l'ha chiesto lui; e pur di stare con me, m'ha offerto posto qua, sapendo che io dovevo cambiare quello  dove  ora   sto.   M'è   convenuto.   Ho  accettato.

marta.      Sappiamo bene che lei è ora uno dei più re­putati professionisti... (Si sente sonare il campanello del cancello, in giardino.) Ah, ecco, suonano. Scom­metto ch'è proprio Anna.

cameriere (accorrendo dal fondo). Hanno sonato?

marta.      Sì, andate ad aprire il cancello.

Il cameriere esce dalla comune.

                                   

venzi.        Se è lei, una prova di più della sua stupidaggine. (S'appressa a Marta e soggiunge a bassa voce, con­citatamente:) Mi sono sperduto in sciocche ciance. Ero venuto per farle un discorso molto serio.

marta       (ferma, dura, fredda). Su che, Venzi?

venzi.        Lei lo sa.

marta.      Io non so nulla.

venzi.        Non mi provochi, per carità!

marta.      Basta, Venzi! O da questa sera in poi, ogni rela­zione d'amicizia tra noi sarà troncata.

venzi.        Ma io non voglio niente da lei! So che non posso voler niente! Mi conceda un momento questa sera, appena può, di parlarle.

marta.      Non ho nulla da sentirmi dire da lei di nasco­sto. La finisca.

(Si fa alla porta socchiusa; la apre; domanda:)

Chi è?

(E poiché nessuno risponde, spor­gendosi a guardare nel giardino:)

Ma che cosa av­viene?

Entrano Rosa Berri e Ninetta La Cognatina. Quella, più vecchia del marito, Carlo Berri, ricca provinciale, sposata per i suoi denari, mostra nel vestito elegante che le è stato scelto da Marta la prova maggiore della sua sgarbatezza. L'altra, per dare a vedere d'aver preso l'aria cittadina, esagera in tutto.

rosa.         Niente. È Anna che —

marta.      — dov'è? —                                           

rosa.         — piange —

ninetta.   —   Sciocca!  —

marta.      — ma perché —

rosa.         — l'abbiamo persuasa a venire —

ninetta.   — e ora non vuole entrare. E' qua in giardino con Clelia e Paolo.

marta.      Vado io. (Scende in giardino.)

rosa          (a Venzi). Per causa sua, vede?

ninetta.   Senta, Anna è sciocca a piangere; ma lei è stato proprio cattivo, cattivo!

venzi.        Sono sempre cattivo...

ninetta.   E invece con Anna dovrebbe sempre esser buono; perché è buona!

venzi.        Se considera che il merito della sua bontà è tut­to nella mia cattiveria —

ninetta.   — come sarebbe? —

venzi.        — che merito avrebbe a esser buona, s'io fossi buono?

ninetta.   — ah sì? lei dunque è cattivo con lei —

venzi.        — per far risaltare la sua bontà: non l'ha anco­ra capito?

Rientra Marta, che sorregge Anna in lagrime, se­guita da Clelia e Paolo Mordini. Anna è presso la trentina; buona, sciocca e sgra­ziata. Per apparire più ricca e vistosa s'è sovraccari­cata di gioje e di fiori finti. Clelia è piuttosto bella; in una continua indolenza sorridente, parla molle molle; gli occhi un po' socchiusi e le mani cascanti: ha assunto la professione di moglie e le pare che non debba ormai far altro, perché il marito faccia a sua volta quella di marito.

Paolo Mordini, che vuol essere elegante e gli manca tutto per esserlo, con un corpo da pretone giovane, pulito, biondo biondo, occhi ovati, naso ritto e boc­chino da bambola, ne soffre moltissimo, ferito conti­nuamente nella sua vanità.

marta       (a Venzi). Mi faccia il piacere d'andare per un momento di là (indica il salottino) con Mordini. La­sciateci sole.

venzi.        Potrei anche andar via senz'altro.

marta.      Oh, se vuole! Non creda d'essere necessario.Berri o Mordini, o anch'io, col babbo e la mamma, possiamo poi accompagnare Anna a casa.

ninetta    (battendo le mani). Benissimo!

venzi.        Eh, volentieri. Ma è che... — glie l'ho già detto, sono quasi di casa anch'io qua.

marta       (di scatto, severissima). Anch'io, intenderà con Viani?

venzi.        Eh già: socio. Non potevo mica intendere lei, di casa, che diamine! — Concederà che potrei aver da dire a Viani qualche cosa —

marta.      — sta bene: rimanga, allora —

venzi.        — circa al trasporto dello studio. — Ma ora che mi ci fa pensare... Guarda, Paolo: la casa è ancora intatta; Viani non c'è; la moglie (possiamo bene im­maginarcela) ma non sappiamo ancora chi sia: non ti fa l'impressione che la padrona qua —

marta.      — sia io? — ecco, glielo dica per farlo contento.

paolo.       Eh sì, veramente; la padrona a cui chiedere gli ordini, e di cui considerarci ospiti tutti quanti.

anna         (aggressiva, al marito). Dovrebbe, infatti, esser lei!

marta       (con urto violento). Che ti scappa di bocca, Anna?

venzi         (contemporaneamente, ridendo). Sì, brava; dillo tu!

anna.        Sì! sì! lo dico io! Se ci fosse un po' di giustizia a questo mondo!

rosa.         L'ho detto anch'io! l'ho detto anch'io!

clelia.      L'abbiamo detto tutte!

anna.        — che Viani è stato proprio uno sciocco a non sposar te!

marta       (c. s. sulle spine). Ma insomma, la volete smette­re?

venzi         (dopo avere sghignazzato a lungo come in una convulsione). Oh Dio, oh Dio... impagabile questo co­ro di mogli! Vieni, vieni, Mordini!

E, seguitando a ridere, si ritira con Mordini nel sa­lotto.

marta.      Come si fa a pensare e a dire una simile stupi­daggine?

anna         (restando). Perché?

marta.      Perché sì! — Tutt'e tre! — Viani ha sposato chi aveva in mente di sposare!

ninetta.   Ah, questo no!

marta.      Che ne sai tu?

ninetta.   Perché fu, fino all'ultimo, indeciso.

clelia.      È vero, è vero!

anna.        Ecco: vedi?

rosa.         E lo diceva a tutti!

clelia.      Lo disse anche a mio marito!

anna.        Pareva stesse ad aspettare... non so... Ricorderai che te lo feci anche notare...

marta.      Sì; ma tu ricorda che ti pregai, anche allora, di smetterla! Come vi prego adesso. Questo discorso mi secca moltissimo. È fuor di luogo, e non ha nessunis­sima ragione d'esser fatto. (Cambiando animo e tono:) Andiamo, andiamo... (Ad Anna:) Guarda piuttosto co­me ti sei sciupati gli occhi!

anna.        Mi bruciano, mi bruciano come il fuoco, se sapes­si! Non resisto più!

marta.      Ma ci hai messo il mastice, forse? (Voltandosi, severa, verso Ninetta:) Glie l'hai suggerito tu?

ninetta.  Io, no!

anna.        No no: è stato lui! (allude al marito) è stato lui!

marta.      Tuo marito?

ninetta.   Oh guarda! Il Rimmel? Eh, lo credo allora che ti bruciano!

anna         (torcendosi dal bruciore). Ah Dio... ah Dio... Scom­metto che m'ha fatto piangere apposta... Ah Dio, Dio!                                     

ninetta.   Vedi, vedi un po' col fazzoletto... Guarda, (ca­va lo specchio dalla borsetta) ti reggo lo specchio!

marta.      Ma brucia così tanto?

anna.        È terribile!

ninetta.   E non c'è nessun rimedio, purtroppo! Il fazzo­letto, così, tra le palpebre, piano piano... premi... non strofinare...

rosa.         Mi pareva, infatti, ch'avesse negli occhi qualcosa di nuovo...

clelia.      Già, anche a me! La stavo a guardare...

marta.      Ti passa?

anna.        Sì, un poco.

marta.      Ma come ti sei lasciata persuadere?

anna.        Me l'ha portato; me l'ha passato lui stesso con lo spazzolino...

ninetta    (ridendo). Lui stesso? Venzi? Incredibile!

marta       (a Ninetta). Avrà visto che tu te lo metti...

anna.        E sì, me l'ha detto, di fatti. E vorrebbe anche che mi tagliassi i capelli, come lei. (Indica Ninetta.)

marta.      Anche i capelli?

ninetta.   Questo sì, te l'ho detto io: ti starebbero benis­simo.

anna.        Ah no; questo non lo credo e non lo farò mai dav­vero. (A Marta:) So che a te non piacciono...

marta.      A me, no, di certo. Ma se veramente piacessero a tuo marito...

anna.        Che! Non gli piace più niente di me, a lui!

marta.      Ma no: forse te l'avrà suggerito perché — pare impossibile — ma tu, Anna mia, ti pettini male, male.

anna.        Mi si saranno disfatti...

marta.      Ma no, sei proprio pettinata male; vuoi farteli come me (e ti starebbero); non sai ancora farteli, però; e te l'avrò insegnato cento volte, come si fanno! Ma ora ci penso io:  appena andiamo su.

anna.        Se la moglie di Viani viene coi capelli corti...

rosa.         Oh guarda! L'hai pensato anche tu?

clelia.      Ce li taglieremo tutte e tre!

ninetta    (a Clelia). Senti senti! Anche tu? Che progressi!

clelia.      Sola, non lo farei.

ninetta.   Per miracolo non gridasti allo scandalo, quan­do me li tagliai io!

marta.      Tranquillatevi, perché la moglie di Viani li por­ta lunghi: e so che non se li taglierà.

anna.        Come lo sai?

marta.     Lo so.

rosa.         Te l'ha detto lui, Viani?

anna.        — che la moglie non se li taglierà?

ninetta    (guardando i capelli di Marta). No; forse che gli piacciono lunghi, le avrà detto.

clelia.      E perché supponi così? Tu metti sempre la ma­lizia in tutto quello che dici. Non la posso soffrire!

ninetta.   Ma nessuna malizia! Lo suppongo, perché, quan­do mi vide coi capelli così, mi disse — precisamente come Marta — che le donne con la testa da maschio non gli piacciono. (Ad Anna:) È curioso che tuo ma­rito t'abbia detto, ora, di tagliarteli, perché anche lui mi disse che non gli piacevano.

clelia.      Segno che ora gli piacciono!

marta       (recisa, a Clelia). No. (Poi ad Anna:) E tu da' ascolto a me; non te li tagliare. Ti starebbero male.

anna.        Sì sì, lo so. E ne riderebbe, dopo avermelo consi­gliato. Ride come un diavolo, non so perché, di questi giorni.

marta.      Troppi fiori, Anna mia, troppe gioje! Pare che ti sia parata... No no: aspetta, aspetta, che accomoderemo su tutto. E anche tu, Rosa, Dio mio, come si fa a portare un abito così?

rosa.         Perché? Come mi sta?

marta.      Male, cara!

rosa.         Non vedo —

marta.      — vedo io! Ti casca male; e poi codesto nastro! No, via! via!

rosa.         L'ho messo apposta per far dispetto a lui!

marta.      Ma lo fai a te il dispetto, non a tuo marito, scusa!

rosa.         Mi farai il piacere di dirgli, appena viene —

marta.      — permetti,  cara? vorrei vedervi, almeno per questa sera, un po' tutte in pace e liete —

anna.        — ah vedi, vedi ch'è vero? —

marta.      — vero, che cosa? —

anna.        — che pensi a lei, a lei —

marta.      — ma lo sto dicendo per voi! —

rosa.         — hai detto però « almeno per questa sera » —

anna.        — ecco, l'ho sentito bene! perché arriva lei, la moglie di Viani! —

marta.      — appunto! appunto! — e non vorrei che le de­ste il cattivo esempio, proprio fin dalla prima sera —

rosa.         — di litigare coi mariti?

marta.      — ma no: questo sarà affar suo, come dovrebbe essere il vostro! Io dico per me; il cattivo esempio, d'u­na cosa a cui m'obbligate già da parecchio tempo, e che comincia a seccarmi seriamente, se volete saperlo! —

anna.        — che cosa? —

marta.      — che cosa! la parte che mi fate rappresentare nei vostri continui bisticci, nei dispetti che vi fate, li­tigi, picche, puntigli, malintesi, malumori: « Fammi il piacere di dirgli... » « Per carità, signorina, la prego di farle capire... »; voi, con la scusa che conosco i vo­stri mariti da prima che vi sposassero e loro con la scusa che sono diventata vostra amica e che vi difen­do, quando è giusto; vi consiglio come posso; e cerco di lasciarvi contenti tutti quanti:  ecco.

ninetta.   Credevo che non ti dovesse dispiacere —

marta.      — non mi dispiace infatti, se realmente riesco, mettendomi di mezzo, a ristabilire l'accordo tra voi; ma che sia di mio gusto, no; via!

clelia.      E chi l'ha mai detto?

marta.      Se qualcuno tra voi l'abbia detto o soltanto pen­sato —

anna.        — io, no! —

rosa.         — io, nemmeno! —

clelia.      — e tanto meno io! —

anna.        — nessuna, nessuna di noi! —

ninetta    (ad Anna). — forse tuo marito? —

marta       (subito, recisa). — io non lo so! dico però che se qualcuno c'è, che l'abbia detto o pensato, è bene che se lo levi dalla testa: sono qua anche questa sera, per fare un piacere agli altri e non a me. M'è costato cure, pensieri, un gran da fare; e non m'aspettavo davvero che tu Anna —

anna         (subito, commossa, abbracciandola). — no no, per carità! perdonami! perdonami! — È lui, si, è stato lui (allude al marito) a mettermi nella testa questo catti­vo pensiero:  perdonami! perdonami!

marta.      Ma sì, via, via! basta, adesso, basta! Andiamo su. — Ah, ecco la mamma. Siete tutti?

Entrano la signora Erminia, il sen. Pio Tolosani, il deputato Carlo Berri, il maestro di musica Daula e Guido Migliori.

La signora Erminia è alta e rigida, con gli occhi un po' loschi, quasi sempre socchiusi come se le doles­sero; parla senza scomporsi, come se soltanto la boc­ca, per sé, parlasse; ciò che dice però è così pregno sempre di sentimento, che l'apparente impassibilità del volto e di tutta la persona, spesso, stordisce o conturba.

Il sen. Pio Tolosani è un dolce vecchio, pallido, di quelli che non sospettano affatto d'essere morti da gran tempo e seguitano a parlare con un senno e una sapienza che non servono più a nulla.

Carlo Berri ha circa trent'anni: bruno e fiero in ap­parenza, con occhi sospettosi.

Daula, presso i quaranta, è calvo, con barbetta bru­na già brizzolata, la bocca rossa bambinesca avve­lenata da un sorriso triste e ironico d'uomo mancato. Guido Migliori è un bel giovanottone biondo, un po' sciocco ma piacente, elegantissimo; buon figliuolo.

daula.      Tutti, tutti, e anche qualche altro che non era nel conto!

marta.      Ah, lei Migliori? Bravo!

guido.       Eccomi, signorina!

berri.       Evviva! evviva! — Ah! Bellissimo qua! —

marta.      No no: voi restate qua, per ora! — Tu mamma, conducili un po' a vedere: il salottino, la sala da pran­zo, lo studio, le altre stanze. Nojaltre andiamo su —

guido.       E non potrei anch'io?

marta.      No no: non vogliamo uomini! Poi verrete su vojaltri. Avete intanto la mamma per guida. — An­diamo, andiamo!

berri.       Ma almeno il tempo di congratularci...

marta.      A poi, a poi, le congratulazioni: e non a me, se mai:  al padrone di casa!

Via per la sinistra, con Anna, Rosa, Clelia e Ninetta.

daula.      Già! al padrone di casa, dice!

berri.       Birbante d'un Viani! Ma guarda che nido trove­rà, senza un mal di capo!

Rientreranno dal salotto  Venzi e Mordini.

paolo        (alla signora Erminia). Cara signora mia! (Le bacia la mano: poi, rivolgendosi al marito:) Caro Sena­tore, come va, come va? (Al Berri:) E tu, onorevole? Vi siete fatti aspettare. (Al Senatore:) Sa che diceva­mo con Venzi? —

S'interrompe, accorgendosi di Migliori e indicandolo a Venzi:

Ah, guarda, Venzi, c'è anche lui:  l'ultimo!

guido.       Come, l'ultimo?

venzi.        L'ultimo venuto.

guido        (non intendendo). No; sono arrivato adesso insie­me con gli altri.

paolo.       Sì, sì: ma « l'ultimo »per ciò che si diceva con Venzi; di noi tutti, come siamo venuti, da tante parti: e come ci siamo trovati insieme in casa del Senatore e della signora Erminia; quel che ne abbiamo ricevuto, e come siamo rimasti legati —

berri.       — ah, per me, da un vero, vero affetto filiale!

il senatore. Grazie, grazie, cari...

berri.       Venzi diceva una cosa bellissima —

venzi         (brusco). — ti prego di non ridirla!

il senatore. E perché no, se è bellissima? Sentiamola.

berri.       Sentiamola.

venzi.        No! Perché son sicuro che alla signora Erminia non piacerà.

la signora erminia. Se è sincera, mi piacerà.

venzi.        Sincera, sì, signora! E appunto per questo mi sec­ca che sia ridetta!

paolo.       Daula dovrebbe capirla meglio di tutti!

venzi.        Al contrario, sciocco! Un maestro di musica...

berri.       Perdio, fate nascere una curiosità!

daula.      C'entra forse la musica?

paolo.       Sì: quando sentiamo sonare, e siamo tristi: ecco, quella tenerezza angosciosa che ci prende, d'una vita, quale forse poteva essere e non è stata... d'una vita che forse si può ancora sognare, pur con la certezza che non sarà mai. Questo.

Restano  tutti come a mezz'aria, delusi.

guido.       Sì, sarà bello come effetto della musica, quando si è tristi: ma non vedo... (forse perché non sono mai triste).

venzi.        Ah tu, si capisce...

guido.       No, scusa:  perché si capisce?

venzi.        Scapolo!

guido.       Ah, la solita canzone: tristi perché sposati? Dio mio, secondo come ci si sposa!

venzi.        Forse a te potrà toccare in sorte di non diventare triste neanche sposando. Può sempre avvenire, senz'a­verne il minimo sospetto, di trovarci accanto uno, de­stinato chi sa perché a mostrarci il più inopinato dei miracoli!

guido.       Se parli a enigmi... Io non ti capisco!

venzi.        Mah! Daula forse ti farà lume.

daula       (stonato). Io?

il senatore. Veramente, scusi, Venzi, non capisco nep­pure io la relazione tra quell'effetto che lei dice della musica e il legame della nostra amicizia.

la signora erminia. Rimpianto di qualche cosa che po­teva essere e non è stata. Non è così?

paolo.       Ecco ecco:  così! Brava, signora Erminia!

venzi.        E dunque, questa tenerezza di noi tutti per loro, che tante volte, quando si è tristi, diventa angosciosa. — Tu, caro Migliori, non sei mai triste: dunque non potrai capirla mai.

berri        (comprendendo e turbandosi). Proprio così; pro­prio così! (Per troncare:) Su via, ci conduca a vedere, signora Erminia, i prodigi che ha saputo fare la sua figliuola. Vieni, Paolo.

venzi         (per nascondere la commozione). Vado qua un momento nello studio.  (Via per la sinistra.)

la signora erminia. Venite. Ecco: questo è il salottino...

Esce, seguita dal marito, da Berri e da Mordini. Re­stano in iscena Daula e Migliori.

guido.       Mi spieghi, scusa, a che ha alluso Venzi dicendo che tu « mi farai lume »?

daula.      Te lo spiego, sì! Che sono tre imbecilli! E quat­tro con Viani! Uno più dell'altro! — Il rimpianto! — Rimpiangono adesso...

guido.       D'aver preso moglie, già! Ma gli ho risposto be­ne, mi pare. Sfido! Sono andati a prendersi certe mum­mie!

daula.      Non è mica questo, per loro, il rimpianto!

guido.       Ma sì, ho capito qual è.

daula.      Lo consigliai prima all'uno, poi all'altro, poi al­l'altro... a tempo, a tutti e quattro.

guido.       Ma tu credi che la signorina Marta —

daula.      — se si fossero fatti avanti? —

guido.       — già! — li avrebbe accettati? — lo credi? —

daula.      Nessuno osò farsi avanti!

guido.       Dio mio, ma tu vedi com'è?

daula.      Com'è?

guido.       Quando fu di Viani, mi fece tanto ridere! Io non potei fare a meno d'osservare, sorpreso (perché nessu­no s'aspettava che dovesse sposare così all'improvvi­so): « Oh, guarda, anche Viani? » E allora lei: « Già! È curioso: di tanto in tanto qualcuno sparisce, e poi torna con la moglie ».

daula.      E questo ti fece ridere?

guido.       Per il modo come lo disse: così, come te lo sto di­cendo io. Sono in casa del Senatore l'ultimo venuto, come dice Venzi. Caro mio, affabilità, si, gentilezza, vera bontà, e da parte della signorina, la confidenza più graziosa che leva subito d'impaccio e rassicura; ma poi, nascosto da una disinvoltura... come devo dire? sorridente e sfuggente, un ritegno che ha impedito sempre, almeno a me, anche di tentare d'entrare nelle sue grazie. Ognuno forse ha pensato: « Sposerebbe me, come un altro! » E allora, tu capisci, a un certo punto, appena s'avverte, si tocca la... la freddezza di questo ritegno, ci si ritrae. — Tu credi, per esempio, che —

daula.      — se tu ti facessi avanti? —

guido.       — no, dico... —

daula.      — ma caro, è il momento, il momento giusto per te! —

guido.       — credi proprio? —

daula.       — non dovresti perdere un minuto di tempo!

guido.       — perché dici  « il momento giusto »? —

daula.      — ma non vedi questa casa? Pronta — e non è per lei!

Entra da sinistra, con un tristo riso di scherno, Fran­cesco  Venzi.

venzi.        Bell'arte, ah bell'arte, la musica!  Peccato...

daula       (andandogli incontro, minaccioso). Che intendi dire?

venzi.        Peccato che  tu  la professi  con  tanta  disgrazia!

daula.      Bada ch'è la seconda volta, questa, che tu mi provochi!

venzi         (prendendolo per il bavero e dominandolo, con to­no ambiguo). Sciocchi, caro, si può essere in due mo­di: per una sciocchezza che si fa, come tanti possono farla, pur senz'essere sciocchi; e allora si fa ridere non propriamente di noi, ma della sciocchezza che abbiamo fatta;  o sciocchi per sciocchezza congenita, e allora facciamo ridere di noi, sempre, qualunque cosa si faccia, anche la più seria; come quella che tu hai consigliato adesso a questo bel giovanotto. Mi so­no spiegato?

guido        (lanciandosi e buttandolo indietro con una ma­nata sul petto). Ah tu mi dici sciocco?

daula       (subito, mettendosi in mezzo). Signori miei, che fate?

venzi         (riprendendosi dalla spinta e lanciandosi a sua volta, terribile, trattenuto però da Daula). Le mani addosso a me? Ah perdio!

Accorrono tutti dalla sala da pranzo in fondo e dal salottino,  spaventati,  parlando  simultaneamente.

berri.       Che cos'è? che cos'è?

la signora erminia. Oh Dio, per carità!

daula.      Niente! niente!

paolo.       Venzi! Tu?

il senatore. Per amor di Dio! Una lite?

venzi         (subito frenandosi). No! Niente... Niente...

la signora erminia. Ma come lei, Migliori?

guido.       No, no, stia tranquilla! Tutto finito.

berri.       Ma che è stato?

daula.      Niente! Basta, basta!

paolo.       Ma sì, basta! Ecco che scendono le donne!

Vengono da sinistra, scendendo dalla scala, Marta, Anna, Rosa, Clelia e Ninetta. Parlano anch'esse un po' tutte insieme.

clelia.      Che maraviglia!  Che maraviglia!

anna.        Un amore!

rosa.         Uno splendore!

ninetta    (alla signora Erminia). Quell'angolino li tra le due camere, con quell'effetto di luce nello specchio!

anna         (c. s.). E la camera di lei!

rosa          (c. s.). Quell'inginocchiatojo! quell'inginocchiatojo!

ninetta.   E la piletta, su, per l'acqua santa!

venzi.        Anche l'inginocchiatojo?

rosa.         Crede che noi donne siamo tutte scomunicate come lei?

venzi         (a Ninetta). Prega anche lei, signorina, la sera, prima d'andare a letto?

ninetta.   Se avessi un inginocchiatojo come quello, pre­gherei!

daula.      Benissimo!

berri.       Non poteva ribattere meglio!

il senatore. Ma sediamo, sediamo!

berri.       Tra poco gli sposi dovrebbero arrivare.

paolo.       Si potrebbe intanto provare il pianoforte.

ninetta.   Sì sì, suoni Daula! suoni Daula!

berri.       Senza farsi pregare!

daula.      Non mi sono mai fatto pregare!

berri.       Benissimo, benissimo!

anna.        E Marta canti!

tutti         (a coro). — Sì sì! — benissimo — Canti! canti! — Sediamo! Sediamo! —

marta       (schermendosi). Ma no! Che volete che canti!

anna.        Sì, per piacere!

rosa e clelia. Canta! canta!

ninetta.   L'ultima composizione di Daula!

anna.        Sì sì, quella della neve! com'è?

guido.       Bellissima sì: « Malinconia della neve » — Ci faccia questa grazia, signorina!

berri.       La preghiamo tutti!

marta       (arrendendosi). Non so neppure se ho la voce... Sono tanto stanca...

paolo        (a Daula). Su su, Maestro! Silenzio! silenzio!

Seggono tutti, un po' nell'hall e un po' nel salottino, tranne Marta che resta in piedi accanto al pianofor­te, su cui Daula prende a suonare la sua canzone. Quando Marta avrà finito di cantare tra gli applau­si e le congratulazioni generali, si udrà la tromba d'una automobile.

marta.      Ah, eccoli! Saranno loro! saranno loro!

E corre ad aprire la porta. Tutti si alzano per acco­gliere i nuovi sposi, e seguono Marta che è scesa nel giardino, tranne Venzi, il Senatore e la signora Erminia. Momento d'attesa, che si prolunga, cagio­nato da un certo impaccio crescente, anche per le voci confuse che arrivano dal giardino.

venzi.        Che  sarà accaduto?

Entra d'improvviso Elena, scomposta e infuriata, se­guita poco dopo dal marito Fausto Viani che cerca di calmarla.

Elena ha poco più di vent'anni, bruna e acerba; pur così scomposta e mal curata, mostra d'aver tanto, nel volto e nella persona, da apparire bella e formo­sa, se curata appena appena con un po' d'arte. Ma dà a vedere, fin da questo primo apparire, negli occhi e nella fronte, come uno smarrimento mortale in contrasto con la furia a cui è in preda. Fausto Viani ha poco più di trent'anni. Alto di sta­tura e di bellissimo aspetto, capelli ricciuti, occhi dolci e  vivi:  elegantissimo.

elena.       Ma no! no! Faccio da me! Quante smorfie! Ho bisogno di buttarmi sul letto, subito! Non voglio ve­der nessuno!

fausto.     Ma abbi pazienza...

elena.       Dov'è la camera da letto? per dove si prende? Ho bisogno di riposare!

la signora erminia. Ecco, di qua, signora. (Indica a sinistra.)

fausto.     Ma almeno prima ringrazia questi signori...

elena.       Ho già ringraziato! Basta! Io mi sento male! M'hai ridotta così e vuoi che mi mostri come una be­stia alla fiera?

fausto.     Ma sì, ma sì, vieni su! vieni su! — (Volgendosi agli altri, nell'avviarsi con Elena per la sinistra:) Io chiedo scusa...

Via con Elena per la sinistra. Rientrano dal giardi­no, mogi mogi, imbarazzati, mortificati, Marta, Berri, Rosa, Ninetta, Paolo, Anna, Daula e Guido.

berri.       Dopo tutto, sì, si sentirà male; ma, dico...

paolo.       — non è il modo di ringraziare...

clelia.      Eravamo venuti per accoglierla...

rosa.         Questa, al mio paese, si chiama villania!

paolo.       Lui stesso aveva scritto...

marta.      — sì, — che avrebbe avuto caro di presentare la moglie subito al suo arrivo a tutti gli amici...

rosa.         Noi siamo state invitate da te...

ninetta.   Chi si poteva immaginare una simile acco­glienza!

anna.        Non saremmo certo venute...

daula.      Ma badate che deve star male davvero!

marta.      Ma sì, me l'ha detto!

venzi         (con sottintesa malignità). Gliel'ha detto lui?

marta.      Lui, lui! — Che è stata gravissima! All'improv­viso! Anzi ha detto:   « Mi son visto perduto! »

guido.       Sì sì, l'ho sentito anch'io!

berri.       Ma avrebbe dovuto allora avvertire...

berri.       È questo il suo torto!

paolo.       Almeno con un telegramma.

daula.      Pare che non possa neanche reggersi in piedi...

guido.       Già; lui voleva, difatti, portarla in braccio...

rosa.         Ha visto tutti noi, e s'è infuriata...

ninetta.   — gli è scappata dalle braccia... —

clelia.      — ma stava per cadere...

anna.        Mi dispiace per te, Marta, sinceramente...

marta       (scattando). Ma che dici, per me!

rosa.         Tante pene...

clelia.      Tante cure... .

ninetta.   Per averne poi questo ringraziamento!

marta.      Ma chi pensa adesso al ringraziamento!

venzi.        È un incidente momentaneo...

marta.      Mi dispiace per lei, se sta così male, e dell'im­pressione sgradevole che ha potuto avere di noi —

berri.       — che le si voleva far festa —

paolo.       — eh già, senza sapere...

rosa.         — per colpa di lui! —

ninetta.   Noi non c'entriamo!

marta.      Forse sarebbe bene che tu, mamma, andassi su a sentire —

la signora erminia. Ah no! Io non vado.

marta.      Vado io, allora.

rosa.         Noi ce n'andiamo!

clelia.      Sì sì, via tutti, via tutti!

rosa.         Che si sta più a fare qua?

ninetta.   Siamo stati lasciati così!

berri.        Sì,  certo;  meglio  andarsene...

daula.      In tanti, si fa ingombro!

guido.       Credo anch'io...

Movimento verso il vestibolo per prendere scialli e cappelli, saluti al Senatore, alla signora Erminia, a Marta; e Berri con Rosa, Paolo e Clelia con Ninetta, Daula e Guido si apprestano ad andarsene.

marta.      Tu, Anna, dovresti restare, mi pare.

anna.        Io, perché?

venzi.        Ma no! Ce n'andiamo anche noi.

marta.      Sembrerà davvero, scusate, che ci siamo avuti a male d'una festa che ci sia mancata, come se non dovessimo farla noi e ci aspettassimo invece che ci fosse fatta!

berri.       No:  si voleva!  Scusi, non è mancato per noi...

paolo.       È stata così mal gradita, che ce n'andiamo...

marta.      Ma per una ragione vera e grave! Non mi pare che si debbano lasciare così soli, appena arrivati; pos­sono aver bisogno —

berri.       — non di tutti, a ogni modo! —

daula.      — quest'è certo! Ed è bene anzi sgombrare!

marta.      Io dicevo ad Anna. Se tuo marito è socio di Viani... Forse tu sei... non so... più indicata di me... Almeno, andar su a domandare... a sentire...

venzi.        Ma hanno le donne  di servizio,  il  cameriere...

marta.      Fate come volete!  Io sento che debbo andare!

Via su per la scala. Restano tutti un po' incerti, in silenzio.

anna         (alla signora Erminia). Io non ci ho nessuna con­fidenza...

venzi.        Ma sì, è meglio lasciarli soli, tra loro. Sarà stanca...

paolo.       Lo credo anch'io Sarà un po' di strapazzo. Co­se che capitano...

anna.        Sono tanto addolorata per Marta, piuttosto...

clelia.      Dopo tutto quello che ha fatto —

ninetta.   — non si meritava questo davvero!

paolo.       Basta. Buona notte, signora. Buona notte. Se­natore.

Altri scambi di saluti, e vanno via tutti.

venzi         (prima d'uscire, torna indietro e dice al Senatore e alla signora Erminia). Cerchino di condursela via! Le facciano intendere, perdio, ch'è stata trattata male, e che il suo posto non è qua! Buona notte.

Via, chiudendo la porta.

Restano i due vecchi per un tratto in silenzio, la si­gnora Erminia  tentenna  amaramente il capo.

la signora erminia. Che crudeltà...

il senatore (dopo una pausa). Ma tu credi proprio...?

la signora erminia. Io l'ho sentita piangere.

Altra pausa.

il senatore. Forse non sarà per questo... Non mi pare che potrebbe essere così ora... se fosse per questo.

Altra pausa.

la signora erminia. Ma crudeltà è lo stesso!

il senatore. Ah, certo, a pensare che è ancora li...

E resta a tentennare il capo anche lui.

la signora erminia. Che previdenza... che giudizio... Sa­rebbe la benedizione d'una casa...

Scende dalla scala Fausto  Viani.

fausto.  Mi perdonino anche di questa attesa adesso...

la signora erminia.  Marta?

fausto.     Ecco, scende a momenti...

il senatore. Ci duole per la signora.

la signora erminia. Come sta ora?

fausto.     S'è messa a letto. — Ah, signora, io sono pieno di riconoscenza e d'ammirazione per sua figlia —

la signora erminia. — s'è data molta cura —

fausto.     — no, non dico ora della casa; ho intravisto appena quel che ha saputo fare. Parlo d'un altro mi­racolo, signora: quello che ha operato su mia moglie, in un momento. Ne sono... non so come dire... ecco, tremo tutto dalla gioja... Mia moglie è scontrosa... purtroppo, sì... cresciuta, poverina, senza madre... mi s'è rivelata in questi pochi giorni, inasprita certo dal male, d'un'indole così risentita, acerba, ed è arrivata con tali prevenzioni contrarie che... l'hanno vista... mi ha fatto veramente mortificare...

il senatore. Ma quando si sta male...

fausto.     Sì, sta male davvero... Ma è bastato alla signo­rina Marta mostrarsi, aprire appena le labbra... Io non so com'ha fatto... Ha trovato il modo... il modo d'offrire, con una tale schiettezza, con una tale pre­mura, la sua amicizia, la sua carità, che subito Elena le si è abbandonata... s'è lasciata mettere a letto: se la tiene vicina... con una confidenza di già, che non par vero, non par vero...

la signora erminia. Ah, ne sono contenta.

fausto.     E si figuri io! Mi sapeva tanto male che, dopo tutto quello che ha fatto, fosse rimeritata con uno sgarbo da mia moglie malata. E invece saranno ami­che, com'io ho tanto desiderato... — Ecco che di­scende!

Marta discende dalla scala.

marta.      Vada, vada su, Viani. Pare che il riposo le fac­cia bene. Le ho promesso che domattina, presto, sarò qua  con  la mamma.   Bisognerà  consultare  un  buon medico specialista... Mi ha fatto tanta pena!

fausto.     Ma sì, ci ho già pensato...

marta.      Ha bisogno d'avere una donna accanto, come la mamma, in questo momento... si sente sola... Vada, vada! — Darò io qua gli ordini alle donne.

fausto.     Sì. Non so come dirle grazie, di tutto... A do­mani, signora; buona notte, signorina; buona notte, Senatore.

Via per la sinistra.

marta (chiamando nella sala da pranzo). Ehi, Maria. Fate venire anche il cameriere!

La prima cameriera e il cameriere accorrono.

Ho detto su all'altra donna di tenersi pronta, chi sa la signora avesse bisogno durante la notte. Potete, se mai, darvi il cambio. Intanto qua finite di rasset­tare e poi spegnete tutto. Chiudete bene. Io sarò qua domattina per la consegna che non s'è potuta fare stasera.

Al cameriere:

Voi venite a chiudere  il cancello. Buona notte. An­diamo, mamma; andiamo, papà.

la signora erminia. Sarai tanto stanca, figliuola mia...

marta.      Stanca sì, ma anche contenta, ora. Tanto con­tenta, sai mammina! — Andiamo! andiamo!

S'avviano per uscire.

T E L A


ATTO SECONDO

Salottino e studiolo intimo al secondo piano della villa, accanto alla camera da letto di Fausto. In fondo, un arco con un grosso bastone su cui scorrono gli anelli d'una pesante tenda di velluto verde. La tenda è aperta e lascia scorgere appena i piedi del letto nella camera accanto, e, nella parete di fondo di questa, un uscio guarnito anche esso di tenda che immette nella camera da letto di Elena. Uscio comune a sinistra. In fondo, a sinistra dell'arco, un tavolinetto con qualche ninnolo. A destra, un divano, poltrone, un tavolinetto da tè. A si­nistra, una scrivania e due eleganti scaffalini da libri. È il pomeriggio inoltrato.

Al levarsi della tela sono in iscena Elena e Venzi. Elena indossa un abito da passeggio e ha il cappello in capo. È patitissima. Visibile lo sforzo di tenersi su, segnatamente negli occhi che, pur essendo smar­riti, pajono adirati.

elena.       Ma che Marta! Le dico di no.

venzi.        Non è stata lei? — Allora, suo marito?

elena.       Nemmeno.

Sorride.

Se me l'avesse consigliato lui, forse ci sarei rimasta.

venzi.        Dunque è stata proprio lei a volerne uscire?

elena.       Io, io! — Avrò fatto male —

venzi.        — ha fatto malissimo —

elena.       — lo so! — Ma d'altra parte, se non mi ci po­tevo più vedere? — Tutto sta, ora, se veramente, con questo male, io non mi trovo a un caso di morte.

venzi         (scattando). Ma che caso di morte! Non lo dica nemmeno!  Non può essere!

elena.       Se è, caro avvocato, non potrà impedirlo né lei, né nessuno.

venzi.        Ma i medici che l'escludono!

elena.       Sì: prima dell'operazione. Ma ora? Assicuravano che, liberandomi, sarei guarita:  non sono guarita —

venzi.        — Ma guarirà sicuramente! Curandosi, però. Non doveva lasciar la clinica!

elena.       Mi ci sentivo, ah Dio, soffocare, soffocare.

venzi.        Era assistita —

elena.       — da Marta, mattina e sera: è rimasta con me anche più d'una notte!  —

venzi.        — anche di notte?

elena.       — e pure Anna veniva —

venzi.        — vede dunque che la compagnia non le man­cava —

elena.       — grazie! chiusa li, soffocata e soffocando tutte con me! — Scusi, se gli stessi medici, del resto, pure opponendosi, alla fine si sono arresi e han lasciato che uscissi,  che significa?  —

venzi.        — che ritengono che lei, avendosi quei riguardi che certo nella clinica avrebbe potuto aver meglio, guarirà, guarirà senza dubbio!                

elena.       E allora, se è così...

venzi.        Ma bisogna che i riguardi se li abbia!

elena.       E non me li ho?

venzi.        Va fuori, quando dovrebbe stare in casa, ripo­sata, il più possibile a letto!

elena.       Ah no! Sono stanca, stanca di stare a letto! Basta! — Ma sa che ancora non ho potuto veder nul­la di Roma?

venzi.        Avrà tanto tempo di vederla, Roma.

elena.       Aspetto Marta, per certe compere da fare.

venzi         (con scatto d'ira). Ma gliele propongono loro codeste compere?

elena.       Loro, chi?

venzi.        Quelli che le stanno più vicini —

elena.       — Marta, mio marito? —

venzi.        — ...anche Anna —

elena        (notando l'attenuazione di quest'aggiunta). — ah!

venzi.        — non dovrebbero! non dovrebbero!

elena        (dopo  un  silenzio).  Ma le preme dunque  tanto davvero, ch'io guarisca?

venzi.        Tanto, sì! Quanto lei certo non s'immagina!

elena.       Strano! A giudicare da come lo dice, sembra che non le prema soltanto per me.

venzi.        Oh, per lei, per lei sopratutto!

elena.       E per chi altro?

venzi.        « Per chi » daccapo! Per tutti coloro che le vo­gliono bene —

elena        (accoppiando di nuovo i due nomi con intenzione). — Fausto,  Marta?

venzi         (di nuovo, per attenuare). —  ...anche Anna —

elena        (scoppiando a ridere). — anche Anna! E perché non si mette nel numero anche lei? —

venzi.        — anche io, anche io! Non rida!

elena        (seguitando a ridere). Ho avuto paura... ho avuto paura che mi dovesse dire che le premeva soltanto per sé...

venzi         (con cupa violenza). E se fosse proprio così?

elena        (troncando il riso e restando). Per sé? Ma che dice!

venzi         (con tremenda esasperazione). Perché guai a me, guai a tutti, se lei ora qua, Dio non voglia, venisse a mancare!

elena.       Lei mi stordisce, avvocato!  Che cos'è?

venzi.        Ma come non capisce? come non vede?

elena        (balzando, concitatissima). Io capisco — sa che cosa? e lo vedo da otto giorni, dacché sono uscita dal­la clinica — una cosa che mi fa ribrezzo, orrore —

venzi.        — ah, dunque se n'è accorta? —

elena.       — sì — e lei se ne dovrebbe, non solo vergognare, ma fare un rimorso —

venzi.        — io? —

elena.       — sì — un grande, grande rimorso — nello sta­to in cui mi trovo — tanto più ch'è un'infamia—

venzi.        — ah, un'infamia?

elena.       — che lei voglia farmi sospettare di mio marito e di Marta; sì!

venzi.        Non sospettare! no! Accorgersi! Accorgersi!

elena.       Di che dovrei accorgermi?

venzi.        No:  forse di nulla, ancora!  Ma riconoscere —

elena        (subito). — che la casa qua è pronta — appena io non ci sarò più — per loro due? —

venzi.        — ecco, già, questo:  pronta —

elena.       — come Marta se l'è messa su, di suo gusto, non è vero, senza sapere nulla di me? —

venzi.        — e come lui gliela lasciò mettere su, non vo­lendo dir nulla, contento d'avere una casa come lei gliel'avrebbe fatta  trovare.  Non è così?  non è così?

elena.       Ma me la fa pensare lei, lei, questa cosa infame, da otto giorni!

venzi.        Perché la  riconosce giusta!

e lena.      No!  infame!  infame!

venzi.        Ma che infame!

elena.       Infame per Fausto e per Marta!

venzi.        Giusta per tutt'e due!

elena.       Non è vero! l'ha pensata lei; loro no!

venzi.        Ne può essere più che sicura!

elena.       No, lei! lei! e l'ha fatta pensare anche a me!

venzi.        L'uno e l'altra!

elena.       No! Sono stata attenta, ho osservato, spiato, pe­sato ogni loro parola; sono alieni, alieni —

venzi.        — alieni sì —

elena.       — sì, dal pensare e finanche dal supporre che altri possa pensare di loro una tal cosa! —

venzi.        — ma lei la pensa! —

elena.       — perché me l'ha messa lei nella testa! —

venzi.        — no, no: perché la vede possibile, perché la vede possibile! Io la vedo certa!

elena.       E questa è la crudeltà sua —

venzi.        — mia?  —

elena.       — sì, sì, sua — vera crudeltà, feroce, verso di me — far vedere anche a me, come possibile, che una tal cosa avvenga. —

venzi.        — perché quasi è — è —

elena        (gridando). — ma senza che loro ne sappiano nulla! —

venzi.        — come vuole che non lo sappiano? —

elena.       — nulla! nulla! — non c'è da far loro colpa di nulla! —

venzi.        — ah no?

elena.       — nulla, di cui possano, poi, avere rimorso!

venzi.        — innocenti? —

elena.       — lo deve aver lei, lei invece, il rimorso per me! (Staccando.) Non porta armi? —

venzi.        — io, armi? —

elena.       — se m'avesse tirato con un'arma... Ma sa che io ora, condannata come mi sento, non resisto più a pensare questa cosa? e posso da un momento all'al­tro... — Fausto ha là nel cassetto della scrivania, una rivoltella —

venzi.        — ah, la levo subito! — (Eseguisce.)

elena.       La levi, sì, la levi! — Grazie. — Ne ho avuto la tentazione, jeri.

venzi.        Non lo dica nemmeno per ischerzo!

elena.       Oh, c'è mancato poco!

venzi.        Ma è pazza? Se lo levi dalla testa! Vuol darla vinta a loro? Non cercano di meglio!

elena.       Ma è per me! Perché — io — non posso più vi­vere, ora, con questo pensiero che mi dilania! Non è per loro, che — né sono sicura — non ne hanno il minimo sospetto!  — Sarà possibile — per lei, certo —  ma se domani avviene —

venzi.        — ah, non avverrà! —

elena.       Ma il tormento per me è che io lo possa pensa­re! E senza potermene nemmeno adontare! Perché non avrebbero nessuna colpa, loro, nessuna! nessun rimorso di coscienza! La vita che resta per loro, quan­do io non ci sarei più. Il loro diritto. Posso ribellarmi?

—  Io non dormo più. Sento il letto, nell'insonnia, suo, come lei lo sentirà, quando sarà là, al mio posto, col suo corpo, là, invece del mio! col mio diritto su le cose mie, su mio marito —

venzi.        — no! no! questo non avverrà, non avverrà, glie­lo dico io!

elena.       Ma capisce che lei m'ha avvelenato, ora, anche tutte le cure, tutte le premure, le attenzioni che hanno per me? Io debbo ora, ogni volta, sforzarmi di na­scondere il ribrezzo che ne provo — ingiusto, ingiu­sto, ma irrefrenabile — se penso che con esse acqui­stano sempre più il diritto di godere dopo, come di un compenso che né la vita né la coscienza potranno loro negare. Con mani innocenti tutt'e due m'accom­pagnano, amorosi e addolorati, fino alla soglia della morte:   « Povera Elena, che vuoi? abbiamo fatto di tutto; ma la vita non ti ha voluta; e ora... » Questo è martirio: e me l'ha dato lei! — lei! — Perché? — Una ragione ci dev'essere! — che le ho fatto io?

venzi         (guardandola con occhi atroci). C'è! c'è! non lo sente che c'è?

elena.       Ah Dio! — lei... — Marta?

Si sente la voce di Marta che chiama lieta, avvici­nandosi.

la voce di marta. Elena! Elena!

elena        (sentendosi mancare, come soffocata). Oh Dio... oh Dio...

E mentre Venzi si precipita a sorreggerla, entra dall'uscio in fondo Marta, seguita da Anna e da Fausto.

marta.      Elena... (Subito, restando.) Che cos'è? Elena!

anna.        Si sente male?

fausto.     Elena! Elena!

venzi.        Tutt'a un tratto, sentendosi chiamare...

marta.      Di là di là, a letto!  (A Fausto:) La sorregga! Piano, Anna!  A letto!   (A  Venzi:)  Apra quest'uscio!

(Accenna l'uscio in fondo.) Portiamola di là!  Piano!

anna.        Dio com'è fredda!

marta.      Niente! Le daremo subito le gocce! Attenzione!

Via per l'uscio in fondo, con Fausto e Anna, sorreg­gendo Elena. Resta per un momento, solo e fosco, in iscena Francesco Venzi. Si sentono, sempre più lontane, le voci degli altri.

fausto   (sopravvenendo   agitato   e   dirigendosi  all'appa­recchio telefonico sulla scrivania). Chiamo il medico!

venzi.        Non si rià?

fausto.     È il solito attacco cardiaco!  —  (Rispondendo al telefono:) Pronto. C'è il dottore?  (Poco dopo, con atto d'impazienza:) Non si trova mai, Dio mio! (Di nuovo parlando al telefono:) Per favore, gli dica, signora, appena arriva, che corra subito da me. Sì. Mi raccomando. A rivederla. (Posa il ricevitore.)

anna         (accorrendo lieta). Lasci, lasci Viani: s'è riavuta! sta meglio! sono bastate poche gocce.

fausto.     Ah, meno male! Parla?

anna.        Sì: con Marta. Ha finanche sorriso!

fausto.     Vengo a vedere.

anna.        No, stia qua. Ora Marta la sta mettendo a letto. Verrà poi. (Via per l'uscio da cui era entrata.)

fausto.     Ma è stato proprio così all'improvviso, mentre parlava con te?

venzi.        Sì: ha sentito la signorina Marta che la chiama­va, e —

fausto.     — dovevano uscire insieme —

venzi.        — il suono della voce... — Tu fai male, caro mio —

fausto.     — a farla uscire?  —

venzi.        — anche! — male dico, per questa compagnia —

fausto      (stupito). — della signorina  Marta?

venzi.        Non è mica una cieca né una stupida tua moglie!

fausto.     Ma che dici? (Con forte apprensione:) T'ha parlato lei, di questo?

venzi.        No no: tutt'altro. Anzi, della signorina, tanto bene.

fausto.     Ah! — E allora?

venzi         (subito, quasi di scatto). Lo vedi? Ti sei sentito sollevare —

fausto      (stordito). — io? di che? —

venzi.        — hai fatto: « ah! », subito, appena t'ho rassi­curato che non me l'aveva detto lei!

fausto.     — sfido! — perché sarebbe indegno, enorme —

venzi.        — uh!  « indegno »,  « enorme »  — non gonfiare la cosa!

fausto.     Ma tu supponi davvero?

venzi.        Non suppongo: sono certo che — se vuoi che tua moglie guarisca — bisogna che tu allontani la signo­rina Tolosani dalla tua casa.

fausto.     Dimmi la verità, Venzi, in nome di Dio! Non è il caso di nascondermi nulla!

venzi.        Mi pare che più chiaro di come ti sto parlando, non potrei parlarti.

fausto.     Ma mi parli a nome di Elena?

venzi.        Ma no! Non me n'ha dato mica l'incarico —

fausto.     — ma t'ha confidato? —

venzi.        — no, niente... anzi... —

fausto.     — allora è una supposizione tua?

venzi.        Quando si soffre di cuore, te lo insegnano perfino i medici, la sensibilità...

fausto      (risoluto, troncando). Tu devi aver promesso a Elena di tacermi qualcosa che lei t'ha confessato!

venzi.        Ma non ho promesso nulla!  —

fausto.     — sì, sì, — deve averti detto qualche cosa che non vuole che si  sappia per un  riguardo ch'io  non posso né debbo ammettere, dato il suo male. È gelosa della signorina Marta?

venzi.        No, t'ho detto! — No! — La più grande stima, anzi! E anche di te! Nessuna confessione da parte sua. Nessuna promessa da parte mia. Tant'è vero che t'ho consigliato — io — io — (consiglio che parte da me) — se vuoi che tua moglie guarisca —

fausto.     — d'allontanare dalla mia casa —

venzi.        — quell'altra!

fausto.     — perché credi che Elena ne soffra? —

venzi.        — atrocemente —

fausto.     — ma non l'ha mai dato a vedere! —

venzi.        — avrà dato a veder anzi il contrario! —

fausto.     — il contrario, appunto!

venzi.        — ma ne soffre! ne soffre! —

fausto.     — te l'ha detto? —

venzi.        — no:  ma è così! —

fausto.     — perché lo supponi tu? —

venzi.        — perché l'ho capito benissimo! E avresti dovuto da un pezzo capirlo anche tu!

fausto.     Ma come! se la cerca lei stessa, la vuole, non ha bene, non ha requie se non l'ha con sé, se non se la sente vicina e non la sente parlare, perché lei sola sa trovare i modi di rasserenarla, di rassicurarla...

venzi.        (diabolico). Lo vedi? lo vedi come ti si fa dolce la voce?

fausto      (guardandolo, quasi imbalordito). Ma che dici? Dici a me?

venzi         (diabolico). Lo vedi? lo vedi come ti si fa dolce moglie non veda? Non se ne accorga?

fausto.     Ma tu sei pazzo! Che vedi?

venzi.        Quello che neppure tu, forse, sospetti ancora in te!

fausto.     No! no! sei pazzo?

venzi.        Pazzo? Cieco tu, che non vedi!

fausto.     Che vuoi che veda?

venzi.        Come ti bei, come ti bei parlando dei modi che lei sola sa trovare per rasserenarti e rassicurarti la moglie! — Ma è questo! è questo! — Tu non hai scoperto ancora l'insidia!

fausto      (come tra sé, stordito più che mai, ma già com­preso). L'insidia?

venzi         (seguitando con foga di mano in mano più esaspe­rata). Le abbiamo portato le nostre mogli, felici di come ella ce le ha accolte:  e prima, anche di tutto quello che aveva fatto per noi, della casa che ci ave­va preparato, di tutte le cure che s'era date: per pura amicizia, per gentilezza d'animo — chi ha mai potuto dubitarne? — Tu hai provato orrore al pensiero che tua moglie potesse esserne gelosa!  Com'essere gelosa di lei che è l'amica, l'amica vera delle nostre mogli; che ce le aggiusta, ce le guida, ce le ammaestra, ce le riduce buone e mansuete accanto?  Ma non capi-.    sci che ce la fa lei la nostra vita? ce la compone lei? Le nostre mogli non possono più farne a meno; sono nelle sue mani, felici di starci; la seguono, come af­fascinate;  non sanno più né parlare, né vestirsi,  né muoversi senza di lei: e ne sono gelose, si, ma tra di loro, appena temono che ella voglia bene più all'una che all'altra. E guaj a toccargliela! E la cosa più buf­fa e più spaventosa è questa: che te lo fanno vedere, te lo fanno vedere loro stesse che valgono tutte meno di lei! di lei che tu — non sai più come, ora che te la  vedi  così  presente  sempre  nella   tua  vita,   anche quando non c'è, presente e imprescindibile — tu pri­ma — non sai più come — eri a tempo; potevi pren­dertela; e la lasciasti là; per prenderti invece questa che sei venuto a metterle accanto e che ti dice lei stes­sa quanto valga di meno, come più la conosci, come più  te  ne stanchi;  mentre quella  ti resta li  davan­ti intatta,  intangibile,  che tu  puoi soltanto adorare, adorare come una santa — stizzito, urtato che con te l'adori anche tua  moglie,  d'una  maniera  che  ti  dà una smania feroce, che ti si mette qua allo stomaco e ti provoca a far cose da pazzo — guarda, guarda: te ne faccio subito la prova! (Salta all'uscio in fondo, di là dall'arco, e chiama.) Anna! Anna!

fausto      (cercando di trattenerlo). Ma no! lascia!

venzi.        Aspetta! — Anna, vieni qua!

fausto.     Ma che prova vuoi farmi?

venzi.        Stai a vedere! — Anna! 

(Anna entra dall'uscio in fondo.)

anna.         Che vuoi?  Con la tua vociaccia l'hai fatta sal­tare!

fausto.     Si assopiva?         

anna.        Stava per assopirsi!

 venzi.       E non c'è Marta accanto?

anna.        Non se ne stacca un momento!

venzi.        E dunque! S'assopirà subito di nuovo, non te­mere! — (Ad Anna, diabolico:) Come le fa? come le fa? come le dice?

anna.        Io non so; ha la voce e le mani fatate...

 venzi        (a Fausto). Ecco: la senti?

fausto      (urtato). Ma potresti capire che non è il caso!

 anna        (stordita). Perché? Non capisco...

venzi.        No, no, aspetta! — Di' un po', Anna! Ma che stupidi, che imbecilli siamo stati noi, tutti quanti, ad aver conosciuto prima la signorina Marta, esserle stati accanto, accolti in casa; ed essere poi andati a spo­sare un'altra? Di', di', non è vero? Tu, se fossi stata uomo, non avresti sposato lei?

anna.        Lei, lei, sì: te l'ho già detto cento volte e te lo ripeto; sicurissima che meglio di lei non avrei potuto trovarne!

venzi         (a Fausto). La senti? la senti? Ma già lo disse, di te; e non lei sola; anche tutte le altre, lo dissero: la moglie di Berri, la moglie di Mordini: prima che tu arrivassi —

anna         (ribellandosi). — ma no!  che c'entra più adesso?

venzi.        — sì sì, — ch'eri stato uno stupido a non sposar­la; ma anche io, uno stupido, è vero? anche Berri, an­che Mordini!

fausto.     Finiscila, perdio! non mi pare il momento, con lei di là. —

venzi.        — lei, chi?

fausto.     — mia moglie che sta male e può sentire!

venzi.        Ah! credevo lei... — Basta! basta! — (Rivolgendosi alla moglie:) Perché non te li sei tagliati i capelli?

anna         (di nuovo stordita). I capelli?

venzi.        Sì! T'avevo detto di tagliarteli! Perché non te li sei tagliati?

anna.        Perché non me li son voluti tagliare!

venzi.        Non è vero!

anna.        Non me li son voluti tagliare!

venzi.        Tu te li saresti tagliati! Te l'ha sconsigliato lei, la signorina Marta?

anna.        E se fosse? M'ha convinta che mi sarebbero stati male!

venzi.        Ma tu devi piacere a me, non a lei!

anna.        E difatti mi disse appunto così:  Tu devi piacere a tuo marito!

venzi         (a Fausto). Senti? Senti? (Alla moglie:) E perché allora non te li sei tagliati?

anna.        Perché ho capito che me l'avevi detto apposta, per riderti di me!

venzi.        E Marta?

anna.        Anche lei l'ha capito; e allora m'ha consigliato di non farlo! — Ma via, sto a dar retta a te! Lasciami andare!

(Via, di furia, per l'uscio in fondo.)

venzi         (dopo aver riso, all'uscita della moglie, orribilmen­te). Hai capito? hai capito? Liberati di lei! Liberati, se sei ancora a tempo!

Rientra subito Anna, facendo segno con le labbra e col dito di tacere.

anna.        S'è assopita! s'è assopita!

Rientra Marta senza cappello.

marta.      Ho dovuto penar tanto a ritirare la mano senza svegliarla... — Ha detto che verrà, il medico?

fausto.     Sì. Ma ho potuto soltanto dargli l'avviso a casa. Non c'era, al solito!

marta.      Sarebbe bene che lei andasse a cercarlo. f

austo.       Perché? Ha notato qualche cosa?

marta.      No. Ora è tranquilla. Ma mi dà pensiero una certa contrazione che dice di avvertire qua, alla bocca dello stomaco.

venzi         (quasi tra sé, scandendo le sillabe). Irradiazione cardiaca. Preludio di sincope.

fausto      (di scatto). Che diavolo dici?

venzi.        Medicina legale.

fausto.     È segno grave, dunque?

marta.      Ma già scomparso, già scomparso. Non si agiti, adesso! È per questa notte. Sarebbe bene, per pruden­za, chiamare un'infermiera. Non so se mi sarà possi­bile rimanere.

fausto.     Sì sì. Ma dove trovarlo ora questo medico, se è in giro per le visite?

marta.      Provi a passare dalla clinica.

fausto.     Sì; anche per l'infermiera.

marta.      E tu, Anna, fammi il piacere di passare da casa mia ad avvertire la mamma che mi trattengo qua fino a tardi.

anna.        Sì sì, vado.

marta.      Dirai che non posso lasciarla.

fausto.     Grazie, signorina, di tutto quello che fa...

marta.      Ma non dica, per carità! (Ad Anna:) Può chia­mare da un momento all'altro.

fausto.     Andiamo, andiamo, signora Anna!

anna          (a Marta). A rivederci.  (Al marito:)  Poi vado a casa.

fausto      (a Venzi). A rivederci.

Via con Anna, per l'uscio di sinistra. Marta si muo­ve per ritornare da Elena.

venzi.       Aspetti.

marta.      Temo che si svegli.

venzi.        Si direbbe che ha paura di restare un momento sola con me.

marta.      Ma non secchi! Ho da badare a ben altro che a lei, in questo momento.

venzi.        S'inganna, sa! — Bada a tutti, e soltanto a me, no? — Ho da dirle qualche cosa —

marta.      — che riguarda lei? —

venzi.        — me — ma non per me stesso — per coloro, anzi, a cui lei in questo momento vuol badare.

marta.      Elena?

venzi.        Elena — e Fausto.

marta.      Che cosa?

venzi.        Il discorso che ho fatto oggi stesso, all'una e all'altro, contro di lei.

marta       (dopo averlo guardato). E crede che possa im­portarmi?

venzi.        Sì sì: moltissimo. Per quello che n'è venuto fuori.

marta.      Contro di me?

venzi.        Sul male che lei fa.

marta.     Io?

venzi.        Sa che si può fare, anche senza volerlo.

marta.      Ah, certo!

venzi.        Io non so fino a qual punto lei non lo voglia. So, che è molto grave —

marta.      — questo male che io farei? —

venzi.        — questo male che lei fa. Sì. Molto grave.

marta.      Bisognerebbe che lo sapessi per riconoscerlo, se è vero.

venzi.        Ah, per essere vero, stia sicura ch'è vero.

marta.      Lo riconosce altri, qua — vero — oltre che lei?

venzi.       Sì.

marta.      Ah sì? — Mi dica chi!

venzi.        Chi ne soffre di più.

marta.      Elena?

venzi.        Perché dice subito Elena?

marta.      Perché è quella che, qua, in questo momento, soffre di più.

venzi.        Elena, sì.

marta.      Ma io ho creduto finora che soffrisse del suo ma­le — non di quello che io, davvero, non ho alcun so­spetto di farle. — Gliel'ha detto Elena?

venzi.        Sì. Poco prima che svenisse, sentendo la sua voce.

marta.      Ah, per questo? — Le ha detto di questo gran male ch'io le faccio?

venzi.        Sì. Enorme.

marta.      Volendolo? Sapendolo?

venzi.        No! Elena si rifiuta d'ammettere qualsiasi colpa in lei; è indignata, anzi, posso aggiungere, indignata veramente, contro di me che, invece, l'ammetto.

marta.      Non m'importa che lei l'ammetta! — Elena ha dunque il sospetto che suo marito...?

venzi.        No! — Ma è questo appunto il male di cui soffre — di non poterne far colpa a nessuno dei due, né a lei né al marito! e di dovere per giunta provare il ri­morso di ciò che è pur costretta a pensare di voi.

marta.      Costretta? Perché costretta?

venzi.        Ma perché, senza volerlo, lo pensa! anzi ribellan­dosi a questo pensiero! — Tutto qua, però, questa ca­sa, la vostra presenza, i vostri modi, le cure, l'amore, le attenzioni che avete per lei, tutto, tutto le mette davanti, e addosso, quest'orrore! Me l'ha detto. Cose, mi ha detto, che fanno veramente strazio a sentirle! Di quello che soffre, là nel suo letto, di notte, nell'inson­nia, pensando... Una pena orribile! Il martirio!

marta.      E lei, sentendo queste cose orribili, anche per carità del suo male, non le ha detto nulla?

venzi.        Io? Se le penso anch'io!

marta.      Ma dico, per carità del suo male!

venzi.        Che carità! Se ne soffro più di lei!

marta.      Che lei ne soffra o non ne soffra, non m'im­porta —

venzi         (subito). — e ha torto, ha torto! perché — vede? — è stata la mia sofferenza, invece, proprio la mia sof­ferenza a svelarle tutto; nel vedervi qua, voi due, at­torno a lei —

marta.      — ma svelarle che cosa? Sa lei quello che si dice?

venzi.        Giuro che non le ho detto una parola! Me l'ha letto negli occhi.

marta       (con impeto di sdegno). Che cosa?

venzi.        La mia, la mia sofferenza: e le si è attaccata, per contagio! Dice appunto che sono stato io a far­gliela pensare questa cosa infame di voi due!

marta.      Infame?

venzi.        No no: intenda bene! infame, appunto perché osa pensarlo di lei! — Ma la pensa, la pensa! — Come me!

marta.      Che cosa pensa? ch'io possa...?

venzi.        — sì, dopo, dopo la sua morte!

marta.      Ah, è orribile!

venzi.        — come pensiero per lei — (diabolico:) ma non la cosa in sé, però — possibile, possibilissima — quasi certa!

marta       (sbalordita). Che dice?

venzi.        Eh via! lei non l'ha pensata?

marta       (turbatissima e fiera). Si stia zitto: mi fa ribrezzo solo poter supporre che, anche a uno come lei, sia po­tuto venire in mente un tal pensiero!

venzi.        Ma si pensano, sa, si pensano, certe cose!

marta.      Si stia zitto, le dico! Non posso più sentirla par­lare!

venzi.        Si può tutto pensare, tutto, di nascosto a noi stes­si! È così naturale, creda, pensarle certe cose!

marta.      Sì, per uno come lei! —

venzi.        — eh già — che sono in grado anche di dirle! — Ma sia sincera! — Una cosa che poteva essere, che forse doveva essere e non è stata — che potrà essere domani, senza che nessuno ci possa vedere nulla di male! — La casa qua è pronta...

marta.      Ah, me ne vado! me ne vado via subito!

venzi.        No, perché se ne va, se non è vero?

marta.      Appunto perché non è vero! Non posso più stare qua!

venzi.        Ma l'uccide, sa! Se in questo momento se ne va, l'uccide!

marta.      Gliel'ha inoculato lei, come una vipera, il veleno di questo pensiero!

venzi         Tanto più, se crede così, scusi. — Le dico che la farebbe morire dal rimorso, se se ne va!

marta.      Ma la fa morire lei, per quello che ha fatto!

venzi.       Io no, le giuro! Sarebbe terribile, per me, se mo­risse! L'ha pensato da sé, creda; e m'ha fatto racca­priccio a sentirle esprimere con le mie stesse parole le stesse cose che penso io! Questa gara di compitezza tra voidue, lo spettacolo della squisita carità con cui la accompagnate, la sospingete fino alla soglia della morte.

marta       (inorridita). — io? — ha detto così?

venzi.       (guardandola negli occhi). — così! così! — Ma se veramente lei non l'ha pensato —

marta.      — come vuole ch'io possa mai averlo pensato, un simile orrore! —

venzi.        — e allora ha l'obbligo di restare qua a compiere questa suprema carità! — Anche per me: ma guardi, guardi come sono!

marta       (quasi senza più sdegno). Lei è un miserabile.

venzi.        Sì sì, un miserabile! E lei mi passi una mano sulla fronte, se la mano è così pura —

marta.      — per cancellare le cose orribili che pensa?

venzi         (ritraendosi). — no no, non lo faccia! non lo fac­cia! me ne piglierei la carezza! Io ho bisogno, bisogno di crederla cattiva, per poterla amare come la amo!

marta.      Oh lo so! lo vedo!

venzi.        Ma lei è, è cattiva; Sì sì, lei è cattiva —

marta       (con tristissimo sorriso). — perché ora riesco a vin­cere lo sdegno e sono buona con lei?

venzi.        — no! no! — perché tutta codesta sua bontà im­macolata —

marta.      — ma io non me la riconosco, sa! —

venzi.        — eh via, come non se la riconosce, se ce la mo­stra come un miracolo continuo? —

marta.      — io, la mostro?

venzi.        — sì — e dà il martirio a tutti con codesta sua immacolata bontà: affascina questo, affascina quello — le donne non meno degli uomini — ne siamo presi tutti — ne soffriamo tutti — e questa è la sua ven­detta! —

marta.     — la mia vendetta?

venzi.        — la sua vendetta, si; codesta bontà —

marta.      — ma di che, vendetta? —

venzi.        — di non esserci accorti a tempo del bene che avevamo vicino! di tutto codesto miracolo di gentilez­za, di pietà, di generosità, che seguita a dimostrarci, sempre, in tutto; e con effetto di male, sempre! Le nostre mogli, lei crede di rendercele più accette, indu­cendole a pensare, ad agire, a comportarsi come lei? Si sforzano di somigliarle, e si scoprono subito, per for­za, indegne del loro modello, goffe, insulse, sgarbate, miserevoli! Lei le dovrebbe invece indurre a non so­migliarle affatto, a essere tutt'altre da lei — l'opposto —   frivole,   civette,   sfrontate,   provocanti,   smorfiose: quasi nude, capelli corti, occhi bistrati, labbra segna­te come una ferita, e sigaretta in bocca — così!

marta.      Così, già — perché voi ve ne possiate accorgere —  ecco! — mentre di una, com'ero io, non vi voleste o non vi sapeste accorgere —

venzi.        — ma perché lei —

marta.      — eh, lo so, avrei dovuto spingervi, stuzzicarvi, provocarvi — e allora sì! —

venzi.        — no! ma almeno mostrare che avrebbe gra­dito —

marta.      — e perché io, mostrare? — Che ne sa lei se io, dentro di me, non gradivo? —

venzi.        — gradiva me?

marta.      — quando lei venne da noi, era già fidanzato con Anna —

venzi.        — avrei buttato all'aria il fidanzamento, se avessi potuto scorgere in lei il minimo segno —

marta.      — come poteva scorgerlo, se non mi passò nem­meno per la mente?

venzi.        Avrebbe sposato Berri? dica — avrebbe sposato Mordini? — Viani, sì, Viani certo, non lo neghi!

marta.      La finisca, Venzi, non abusi della mia pazienza; la ascolto perché la compatisco.

venzi.        Ma se gradiva —

marta.      — mi studiavo appunto di non mostrarlo, per­ché gelosa, dentro di me, del mio stesso sentimento, che qualcuno lo scorgesse —

venzi.        — anche quello che gliel'ispirava? —

marta.      — ma doveva accorgersene da sé, quello che me l'ispirava, senza ch'io glielo mostrassi! — Se mai nes­suno se ne poté accorgere, io ne sono ora contenta, per­ché è segno che m'avrebbe voluta come io non credo che una donna debba essere! — Lo vedo bene, lo ve­do bene, come voi vorreste che fosse una donna! Ec­co: come l'avete ridotta: — una mostruosa vergogna. — Il vostro stesso vizio, e mente altro! Tant'è vero che ora crede, nella sua inaudita impudenza, anche di po­ter fare a meno di voi! — Oh, non sbalordisca a sen­tirmi parlare così! Non sono mica una santa di quelle che fingono di non saper nulla, io! Sono così, appunto perché so. E Dio m'è testimonio di quanto m'è costato di schifo e d'orrore saperlo e vederlo e supporlo tutti i giorni negli occhi e nei modi delle donne! Oh Dio, anche delle vecchie! — Avevano una faccia, Dio, che poteva esprimere tutto, la gioja se la sentivano, il do­lore se lo sentivano, la maraviglia d'esser vive; se ne sono fatta una maschera dove è dipinta solo una cosa, la più laida: il vizio, l'oscenità! — E lei vorrebbe che fosse così la sua donna?

venzi.        No! no!

marta.      L'ha detto.

venzi.        Non potendo essere come lei, ho detto!

marta.      Ah sì — e allora, sconcia, sfrontata, viziosa? Me, intanto, perché sono come sono — nessuno prima mi volle! E dovrei essere io, ora, a indurre Anna, è vero? a esser diversa; e allora non sarei più cattiva; e la mia bontà non avrebbe più effetto di male! — Ma vede, vede a quale assurdità la conduce codesto suo acceca­mento? — Dio sa se c'è in me superbia; se io mi sento, dentro di me, in tutto, quello che veramente penso che dovrebbe essere una donna! Mi rimprovero, tutti i mo­menti, tante cose! Ma non dovrebbe essere questo, per voi uomini, il premio? una donna, veramente donna, accanto? il premio che nessuno deve sapere, il premio che non si dice: che soffre, In segreto, della gioja che dà, e in questo suo soffrire è anche la sua gioia — gioja sì, gioja sofferta, da cui nasce ancora la vita? il riserbo, la prudenza — quella vera, del cuore che tiene il segreto, perché ha visto e sa, sa tutta la vita dell'uomo che gli si confida; e in questo segreto del cuore non c'è più bisogno di nulla che stia fuori, allora: né legge, né giudizio degli altri; perché può assolvere, in sé, anche un delitto; come condannare, invece, quello che gli altri approvano! L'amante e la madre, l'amante che si fa madre, e che dice dopo, battendo la spalla, come si batte a un bambino: « Ora basta; sii uomo: non vedere, in me e in te, questo soltanto! » —

Troncando d'improvviso, perché avverte ora che il Venzi, sentendola parlare così, si sarà messo a pian­gere.

No, no, vada via, Venzi; vada via, non pianga! Non so che cosa m'abbia fatto dire! — Lei m'ha cagionato un vero dolore, perché non ha saputo rispettare in me neppure quello stesso sentimento, che Dio può dire se ho mai fatto nulla perché sorgesse in lei. — Vada, va­da! — Dovrebbe capire che per me è mostruoso.

venzi.        Lo capisco, lo capisco!

marta.      Come tutto quello che ha potuto pensare di me.

venzi.        E lei non capisce, che ciò che ne penso adesso, invece, viene ad essere peggio, tanto peggio per me?

marta.      Ma è lei, allora, non sono io, che cangia tutto in male! — Eh, ma non lei soltanto, qua, a quanto pare, se anche quella poverina... Dio mio! Dio mio! — e io non so più, ora, davvero, non so più come debba fare qua... quello che debba fare, se la mia presenza, l'es­sermi prestata con tanta cura e tanto affetto, ha po­tuto far pensare... — Non dico per me, no; ch'io me ne sia offesa, no, no — ma seppure non facendolo per male, questo male è nato nel cuore di quella poveri­na... Ah Dio, che cosa!... che cosa, Dio... che cosa... — Se ne vada, se ne vada, per carità... È quasi sera... Mi lasci pensare...

venzi.        Mi vuol dare la mano?

marta.      Ma sì, eccola... Se ne vada, però... (A un atto di Venzi:) No, Dio, lasci!

venzi.        Non gliela bacio, no, non gliela bacio! Mi per­doni.

Esce dall'uscio a sinistra. La penombra s'addensa sempre più, Marta è perplessa, sé andare, o no, nel­la camera di Elena. Lunga pausa. Entra dall'uscio a sinistra Fausto.

fausto.     Qua al bujo?

marta.      Stavo pensando...

fausto.     Venzi usciva di qua?

marta.      Sì. Abbiamo discorso...

fausto      (alludendo a Elena). Non si è ancora svegliata?

marta.      Volevo andare a vedere. Ma non credo. Mi avreb­be chiamata.

fausto.     L'ho trovato, sa? alla clinica. marta. Ah! il dottore? — Verrà?

fausto.     Deve fare ancora un'operazione, ha detto. Non potrà essere qua che tra due ore. Ho avvertito l'infer­miera. (Pausa). Ma accendiamo! Fa una tristezza, così...

(Dà luce alla stanza, poi, guardando Marta:)

Lei è triste, signorina. Mi dica la verità: crede che stia male veramente? (Allude a Elena.)

marta.      No, vede, riposa ancora... Bisognerebbe però che stesse sempre, sempre tranquilla... e io temo purtrop­po...

fausto      (dopo aver atteso un po'). Che cosa?

marta.      No, niente. — Vado, vado a vedere piano piano se non si è svegliata...

Esce dall'arco in fondo: attraversa la camera di Fau­sto; ne apre con cautela l'uscio e scompare. Fausto rimane un momento assorto a pensare, poi si guarda attorno  come per una suggestione  della immobilità degli oggetti circostanti, e dice, quasi con disgusto:

fausto.   Questa  casa...   (Pausa,  torna  a pensare).   Che Venzi le abbia detto...?

La voce del cameriere (dietro l'uscio di sinistra). Per­messo?

fausto.     Avanti.

Entra il cameriere e, contemporaneamente, dall'altro uscio della camera di Fausto, entrano Marta ed Ele­na. Questa è in una vestaglia rossa, che la fa appa­rire più pallida, e con le babbucce ai piedi, come una che si sia levata, di letto. Marta la sorregge.

marta.      No, no, di là no, non te lo permetto! Fin qua, e basta!

fausto      (accorrendo). Ah, ti sei levata?

elena.       Sì sì, me ne starò qua, me ne starò qua... non vado oltre!

marta.      S'è voluta levare; e non deve!

fausto.     Sii buona, Elena...

elena.       Ecco: me ne starò qua sul tuo letto... (A Marta:) Va bene così? Potete contentarmi!

marta.      Ma sì; certo! purché tu ti stia a letto! (L'accom­pagna al letto e l'ajuta a stendervisi.)

fausto.     Ecco, brava, così! (Poi, volgendosi al cameriere che aspetta:) Che volete?

il cameriere. Venivo ad avvertire che giù è pronto, per la cena.

elena.       No no, Fausto: giù no! Qua, qua:  fai apparec­chiare costà: per Marta e per te!

marta.      Ma no, che ti salta in mente? Io vado a casa.

elena.       No, qua! Fammi questo piacere! Qua, Marta!

marta.      Vado a prendermi il cappello in camera tua...

                                        

(Fa per avviarsi.)

elena        (levandosi dal letto). E allora, ecco, io mi levo dal letto, se tu non rimani!

marta.      Ma no, via, sei una bambina:  lasciami andare!

elena.       Non ti lascio andare, no! Devi rimanere qua. Guarda, ho tanta paura, questa sera, se tu te ne vai...

marta.      Ma tornerò più tardi, cara!

elena.       No, no, resta qua, con Fausto: e io, qua dal letto, vi sentirò parlare...

fausto.     La faccia contenta, signorina. Tanto, a casa, la signora Anna avrà già avvertito. (Al cameriere:) Ap­parecchiate qua, su quel tavolinetto. (Indica a destra dell'arco.)

elena.       Per due! per due!

il cameriere. Sissignora, per due.

Prende il tavolino, lo colloca in mezzo alla stanza ed esce.

marta       (ad Elena). Ma tu intanto, subito a letto!

Di nuovo l'accompagna e l'ajuta a stendersi.

Aspetta, prendo la coperta dalla tua camera.

Va e rientra poco dopo con la coperta. Intanto l'ap­parecchio telefonico squilla sulla scrivania. Fausto accorre.

fausto      (risponde al telefono). Pronto! (Breve pausa.) Sì. (Pausa.) Ecco: la chiamo subito! (A Marta, tenendo in mano il ricevitore:) Signorina, venga: la chiamano da casa.

marta.      Me? (Accorre.) Forse Anna non è ancora an­data.

elena.       Bene, così potrai avvertire tu stessa.

fausto      (cedendo a Marta il ricevitore). Ecco.

marta       (parlando al telefono). Pronto! — Io, io: di', mamma. —

(Ascolta. Lunga pausa. Nel frattempo, il cameriere rientra con un gran vassojo su cui sarà l'oc­corrente per apparecchiare la tavola, e una tovaglia sotto il braccio. Mentre dura la telefonata, apparec­chierà per due.)

 

— Ma no, che mi dici?

(Atto di stupore che quasi la spinge a posare il ricevitore.)

Sì sì, certo, mi sorprende moltissimo... — Ho capito, ho ca­pito, ma io... (Ascolta: altra pausa piuttosto lunga.) Ma no! così per telefono, scusa? — No, in questo mo­mento non potrei venire. Sì, sono qua da Elena. Co­me t'ha detto Anna... — Ma che vuoi che venga a fare, no! No, no, non vengo. (Pausa.) — Ma di' così: che me ne farete parola quando rincaserò, e... Ah, sa che tu mi stai telefonando? — E allora di' che non posso mica rispondergli per telefono su un tale argo­mento... — Ma sì, ringrazialo e digli che ci penserò... che daremo una risposta... Sì, ecco, così. Addio.

Posa il ricevitore, e subito dopo rimane assorta a pensare, come sospesa e turbata.

e lena.      Che cos'è?

marta.      Una cosa così buffa! E proprio oggi, poi... Mi piace la mamma che... Come se non avesse tempo a dirmelo...

elena.       Io ho capito, sai?

marta.      Che hai capito?

elena.       Che a casa tua è andato Guido Migliori a chie­dere la tua mano.

marta       (sorpresa e in apprensione). Com'hai fatto a ca­pirlo?

elena.       Ma perché, l'ultima volta che fu con noi, m'ac­corsi bene che già doveva aver fatto un pensiero su te. — Tu no?

fausto.     Sì sì, me n'accorsi anch'io!

marta.      Ma anch'io, Dio mio! Si fa presto ad accorgersi di certe cose. Non m'aspettavo, però...

                                        

Il cameriere rientra col primo servito appoggiando il vassojo sulla scrivania.

fausto      (porgendo da sedere a Marta). Ecco, segga in­tanto, signorina.

elena.       Marta, vuoi che te lo dica? Guido Migliori non è per te! È buono sì, ma così sciocco, così sciocco, po­verino!

marta.      Ah, non è certo un fiore d'intelligenza...

fausto.     Ecco, sì; se devo dire anch'io la mia opinione, Guido veramente non mi pare il partito più conve­niente per lei.

marta.      Deve avere anche qualche anno meno di me...

elena.       È ricco.

fausto.     Anche un bel giovane.

elena.       Ma non basta, scusa, per Marta! Un bel giova­ne... Ce ne sono tanti, bei giovani!

Pausa.

Nel silenzio, si deve avvertire che sopravviene uno strano imbarazzo in tutti e tre.

fausto.     Chi sa che la prima idea non gli sia venuta la sera del nostro arrivo...

elena.       L'idea però dimostrerebbe che non è poi uno stu­pido, mi pare, tra voi tutti tanto intelligenti...

Pausa.

marta       (lentamente, con gli occhi nel vuoto). Eppure, forse... sì, sarà bene, forse, che io accetti...

fausto.     Vuol dire « bene » veramente, per lei, signori­na? Io ci penserei.

elena.       Sì sì, Marta: bisogna che tu ci pensi, ci pensi... — Te lo dico io, Marta...

marta.      Me lo dici tu? Ma non piacerebbe a te che Mar­ta finalmente...

elena.       Sì! Ma con uno degno di te! Mi piacerebbe tan­to! — Tu puoi aspettare... Aspetta, aspetta... E chi sa!

marta       (troncando). — No, cara: vedrai, vedrai che dirò di sì.

A questo punto, dall'uscio di sinistra s'udrà:

la voce di venzi.  Si può?

fausto.     Ah tu? Vieni, vieni, Venzi.

venzi.        Ah, bene... A cena, qua?

elena.       E io qua, Venzi! Non vedo, ma sento!

venzi.        Buona sera, signora Elena. I miei complimenti.

elena.       Di che?

venzi.        Eh, vedo che sta meglio, anche non vedendo! — (A Fausto porgendogli una chiave:) Ti porto la chiave dello studio. Come viene il giovine domattina, le car­te da mandare al notaio, subito, sono preparate sulla mia scrivania.

fausto.     Sì, va bene.

venzi.        Lascio detto giù che se avrai bisogno di me, mi telefonino. E... buona cena a tutt'e due!

Si sente squillare di nuovo l'apparecchio telefonico sulla scrivania. Venzi, lì vicino, stacca il ricevitore.

marta.      Oh Dio, di nuovo!

venzi         (rispondendo al telefono). Pronto!

marta       (strappandogli il ricevitore dalla mano). No, la­sci. È per me!

venzi.        E come lo sa lei, scusi?

marta.      È per me!

elena.       Guido Migliori, Venzi, chiede la mano di Marta! — Rispondi di no, Marta, di no, di no: che la fini­scano!

venzi.        Ma si sa! Di no! Non può mica rispondere altri­menti!                                 

marta       (al telefono). ...ma che buona parola vuoi che ti dica, scusa, mamma: è ridicolo! — No, no, e basta! — (Posa il ricevitore, e guarda fieramente Venzi.) Non ho, difatti, in coscienza, da rispondere altrimenti.

venzi.        Ma naturalmente, naturalmente! Come ho detto io! — (Ridacchia.) Ah ah — figurarsi Guido Miglio­ri... Buona sera! Buona sera!

E se ne va, ridacchiando ancora. Si rifà nel silen­zio, più grave, l'imbarazzo di prima. Marta e Fau­sto, seduti di fronte, non sanno più come proseguire la cena, dove guardare, che cosa dire. A un tratto, Elena, che s'è levata di letto silenziosamente, appare — pallidissima — nel vano dell'arco.

elena.       State insieme, tutti e due, così bene... Come sta­rete, come starete quando io non ci sarò più...

Marta e Fausto accorrono a lei, costernatissimi.

marta.      No, Dio, Elena, che dici? che pensi?

fausto.     Elena! Elena! Come puoi pensarlo?

elena.       Vi vedo, vi vedo, come sarete!

marta.      No, Elena! Levati dalla mente questa cosa or­renda!

elena.       Ma io lo voglio! lo voglio!

marta.      Che vuoi? Sei pazza! Tu sei qua! Tu guarirai!

fausto.     Devi vivere! devi vivere!

elena.       Volete che viva? Tu vuoi che viva, Marta, vuoi che viva?

marta.      Ma sì, cara, certo! Io darei la mia vita per farti vivere!

elena.       No, basta che tu sposi, basta che tu sposi!

marta.      Sì sì, Guido Migliori, non dubitare; lo sposerò, lo sposerò!

elena.       Non per me, sai! Io ti credo, io ti credo! È per levare dalla testa a questo vile uomo il pensiero che m'ha infitto qua come un chiodo e che mi sta facendo impazzire! morire, morire!

marta.      Sì sì!

elena.       Per dimostrargli che non è vero! che è un'infa­mia, un'infamia quello che pensa di te! Perché tu sei buona, sei buona, come ti credo io, Marta mia! buo­na... buona... (E se la carezza tutta.)

marta.      Ma sì sì, cara! come tu mi credi! Stai tranquil­la, stai tranquilla! così ti fai male... — Stai tranquilla, cara. E sicura, sicura! Perché io sono, sì, veramente, come tu mi credi.

t e l a


ATTO TERZO

La stessa scena del secondo atto, poche ore dopo.

È notte.

Nel salottino ogni lume è spento. C'è solo il riverbero, appena, di qualche luce che si intravede dalla tenda ver­de tirata sugli anelli e dall'arco sopra di essa, nell'altra camera, ove Elena muore.

Elena muore sul letto del marito.

Nel bujo del salottino, qualche guizzo vivo di luce, di là dall'arco, dovrebbe di taglio investire una piega della tenda presso l'apertura, e farne risaltare la tinta verdissima. Potrebbe anche, lo striscio di luce, allungarsi di qua sul pavimento.

Al levarsi della tela, la scena dovrebbe dapprima ap­parire vuota, e poi, fatti gli occhi alla fitta penombra, scorgervisi appena Francesco Venzi, in piedi, a spiare dall'apertura della tenda, nell'altra camera.

Tutto l'atto — brevissimo — di poche parole e di mol­te pause lentissime e lugubri, consisterà di ciò che potrà indovinarsi della morte di Elena nell'altra camera.

Tra le pause — le parole — o di Marta, o di Fausto, o del dottore, o dell'infermiera — dovranno sonare chia­re e dar bene l'impressione che sono della vita, di gente che è e che resta nella vita; per cose che si debbono fare nella vita; perché anche la morte — e sia pure d'una per­sona cara — è cosa, si grave, ma ordinaria, della vita, a cui bisogna assistere e badare, compiendo certi atti de­terminati con animo vigile, dal quale a volte può sem­brare anche assente la pietà.

In principio, s'udrà soltanto, cadenzato e ormai quasi meccanico, il lamento di Elena.

Stia l'attrice che rappresenta la parte di Elena vera­mente sul letto, e tutti gli altri attori e attrici, di là dalla tenda, compiano ogni azione indicata, come se il pub­blico li vedesse.

elena.       Ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio...

E questo lamento, cadenzato e quasi meccanico, sia ripetuto ora alzando, or attenuando la voce, or inter­calandovi qualche profondo respiro, durante tutti gli intervalli, fino al momento che non cesserà con la morte.

marta.      Non crede di dover fare un'altra iniezione, dot­tore?

fausto.     Sì, il polso le manca. S'avverte appena! Subito, subito, dottore!

l'infermiera. Ci sono altre due fialette d'olio canforato. E  una d'etere.

il dottore. Prepari la siringa. Ma pare, purtroppo, che non ne risenta più l'azione.

fausto.     Dopo la seconda, il polso era tornato quasi nor­male, però.

il dottore.   Proviamo,  proviamo.   (All'infermiera:)  No, non c'è bisogno. Dia qua!

Lunga pausa, per l'azione indicata. Si udrà di nuo­vo il lamento di Elena.

fausto.     Non avverte più neanche la puntura, ha visto?

Pausa. Di nuovo, il lamento, a lungo.

marta.      Ma farà sempre così?

il dottore. Lamento meccanico.

fausto.     Eh, sì forse non  saprà  nemmeno  di  farlo.  È terribile!

l'infermiera. Forse non sarebbe male rialzarle un po' il capo.

marta.      Sì, mi pare che così stia male.

l'infermiera. Aspetti, aspetti...

fausto.     Meglio non toccarla!

marta.      Un poco, appena appena... No, lasci, faccio io!

Pausa, per l'azione indicata. Il lamento di Elena cessa un poco; poi riprende.

fausto      (di nuovo col polso di Elena tra le dita). Ma com'è? Oh Dio, senta, dottore: il polso non batte più, proprio!

Pausa. Il dottore prende il polso di Elena e lo ascolta. Poi:

il dottore. No, no, impercettibile; ma batte.

marta.      Suda tanto...

fausto.     È gelata.

marta       (all'infermiera). Mi dia, mi dia quel fazzoletto! (Pausa.) Elena, Elena mia...

Altra pausa. Il lamento di Elena si fa più forte; poi tutt'a un tratto, sull'« ah » della terza ripresa, manca. Pausa d'attesa, breve.

fausto.     Com'è? Non si lamenta più!

marta.      Stenta a respirare.

il dottore. Proviamo con l'ossigeno. Dov'è? L'hanno portato?

l'infermiera. Sì, una bombola: è di là.

Il dottore scosta la tenda ed entra. Cerca al buio: non trova. Francesco Venzi s'è tratto un po' indie­tro. Ma già di là Elena ha ripreso il suo lamento.

il dottore.  Dov'è?

l'infermiera.  Costì, dottore.

Entra in iscena anche lei, e prende a sinistra dell'arco, dov'era il tavolino, la bombola d'ossigeno.

Eccola!

il dottore. Provi a farglielo respirare.

L'infermiera ripassa nell'altra camera, di cui ora si scorgerà una parte, avendo il dottore tirato per circa la metà sugli anelli l'ala sinistra della tenda. Francesco Venzi, che si sarà scostato verso destra, nell'ombra, vedendo anche il dottore ripassare nell'altra camera, lo chiamerà.

venzi.        Dottore, dottore...

il dottore  (rivenendo avanti). Chi è? — Ah, lei avvo­cato?

venzi.        Sono qua da un pezzo. (Con cupa improvvisa im­plorazione, quasi minacciosa.) La salvi, la salvi, per carità, dottore, la salvi!

il dottore. Eh!  Che vuol più salvare ormai!

venzi.        Non lo dica! non lo dica! Faccia di tutto per sal­varla, dottore! Ci sarà un rimedio eroico: lo tenti al­meno!

il dottore. Nessun rimedio! Soltanto un miracolo..

venzi.        Lo compia! lo compia!

il dottore. Il miracolo?

venzi.        Lei non sa che cosa può dipendere da questa morte!

il dottore. Dice per il marito?

venzi.        Per il marito, sì!

il dottore. Sarà terribile, lo so; sposato da così poco; ma bisognerà pure rassegnarsi... (Rientra nell'altra ca­mera.)

venzi         (solo, come una belva in gabbia). Rassegnarsi? rassegnarsi? Ah sì! rassegnarsi, dice! Lo vedrà! lo vedrà!

E viene a sedere sulla poltrona accanto al divano, con le spalle al pubblico sul davanti. Silenzio. E, di nuovo, nel silenzio, le voci di là.

marta.      Non si riesce, non si riesce...

fausto.     Lasciatela stare, per carità!

il dottore (all'infermiera). Ma sì, la lasci, la lasci.

fausto.     L'avete smossa... s'è tutta alterata... non si la­menta neanche più... Elena, Elena! lamentati alme­no... non posso vederti così... Elena, Elena... (E rompe in gran pianto.)

il dottore.  No,  no,  su via,  non pianga qua,  adesso!

marta.      Per pietà di lei, Viani, venga venga: non faccia così... venga, venga!

fausto.     No, mi lasci! mi lasci stare qua!

marta.      Ma le può far male! Sia buono! Dia ascolto al dottore!

fausto.     Se non sente più! Non vede? non sente più!

marta.      Ma sì, che sente! Venga, venga...

il dottore. Sia buona! È meglio che lei stia lontano... Di là, di là, signorina... (Lo affida a Marta, e rimane presso il letto della morente.)

marta       (accompagnando e quasi sorreggendo Fausto). Si stia qua — ecco, qua — a sedere qua... Ha pensato d'avvertire i parenti con un telegramma?

fausto.     Sì; ho detto giù, mi pare, d'andar subito a passare il telegramma che ho fatto per il padre, urgente.

marta.      Ah, bene... Se l'ha fatto...

fausto.     Ma non giungerà certo a tempo!

marta.      Chi glielo dice? Giungerà a tempo! Si metta a sedere qua...

fausto.     Non so piuttosto se il cameriere sia andato a spedirlo.

venzi.        È andato, sì.

fausto      (che s'accorge adesso della presenza di Venzi). Tu qua? Chi t'ha chiamato?

venzi.        Sono stato avvertito —

fausto.     — chi t'ha avvertito? Io no!

marta.      Ah, io nemmeno...

venzi.        Avevo lasciato detto io qua, nell'andarmene, che mi s'avvertisse.

fausto.     Per venire a vedere il compimento della tua opera?

venzi.        Ma no —

fausto      (indica di là). — eccola! eccola! la vedi?

marta.      Per carità, lasci, Viani, lasci!

venzi.        Incolpi me?

fausto.     Te, te, sì! Sei stato tu, tu, a far precipitare il suo male! tu, con la tua nequizia! Guardala! là, guardala!

marta.      Ma no, lo lasci, Viani! E si stia zitto! Non le sembra inutile adesso codesta recriminazione, qua?

fausto.     Perché lei è generosa!

marta.      Ma lasci star me! Che c'entro io?

fausto      (a Venzi). Vattene! vattene! E per sempre, or­mai! Non c'è più posto per te in questa casa!

il dottore (sopravvenendo). Vi prego, vi prego, signori miei! Non è il momento!

marta.      Segga, segga, Viani! Si calmi!

venzi.        Lei va via, dottore? l'accompagno.

fausto      (voltandosi di scatto). Ma come, dottore, va via?

il dottore. Non c'è nulla da fare per adesso...

fausto.     No, no, lei deve rimanere! La vuol lasciare così?

il dottore. Ma che vuole che stia a fare, scusi?

fausto.     Assisterla! Se ne vuole andare? Per essere pron­to a un bisogno.

il dottore. Ma ho lasciato all'infermiera tutte le di­sposizioni.                            

fausto.     No, no! Deve assisterla lei, deve assisterla lei! Non la lascio andare!

il dottore. È inutile, le dico! Ora è più calma. Pare che il polso abbia un po' ripreso.

fausto.     Ah sì?

il dottore. E anche la respirazione.

fausto.     C'è allora qualche speranza?

il dottore. Non vorrei ingannarla. È gravissima. Spe­riamo che questa calma duri. Se supererà, come è pro­babile, la notte, domattina, prestissimo, io sarò qua. Si faccia animo! Buona notte. Buona notte, signorina.

marta.      A rivederla, dottore.

Fausto si ripiega a piangere sulla poltrona. Il dot­tore fa un cenno col capo a Marta, per farle inten­dere che la catastrofe è inevitabile e forse imminen­te; e se ne va per l'uscio a sinistra con Venzi.

marta.      Su, su, coraggio, coraggio, Viani, non si perda d'animo così...

fausto      (rialzando il capo). Avere il coraggio di presen­tarsi qua...

marta.      Non ci pensi più. È andato via. Basta.

fausto.     Eh già! come i delinquenti sul luogo del delitto. È venuto a vedere. Lei lo può ben dire con me, che è stato lui, lui, per confessione esplicita di quella mia poverina...

marta.      Sì, ma pensi che il male che ha potuto farle...

fausto.     Io ho detto che l'ha fatto precipitare.

marta.      Ecco, sì; ma « la sua poverina » lo aveva già in sé.

fausto.     Tanto più non doveva fomentarglielo! E poi per lei, Marta! — Un'insinuazione così vile, indegna... Metterle in mente... Ah! Un'opera diabolica...

Pausa. Nel silenzio, di nuovo, il lamento di Elena, ma fioco, come già lontanissimo. Marta, rimasta vi­cina a Fausto, in piedi, si volta appena ad ascoltarlo, e non dice nulla. Fausto, come avvertendo un senso di profonda angoscia e d'infinito rimpianto in quel silenzio, alza un poco il capo a guardarla, a osser­varla; poi lo riabbassa. E seguita il silenzio. E il la­mento.

elena.       Ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio...

fausto      (come seguitando il suo pensiero). E il discorso che aveva fatto prima a me, su lei... con una traco­tanza quasi feroce, chiamando la moglie... per farmi dire in faccia... si, ha osato questo... farmi dire in fac­cia che mi avevano 'dato tutti dello stupido, perché io non avevo...

S'interrompe. Poi alza di nuovo il capo a sogguar­dare Marta, e poco dopo lo riabbassa.

marta.      Per carità, non parli di lui...

fausto.     Chi sa quanto l'avrà fatta soffrire!

marta.      Zitto, mi faccia questo piacere! — Mai, creda, mai quanto adesso —

fausto.     — ha sofferto?

marta.     — Sì. — Zitto.

fausto.     Per lui?

Marta non risponde. Si porta il fazzoletto agli oc­chi. Silenzio. E nel silenzio, cadenzato, un po' più forte, il lamento.

elena.       Ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio... — ah Dio, ah Dio mio...

fausto      (come seguendo ancora il suo pensiero). ...ma che può volere? che osa, che osa volere da lei?

marta.      L'ho pregata, Viani, di non parlarmi ora di lui... Perché vuol farmi pensare a lui, adesso?

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fausto.     Ma tanto per cercare di spiegarmi questo suo accanimento feroce.

marta.      Non ci vuol molto a spiegarselo. È appunto per­ché sa che non può osare di voler nulla da me —

fausto.     — e che altri potrebbe?  (Silenzio. Ma non si ode più il lamento.)

marta       (dopo averlo atteso un po'). Non si lamenta più?

Si mostra sotto l'arco,  rigida, l'infermiera,  e chia­ma:

l'infermiera. Signorina.

marta       (intendendo). Ah sì?

E si muove verso l'altra camera.

fausto.     Che cos'è? — Morta? — Morta? — (E accorre, gridando e piangendo.) Elena! Elena mia! Elena! Elena! (Appena entrato nell'altra camera, arretrando:) Oh Dio mio! Perché fa così?

l'infermiera. Ma è già morta.

fausto.     Ma no! Vede? È orribile! Un'altra volta...

l'infermiera. Quando si muore di sincope...

fausto.     Ma la bocca... ah Dio, non così...

marta.      Venga, venga, lasci che l'infermiera la assista, prepari...

fausto.     No, no! (Andando presso il letto e curvandosi sul cadavere:) Elena mia, Elena mia, come te ne sei andata presto! poverina mia, presto, senza nulla ve­dere, senza nulla godere, così straziata subito, subito! Che cosa è stata la tua vita con me? Non mi senti più! non mi senti più! Elena! Elena!

Mentre Fausto piange così sulla moglie morta, dal­l'uscio a sinistra rientra, cauto, Francesco Venzi, e subito si ritrae di nuovo verso destra, nell'ombra.

marta       (forzando Fausto a staccarsi dal letto e conducendolo poi di qua dalla tenda). Su, su, basta, basta, Viani; poi tornerà qui; adesso venga, venga: bisogna che l'infermiera badi a quel che ha da fare... Sia uomo, e se ne stia qua un pochino... qua...

Appena Marta, sorreggendo Fausto, ha attraversato l'arco, l'infermiera tirerà sugli anelli l'ala sinistra della tenda. La scena resterà quasi al bujo, come in principio dell'atto.

fausto.     Sì sì, starò qua, starò qua...

marta.      Ecco, sì, seduto qua...

Lo fa sedere su l'altra poltrona presso il divano, per modo che il pubblico lo possa discernere. Egli si volta sulla poltrona sul lato sinistro e si porta la mano destra sulla testa.

Ci starò anch'io di là... la curerò io, non dubiti...

Entra, scostando la tenda, nella camera mortuaria. Subito, allora, Francesco Venzi s'appresserà, di die­tro, alla poltrona su cui Fausto è seduto, e così di dietro, alzerà la mano con cui impugna la rivoltella tolta dalla scrivania al secondo atto, e sparerà contro la tempia di Fausto, abbandonando l'arma nello stesso momento che Fausto, morto, abbandonerà il braccio che teneva sulla testa. Alla detonazione, due gridi di là dalla tenda: e Marta e l'infermiera vengono fuori impaurite.

marta.      Ch'è stato?

venzi         (subito). S'è ucciso!

Marta, esterrefatta, lo fulmina con gli occhi.

l'infermiera. S'è ucciso? Ah Dio... (s'accosta a guar­darlo:) è morto! è morto!

venzi         (imperioso). Non lo tocchi! Bisogna subito avver­tire la questura. Vada, dica al cameriere che corra subito!

l'infermiera (obbedendo, spaventata, all'ordine). Sì sì, vado, vado... Ah Dio, che cosa!

(Via di corsa per l'uscio di sinistra.)

marta       (subito a Venzi, quasi senza voce). L'ha ucciso lei!

venzi         (fermo e cupo, con voce sorda). Se lo crede, mi denunzii.

marta       (seguitando a guardarlo, esterrefatta, ripete più spiccatamente). L'ha ucciso lei.

venzi         (c. s.). Mi denunzii. L'arma, guardi, è la sua.

marta.      Ha fatto questo! E può seguitare a guardare! L'ha ucciso senza ragione! Perché io l'amavo — ma non l'avrei mai sposato!

venzi.        A me è bastato accorgermi che lei l'amava.

marta       (accostandosi a Fausto e sfiorandogli i capelli con la mano). Ah povero... povero... povero...

venzi.        E poi dice che non l'avrebbe sposato!

marta       (fiera rilevandosi). Le dico che non l'avrei mai sposato!

venzi.        Sta bene. E allora, mi denunzii. Mi denunzii. Se no, è complice.

marta       (si volta a guardarlo; i più opposti pensieri e sen­timenti le fanno impeto dentro: complice, lei? — ma ha detto che amava Fausto — si volge appena verso di lui, là morto — come denunziare? — no: non sarà lei — trova la via per metterlo di fronte alla sua stessa coscienza — e dice in tono pacato, ma fermo, di persuasione).

Lei si denunzierà da sé.

venzi.        Ma che vuole che sia per me, denunziarmi, non denunziarmi? Quello che a me importa è che lei, dopo questo, non sarà più di nessuno.

marta       (accettando questa sorte come qualche cosa che la alzi sopra se stessa). E le pare che sia una condan­na per me?

Silenzio. Ma ecco che da sinistra sopravvengono af­fannose le mogli Anna, Rosa, Clelia, con l'infermie­ra, le cameriere. Dopo le prime, irrefrenabili escla­mazioni, restano, piene d'orrore, quasi senza fiato e tutte occhi, alla vista dell'ucciso.

anna.        Ah Dio, che tragedia! — Eccolo! Eccolo!

rosa.         Ma com'ha fatto?

clelia.      Com'è stato?

l'infermiera. Tutt'a un tratto! La signorina l'ha por­tato di qua, e...

anna         (al marito). Tu eri qua?

 l'infermiera. Ma è stato un attimo!

rosa.         E lei, di là — guardate!  (Indica Elena sul letto dell'altra  camera:)  ah Dio,  guardate!

anna.        Tutt'e due! Che cosa!... E tu, povera Marta!

rosa.         Trovarti qua, a una simile tragedia! Pensai su­bito a te, appena Anna venne a chiamarmi: — « E Marta? E Marta? » —

anna         (indicando il marito). Lui accorse subito, appena chiamato; io ero già a letto; sono corsa a chiamar loro!

Indica Rosa e Clelia.

clelia.      Che spavento ha dovuto essere per te, povera Marta! Sono venuta, vedi? come mi trovavo! Ho lasciato Paolo con un gran mal di capo...

rosa.         Io non so nemmeno se ho richiuso la porta! Po­vera Marta!

marta.      Basta! basta! vi prego! Qua non c'è da pensare a me; c'è da pensare ad altro! Vi prego d'andare! — Sì sì, Anna, ti prego, ti prego: (indica Venzi;) pòrta­telo via con te!

anna.        Ma come? vuoi restar sola?

clelia.      Qua, tu sola?

rosa.         Siamo venute per te!

marta.      Sola, sì, sola! Vi ringrazio; ma andate, andate, vi prego! Voglio restar sola! — Pòrtatelo via, pòrta­telo via, Anna!

venzi.        No. Io debbo restare.

marta       (con minaccioso tono). Lei se n'andrà via con sua moglie! — (Poi rivolta alle mogli:) Insomma, co­me debbo dirvi d'andarvene? — Lasciatemi sola! vo­glio restar sola! — Sola, — sola, — sola! —

T E L A