L’amore paterno

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[Prefazione]

Carlo Goldoni

L'AMORE PATERNO

O SIA

LA SERVA RICONOSCENTE

Commedia di un atto solo in prosa, rappresentata per la prima volta a Parigi dai Commedianti Italiani ordinari del Re.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

GIO. DOMENICO ALMORÒ TIEPOLO

PER LA SERENISSIMA REPUBBLICA

DI VENEZIA

AMBASCIADORE A SUA MAESTÀ CRISTIANISSIMA

Contentodi ritrovarmi a Parigi, V. E. ha aumentata moltissimo la mia compiacenza. Mi trovo in una grande città, in mezzo ad un gran Mondo; parmi di esserci fino ad ora ben situato, ma ho sempre la mia Patria nel cuore, edElla, che sì degnamente qui la rappresenta, col suo merito mi consola, e colla sua protezione mi onora. Non manca a Parigi tutto ciò che può render piacevole al galantuomo la vita, ma il maggior piacere ch'io abbia, si è il sentir dappertutto formar elogi al nome di V. E., ed il vederla amata e stimata da ogni ordine di persone. La stima potrebbe essere fondata su la cognizione della di Lei illustre famiglia, una delle più antiche, delle più nobili e delle più rinomate della Repubblica di Venezia, ma ciò difficilmente in una grande Città, lontana dal Paese nostro, da tutti può risapersi, e gli amatori della storia soltanto ponno essere dei fasti della di Lei gran Casa informati. La stima che hanno di Lei i francesi è fondata sopra il di Lei talento, e l'amore sopra le di Lei amabili qualità personali. Queste sono principalmente la gentilezza del tratto, la cortesia dell'animo, l'onestà, il costume, la buona amicizia, l'ospitalità generosa, la saggia ed esemplare condotta... Ma io non ho preso la penna in mano per formare un elogio a V. E. Io non lo saprei fare, ed ella lo merita, ma non lo vuole. L'oggetto di questo mio umilissimo foglio non è che di supplicarla di ricevere sotto la sua protezione una mia Commedia, la prima che ho composta a Parigi, che ha avuto la fortuna di non dispiacere al pubblico, e quella di essere compatita da V. E. Degnisi Ella di riceverla con quella benignità, con cui è solita di onorare l'umilissima mia persona, e niente più mi resterà da desiderare. Mi lusingo assai della grazia, ed ho l'onore di essere col più profondo ossequio

Di V. E.

Parigi, li 14 Febbraio 1763.

Umiliss. Devotiss. Obblig. Servitore

Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Tu mi vedi, Lettor carissimo, passato d'Italia in Francia. Conoscerai dalla Commedia che or ti presento, ch'io ho scritto per un paese a me nuovo e che ho cercato in qualche scena di produr me medesimo per implorare quell'indulgenza che io sapea di non meritare. La fortuna ha voluto farmi del bene: la Commedia è stata ben ricevuta, e questo pubblico mi ha incoraggito. Per far parte di questa mia contentezza a' miei amorosi compatrioti, trasmetto questa mia Commedia in Venezia per farla imprimere nel quinto Tomo della mia novella Edizione, pregando i miei padroni e gli amici miei di aggradirla, giacché la mia situazione presente non mi permette di poter per essi far d'avvantaggio. Terminati i due anni del mio impegno a Parigi, non so dire io medesimo che cosa sarà di me. Il favore che ha ottenuto questa mia prima operetta non mi lusinga di aver sempre la stessa sorte. Conosco me stesso; ed ho ragion di temere. S'io fossi uno di que' filosofi che gioiscono oggi, senza pensare al domani, sarei felice. Niente di meglio posso presentemente desiderare. Sono in un gran paese, provveduto decentemente, amato più ch'io non merito, e calcolato piucch'io non vaglio. Aggiungasi a ciò un altro bene: fatico meno. Non ti pensare, Lettor cortese, ch'io sia l'amico dell'ozio; non potresti pensarlo se tu volessi, rammentandoti quanto ho travagliato sinora. Dono a Parigi le stesse ore allo studio, ch'io donar soleva in Italia, ma pure fatico meno, poiché lo scrivere una Commedia in due mesi è un'applicazion che diletta, e lo scriverla in dieci giorni è un lavorar che affatica. E perché (mi dirai) lavorarla in sì pochi giorni? chi ti obbligava di farlo? Non meritava il tuo Paese quel rispetto e quell'attenzione che ti vanti presentemente di usare? Se ciò avesti fatto a principio, non faticheresti ora nello stampar le tue opere per correggerle, o migliorarle. Sì, amico, tu dici vero; ma la necessità di far molto, per profittare mediocremente, tradiva sovente la buona intenzione. L'ho fatto quando ho avuto tempo di farlo. Il pubblico ha conosciuto qualche volta la mia fatica, e il più delle volte si è contentato di una facilità fortunata. La Commedia, che ora leggerai, è brevissima, pure è Commedia intera, ed ho più faticato per farla breve di quello avrei fatto allungandola: fatica assai dilettevole. Così piacciono le Commedie a Parigi. Una sola non empie mai lo spettacolo; se ne danno due o tre per sera. Piace la varietà; e la novità, quand'è aggradita, prevale. Io non poteva mai lusingarmi che una mia prima rappresentazione in Parigi avesse a riportare un sì buon successo. La quantità d'eccellenti autori, che qui fioriscono, il lungo uso che qui hanno di gustare le migliori Commedie, il gusto particolare della nazione, la varietà della lingua, il poco tempo che ho avuto di riflettere e di osservare, tutto mi metteva in disperazione. Pure, lo crederesti? Parevami la prima sera di ritrovarmi nella mia Patria, fra miei antichi parziali, e di sentire le stesse mani de' miei amorosi compatrioti.

Scrivo ciò in pubblico per far parte agli amici miei della mia contentezza. Suppongo, Lettor cortese, che tu sia di quelli che mi amano, e come tale ti abbraccio.

Umiliss. Devotiss. Obblig. Servitore

Carlo Goldoni


PERSONAGGI

PANTALONE de' Bisognosi.

CLARICE figlia di Pantalone.

ANGELICA altra figlia di Pantalone.

CELIO amante di Clarice.

SILVIO amante di Angelica.

FLORINDO uomo vano e presuntuoso.

PETRONIO uomo ignorante.

CAMILLA amante d'Arlecchino.

SCAPINO servitore di Pantalone.

ARLECCHINO amante di Camilla.

La Scena è a Parigi in una sala comune della casa di Camilla.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Arlecchino in abito da campagna, e Scapino

SCAPINO             - Oh oh, signor Arlecchino, ben tornato dalla campagna.

ARLECCHINO    -  Com'èla, Scapin? Cossa vol dir? Mi te credeva ancora in Italia. Per che rason et tornà a Parigi?

SCAPINO             - Oh bella! il signor Stefanello non mi ha mandato a Venezia per accompagnare a Parigi il signor Pantalone di lui fratello?

ARLECCHINO    -  E ben? Stefanello è morto. Pantalon non ha più da venir a Parigi, e ti ti averessi fatto meio a restar in Italia. (Costù no lo posso soffrir; so che una volta l'aveva delle pretension sora Camilla).

SCAPINO             - Anzi sono venuto a Parigi col signor Pantalone, e con due sue figliuole.

ARLECCHINO    -  Pantalon è vegnù qua con do fiole? So fradelo è morto, e el vien qua con do fiole?

SCAPINO             - A Lion solamente abbiamo saputo la morte del signor Stefanello. Il signor Pantalone ha pensato bene di proseguire il viaggio, e di venire a Parigi, sperando di ereditare i beni di suo fratello; ma il povero galantuomo ha qui scoperto che, per le leggi del Regno, non può ereditar cosa alcuna, e si trova nelle maggiori angustie del mondo. In Venezia non è mai stato ricco; viveva, si può dire, dei soccorsi di suo fratello, e tutto spendeva per educare le sue figliuole, le quali, per dire la verità, sono riuscite due maraviglie, una bravissima nelle scienze, e l'altra eccellente nella musica. Credeva di far un gran regalo a suo fratello, conducendogli quelle due gioje, ma il fratello è morto, ed il pover'uomo non sa a qual partito appigliarsi.

ARLECCHINO    -  Niente. Cossa gh'alo paura? Non alo con lu do zoggie? A Parigi no manca i dilettanti de sta sorte de zoggie, el farà un bon negozio, el troverà da metterle in qualche bon gabinetto.

SCAPINO             - Capisco quel che volete dire, ma il signor Pantalone è delicatissimo in materia d'onore; e le sue figliuole sono l'esempio della saviezza e della modestia.

ARLECCHINO    -  Ho inteso. Zoggie morte, diamanti senza spirito; co no i è brillanti, no i gh'ha credito, no i fa fortuna. Mi conseggierave el sior Pantalon a tornar a portar la so mercanzia in Italia. La virtù è bella e bona ma la virtù in miseria l'è giusto come un diamante nel fango.

SCAPINO             - Io credo che a quest'ora il signor Pantalone sarebbe partito, se Camilla a forza di buone grazie non lo trattenesse qui in casa sua.

ARLECCHINO    -  Come! sior Pantalon xe in sta casa?

SCAPINO             - Sì certo. Oggi è un mese che siamo qui. Stupisco che non lo sappiate.

ARLECCHINO    -  No so gnente. Son stà quaranta zorni in campagna a far el vin, a far taggiar delle legne. Sangue de mi! e Camilla no me l'ha scritto?

SCAPINO             - Che obbligo ha ella di farvi sapere tutti i fatti suoi?

ARLECCHINO    -  Sior sì, la gh'ha obbligo de farmelo saver, perché l'ha da esser mia muier, e tutto quel che la gh'ha a sto mondo l'ha da esser mio, e no voio che la se fazza magnar el soo, e che la fazza magnar el mio, e sior Pantalon ha da andar via subito de sta casa colle so zoggie, ché delle zoggie che magna no ghe ne so cossa far, e comando mi, e in sta casa son patron mi, e se Camilla no lo manderà via, lo manderò via mi.

SCAPINO             - (Diavolo, mi dispiace bene sentire che Camilla sia impegnata con costui). Piano, piano, signor Arlecchino, non tanto strepito, non tanta superbia. Ricordatevi che Camilla, voi ed io siamo stati tutti tre servitori del signore Stefanello.

ARLECCHINO    -  Da mi a ti ghe xe sempre stà della differenza. Mi ho servio da mastro de casa, e ti da staffier.

SCAPINO             - Sì, ecco la differenza. Voi siete ricco ed io sono povero, perché voi avete rubato assai più di me.

ARLECCHINO    -  No xe vero niente, ti xe una mala lengua. Tutto quello che gh'ho, me l'ha dà el patron colle so proprie man.

SCAPINO             - È verissimo. Il padrone vi ha sempre dato da spendere, ma voi non avete speso tutto quello che il padrone vi ha dato.

ARLECCHINO    -  Ho i mi conti approvadi, ho el mio libro saldà.

SCAPINO             - Se quel libro potesse parlare, ogni pagina domanderebbe vendetta.

ARLECCHINO    -  Tasi là, che te rompo el muso.

SCAPINO             - Provati, se hai coraggio.

SCENA SECONDA

Camilla e detti.

CAMILLA            -  Che cos'è questo rumore? Oh Arlecchino, ben tornato dalla campagna.

ARLECCHINO    -  Giusto vu ve voleva.

CAMILLA            -  Ma che cosa avete, figliuoli, fra di voi, che vi ho sentito gridare?

ARLECCHINO    -  Colù l'è tornà a Parigi per farme precipitar.

SCAPINO             - Colui! Cos'è questo colui? Se non fosse qui questa giovane...

ARLECCHINO    -  Falo andar via de qua. Falo andar via, se no ti vol véder un precipizio.

CAMILLA            -  Caro Scapino, fatemi il piacere...

ARLECCHINO    -  (Caro Scapino? Ho paura... Ma no vôi dar da conosser la mia zelosia).

CAMILLA            -  Andate, vi dico, andate, non mi obbligate a dirvelo un'altra volta. (a Scapino)

SCAPINO             - Ma sentite la mia ragione.

CAMILLA            -  Non voglio sentire altre ragioni, andate.

ARLECCHINO    -  Va via de qua, che sarà megio per ti.

SCAPINO             - In quanto a voi, me ne rido. Partirò per il rispetto che ho per Camilla. Ella è la padrona di questa casa, e la civiltà vuole ch'io l'obbedisca. (Egli è ch'io ne sono innamorato, e mi lusingo ancora di guadagnarla).

CAMILLA            -  Via dunque, andate, che mi farete piacere.

SCAPINO             - Signora sì, vado, non v'inquietate. (Chi mai avrebbe creduto, che una giovane come questa s'invaghisse a tal segno di un uomo così villano, come è Arlecchino?) (parte)

SCENA TERZA

Camilla ed Arlecchino

CAMILLA            -  E bene, il mio caro Arlecchino, si può sapere per qual ragione siete in collera con Scapino?

ARLECCHINO    -  Mi no son in collera con Scapin; ma son in collera con ti.

CAMILLA            -  Con me? Per qual ragione? Cosa vi ho fatto?

ARLECCHINO    -  Perché ricever in casa tanta canaia, e darghe da magnar e da bever, e consumar el nostro miseramente?

CAMILLA            -  Io l'ho fatto per compassione. Il povero signor Pantalone si trova qui senza amici, senza danari, aveva io da lasciar perire lui e la sua famiglia?

ARLECCHINO    -  La compassion l'è bella e bona, ma per aiutar i altri non avemo da pregiudicar i nostri interessi.

CAMILLA            -  No, caro Arlecchino, per grazia del cielo abbiamo tanto di bene, da poter far del bene anche agli altri.

ARLECCHINO    -  Se avemo del ben, non è mai troppo, e no se sa quel che possa nasser; e bisogna far conto dei zorni grassi per paura dei zorni magri.

CAMILLA            -  Ma il bene che si fa, è sempre bene; e non bisogna mai diffidar della provvidenza, anzi dobbiamo esser certi che il cielo ricompensa le opere buone, e che sempre più saranno migliorati i nostri interessi.

ARLECCHINO    -  Orsù, mi no voggio sentir altre prediche. Quel che xe stà, xe stà. Intendo, voggio e comando che ti licenzi subito sior Pantalon.

CAMILLA            -  Ma dove andrà questo povero galantuomo?

ARLECCHINO    -  Che el vaga dove che el vol.

CAMILLA            -  E le sue povere figlie?

ARLECCHINO    -  No le xe né nostre fie, né nostre sorele, e nu no gh'avemo obligo de pensarghe.

CAMILLA            -  Caro Arlecchino, se mi volete bene, ascoltatemi. Soffrite ch'io vi dica il mio sentimento, e poi farò tutto quello che voi volete. È vero che non sono del nostro sangue, ma sono però il nostro prossimo; hanno bisogno di noi, e se noi fossimo nel loro caso, avressimo piacere di trovar della carità, e bisogna fare ad altri quello che vorremmo che fosse fatto per noi. Oltre a ciò, considerate bene che tutto quello che abbiamo al mondo, lo abbiamo avuto dal signor Stefanello, che era fratello del signor Pantalone e zio di queste povere figlie, e che trovandosi essi in miseria, siamo obbligati a soccorrerli per gratitudine, per onestà e per giustizia.

ARLECCHINO    -  Basta. Per la bona memoria del sior Stefanello, no digo niente, te perdono; quel che xe stà, xe stà. Ti li ha tenudi in casa un mese senza dirmelo, senza scriverme niente, pazenzia. Ma quanto tempo ha da durar sta faccenda? Quando favorìsseli d'andar via?

CAMILLA            -  Spererei che presto dovessero gli affari del signor Pantalone cangiar aspetto. Ci sono qui a Parigi degli italiani impegnatissimi per far del bene al signor Pantalone. Vengono qui sovente a far un poco di conversazione. Sono incantati della virtù e del merito delle figliuole.

ARLECCHINO    -  E perché no ghe tróveli casa? Perché no ghe dai da magnar? No xeli anca lori el so prossimo? Perché mo avémio nu da esser più prossimi dei altri prossimi?

CAMILLA            -  Questi italiani che vengono qui, sono giovani, non hanno donne. Il signor Pantalone è un uomo onorato, le sue figliuole sono bene accostumate, e finché sono nella mia casa, fanno una buona figura, e nessuno può mormorare.

ARLECCHINO    -  Alle curte, quanto tempo resterali ancora in sta casa?

CAMILLA            -  Non saprei. Dite voi, caro Arlecchino, quanto vi contentate che restino?

ARLECCHINO    -  Oggio mi da stabilir el tempo?

CAMILLA            -  Sì stabilitelo voi.

ARLECCHINO    -  Vintiquattr'ore, e gnanca un minuto de più.

CAMILLA            -  Così poco?

ARLECCHINO    -  Tant'è. Vintiquattr'ore.

CAMILLA            -  Ma non è possibile...

ARLECCHINO    -  Pussibile o no pussibile, cussì l'intendo, e cussì ha da esser. Tutto xe preparà per le nostre nozze. Avanti che se sposemo, vôi la casa libera e desbarazzada. Pénseghe ti, altrimenti te digo e te protesto, che no vôi altro da ti, che strazzerò el contratto, che venderò tutto el mio, che andarò a Bergamo a maridarme e che te lasserò qua col to prossimo, e colla to compassion.

CAMILLA            -  No, ascolta, caro Arlecchino...

ARLECCHINO    -  No gh'è altro da dir, non ascolto altre rason. Vintiquattro ore de tempo. O Pantalon, o Arlecchin, o el prossimo, o el marido, o la compassion, o l'amor. Addio, a revéderse, ti m'ha capido. (parte)

SCENA QUARTA

Camilla, poi Pantalone

CAMILLA            -  Povera me! io mi trovo in un imbarazzo grandissimo. Amo Arlecchino, e non lo vorrei disgustare. Se perdo Arlecchino, perdo quanto ho di più caro, quanto ho di più piacevole al mondo. Orsù, il signor Pantalone è assai ragionevole. Ho fatto per lui finora quanto ho potuto. Compatirà ancor egli le mie circostanze... Ma eccolo per l'appunto.

PANTALONE      -  Camilla. (dalla porta)

CAMILLA            -  Signore.

PANTALONE      -  Seu sola?

CAMILLA            -  Sì, signore, son sola.

PANTALONE      -  Fia mia, vegnì qua. Lassè che ve parla col cuor averto, con schiettezza e sincerità. Vu fin adesso m'avè fatto del ben. Xe un mese che son in casa vostra, e nelle mie disgrazie e nelle mie miserie vu sè stada la mia benefattrice, el mio conforto, la mia unica consolazion. No xe giusto però, che per causa mia abbiè da soffrir dei discapiti e dei dispiaceri. Scapin m'ha dito tanto che basta. Arlecchin ve rimprovera per causa mia, ghe volè ben, l'ha da esser vostro mario, e mi, che son un omo d'onor, non ho da romper la vostra pase e la vostra union. El cielo ve renda merito del ben che m'avè fatto. Ve ringrazio de cuor, e avanti sera ve leverò l'incomodo, e mi e le mie povere fie ve lasseremo in te la vostra tranquillità.

CAMILLA            -  (Fortuna, ti ringrazio: è disposto da sé, senza ch'io abbia la pena di persuaderlo). Avete dunque risoluto di voler partire?

PANTALONE      -  Sì, fia mia, ho risolto. Son persuaso, so el mio dover, e non occorre pensarghe suso.

CAMILLA            -  Mi dispiace infinitamente di privarmi della vostra compagnia, e di quella delle vostre care figliuole. Ma vedete bene, signore...

PANTALONE      -  No parlemo altro. So tutto, ve compatisso, e me tocca a mi a remediarghe.

CAMILLA            -  Se è lecito, signore, dove pensate voi di voler andare?

PANTALONE      -  No so gnanca mi.

CAMILLA            -  Come! non lo sapete? Dite di voler partire, e non sapete ancor dove andare?

PANTALONE      -  No so gnente, anderò dove che la sorte me porterà.

CAMILLA            -  E le vostre figlie?

PANTALONE      -  Le sarà a parte del mio destin. Miserabili, ma onorate.

CAMILLA            -  Se andate in un albergo, vi costerà molto.

PANTALONE      -  Né mi sarave in caso de mantegnirme.

CAMILLA            -  Volete andare in casa di qualche amico?

PANTALONE      -  Un omo d'onor no conduse in casa de nissun le so fiole.

CAMILLA            -  Ma cosa dunque destinate di fare?

PANTALONE      -  Andar via de Parigi.

CAMILLA            -  Dove?

PANTALONE      -  No so gnanca mi.

CAMILLA            -  Avete voi danari per far il viaggio?

PANTALONE      -  No, fia mia. Ho scritto a Venezia, perché i venda quel poco che me xe restà. Ma ghe vorrà dei mesi, e adesso savè in che stato che son.

CAMILLA            -  Oh cieli! E come dite voi di voler partire?

PANTALONE      -  La providenza no abbandona nissun. Venderò quei pochi mobili che me resta, venderò i abiti delle mie povere fie, venderò i libri della mia cara Clarice. Venderò la musica della mia cara Angelica. Oh dio! che pena che le proverà, poverette, a privarse delle cosse più care che le gh'ha a sto mondo. Ma non importa, che se venda tutto, che se sacrifica tutto, ma che se salva el decoro, l'onestà, la reputazion.

CAMILLA            -  (Mi move sempre più a compassione. Non ho cuore d'abbandonarlo).

PANTALONE      -  Camilla, a revéderse, el cielo ve benedissa.

CAMILLA            -  No, signor Pantalone, fermatevi. Non voglio assolutamente che voi partiate da questa casa.

PANTALONE      -  No, fia mia, ve ringrazio. Xe giusto che vada, e bisogna andar.

CAMILLA            -  No certo, voi non partirete di casa mia, ad ogni costo.

PANTALONE      -  Né mi soffrirò mai che Arlecchin se desgusta, e che el ve abbandona per causa mia.

CAMILLA            -  Lasciate il pensiero a me. Arlecchino veramente ha qualche premura di sposarmi, e non vorrebbe in casa nessuno, ma io gli farò meglio comprendere il vostro stato, il pericolo vostro e delle vostre figliuole, e spero che ancor egli si persuaderà. State qui, state allegro, non vi prendete pena. Vado a consolare le vostre care figliuole, a porre in calma il loro spirito, il loro cuore. Povero signor Pantalone! povera sventurata famiglia! Non temete di nulla. Il cielo vi provvederà. (parte)

SCENA QUINTA

Pantalone, poi Clarice

PANTALONE      -  Poverazza! La xe de bon cuor, no gh'ho gnanca podesto responder gnente. Le lagreme m'ha impedio de parlar, ma cossa oggio da far? Oggio da restar? Oggio da andar? Se vago via, cossa sarà de mi? Se resto qua, cossa sarà de Camilla? In tutte le maniere son confuso, son afflitto, son desperà.

CLARICE             -  Oh via, signor padre, Camilla ci ha consolato. Rasserenatevi, consolatevi ancora voi.

PANTALONE      -  Cara fia, cara la mia Clarice, come mai voleu che me consola, se me vedo proprio perseguità dal destin?

CLARICE             -  Caro signor padre, il destino non vi farà mai tanto male, quanto voi ve ne fate da voi medesimo. Il maggior bene di questa vita è la quiete dell'animo, la rassegnazione, l'indifferenza. Ridetevi della fortuna. Ella ci può toglier tutto fuori della virtù, e non perdiamo niente, se ci resta il lume della ragione.

PANTALONE      -  Oh cara! oh benedetta! oh che bocca d'oro! Ogni parola xe una perla, ogni sillaba un diamante, ogni discorso una manna, un zucchero che consola el cuor. Me conseggieu de restar?

CLARICE             -  Sì signore, senza veruna difficoltà. La ragione c'insegna a soffrire il male, ma non mai a ricusare il bene. Si devono tollerar le disgrazie, ma non abbiamo da procurarcele da noi stessi. La pietà che ha di noi Camilla è una provvidenza; e noi saremmo ingrati alla provvidenza, abusandoci de' suoi benefici.

PANTALONE      -  E se Camilla per causa nostra perdesse la so fortuna?

CLARICE             -  Ella non può mai perdere la sua fortuna per far del bene. Se Arlecchino è nemico delle opere buone, non le può essere che un cattivo marito; e la perdita di un cattivo marito è il maggior guadagno che possa fare una donna.

PANTALONE      -  Mo che massime! mo che pensar! che talento! che talento da Seneca, da Demostene, da Ciceron! Ma a proposito de mario, dime la verità, Clarice, se el cielo te mandasse una bona fortuna, averéssistu piaser de maridarte?

CLARICE             -  Signore, tornerò a dirvi quel ch'ho detto poc'anzi. Le fortune non si ricusano.

PANTALONE      -  Possibile che qualche signor de merito no s'innamora della to virtù?

CLARICE             -  Caro signor padre, voi credete ch'io sia virtuosa, ed ho timore che v'inganniate. L'amore ch'io ho per le lettere, non è virtù che basti per dar credito ad una donna. Sono necessarie le virtù dell'animo: di queste sono meschinamente fornita, e non mi lusingo di meritare fortuna.

PANTALONE      -  Cossa distu? Ti gh'ha tutto, ti meriti tutto, e la to modestia xe la corona dei to meriti e delle to virtù.

CLARICE             -  In verità voi mi fate arrossire.

PANTALONE      -  Quei pochi italiani che qualche volta ne favorisse, i xe incantai, no i se sazia mai de lodarte.

CLARICE             -  Sono pieni di bontà e di politezza.

PANTALONE      -  Cossa distu de lori? Cossa te par? Sali gnente? Gh'ali del merito? Ti ti li cognosserà più de mi.

CLARICE             -  In un mese che ho l'onor di trattarli, poco si può rilevare; pure, se ho da dirvi il mio sentimento, vi dirò come penso di loro. Il signor Celio è manieroso, è gentile, ma mi pare un poco troppo vivace. Il signor Silvio ha uno spirito più regolato, ma è troppo serioso. Il signor Florindo sa qualche cosa, ma ha troppa presunzione di se stesso, ed il signor Petronio non sa niente, e si vergogna di non sapere, e loda e biasima quel che sente a biasimare e a lodare.

PANTALONE      -  Bravissima. No se pol depenzer meggio i caratteri de ste quattro persone. Va là, che ti gh'ha una gran testa; el cielo in te le mie disgrazie m'ha dà la contentezza de do fie che xe do oracoli, do maraveggie. Ti bravissima in te le scienze, e Angelica eccellente in tel canto.

CLARICE             -  Non tanto, signor padre, non tanto. Non fate che l'amor vi trasporti. Non giudicate di noi per passione.

PANTALONE      -  So quel che digo. Vedo, capisso, intendo, e no son de quei pari, che se lassa orbar dall'amor. Di', Clarice, dime, fia mia, giersera, stamattina, astu fatto gnente, astu composto gnente?

CLARICE             -  Niente, signore, posso dir quasi niente.

PANTALONE      -  Co son vegnù in te la to camera, ho visto che ti scrivevi.

CLARICE             -  Per dir la verità, faceva un piccolo sonettino.

PANTALONE      -  Un sonetto? Via, famelo sentir sto sonetto.

CLARICE             -  Ma non è ancora finito. Mi mancano le due terzine.

PANTALONE      -  N'importa, fame sentir qualcossa.

CLARICE             -  Lo farò per obbedirvi. (tira fuori la carta)

PANTALONE      -  Mo che allegrezza! mo che consolazion, aver una fia de sta sorte! Co te sento a parlar, me desméntego tutte le mie disgrazie. Co sento qualcuna delle to composizion, me par de esser un omo ricco, un omo felice, no me scambierave con un re de corona.

SCENA SESTA

Arlecchino e detti.

ARLECCHINO    -  Sior Pantalon, la reverisso.

PANTALONE      -  (Oimei! Costù me vien a amareggiar la consolazion). Ve reverisso, sior Arlecchin.

ARLECCHINO    -  Alo fatto bon viazo?

PANTALONE      -  Cussì e cussì. (Aspetè, no andè via). (a Clarice)

ARLECCHINO    -  Èla presto de partenza?

PANTALONE      -  No so gnanca mi. Spero quanto prima.

ARLECCHINO    -  La vada a bon viazo. La staga ben, la se conserva, e la me scriva, che averò gusto de saver che la staga ben.

PANTALONE      -  Sì che donca co ste cerimonie me disè che vaga via.

ARLECCHINO    -  No disel che el partirà quanto prima? Mi veramente aveva dito a Camilla, che aveva piaser che sior Pantalon favorisse de restar qua altre vintiquattr'ore, ma col va via quanto prima, el ne vol privar più presto delle so grazie.

PANTALONE      -  No, caro amigo, no v'indubitè gnente, no son ingrato alle vostre finezze. Resterò qua vintiquatt'ore, vintiquattro mesi, fin che volè.

ARLECCHINO    -  Troppe grazie, sior Pantalon, troppe grazie. Mi la conseggio de partir subito, avanti che vegna la cattiva stagion.

PANTALONE      -  (Debotto me vien voggia de chiapparlo per el collo, e de strangolarlo). (a Clarice)

CLARICE             -  (No, signor padre, non v'inquietate. Egli finalmente non è il padrone di questa casa).

PANTALONE      -  (Tanto più el me fa rabbia. Se el fusse el patron, no gh'averave ardir de parlar).

ARLECCHINO    -  Èla questa una delle so fiole? (a Pantalone)

PANTALONE      -  Sior sì, la xe mia fia.

ARLECCHINO    -  La virtuosa de musica?

PANTALONE      -  Sior no, la virtuosa de lettere.

ARLECCHINO    -  Me consolo infinitamente della so bella virtù. La diga, signora, intendela ben el francese, sala parlar francese?

CLARICE             -  No, per mia sfortuna l'intendo poco, e lo parlo meno.

ARLECCHINO    -  Cossa fala qua donca? Mi la conseggio de andar via, de tornar in Italia. La pol esser brava quanto che la vol, se no la se sa far intender, no la farà gnente.

PANTALONE      -  Ghe xe dei italiani, e ghe xe dei signori francesi che intende benissimo l'italian.

ARLECCHINO    -  No la farà gnente, no serve gnente: el gusto della nazion xe una cossa particolar, no la farà gnente.

CLARICE             -  Voi dite benissimo. Ogni nazione ha il suo gusto particolare, e quello de' francesi è il più difficile, è il più delicato di tutti. Io non sono qui per farmi merito, né per far fortuna; mi basta di essere compatita.

ARLECCHINO    -  No i la compatirà.

CLARICE             -  Non mi compatiranno? E perché?

ARLECCHINO    -  Perché i dirà: qua semo in Franza, e se no savè el gusto de Franza, dovevi restar in Italia.

CLARICE             -  Voi non mi metterete per questo in disperazione. Non sono qui venuta di mia volontà. Mi ha condotto mio padre, ma ci son venuta col maggior piacere del mondo, per vedere e godere la più bella metropoli dell'universo; è poco ch'io sono qui, ma ho ricevuto finora tante finezze, che sono contentissima d'esser venuta. La cortesia de' signori francesi è nota e commendata per tutto. Trovo io medesima più di quello ancora, che mi è stato promesso. E se il mio scarso talento non mi può mettere in istato di acquistar lode, la buona volontà non può mai essere biasimata, e son certa, certissima, di essere almen compatita. (parte)

SCENA SETTIMA

Pantalone e Arlecchino

PANTALONE      -  Tolè, sior, respondèghe se gh'avè coraggio.

ARLECCHINO    -  E cussì, tornando sul nostro proposito, quando èla de partenza, sior Pantalon?

PANTALONE      -  Ma vu sè qua sul medesimo ton.

ARLECCHINO    -  L'è che vorria saverlo, per esser pronto a servirlo, se el gh'ha bisogno de qualche cossa.

PANTALONE      -  Ve ringrazio, caro; co averò bisogno, ve pregherò.

ARLECCHINO    -  A proposito, ogni do zorni parte la diligenza; vorla che vada a véder se ghe xe tre boni loghi per éla?

PANTALONE      -  (Mo el xe un gran tormento costù!)

ARLECCHINO    -  Se no la vol andar colla diligenza, l'anderà col cocchio.

PANTALONE      -  (Col diavolo che te porta).

ARLECCHINO    -  Sì, sì, col cocchio se va più comodi, e se spende manco. Vado subito a servirla. Vado a fermar i posti nel cocchio.

PANTALONE      -  Mo no ve digo, no v'incomodè.

ARLECCHINO    -  Sì assolutamente. Voggio aver l'onor de servirla. Vado e torno subito per servirla. (parte)

SCENA OTTAVA

Pantalone, poi Angelica

PANTALONE      -  No gh'è remedio. Sta bestia no me vol, e se Camilla ghe vol ben, ho paura che la sarà obligada de licenziarne. Ma se anca dovesse restar, come mai xe possibile de poder soffrir l'impertinenza de sto omo indiscreto, de sto villan? Vardè, sul momento che giera per consolarme con un sonetto della mia cara fia, el vien a tormentarme, e el me priva dell'unico mio piacer. No gh'è remedio, no se pol resister, bisogna andar. Pazenzia, son nato desfortunà. Ho da penar sempre, ho sempre da sospirar.

ANGELICA          -  Signor padre.

PANTALONE      -  Fia mia.

ANGELICA          -  Vengo a dirvi una cosa che vi farà piacere.

PANTALONE      -  Sì, consóleme, che ghe n'ho bisogno.

ANGELICA          -  Ho terminato in questo punto di porre in musica la cantata.

PANTALONE      -  La cantata che ha composto Clarice?

ANGELICA          -  Sì, signore, ho messo in musica le parole di mia sorella.

PANTALONE      -  Oh brava! quando la sentiremo?

ANGELICA          -  Quando volete.

PANTALONE      -  Aspettémo che ghe sia della zente. Verso mezzo zorno vegnirà i nostri amici. Ti canterà, ti te farà onor. Me imbalsemerò mi. Ti imbalsemerà tutti quanti.

ANGELICA          -  Ma io, signore, l'ho fatta per mio studio, per mio divertimento, e non ho merito, né abilità per piacere.

PANTALONE      -  Come! Cossa distu? Ti xe un flauto, ti xe un canarin. Ti gh'ha un'abilità spaventosa.

ANGELICA          -  Troppo, troppo, signor padre. Pensate che l'amor proprio spesse volte fa travedere.

PANTALONE      -  So quel che digo; me n'intendo al par de chi se sia. No so gnente de musica, ma gh'ho una recchia felice, che non falla mai. Co ho sentio un'aria una volta, son capace mi de dar el ton meggio de una spinetta, e se i falla una nota, me n'incorzo de longo. Digo, e sostegno, che ti xe una cantante che no gh'ha l'ugual.

ANGELICA          -  Io non so di esser brava cantante, come voi dite, ma quando anche lo fossi, per piacere non basta. Bisogna aver la fortuna d'incontrar il genio delle persone che ascoltano.

PANTALONE      -  In Franza i conosse el merito; no ti pol fallar.

ANGELICA          -  Lasciamo il merito da una parte, qui il gusto della musica è differente.

PANTALONE      -  Cossa te par della musica de sto paese?

ANGELICA          -  In tutti i paesi del mondo, perché piaccia una cosa, bisogna aver le orecchie accostumate a sentirla. Il bello ed il buono non si conosce che per rapporto ai confronti; se si confronta senza passione, si trova il buono per tutto: se l'animo è prevenuto in contrario, vi è da annoiarsi per ogni parte.

PANTALONE      -  Ti parli da quella gran virtuosa che ti xe. Xela longa la cantata che ti ha composto?

ANGELICA          -  È brevissima. In questo ho seguitato il gusto francese. Qui amano le cose brevi, ed hanno molta ragione. Da noi le nostre musiche sono eterne, e le tante repliche fanno dispiacere le più belle arie del mondo.

PANTALONE      -  Ma ti, fia mia, se ti replichi un'aria diese volte, ti piasi sempre, non ti stufi mai. Ti gh'ha un portamento de ose che tocca el cuor; ti gh'ha certe volatine, certi trilletti che incanta. Cossa ti me piasi con quei to passetti! Aaa, aaa, aaa. Cara la mia zoggia, cànteme qualcossetta, consóleme un pochettin. Gh'ho dei travaggi, gh'ho delle afflizion, ma co te sento a cantar me passa tutto, me bàgola el cuor in sen.

ANGELICA          -  E che cosa vorreste voi ch'io cantassi?

PANTALONE      -  Cànteme l'aria del russignol.

ANGELICA          -  Senza la spinetta non si può cantare.

PANTALONE      -  Te compagnerò mi.

ANGELICA          -  E come?

PANTALONE      -  Te farò el basso, te batterò la battua.

ANGELICA          -  Non mi ricordo nemmeno il tuono.

PANTALONE      -  Oh, el ton te lo darò mi. La la ra la la.

ANGELICA          -  Aspettate, aspettate, il tuono l'ho ritrovato.

PANTALONE      -  Via, da brava. Càntela pulito.

SCENA NONA

Arlecchino e detti.

ARLECCHINO    -  Oh, el cocchio partirà domattina...

PANTALONE      -  El diavolo che te porta. (No lo posso soffrir). (parte)

ARLECCHINO    -  La favorissa, signora, ala fatto i bauli? Ala messo via le so bagatelle?

ANGELICA          -  Non vi abbado, non vi rispondo. Camilla è la padrona di questa casa, e voi non vi riconosco per niente. (parte)

SCENA DECIMA

Arlecchino solo.

ARLECCHINO    -  Brava. Dalla maniera grave, imperiosa, se vede che l'è una virtuosa de musica. È peccà che no la vada a recitar in teatro. La farave pulito la parte de Semiramide, de Cleopatra. Non vi abbado. Non vi rispondo, non vi riconosco per niente. Ma la signora Cleopatra anderà via, la signora Semiramide favorirà de partir. Ghe poderave esser una difficoltà. Poderia darse che la principessa, che la regina non avesse quattrini per far el viazo. In sto caso la virtuosa de musica, e la virtuosa de lettere, e el degnissimo so sior padre i se pol metter in abito da pellegrini, e andar per el mondo colla vettura delle so gambe. De sta sorte de pellegrine ghe n'ho visto, e ghe n'ho conossù delle altre; ghe xe della zente caritatevole, e la limosina no manca mai, co se tratta de far del ben alla zoventù, alla bellezza, e alla bona grazia. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camilla e Scapino

CAMILLA            -  Venite qui, Scapino, qui metteremo il tavolino colla spinetta, e qui all'intorno le sedie che possono abbisognare. Scusatemi, se vi do quest'incomodo.

SCAPINO             - Mi maraviglio, signora Camilla. Voi mi potete comandare, e non desidero niente più che servirvi.

CAMILLA            -  Siete troppo obbligante.

SCAPINO             - Faccio il mio debito, e niente più. Dove volete che si metta il tavolino?

CAMILLA            -  Mettetelo lì, se vi piace.

SCAPINO             - Vi servo subito. (Ella non sa con quanto piacere lo faccia; ella non sa quanto bene le voglio). (va per il tavolino)

CAMILLA            -  Queste buone figliuole del signor Pantalone avrebbero bisogno che il cielo le provvedesse per essere maritate. Hanno del merito, ed ho piacere che sieno conosciute e sentite. Chi sa che qualcheduno, innamorato della loro virtù, non si riduca a sposarle? Io non lascierò di contribuire alla loro fortuna.

SCAPINO             - (Col tavolino)Eccolo qui. Va bene in questo sito?

CAMILLA            -  Va benissimo. Favorite di portar la spinetta.

SCAPINO             - Ben volentieri. (Chi sa che non mi riesca di guadagnarla? Bisogna ch'io procuri di mettermi in grazia). (va per la spinetta)

CAMILLA            -  Arlecchino sbuffa, grida, e minaccia, ma non so che fare; ho pietà di questa famiglia, ho data la mia parola, e non posso fare altrimenti. Finalmente Arlecchino mi vuol bene, e quando un uomo vuol bene, non si disgusta per così poco.

SCAPINO             - (Colla spinetta)Ecco la spinetta.

CAMILLA            -  Bravissimo, mettetela sul tavolino.

SCAPINO             - Così?

CAMILLA            -  Così. Voi fate tutte le cose bene.

SCAPINO             - Vorrei avere abilità sufficiente per dar nel genio alla signora Camilla.

CAMILLA            -  Vi sono molto obbligata per il buon cuore che avete per me.

SCAPINO             - Ma io non sono degno della sua grazia.

CAMILLA            -  Anzi ho di voi tutta la stima possibile.

SCAPINO             - Eh! io non ho il merito d'Arlecchino.

CAMILLA            -  Arlecchino ha il suo merito, e voi non mancate d'averne.

SCAPINO             - Ma egli ha la fortuna di possedere il cuore della signora Camilla.

CAMILLA            -  Siete pure grazioso. Vorrei un altro piacere da voi. La stanza è un poco oscura. Se la signora Angelica ha da cantare, non ci vedrà. Fatemi il piacere di andar a prendere quei due candelieri che sono in sala.

SCAPINO             - Volentierissima.

CAMILLA            -  Abbiate pazienza.

SCAPINO             - Lasciamo le cerimonie. Comandatemi liberamente. Se sapeste tutto... non ho coraggio a parlare... Basta, col tempo mi spiegherò. (va per i candelieri)

CAMILLA            -  Già me ne sono accorta, che è innamorato di me; ma è impossibile ch'io faccia un torto ad Arlecchino. L'amo teneramente. Ho promesso sposarlo, e non mancherei per tutto l'oro del mondo.

SCAPINO             - Siete servita dei candelieri. Li ho da mettere sulla spinetta?

CAMILLA            -  Sì, sulla spinetta.

SCAPINO             - Oh, quanto pagherei di saper cantare! (mette i candelieri)

CAMILLA            -  Mi vorreste voi cantar qualche arietta?

SCAPINO             - Vorrei dirvi in musica quello che non ho coraggio di dirvi parlando. La poesia e la musica inspirano una certa libertà, che comoda infinitamente.

CAMILLA            -  Volete che mettiamo le sedie?

SCAPINO             - Le metterò io. (Come cambia presto il discorso!)

CAMILLA            -  Le porteremo in due, metà per uno.

SCAPINO             - Oh Camilla mia, se voleste, voi mi potreste rendere l'uomo più felice del mondo. (portando una sedia)

CAMILLA            -  In verità, voi mi fate ridere. (portando una sedia)

SCAPINO             - Ma il fortunato è Arlecchino. (come sopra)

CAMILLA            -  Ma via, caro Scapino. Lasciatelo stare il povero Arlecchino; voi sempre lo perseguitate. (come sopra)

SCAPINO             - Il povero Arlecchino! (mette la sedia con dispetto)

CAMILLA            -  Non fate così, abbiate carità di quelle povere sedie.

SCAPINO             - Sì, la carità per le sedie, e per me non vi ha da essere carità. (porta un'altra sedia)

CAMILLA            -  Io non so di che vi possiate dolere.

SCAPINO             - Corpo di bacco! perché tutto l'amore per Arlecchino, e niente per me?

CAMILLA            -  In quanto a questo poi, scusatemi, vi dirò ch'io sono padrona d'amar chi voglio.

SCAPINO             - Sì, amatelo quel bel soggetto. Veramente lo merita. (mette l'ultima sedia rabbiosamente)

CAMILLA            -  Ma che maniera è questa? Se non volete incomodarvi, lasciate stare, ma non istrapazzate così la mia roba.

SCAPINO             - Non mi so dar pace a vedere che una giovine come voi, preferisca uno scimiotto come colui.

CAMILLA            -  Non lo sapete? Non è bel quel che è bello, ma quel che piace.

SCAPINO             - Ma cosa vi piace in colui?

CAMILLA            -  Tutto.

SCAPINO             - E in me non vi piace niente?

CAMILLA            -  Niente.

SCAPINO             - Mi appiccherei dalla rabbia.

SCENA SECONDA

Arlecchino e detti.

ARLECCHINO    -  (Eccola qua, sempre la trovo in compagnia de Scapin). Oh, oh, coss'è sto bel apparato?

CAMILLA            -  Niente, caro Arlecchino, egli è per sentire un'arietta della signora Angelica.

ARLECCHINO    -  E per chi ha da servir tutte ste careghe?

CAMILLA            -  Per alcuni amici del signor Pantalone.

ARLECCHINO    -  Èla questa la casa del sior Pantalon? Estu ti la cameriera de sior Pantalon?

SCAPINO             - (Che superbia! quando un uomo ha un poco di bene, si scorda subito quel che era una volta).

CAMILLA            -  Si tratta di usare una compiacenza...

ARLECCHINO    -  Mi no voggio che ti usi ste compiacenze. Anemo, via ste careghe, porta via sta spinetta.

SCAPINO             - (Il villano!)

CAMILLA            -  Ma io non voglio fare una trista figura. Si aspettano dei galantuomini, ho promesso al signor Pantalone.

ARLECCHINO    -  E ti ha avudo l'ardir de prometter senza dirmelo a mi?

SCAPINO             - (È molto gentile lo sposo che avete scelto!) (piano a Camilla)

ARLECCHINO    -  Coss'è? Cossa te dìselo? Coss'è sto parlar a pian?

CAMILLA            -  Ma voi siete sospettoso, inquieto, rabbioso.

ARLECCHINO    -  Son quel che son, e la intendo a mio modo, e chi no me vol, bon viazo.

SCAPINO             - (Mi pare impossibile che Camilla lo possa soffrire).

CAMILLA            -  (Briccone! sa quanto l'amo, e per questo mi parla con arroganza).

ARLECCHINO    -  In sta casa non voggio conversazion.

CAMILLA            -  Via, per oggi solamente, e non più.

ARLECCHINO    -  No gnanca per un momento.

CAMILLA            -  Ma come ho da fare, se ho data la mia parola?

ARLECCHINO    -  T'insegnerò mi quello che ti ha da far. Licenziar el sior Pantalon, serrar la porta, lassar che i batta, e non avrir a nissun.

SCAPINO             - (Un ripiego nobile da facchino).

CAMILLA            -  No, non sono capace di usar una mala azione, e questo non lo farò mai.

ARLECCHINO    -  Ti non lo farà mai?

CAMILLA            -  Non lo farò mai.

ARLECCHINO    -  Pettegola, ustinada, insolente.

SCAPINO             - (Oh buono!)

CAMILLA            -  Tu sei più ostinato e impertinente di me.

SCAPINO             - (Oh meglio!)

ARLECCHINO    -  Indegna dell'amor d'Arlecchin.

CAMILLA            -  Se tu mi volessi bene, non mi tratteresti così.

SCAPINO             - (Ha ragione).

ARLECCHINO    -  Se ho da esser to marido, vôi poder comandar.

CAMILLA            -  Ti obbedirò nelle cose lecite e oneste.

ARLECCHINO    -  Siora Camilla, la reverisso.

CAMILLA            -  Serva sua, signor Arlecchino.

ARLECCHINO    -  La compatissa.

CAMILLA            -  Perdoni.

SCAPINO             - (Questi complimenti mi piacciono infinitamente).

ARLECCHINO    -  Vago via. (scostandosi)

SCAPINO             - (Oh che piacere!)

ARLECCHINO    -  M'ala chiamà?

SCAPINO             - Signor no, non vi chiama.

ARLECCHINO    -  Ho capido, no la me chiama. Scapin sa che no la me chiama. Ho inteso tutto. La vol far a so modo. Gente in casa, conversazion, e Scapin al fianco. Servitor umilissimo. (partendo)

CAMILLA            -  No, fermati.

ARLECCHINO    -  Via de qua, indegna sfazzada. (parte)

SCENA TERZA

Camilla e Scapino

CAMILLA            -  (Pazienza. Mi porta via il cuore, ma son sicura che tornerà).

SCAPINO             - Povera signora Camilla, mi dispiace infinitamente.

CAMILLA            -  E di che vi dispiace?

SCAPINO             - Che abbiate perduto un amante così gentile, uno sposo così compiacente.

CAMILLA            -  Perduto? E come l'ho io perduto? Per un poco di sdegno credete voi ch'egli mi abbandoni? Anzi quando si ama davvero, è necessario qualche volta di corrucciarsi un poco. Non si conosce il piacere perfettamente, senza il confronto del dispiacere. La collera forma il chiaroscuro all'amore, e dopo la guerra, è più dolce e più soave la pace.

SCAPINO             - Siete dunque disposta a volerlo amare?

CAMILLA            -  Costantemente.

SCAPINO             - Con tutte le malagrazie ch'egli vi usa?

CAMILLA            -  Sì, perché ha poi delle buone grazie, che mi piacciono infinitamente.

SCAPINO             - Siete ben ostinata.

CAMILLA            -  La mia non è ostinazione, è costanza.

SCAPINO             - Mah! così va il mondo; è tanto difficile trovare una donna costante, e ha da toccar la fortuna ad un villano che non la merita. (parte)

SCENA QUARTA

Camilla sola.

CAMILLA            -   Tutti mi dicono che Arlecchino non merita, ed a me pare che nessuno meriti più di lui: ciò sarà perché egli è il mio primo amore, perché sono degli anni che sono avvezza ad amarlo, perché non ho mai diviso il mio cuore con altri, e quando ho preso un impegno, non so mancare. Ecco perché sostengo di voler assistere la famiglia del signor Pantalone; perché ho data la mia parola. Arlecchino si è disgustato, ma la collera gli passerà. Mi fido dell'amor suo, mi fido in un certo potere che hanno le donne ordinariamente sopra degli uomini. Non son bella, ma pure mi par di avere qualche cosa che non dispiace. Un poco di spirito non mi manca, i miei occhi non mi servono male, e in un'occasione, se mi mancano le parole, m'ingegno di supplire colle occhiate, coi gesti e colle lacrime; colle lacrime ancora, che sono le armi più possenti del nostro sesso.

SCENA QUINTA

Celio e detta.

CELIO                   - O di casa, c'è nessuno? (di dentro)

CAMILLA            -  Venga, venga, signor Celio. Ci sono io; questo sarebbe un buon partito per una delle figlie del signor Pantalone. Vo' veder se mi riesce...

CELIO                   - Buon giorno, signora Camilla.

CAMILLA            -  Serva sua, signor Celio.

CELIO                   - State bene?

CAMILLA            -  Per obbedirla.

CELIO                   - Me ne consolo: come sta la signora Clarice?

CAMILLA            -  Benissimo.

CELIO                   - Si può riverire?

CAMILLA            -  Or ora la vedrete. Terminata che avrà una certa composizione che sta facendo, verrà qui colla signorina Angelica sua sorella.

CELIO                   - Le riverirò tutte e due volentieri. Ma quella che più mi preme, è la signora Clarice, perché ha dello spirito e del sapere. La signora Angelica ha del merito anch'essa, ma io di musica non m'intendo, e poi non si fa torto agli amici. Io so ch'ella ha formato la passione del signor Silvio, e gliela lascio tutta per lui.

CAMILLA            -  Io non sapeva che il signor Silvio avesse tale premura per la signora Angelica. È un uomo che parla poco, e non si dà a conoscere sì facilmente.

CELIO                   - È stato degli anni in Inghilterra, ed ha appreso il costume inglese. Io all'incontro, sortito d'Italia, sono venuto in Francia, e vi sono, come sapete, da molto tempo, ed ho appreso il costume di questa nazione, vale a dire la sincerità e la franchezza: amo la signora Clarice, e lo dico liberamente, e non m'importa che tutto il mondo lo sappia.

CAMILLA            -  Amate voi la signora Clarice?

CELIO                   - Sì certo, teneramente.

CAMILLA            -  L'amate? Ho piacere che l'amiate: ella è una brava giovane, voi siete un uomo onesto e civile, io mi lusingo ancora di veder questo matrimonio.

CELIO                   - E che? non si può amare senza intenzione di maritarsi?

CAMILLA            -  Amando una figlia onesta, non si può pensare diversamente.

CELIO                   - Eh via, Camilla. So che siete una fanciulla di spirito, lasciamo andare queste malinconie.

CAMILLA            -  Sapete voi, signore, che siete in una casa onorata?

CELIO                   - Lo so benissimo.

CAMILLA            -  E ch'io non permetterò mai... Scusatemi, è stato battuto. Vado a vedere chi è, e poi vi dirò meglio i miei sentimenti. (parte)

SCENA SESTA

Celio, poi Camilla e Silvio

CELIO                   - Io non avrei difficoltà di sposare Clarice, poiché il suo talento lo merita, e la sua condizione non mi disconviene, ma non sono sì pazzo di volermi mettere una catena al piede.

CAMILLA            -  Si accomodi qui, signor Silvio, che or ora verrà la signora Angelica.

SILVIO                 -  A suo comodo. Non si disturbi per me.

CELIO                   - Amico, vi son servitore.

SILVIO                 -  (Lo saluta senza parlare)

CELIO                   - Come state? Come va la vostra salute?

SILVIO                 -  Sto bene. (con dispetto)

CELIO                   - V'inquietate, perché vi domando se state bene di salute?

SILVIO                 -  Tutto il mondo mi fa la stessa domanda. A me non pare di avere una ciera da ammalato.

CELIO                   - È un complimento che si suol fare.

SILVIO                 -  È un complimento eterno, che mi secca infinitamente.

CELIO                   - Siete bene particolare.

CAMILLA            -  Per una parte il signor Silvio non ha gran torto. Ci sono nella vita civile alcune cerimonie usuali, che sono inutili affatto; ma ecco qui la signora Clarice.

CELIO                   - (Sono ben contento di rivederla).

SILVIO                 -  (E Angelica ancor non viene).

SCENA SETTIMA

Clarice e detti.

CLARICE             -  Serva di lor signori. (Silvio la saluta senza parlare)

CELIO                   - Servo umilissimo, signora Clarice. Come sta di salute?

SILVIO                 -  (Mostra il dispetto per un tale complimento)

CLARICE             -  Benissimo ai suoi comandi.

CELIO                   - Me ne consolo infinitamente.

CLARICE             -  Favoriscano d'accomodarsi. (siede nella sedia di mezzo)

CELIO                   - Per obbedirla. (siede alla dritta di Clarice)

CAMILLA            -  Ed ella, signor Silvio, non vuol sedere?

SILVIO                 -  Sì, eccomi. (siede lontano dagli altri, presso la spinetta)

CLARICE             -  Così lontano, signore?

SILVIO                 -  Scusatemi. Amo la spinetta infinitamente. (apre la spinetta vi trova dentro delle carte di musica, si trattiene osservandole)

CLARICE             -  Si accomodi.

CELIO                   - Lasciamo il signor Silvio nella sua libertà, e permettetemi ch'io mi prevalga di questi felici momenti, per dirvi ch'io vi amo teneramente, ch'io sono incantato del vostro merito e della vostra bellezza.

CLARICE             -  Camilla.

CAMILLA            -  Signora.

CLARICE             -  Il signor Celio questa mattina è di buon umore. È venuto qui con animo di scherzare.

CAMILLA            -  Tanto meglio per voi, signora. Nelle angustie nelle quali vi ritrovate, non avete bisogno che di rallegrare lo spirito. (in maniera che Silvio la possa intendere)

SILVIO                 -  Camilla.

CAMILLA            -  Signore.

SILVIO                 -  Una parola...

CAMILLA            -  Eccomi. (si accosta)

SILVIO                 -  Sono in angustie queste due signore? (piano a Camilla)

CAMILLA            -  Sì, certo, in angustie grandissime.

SILVIO                 -  Manderò io tutto il loro bisogno.

CAMILLA            -  Non signore, non v'incomodate. Fino che sono in casa mia, non hanno bisogno di nulla.

SILVIO                 -  Bene. Scusatemi. (seguita a guardar la musica)

CAMILLA            -  Non hanno bisogno di nulla, ma vedete bene, sono in età, hanno del merito, se capitasse loro una buona occasione...

SILVIO                 -  Ho capito.

CAMILLA            -  E se voi aveste vera stima per la signora Angelica...

SILVIO                 -  Non occorr'altro.

CAMILLA            -  (Chi mai può arrivare a capirlo?)

CLARICE             -  Basta così, signore. Voi vi avanzate un poco troppo, ed io non sono accostumata a simili complimenti. (a Celio)

CELIO                   - Ma se vi adoro, se da voi sola dipende la mia pace, il mio riposo, la mia vita medesima.

CLARICE             -  Camilla.

CAMILLA            -  Mi comandi.

CLARICE             -  Dov'è mio padre?

CAMILLA            -  Non so, signora; ecco qui la signora Angelica.

SCENA OTTAVA

Angelica e detti.

ANGELICA          -  Serva umilissima di lor signori.

SILVIO                 -  (S'alza e la saluta senza parlare)

CELIO                   - Riverisco la signora Angelica. Come sta di salute?

ANGELICA          -  Bene per obbedirla.

SILVIO                 -  Anche a lei domandate come sta di salute? (a Celio)

CELIO                   - E perché non glielo dovrei domandare?

SILVIO                 -  Il suo volto può dispensarvi da una sì stucchevole interrogazione.

CELIO                   - (Ecco un uomo noioso, che pretende di voler riformare il costume).

ANGELICA          -  S'accomodino, non istiano in piedi per me.

CELIO                   - Sedete, se volete che noi sediamo.

ANGELICA          -  Ben volentieri. (vuol sedere nel mezzo)

SILVIO                 -  Signora, scusatemi. Questo è il vostro luogo. (le accenna la sedia presso la spinetta)

ANGELICA          -  Quando dovrò cantare.

CAMILLA            -  Andate, andate, signora. L'ora è tarda, e se volete favorire questi signori, non vi è tempo da perdere. (ad Angelica)

ANGELICA          -  Non c'è mio padre? (piano a Camilla)

CAMILLA            -  Non si è ancora veduto.

ANGELICA          -  Fate il piacere di ricercarlo, e ditegli che venga qui. (va a sedere alla spinetta, alla dritta di Silvio)

CAMILLA            -  Ben volentieri. Sono due giovani bene educate, non può loro mancare fortuna. Io però mi fido più del signor Silvio che del signor Celio. Mi pare che il signor Celio abbia un poco troppo del petit-maître. (parte)

SCENA NONA

Celio, Clarice, Angelicae Silvio

SILVIO                 -  Questa musica è vostra? (con passione ad Angelica)

ANGELICA          -  Sì signore, è una piccola cosa che non ha alcun merito.

SILVIO                 -  È ammirabile.

ANGELICA          -  Siete assai gentile per compatirla.

SILVIO                 -  Favorite sentire s'io la capisco.

ANGELICA          -  Voi la capirete senza veruna difficoltà. (restano tutti due impiegati ad osservare la musica)

CELIO                   - Credo che il signor Silvio sia più fortunato di me. (a Clerice)

CLARICE             -  Scusatemi, credo che il signor Silvio sia più discreto di voi.

CELIO                   - E perché ciò, signora?

CLARICE             -  Egli non ardirà di spiegarsi con mia sorella, come voi vi siete spiegato con me.

CELIO                   - Perché egli non amerà, come io vi amo.

CLARICE             -  Se il vostro amore è perfetto, perché non lo partecipate a chi si conviene?

CELIO                   - E a chi dovrei io farne parte?

CLARICE             -  A mio padre.

CELIO                   - A vostro padre? Ho inteso. Per ora non potreste voi dispensarmi?

CLARICE             -  No, il vostro amore è dubbioso, ed io non lo deggio assolutamente soffrire.

CELIO                   - (Gran disgrazia è la nostra. Le donne o sono troppo facili, o troppo severe. Nelle facili non vi è costanza, e nelle severe manca la compiacenza. (resta sospeso)

SCENA DECIMA

Pantalone e detti, poi Scapino

PANTALONE      -  Patroni reveriti.

SILVIO                 -  Riverisco il signor Pantalone.

CELIO                   - Servitor umilissimo. (sostenuto)

SILVIO                 -  Signor Celio.

CELIO                   - Che comandate?

SILVIO                 -  Perché non gli domandate come sta di salute?

CELIO                   - Ora sto male io, e non mi curo della salute degli altri.

PANTALONE      -  Mi, per grazia del cielo, stago ben, e éla, sior Celio, cossa se séntela?

CELIO                   - Un poco di melanconia, un poco di oppressione di spirito.

PANTALONE      -  Gnente, el xe in bone man. El xe in te la più bella occasion del mondo de recrearse. Fie mie, feghe sentir qualcossa de bello. L'averà motivo de devertirse.

CELIO                   - Sì, è necessario ch'io mi diverta. (Non vo' far conoscere la mia debolezza).

SCAPINO             - Signor padrone.

PANTALONE      -  Cossa gh'è?

SCAPINO             - Il signor Florindo e il signor Petronio vorrebbero riverirla.

PANTALONE      -  Sì ben, i vien a tempo anca lori, che i resta servidi. I sentirà le mie putte.

SCAPINO             - (Gran passione ha il signor Pantalone per queste sue figlie. Fa anch'egli come fanno le madri delle virtuose: sentirete mia figlia, sentirete mia figlia). (parte)

PANTALONE      -  Se dilettela de poesia, sior Celio?

CELIO                   - Tutte le cose belle mi piacciono. (guardando Clarice)

PANTALONE      -  La sentirà un pezzo da sessanta. La sentirà un capo d'opera.

SCENA UNDICESIMA

Florindo, Petronioe detti.

PANTALONE      -  Oh veli qua! Patroni, che i resta servidi, che i vegna avanti.

FLORINDO          -  Servitor umilissimo di lor signori.

PETRONIO           -  Servo riverente di lor signori. (tutti li salutano)

PANTALONE      -  La se comoda.

PETRONIO           -  (Siede vicino a Celio)

FLORINDO          -  (Siede vicino a Petronio, sopra l'ultima sedia)

PANTALONE      -  (Siede fra Clarice ed Angelica)Le soffrirà le debolezze delle mie putte. Un pochetto de musica, un pochetto de poesia. Strazzarie, bagatelle.

FLORINDO          -  Anzi, so che hanno del talento. Mi preparo di godere infinitamente. (Ci siamo, convien soffrire la seccatura). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Soffriamola). (a Florindo)(Io non capisco niente né di musica, né di poesia).

PANTALONE      -  Le sentirà, le compatirà, piccole cosse, cosse da donne. (ridendo)

FLORINDO          -  Si sa che le donne non sono obbligate di saper quanto gli uomini. È egli vero, signor Petronio?

PETRONIO           -  Le donne poi saranno sempre donne.

PANTALONE      -  Eh, le xe donne. Mie fie xe donne, ma le xe de quelle donne, sala, che non le gh'ha invidia de qualche omo.

CELIO                   - Sono poco obbliganti questi signori. (piano a Clarice)

CLARICE             -  Li conosco, ma li soffro per compiacere mio padre. (a Celio)

PANTALONE      -  Via, Clarice, faghe sentir quel sonetto che ti ha buttà zo sta mattina. Le sentirà un sonetto fatto in diese minuti. Le sentirà se el xe un componimento da donna.

CLARICE             -  Ma voi sapete, signore, che il sonetto non è che abbozzato.

PANTALONE      -  N'importa. Dilo come che el xe. Le sentirà che abozzo.

CLARICE             -  Per obbedirvi, lo dirò com'è. (tira fuori la carta)

FLORINDO          -  (Ha più paura ella di dirlo, che noi di sentirlo). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Sì, la solita vanità de' poeti). (a Florindo)

PANTALONE      -  Dighe prima l'argomento, se ti vuol che i lo goda. (a Clarice)

CLARICE             -  Il sonetto riflette sul passaggio che hanno fatto di loco in loco le scienze e le belle arti.

PANTALONE      -  Séntele? Le scienze e le belle arti; e adesso dove xele le scienze e le belle arti? (a Clarice)

CLARICE             -  Lo sentiranno dal sonetto.

PANTALONE      -  Le sentirà, a Parigi. Le scienze e le belle arti a Parigi. Le sentirà el sonetto.

CLARICE             -  Del Nilo un tempo, e dell'Eufrate in riva,

Sparse Minerva di scienza i frutti.

PANTALONE      -  I frutti. (ascoltandola con grande attenzione)

CLARICE             -  Indi del vasto mar solcando i flutti,

Piantò l'arbor feconda in terra argiva.

PANTALONE      -  Che vol dir in Grecia. Ah? cossa dìseli? Se pol dir de meggio?

FLORINDO          -  (Che cattivo principio!) (a Petronio)

PETRONIO           -  (Cattivissimo). (a Florindo)

CELIO                   - Che dite? Non è una quartina stupenda? (a Petronio)

PETRONIO           -  Stupenda. (a Celio)

PANTALONE      -  Da capo, da capo, e le staga zitte, le goda, e no le interrompa più fina in ultima.

CLARICE             -  Del Nilo un tempo, e dell'Eufrate in riva,

Sparse Minerva di scienza i frutti.

Indi del vasto mar solcando i flutti,

Piantò l'arbor feconda in terra argiva.

Roma, l'invida Roma, in cui fioriva

La gloria sol de' popoli distrutti,

Coi talenti di Grecia in lei tradutti

Dissipò l'ignoranza in cui languiva.

Sotto lungo dappoi barbaro sdegno

Giacque incolta l'Europa, e i bei vestigi

Rinnovò di virtù l'italo ingegno.

Ora la saggia Dea de' suoi prodigi

Prodiga è resa delle Gallie al regno.

Menfi, Roma ed Atene oggi è in Parigi.

PANTALONE      -  Oh brava! Oh pulito! (battendo le mani) Menfi Roma ed Atene oggi è in Parigi. Ah! xele cosse da donna? o xele composizion da Petrarca, da Ariosto, da Metastasio?

CELIO                   - E viva la signora Clarice.

FLORINDO          -  Bravissima. (Non si può far peggio). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Puh che roba!) (a Florindo)

CELIO                   - Non si può negare che il sonetto non sia un capo d'opera. (a Petronio)

PETRONIO           -  Pare anche a me, che sia un capo d'opera. (a Celio)(Io non ho inteso una parola).

CELIO                   - (Ah, sempre più m'innamora. Non vorrei esser costretto a sagrificare la mia libertà).

PANTALONE      -  E éla, sior Silvio, no la dise gnente? Non la se degna gnanca de dirghe brava a mia fia?

SILVIO                 -  Io l'ammiro infinitamente, ma la mia passione è la musica.

PANTALONE      -  Grazie al cielo, gh'avemo da sodisfarla. Vorla musica? la sentirà della musica. A ti, Angelica, cànteghe quella cantata che ti ha composto ti colle parole de to sorela. Musica de una sorela, parole dell'altra sorela, tutte do mie fie. Ah! songio un pare felice? Animo, da brava. Le sentirà, le sentirà, no digo gnente, le sentirà.

ANGELICA          -  Avranno la bontà di perdonare.

PANTALONE      -  Sì sì, perdonare. La sastu a memoria la cantata?

ANGELICA          -  Sì signore: siccome io ho composto la musica, la so a memoria.

PANTALONE      -  Co l'è cussì donca, da brava, lèvete suso, dila a memoria, e gestissi un poco. Le vederà che grazia che la gh'ha in tel gestir.

ANGELICA          -  Come volete: ma ci vorrebbe qualcheduno che mi accompagnasse.

SILVIO                 -  Se comandate, vi accompagnerò io. (ad Angelica)

PANTALONE      -  Sì ben, el te compagnerà élo. La prego de far pulito. (a Silvio)Ma aspetta, disémoghe l'argomento della cantada.

ANGELICA          -  Lo dirà mia sorella, che è la compositrice delle parole.

PANTALONE      -  Dilo ti, fia mia. (a Clarice)

CLARICE             -  L'argomento della cantata è la supplica, o sia il memoriale d'un poeta italiano, che domanda in grazia ad Apollo di non esser disprezzato a Parigi.

PANTALONE      -  Mo che bel argomento! Xelo a proposito? Xelo inzegnoso?

FLORINDO          -  (Ci si vede la presunzione). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Chiarissima). (a Florindo)

CELIO                   - (Il suo desiderio è lodevole). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Lodevolissimo). (a Celio)

PANTALONE      -  Animo, da brava, canta, e fate onor, fia mia. (ad Angelica)

ANGELICA          -  Veramente non sono in voce.

PANTALONE      -  N'importa.

ANGELICA          -  E se mi manca il fiato?

PANTALONE      -  T'agiuterò mi.

ANGELICA          -  (Canta, accompagnata dall'orchestra)

Sacro nume di Pindo,

Tu che l'anime accendi

Di canora armonia, tu che rischiari

De' mortali la mente,

Gran lume onnipossente,

Degli uomini conforto, e degli Dei,

Presta orecchio pietoso ai voti miei.

Della Senna in su le sponde,

Tua delizia e tuo decoro,

Non negarmi il verde alloro

Che desio di meritar.

Rammenta, o biondo Dio,

Quanti del sudor mio divoti pegni

Ottenesti finor. Vegliai le notti

Per offrirti gl'incensi. A te in tributo

I più bei dì della mia vita io diedi,

E qual ebbi da te grazie, o mercedi?

Questo dono or ti chiedo,

Sia grazia, o sia mercé. Fa che un tuo raggio

Rischiari il mio talento,

Fa ch'io piaccia a Parigi, e son contento.

Ah, che dal ciel discende

Raggio d'immortal luce,

Sento de' vati il duce

Che mi favella al cor.

Vieni, mi dice, e spera.

Qui di clemenza è il regno;

Renditi d'onor degno,

E ti prometto onor.

PANTALONE      -  Oh cara! Oh benedetta! Oh che musica! Oh che parole! Ah, cossa dìseli? Cossa ghe par?

CELIO                   - Per verità, non si può sentire di meglio.

PANTALONE      -  Cossa dìsela, sior Silvio?

SILVIO                 -  È adorabile, sono incantato.

FLORINDO          -  (Parole indegne, musica scellerata). (a Petronio)

PETRONIO           -  (Tutto cattivo dunque). (a Florindo)

FLORINDO          -  (Tutto pessimo).

PETRONIO           -  (Sarà tutto pessimo).

CELIO                   - Che dite? avete mai sentito di meglio? (a Petronio)

PETRONIO           -  Mai. (a Celio)

PANTALONE      -  E éla no dise gnente, sior Florindo? Par che no l'abbia godesto.

FLORINDO          -  Sì, ho goduto. (ironicamente)

PANTALONE      -  Mi ho paura che nol se n'intenda.

FLORINDO          -  Perdonatemi. La musica e la poesia le conosco perfettamente.

PANTALONE      -  E éla, sior Petronio?

PETRONIO           -  Io? Ho un gusto delicatissimo.

PANTALONE      -  Cossa dìsela de mie fie, donca?

PETRONIO           -  Oh!

PANTALONE      -  La diga el so sentimento.

PETRONIO           -  Io mi riporto al giudizio di questi signori.

PANTALONE      -  (Povero martuffo! Nol sa gnente).

FLORINDO          -  Io stimo infinitamente il talento delle signore vostre figliuole, specialmente la buona disposizione della signora Clarice. Per donna è qualche cosa.

PANTALONE      -  Per donna!

FLORINDO          -  Ma se volete sentire un pezzo di poesia, mi darò l'onore io di recitarvi un piccolo madrigale da me composto, che non vi spiacerà.

PANTALONE      -  Eh credo benissimo, senza che la se incomoda.

FLORINDO          -  No no, ho piacere che sia giudicato dalla signora Clarice.

CLARICE             -  Lo sentirò volentieri.

PANTALONE      -  (Me par mo anca, che la sia una mala creanza).

FLORINDO          -  Sentite l'argomento. In lode della cera di Spagna.

PANTALONE      -  Puh, che diavolo d'argomento!

FLORINDO          -  L'idea è bellissima. Si loda la cera di Spagna che sigilla e assicura dall'altrui curiosità i viglietti amorosi. Ah! vi piace, signor Petronio?

PETRONIO           -  Stupenda.

CELIO                   - (Fa cenno a Petronio, che non va bene)

PETRONIO           -  (Con cenni disapprova)

FLORINDO          -  Del pesato sottil talento ispano

Rubiconda, stupenda maraviglia,

In candida conchiglia

Delle perle d'amor chiude l'arcano.

PANTALONE      -  Oh che roba! (burlandosi)

FLORINDO          -  Come?

CLARICE             -  Bellissima. (ridendo)

CELIO                   - Maravigliosa.

ANGELICA          -  Stupenda.

FLORINDO          -  Signor Silvio.

SILVIO                 -  Benissimo.

FLORINDO          -  Signor Petronio.

PETRONIO           -  Vi faccio il mio umilissimo complimento.

FLORINDO          -  Grazie, obbligato. Eh, picciole cose! vi è un poco di spirito, di novità.

SCENA DODICESIMA

Arlecchino, poi Camilla, e detti.

ARLECCHINO    -  Con licenza de lor signori.

CAMILLA            -  Fermatevi, non fate scene.

ARLECCHINO    -  Sento che i se diverte con delle belle poesie. Son qua anca mi, se i se contenta, a recitarghe una composizion.

PANTALONE      -  (Oimei, ogni volta che vedo costù, me vien el spasemo).

CAMILLA            -  Arlecchino, abbiate giudizio per carità.

ARLECCHINO    -  Tasi, e ascolta anca ti sta bella composizion.

FLORINDO          -  Sentiamo lo spirito d'Arlecchino.

PETRONIO           -  Sentiamo.

ARLECCHINO    -  Le senta l'armento della canzon. Una donna ha promesso a un galantomo de torlo per marido; sto galantomo vuol che la sposa fazza a so modo, e la sposa no lo vol far. Nol vuol che la tegna zente in casa, e ela ghe ne vol tegnir. Nol vol conversazion, e ela vol far conversazion. Mi son el galantomo, Camilla xe la la sposa, lor signori xe quelli che mi no voleva, e che ela vol. Questa xe la canzon. (tira fuori una carta)El contratto de nozze. Questa xe la musica: el contratto strazzà, el matrimonio desfatto, e bona notte padroni. (in atto di partire)

CAMILLA            -  No, Arlecchino, fermati...

ARLECCHINO    -  No gh'è altro Arlecchin. La canzon xe là, la musica xe fenia. Vado a Bergamo, e no se vederemo mai più. (parte)

CAMILLA            -  Oh povera me! sono disperata. Per causa vostra ho perduto il mio caro Arlecchino. (a tutti)

CELIO                   - Se per causa nostra vi è avvenuto questo male, è giusto che noi rimediamo. Andiamo, signor Silvio, a procurar di trattenere Arlecchino.

SILVIO                 -  È giusto. All'onore di riverirvi. (ad Angelica, e parte)

CELIO                   - Signora Clarice, scusatemi... sarò da voi. (Sono sempre più incantato del di lei merito). (parte)

FLORINDO          -  C'entriamo noi in quest'imbroglio? (a Camilla)

CAMILLA            -  Tutti mi avete rovinata. Tutti d'accordo mi avete precipitata.

FLORINDO          -  Andiamo, amico; questo è un nuovo soggetto per un madrigale. (a Petronio, e parte salutando tutti)

PETRONIO           -  Non vorrei che toccasse a me l'incomodo di sentirlo. (saluta, e parte)

CLARICE             -  Possibile, Camilla, che per causa nostra...

CAMILLA            -  Lasciatemi stare per carità.

CLARICE             -  (La sorte non vuol cessar di perseguitarmi). (parte)

ANGELICA          -  Camilla, vi compatisco, e mi dispiace che per nostra cagione...

CAMILLA            -  Ma non mi tormentate d'avantaggio.

ANGELICA          -  Pazienza. Sarà di noi quel che il cielo destinerà. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Pantalone e Camilla

CAMILLA            -  Ah! per il troppo buon cuore mi sono precipitata.

PANTALONE      -  Camilla. (piano, con mestizia)

CAMILLA            -  Cosa volete, signore? (con isdegno)

PANTALONE      -  Seu in collera?

CAMILLA            -  Sono disperata.

PANTALONE      -  Quieteve, fia mia, quieteve. Voleu che vaga?

CAMILLA            -  Volesse il cielo, che foste andato.

PANTALONE      -  Pazenzia, anderò. (incamminandosi)

CAMILLA            -  (Da una parte la pietà mi stimola, dall'altra l'amore mi sforza).

PANTALONE      -  (Pussibile che no la conossa che Arlecchin xe un strambazzo, che nol merita de esser amà, e che no la perde gnente a lassarlo? Cussì la doverave dir, cussì la doverave pensar. Mi son un omo d'onor. No ho da far cattivi offizi contra nissun).

CAMILLA            -  (Se Arlecchino non torna, cosa sarà di me?)

PANTALONE      -  (Eh, za la vedo, bisognerà po andar).

CAMILLA            -  (Non sarà possibile certamente ch'io viva).

PANTALONE      -  Camilla. (come sopra)

CAMILLA            -  Camilla è stanca, Camilla è fuori di sé, non cercate più di Camilla.

PANTALONE      -  Donca?

CAMILLA            -  Donca, donca, non m'inquietate.

PANTALONE      -  Anderò via.

CAMILLA            -  Che tormento!

PANTALONE      -  Le mie povere putte...

CAMILLA            -  (È una cosa insoffribile).

PANTALONE      -  Le anderà per el mondo...

CAMILLA            -  (Povere sfortunate).

PANTALONE      -  A domandar la limosina.

CAMILLA            -  (Mi sento morire).

PANTALONE      -  Vago via.

CAMILLA            -  Fermatevi. (Ma perché mai ho io un cuore sì tenero e sì sensitivo?)

PANTALONE      -  (Me par che la se vada un pochetto calmando)

CAMILLA            -  Fatemi un piacere, signor Pantalone. Lasciatemi un poco sola.

PANTALONE      -  Volentiera. (si ritira per un poco)

CAMILLA            -  (Vo consigliarmi con me medesima).

PANTALONE      -  Camilla. (come sopra)

CAMILLA            -  Ma questo, poi, compatitemi..

PANTALONE      -  Gnente, fia mia; una parola sola. No pregiudiché i vostri interessi, no tradì el vostro cuor ma se podè abbiè carità de mi. (parte piano piano, e quando è alla porta, si volta)Sì che ti xe de bon cuor, sì che ti gh'averà compassion. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Camilla sola.

CAMILLA            -  Ho d'aver compassione per altri, e non l'ho d'aver per me stessa? Per far del bene ho da perdere l'amor mio, la mia pace, ho da perder tutto? Arlecchino mio caro, dove sei il mio caro Arlecchino? Vieni dalla tua povera Camilla, vieni da colei che ti ama, che ti adora, che non può vivere senza di te. Ah me infelice! non mi ascolta, sarà forse partito. Son fuor di me. Sono disperata; odio chi è causa della mia rovina. Odio Pantalone, odio le sue figliuole... Ma che colpa ne hanno quelle povere sfortunate? Oh dio! mi si spezza il cuore, ho il cuore lacerato da due passioni. Cielo, aiutami, aiutami, cielo, per carità. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Celio, Silvio, Florindo, Petronioed Arlecchino

CELIO                   - Animo, animo, bisogna venire con noi.

ARLECCHINO    -  Sior no: in casa de Camilla no ghe voggio più andar.

FLORINDO          -  Dite di non volerci andare, e ci siete?

ARLECCHINO    -  Ghe son? Se ghe son, i m'ha condotto per forza. I me gh'ha strascinà, e questa l'è una impertinenza, ché i galantomini no i se conduse per forza.

CELIO                   - Noi vi abbiamo persuaso, noi vi abbiamo condotto, ma non vi abbiamo usata violenza.

ARLECCHINO    -  Sior sì, per causa vostra son vegnù qua, che no ghe voleva vegnir.

FLORINDO          -  Volete voi ch'io vi dica, come ci siete venuto?

ARLECCHINO    -  La me farà grazia de dirmelo, perché mi no lo so.

FLORINDO          -  Fate attenzione all'imagine, e ditemi se vi è della fantasia. (a Petronio)Avete mai veduto la commedia rappresentata da' burattini? (ad Arlecchino)

ARLECCHINO    -  Sior sì, l'ho vista; e cossa gh'ìntrio mi con i burattini?

FLORINDO          -  I burattini sono regolati da un ferro, confitto loro nel capo, e da alcuni fili attaccati alle loro mani ed ai loro piedi. Non si muovono che per via de' fili, non camminano che coll'aiuto de' fili, non vanno di loco in loco che col mezzo del ferro che li conduce, e non parlano che colla voce di colui che li fa giocare. Eccoci al caso nostro. Voi siete il burattino. Amore è colui che vi giuoca. La passione è il ferro che vi conduce, non vi movete che coi fili del desiderio, e spinto dall'affetto, e tirato dalla bellezza, siete fin qui venuto senza saper di venirci. Eh! che vi pare della novità del pensiere? (a Petronio, pavoneggiandosi)

PETRONIO           -  Maravigliosa.

ARLECCHINO    -  Come? a mi burattin? Dirme a mi che son una testa de legno? Sangue de mi! cammino colle mie gambe, e penso colla mia testa, e no ghe ne vôi più saver de Camilla. E anderò via, e no ghe tornerò più. (E pur gh'è un filo che me move, e un ferro che me vorria trattegnir).

CELIO                   - Ma via, caro Arlecchino, acchetatevi. Vediamo se vi è il modo di accomodare questa faccenda.

ARLECCHINO    -  No gh'è caso, l'è impussibile, no l'accomoderemo mai più.

SILVIO                 -  Siete voi ragionevole?

ARLECCHINO    -  Me par de sì.

SILVIO                 -  Fate che la ragione vi guidi.

ARLECCHINO    -  No gh'è remedio.

FLORINDO          -  Signor Petronio, persuadetelo voi.

PETRONIO           -  Lo persuaderò io.

ARLECCHINO    -  Xe impussibile.

PETRONIO           -  Ecco il mio consiglio. Fate tutto quel che volete.

ARLECCHINO    -  Bravissimo, no ghe ne vôi più saver.

CELIO                   - Quand'è così, è superfluo di più parlarne. Amici andiamo, egli non merita che ci prendiamo pena per lui; anzi dobbiamo persuadere Camilla ad abbandonarlo del tutto.

SILVIO                 -  Lasciamolo nella sua ostinazione.

FLORINDO          -  Sì, abbandoniamolo alla sua villana risoluzione. Andiamo a convincere, andiamo a disingannare Camilla.

PETRONIO           -  Il mio consiglio è approvato. Andiamo.

ARLECCHINO    -  Le diga, le senta, le se ferma. No son po gnanca ustinà, come le me crede.

CELIO                   - Sì, bravo. L'uomo di garbo conosce poi la ragione. Siete ancora in tempo. Siamo qui per voi. (Si vede che è innamorato. Prevaliamoci del momento). (agli altri)

SILVIO                 -  Consigliatevi col vostro cuore.

FLORINDO          -  Il filo, il filo del vostro amore.

PETRONIO           -  No, il mio consiglio.

CELIO                   - Permetteteci di parlare a Camilla.

SILVIO                 -  Vedetela.

FLORINDO          -  Andiamola a ritrovare. Facciamola qui venire.

PETRONIO           -  No, il mio consiglio.

ARLECCHINO    -  Cossa gh'intra el vostro conseggio? Cossa me rompeu la testa co sto vostro conseggio? (a Petronio)

CELIO                   - Presto, presto, Camilla. (parte)

FLORINDO          -  Sì, Camilla, Camilla. (parte)

PETRONIO           -  È contento Arlecchino di veder Camilla? (a Silvio)

SILVIO                 -  Sì, è contento.

PETRONIO           -  Bene. Faccia quel che gli pare. In ogni maniera avrà sempre seguitato il mio consiglio. (parte)

ARLECCHINO    -  (Son confuso, no so gnanca mi, me sento un fogo, una smania, un battimento de cuor).

SILVIO                 -  Arlecchino.

ARLECCHINO    -  Signor.

SILVIO                 -  Ecco Camilla che viene.

ARLECCHINO    -  Camilla?... voggio andar via.

SILVIO                 -  No, amico, non partirete. Amore non vi permetterà di partire. (parte)

ARLECCHINO    -  Amor m'impedirà de partir? Sior no. Cossa èlo sto amor? Èlo un mago che me possa incantar? No gh'ho paura, voggio andar via. (vede Camilla)Ah, ecco là la magia che m'incanta.

SCENA SECONDA

Camilla ed Arlecchino

CAMILLA            -  (Briccone! trattarmi in tal modo, usarmi una simile crudeltà? Meriterebbe ora ch'io lo scacciassi).

ARLECCHINO    -  (Vorria, e no vorria; ma no, mi no ho da esser el primo).

CAMILLA            -  (Pretenderà ch'io vada a pregarlo. L'ho avvezzato male, e se mi mette il piede sul collo, quando sarò sua moglie mi tratterà come un cane).

ARLECCHINO    -  (Ho proprio volontà de guardarla; ma se la guardo, son fritto).

CAMILLA            -  (Chi sa mai cosa pensa? Chi sa mai con quale intenzione sia qui ritornato?)

ARLECCHINO    -  (Coraggio, el vol esser coraggio. Andar via senza dirghe niente). (in atto di partire)

CAMILLA            -  (Si schiarisce con un poco di caricatura, senza guardarlo)

ARLECCHINO    -  (Si ferma, e si rivolta verso Camilla. S'incontrano cogli occhi, e restano un poco ammutoliti)

ARLECCHINO    -  Servitor suo. (dolcemente, in atto di voler partire)

CAMILLA            -  Serva sua. (inchinandosi con mestizia)

ARLECCHINO    -  (No la me dise gnanca, che resta?)

CAMILLA            -  (Ha intenzione ancora di lasciarmi?)

ARLECCHINO    -  (No, no la voggio pregar. No sarà mai vero, no me voggio avvilir).

CAMILLA            -  (È un cane, è un barbaro, senza pietà, senza discrezione).

ARLECCHINO    -  (Animo, risoluzion). (in atto di andarsene)

CAMILLA            -  (Parte).

ARLECCHINO    -  (Bisogna andar via). (come sopra)

CAMILLA            -  (Mi lascia, mi abbandona?)

ARLECCHINO    -  (Sì, ho risolto, bisogna andar). (va sino alla scena per partire)

CAMILLA            -  Ahi, mi sento morire. (si getta sopra una sedia)

ARLECCHINO    -  (Si ferma e si rivolge a guardarla)(Ah, me recordo adesso del ferro e dei fili dei burattini; el gh'ha rason. Amor me move i brazzi, le gambe, la testa, el cuor). Camilla, ve sentiu mal?

CAMILLA            -  Oimè, mi sento... un'oppressione di cuore... una mancanza di respiro... un gelo interno, un sudor freddo, un tremor nelle membra, tutti segni mortali.

ARLECCHINO    -  Poveretta! Animo, animo, coraggio, no sarà gnente.

CAMILLA            -  Crudele! (guardandolo dolcemente)

ARLECCHINO    -  (Oh poveromo mi!) Lèvete suso, Camilla.

CAMILLA            -  Non posso.

ARLECCHINO    -  Pròvete, che t'aiuterò.

CAMILLA            -  (Si alza, e torna cadere sopra la sedia)Non mi reggo in piedi.

ARLECCHINO    -  Dame le man a mi tutte do.

CAMILLA            -  Sostienmi. (gli dà le mani)

ARLECCHINO    -  Non aver paura. (prende per le due mani Camilla; ella si va alzando, e traballa. Quando è alzata, torna a cadere sulla sedia, ed Arlecchino cade ancor egli, e si trova in terra)

ARLECCHINO    -  Aiuto.

CAMILLA            -  (Balza dalla sedia)Ahi poverino! t'hai fatto male?

ARLECCHINO    -  Estu guarida?

CAMILLA            -  Sì, sono guarita.

ARLECCHINO    -  Son guarido anca mi. (s'alza)

CAMILLA            -  Caro il mio Arlecchino. (singhiozzando)

ARLECCHINO    -  Cara la mia zoggia. (singhiozzando)

CAMILLA            -  Mi vuoi tu bene? (come sopra)

ARLECCHINO    -  Tutto el mio ben per ti. (come sopra)

CAMILLA            -  Sì, è vero, tu mi vuoi bene, ma il povero signor Pantalone...

ARLECCHINO    -  Possa cascar la testa a sior Pantalon.

CAMILLA            -  Cossa ti ha fatto il signor Pantalone?

ARLECCHINO    -  Nol m'ha fatto niente: no ghe voggio mal, ma in sta casa mi no lo posso soffrir. Per el magnar, pazenzia. I xe in quattro, i te costerà assae, ma pazenzia; ma se t'ho da sposar, se ho da vegnir in sta casa, mi no vôi nissun. Ti sa el mio temperamento, mi no vôi nissun. Pantalon; do fiole, una predica, l'altra canta; vien della zente, i fa conversazion. Gh'è quel maledetto Scapin. In somma, fin che xe in casa sta zente, mi no ghe vôi più vegnir.

CAMILLA            -  Ma possibile che io non abbia tanto potere?...

ARLECCHINO    -  Vien zente. No vôi sentir altre istorie. Pénseghe suso, e se vederemo. (parte)

SCENA TERZA

Camilla sola.

CAMILLA            -  Per una parte ha ragione. Mi ha parlato in una maniera, ch'io sono quasi convinta. Io credo che a quest'ora ogni altra donna avrebbe licenziato il signor Pantalone; e pure son così tenera, sono così impegnata, che ci ho ancora della difficoltà.

SCENA QUARTA

Pantalone, Clarice, Angelica, Celio, Silvio, Florindo, Petronioe Camilla

PANTALONE      -  Vegnì vegni, fie mie. (a Clarice ed Angelica)No gh'è bisogno de altri discorsi. Avemo sentio tanto che basta.

CAMILLA            -  Ah signor Pantalone! Arlecchino ha fissato il chiodo. Non vi è rimedio.

PANTALONE      -  Savemo tutto. Compatì se la passion m'ha fatto commetter un'azion un poco troppo avanzada. Ho ascoltà, ho sentìo. Mi son persuaso, le mie putte xe persuase, e bisogna andar.

CAMILLA            -  Caro signor Pantalone, io non vi dirò mai che andiate. Soffrirò tutto per voi e per le vostre care figliuole, ma è cosa certa, che ogni momento che qui restate, mi costa un tormento, uno spasimo, un batticuore.

PANTALONE      -  No ve indubitè, fia mia. Doman ve svoderemo la casa.

CELIO                   - E sarà possibile, signora Camilla, che vogliate perdere tutto ad un tratto il merito della vostra virtù, e che abbandoniate queste povere sfortunate?

CAMILLA            -  (È grazioso questo signore!)

SILVIO                 -  Coronate l'opera, e non dubitate. (a Camilla)

CAMILLA            -  (Anche questi colla sua flemma è particolare).

FLORINDO          -  Non perdete di vista la fama, l'eroismo, la gloria. (a Camilla)Aiutatemi, signor Petronio, aiutatemi a persuaderla. (a Petronio)

PETRONIO           -  Volete voi il mio consiglio? (a Camilla)

CAMILLA            -  Non ho bisogno di altri consigli. Ditemi un poco, signori miei, voi altri che mi parlate in favore di questa famiglia, che avete compassione di queste povere signorine, non impiegherete per loro che parole inutili, che consigli vani? Se sentite pietà di loro, perché non cercate voi stessi di sovvenirle? Non hanno forse bastante merito per persuadervi? Ecco la via di soccorrerle, e di render loro giustizia. Chi ha dell'amore per esse, le può sposare. Chi ha della stima soltanto, può dar loro il modo di essere collocate. Voi lo potete fare, e dovete farlo. Questa è la vera pietà, questo è il vero eroismo, la vera gloria, e non il raccomandarle ad una povera donna, che ha fatto quanto ha potuto, col sagrifizio del proprio cuore e della propria tranquillità.

PANTALONE      -  Oh cara, oh vita mia, oh come che la parla pulito! La par tutta mia fia. Par che l'abbia imparà da mia fia.

CELIO                   - (Lo scongiuro è forte. L'impegno è grande. Amo Clarice. Ma oh cieli! che mi consiglia il mio cuore?)

CLARICE             -  (Siamo obbligate al buon amor di Camilla, ma noi non saremo meritevoli di tal fortuna).

ANGELICA          -  (Siamo nate infelici, e siam costrette a soffrire).

FLORINDO          -  Camilla mi ha parlato al cuore. Camilla mi ha intenerito. Queste giovani mi muovono a compassione. Vorrei... convien risolvere... ma convien pensare... Che cosa direbbe il signor Petronio?

PETRONIO           -  Per me direi... sa signor, si potrebbe... Quando mai... per esempio...

PANTALONE      -  Per esempio, delle chiaccole senza sugo.

FLORINDO          -  Orsù, la gloria mi consiglia, la pietà m'inspira. Sarò io il primo ad insegnare altrui la via della compassione. Signora Angelica, io vi offerisco la mano.

SILVIO                 -  Fermatevi. Voi siete mosso a sposarla dalla gloria e dalla pietà, io dal merito e dalla stima. Decida la signora Angelica a chi vuol conceder la mano.

ANGELICA          -  Io non ardirò di rispondere, senza l'autorità di mio padre.

PANTALONE      -  Fia mia, no so cossa dir. Desidero che ti sii contenta, ma considera che ti è la segonda, e me dolerave assae de véder a far un torto alla prima.

FLORINDO          -  Per me è tutt'uno. Sposerò la prima, se vi contentate.

CELIO                   - Piano, signore. Io amo la signora Clarice. Esitai lungo tempo, ma non ho cuore di vederla sagrificata ad un Imeneo senza amore. S'ella è di me contenta, ho risolto e le offerisco la destra.

CLARICE             -  Che dite voi, signor padre?

PANTALONE      -  Estu contenta, fia mia?

CLARICE             -  Contentissima.

PANTALONE      -  E mi, più che contento. (Clarice e Celio si danno la mano)

FLORINDO          -  Decida dunque la signora Angelica.

ANGELICA          -  Giacché mio padre l'accorda, accetterò la mano del signor Silvio.

SILVIO                 -  Una tal preferenza mi onora. (si danno la mano)

FLORINDO          -  Son contentissimo in ogni modo. Avrò io il merito di aver provocato gli animi all'eroismo, alla gloria; che dice il signor Petronio?

PETRONIO           -  Vi faccio il mio umilissimo complimento.

PANTALONE      -  Son rinato, ho acquistà dies'anni de vita, no ghe xe adesso l'omo più felice de mi. El cielo ha provisto le mie creature. La virtù xe premiada, el merito xe ricompensà; ma con bona grazia de sior Florindo, la causa de tutto sto ben xe Camilla.

CAMILLA            -  Ah sì, io non posso bastantemente spiegarvi la mia contentezza. Presto presto, mandiamo a chiamar Arlecchino.

SCENA ULTIMA

Arlecchino, Scapinoe detti.

ARLECCHINO    -  Son qua, ho inteso tutto, me consolo con lor signori. Me rallegro co ste do signore che le sia proviste, me rallegro co sior Pantalon, che el sarà contento. E adesso che la casa ha da esser libera e desbarazzada, son qua, Camilla, se ti vol, son pronto a darte la man.

CAMILLA            -  L'accetto col maggior piacere del mondo, contenta di aver soddisfatto all'amore, e alla compassione. (si danno la mano)

PANTALONE      -  Son fora de mi dall'allegrezza. Me giubila el cuor. Siori, compatime se dago in trasporti de giubilo, de consolazion. Son pare. Amo le mie care fie, e no ghe xe al mondo amor più grando, amor più forte, dell'Amor Paterno.