L’annunzio a Maria

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Dramma in un prologo e quattro atti

diPaul Claudel

Unica traduzione autorizzata

di Francesco Casnati

Vita e Pensiero - Milano

DRAMATIS PERSONAE

ANNA VERCORS

GIACOMO HURY

PIETRO DI CRAON

LA MADRE

VIOLAINE

MARA

COMPARSE

AVVERTENZA

Del mistero L'Annonce faite à Marie esistono tre reda­zioni: quella del 1912, la più poetica, che fa testo, ed è ristampata senza la minima variante nel II volume del Théàtre di Paul Claudel, edizione definitiva della Plèiade; quella del 1938-40, per la scena, in cui è stato rimaneg­giato profondamente, per consiglio dell'attore Dullin, il IV atto (Pierre de Craon, fra l'altro, non vi compare più, ed è il padre Anne che riporta a casa Violarne morente); quella, infine, del 1948 ritoccata o rifatta in parecchi punti, nella scena e nel testo, e che è stata recitata lo stesso anno al teatro Hébertot di Parigi. In quest'ultima redazione, in cui è stato accentuato il carattere rusticano dei personaggi e meglio chiarito quello di Mara, il quarto atto si chiude con un gesto simbolico. « Sopra il corpo della lebbrosa sacrificata, — spiega il poeta, — mentre le campane di Montevergine scandiscono: Pax! Pax! Pax!, il Padre alza fra le sue le mani degli sposi riconciliati. Perché egli ha imparato che solo innalzando si riconcilia ».

La presente traduzione è fatta sul testo originale del 1912.

                                                                            f. c.


PROLOGO

La rimessa di Combernon, vasto portico dai pilastri quadri a cui s'appoggiano travature a ogiva. Mucchi di paglia nell'ala destra; il resto vuoto; fili di paglia per terra; il suolo di terra battuta. Nella parete di fondo, inquadrata dal muro massiccio, un'ampia porta a due imposte, con un complesso congegno di sbar­re e chiavistelli. Sulle imposte sono dipinti in modo primitivo le effigi dì san Pietro e di san Paolo, l'uno con le chiavi, l'altro con la spada. Un grosso cero giallo fissato a un pilastro con un anello rischiara le immagini.

Il dramma si svolge alla fine di un Medioevo convenzionale: così come i poeti del Medioevo potevano figurarsi l'Antichità.

Fine della notte e prime ore del mattino.

Entra su un gran cavallo un uomo ravvolto in un mantello nero con una valigia in groppa, Pietro di Craon. La sua ombra gigan­tesca si muove spiccando dietro di lui sui muri, il suolo, i pilastri.

Violaine, nascosta dietro un pilastro, improvvisamente appare davanti al cavaliere. È alta e sottile, a piedi nudi; ha una veste di grossa lana, in capo un panno in foggia contadinesca insieme e monastica.

Violaine, tende ridendo verso il cavaliere le mani, con gl'indici incrociati — Ferma, ferma, signor cavaliere! Giù di sella!

Pietro di Craon — Violaine!

(Balza a terra)

Violaine — Ma bene, maestro Pietro! Così si lascia la casa, come un ladro, senza salutare garbatamente le signore?

Pietro di Craon — Violaine, rientrate! È ancora notte; siamo soli qui. E non son uomo io, voi lo sapete, da fidarsene troppo.

Violaine — Non ho paura di voi, muratore! Non è cat­tivo chi vuole. E con me non è facile. Povero Pietro! Nemmeno uccidermi avete saputo. Con quel vostro col­tello! Nulla più d'un piccolo taglio al braccio di cui nessuno s'è accorto.

Pietro di Craon — Violaine, dovete perdonarmi.

Violaine — Son qui per questo.

Pietro di Craon — Siete la prima donna che ho tocca­ta. Il diavolo, attento alle occasioni, m'ha tentato d'un tratto.

Violaine — Mi avete però trovata più forte di lui! 12

Pietro di Craon — Violaine, eccomi qui nuovamente, più pericoloso d'allora.

Violaine — Dovremo dunque ancora lottare?

Pietro di Craon — La mia sola presenza, essa sola, è funesta.

Violaine — Non vi capisco.

(Silenzio)

Pietro di Craon — Forse non avevo abbastanza pietre da ammassare e legnami da commettere e metalli da foggiare, — l'opera ch'era mia, — perché d'un tratto mettessi la mano sull'opera d'un Altro, e, empio, desi­derassi un'anima?

Violaine — Nella casa di mio padre, vostro ospite! Si­gnore Iddio! che avrebbero detto se l'avessero saputo? Ma io vi ho ben coperto. E tutti, come prima, vi ten­gono per uom sincero e irreprensibile.

Pietro di Craon — Dio giudica il cuore sotto le apparenze.

Violaine — E tutto questo resterà dunque fra noi tre.

Pietro di Craon — Violaine!

Violaine — Maestro Pietro?

Pietro di Craon — Mettetevi sotto quel cero che vi veda bene.

(Ella si mette sorridendo sotto il cero. Egli la guarda a lungo)

Violaine — Mi avete ben ben guardata?

Pietro di Craon — Chi siete voi, fanciulla; e che parte s'è Iddio riservata in voi, perché la mano che vi tocca con desiderio e la carne stessa sia così colpita, come avesse tentato il mistero della sua residenza?

Violaine — Che vi è dunque successo in questo tempo?

Pietro di Craon — Subito dopo quel giorno...

Violaine — Sì...

Pietro di Craon — ...ho scoperto sul mio fianco il segno del male spaventoso.

Violaine — Il male? Che male volete dire?

Pietro di Craon — La lebbra di cui parla il libro di Mosè!

Violaine — Che cos'è la lebbra?

Pietro di Craon — Non udiste mai di quella donna che visse, già è tempo assai, sola fra le rocce del Géyn? E girava tutta velata, annunziando il suo appressarsi con suon di nacchere.

Violaine — Ed è di quel male, maestro Pietro?

Pietro di Craon — Tale è la natura sua, che chi n'è colto nella forma più maligna, bisogna che sùbito ven­ga isolato; che non v'è uomo per poco guasto sia che la lebbra non gli si attacchi.

Violaine — E come restate allora fra noi liberamente?

Pietro di Craon — Il Vescovo mi ha dato dispensa, e voi vedete che mi mostro di rado, e solo fra gli operai per gli ordini da dare; e il mio male è ancora coperto e celato. Chi senza di me porterebbe ai fastigi queste na­scenti chiese che Dio mi ha affidato?

Violaine — Per questo non vi si è veduto stavolta a Combernon?...

Pietro di Craon — Ci dovevo per forza tornare, che è ufficio mio aprire il fianco di Montevergine, e fendere la parete ogni volta che uno stormo nuovo di colombe vuole entrarvi dall'Arca alta solo verso il cielo aperta. E questa volta conducemmo all'altare una illustre ostia, un solenne incensiere, la Regina, madre del Re, che vi saliva, ella proprio, pel figlio suo privato del regno. Ora torno a Rheims.

Violaine — Costruttore di porte, lasciate che vi apra questa.

Pietro di Craon — Altri non v'era alla fattoria per questo servigio?

Violaine — Alla fante è caro il letto, e m'ha dato le chiavi senza difficoltà.

Pietro di Craon — Non vi fa paura e orrore il lebbroso?

Violaine — C'è Dio a custodirmi.

Pietro di Craon — Allora, le chiavi?

Violaine — Lasciate fare a me. Voi non v'intendete di queste vecchie porte. E che! mi credete una bella dami­gella dalle dita affusolate che nulla sanno di più rude dello sprone, leggero come un osso d'uccello, di cui ar­mano il calcagno del novello cavaliere? Guardate!

(Apre il serrame che cigola e tira i catenacci)

Pietro di Craon — Questo ferrame è ben arrugginito.

Violaine — Nessuno passa più da questa porta. Ma per di qui il cammino è più corto.

(Fa forza sulla sbarra)

Ecco, la porta è aperta!

Pietro di Craon — Chi resisterebbe a tanto assalitore? Quanta polvere! La vecchia imposta scricchiola e ten­tenna quant'è alta; fuggono i neri scarafaggi, i vecchi nidi si sfasciano, ed ecco infine tutto aperto.

(La porta si apre. Si vede, pel vano, nella notte, la campagna, praterie e messi. Pallida luce a oriente)

Violaine — Questa lieve pioggia ha giovato a tutti.

Pietro di Craon — La polvere sulla via si sarà adagiata.

Violaine, a bassa voce, affettuosamente — Pace a voi, Pietro.

(Silenzio. E d'un tratto, sonoro e chiaro e altissimo nel cielo, il primo segno dell'An­gelus. Pietro si scopre, ed entrambi fanno il segno di croce)

Violaine, a mani giunte e il viso alzato al cielo, con voce ammirevolmente limpida e penetrante — Regina Coeli, laetare, alleluja!

(Secondo segno)

Pietro di Craon, con voce sorda — Quia quem meruisti portare, alleluja!

(Terzo segno)

Violaine — Resurrexit sicut dixit, alleluja!

Pietro di Craon — Ora pro nobis Deum.

                                            

(Pausa)

Violaine — Gaude et laetare, Virgo Maria, alleluja!

Pietro di Craon — Quia resurrexit Dominus vere, alle­luja.

(Campane a distesa)

Pietro di Craon, con voce bassissima — Oremus. Deus qui per resurrectionem Filii tui Domini Nostri Jesu Christi mundum laetificare dignatus es, praesta, quaesumus, ut per ejus Genitricem Virginem Mariam perpetuae capiamus gaudia vitae. Per eundem dominum Nostrum Jesum Christum qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum.

Violaine — Amen.

(Entrambi si fanno il segno di croce)

Pietro di Craon — Come suona di buon'ora l'Angelus!

Violaine — Lassù cantano mattutino di piena notte come i Certosini.

Pietro di Craon — Sarò a Rheims stasera.

Violaine — Conoscete bene la strada? Prima quella siepe, poi la casa bassa laggiù nel folto di sambuchi dove ve­drete cinque o sei arnie. E cento passi più lungi la strada Reale.

(Pausa)

Pietro di Craon — Pax tibi. Tutto riposa con Dio in un mistero profondo. Ma quel ch'era nascosto torna visibile con Lui.

Io sento sul mio viso un soffio fresco come di rosa. Loda il tuo Dio, terra benedetta, nelle lagrime e nell'oscurità! Per l'uomo il frutto, ma il fiore è di Dio e l'odore buono di tutto ciò che germoglia. Come la foglia di menta, l'odore che esala una santa anima nascosta ne svela la virtù.

A Dio, Violaine, che mi avete aperta la porta! Non tornerò più. O giovane albero della scienza del Bene e del Male, ecco che in me comincia il disfacimento per­ché ho messo la mano su di voi, e già in me anima e corpo si separano, come il vino nella bigoncia misto al grappolo franto.

Che importa? A me la donna non era necessaria. Io non ho posseduto donna corruttibile. L'uomo che ha dato la preferenza a Dio nel suo cuore, vede, nell'ora di morte, il suo Angelo custode.

Tempo presto verrà che un'altra porta si dissolva, quando colui che a pochi è piaciuto su questa terra s'addormenta, finito il suo lavoro, tra le braccia dell'Uccello eterno: e già traverso i muri fatti diafani tutt'intorno appare fosco il Paradiso, e gl'incensieri della notte si fondono col lezzo del lucignolo che si spegne.

Violaine — Pietro di Craon, so che da me non attendete conforti di «pover'uomo» e falsi sospiri, e che vi dica «povero Pietro». Per chi soffre, le parole d'un conso­latore gioioso non son di gran pregio, e il suo male non è per gli altri quel che è per lui.

Soffrite con Nostro Signore. Ma sappiate che la vostra mala azione è cancellata, per quel che da me dipende, e che io ho fatto pace con voi, e non vi disprezzo né vi aborro perché siete infetto e malato, ma vi tratterò come uomo sano, come il vecchio amico nostro, Pietro di Craon, che io rispetto, amo e temo. Questo vi dico, e così è.

Pietro di Craon — Grazie, Violaine.

Violaine — E ora ho qualcosa da chiedervi.

Pietro di Craon — Dite.

Violaine — Una bella storia che babbo ci ha narrata: di una «Giustizia» che voi costruite a Rheims e che sarà più bella di San Remigio e di Nostra Signora...

Pietro di Craon — È la chiesa che le corporazioni di Rheims mi han commesso di costruire sul terreno dov'era un tempo il parco degli ovini, là dove è stato bruciato l'antico pedaggio del marco pel Vescovo que­st'anno passato. E, primo, per ringraziare Iddio di sette estati grasse nella miseria di tutto il Regno:  grano e  frutta a dovizia, la lana a buon prezzo e bella, il panno e la carta pecora venduti bene ai mercanti di Parigi e d'Alemagna.

E poi per le libertà acquistate, i privilegi conferiti dal Re Nostro Signore, l'antico mandato a nostro danno dei vescovi Felice II e Abondante di Cramail rescisso dal Papa, il tutto a forza di franca spada e di scudi di Sciampagna.

Che tale è la repubblica cristiana: non fondata su timor servile, ma v'abbia ciascuno il suo diritto come lo sa stabilire, in varietà meravigliosa, perché la carità si eserciti.

Violaine — Ma di quale Re parlate e di quale Papa? Due ve n'ha e non si conosce il legittimo.

Pietro di Craon — Quello è legittimo che ci fa del bene.

Violaine — Non è parlar conveniente codesto.

Pietro di Craon — Perdonatemi. Sono un ignorante.

Violaine — E perché quel nome dato alla nuova chiesa?

Pietro di Craon — Non conoscete la storia di santa Giu­stizia, martirizzata al tempo dell'imperatore Giuliano in un campo d'anice? (Quei granellini che metton nel mar­zapane alla fiera di Pasqua). Nel mutar corso alle acque di una polla sotterranea durante i lavori per le fondamenta, abbiam trovata la sua tomba con questa epigrafe su una lastra di pietra spezzata in due: Justitia Ancilla Domini in Pace. Il piccolo fragile cranio era frantumato come una noce, — una bimba di otto anni era, — e qual­che dentino ancora si vedeva nella mascella.

Tutta Rheims è in esaltazione, e segni e prodigi molti seguono per virtù del corpo che abbiam deposto in una cappella, in attesa che la costruzione sia compiuta. Ma i piccoli denti, come una semente, li abbiam lasciati sotto il grosso blocco di base.

Violaine — Che bella storia! E anche ci diceva il babbo che tutte le matrone di Rheims offrono i loro gioielli per la costruzione della Giustizia.

Pietro di Craon — Gran copia ne abbiam raccolti, e già intorno, come mosche, ronzano giudei.

(Violaine, a occhi bassi, esitando, si rigira all'anulare un grosso anello d'oro)

Pietro di Craon — Che anello avete costì, Violaine?

Violaine — Un anello che mi ha dato Giacomo.

(Silenzio)

Pietro di Craon — Siate felice.

(Ella gli porge l'anello)

Violaine — Nulla ancora è stabilito. Mio padre non ha detto niente. Ebbene! proprio questo vi volevo dire. Eccovi il mio bell'anello; è tutto ciò che ho; Giacomo me l'ha dato in segreto.

Pietro di Craon — Ma non lo voglio, io.

Violaine — Prendetelo subito; non avrei più tardi la forza di privarmene.

(Egli prende l'anello)

Pietro di Craon — Che dirà il vostro fidanzato?

Violaine — Proprio mio fidanzato ancora non è. E anche senza anello il cuore non cambia. Egli mi conosce. Me ne darà un altro d'argento. Questo era troppo bello per me.

Pietro di Craon, esaminandolo — È oro vegetale, come un tempo sapevano farlo con una lega di miele. È mal­leabile come la cera e non lo si può spezzare.

Violaine — Giacomo l'ha trovato lavorando la terra, in un sito dove si rinvengono spesso vecchie spade tutte verdi e leggiadri pezzi di vetro. Mi faceva paura questo ornamento pagano appartenuto a gente morta.

Pietro di Craon — Accetto questo oro puro.

Violaine — E baciate per me mia sorella Giustizia.

Pietro di Craon, guardandola d'un tratto come colpito da un'idea — Proprio questo solo avete da darmi per essa? un po' d'oro che portavate al dito?

Violaine — Non basta per pagare una piccola pietra?

Pietro di Craon — Giustizia è tutta una grande pietra.

Violaine, ridendo — Ma io non sono della stessa cava.

Pietro di Craon — Una pietra occorre per la base, una diversa serve per il sommo.

Violaine — Una pietra, s'io ne sono una, ma sia la pietra attiva che macina il grano accoppiata alla mola gemella.

Pietro di Craon — Anche Giustizia non fu che una pic­cola umile fanciulla presso sua madre fino all'istante che Dio la chiamò al martirio.

Violaine — Ma a me nessuno vuol male. Forse che deb­bo andarmene a predicare il Vangelo ai Saraceni?

Pietro di Craon — Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro dell'Opera che l'ha scelta.

Violaine — Lodato sia dunque Iddio che mi ha segnato subito il mio, e io non ho da cercarlo. E altro posto non chiedo a lui. Sono Violaine, ho diciott'anni, mio padre si chiama Anna Vercors, e mia madre Elisabetta.

Mia sorella si chiama Mara, il mio fidanzato Giacomo. Questo è tutto, ecco; non c'è altro da conoscere. Tutto è chiaro all'evidenza, tutto è prestabilito, e io sono con­tentissima. Sono libera, non ho da preoccuparmi di nul­la, ed è lui che mi guida, pover'uomo, lui che sa quel che bisogna fare!

Seminatore di campanili, venite a Combernon! Vi daremo pietre e legname, ma non avrete la figlia della casa! E, dopo tutto, non è già, questa, casa di Dio, terra di Dio, servizio di Dio? Non tocca forse a noi la cura di Montevergine, nutrirlo e custodirlo, fornire il pane, il vino e la cera a quel nido d'angeli già pronti pel volo? Come i gran signori hanno la loro colombaia, abbiamo anche noi la nostra, e la si riconosce di lontano.

Pietro di Craon — Un tempo udii, attraversando la fo­resta di Fisme, due belle querce parlare tra loro, e lo­dare Dio che le aveva ben radicate al posto dove erano nate. Ora l'una, alla prua d'una galera, fa guerra ai Turchi sul vasto mare, l'altra, tagliata per cura mia, nella Torre di Laon sorregge Giovanna la buona cam­pana che s'ode a dieci leghe.

Fanciulla, nel mestier mio si tengono gli occhi bene aperti. Io so trovare la pietra buona sotto i ginepri e riconoscere il buon legno come il picchio sagace; e così conosco gli uomini e le donne.

Violaine — Ma non le fanciulle, maestro Pietro! È roba troppo fine per voi. E poi non vi è proprio niente da conoscere.

Pietro di Craon, a mezza voce — L'amate molto, Violaine?

Violaine, gli occhi bassi — È un grande mistero fra noi.

Pietro di Craon — Sii benedetta nel tuo casto cuore! Santità non è farsi lapidare in terra di Pagania o ba­ciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più alto.

Violaine — Ah, come è bello il mondo e come sono felice!

Pietro di Craon, a mezza voce — Ah, come il mondo è bello e come io sono infelice!

Violaine, alzando un dito al cielo — Uomo della città, ascoltate!

(Pausa)

Udite lassù quella piccola anima che canta?

Pietro di Craon — È la lodoletta.

Violaine — È la lodoletta, alleluia! La lodoletta della terra cristiana, alleluia, alleluia! La udite fare quattro volte di seguito hi! hi! hi! hi! più alto, più in alto? La vedete, ad ali distese, piccola croce veemente, come i serafini che son tutt'ali senza piedi e la voce acuta davanti al trono di Dio?

Pietro di Craon — La odo, sì. E così una volta l'udii all'aurora, il giorno che dedicammo la mia creatura, Nostra Signora della Cicatrice. E brillava un po' d'oro alla punta estrema di quella grande cosa che io avevo fatta, come una stella nuova!

Violaine — Pietro di Craon, se aveste fatto di me a vo­stra voglia forse ne sareste più lieto, ora, o forse sarei io più bella?

Pietro di Craon — No, Violaine.

Violaine  — E sarei io ancora la stessa Violaine che amavate?

Pietro di Craon — Non quella, no, ma un'altra.

Violaine — E che cosa vai meglio, Pietro? Che vi faccia parte della mia gioia, o che divida il vostro dolore?

Pietro di Craon — Canta nei più alti cieli, lodoletta di Francia!

Violaine — Perdonatemi perché son troppo felice! perché quegli ch'io amo, mi ama, e di lui son certa, e so mi ama, e tutto è uguale fra noi! E perché Dio mi ha creata per essere felice e non per il male e non per la pena.

Pietro di Craon — Sali al cielo d'un sol tratto! A me, per salire un po', mi bisogna tutta la mole d'una cattedrale e le sue profonde fondamenta.

Violaine — E ditemi che perdonate a Giacomo perché mi sposa.

Pietro di Craon — No, non gli perdono.

Violaine — L'odio non vi porta bene, Pietro, e a me fa dolore.

Pietro di Craon — Voi, voi mi fate parlar così. Perché forzarmi a mostrare la spaventosa piaga che non si ve­de? Lasciatemi partire e non mi chiedete altro. Non ci vedremo più. Eppure, porto con me il suo anello.

Violaine — Lasciate il vostro odio qui: io ve lo renderò quando ne avrete bisogno.

Pietro di Craon — Ma voi vedete, Violaine, come sono disgraziato. Dura cosa esser lebbroso, e portarsi indosso la piaga vergognosa, e sapere che non si guarirà più, che non v'è rimedio, che essa ogni giorno s'allarga e s'affonda, ed esser solo e sorbirsi il proprio veleno e tutto vivo sentirsi corrompere. E non una volta e dieci assaporare la morte, ma sempre, senza perderne stilla fino alla fine.

Voi mi avete dato questo male, voi, con la vostra bellezza, che prima di conoscervi ero puro e gaio, tutto al mio lavoro e ai miei progetti sotto gli ordini d'un altro. Oggi comando io a mia volta e da me si viene pei progetti; ed ecco che voi m'avete guardato con quel sorriso pieno di veleno.

Violaine — Non in me era il veleno, Pietro.

Pietro di Craon — Lo so, in me era, e vi è ancora, e questa carne guasta non ha guarito l'anima colpita. O piccola anima, era forse possibile ch'io vi vedessi senza volervi bene?

Violaine — E certo l'avete mostrato che mi volete bene.

Pietro di Craon — È forse mia colpa se il frutto aderisce al ramo? E chi è quegli che, amando, non vuole aver tutto ciò che ama?

Violaine — Per questo avete cercato di distruggermi?

Pietro di Craon — L'uomo oltraggiato ha le sue tenebre, come la donna.

Violaine — In che cosa vi ho mancato?

Pietro di Craon — O immagine della Bellezza eterna, tu non sei mia.

Violaine — Non sono un'immagine io. Non è modo di dir le cose questo.

Pietro di Craon — Un altro s'impossessa in voi di ciò ch'era mio.

Violaine — Resta l'immagine.

Pietro di Craon — Un altro mi toglie Violaine, e mi lascia questa carne infetta e lo spirito devastato.

Violaine — Siate uomo, Pietro. Siate degno della fiamma che vi consuma. E se bisogna essere divorati, sia ciò su un candelabro d'oro come il Cero Pasquale in mezzo al coro per la gloria di tutta la Chiesa.

Pietro di Craon — Tanti pinnacoli sublimi! E non ve­drò io mai quello della mia piccola casa in mezzo agli alberi? Tanti campanili che segnano via via l'ora sulla città con la loro mobile ombra. E non farò io mai il disegno d'un forno o d'una stanza per i bimbi?

Violaine — Non dovevo io prendere per me sola ciò che è di tutti.

Pietro di Craon — Quando le nozze, Violaine?

Violaine — A San Michele, credo, quando i raccolti son lutti.

Pietro di Craon — Quel giorno, quando le campane di Montevergine avran cessato di sonare, prestate orec­chio e mi udrete ben lungi da Rheims rispondere.

Violaine — Chi vi cura là?

Pietro di Craon — Ho vissuto sempre come un operaio; un po' di paglia mi basta fra due pietre, un abito di cuoio, un po' di lardo sul pane.

Violaine — Povero Pietro!

Pietro di Craon — Non per questo bisogna compian­germi; siamo d'una razza diversa. Non vivo al livello degli altri uomini, io, sempre sotterra tra le fondamenta o nel cielo col campanile.

Violaine — E dunque: non potevamo far casa insieme, noialtri. Io non posso salire al granaio senza che il capo mi giri.

Pietro di Craon — Mia donna sarà la chiesa che mi verrà tratta dal costato come una Eva di pietra, nel sonno del dolore. Possa io, oh, presto! sentire sotto di me l'opera mia vasta che si alza, metter la mano su questa cosa indistruttibile fatta da me, ben proporzio­nata in tutte le sue parti, quest'opera compatta costrutta con pietra dura, l'opera mia che Dio abita!

Non scenderò più. E m'indicherà col dito, là sotto, cento piedi in giù, sulla piazza a quadretti, un gruppo di giovanette che si danno il braccio.

Violaine — Dovete scendere. Chi sa che un giorno io non abbia bisogno di voi?

Pietro di Craon — A Dio, Violaine, anima mia, non vi vedrò più.

Violaine — Chi sa se non mi vedrete più?

Pietro di Craon — A Dio, Violaine. Quante cose già fatte! Quali cose mi restano da fare e dimore da in­nalzare! Dell'ombra in cui abiti Dio. Non già le ore dell'Offizio segnate in un libro, ma le vere, con una cat­tedrale che il sole, nel suo volgere, in tutte le parti pri­ma illumina e lascia poi nell'ombra.

Porto con me il vostro anello. E di questo cerchietto farò una semente d'oro. «Dio ha fermato il diluvio», è detto nel Salmo del Battesimo, e io fra le pareti della Giustizia chiuderò l'oro del mattino. La luce profana cangia, non quella che io accenderò sotto le vòlte, simile alla luce dell'anima umana, perché l'ostia sia nel mezzo. L'anima di Violaine, fanciulla mia, nella quale il mio cuore si compiace.

Vi son chiese simili a voragini, e altre son come fornaci, e altre con tanta esattezza congegnate e con tale arte tese, che tutto sembra vi dia suono sotto l'un­ghia. Ma quella che sto per costruire sarà sotto la pro­pria ombra come oro condensato e come una pisside piena di manna.

Violaine — O maestro Pietro, che bella vetrata donaste ai monaci di Climchy!

Pietro di Craon — Non è arte mia quella del vetro, se bene io me n'intenda un po'. Ma prima del vetro, l'ar­chitetto, con le regole ch'egli sa, costruisce il telaio di pietra come un filtro nelle acque della Luce di Dio, e dà a tutto l'edifizio il suo oriente come a una perla.

(Mara Vercors, che è entrata, li spia senza che essi la vedano)

E ora, a Dio. Il sole è già apparso, e io dovrei già essere lontano.

Violaine — A Dio, Pietro!

Pietro di Craon — A Dio, Violaine!

Violaine — Povero Pietro!

(Ella lo guarda, gli occhi pieni di lagrime, esita, poi gli stende la mano. Egli l'afferra e mentre la tiene fra le sue, ella si china e lo bacia sul viso. Mara fa un gesto di sorpresa ed esce. Pietro di Craon e Violaine se ne van­no, ciascuno dalla sua parte)


ATTO I

SCENA I

La vasta cucina di Combernon, con un gran camino dalla cappa stemmata, una lunga tavola nel mezzo e tutti gli uten­sili, come in un quadro di Brueghel.

La Madre, accosciata davanti al camino, si sforza di ravvivare la brace.

Anna Vercors, in piedi, la guarda. Alto e vigoroso; ha sessan­t'anni; porta una gran barba bionda con molti fili bianchi.

La Madre, senza voltarsi — Perché mi guardi così?

Anna Vercors, pensa tra sé — Ed è già la fine! Come un libro pieno di figure, quando si sta per voltare l'ul­tima. «Finita la notte, la donna, dopo aver ravvivato il fuoco domestico...», e la storia umile e commovente finisce. È come se già io non fossi più qui. Eccola davanti ai miei occhi, e già pare che viva solo nel ricordo.

(A voce alta)

O donna! già fa un mese da quando ci siamo sposati scambiandoci l'anello; un mese di cui ciascun giorno sia un anno. Lungo tempo sei stata sterile come un al­bero che non dà che ombra. E un giorno, nel mezzo della nostra vita, ci siamo considerati, Elisabetta, e io ho scorto le prime rughe sulla tua fronte e intorno ai tuoi occhi. E, come il giorno delle nostre nozze, ci siamo stretti e presi, non più nel gaudio, ma nella tenerezza e nella compassione e nel rispetto della nostra fede reci­proca. Ed ecco fra noi una bimba, questo dolce discreto narciso, Violarne. E poi una seconda ci nacque, Mara la nera. Un'altra figlia, non un figlio era.

(Pausa)

Dimmi ora quel che hai da dire, che io so quando fai così e ti metti a parlare piena di reticenze senza guardarmi. Su.

La Madre — Sai bene che non si può dirti nulla. Non ci sei mai, e bisogna che ti rincorra anche per un bottone da attaccare. Non dai retta, ma come un can di guardia adocchi, attento ai rumori della porta. Ma già, gli uo­mini non capiscono niente.

Anna Vercors — Le bimbe son grandi ormai.

La Madre — Le bimbe? Ma no.

Anna Vercors — A chi le maritiamo?

La Madre — Maritarle, dici, Anna? Abbiamo tempo da rifletterci.

Anna Vercors — O falsità di femmina! Non pensi una cosa che tu non dica prima il contrario, maligna. Ti conosco io.

La Madre — Non dirò più niente.

Anna Vercors — Giacomo Hury.

La Madre — E bene?

Anna Vercors — Bada. Gli darò Violarne. E prenderà il posto del figliuolo che non ho avuto. È uomo retto e coraggioso. Lo conosco da quando, bimbo, sua madre ce lo affidò. Gli ho insegnato tutto io, le sementi e le bestie, gli uomini e le armi e gli arnesi, e conoscere i vicini, e i superiori, e le usanze, e Dio; il tempo che fa, le consuetudini di questa terra antica, il modo di riflet­tere prima di parlare.

L'ho veduto farsi uomo, e ancora guardava a me; la barba spuntare intorno al suo viso buono, come l'ha ora, tutta irta, a ciuffi, come spighe d'orzo.

E non era di quelli che contraddicono, ma di quelli che riflettono, come una terra che accoglie tutte le sementi. E ciò che è falso non vi mette radici, e muore; e il vero, non si può dire ch'egli vi creda, ma cresce in lui, trovandovi nutrimento.

La Madre — Ma sai tu se si vogliono bene?

Anna Vercors — Violaine farà quel che le dirò. Quanto a Giacomo, so che l'ama, e tu pure lo sai. Lo sciocco non osa dirmelo. Ma gliela darò se la vuole. Così sarà fatto.

La Madre — Sia. Non c'è da dire, va bene così.

Anna Vercors — Non hai da dirmi altro?

La Madre — Che ti devo dire?

Anna Vercors — Sta bene. Vado a cercarlo.

La Madre — Come, a cercarlo. Anna!

Anna Vercors — Voglio che tutto sia concluso all'istante. Ti dirò poi perché.

La Madre — Che hai da dirmi? Anna, ascolta un po'... Temo...

Anna Vercors — E bene?

La Madre — Mara dormiva nella mia camera quest'in­verno, quando tu eri malato, e si discorreva la sera nei nostri letti. Certo è un bravo ragazzo, e io l'amo quasi come un figliuolo. Non ha nulla, è vero, ma è buon lavoratore, e di buona famiglia. Potremo dare loro il no-stro podere dei Demi-Muids, con le terre di sotto che son troppo lontane per noi. — Volevo parlarti anche di esso.

Anna Vercors — E bene?

La Madre — Niente, e bene. Certo Violaine è la maggiore.

Anna Vercors — Continua, e poi?

La Madre — E poi? Ma sei tu certo che le voglia bene? Maestro Pietro, il nostro compare (ma perché s'è tenuto in disparte questa volta senza veder nessuno?), tu l'hai veduto l'anno scorso quand'è venuto da noi. E come la guardava mentre lei ci serviva.

Non possiede terre, è vero, ma guadagna bene. E lei, mentr'egli parlava, come gli era attenta, gli occhi spa­lancati grandi, come smemorata, dimenticando di me­scere, tanto che mi sono arrabbiata.

E Mara, tu la conosci. Tu sai com'è ostinata. Se n'ha il capriccio, ma si sposi pure Giacomo; eh, è dura come il ferro, quella. Io... non so, io... Forse sarebbe meglio...

Anna Vercors — Ma che sciocchezze son queste?

La Madre — Sta bene! sta bene! Si può ben dire qualcosa. Non andare in collera.

Anna Vercors — Voglio così. Giacomo sposerà Violaine.

La Madre — E la sposi, dunque.

Anna Vercors — E ora, povera vecchia mamma, ho altro da dirti. Parto.

La Madre — Parti? tu parti, vecchio mio? Che vai dicendo?

Anna Vercors — Perciò bisogna che Giacomo sposi Violaine senza tardare, e che prenda lui il mio posto qui.

La Madre — O Signore! tu parti? ma parli da senno? E dove vai?

Anna Vercors, accennando vagamente verso il sud — Laggiù.

La Madre — A Château?

Anna Vercors — Più lungi di Château.

La Madre, abbassando la voce — A Bourges, dall'altro Re?

Anna Vercors— Dal Re dei Re, a Gerusalemme.

La Madre — O Signore!

(Si siede)

Forse che la Francia non è più buona per te?

Anna Vercors — Troppo dolore v'è in Francia.

La Madre — Ma noi qui stiamo a nostro agio, e Rheims nessuno la tocca.

Anna Vercors — Appunto.

La Madre — Come, appunto?

Anna Vercors — Appunto, dicevo, siamo troppo, felici. E gli altri non abbastanza.

La Madre — Anna, non è colpa nostra.

Anna Vercors — E nemmeno colpa loro.

La Madre — Non so, io. So che ho te e due figlie.

Anna Vercors — Ma tu vedi come tutto è sottosopra e fuor di posto, e questo posto tutti cercano perdutamente dove sia.

E il fumo che talvolta si vede in lontananza, non è vana paglia che brucia. E quelle torme di poveri che calano da tutte le parti. Non vi è più Re che regni sulla Francia, come è stato predetto dal Profeta.

La Madre — Quello che ci leggevi l'altro giorno?

Anna Vercors — Al posto del Re abbiamo due fanciul­li. L'uno, l'Inglese, nella sua isola, e l'altro, così piccolo che non lo si vede più, fra i canneti della Loira. Al po­sto del Papa, ne abbiamo tre e al posto di Roma, non so che concilio in Isvizzera. Tutto è lotta e rivolgimento, mancando il capo che tutto regge.

La Madre — E tu pure; dove vuoi andartene?

Anna Vercors — Qui non posso più restare.

La Madre — Anna, ti ho mai dato dispiaceri?

Anna Vercors — No, Elisabetta.

La Madre — Mi lasci ora che son vecchia.

Anna Vercors — Dammi congedo tu stessa.

La Madre — Non mi vuoi più bene e non sei più felice con me.

Anna Vercors — Troppo mi pesa questa felicità.

La Madre — Non disprezzare il dono che Dio concede.

Anna Vercors — A Dio sia lode per avermi colmato dei suoi benefici. Son trent'anni che reggo questo feudo sacro lasciatomi da mio padre e che Dio manda la piog­gia mi miei solchi. E da dieci anni non v'è ora di lavoro mio ch'egli non abbia quattro volte e un'altra ancora compensata, come se non volesse aver con me partita pari e non lasciare nessun conto aperto. Tutto perisce, e io sono immune. Così davanti a lui comparirò vuoto e senzamerito, fra quelli che hanno avuto la loro ricompensa.

La Madre — Basta il cuore grato.

Anna Vercors — Ma ancora io non sono pago de' suoi beni, e perché mi son toccati questi, lascerò ad altri i più grandi?

La Madre — Non capisco.

Anna Vercors — Quale dei due vasi riceve di più, quello ch'è colmo o quello ch'è vuoto? E chi ha più bisogno d'acqua, la cisterna o la sorgente?

La Madre — La nostra è quasi inaridita dalla grande estate.

Anna Vercors — Tale è stato il male del mondo: che ciascuno ha voluto godersi i propri beni, come se per lui solo fossero stati creati, e non come se da Dio li avesse avuti in consegna. Il signore, il suo feudo, il padre, i suoi figlioli, il Re, il suo Regno e l'uom di lettere, la sua dignità. Per ciò Dio ha tolto tutte queste cose che passano e ha mandato a tutti la spogliazione e il digiuno. E questa che è la parte degli altri, perché non sarebbe anche la mia?

LA Madre — Tu hai i tuoi doveri verso di noi.

Anna Vercors — Non più se tu me ne sciogli.

La Madre — Io non ti scioglierò.

Anna Vercors — Tu sai che il compito mio l'ho fatto. Le figlie son grandi, Giacomo è pronto a prendere il mio posto.

La Madre — Chi ti chiama lungi da noi?

Anna Vercors, sorridendo — Un angelo che suona la tromba.

La Madre — Quale tromba?

Anna Vercors — La tromba senza squillo che tutti odo­no, la tromba che convoca tutti gli uomini di tempo in tempo, perché le parti siano nuovamente distribuite. Quella di Giosafat, prima di dare suono. Quella di Betlemme, quando Cesare Augusto fece il censimento di tutto l'Impero. Quella dell'Assunzione, quando gli Apostoli furono radunati. La voce che sostituisce il Ver­bo, quando il capo non si fa intendere al corpo che cerca la sua unità.

La Madre — Gerusalemme è tanto lontana!

Anna Vercors — Il paradiso è più lontano.

La Madre — Dio nel tabernacolo l'abbiamo anche noi qui.

Anna Vercors — Ma non quella gran buca nella terra.

La Madre — Quale buca?

Anna Vercors — Quella che fece la Croce quando fu innalzata. Tutto vi converge. Là è il punto che non può essere spostato, il nodo che non può essere sciolto, il patrimonio comune, la pietra miliare che non può essere strappata, il centro e l'ombelico della terra, il cuore dell'umanità nel quale tutto si regge.

La Madre — Che può fare un pellegrino solo?

Anna Vercors — Non sono solo, io. Tutto un grande popoloesulta e parte con me. Il popolo di tutti i miei morti con me; con me queste anime, l'una sull'altra, di cui non resta più che la pietra, con me tutte queste pietre battezzate che reclamano il loro strato.

E poiché è verità che il cristiano non è solo, ma in comunione con tutti i suoi fratelli, ecco che tutto il Re-gno con me invoca e si volge alla Sede di Dio e, fisso in quella, riprende senso e direzione. E io ne sono il deputato e lo trascino meco per schierarlo di nuovo sotto l'eterno patrono.

La Madre — Chi sa se qui non avremo bisogno di te?

Anna Vercors — Chi sa se altrove non hanno bisogno di me? Tutto è sottosopra, e chi sa se io non turbo l'or­dine di Dio restando a questo posto dove il bisogno che s'aveva di me è cessato?

La Madre — So che sei inflessibile.

Anna Vercors, teneramente, cambiando tono di voce — Tu sei sempre giovane e bella per me, e grande è l'amore ch'io sento per la mia dolce Elisabetta dai capelli neri.

La Madre — Son grigi i miei capelli.

Anna Vercors — Dimmi di sì, Elisabetta.

La Madre — Anna, tu non mi hai lasciata mai in questi trent'anni. Che sarà di me, priva del mio capo e del mio compagno?

Anna Vercors — ...Quel sì che ci separa, in quest'ora, dillo piano piano, ma così pieno come quello che, allora, ha fatto di noi un essere solo.

(Silenzio)

La Madre, a voce bassa — Sì, Anna.

Anna Vercors — Pazienza, Bettina! Tornerò presto. Non puoi aver fede in me per qualche tempo, anche se non son qui? Presto verrà un'altra separazione. Su dunque, mettimi del cibo per due giorni nella sac­ca, bisogna che parta.

La Madre — Ma come! proprio oggi?

Anna Vercors — Oggi stesso.

(Ella china il capo e resta immobile. Egli la stringe fra le braccia senza che ella faccia un movimento)

A Dio, Elisabetta!

La Madre — Ahimè, vecchio mio, non ti vedrò più.

Anna Vercors — E ora vado a cercar Giacomo.

SCENA II

(Entra Mara.)

Mara, alla Madre — Vai da lei, e dille che non lo sposi.

La Madre — Mara! Ma come, hai origliato?

Mara — Vai, ti ripeto, e dille che non lo sposi.

La Madre — Dire cosa? Dire a chi? Che sai tu se lo sposa?

Mara — Ero là. Ho udito tutto.

La Madre — Eh, figlia mia; tuo padre vuol così. Ho fat­to ciò che ho potuto, tu hai udito; ma non gli si fa cambiare idea, a lui.

Mara — Vai a dirle che non lo sposi, o m'ammazzo.

La Madre — Mara!

Mara — Mi impiccherò per la gola nella legnaia, dove abbiam trovato il gatto impiccato.

La Madre — Mara! Cattiva!

Mara — Ma vedi che ella tenta di portarmelo via. Pro­prio ora me lo porta via. Io ero destinata a essere sua moglie, non lei. Ella sa benissimo che tocca a me.

La Madre — Lei è la maggiore.

Mara — Che importa questo?

La Madre — Tuo padre vuol così.

Mara — Non m'importa.

La Madre — Giacomo Hury l'ama.

Mara — Non è vero! Voi sì, lo so, che non mi amate. Sempre fu lei la preferita. Oh, quando parlate della vostraViolaine, è tutto zucchero, come succhiare una ciliegia, e si sputa il nocciòlo. Mara invece! Dura come il ferro, agra come la marasca. Ed è poi tanto bella, la vostra Violaine. Ecco che ora avrà Combernon. Ma che cosa sa fare, la smorfiosa? chi di noi due tira il carretto? Ella si crede come santa Undicimilavergini! Ma io, io sono Mara Vercors, e non tollero ingiustizie, né la do a  intendere, io. Mara dice la verità, così, e questo mette lagente in collera! Ma si provino, dunque. Io squadro loro le fiche. Non una l'oserebbe di queste donne che mi ronzano intorno. Proprio quelle! Tutto fila dritto con me. Ed ecco tutto per lei e per me niente.

La Madre — Avrai la tua parte.

Mara — Ma sì. I greti di lassù! Pantani che a lavorarli bisognano cinque bestie. Le cattive terre di Chinchy.

La Madre — Ma rendono bene lo stesso.

Mara — Ma certo. Gramigna e loglio, sena e malva. Avrò di che farmi tisane.

La Madre — Cattiva sei. Ben sai che non è vero. Ben sai che non ti si fa torto in niente. Ma cattiva sei stata sempre. Piccina, non gridavi quando ti si batteva. Cuor nero, villana! Non è lei la maggiore? Che le hai da rimproverare, tu? Gelosa, sei. Ma ella fa sempre quel che vuoi tu. Prima si mariterà lei, e dopo ti mariterai tu pure. E, del resto, ormai è tardi: babbo se ne va, oh, me poveretta! Ora è uscito per parlare con Violaine e cercare Giacomo.

Mara — Lo so. Vai subito, tu. Vai subito.

La Madre — E dove mai?

Mara — Mamma, intendi bene. Tu sai che spetta a me. Dille che non lo sposi, mamma.

La Madre — Ma per nulla al mondo lo farò.

Mara — Ripetile soltanto ciò che ho detto. Dille che mi ucciderò. Mi hai capita bene?

(La guarda fisso)

La Madre — Ah!

Mara — Credi che non lo farei?

La Madre — Oh, sì, mio Dio!

Mara — Vai dunque.

La Madre — Povera testa!

Mara — Tu non c'entri per niente. Ripetile soltanto ciò che ho detto.

La Madre — E lui, che sai tu se ti vorrà sposare!

Mara — Certo non vorrà.

La Madre — E allora...

Mara — E allora?

La Madre — Non creder già che io le consigli di fare ciò che tu vuoi. Il contrario. Ripeterò soltanto ciò che hai detto. Certo, se pur mi crede, non sarà così sciocca di cedere a te.

Mara — Può darsi. Va. Fa così.

(Esce)

SCENA III

(Entrano Anna Vercors e Giacomo Hury, poi Violaine, poi i servi della fattoria)

Anna Vercors, fermandosi — Che mi vai contando?

Giacomo Hury — Così come ve lo dico. Stavolta l'ho colto sul fatto, con la roncola in mano. Gli venivo die­tro, zitto zitto, e di colpo, flac! mi son gettato a corpo perduto su di lui, caldo, come ci si butta sulla lepre nel covo al tempo della mietitura. Venti giovani pioppi in fascio aveva con sé, quelli a cui tenete tanto.

Anna Vercors — Perché non è venuto da me? Gli avrei dato il legname che gli bisogna.

Giacomo Hury — Il legname che gli bisogna? Il mani­co della mia frusta. Non per bisogno, è per malvagità; così, per far del male. È quella cattiva razza di Chevroche sempre pronta a tutto per vanteria, per bravare il mondo. Ma quello, gli taglierò le orecchie col mio falcetto.

Anna Vercors — No.

Giacomo Hury — Almeno lasciate che lo leghi all'erpice pei polsi, davanti alla Porta grande, il viso contro i denti dello strumento; e il cane Faraud gli farà la guardia.

Anna Vercors — Nemmeno questo.

Giacomo Hury — Che devo dunque fare?

Anna Vercors — Rimandarlo a casa sua.

Giacomo Hury — Col suo carico?

Anna Vercors — E con un altro che gli darai.

Giacomo Hury — Padre, non è bene questo.

Anna Vercors — Potrai attaccargliene uno per parte, perché non li perda. Lo aiuteranno a passare il guado di Saponay.

Giacomo Hury — Non si deve esser vili quando si tratta del proprio diritto.

Anna Vercors — Lo so, non è bene. Giacomo, tu vedi, sono fiacco e vecchio, stanco di combattere e di difende­re. Un tempo ero anch'io rigido come tu sei. Ma v'è un tempo per conquistare e un tempo per lasciar conqui­stare. L'albero in fiore custoditelo, ma l'albero carico dei suoi frutti, andateci senza preoccupazioni. Bisogna essere ingiusti meno che si può, perché Dio sia molto ingiusto con noi. E dopo tutto, tu farai ora ciò che vorrai, perché or­mai devi reggere tu Combernon al posto mio.

Giacomo Hury — Che dite?

La Madre — Se ne va pellegrino a Gerusalemme.

Giacomo Hury — Gerusalemme?

Anna Vercors — Così è. Parto ora.

Giacomo Hury — Ma come? Che cosa vuol dire questo?

Anna Vercors — Tu hai ben capito.

Giacomo Hury — Ma proprio nel momento del maggior lavoro ci lasciate?

Anna Vercors — Due capi non bisognano a Combernon.

Giacomo Hury — Padre mio, non son che vostro figlio.

Anna Vercors — E ora sarai tu, qui, al mio posto, il padre.

Giacomo Hury — Non vi capisco.

Anna Vercors — Io parto. Reggi Combernon in vece mia, come io l'ebbi da mio padre, e questi dal suo, e Radolfo il Franco, primo di nostra schiatta, da san Remigio di Rheims, che a sua volta da Genoveffa di Parigi ebbe questa terra allora pagana, tutta orrida di maligne sterpaie e spine. Radolfo e i suoi figlioli la convertirono col ferro e col fuoco, e nuda e smossa l'esposero alle acque del battesimo. Pianura e collina, tutto copersero di solchi eguali, come il monaco diligente trascrive riga per riga la parola di Dio. E cominciarono a costruire Montevergine alto sulla cima, qui dove il Maligno era onorato (e non fu da principio che una capanna di ceppi e di canne di cui il Vescovo sigillò la porta, e due reclu­se ivi vegliavano), e, sotto, Combernon, dimora forti­ficata.

Così è libera questa terra che ci viene da san Remigio beato in cielo. E paghiam decima lassù per quel volo un istante posato di colombe gementi. Tutto ha il suo termine in Dio, e quelli che vivono in Lui sempre rac­colgono il frutto delle loro opere, che passano e tornano al tempo segnato in magnifico ordine, come in estate sulle messi, tutto il giorno, le grandi nubi che vanno in Alemagna. Qui le bestie non sono mai malate; le poppe, i pozzi non inaridiscono mai; il grano è duro come oro, la paglia rigida come ferro. E contro i predoni abbiamo armi, e le mura di Combernon, e il Re, nostro vicino.

Cogli questa messe che io ho seminata, come già un tempo io ho rimesso il solco che mio padre aveva trac­ciato. O buon lavoro dell'agricoltore, in cui il sole è co­me il nostro bue lucente, e la pioggia il nostro ban­chiere, e Dio ogni giorno nella fatica il compagno no­stro, che meglio di tutti lavora!

Gli altri aspettano dagli uomini il loro bene, ma noi lo riceviamo direttamente dal cielo, al cento per uno, la spiga per un chicco, l'albero per un seme. Che tale è la giustizia di Dio verso di noi, e la misura con cui ci ripaga. La terra è unita al cielo, il corpo allo spirito, tutte le cose ch'egli ha create insieme comunicano, tutte sono l'una all'altra necessarie.

Tieni tu in vece mia le stegole dell'aratro, libera la terra di quel pane che Dio stesso ha desiderato. Da' a tutte le creature da mangiare, agli uomini e alle bestie, agli spiriti e ai corpi, e alle anime immortali.

E voi, donne, servi, eccovi. Questo è il figlio da me eletto, Giacomo Hury. Io parto, e resta lui al mio posto. Obbeditegli.

Giacomo Hury — Sia fatta la vostra volontà.

Anna Vercors — Violaine! Bambina mia, nata la pri­ma al posto del figlio che non ho avuto! Erede del mio nome, in te io sarò dato a un altro. Violaine, quando avrai marito, non disprezzare l'affetto di tuo padre. Che al padre non puoi rendere, quando lo volessi, quel che ti ha dato. Tutto è eguale fra gli sposi; ciò che ignora­no, l'accettano l'un dall'altra, in fede. Questa è la reli­gione mutua, questa la servitù per la quale il seno della donna si gonfia di latte. Ma il padre vede i figliuoli da­vanti a sé, e conosce quel che in lui era contenuto. Co­nosci, bambina, tuo padre. L'amor del Padre non chiede compenso e il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così resta : suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, suo titolo, sua giustificazione. L'anima mia non si separa da quest'anima che ho partecipata. Ciò che ho dato non può esser reso. Sappi soltanto ch'io sono, bambina, il padre tuo.

E nessun maschio m'è toccato in discendenza. Solo a femmine ho dato la vita: questo dono di noi che si partecipa.

Ma l'ora è venuta per noi della separazione.

Violaine — Padre, non dite questa cosa crudele. 58

Anna Vercors — Giacomo, in te mi sono compiaciuto. Prendila. Ti do mia figlia Violaine. Toglile il mio no­me. Amala, perché è netta come l'oro. Per tutti i giorni della tua vita, come il pane di cui non si è sazi mai. Ella è semplice e obbediente, sensibile e segreta. Non darle pena, e trattala con bontà. Tutto qui è tuo, salva la parte che sarà fatta a Mara, come io ho disposto.

Giacomo Hury — Ma come, padre mio, vostra figlia, i vostri beni...

Anna Vercors — Ti do tutto in una volta, per quanto sono miei.

Giacomo Hury — Ma chi sa se ella mi vuole?

Anna Vercors — Chi lo sa?

(Ella guarda Giacomo e accenna un sì, senza nulla dire, con la bocca)

Giacomo Hury — Voi mi volete, Violaine?

Violaine — Babbo vuole così.

Giacomo Hury — E voi pure volete?

Violaine — Anch'io lo voglio.

Giacomo Hury — Violaine! Come farò con voi?

Violaine — Pensateci intanto che ne siete in tempo.

Giacomo Hury — Allora vi prendo in nome di Dio e non vi lascio più andare.

(La stringe con le due mani)

Vi tengo per davvero, la vostra mano e il vostro brac­cio, e tutto ciò che al braccio segue. Vecchi, non è più vostra, Violaine; mia, solo mia ella è ora!

Anna Vercors — E così sono sposati. È fatto. Che ne dici tu, mamma?

La Madre — Ne sono ben contenta.

(Piange)

Anna Vercors — Tu piangi, donna. Ci prendono i nostri figli, e noi restiamo soli, tu, la vecchia, che si nutre con poco latte e un tocco di focaccia, io, il vecchio dalle orecchie piene di peli bianchi come il pappo del carciofo. Si prepari la veste della sposa. Figli miei, io non sarò presente alle vostre nozze.

Violaine — Oh, babbo!

La Madre — Anna!

Anna Vercors — Parto. In questo istante.

Violaine — Ma come, babbo! Prima che ci sposiamo?

Anna Vercors — È necessario. La mamma ti spiegherà tutto.

(Entra Mara)

La Madre — Quanto tempo resterai laggiù?

Anna Vercors  — Non so. Poco tempo, forse. Presto tornerò.

Voce d'un bimbo lontano — Ve' il rigogolo! Campagnolo, è maturo il fico!

Anna Vercors — Il rigogolo fa il suo verso sull'albero rosa e d'oro. Che cosa dice? che la pioggia di stanotte è stata per la terra tanto oro, dopo questi lunghi giorni torridi. Che dice ancora? dice che è tempo propizio al lavoro dei campi. Che dice ancora? che fa bello, che Dio è grande, che mancano due ore a mezzogiorno. E che altro dice, l'uccellino? Tempo è venuto, dice, che il vec­chio se ne vada altrove, e lasci gli affari del mondo. — Giacomo, ti lascio i miei beni, proteggi queste donne.

Giacomo Hury — Ma proprio partite?

Anna Vercors — Credo che non abbia capito niente.

Giacomo Hury — Ma così, d'un tratto?

Anna Vercors — L'ora è venuta.

La Madre — Te ne vai senza mangiar niente?

(Nel frattempo le serve hanno preparato la grande tavola per il pranzo della fattoria)

Anna Vercors, a una serva — Sacca e cappello. Portami anche le scarpe e il mio mantello. Non ho tempo di fermarmi a mangiar con voi.

La Madre — Anna! quanto tempo resterai laggiù? Un anno, due anni? Più di due anni?

Anna Vercors — Un anno. Due anni. Così come dici tu. Mettimi le scarpe.

(La Madre s'inginocchia e gli mette le scarpe)

Ti lascio per la prima volta, casa mia. Combernon, alta dimora! Veglia su tutto. Giacomo terrà qui il mio posto. Ecco il camino dove arde sempre il fuoco, ecco la va­sta tavola alla quale mangia tutta la gente mia. Sedetevi! Per l'ultima volta distribuirò il pane.

(Prende posto a un capo della lunga tavola, avendo la Madre alla sua destra. I servi e le serve sono in piedi, ciascuno al suo posto. Egli prende il pane, vi traccia un segno di croce col coltello, lo taglia e lo fa distribuire da Violaine e Mara. Egli tiene per sé l'ultimo pezzo. Poi si volta verso la Madre e le apre le braccia)

A Dio, Elisabetta.

La Madre, piangendo, nelle sue braccia — Non mi rivedrai.

Anna Vercors, con voce bassa — A Dio, Elisabetta.

(Si volta verso Mara e la guarda lungamen­te e gravemente, poi le tende la mano)

A Dio, Mara! Sii buona.

Mara, baciandogli la mano — A Dio, babbo.

(Silenzio. Anna Vercors, in piedi, guarda davanti a sé, come non vedesse Violaine, che gli sta, tutta turbata, al fianco. Infine si volta verso di lei che gli cinge il collo con le brac­cia e poggia singhiozzando il viso sul suo pet­to. Come non se ne accorgesse, il vecchio si volge ai servi)

Anna Vercors — Voi tutti, a Dio. Sono sempre stato giu­sto con voi. Chi dice il contrario mente. Non sono come gli altri padroni, io. Che quando si fa bene dico che è bene, e sgrido quando è necessario. Me ne vado, ma fate come se fossi sempre qui. Perché ritornerò. Ritor­nerò quando non mi attenderete.

(Stringe a tutti la mano)

Ora, il mio cavallo.

(Silenzio. Chinandosi verso Violaine che lo tiene abbracciato)

Che hai, piccola? In cambio del babbo hai ora un marito.

Violaine — Ahimè, babbo. Ahimè!

(Egli le scioglie dolcemente le braccia)

La Madre — Dimmi quando tornerai.

Anna Vercors — Non lo posso dire. Forse un mattino, o forse a mezzogiorno quando si mangia. E forse una notte, svegliandovi, udrete il mio passo sulla strada. A Dio.

(Esce)


ATTO II

Quindici giorni dopo. Principio di luglio. Mezzogiorno. Un vasto brolo piantato regolarmente d'alberi tondi. In fondo, più alti, la cinta e le torri, e le lunghe costruzioni dai tetti di tegole di Combernon. Poi il fianco della collina dirupata che si eleva. Sulla cima la formidabile arca di pietra di Montevergine senza nessuna apertura, le sue cinque torri alla foggia della catte­drale di Laon, e, nel suo fianco, la gran cicatrice bianca della brec­cia per la quale è entrata la Regina Madre di Francia. Tutto vibra nel gran sole.

Una voce di donna nello spazio, dall'alto della più alta torre di Montevergine.

Salve Regina, mater misericordiae;

vita dulcedo et spes nostra salve.

Ad te clamamus exules filii Hevae.

 Ad te suspiramus gementes et flentes

in hac lacrymarum valle.

Eja ergo advocata nostra,

illos tuos misericordes oculos ad nos converte.

Et Jesum benedictum fructum ventris tui

nobis post hoc exilium ostende.

O clemens o pia o dulcis Virgo Maria.

(Lunga pausa, durante la quale la scena re­sta vuota)

SCENA I

(Entrano La Madre e Mara)

Mara — Che ha detto?

La Madre — Le contavo la cosa camminando. Tu vedi che da qualche giorno ha perduto la sua gaiezza.

Mara — Non parla molto di solito.

La Madre — Ma non ride più. Questo mi fa pena. For­se perché Giacomino non è qui, ma oggi torna. — E an­che il babbo è partito.

Mara — Solo questo le hai detto?

La Madre — Questo le ho detto, e il resto, senza mutar sillaba, come me l'hai fatto ripetere tu : tu e Giacomino; che tu l'ami, e tutto, e che stavolta non bisogna esser sciocchi e lasciarsi ingannare, questo l'ho aggiunto e l'ho ripetuto due e tre volte; e rompere le nozze che son come fatte, contro la volontà del padre. E la gente, dun­que, che cosa penserebbe?

Mara — Che ha risposto?

La Madre — S'è messa a ridere, e io, io mi son messa a piangere.

Mara — La farò ridere io!

La Madre — Non è il riso che mi piace nella mia pic­cola, e io mi son messa a piangere. E dicevo : «No, no, Violaine, bambina mia!» non sapendo più quel che di­cevo. Ma ella con la mano senza parlare mi ha fatto segno che voleva restar sola. Oh, quanto male ci viene dai nostri figli!

Mara — Zitta.

La Madre — Che c'è? Son pentita di quel che ho fatto.

Mara — Ma bene. — La vedi là, in fondo al brolo? Cam­mina dietro gli alberi. Non la si vede più.

(Silenzio. Si ode dietro la scena un suon di corno)

La Madre — È Giacomino che torna. Riconosco il suono del suo corno.

Mara — Andiamocene.

(Escono)

SCENA II

(Entra Giacomo Hury)

Giacomo Hury, si guarda in giro — Non la vedo. E m'aveva fatto dire che voleva vedermi stamane, qui.

(Entra Mara. Si avanza verso Giacomo e a sei passi da lui gli fa un inchino cerimonioso)

Giacomo Hury — Buon giorno, Mara.

Mara — Serva vostra, monsignore.

Giacomo Hury — Che son queste smorfie?

Mara — Non vi debbo omaggio? Non siete voi il padro­ne qui, senz'altri che Dio davanti a voi, proprio come il Re di Francia e l'Imperatore Carlo Magno?

Giacomo Hury — Scherzate pure, ma è proprio così. Sì, Mara, è bello. Cara sorella, io son troppo felice.

Mara — Io non sono la vostra «cara sorella». Son la vostra serva poiché bisogna così. Uomo di Braine! Fi­glio della gleba! Io non sono vostra sorella; non siete del nostro sangue, voi.

Giacomo Hury — Sono lo sposo di Violaine.

Mara — Non lo siete ancora.

Giacomo Hury — Lo sarò domani.

Mara — Chi sa?

Giacomo Hury — Mara, ci ho seriamente pensato, e credo che vi siete sognata la storia che l'altro giorno mi contaste.

Mara — Che storia?

Giacomo Hury — Non fate l'ingenua. La storia del muratore, del bacio clandestino all'alba.

Mara — È possibile. Ho veduto male. E pure ho gli occhi buoni.

Giacomo Hury — E mi si è detto in confidenza che è lebbroso.

Mara — Io non vi amo, Giacomo. Ma voi avete il diritto di saper tutto. Bisogna che tutto sia netto e chiaro a Montevergine che domina in vista di tutto il Regno.

Giacomo Hury — Tutto sarà chiarito fra poco.

Mara — Fino, siete; e niente vi sfugge.

Giacomo Hury — Vedo per lo meno che non mi amate.

Mara — La! la! Ma che dicevo? che dicevo?

Giacomo Hury — Non tutti qui la pensano come voi.

Mara — Parlate di Violaine? Io arrossisco per quella ra­gazza. È vergogna darsi così, anima, carne, cuore, pelle, fuori, dentro, e la radice.

Giacomo Hury — Io so che è tutta mia.

Mara — Ma sì. Guarda un po' come lo dice bene! come è sicuro di questo bene che è suo. Villano di Braine! Solo è nostro quel che abbiam fatto, o preso, o guadagnato.

Giacomo Hury — Ma voi, Mara, mi piacete, e non ho niente contro di voi.

Mara — Come tutto ciò che è di qui, nevvero?

Giacomo Hury — Non è colpa mia se non siete un uomo, e io vi prendo il vostro bene.

Mara — Vedilo com'è orgoglioso e contento! E non si può tener dal ridere. Suvvia, non prendetevi soggezione, ridete.

(Egli ride)

Conosco bene il vostro viso, Giacomo.

Giacomo Hury — Vi rodete di non potermi dar pena.

Mara — Come l'altro giorno quando babbo parlava, ridevate d'un occhio, e l'altro lacrimava.

Giacomo Hury — Non son padrone d'un bel possesso?

Mara — E babbo è vecchio, nevvero? La sapete più lunga di lui?

Giacomo Hury — A ciascuno il suo tempo.

Mara — È vero, Giacomo; siete un bel giovane. Ve' che si fa tutto rosso.

Giacomo Hury — Non tormentatemi.

Mara — E tuttavia è gran peccato.

Giacomo Hury — Peccato che cosa?

Mara — Vi saluto, sposo di Violaine! Vi saluto, signore di Montevergine; ah, ah!

Giacomo Hury — Vi farò vedere che lo son da vero.

Mara — Fatevi al modo nostro, allora, villano di Brai-ne! Crede che tutto sia suo come un paesano, ma vi faremo vedere che il contrario è vero. Come un paesa­no che si erge tutto alto, nel mezzo del suo piccolo cam­po, e non c'è altri che lui. Ma Montevergine è di Dio, e padrone di Montevergine è l'uomo di Dio, che non ha nulla di suo, che tutto ha avuto per un altro. Questo ci insegnano qui di padre in figlio. Non v'è posto di più orgoglio del nostro. Fatevi al modo dei vostri padroni, villano!

(Finge di andarsene)

Ah! Ho incontrata Violaine, che vuole vedervi.

Giacomo Hury — E perché non lo diceste prima?

Mara — Vi attende presso la fontana.

SCENA III

La fontana dell'Adorne : una gran buca quadrata in una parete verticale di blocchi calcarei. Un filo d'acqua ne sfugge con suono melanconico. Appesi alla muraglia croci di paglia e mazzetti di fiori già secchi, ex-voto. Intorno alberi fronzuti e rami formanti pergola, dai fiori copiosi, che spiccano con vivezza sul verde.

Giacomo Hury, guarda pel sentiero sinuoso Violaine che s'avanza tutta dorata a tratti dal sole in mezzo al fo­gliame — O mia promessa, che viene tra i rami in fiore, Dio ti salvi.

(Violaine entra e si ferma ritta davanti a lui. Ha una veste di lino e una specie di dal­matica di drappo d'oro ricamata a grossi fiori rossi e azzurri. Sulla testa, una specie di dia­dema di smalto e oro).

Come siete bella, Violaine!

Violaine — Giacomo! Vi saluto Giacomo! Ah, quanto siete rimasto assente.

Giacomo Hury — Bisognava che svincolassi e vendessi ogni cosa, e mi rendessi del tutto libero, per essere qui solo padrone e sposo vostro. — Che vestito magnifico avete!

Violaine — L'ho messo per voi. Ve ne avevo già parlato. Non lo riconoscete? È il costume delle recluse di Montevergine, press'a poco quello; solo manca il manipolo; è il costume che portano in coro, la dalmatica del dia­cono, loro privilegio, qualche cosa di ecclesiastico, ostie esse stesse; e le donne di Combernon hanno diritto di vestirlo due volte: il giorno del fidanzamento e il giorno della morte.

Giacomo Hury — Ma è dunque vero, Violaine; oggi è il giorno del nostro fidanzamento?

Violaine — Giacomo, ancora è tempo, ancora non siamo sposati. Se avete solo voluto far piacere a mio padre, potete ancora riprendere la vostra parola. Si tratta di noi. Dite una sola parola, Giacomo; non avrò ira contro di voi. Che fra noi nessuna promessa ancora è stata scambiata, e io non so se vi piaccio.

Giacomo Hury — Come siete bella, Violaine! E come è bello questo mondo in cui la parte a me serbata siete voi!

Violaine — Voi, Giacomo, siete quel che v'è di migliore al mondo.

Giacomo Hury — È vero che accettate di esser mia?

Violaine — È vero, sì; vi saluto, mio diletto. Sono vostra.

Giacomo Hury — Vi saluto, donna mia! buon giorno, dolce Violaine.                  

Violaine — Dolci cose a udirsi, Giacomo.

Giacomo Hury — Bisogna che sia sempre così. Ditemi che sarete sempre la stessa, quest'angelo che mi è mandato.

Violaine — Ciò che è mio sarà sempre vostro.

Giacomo Hury — E quanto a me, Violaine...

Violaine — Non dite nulla. Non vi chiedo nulla. Siete voi, qui; questo mi basta. Buon giorno, Giacomo. Ah, come quest'ora è bella; io non ne chiedo altre.

Giacomo Hury — Domani sarà ancora più bello.

Violaine — Domani non avrò più questa magnifica veste.

Giacomo Hury — Ma sarete così vicina a me che non vi vedrò più.

Violaine — Vicina a voi, oh, sì!

Giacomo Hury — II tuo posto è pronto. Violaine, come è solitario questo luogo, e come qui si sta in segreto con te.

Violaine, pianissimo — Il tuo cuore basta. Sono con te, e non dire nulla, nulla.

Giacomo Hury — Ma domani alla vista di tutti io pren­derò questa regina fra le mie braccia.

Violaine — Prendila, e non lasciarla più. Ah, portatevi la vostra piccola con voi perché nessuno più la trovi né le faccia male.

Giacomo Hury — E non rimpiangerete allora il lino e l'oro?

Violaine — Ho avuto torto di farmi bella per una povera piccola ora?

Giacomo Hury — No, mio bel giglio, non mi sazio di ammirarti nella tua gloria.

Violaine — O Giacomo! dite ancora che mi trovate bella!

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — La più bella fra tutte le donne, e le altre non son nulla per voi?

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — E che me sola amate, come lo sposo più tenero ama il povero essere che s'è dato a lui?

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Che si da a lui con tutto il cuore, Giacomo, credetelo, e che nulla riserva.

Giacomo Hury — E voi, Violaine, non credete dunque a me?

Violaine — Vi credo, Giacomo!, vi credo. Credo in voi. Confido in voi, mio diletto.

Giacomo Hury — Perché, dunque, quest'aria inquieta e spaventata? Mostratemi la mano sinistra.

(Ella la mostra)

Non avete più il mio anello.

Violaine — Vi spiegherò subito, sarete soddisfatto.

Giacomo Hury — Lo sono, Violaine. Ho fede in voi.

Violaine — Io valgo più di un anello, Giacomo. Io sono un gran tesoro.

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Oh, se mi do a voi, non saprete voi custodire la piccola vostra che vi ama?

Giacomo Hury — Ancora dubitate di me.

Violaine — Giacomo! Dopo tutto non commetto nessun male amandovi. È la volontà di Dio e del padre mio. Voi dovete aver cura di me. E chi sa se non saprete ben difendermi e custodirmi? Basta che mi dia a voi intera­mente. E il resto è affar vostro e non riguarda più me.

Giacomo Hury — E vi siete data a me così, fior di sole?

Violaine — Sì, Giacomo.

Giacomo Hury — Chi dunque vi strapperà dalle mie braccia?

Violaine — Ah, come è vasto il mondo, e come vi siamo soli noi.

Giacomo Hury — Povera piccola! Vostro padre è parti­to, lo so. E io pure non ho più nessuno a me vicino per dirmi quel che s'ha da fare, e quel che è bene e quel che è male. Bisognerà che mi aiutiate voi, Violaine, perché vi voglio bene.

Violaine — Mio padre mi ha abbandonata.

Giacomo Hury — Ma vi resto io, Violaine.

Violaine — E mia madre non mi vuoi bene, e non mia sorella, ben che io non abbia loro fatto nessun male. E non mi resta più che questo grande terribile uomo che non conosco.

(Egli fa il gesto di prenderla fra le braccia. Ella lo respinge vivamente)

Non mi toccate, Giacomo.

Giacomo Hury — Sono forse un lebbroso?

Violaine — Giacomo, voglio parlarvi; ah, ma come è difficile! Non mi abbandonate, che non ho che voi solo.

Giacomo Hury — Ma se nessuno vi vuole male.

Violaine — Considerate quel che fate prendendomi per moglie vostra. Lasciate che vi parli con tutta umiltà, Giacomo, signor mio, voi che state per ricevere la mia anima e il mio corpo in custodia dalle mani di Dio e di mio padre, che li hanno fatti. E considerate la dote che vi porto, non simile a quella delle altre donne, ma que­sta montagna sacra, che sta la notte e il giorno in pre­ghiera davanti a Dio, come un'ara che sempre fumi, lampada sempre accesa di cui è nostro dovere alimentare l'olio. E testimoni delle nostre nozze non uomini, ma Dio stesso, Dio di cui teniam feudo, lui ch'è l'Onnipotente, il Dio degli Eserciti. Non il sole di luglio ci illumina, ma il lume del Suo volto. Ai santi le cose sante! Chi sa se il nostro cuore è puro? Mai alla nostra razza era man­cato sin qui il maschio; sempre il sacro legato era stato di padre in figlio trasmesso, ed ecco per la prima volta esso tocca in sorte a una donna ed è, con lei, oggetto di cupidigia.

Giacomo Hury — No, Violaine; non uom di lettere, né monaco, né santo son io. Non sono il guardiano né il converso di Montevergine, io. Ho un compito, e lo adempirò: nutrire quegli uccelletti mormoranti e riem­pire il paniere che di lassù ogni giorno calano. Così è scritto, e sta bene. Ho ben compreso tutto questo e me lo son chiovato in testa; e non bisogna chiedermi altro. Non bisogna chiedermi di capire ciò ch'è più su di me, e perché quelle sante donne si son chiuse vive lassù, in quella piccionaia. Agli spiriti il cielo, e la terra agli umani. Che senza la fatica del buon lavoratore non dan­no grano i campi. E questo, senza vantarmi, posso dire che io lo faccio, e nessuno m'insegnerà nulla, forse nem­meno vostro padre, d'altro tempo, lui, e fisso nelle sue idee. A ciascuno il suo posto : questa è giustizia. Vostro padre dandovi a me, e in una Montevergine, ha saputo quel che faceva, ed era secondo giustizia.

Violaine — Ma io, Giacomo, non vi amo già perché così è giusto. E non lo fosse, vi amerei lo stesso e di più.

Giacomo Hury — Non vi comprendo, Violaine.

Violaine — Giacomo, non costringetemi a parlare. Voi mi volete tanto bene, e io non posso farvi che male. Lasciatemi. Non può trattarsi di giustizia fra noi due; ma di fede, di fede soltanto e carità. Allontanatevi da me, mentre è ancora tempo.

Giacomo Hury — Non comprendo, Violaine.

Violaine — Mio diletto, non costringetemi a dirvi il mio gran segreto.

Giacomo Hury — Un gran segreto, Violaine?

Violaine — Così grande, che tutto ormai è consumato, e voi non penserete oltre di sposarmi.

Giacomo Hury — Non vi comprendo.

Violaine — Non vi basta, Giacomo, la mia bellezza di questo istante? Che volete di più? Che cosa si chiede a un fiore se non che sia bello un attimo e dia profumo, un povero fiore, e dopo non vi sarà più nulla? Breve è la lavita del fiore, ma la gioia ch'esso dà per un istante non è cosa che abbia principio o fine. Non sono bella abbastanza? Mi manca qualche cosa? Ah, io vedo i tuoi occhi, mio diletto. V'è nulla in te, in questo momento, che non mi ami e di me dubiti? La mia anima non basta? Prendila, è tua, ecco, e aspirala fin nel profondo. Basta un attimo per morire, e la morte l'uno nell'altra non ci annienterà più dell'amore; che bi­sogna forse vivere quando siamo morti? Che altro vuoi fare di me? Fuggi, allontanati. Per­ché mi vuoi sposare? perché vuoi prendere per te ciò che appartiene a Dio solo? Dio ha messo la mano su di me, e tu non puoi difendermi. Oh, Giacomo, noi non saremo marito e moglie in questo mondo!

Giacomo Hury — Violaine, strane parole mi dite, tènere, amare. Per quali sentieri insidiosi e funesti mi condu­cete? Credo che vogliate provarmi e giocarvi di me che sono semplice e rozzo. Ah, come siete bella così, Violaine! e tuttavia io ho paura, e vi vedo in queste vesti-menta che mi spaventano. Non è l'abbigliamento, que­sto, di una donna, ma l'assisa del Sacrificatore all'altare, di colui che assiste il sacerdote, col fianco scoperto e le braccia libere.

Ah, ben lo vedo io: lo spirito del Monte delle Ver­gini vive in voi, fiore supremo, fuori di quel giardino sigillato.

Non volgere verso di me quel viso che non è più di questo mondo! non sei più la mia diletta Violaine. Trop­pi angeli già servon messa in cielo. Abbiate pietà di me che non ho ali, ed era mia gioia questa compagna che Dio m'aveva data; e l'avrei sentita sospirare, la testa poggiata alla mia spalla. Dolce uccellino! il cielo è bello, ma è pur bello esser preso. È bello, sì, il cielo; ma è bello anche, e degno di Dio stesso, un cuor d'uomo che si ricolma senza lasciarvi vuoto. Non dannatemi privandomi del vostro viso! È vero che sono un semplice, senza talento né bellezza, ma vi amo, angelo mio, mia regina, mia diletta!

Violaine — Vano dunque è stato il mio avvertimento; e voi volete prendermi per donna vostra, e non rinun­cerete al vostro proposito?

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Sposo e sposa, non son che un'anima in una sola carne, e nulla li separerà più.

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Voi lo volete! E allora non è bene ch'io ser­bi qualcosa per me e che celi oltre il grande, l'ineffabile segreto.

Giacomo Hury — Ancora parlate di segreto, Violaine?

Violaine — Così grande, Giacomo, in verità, che il vostro cuore ne sarà saziato, e nulla più mi chiederete, e mai più saremo l'uno all'altra strappati. Una partecipazione così profonda, che non la vita, Giacomo, e non l'infer­no, e non il cielo stesso la faranno più cessare, né più cancelleranno il ricordo del momento in cui ve l'avrò rivelato nella fornace di questo terribile sole che quasi c'impedisce di vederci in viso.

Giacomo Hury — E parla dunque.

Violaine — Ma prima ditemi, ancora una volta, che mi volete bene.

Giacomo Hury — Vi voglio bene.

Violaine — E che io sono la vostra donna e il vostro solo amore?

Giacomo Hury — Mia donna, mio solo amore.

Violaine — Giacomo, il mio viso, e la mia anima non ti son bastati? E io stessa... ti sei lasciato prendere dalle mie parole arcane? Conosci dunque il fuoco che mi di­vora! Conoscila, questa carne che hai tanto amata! Venitemi più presso.

(Egli si avvicina a lei)

Più vicino! più vicino ancora! qui, proprio contro il mio fianco. Sedetevi su questo banco.

(Silenzio)

E datemi il vostro coltello.

(Egli le porge il coltello. Ella incide la stoffa di lino a un lato, al posto del cuore, sotto il seno sinistro, e, china verso di lui, aprendo con le mani i lembi, gli mostra la carne dove appare un primo segno di lebbra. Silenzio)

Giacomo Hury, torce un poco il viso — Datemi il coltello.

(Ella glielo dà. Silenzio. Poi Giacomo si allontana di qualche passo, voltando in parte la schiena, e non la guarderà più fino al termine della scena)

Giacomo Hury — Violaine, non mi sono ingannato? Quel fiore d'argento sulla vostra carne, come un blasone?

Violaine — Non vi siete ingannato.

Giacomo Hury — È il male? è il male, Violaine?

Violaine — Sì, Giacomo.

Giacomo Hury — La lebbra!

Violaine — Oh, siete difficile voi da convincere, e bisogna che abbiate veduto per credere.

Giacomo Hury — E quale lebbra è più maligna, quella dell'anima o quella del corpo?

Violaine — Non so nulla dell'altra. Conosco solo quella del corpo che è un gran male.

Giacomo Hury — Ah, l'altra tu non la conosci, reproba?

Violaine — Non sono una reproba.

Giacomo Hury — Infame, reproba; dannata nella tua anima e nella tua carne.

Violaine — Così, non chiedete più di sposarmi, Giacomo?

Giacomo Hury — Non canzonare, figlia del diavolo.

Violaine — Questo è il grande amore che avevate per me?

Giacomo Hury — Questo è il giglio che avevo eletto.

Violaine — Ed è questo l'uomo che fa le veci di mio padre.

Giacomo Hury — Ed è questo l'angelo che Dio mi aveva mandato.

Violaine — Ah, chi ci strapperà l'uno dalle braccia del­l'altra? Io ti amo, Giacomo, e tu mi difenderai, e so che non ho nulla da temere con te.

Giacomo Hury — Non farti gabbo con queste orribili parole.

Violaine — Dimmi, ho forse mancato alla mia parola? La mia anima non ti bastava? Non hai più gola della mia carne, ora? Dimenticherai ormai la tua Violaine e questo cuore ch'ella ti ha rivelato?

Giacomo Hury — Vattene da me.

Violaine — Oh, son già lontana, Giacomo, e tu non hai nulla da temere.

Giacomo Hury — Sì, sì, più lontana che non lo fosti del tuo porco lebbroso. Quel muratore dalla carne guasta.

Violaine — Parlate di Pietro di Craon?

Giacomo Hury — Di lui parlo, di lui che avete baciato sulla bocca.

Violaine — Chi v'ha detto questo?

Giacomo Hury — Mara vi ha veduti coi suoi occhi. E mi ha detto tutto, come era suo dovere, e io miserabile, io che non le credevo! Dillo, suvvia, ma dillo, dunque, è vero? di' che è vero!

Violaine — È vero, Giacomo. Mara dice sempre la verità.

Giacomo Hury — Ed è vero che l'avete baciato sul viso?

Violaine — È vero.

Giacomo Hury — O dannata! le fiamme dell'inferno han dunque tanto gusto, che già da viva ne foste ghiotta?

Violaine, con voce bassissima — Non dannata. Ma dolce, dolce Violaine! dolce, dolce Violaine!

Giacomo Hury — E non negate che quell'uomo vi ha avuta e posseduta?

Violaine — Non nego nulla, Giacomo.

Giacomo Hury — Ma io ti voglio ancora bene, Violai­ne! Ah, è troppo crudele tutto questo. Dimmi qualcosa se hai da dirla, e io ti crederò. Parla, te ne supplico! Dimmi che non è vero.

Violaine — Io non posso diventar nera in un istante, Giacomo, ma ancora qualche mese, qualche mese ancora, e non mi riconoscerete più.

Giacomo Hury — Ditemi che tutto questo non è vero.

Violaine — Mara dice sempre la verità, e poi questo fiore che avete veduto sul mio corpo.

Giacomo Hury — A Dio, Violaine.

Violaine — A Dio, Giacomo.

Giacomo Hury — Che farete ora, miserabile?

Violaine — Lasciare queste vesti. Lasciare questa casa. Adempiere la legge. Farmi vedere dal sacerdote. Raggiungere...

Giacomo Hury — Sì?

Violaine — ...il luogo riservato alla gente della mia specie. Il lebbrosario del Géyn, laggiù.

Giacomo Hury — E quando ci andrete?

Violaine — Oggi. Stasera.

(Lungo silenzio)

Non v'è altro da fare.

Giacomo Hury — Bisogna evitare lo scandalo. Svestite­vi, e mettetevi una veste da viaggio; vi dirò quel che conviene fare.

(Escono)

SCENA IV

La stanza del primo atto.

La Madre — Il bel tempo continua. Sono otto giorni che non piove.                                                                       

(Si mette in ascolto)

Si odono di tanto in tanto le campane di Arcy. Dong, dong! Che caldo! e come tutto sembra enorme. Che fa Violaine? e Giacomo! Che han da dirsi così a lungo?

Mi duole di averle parlato così.

(Sospira)

E che farà il mio vecchio matto? Dove sarà a quest'ora? Ah!

(China il capo)

Mara, entrando vivamente — Vengono. Credo che il matrimonio non si farà. Hai capito? E zitta.

La Madre — Che dici? O cattiva! o brutta! hai ottenuto quel che volevi.

Mara — Lascia correre. È cosa d'un momento. Non si sarebbe fatto lo stesso, in nessun modo. Che ha da spo­sare me, e non lei. Del resto, sarà meglio anche per lei. Bisogna che sia così. Capisci? E zitta.

La Madre — Chi t'ha detto?

Mara — Ma è necessario che a me si dicano le cose? L'ho veduto di colpo sui loro visi. Ho capito tutto in un attimo. E Giacomo, poveraccio, mi fa pietà.

La Madre — Mi duole di quel che ho detto.

Mara — Tu non hai detto niente, tu non sai niente, tu stai zitta. E se ti dicono qualche cosa, qualunque cosa ti raccontino, di' come loro, fa ciò che vorranno loro. Non c'è più niente da fare.

La Madre — Spero che tutto sia per il meglio.

SCENA V

(Entrano Giacomo Hury, poi Violaine, tut­ta vestita di nero, come per un viaggio)

La Madre — Che c'è, Giacomo? Che c'è, Violaine? Perché ti sei vestita così, come se dovessi partire?

Violaine — Parto anch'io.

La Madre — Partire? tu pure parti? Giacomo, che è accaduto fra voi?

Giacomo Hury — Nulla è accaduto. Sapete bene che sono stato a veder mia madre a Braine, e che ne torno ora.

La Madre — Perciò?

Giacomo Hury - Sapete che è vecchia e inferma. E dice che vuol vedere e benedire la nuora prima di morire.

La Madre — Non può attendere il matrimonio?

Giacomo Hury — È malata; non può attendere. E poi è il tempo della mietitura, v'è tanto da fare, e non è ora di nozze. Abbiam parlato di questo, appunto, Violaine e io, or ora, gentilmente, e abbiam deciso ch'è meglio at­tendere l'autunno. Intanto ella starà da mia madre, a Braine.

La Madre — Sei tu che vuoi così, Violaine?

Violaine — Sì, mamma.

La Madre — E vuoi partire oggi stesso?

Violaine — Stasera.

Giacomo Hury — L'accompagno io. Il tempo urge, e così il lavoro, in questo mese di fieni e di messi. Già troppo è durata la mia assenza.

La Madre — Rimani, Violaine. Non andartene tu pure da questa casa.

Violaine — Ma solo per poco, mamma.

La Madre — Proprio poco, me lo prometti?

Giacomo Hury — Poco, sì, e quando verrà l'autunno, sarà ancora con noi, per non lasciarci più.

La Madre — Oh, Giacomo, perché la lasciate partire?

Giacomo Hury — Credete che non mi sia penoso?

Mara — Mamma, quel che dicon loro due è ragionevole.

La Madre — Dura cosa che mia figlia mi lasci.

Violaine — Non siate triste, mamma. Che fa attendere qualche giorno? Passa presto il tempo. Non sono io certa del vostro affetto? e di quello di Mara? e di quello di Giacomo, mio fidanzato? Non è vero, Giacomo? Egli è mio come io sono sua, e nulla può separarci. Guardatemi, caro Giacomo. O ve', come piange perché parto. Ma non è il momento di piangere, mamma. Non sono giovane e bella, e amata da tutti? Mio padre è par­tito, è vero, ma mi ha lasciato il più tenero sposo, l'ami­co che non mi abbandonerà mai. Non è tempo di pian­gere, ma di fare allegrezza. Ah, mamma, come è bella la vita e come sono felice!

Mara — E voi, Giacomo, che dite, voi? Non avete l'aria lieta.

Giacomo Hury — Non è naturale che sia triste?

Mara — E via! Non si tratta che di qualche mese.

Giacomo Hury — Troppo pel mio cuore.

Mara — Senti, Violaine, come lo dice bene. E voi sorella, voi pure così triste? Sorridete con quella bella bocca! Alzate quegli occhi azzurri che tanto piacevano al bab­bo. Guardate, Giacomo, guardate la vostra donna com'è bella quando sorride! Nessuno ve la prenderà! Come esser tristi quando si ha questo piccolo sole per rischiara­re la propria casa? Amatela, cattivo! ditele che si faccia coraggio.

Giacomo Hury — Coraggio, Violaine. Non mi avete per­duto, non siam perduti l'uno per l'altra. Vedete che io non dubito del vostro affetto; e dubitereste voi del mio? Forse che io dubito di voi, Violaine? forse che non vi amo, Violaine? forse che non son sicuro di voi, Violai­ne? Ho parlato di voi a mia madre, e pensate com'è felice di vedervi. È duro lasciar la propria casa. Ma dove andrete avrete un rifugio sicuro che nessuno violerà. Né il vostro amore, né la vostra innocenza, Violaine, nulla hanno da temere.

La Madre — Buone parole, dite. E pure v'è in esse, e in quelle che tu ora mi hai dette, bambina mia, non so, qualcosa di strano che non mi piace.

Mara — Non vedo niente di strano, mamma.

La Madre — Violaine! Se ti ho fatto pena, bambina mia, oh, dimentica ciò che ho detto.

Violaine — Nessuna pena mi avete fatta.

La Madre — E lascia allora che ti stringa a me.

(Le apre le braccia)

 Violaine — No, mamma.

La Madre — Perché?

Violaine — No.

Mara — Violaine, fai male! hai paura che ti tocchiamo? perché ci tratti come lebbrosi?

Violaine — Ho fatto un voto.

Mara — Che voto?

Violaine — Che nessuno mi tocchi.

Mara — Fino al tuo ritorno qui?

(Silenzio. Violaine china il capo)

Giacomo Hury — Lasciatela in pace. Soffre, non vedete?

La Madre — Allontanatevi un istante.

(Si ritirano)

A Dio, Violaine! Tu non mi inganni, bambina, non puoi ingannare la madre che ti ha fatto. Dure cose ti ho dette, ma vedi me meschina, piena di tristezza, vecchia. Tu, sei giovane tu, e dimenticherai. Il mio uomo se n'è andato, ed ecco che anche mia figlia si allontana da me. La propria pena non importa, ma quella che si è data agli altri c'impedisce di mangiare il nostro pane. Pensa a questo, mio agnello sacrificato, e di' a te stessa: così non ho dato pena a nessuno. Ti ho consigliato quel che m'è parso fosse il meglio; non volermene male, Violaine! salva tua sorella; vorresti forse che si perda? il buon Dio è con te, tua ricompensa. Questo ti volevo dire. Non rivedrai la tua vecchia mamma. Che Dio sia con te! Tu non vuoi abbracciarmi, ma io ti posso almeno benedire, dolce, dolce Violaine!

Violaine — Oh, sì, mamma! sì, mamma!

(Si inginocchia, e La Madre traccia sopra di lei il segno della croce)

Giacomo Hury, tornando — Venite, Violaine; è l'ora.

Mara — Va, e prega per noi.

Violaine, gridando — Ti dono le mie vesti, Mara, e tutte le mie robe. Non temere, tu sai che non le ho toccate. Non sono entrata in quella stanza. Ah, la mia povera veste di sposa, così bella.

(Allarga le braccia come per cercare un ap­poggio. Tutti si tengono lontani da lei. Ella esce vacillando, seguita da Giacomo.)


ATTO III

SCENA I

Il paese di Chevoche. Una vasta foresta dagli alberi radi, quer­ce altissime e betulle per lo più; qua e là, pini, abeti, e qualche cespo di agrifoglio. Una larga via rettilinea è stata tagliata attraverso il bosco fino all'orizzonte. Operai trasportano gli ultimi tronchi abbattuti e lavorano alla ghiaiata. Un accampamento da un lato, con capanne, bivacchi, ecc.In una cava, lavoranti stanno caricando di sabbia fine e bianca un piccolo carro. Un apprendista di Pietro di Craon li sorveglia, accosciato fra le ginestre secche.

Dall'una e dall'altra parte della nuova strada si vedono due fan­tocci colossali fatti di fascine, con un collarino e un camiciotto di tela bianca, una croce rossa sul petto, un barile al posto del capo coi bordi tagliati a sega come per raffigurare una corona, e una sor­ta di viso grossolanamente dipinto di rosso; una lunga tromba s'adatta al cocchiume, tenuta tesa da un'asse come da un braccio.

Ora del crepuscolo. Neve in terra e cielo di neve.

È la vigilia di Natale.

Il Sindaco di Chevoche — Ecco fatto. Il Re può venire.

Un Operaio — Può venire anche subito. Noi la nostra parte l'abbiam fatta.

Il Sindaco di Chevoche, guardando intorno soddisfat­to — Bello veramente. Tutti vi han lavorato, uomini e donne, e perfino i ragazzi. E non era impresa facile con tutte queste sterpaie e roveti, e l'acquitrino. Non certo i furbi di Bruyères ce l'hanno fatta.

Un Operaio — Vedano un po' la loro strada, com'è ridotta.

(Ridono)

L'Apprendista, pedantescamente, con voce stridula e chioccia — Vox clamantis in deserto: Parate vias Do­mini et erunt prava in directa et aspera in vias planas.

È vero; avete lavorato bene. Me ne rallegro con voi, buona gente. Sembra la strada per la processione del Corpus Domini. (Indicando i Giganti). E queste due belle e reverende persone?

Un Operaio — Sono belle, hein? Papà Vincenzo, il vec­chio ubriacone, le ha fatte. Dice che sono il gran Re d'Abissinia e sua moglie Bellotta.

L'Apprendista — Per me credevo fossero Gog e Magog.

Il Sindaco di Chevoche — Sono i due Angeli di Che­voche venuti a salutare il Re loro signore. Vi metteremo fuoco quando passerà. Udite!

(Tutti ascoltano)

Un Operaio — Oh, no, non è lui ancora. Si udrebbero le campane di Bruyères.   

Un altro — Non sarà qui prima di mezzanotte. Ha cenato a Fisme.

Un altro — Ma resteremo ben qui per vederlo. Io già non mi muovo.

Un altro — E mangiare, Pierotto? A me non è rimasto che un pezzo di pane, e anche tutto gelato.

Il Sindaco — Non temere. V'è un quarto di porco nella marmitta; e trippa; e il capriolo che abbiamo ucciso; e tre braccia di sanguinaccio, e mele, e una discreta botticella di vin della Marna.

L'Apprendista — Resto con voi.

Una Donna — Questo si dice un buon Natale.

L'Apprendista — Fu di Natale che a Rheims venne battezzato re Clodoveo.

Un'altra Donna — Ed è per Natale che il nostro Re Carlo torna per farsi consacrare.

Un'altra — Una semplice giovinetta, inviata da Dio, lo riconduce a casa sua.

Un'altra — Giovanna, la chiamano.

Un'altra — La Pulzella!

Un'altra — È nata la notte dell'Epifania.

Un'altra — Ha scacciato gl'Inglesi da Orléans che assediavano.

Un altro — E li scaccerà da tutta la Francia. Così sia.

Un altro, canticchiando — Natale! ki ki ki ki ki Natale nuovo! Brr! che freddo!

(Si avvolge nel mantello)

Una Donna — Bisognerà guardar bene se vi è vicino al Re un piccolo uomo vestito di rosso. È lei.

Un'altra — Su un gran cavallo nero.

La prima — E dire che sei mesi fa custodiva ancora le sue mucche e il suo prato.

Un'altra — E ora innalza una bandiera dov'è scritto il nome di Gesù.

Un Operaio — E gl'Inglesi quando la vedono scappano come sorci.

Un altro — Attenti i cattivi Borgognoni di Saponay.

Un altro — Saran tutti a Rheims di buon mattino.

L'Apprendista — Le due campane della Cattedrale, Baudon e Baude, cominciano a sonare al Gloria di Mezza­notte, e fino all'arrivo dei Francesi non cesseranno di rintoccare. In tutte le case un cero sarà acceso fino al mattino. Si aspetta il Re alla messa dell'Aurora, Lux fulgebit. Tutto il clero gli andrà incontro, trecento preti con l'Arcivescovo in cappe d'oro e i regolari, e il Sin­daco, e gli anziani. Bello spettacolo sarà, con la neve, e il sole netto e allegro, e tutto il popolo che inneggia. E dicono che il Re voglia scender di cavallo ed entrare nella sua buona città a dosso d'asino, come Nostro Signore.

Il Sindaco — Perché non siete rimasto in città?

L'Apprendista — Maestro Pietro di Craon mi ha mandato a cercar sabbia qui.

Il Sindaco — E come mai? Proprio ora si occupa di questo?

L'Apprendista — Dice che il tempo è corto.

Il Sindaco — Come meglio occuparlo che a fare questa strada, come noi abbiam fatto?

L'Apprendista — Dice che non è mestier suo fare strade per il Re, ma case per il Signore.

Il Sindaco — Ma a che serve Rheims se il Re non ha strade per andarci?

L'Apprendista — E la strada a che serve se in fondo non v'è una chiesa?

Il Sindaco — Non è buon francese.

L'Apprendista — Altro non gli cale che la sua arte: così dice. Chi parla di politica da noi, gli anneriamo il naso col fondo della padella.

Il Sindaco — Nemmeno Giustizia ha finito, e son dieci anni che vi lavorano.

L'Apprendista — Lo dite voi. L'opera di muratura è terminata, e la travatura; solo manca la guglia che sta spuntando.

Il Sindaco — Ma il lavoro è sospeso.

L'Apprendista — II maestro lavora alle vetrate, e per questo ci ha mandati a cercar sabbia qui. Non è mestier suo, ma tutto l'inverno l'ha passato tra i fornelli. Voi non lo capite, ma far la luce è più difficile che fare l'oro; e somare in quella materia densa e darle traspa­renza, così «come i nostri corpi di fango saranno tra­mutati in corpi di gloria». È detto di San Paolo. Fra tutti i colori dice che vuoi trovare l'essenziale, come Dio l'ha creato. Per questo rimescola in grandi vasi puri di limpidissima acqua il giacinto, e l'oltremare, e l'oro denso, e il vermiglione, e scruta attento le belle rose che si formano, e il cangiare al sole e alla grazia di Dio, e come il tutto si mescola e si dilata nel matraccio. E dice che non v'è colore ch'egli non possa fare, solo, col suo spirito, come il suo corpo fa il rosso e l'azzurro. Che è voler suo che la Giustizia di Rheims splenda co­me l'Aurora il giorno di quelle nozze.

Il Sindaco — Dicono che sia lebbroso.

L'Apprendista — Non è vero. L'ho veduto tutto nudo, la scorsa estate, che si tuffava nell'Aisne a Soisson. Posso testificarlo. Ha la carne sana come quella d'un bambino.

Il Sindaco — È strano. Perché s'è tenuto nascosto tanto tempo?

L'Apprendista — Ma è una menzogna.

Il Sindaco — So ben io; son più vecchio di voi. Non ar­rabbiatevi, il mio uomo. Non importa punto che il suo corpo sia malato, che non col corpo lavora egli.

L'Apprendista — Guai se vi udisse parlar così. Ricordo la punizione che ha dato a un compagno nostro sempre appartato nel suo cantuccio a disegnare: un giorno in­tero l'ha tenuto sulle impalcature a dar mano ai muratori, a passar loro truogoli e sassi, dicendo che per tal modo, meglio che per regolo e disegno, due cose avreb­be al termine della giornata saputo:   il peso che un uomo può reggere e l'altezza del suo corpo. E così come la grazia di Dio moltiplica ciascuna delle nostre buone azioni, ci ha egli spiegato quel che chiama «Siclo del Tempio», e questa casa di Dio di cui ciascun uomo che fa ciò che può col suo corpo è come un fondamento se­greto; e quel che sono il pollice e la mano e il cubito e l'ampiezza a braccia aperte e il cerchio che si traccia col braccio teso, e il piede e il passo; e come niente di tutto ciò è il medesimo mai.

Credete voi che del corpo non tenesse conto il pa­triarca Noè quando fece l'arca? e forse che non importa il numero dei passi che si misurano dalla porta all'al­tare, e l'altezza alla quale è concesso all'occhio di spin­gersi, e il numero d'anime che i due lati della chiesa contengono? Che l'artista pagano faceva tutto dall'ester­no, e noi tutto di dentro come le api, e come fa l'ani­ma per il corpo. Nulla è inerte, tutto vive, tutto è atto di ringraziamento.

Il Sindaco — Parla bene, l'ometto.

Un Operaio — Uditelo come ripete le parole del suo maestro.

L'Apprendista — Parlate con rispetto di Pietro di Craon.

II Sindaco — Dopo tutto è borghese di Rheims e lo chia­mano il Maestro del Compasso, come un tempo si chiamava Messer Loys il Maestro del Regolo.

Un altro — Metti legna al fuoco, Pierotto; comincia a nevicare.

(Nevica infatti. È notte fatta. Entra Mara vestita di nero, portando una specie di fagotto sotto il mantello)

 Mara — Siete quei di Chevoche?

Il Sindaco — Noi, proprio.

Mara — Sia lodato Gesù Cristo.

Il Sindaco — E sempre sia lodato.

Mara — Si trova dalle vostre parti la celletta del Géyn?

Il Sindaco — Dove sta la Lebbrosa?

Mara — Sì.

Il Sindaco — Non proprio da noi, ma qui presso.

Un Uomo — Volete veder la Lebbrosa?

Mara — Sì.

L'Uomo — Non si può vederla; tiene sempre un velo in capo com'è prescritto.

Un altro — E ben prescritto; non certo io ho voglia di vederla.

Mara — È molto tempo che abita fra voi?

L'Uomo — Otto anni come adesso, e si vorrebbe bene non averla.

Mara — Forse che ha fatto del male a qualcuno?

L'Uomo — No, ma lo stesso, non porta fortuna aver presso di sé tal sorta di gente.

Il Sindaco — E poi è il comune che la mantiene.

L'Uomo — Ma veh! proprio son tre giorni che abbiam dimenticato di portarle da mangiare con quest'affare della strada.

Una Donna — E che volete da quella donna?

(Mara non risponde e guarda, ritta, il fuoco)

Una Donna — È un bimbo che tenete in braccio?

Un'altra — È troppo freddo per portare in giro bambini a quest'ora.

Mara — Non ha freddo.

(Silenzio. Si ode nella notte, fra gli alberi, il suono di una castagnetta)

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Una vecchia donna — Eccola, per l'appunto. Udite il suo segnale. Madonna santa! che peccato non sia morta!

Una Donna — Viene a domandare il suo cibo. Non c'è pericolo che se ne dimentichi.

Un Uomo — Che disgrazia dover nutrire questa peste.

Un altro — Gettatele qualche cosa. Non deve avvicinarsi a noi. Ci darebbe il suo veleno.

Un altro — Niente carne, Pierotto. È di magro, è la vigilia di Natale.

(Ridono)

Gettatele questo cantuccio di pan gelato. Per lei è fin troppo.

L'Uomo, gridando — Ehi, Senza volto! Ehi, Giovanna, a te dico! o là, smangiata!

(Si vede la forma nera della Lebbrosa sulla neve. Mara la guarda)

 Togli!

(Le getta d'impeto un pezzo di pane. Ella si china e lo raccatta, poi se ne va.

Mara si mette in cammino per seguirla)

Un Uomo — Ma dove va?

Un altro — Ehi, quella donna! dove diavolo andate? ma che vi piglia?

(Mara e la Lebbrosa si allontanano)

SCENA II

Le due donne s'inoltrano nella foresta, seguendo le orme dei loro passi sulla neve. Arrivano a una radura. La luna, che splende in un immenso alone, illumina un monticello coperto di arbusti. Tutto intorno, massi mostruosi dalle forme fantastiche, che sem­brano bestie delle epoche fossili, strani monumenti, idoli mal sa­gomati.

... E la Lebbrosa conduce Mara alla caverna che le serve di rifu­gio: una specie di corridoio basso dove non si può stare che seduti; nel fondo, un'apertura per il fumo.

SCENA III

Violaine — Chi è venuto fin qui e nonha temuto di unire i propri passi a quelli della Lebbrosa? Perché sap­piate che la sua vicinanza è piena di pericolo e il suo fiato pernicioso.

Mara — Sono io, Violaine.

Violaine — Oh, voce da lungo tempo non udita! Sietevoi, mamma?

Mara — Sono io, Violaine. 112

Violaine — È la vostra voce e un'altra. Lasciatemi ac­cendere il fuoco, perché fa molto freddo. E anche la torcia.

(Ella accende un fuoco di torbe e di sco­peti con un po' di brace conservata in un vaso, poi la torcia)

Mara — Sono io, Violaine, Mara, tua sorella.

Violaine — O cara sorella, ti saluto! Che bella cosa che tu sia venuta! Ma non ti faccio paura?

Mara — A me non fa paura nulla al mondo.

Violaine — Oh, la tua voce come s'è fatta uguale a quella della mamma!

Mara — Violaine, la nostra cara madre non è più.

(Silenzio)

 Violaine — Quando è morta?

Mara — Lo stesso mese dopo che sei partita.

Violaine — Ignorando tutto?

Mara — Non so.

Violaine — Povera mamma! Dio ti abbia nella sua pace.

Mara — E il babbo non è ancora tornato.

Violaine — E voi due?

Mara — Noi, bene.

Violaine — Tutto va secondo il vostro desiderio in casa?

Mara — Tutto va bene.

Violaine — So che non può essere diversamente fra te e Giacomo.

Mara — Vedessi quel che abbiam fatto. Abbiamo tre ara­tri di più. Non riconosceresti Combernon. Ora abbatte­remo le vecchie mura, ora che il Re è tornato.

Violaine — E siete felici insieme, Mara?

Mara — Sì. Siamo felici. Egli mi ama e io lo amo.

Violaine — Dio sia lodato.

Mara — Violaine! Non vedi quel che tengo fra le braccia?

Violaine — Non vedo.

Mara — Alza dunque il velo.

Violaine — Ne ho un altro sotto questo.

Mara — Non ci vedi più?

Violaine — Non ho più occhi. L'anima sola regge nel corpo distrutto.

Mara — Cieca! E come dunque cammini così sicura?

Violaine — Sento.

Mara — Che cosa senti?

Violaine — Le cose esistere con me.

Mara, profondamente — E me, Violaine, mi senti?

Violaine — Dio mi ha data l'intelligenza, che abbiamo tutti comune.

Mara — Mi senti, Violaine?

Violaine — Ah, povera Mara!

Mara — Mi senti, Violaine?

Violaine — Che cosa vuoi da me, cara sorella?

Mara — Lodare con te quel Dio che ti ha resa infetta.

Violaine — Lodiamolo, dunque, in questa vigilia della sua Natività.

Mara — Lieve fatica esser santi quando la lebbra ce ne dà motivo.

Violaine — Non so, perché non sono santa.

Mara — Bisogna ben volgersi a Dio quando tutto il resto viene a mancare.

Violaine — Egli almeno non mancherà.

Mara, dolcemente — Può darsi, chi lo sa, Violaine, di'?

Violaine — La vita manca; non la morte in cui io sono.

Mara — Eretica! Sei tu sicura della tua salvezza?

Violaine — Io sono sicura della Sua bontà, che ha provveduto.

Mara — Ne vediamo l'arra.

Violaine — Io ho fede in Dio, che mi ha fatta la mia parte.

Mara — Che sai tu di Lui che è invisibile e che nulla manifesta?

Violaine — Egli non lo è diventato per me più del resto.

Mara, ironicamente — Egli è con te, piccola colomba, e ti vuol bene?

Violaine — Con me, come con tutti i miseri, Egli stesso.

Mara — Certo il suo amore è grande!

Violaine — Come quello del fuoco per il legno quando prende.

Mara — Egli ti ha duramente castigata.

Violaine — Non più di quanto l'abbia meritato.

Mara — E già colui al quale hai dato il tuo corpo ti ha dimenticata.

Violaine — Io non ho dato il mio corpo.

Mara — Dolce Violaine! bugiarda Violaine! non ti ho forse veduta baciar teneramente Pietro di Craon quel mattino d'un bel giorno di giugno?

Violaine — Quel che hai veduto è tutto, e non vi è altro.

Mara — Ma perché lo baciavi così preziosamente?

Violaine — Il poveretto era lebbroso, e io, io ero tanto felice quel giorno!

Mara — In tutta innocenza, vero?

Violaine — Come una bimba che bacia un povero bimbo.

Mara — Debbo crederlo, Violaine?

Violaine — È così.

Mara — Ma non dirai già che mi hai lasciato Giacomo di tua voglia.

Violaine — No, non di mia voglia; gli volevo bene, io! Non son così buona.

Mara — Ma poteva ancora amarti così lebbrosa?

Violaine — Io non me l'attendevo.

Mara — Chi amerebbe una lebbrosa?

Violaine — Il mio cuore è puro!

Mara — Ma che ne sapeva, Giacomo? Egli ti ritiene colpevole.

Violaine — La mamma mi aveva detto che tu lo amavi.

Mara — Non dirai già che è stata lei a renderti lebbrosa.

Violaine — Dio mi ha prevenuta con la sua grazia.

Mara — Di modo che quando nostra madre ti ha parlato...

Violaine — ...Era Lui stesso ancora che io udivo.

Mara — Ma perché lasciarti credere spergiura?

Violaine — E volevi che non facessi nulla da parte mia? Povero Giacomino. Bisognava forse lasciargli qualche rimpianto di me?

Mara — Di' che non lo amavi.

Violaine — Io non lo amavo, Mara?

Mara — Ma io, io non l'avrei abbandonato così.

Violaine — Io, forse, l'ho abbandonato?

Mara — Ma io sarei morta.

Violaine — E son forse viva, io?

Mara — Ora son felice con lui.

Violaine — Pace su di voi!

Mara — E gli ho dato una figlia, Violaine! una cara piccola bimba. Una dolce piccola bimba.

Violaine — Pace su di voi!

Mara — La nostra gioia è grande. Ma tu che sei con Dio certo hai una gioia maggiore.

Violaine — E io pure l'ho conosciuta la gioia or sono otto anni, e il mio cuore ne era rapito. Tanto, che do­mandai follemente a Dio, ah! ch'essa durasse e non ces­sasse mai! E Dio mi ha stranamente esaudita! Guarirà forse la mia lebbra? No, fin che vi sarà una particella di carne mortale da divorare. E forse guarirà nel mio cuore l'amore? Mai, fin che vi sarà un'anima immortale per fornirgli l'alimento.

Il tuo sposo ti conosce, Mara?

Mara — E quale uomo conosce una donna?

Violaine — Felice quella che può essere conosciuta a fondo e darsi tutta intiera.

Ma Giacomo, tutto quel che potevo dargli io, che cosa ne avrebbe fatto?

Mara — Tu hai dato a Un Altro la tua fede?

Violaine — L'amore ha fatto il dolore e il dolore ha fatto l'amore. Il legno a cui si è appreso il fuoco non dà cenere soltanto, ma anche una fiamma.

Mara — A che serve questo cieco fuoco che agli altri non dà né luce né calore?

Violaine — Non è già molto che mi serva? Oh, non rimproverare questo lume alla creatura calcinata, rósa fino alle radici, questo lume che le fa vedere dentro di sé. E se tu passassi una sola notte nella mia pelle, oh, non diresti che questo fuoco non dà calore.

Il maschio è sacerdote, ma alla donna non è vietato di esser vittima. Dio è avaro e non permette che una creatura sia incendiata, senza che un po' d'impurità si consumi in lei, la sua o quella che la circonda, come la brace dell'incensiere che si attizza.

E certo è tempo di grandi sventure.

                  Essi non hanno padre. Guardano, e non sanno più dov'è il Re, e dove il Papa. Per questo il mio corpo soffre:  per la Cristianità che si dissolve. La sofferenza è potente quando è volontaria come il peccato.

Tu mi hai veduto baciare quel lebbroso, Mara? Ah, la coppa del dolore è profonda, e chi vi mette una volta le labbra non le distoglie più a suo piacimento.

Mara — Prendi dunque con te anche il mio dolore.

Violaine — Già l'ho preso.

Mara — Violaine! se ancora vi è qualche cosa di vivo, che sia mia sorella, sotto questo velo e questa forma distrutta, oh, ricorda che fummo bimbe insieme! Abbi pietà di me!

Violaine — Parla, cara sorella. Abbi fiducia! Dimmi tutto!

Mara — Violaine, io sono una sventurata, e il mio dolore è più grande del tuo!

Violaine — Più grande, sorella?

Mara

(Con un grido lacerante aprendo il mantello e alzando fra le braccia un cadaverino)

Guarda! Prendilo!

Violaine — Cos'è?

Mara — Guarda, ti dico! Prendilo! Prendilo, te lo dono.

(Le mette il cadavere fra le braccia)

Violaine — Ah! sento un piccolo corpo stecchito! Un povero piccolo viso ghiacciato.

Mara - Ha! ha! Violaine! Mia figlia, la mia piccola bimba... È il suo piccolo viso così dolce! è il suo povero piccolo corpo!

Violaine, a voce bassa — Morta, Mara?

Mara — Prendila, te la dono!

Violaine — Pace, Mara!

Mara — Me la volevano strappare, ma io non me la sono lasciata prendere, e sono fuggita portandola con me.

Ma tu prendila, Violaine!  Tieni, prendila; tu vedi, te la dono.

Violaine — Che vuoi che faccia, Mara?

Mara _ Cosa voglio che tu faccia? ma non capisci, tu? Ti dico che è morta! io ti dico che è morta.

Violaine — La sua anima vive in Dio. Ella segue l'Agnello. Ella si trova con le piccole fanciulle beate.

Mara — Ma per me è morta.

Violaine — Mi dai il suo corpo! Dona il resto a Dio.

Mara — No! No! No! non mi vorrai illudere con le tue parole da beghina! No, io non mi lascerò calmare. Que­sto latte che mi cuoce nei seni, grida verso Dio come il sangue di Abele. Ho forse cinquanta figli da strap­parmi dal corpo? Ho forse cinquanta anime da strappar­mi dalla mia? Sai tu che cosa sia lacerarsi in due e metter fuori questo piccolo essere che grida? E la leva­trice mi ha detto che non figlierò più. E quando avessi cento figli, oh, non sarebbe più la mia piccola Albina.

Violaine — Accetta; piegati.

Mara — Violaine, tu lo sai; ho la testa dura, io. Son colei che non si arrende, che non accetta nulla.

Violaine — Povera sorella!

Mara — Violaine, questi piccini è così dolce! e fa tanto male questa piccola crudele bocca quando morde dentro!

Violaine, carezzando il viso della morticina — Come è freddo il suo piccolo viso.

Mara, a voce bassa — Egli... non sa ancora nulla.

Violaine, a voce bassa — Non era in casa?

Mara — È a Rheims per vendere il suo grano. Ella è morta d'improvviso, in due ore.

Violaine — A chi rassomiglia?

Mara — A lui, Violaine. Ella non è soltanto mia, ma vie­ne anche da lui. Soltanto i suoi occhi sono come i miei.

Violaine — Povero Giacomino!

Mara — Non è per sentirti dire: povero Giacomino! che son qui venuta.

Violaine — Ma che vuoi da me?

Mara — Violaine, vuoi sapere una cosa? Di'? sai che cosa sia un'anima che si danni di suo proprio volere per l'eternità? Sai quel che vi è nel cuore quando si bestemmia per davvero? Io ho un demonio dentro e, mentre correvo, mi cantava una canzoncina. Vuoi tu sapere le cose che mi ha dette?

Violaine — Non dire queste cose spaventose!

Mara — Rendimi dunque la mia bimba che ti ho data!

Violaine — Tu non mi hai dato che un cadavere.

Mara — E tu ridammela viva!

Violaine — Mara! che osi dire?

Mara — Io non accetto che mia figlia sia morta.

Violaine — Ma è forse in mio potere di risuscitare i morti?

Mara — Non so, io; non ho che te a cui ricorrere.

Violaine — Ma è forse in mio potere di risuscitare i morti, come Dio?

Mara — A che cosa servi, allora?

Violaine — A soffrire e a supplicare.

Mara — Ma a che serve soffrire e supplicare se non mi ridai la mia bambina?

Violaine — Lo sa Iddio, al quale basta che io lo serva.

Mara — Ma io, io sono sorda e non intendo! e grido verso te dall'abisso in cui sono! Violaine! Violaine! Rendimi quella bimba che ti ho data! Vedi! io cedo, mi umilio! Abbi pietà di me! Abbi pietà di me, Violaine, e rendimi quella bimba che mi hai presa.

Violaine — Quegli che l'ha presa può ridartela.

Mara — Rendimela, dunque. Ah, lo so che tutto questo è tua colpa.

Violaine — Mia colpa?

Mara — E bene, no, è colpa mia, perdonami! Ma rendimela, sorella!

Violaine — Tu vedi ch'è morta.

Mara — Menzogna; non è morta! Ah, snaturata, ah, cuo­re di pecora! Ah, s'io avessi come te confidenza col tuo Dio, egli non mi strapperebbe i miei piccini così facilmente!

Violaine — Chiedimi di rifare il cielo e la terra!

Mara — Ma sta scritto che tu puoi soffiare su quella montagna e spingerla nel mare.

Violaine — Lo potrei se fossi santa.

Mara — Bisogna essere una santa quando una miserabile ti supplica.

Violaine — Ah, suprema tentazione! Io giuro e dichiaro e protesto dinanzi a Dio che non sono santa!

Mara — Rendimi la mia bambina.

Violaine — Mio Dio, voi vedete il mio cuore! Io giuro e protesto dinanzi a Dio che non sono santa!

Mara — Violaine, rendimi la mia bambina!

Violaine — Perché non mi lasci in pace? perché vieni a tormentarmi nella mia tomba? Conto io forse qualcosa? Dispongo io forse di Dio? Sono io forse come Dio? E tu alla fine mi chiedi di giudicare Dio stesso.

Mara — Io non ti chiedo altro che la mia bimba.

(Pausa)

Violaine, alzando il dito — Ascolta.

(Silenzio. Campane in lontananza quasi im­percettibili)

Mara — Non odo nulla.

Violaine — Sono le campane di Natale, le campane che ci annunziano la Messa di Mezzanotte. O Mara, un pic­colo fanciullo ci è nato!

Mara — Rendimi dunque la mia.

(Trombe nelle lontananze)

Violaine — Cos'è?

Mara — È il Re che va a Rheims. Non hai sentito di quella strada che i paesani tagliano attraverso la fore­sta? (Ed è tanta legna per loro). Una piccola pastorella lo conduce attraverso la Fran­cia a Rheims per l'unzione.

Violaine — Lodato sia il Signore che fa queste grandi cose!

(Le campane ancora, ben distinte)

Mara — Come suonano a gloria le campane! Il vento soffia verso di noi. Da tre villaggi suonano a un tempo.

Violaine — Preghiamo con tutto l'universo. Non hai freddo, Mara?

Mara — Io non ho freddo che al cuore.

Violaine — Preghiamo. Già è molto tempo che non ab­biamo fatto Natale insieme. Non temere. Ho preso il tuo dolore con me. Guarda! e ciò che mi hai dato lo tengo stretto sul mio cuore, con me. Non piangere. Non è tempo di piangere, ora che il Redentore di tutti gli uomini è nato.

(Campane in lontananza, meno distinte)

Mara — Non nevica più e le stelle scintillano.

Violaine — Vedi quel libro? Il prete che mi viene a trovare ogni tanto l'ha lasciato qui.

Mara — Lo vedo.

Violaine — Prendilo, vuoi? e leggimi l'Officio del Natale, la prima lezione di ciascuno dei tre Notturni.

Mara, prende il libro e legge:

PROFEZIA D'ISAIA

«Primamente fu meno afflitta la terra di Zabulon, e la terra di Nephtali; e di poi fu gravemente percossa la via al mare, la Galilea delle nazioni di là dal Giordano. Il popolo che camminava fra le tenebre, vide una gran luce: la luce si levò per quelli che abita­vano nella oscura region di morte. Tu hai moltiplicata la nazione, ma non hai accresciuta la letizia. Si allegreranno dinanzi a te come quelli che si rallegrano della messe, come esultano i vincitori fatti padroni della preda, allorché dividono le spoglie. Imperocché il giogo oneroso di lui, e la verga infesta a' suoi omeri, e il bastone del suo esattore tu li superasti, come nella giornata di Madian. Pe­rocché ogni violenta depredazione sarà con tumulto; e le vesti intrise di sangue saranno arse, fatte cibo del fuoco. Conciossiaché un pargoletto è nato a noi, e il figlio è dato a noi, ed ha sopra gli omeri suoi il principato; ed ei si chiamerà per nome l'Ammirabile, il Consigliere, Dio, il Forte, il Padre del secolo futuro, il Principe di Pace».

Violaine, alzando il viso — Ascolta!

(Silenzio)

Voce degli Angeli nel cielo, udita solo da Violaine:

Coro — Hodie nobis de coelo pax vera descendit, hodie per totum mundum melliflui facti sunt coeli.

Voce sola — Hodie illuxit nobis dies redemptionis novae, reparationis antiquae, felicitatis aeternae.

Coro — Hodie per totum mundum melliflui facti sunt coeli.

(Violaine alza il dito. Silenzio. Mara ascolta e guarda inquieta)

Mara — Io non odo nulla.

Violaine — Seguita, Mara.

Mara, riprendendo la lettura:

SERMONE DI SAN LEONE PAPA

«Il nostro Salvatore, o dilettissimi, è nato in questo giorno: ral­legriamoci. Poi che non vi è posto per la tristezza quando è il natale della vita: che, aumentato il timore della morte, infonde in noi la gioia dell'eternità promessa. Nessuno è escluso dalla parteci­pazione a questa allegrezza. Unica è la ragione della comune leti­zia: poi che il Signor nostro, distruttore del peccato e della morte, come non trovò alcuno immune dalla colpa, così venne per liberare tutti gli uomini. Esulti il giusto perché è vicina la sua palma; si rallegri il peccatore...».

(Suono clamoroso e prolungato di trombe vicinissime. Alte grida nella foresta)

Mara — Il Re! IlRe di Francia!

(Di nuovo, e poi un'altra volta, trombe indicibilmente laceranti, solenni e trionfali)

Mara, a bassa voce — Il Re di Francia che va a Rheims!

(Silenzio)

Violaine!

(Silenzio)

Mi odi, Violaine?

(Silenzio. Ella riprende la lettura)

«... Si rallegri il peccatore perché è invitato al perdono! Si animi il Gentile perché è chiamato alla Vita! Poi che il Figlio di Dio secondo la pienezza del tempo che prescelse l'altezza imperscruta­bile del divino consiglio, assunse nostra natura umana per riconci­liarla col suo fattore, affinché il diavolo inventore della morte da quella stessa che aveva vinto fosse a sua volta soggiogato».

Voce degli Angeli, udita solo da Violaine, come dinanzi:

Coro — O magnum mysterium et admirabile sacramentum ut animalia viderint Dominum natum jacentem in praesepio! Beata Virgo cuyus viscera meruerunt portare Dominum Cbristum.

Voce sola — Ave, Maria, gratia piena, Dominus tecum.

Coro — Beata Virgo cuyus viscera meruerunt portare Dominum Christum.

(Pausa)

Mara — Violaine, io non son degna di leggere questo li­bro! Violaine, so di esser troppo dura, e me ne dispiace: vorrei essere diversa.

Violaine — Leggi, Mara. Tu non sai chi canta il responsorio.

(Silenzio)

Mara, con uno sforzo, riprendendo il libro, e con voce tremante :

LETTURA DEL SANTO EVANGELO SECONDO SAN LUCA

(Esse si alzano in piedi)

«In quei giorni appunto usci un editto di Cesare Augusto per fare il censimento in tutto l'Impero. E il resto...».

(Esse si siedono)

Mara—

OMELIA DI SAN GREGORIO PAPA

«Conciossiaché, per grazia del Signore, oggi diremo tre volte la santa Messa, non possiamo parlare a lungo sulla lezione evange­lica. Ma la stessa Natività del Redentore nostro ci spinge a dirvi qualche cosa sia pure brevemente. Perché nel tempo di questa Nati­vità si fa il censimento del mondo, se non perché viene in modo evidente dimostrato che appariva nella carne Colui che doveva sce­gliere i suoi eletti per l'Eternità? Mentre al contrario il Profeta scrive dei reprobi : — Saranno scancellati dal novero dei viventi e non saranno iscritti fra i giusti.

E bene anche Egli nasce in Betlemme. Poi che Betlemme signifi­ca : "Casa del pane" e Gesù Cristo dice di sé : — Io sono il pane vivo disceso dal cielo. — Adunque il luogo dove nasce il Signore era chiamato prima Casa del pane, poi che per certo ivi sarebbe apparso in sostanza di carne Colui che doveva pascere i cuori con una sazietà interna. Il quale non nasce nella casa dei genitori, ma sulla strada: certo per mostrare che, per mezzo dell'umanità da lui assunta, nasceva per così dire in luogo altrui».

(Mara si ferma, vinta dalla commozione. Le trombe suonano un'ultima volta, lontano)

Voce degli Angeli :

Coro — Beata viscera Mariae Virginis quae portaverunt aeterni Patris Filium; et beata ubera quae lactaverunt Christum Dominum. Qui hodie pro salute mundi de Virgine nasci dignatus est.

Voce sola — Dies sanctificatus illuxit nobis, venite, gentes, et adorate Dominum.

Coro — Qui hodie pro salute mundi de Virgine nasci dignatus est.

(Lungo silenzio)

Voce degli Angeli ancora, quasi impercettibile :

Coro — Verbum caro factum est et babitavit in nobis; et vidimus gloriam ejus, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis.

Voce sola — Omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil.

Coro — Et vidimus gloriam ejus, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis.

Voce sola — Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

Coro — Et vidimus gloriam ejus, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis.

(Lungo silenzio)

Violaine, mettendo d'un tratto un grido soffocato — Ah!

Mara — Che hai?

(Con la mano Violaine le fa segno di ta­cere. Silenzio. I primi albori. Violaine met­te la mano sotto il mantello nell'atto di chi si allaccia la veste)

Mara — Violaine... vedo qualcosa che si muove sotto il tuo mantello!

Violaine, come risvegliandosi a poco a poco — Sei tu, Mara? Buon giorno, sorella. Sento sul viso il soffio del giorno che nasce.

Mara — Violaine! Violaine! Sei tu che muovi le braccia a quel modo? Vedo ancora quel movimento.

Violaine — Pace, Mara, ecco il giorno di Natale in cui ogni gioia è nata!

Mara — Quale gioia vi è per me se non che la mia bimba viva?

Violaine — E anche a noi è nato un piccolo fanciullo! Mara — In nome d'Iddio vivente, che cosa dici?

Violaine — «Ecco che io vi annunzio una grande gioia...».

Mara — Vedo ancora il mantello che si agita!

(Appare un piccolo piede nudo nell'apertura del mantello, e si muove pigramente)

Violaine — «... Perché un uomo è apparso al mondo!».

(Mara cade in ginocchio, mettendo un profondo sospiro, la fronte

sulle ginocchia della sorella. Violaine le accarezza il viso)

Violaine — Povera sorella! Piange. Anch'essa ha avuto troppo dolore.

(Silenzio. La bacia sulla testa)

Prendi, Mara! Vuoi lasciarmela sempre questa bimba?

Mara, prende la bimba di sotto il mantello e la guarda appassionatamente — Vive!

Violaine, esce e fa qualche passo sull'erica. Alle incerte luci dell'aurora gelida si vedono da prima gli alberi, pini e betulle, vestiti di brina; poi, in fondo a una immensa piana coperta di neve, tutto piccolo, in vetta a un colle, ben disegnato nell'aria pura, il profilo dì Montevergine dalle cinque torri.

— Gloria a Dio!

Mara — Vive!

Violaine — Pace agli uomini su la terra!

Mara — Essa vive! vive!

Violaine — Vive e noi viviamo. E la faccia del Padre appare sulla terra che rinasce piena di consolazione.

Mara — La mia piccola vive!

Violaine, alzando il dito — Ascolta!

(Silenzio)

Odo l'Angelus che suona a Montevergine.

(Si fa il segno della croce e prega. La bimba si desta)

Mara, con voce bassissima — Sono io, Albina; la mamma; la riconosci la tua mamma?

(La bimba si agita e fa lagno)

Cos'hai, gioia? cos'hai, tesoruccio?

(La bimba apre gli occhi, guarda sua madre e si mette a piangere. Mara la considera attentamente)

Violaine! Che vuoi dir questo? I suoi occhi erano neri, e ora sono azzurri come i tuoi.

(Silenzio)

Ah! E questa goccia di latte sulle sue labbra?


ATTO IV

SCENA I

E'  notte. La stanza del primo atto, deserta. Una lampada è posata sulla tavola. La porta che dà sull'esterno è aperta a metà. Entra Mara, e chiude la porta con precauzione. Si ferma un istante in mezzo alla stanza, guardando all'entrata e ten-dendo l'orecchio. Poi prende la lampada ed esce da un'altra porta senza rumore. La scena resta oscura. Non si vede che un fuoco di brace sul focolare.

SCENA II

(Suono d'un corno, ripetuto, in lontanan­za. Richiami. Movimento nella fattoria. Poi rumore di porte che s'aprono e di una car­retta cigolante che si avvicina. Qualcuno bus­sa a gran colpi)

Voce di fuori,gridando — Ohé!

(Al piano di sopra rumore d'una finestra che s'apre)

Voce di Giacomo Hury — Chi è là?

Voce di fuori — Aprite!

Voce di Giacomo Hury — Che volete?

Voce di fuori — Aprite!

Voce di Giacomo Hury — Chi siete?

Voce di fuori — Ma aprite, vi dico!

(Pausa. Giacomo Hury, recando un lume, appare sulla scena. Apre. Di lì a un momento entra Pietro di Craon, portando tra le brac­cia, ravvolto, un corpo di donna. La corica con precauzione sulla tavola; poi si erge rit­to. I due uomini si guardano in faccia al chiarore del lume)

Pietro di Craon — Giacomo Hury, non mi riconoscete?

Giacomo Hury — Pietro di Craon?

Pietro di Craon — Io, appunto.

(Si guardano)

Giacomo Hury — Che mi portate qui?

Pietro di Craon — L'ho trovata mezzo interrata nella mia cava, dove cerco quel che mi bisogna per le mie fornaci da vetro e per la calcina. Era quasi sepolta un gran carico di sabbia, e, sopra, un carretto capovolto, che avevan fatto ribaltare. Vive ancora. Io mi son presa la responsabilità di portarvela qui.

Giacomo Hury — Perché qui?

Pietro di Craon — Perché almeno muoia sotto il tetto di suo padre.

Giacomo Hury — Non v'è altro tetto qui che il mio.

Pietro di Craon — Giacomo, è Violaine.

Giacomo Hury — Non conosco nessuna Violaine, io.

Pietro di Craon — Nulla sapete della Lebbrosa di Chevoche?

Giacomo Hury — Che m'importa? Voi altri lebbrosi raschiatevi le vostre ulceri tra voi.

Pietro di Craon — Non ho più lebbra; da molto tempo son guarito.

Giacomo Hury — Guarito?

Pietro di Craon — D'anno in anno il male s'è ridotto, ed ora son sano.

Giacomo Hury — E costei fra poco sarà pure guarita.

Pietro di Craon — Voi siete più lebbroso di lei e di me.

Giacomo Hury — Ma io non chiedo che mi si tolga dalla mia cava di sabbia.

Pietro di Craon — E anche se avesse fatto il male, voi dovreste ricordarvi.

Giacomo Hury — È vero che vi ha baciato sulla bocca?

Pietro di Craon, guardandola — È vero, povera piccola.

Giacomo Hury — Si muove, vedo che si rianima.

Pietro di Craon — Vi lascio con lei.

(Esce)

SCENA III

(Giacomo Hury si siede presso la tavola è guarda Violaine in silenzio)

Violaine, si rianima e stende una mano — Dove sono e chi è qui?

Giacomo Hury — A Montevergine, siete, e son io qui presso di voi.

(Pausa)

Violaine, con l'accento d'un tempo — Vi saluto, Giacomo.

(Silenzio)

Giacomo, ancora siete corrucciato con me?

Giacomo Hury — La ferita non è chiusa.

Violaine — Povero caro! E non ho sofferto un poco anch'io?

Giacomo Hury — Come v'è saltato in capo di baciar quel lebbroso sulla bocca?

Violaine — Giacomo! Bisogna che mi facciate in fretta tutti i rimproveri che avete in cuore, e sia finita. Che ben altro abbiamo ancora da dirci, noi, e ancora una volta io voglio udire da voi quelle parole che mi furono così care: Cara Violaine! Dolce Violaine! Breve è il tempo che mi rimane per restare con voi.

Giacomo Hury — Non ho altro da dirvi.

Violaine — Venite qui, cattivo.

(Egli si fa più presso la tavola)

Più vicino a me, qui.

(Ella gli prende la mano e l'attira a sé. Egli s'inginocchia goffamente da un lato)

Giacomo, dovete credermi. Lo giuro davanti a Dio che ci vede. Non ho peccato con Pietro di Craon.

Giacomo Hury — E perché l'avete baciato?

Violaine — Ah, era tanto triste e io così felice!

Giacomo Hury — Non vi credo.

(Ella gli pone un istante la mano sul capo)

Violaine — E adesso mi credete?

Giacomo Hury — Ah, Violaine! crudele Violaine!

(Egli nasconde il viso nella veste di lei e singhiozza sordamente)

Violaine — Non crudele, ma dolce, dolce Violaine!

Giacomo Hury — Ma è dunque vero? proprio me solo amavate?

(Silenzio. Ella gli dà anche l'altra mano)

Violaine — Giacomo, certo era troppo bello, e noi saremmo stati troppo felici.

Giacomo Hury — Mi avete crudelmente ingannato.

Violaine — Ingannato? no, quel fiore d'argento sul mio seno non mentiva.

Giacomo Hury — Che potevo io credere, Violaine?

Violaine — Credendo in me, chi sa se non mi avreste guarita?

Giacomo Hury — Non dovevo credere ai miei occhi?

Violaine — È vero. Dovevate credere ai vostri occhi; è giusto. Non si sposa una lebbrosa. Non si sposa una in­fedele. Non rimpianger nulla, Giacomo. È meglio così.

Giacomo Hury — Voi sapevate che Mara mi amava?

Violaine — Lo sapevo. Mia mamma me l'aveva detto.

Giacomo Hury — Così tutto ha congiurato con lei contro di me.

Violaine — Giacomo, v'è già troppo dolore al mondo. Meglio non esser causa d'un gran dolore agli altri, volendolo.

Giacomo Hury — E il mio dolore?

Violaine — È un'altra cosa, Giacomo. Non sei contento di esser con me?

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Dove son io v'è pazienza, non dolore.

(Silenzio)

Quello del mondo è grande. Troppo è dura cosa sof­frire, e non sapere perché. Ma quel che altri non san­no, io l'ho imparato e voglio che tu lo sappia con me. Giacomo, non è già troppo il tempo che fummo sepa­rati? e sopporteremo ancora questo impedimento fra noi? Bisogna forse che la morte anch'essa ci separi? Ciò ch'è guasto, deve perire, ma tutto ciò che soffre oh, no, non perisce. Felice quegli che soffre e sa perché. Ora il compito mio è finito.

Giacomo Hury — E il mio comincia.

Violaine — Eh, via! trovi tanto amara la coppa nella quale ho pur bevuto io?

Giacomo Hury — Così vi ho perduta per sempre.

Violaine — Ma dimmi, perché perduta?

Giacomo Hury — Tu muori!

Violaine — Comprendimi, Giacomo. A che serve un pro­fumo, anche il più raro, in un vaso sigillato? A nulla serve.

Giacomo Hury — No, Violaine.

Violaine — A che mi serviva questo corpo se mi celava così il cuore che tu non lo vedessi, ma solo vedevi quel segno esterno sull'involucro miserabile?

Giacomo Hury — Duro fui e cieco.

Violaine — Ora son tutta spezzata, e il profumo si esala. E vedi che ora tu credi ogni cosa, solo perché t'ho messo una mano sul capo.

Giacomo Hury — Credo. Non dubito più.

Violaine — E dimmi, dov'è in tutto questo la parte della giustizia? la giustizia della quale così altiero parlavi?

Giacomo Hury — Non sono più altiero.

Violaine — Va. Lascia la giustizia dov'è. Non a noi spetta proclamarla e stabilirla.

Giacomo Hury — Oh, Violaine, quanto hai sofferto in questi otto anni.

Violaine — Non in vano, però. Tante cose si consumano nel fuoco di un cuore che brucia.

Giacomo Hury — La liberazione è vicina.

Violaine — Benedetta sia dunque la mano che l'altra notte m'ha guidata.

Giacomo Hury — Che mano?

Violaine — Ero andata in cerca del mio nutrimento. Tornavo, e quella mano silenziosamente ha preso la mia e mi ha guidata.

Giacomo Hury — Dove?

Violaine — Dove Pietro di Craon mi ha trovata. Sotto un gran cumulo di sabbia, tutto un carretto su di me rovesciato. Forse che mi son messa da sola lì sotto?

Giacomo Hury, alzandosi — Chi ha fatto questo? Sangue di..., chi ha fatto questo?

Violaine — Non lo so. Poco importa. Non bestemmiare.

Giacomo Hury — Saprò ben io metterlo in chiaro.

Violaine — Ma no, tu non metterai in chiaro niente.

Giacomo Hury — Dimmi tutto.

Violaine — Ti ho detto tutto. Che vuoi sapere da una cieca?

Giacomo Hury — È inutile che tu cerchi d'ingannarmi.

Violaine — Non dir cose vane. Sai che ho poco da star con te.

Giacomo Hury — Mi resta Mara per sempre.

Violaine — È tua moglie e mia sorella; nate dallo stesso padre e dalla stessa madre, e fatte della stessa carne, lei e io, ai piedi di Montevergine.

(Silenzio. Giacomo Hury rimane un mo­mento immobile, come cercando di dominar­si. Poi si mette a sedere)

Giacomo Hury— Non vi son più recluse a Montevergine.

Violaine — Chedici? 148

Giacomo Hury — L'ultima è morta il passato Natale. Nessuna bocca si presenta più alla grata nella chiesa nutrice del santo monastero; così ci ha detto il prete che le comunicava.

Violaine — Il monte di Dio è morto, e noi ne dividiamo l'eredità, Mara e io.

Giacomo Hury — E Violaine era il rampollo segreto dell'Albero santo, nato da qualche radice sotterranea. Dio non me l'avrebbe presa, se tutta ella fosse stata ri­piena di me, senza nessuno spazio vuoto, «la parte di Dio», come la chiamano le donnette.

Violaine — Che farci? Tanto peggio!

Giacomo Hury — Oh, rimani! Non andartene.

Violaine — Resto, non me ne vado. Di', Giacomo, ri­cordi quell'ora sul mezzodì, e quel gran sole che bru­ciava, e quel segno sulla mia carne che t'ho mostrato?

Giacomo Hury — Ah!

Violaine — Te ne ricordi? Ben ti dissi allora che non mi avresti più strappata dalla tua anima. Questo di me è in te per sempre. Non voglio più che tu sia lieto, non è bene che tu rida, pel tempo che ancora sarai lontano da me.

Giacomo Hury — Ah, ah, Violaine!

Violaine — Questo ti resti di me, mio diletto. La comu­nione sulla croce, l'amarezza, pari a quella della mirra, del malato che vede l'ombra sul quadrante e dell'anima a cui è data una vocazione. E per te è già venuto il tem­po. Ma com'è dura la rinunzia a un giovine cuore!

Giacomo Hury — Da me nulla hai voluto accettare.

Violaine — Credi che non conosca nulla di te, Giacomo?

Giacomo Hury — Mia madre mi conosceva.

Violaine — Anche a me, Giacomo, tu hai fatto molto male.

Giacomo Hury — Tu sei vergine, e nessuna parte ho io in te.

Violaine — Ma dunque: bisogna dirti proprio tutto?

Giacomo Hury — Che mi celi ancora?

Violaine — È necessario. Non è più tempo di nascondere nulla.

Giacomo Hury — Parla più forte.

Violaine — Non ti hanno detto che la tua bimba era morta? Quest'anno passato, quando eri a Rheims?

Giacomo Hury — Parecchi me l'han detto. Mara però giura che dormiva. E non ho mai saputo da lei tutta la faccenda. Dicono che è venuta da te. Ma l'avrei pur saputo. Volevo averne il cuore in pace.

Violaine — È vero. Tu hai diritto di saper tutto.

Giacomo Hury — Che è venuta a chiederti?

Violaine — Non hai veduto che gli occhi della tua piccina non son più gli stessi?

Giacomo Hury — Sono azzurri ora, come i tuoi.

Violaine — Era la notte di Natale. — Sì, Giacomo, era proprio morta. Il suo piccolo corpo era rigido e ghiac­ciato. Lo so ben io: tutta notte l'ho tenuto fra le mie braccia.

Giacomo Hury — Chi dunque le ha ridato la vita?

Violaine — Dio, e con Dio la fede e la disperazione di sua madre.

Giacomo Hury — Ma tu, non c'entri, tu?

Violaine — Giacomo, a te solo confiderò un gran mistero. È vero, sì, quando ho sentito quel corpo morto sul mio, il frutto della tua carne, Giacomo...

Giacomo Hury — Ah, la mia piccola Albina.

Violaine — L'ami molto?

Giacomo Hury — Continua.

Violaine — ...Mi si è stretto il cuore e come una lama è penetrata in me. Ecco dunque quel che avevo tra le brac­cia per la mia notte di Natale, ed era tutto ciò che re­stava della nostra razza, una bimba morta. Tutto ciò che di te avrei posseduto in questa vita. E ascoltavo Mara che mi leggeva l'Officio della Santa Notte: il piccolo officio che ci fu donato, l'evangelio della Gioia.

Ah, non dire che non conosco nulla di te! Non dire che non so che cosa sia soffrire per causa tua! né che ignoro lo sforzo e lo strazio della donna che dà la vita!

Giacomo Hury — Tu dici che la bimba è veramente risuscitata?

Violaine — So questo solo : ch'era morta, e che d'un trat­to ho sentito quella testolina muoversi. E la vita è sca­turita da me di getto, e la mia carne mortificata è rifio­rita. Ah, ben so che sia la piccola bocca cieca che cerca, e quei dentini implacabili!

Giacomo Hury — O Violaine!

(Silenzio. Egli vuole alzarsi. Violaine con gesto debole l'obbliga a restar seduto)

Violaine — Mi perdoni ora?

Giacomo Hury — O doppiezza di femmina! Ah, ben sei figlia di tua madre! Dimmi; non a te, vero, vuoi ch'io perdoni?

Violaine — A chi, dunque?

Giacomo Hury — Che mano fu l'altra notte che prese la tua e ti guidò così gentilmente?

Violaine — Non so.

Giacomo Hury — Ma io, io credo di saperlo, io.

Violaine — Tu non sai niente. Lascia questo a noi, è faccenda di donne.

Giacomo Hury — E faccenda mia è di far giustizia.

Violaine — Ma smettila con la tua giustizia.

Giacomo Hury — So quel che mi resta da fare.

Violaine — Tu non sai nulla di nulla, povero uomo; tu non capisci le donne, né sai come son meschine e stu­pide e dure di testa, fisse in una sol cosa. Non imbro­gliar tutto con lei come hai fatto con me. E poi, chi di­ce che fosse la sua mano? Io non ne so nulla. E tu nem­meno. E a che serve saperlo? Custodisci quel che hai. Perdona. Tu, forse non hai mai avuto bisogno di per­dono, tu?

Giacomo Hury — Resto solo, io.

Violaine — Non solo, se hai quella bella piccina che ti ho resa, e Mara, mia sorella, tua moglie, della stessa car­ne mia. Con me, chi ti conosce meglio? A te bisogna la forza e il fatto, un dovere segnato e il fatto compiuto. Per questo io ho i capelli pieni di sabbia.

Giacomo Hury — La felicità è finita per me.

Violaine — È finita, ma che importa? Non ti è stata promessa la felicità. Lavora, è tutto ciò che ti si chiede. (E Montevergine è tutto tuo, ora). Interroga la vecchia terra, e sempre essa ti risponderà col pane e col vino. Quanto a me, io ho finito e passo oltre. Che è poi un giorno lontano da me? presto sarà passato. E allora, quando sarà la tua volta, e udrai la gran porta scric­chiolare e aprirsi, io sarò dall'altra parte.

(Silenzio)

Giacomo Hury — O mia promessa, che vieni tra i rami in fiore, Dio ti salvi!

Violaine — Ti sovviene? Giacomo!  buon giorno, Giacomo!

(Primi albori del giorno che spunta)

E ora bisogna portarmi via.

Giacomo Hury — Portarti via?

Violaine — Non è posto, questo, da morirvi una lebbrosa. Fammi portare nel ricovero che mio padre aveva costrui­to per i poveri alla porta di Montevergine.

(Egli fa per prenderla. Ella accenna di no con la mano)

No, Giacomo, no, non voi. 154

Giacomo Hury — Come, nemmeno quest'ultimo dovere verso di voi?                                  

Violaine — No, non è bene che voi mi tocchiate. Chia­mate Pietro di Craon. Egli ha avuto la lebbra, benché Dio poi l'abbia sanato. Egli non ha orrore di me. E io so che per lui son come un fratello: la donna non ha più potere sulla sua anima.

(Giacomo Hury esce, e ritorna, qualche momento dopo, con Pietro di Craon. Ella tace. Entrambi la guardano in silenzio)

Violaine — Giacomo!

Giacomo Hury — Violaine!

Violaine — È stata buona l'annata, e il grano è venuto bene?

Giacomo Hury — Tanto che non si sa dove metterlo.

Violaine — Ah! Che bella cosa un grande raccolto! Sì, anche adesso me ne ricordo, e trovo che è bello.

Giacomo Hury — Sì, Violaine.

Violaine — Com'è bello vivere! (a voce bassa, con intenso fervore) e come è immensa la gloria di Dio!

Giacomo Hury — Vivi dunque, e resta con noi.

Violaine — Ma che buona cosa anche morire! Quando è proprio la fine, e su di noi a poco a poco scende il buio come un'ombra scurissima.

(Silenzio)

Pietro di Craon — Non dice più nulla.

Giacomo Hury — Prendetela. Portatela dove vi ho det­to. Che, per me, non vuole ch'io la tocchi. Dolcemente! Dolcemente, vi dico. Non fatele male.

(Escono, Pietro portando il corpo. La porta resta aperta. Lunga pausa)

SCENA IV

(Appare sulla soglia Anna Vercors, in costume di pellegrino, il bastone in mano e una sacca ad armacollo)

Anna Vercors — Aperta? La casa è forse vuota che tutte le porte sono aperte? Chi entra di sì buon'ora prima di me? o chi è uscito?

(Si guarda lungamente intorno)

Riconosco la vecchia stanza; nulla è cambiato. Ecco il camino, ecco la tavola. Ecco il soffitto dalle solide travi. Come la bestia che annusa in ogni canto e ricono­sce il suo covo e il suo nido, così io.

Salve, casa mia. Son io, il padrone che torna. Salve, Montevergine, alta dimora. Di lontano assai, già ieri mattina, già il giorno avanti, sulla cresta della collina ho riconosciuto l'Arca dalle cinque torri. Ma perché le campane non suonano più? Né ieri, né stamane, non ho udito nel cielo con l'Angelo dai nove rintocchi la salutazione angelica.

Quante volte, Montevergine, ho pensato alle tue mu­ra, in schiavitù, mentre nel giardino del vecchio di Da­masco attingevo dai pozzi l'acqua. (O mattini e meriggi implacabili! o eterno lavoro alla noria! e gli occhi si alzavano a guardare il Libano!).

E tutti gli aromi della terra d'esilio son ben poco per me in confronto di questa foglia di noce che le mie dita gualciscono.

Ti saluto, terra possente e sottomessa. Non sabbia qui si coltiva, né molle alluvione, ma solida terra a forza di corpo, e sei bovi tirano l'aratro, e il vomero lento ne rivolta un'enorme zolla. Tutta, fin dove i miei occhi ar­rivano, la terra ha risposto alla fatica dell'uomo. Ho già veduto i miei campi e riconosciuto che son curati come bisogna. Dio sia lodato! Giacomo lavora bene.

(Posa la sacca sulla tavola)

Terra mia, son partito per cercare dell'altra terra, po­ca, poca terra per la mia sepoltura, di quella che Dio stesso per la sua ha scelto a Gerusalemme.

(Pausa)

Non ho voluto rincasare ieri sera. Ho atteso che fos­se giorno. E ho passato la notte sotto un pagliaio fresco, pensando, dormendo, pregando, guardando, ricordando, ringraziando, ascoltando se mai udissi la voce della mia donna o quella di Violaine, la mia figliola, o d'un bimbo che gridasse. Svegliatomi, vidi la notte farsi chiara, e splendere lassù, alta sul fosco cimiero di Montevergine, giunta dall'Arabia, la stella del mattino sulla Francia, come un araldo ritto nella solitudine.

E ho ripreso il cammino verso la mia casa.

Olà? Non v'è nessuno qui?

(Batte sulla tavola col bastone. Sipario, che resta per qualche istante chiuso)

SCENA V

(In fondo al giardino. Il pomeriggio dello stesso giorno. Fine dell'estate. Alberi carichi di frutta. Qualche ramo che piega fino a terra è sostenuto da puntelli. Il fogliame appassito dei meli e i frutti rossi e gialli fanno come una tappezzeria. Oltre il giardino, si stende in lontananza, inondata di luce, come appare dopo la mietitura, la pianura immensa; stop­pie, e, qua e là, terre già arate; bianche stra­de e villaggi; file di pagliai piccoli piccoli, e, di tratto in tratto, un pioppo. In diversi punti, greggi di montoni. Ombre di grandi nu­vole passano sulla pianura. In mezzo, nel punto dove la scena scende verso il fondo da cui emergono le cime di un piccolo bosco, un banco di pietra semicirco­lare a cui si accede per tre scalini; la spal­liera è terminata da teste di leoni. Anna Vercors vi sta seduto; alla sua destra, Giacomo Hury)

Anna Vercors — L'autunno dorato spoglierà fra poco il frutteto e la vigna. Di mattina il sole è bianco, splen­dente come diamante senza fuoco, e bianca è la veste della terra. Prossima è la sera che, passando sotto i i pioppi, s'udrà in alto in alto frusciare l'ultima foglia. Ora ecco che, eguagliando i giorni e le notti, contro­pesando i lunghi lavori col piatto che trabocca, appare nel vano della celeste Porta la regale Bilancia.

Giacomo Hury — Padre, tutto, tu sai, t'ho narrato quel ch'è avvenuto dopo la tua partenza, dolorosa storia, e il complotto di quelle donne, e la trappola che han montata per prenderci noi, e ancora una cosa t'ho det­ta, la bocca all'orecchio. Dov'è la tua donna? dov'è tua figlia Violaine? E tu parli del vinco che si torce e del grappolo grosso e nero che tutta riempie la mano del vendemmiatore, la mano che s'affonda sotto i pam­pini. Già lo Scorpione obliquo e il Sagittario volto re­trorso sono apparsi sul notturno quadrante.

Anna Vercors — Lascia il vecchio godersi la stagione calda! O sito veramente benedetto! o Seno della Pa­tria! o terra riconoscente e fecondata! I carri che passano per le strade lasciano un po' di paglia appesa ai rami carichi di frutti.

Giacomo Hury — Oh, Violaine! crudele Violaine; oh, tu, desiderio della mia anima, come mi hai tradito. Oh, giardino ch'io detesto! oh, amore inutile e non com­preso! Giardino in mala ora piantato. Dolce Violaine! perfida Violaine! oh, silenzio e dissimulazione della donna! Sei dunque per sempre partita, anima mia? Mi inganna, e se ne va; mi rivela tutto con quelle sue pa­role mortali e dolci, e parte; e io, con quel dardo avve­lenato qui, bisogna che viva, io, e duri! come la bestia che si prende per le corna torcendole il muso dalla greppia, come il cavallo che la sera si stacca dal bilan­cino battendogli la groppa. Sei tu, bue, che vai innanzi, ma allo stesso giogo siamo entrambi accoppiati. Che il solco sia tracciato, basta: altro non chiedono a noi. Per questo tutto ciò che non è necessario al mio compito, tutto m'è stato tolto.

Anna Vercors — Montevergine è morto, e il frutto del tuo lavoro è tutto tuo.

Giacomo Hury — È vero.

(Silenzio)

Anna Vercors — Tutto è in ordine nella cappella per domani? Cibo e bevanda v'è che basti per tutti quelli che dovremo ricevere?

Giacomo Hury — Vecchio, tua figlia stanno per sotter­rare; e altro non trovi da dire? Oh, tu non le hai voluto bene, mai. Ma il vecchio, come l'avaro che si scalda le mani allo scaldino stretto al seno, non pensa che a sé.

Anna Vercors — Bisogna che tutto sia fatto. Bisogna che le cose siano onorevolmente fatte.

Elisabetta, donna mia, cuore nascosto!

(Entra Pietro di Craon)

Anna Vercors — Tutto è pronto?

Pietro di Craon — Lavorano alla bara. Scavano la fossa dove voi avete comandato. Al fianco della chiesa, lassù, presso quella dell'ultimo cappellano, fratel vostro. Ci han messo la terra che avete portata. Una grande edera nera spunta dalla tomba sacerdotale e, traverso il muro, penetra nell'arca sigillata. Domani all'alba. Tutto è pronto.

(Giacomo Hury piange, il viso nascosto nel mantello.

Si scorge pel viale una suora in atto di cercar fiori)

Anna Vercors — Che cercate, sorella?

Voce della Religiosa, sorda e soffocata — Fiori, da metterle tra le mani giunte sul cuore.

Anna Vercors — Non vi son più fiori; solo frutti, ora.

Giacomo Hury, piangendo — Cercate sotto le foglie, tro­verete l'ultima violetta. E il fiore Immortale è ancora in boccioli, e solo ci restano la giorgina e la testa di papavero.

(La suora è scomparsa)

Pietro di Craon — Le due suore che curano i malati, giovanissima l'una, l'altra vecchia vecchia, l'hanno ve­stita, e Mara ha mandato il suo abito di nozze. Certo non era che una lebbrosa, ma piena di merito al co­spetto di Dio. Ora riposa in un profondo sonno, come colui che sa a chi si è confidato. L'ho veduta prima che la mettessero nella bara. Il suo corpo è rimasto mor­bido. Mentre la suora la vestiva, il braccio intorno alla vita a reggerla su, oh, come la sua testa ricadeva in­dietro! Così la pernice ancora calda, che il cacciatore raccoglie nella sua mano.

Anna Vercors — Bambina mia! oh, piccola, ch'io por­tavo sulle braccia prima che tu sapessi camminare! Gagliarda fanciulla che ti svegliavi ridendo chiassosa nel tuo lettuccio! Tutto è finito. Ah, ah, Dio mio! Ahimè!

Pietro di Craon — Non volete rivederla prima che inchiodino il coperchio?

Anna Vercors — No. Il figlio rinnegato se ne va furtivamente.

Giacomo Hury — Non rivedrò più il suo viso in questo mondo.

(Pietro di Craon si siede alla sinistra di Anna Vercors. Lunga pausa. Rumore d'un martello sulle assi. Tutti stanno in ascolto.

Si vede passare da un lato della scena Mara che porta in braccio avviluppata in uno scial­le nero la sua bimba. Poi ella risale lenta­mente dal fondo e viene a porsi in faccia al banco sul quale sono seduti i tre uomini. An­na e Pietro la guardano; Giacomo Hury tiene gli occhi fissi in terra)

Mara, a testa bassa — Vi saluto, padre mio. Vi saluto tutti. Mi guardate, e io so quel che pensate : «Violaine è morta. Il bel frutto maturo, il buon frutto dorato s'è staccato dal ramo, e, sola, amara di fuori, dura den­tro come la pietra, c'è rimasta la noce invernale». Chi vuol bene a me? Chi mi ha mai voluto bene?

(Leva il capo erto con aria selvaggia)

E bene, eccomi qui. Che avete da dirmi? Dite tutto. Che avete da rimproverarmi? Perché mi guardate con quegli occhi che dicono: — Tu, sei stata. — È vero, sono stata io. È vero, io l'ho ammazzata. Io, tornata da lei, l'ho presa per mano l'altra notte, mentre Giacomo era assente; io l'ho fatta cadere nella cava e su di lei ho rovesciato quel carretto pieno. Tutto era lì pronto, non c'era che un puntello da togliere. Ho fatto questo, sì. Giacomo! E son io che ho detto alla mamma che le par­lasse, a lei, Violaine, quel giorno che tu sei tornato da Braine. Che ardentemente desideravo sposare te, e non potendolo, mi sarei impiccata il giorno delle vostre nozze. Ora Dio che vede i cuori già aveva permesso ch'ella si ammalasse di lebbra.

Ma Giacomo non cessava di pensare a lei. Per questo l'ho uccisa. E che, dunque? Che altro potevo fare? che altro bisognava fare perché fosse mio, come io sono sua, tutta, quegli che io amo e che è mio? e Violaine fosse esclusa? Ho fatto quel che ho potuto.

Ora rispondete voi. Questa Violaine che amavate, co­me dunque l'avete amata, e che cosa è stato più forte, il vostro amore, dite, o il mio odio? Tutti l'amavate! ma suo padre l'abbandona e sua madre la consiglia ma­le, e il suo fidanzato... oh, quello, come ha creduto in lei! Certo voi l'amavate, come si dice di amare una dolce bestiola, un fiore grazioso, e quello era il modo del vostro amore. Ben diverso il mio: cieco, non lascia presa, sordo, non intende nulla. Perché mi abbia tutta, mi bisognava averlo tutto per me.

Che ho fatto dopo tutto per difendermi? chi gli è stata più fedele, io o Violaine? Violaine che l'ha tra­dito per non so che lebbroso, cedendo, diceva lei, al con­siglio di Dio, con un bacio? Io onoro Dio. Ma resti dov'è. È tanto corta la nostra povera vita. Ci lasci in pace.

È mia colpa se amavo Giacomo? per la mia gioia l'amavo, o perché ne avessi l'anima divorata? Come potevo difendermi, io che non son bella, né piacente, io povera donna che non so dare se non dolore?

Così, disperata, l'ho uccisa. Oh, povero delitto malde­stro! Oh, disgrazia di colei che nessuno ama e a cui nessuna cosa riesce bene! Come bisognava fare se gli volevo bene e lui non mi voleva bene?

(Si rivolge a Giacomo)

Tu, Giacomo, perché non parli? Perché tieni il capo chino, senza dir nulla? come Violaine, il giorno che l'accusavi ingiustamente? Non mi riconosci? sono la tua donna. So, ahimè, che non ti sembro bella né ti piaccio, ma guarda, mi sono adornata per te, ho dato una grazia al dolore che ti posso offrire. Questo dolore, solo io te lo posso donare. E sono la sorella di Violaine.

Nasce dal dolore. Questo amore, non dalla gioia nasce, nasce dal dolore; quel dolore che basta a coloro che non hanno gioia. Nessuno lo accoglie con piacere, che, ahimè, non è il fiore nella sua stagione, ma ciò che sta sotto i fiori che avvizziscono, la terra, l'avara terra sotto l'erba, la terra che non manca mai.

Riconoscimi, dunque. Sono la tua donna, e tu non puoi fare che non lo sia. Una sola carne inseparabile, il contatto nel più intimo dell'anima, e la conferma­zione, questa parentela misteriosa fra noi d'una figlia ch'io ho avuto da te.

Ho commesso un gran delitto, ho ucciso mia sorella; ma contro di te non ho peccato. E dico che non mi puoi rimproverare nulla. Gli altri? che m'importano gli altri?

Questo avevo da dire; ora fa quel che vuoi.

(Silenzio)

Anna Vercors — Ciò ch'ella dice è vero. Giacomo, perdonale.

Giacomo Hury — E vieni dunque, Mara.

(Ella s'avvicina, e si ferma ritta davanti a loro, formando come un sol corpo con la sua bimba. I due uomini stendono insieme la de­stra. I loro bracci si incrociano, e la mano di Giacomo si posa sul corpo della bimba, quella di Anna sul capo di Mara)

Giacomo Hury — Violaine, lei è che ti perdona. Nel nome suo, Mara, io ti perdono. Lei, rea femmina, ci tiene congiunti.

Mara — Ahimè, ahimè! parole morte e senza slancio! O Giacomo, io non sono più quella. Qualche cosa è finito in me. Non temere. Tutto m'è indifferente. Qual­che cosa s'è rotto in me, e son priva di forza come donna vedova e senza figli.

(La bimba ride vagamente, e guarda in giro con piccoli strilli di gioia)

Anna Vercors, carezzandola — Povera Violaine! E tu, piccola! Come sono azzurri i suoi occhi!

Mara, scoppiando in lagrime — Oh, babbo! Era morta, e lei l'ha risuscitata.

(Si allontana, e va a sedersi in disparte. Il sole discende. Piove qui e là sulla pianura; raggi di sole fra gli scrosci. Appare in cielo un immenso arcobaleno)

Voce d'un Bimbo — O il bell'arcobaleno!

(Altre voci perdute. Passano a volo stormi di piccioni che volteggiano, si disperdono, si abbattono qui e là nelle stoppie)

Anna Vercors — La terra è liberata. I campi vuoti, la messe al riparo, e gli uccelli del cielo beccano i chicchi perduti.

Pietro di Craon — Finisce l'estate, la stagione minaccia, le foglie fremono al soffio di settembre. Il cielo è tor­nato azzurro, e mentre le pernici invitano al chiuso, il bozzagro volteggia nell'aria fluida.

Giacomo Hury — Tutto è vostro, Padre! riprendetevi questi beni di cui m'avete fatto padrone.

Anna Vercors — No, Giacomo; io non ho più nulla, questi beni non m'appartengono più. Chi se n'è andato non ritornerà, e ciò che una volta è stato donato non può essere ripreso. Ecco un Combernon, un Montevergine nuovi.

Pietro di Craon — L'altro è morto. La montagna vergine è morta, e la cicatrice al suo fianco non si riaprirà.

Anna Vercors — È morta, sì. Anche la mia donna è morta, mia figlia è morta, e la santa Pulzella è stata bruciata e dispersa al vento: non una delle sue ossa rimane alla terra. Ma il Re e il Pontefice sono stati resi alla Francia e all'Universo. Lo Scisma è finito, di nuovo sopra tutti gli uomini si alza il Trono. Son ripas­sato da Roma, ho baciato il piede di San Pietro, ho mangiato in piedi il pane benedetto coi popoli delle Quattro Parti della Terra, mentre le campane del Qui­rinale e del Laterano e la voce di Santa Maria Mag­giore salutavano gli ambasciatori dei nuovi popoli che dall'Oriente e dall'Occidente entrano insieme nella Città; l'Asia ritrovata e quel mondo Atlantico di là dalle Colonne d'Ercole!

E proprio stasera, quando suonerà l'Angelus, nel­l'ora che la stella Al-Zohar brilla nel cielo sgombro, comincia l'anno giubilare che il nuovo Papa accorda, remission di debiti, liberazione di prigionieri, tregua di guerre, chiusura di pretori, restituzione di beni.

Pietro di Craon — Tregua d'un anno e pace d'un sol giorno.

Anna Vercors — Che importa! buona è la pace, ma la guerra ci troverà muniti. O Pietro! tempo è questo che le donne e gli infanti ne san più dei saggi e dei vecchi!

Io  ho avuto scandalo come un Giudeo perché la faccia della Chiesa s'è oscurata ed essa procede barcollando nell'abbandono universale. E ho voluto abbracciare il Sepolcro vuoto, e metter la mano nella buca della Cro­ce. Ma la mia piccola Violaine è stata più saggia. Forse che fine della vita è vivere? forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma sa­lirvi, e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna! e viva Dio se il sangue del vecchio sul lino del sacrificio non fa presso quello del giovane una macchia così rossa, così fresca, come il sangue dell'agnello d'un anno!

O Violaine! fanciulla di grazia! carne della mia carne! Così lontano com'è il fuoco fumoso della mia fattoria dalla stella del mattino, quando in guisa di ver­gine poggia sul seno del sole la sua bella testa lumi­nosa, oh, possa tuo padre, lassù, lassù, vederti per l'eter­nità al posto che ti è stato serbato! Viva Dio, se dove passa questa piccola non passa anche il padre. Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così sem­plice obbedire? Così Violaine, tutta pronta, segue la mano che prende la sua.

Pietro di Craon — O padre! Io la tenni ultimo fra le braccia, che ella aveva fiducia in Pietro di Craon, sa­pendo che non v'è più desiderio della carne nel cuore di lui. E il giovane corpo di quel divino fratello era fra le mie braccia come un albero tagliato che pende. Come l'acceso colore del fior di melagrane da ogni lato scop­pia nella gemma che non lo sa più contenere, già lo splendore dell'angelo che non conosce morte illumina­va la nostra piccola sorella. E l'odore del paradiso si esalava fra le mie braccia da quel tabernacolo infranto. Non piangere, Giacomo, amico mio.

Anna Vercors — Non piangere, figlio mio.

Giacomo Hury — Pietro, rendimi l'anello ch'ella ti ha dato.

Pietro di Craon — Non posso più dartelo. Come la spiga matura non può ridare il chicco seminato in terra da cui è sorto il suo stelo. Di quella briciola d'oro ho fatto una gemma fiammante e la coppa di quel giorno senza tramonto in cui è deposto il frumento eterno. Giustizia è terminata; solo ancora le mancava la donna che met­terò ai fastigi del mio giglio supremo.

Anna Vercors — Tu sei possente in opere, Pietro, e io ho veduto sul mio cammino le chiese da te create.

Pietro di Craon — Benedetto sia il Signore, che ha fatto di me un padre di chiese. E mi ha dato il discer­nimento e il senso delle tre dimensioni, e come leb­broso mi ha interdetto e liberato da ogni cura tempo­rale, perché dalla terra di Francia suscitassi i templi della preghiera. Dieci Vergini Sagge di cui la lampada non si estingue mai. Che è l'anima dal liutaio inserita nel suo strumento, in confronto della grande lira rac­chiusa e delle Potenze incolonnate nell'ombra di cui io ho calcolato il numero e la distanza? Io non intaglio dall'esterno un simulacro. Ma come il patriarca Noè, nel mezzo della mia Arca enorme, lavoro dall'interno, e ve­do come tutto, intorno, in un tempo s'innalza. E che è un corpo da scolpire a paragone d'un'anima da infon­dere e di quel vuoto arcano che lascia il cuore rive­rente che si ritira dinanzi al suo Dio? Nulla è troppo profondo per me: i miei pozzi attingono le acque della Vena-madre. Né v'è altezza per la guglia che sale al cielo e ruba a Dio la folgore.

Pietro di Craon morrà, ma le Dieci Vergini sue figlie resteranno: come il vaso della Vedova nel quale continuamente si rinnova la farina, e la misura sacra dell'olio e del vino.

Anna Vercors — Sì, Pietro. Chi si confida alla pietra non sarà deluso.

Pietro di Craon — Bella la pietra e dolce alle mani dell'architetto! E come giusto e bello nell'insieme, il volume della sua opera, e come fedele essa serba l'im­pronta dell'idea, e quali ombre fa! E spicca la vigna sul piccolo muro, e il rosaio, quand'è fiorito, come è bello e vivo insieme!

L'avete veduta la mia piccola chiesa della Spina, che pare un braciere ardente e un cespo di rose sbocciate? E San Giovanni di Virtù come un bel giovine nel mezzo dell'Argilla di Sciampagna? E Monte San Martino che sarà maturo fra cinquant'anni? E San Tomaso del Fondo d'Ardenna di cui s'ode la sera il richiamo come il mu­glio d'un toro di mezzo al padule? Ma Giustizia che ho fatto per ultima, Giustizia mia figlia è più bella.

Anna Vercors — Andrò a farvi ex-voto del mio bastone.

Pietro di Craon — Essa è già nel mio cuore, nulla più le manca, è tutta d'un pezzo. E per il pinnacolo, ho trovato la pietra che cercavo, non scavata da ferro, più dolce dell'alabastro e di grana più compatta della cote. Come le ossa delicate della piccola Giustizia stanno alla base del mio grande edificio, così, al vertice, in pieno cielo, in­nalzerò l'altra Giustizia, Violaine la lebbrosa in tutta gloria, Violaine la cieca alla vista di tutti. E la effigerò con le mani incrociate sul petto, come la spiga ancora chiusa nei suoi tegumenti, e gli occhi bendati.

Anna Vercors — Perché gli occhi bendati?

Pietro di Craon — Perché, nulla vedendo, ascolti più at­tenta i rumori della città e della campagna, e la voce dell'uomo con quella di Dio in un tempo. Che ella è Giustizia che ascolta e forma nel suo cuore il giusto accordo. Sarà rifugio nell'intemperie e farà ombra durante la canicola.

Giacomo Hury — Ma per me Violaine non è una pietra; a me la pietra non basta. E non voglio che la luce dei suoi occhi così belli sia coperta.

Anna Vercors — Quella della sua anima è con noi. Non t'ho perduta, Violaine! Bella sei, piccola mia! Bella la fidanzata il giorno delle nozze quando al padre si mostra nella magnifica veste, con deliziosa confusione. Vai innanzi, Violaine, bambina mia; io ti seguirò. Ma volgi ogni tanto il tuo viso, perché io veda i tuoi occhi.

Violaine! Elisabetta! presto sarò ancora con voi! Quanto a te, Giacomo, fa il tuo dovere, come ho fatto io il mio. Ora è la tua volta. La fine è vicina: eccola per me venuta, fine del giorno, e dell'anno, e della vita. Sono le sei. L'ombra della collina già arriva al ruscello. Viene l'inverno, scende la notte. Una breve notte, ora; ancora questa breve vigilia. Ho lavorato tutta la vita col sole e l'ho aiutato nel suo compito. Ma ora, tutto solo, mi tocca cominciar la notte, al tepore del fuoco, al chiarore della lampada.

Pietro di Craon — O agricoltore, la tua opera è finita. Vedi ch'è vuota la campagna, spoglia la terra di messi, e già l'aratro affonda tra le stoppie. Quel che tu hai cominciato a me tocca ora finire. Tu hai aperto il solco, io scavo la creta, io preparo il tabernacolo. E come il sole, non tu, matura la messe, così fa la Grazia.

E nessuno sarà della spica che non nasca dalla semente.

E certo Giustizia è bella. Ma quanto più bello l'albero fruttificante di tutti gli uomini che la semente eucari­stica genera vegetando: un tutto che mette capo a uno stesso punto.

Ah, se tutti gli uomini come me capissero l'archi­tettura, chi vorrebbe mancare al compito necessario, al posto sacro che il Tempio gli assegna?

Anna Vercors — Pietro di Craon, ricco di pensieri sei tu, ma a me questo sole basta che sta per tramontare. Tutta la vita ho fatto la stessa cosa che esso fa, colti­vare la terra, alzandomi e coricandomi con lui. Ora en­tro nella notte che non mi fa paura, e so che là pure tutto è chiaro e ordinato, nella stagione del grande in­verno Celeste che mette tutte le cose in movimento. Il cielo notturno, dove tutto è lavoro, come un grande campo, un campo d'un solo proprietario, e il Colono eterno vi stimola i Sette Buoi, l'occhio fisso a una stella immota, come noi al ramo verde che segna il termine del solco. Il sole e io, a fianco a fianco, abbiam lavorato, e quel che nasce dal nostro lavoro non ci riguarda. Il mio è fatto. Ho ubbidito alla necessità e vorrei ora in essa dissolvermi.

La pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono.

La mia donna è morta. Violaine è morta. È bene così. Non desidero più tenere nella mia quella povera vecchia mano rugosa. E Violaine, come amavo il suo piccolo corpo robusto, quando, di otto anni, si gettava con im­peto contro le mie ginocchia! E a poco a poco l'impetuosa monelleria della ridente s'era sciolta nella malin­conia della giovinetta, nella pena e nel peso dell'amo­re, e già quando partii, vedevo nei suoi occhi tra i fiori di quella primavera spuntarne uno ignoto.

Pietro di Craon — La vocazione della morte in guisa di un giglio solenne.

Anna Vercors — Benedetta sia la morte nella quale tut­te le domande del Pater si compiono.

Pietro di Craon — Per me, fin da questa vita, da lei, dalle sue labbra innocenti ho ricevuto  liberazione e congedo.

(Il sole brilla nella zona sinistra del cielo, all'altezza di un grande albero)

Anna Vercors — Ecco il sole nel cielo come lo si vede nelle immagini quando il Maestro chiama l'operaio dell'Undecima Ora.

(Si ode scricchiolare la porta della rimessa)

Giacomo Hury — Che cos'è?

Anna Vercors — Vanno a cercar paglia nella rimessa da mettere in fondo alla fossa.

(Silenzio. Rumore di pale in lontananza)

Voce di Bimbo —

Margherita di Parigi!

Dammi i tuoi scarpini grigi!

Voglio andare, voglio andare     

Tra gli angeli a volare.

Com'è bello! Com'è caldo!

Odi il verso del fringuello

Che fa ciò, ciò, ciò!

Giacomo Hury — Non la porta della rimessa, ma è il grido della tomba che si apre. Mi ha guardato coi suoi occhi ciechi quella che amavo, ed è passata dall'altra parte. E io pure come un cieco l'ho guardata, e senza prove non ho dubitato, non ho dubitato di quella che l'accusava. Ho scelto io, e quella che ho scelta, mi è stata data. Che posso dire? È bene così.

È bene così. La felicità non è per me, ma il desiderio! oh, non mi sarà più strappato. E non Violaine radiosa e intatta, ma la lebbrosa sopra di me china con un amaro sorriso e la piaga divorante al suo costato.

(Il sole è ormai sceso dietro gli alberi, e sfavilla tra i rami. Il rabesco delle foglie co­pre la terra e i personaggi seduti. Qua e là un'ape d'oro brilla un istante nelle zone di luce)

Anna Vercors — Son qui seduto, e dall'alto vedo ai miei piedi disteso il paesaggio. Riconosco le strade, con­to le fattorie e i villaggi, di cui so il nome e la gente che vi sta. Immensa piana a perdita di vista, in questo scorcio, verso il Nord! E là, alzandosi, la collina forma intorno a quel villaggio come un anfiteatro. E dapper­tutto, in ogni istante, verde e rosa di primavera, azzurra e bionda d'estate, bruna d'inverno o tutta bianca sotto la neve, davanti a me, ai miei lati, intorno, sempre vedo la Terra, come un cielo immobile dai cangianti colori. E questa ha un suo aspetto particolare come una pre­senza amica.

Ora è la fine. Quante mattine mi son levato per an­darmene al mio lavoro! Adesso è sera, e il sole ricon­duce uomini e cose come per mano.

(Si alza adagio, con pena, e stende lenta­mente le braccia quanto son lunghe, mentre il sole tutto giallo lo illumina)

Ah, ah! Ecco che io stendo le braccia nei raggi so­lari, come il sartore che misura la stoffa. È venuta la sera. Abbi pietà dell'uomo, Signore, nel momento che sta, finito il suo compito, davanti a te, come un fan­ciullo di cui si esaminano le mani. Le mie son nette. Ho finita la mia giornata. Ho seminato il frumento e l'ho mietuto, e del pane che ho fatto i figli miei si son co­municati. Ora ho finito. Finora c'era qualcuno con me.

Adesso, la mia donna e la mia figliola partite, sono solo a render grazie davanti alla tavola sparecchiata. Loro son morte, ma io vivo sulla soglia della morte e una gioia inesplicabile è in me.

(Suona l'Angelus alla chiesa di sotto. Primo segno di tre rintocchi)

Giacomo Hury, sordamente — L'Angelo di Dio ci annuncia la pace e il bimbo sobbalza nel seno della madre.

(Secondo segno)

Pietro di Craon — «Uomini di poca fede, perché piangete?».

(Terzo segno)

Anna Vercors — «Perché io vado al padre mio e vostro».

(Silenzio profondo. Poi, campane a distesa)

Pietro di Craon — Così parla, con tre voci, l'Angelo; così in maggio, quando l'uomo non sposato se ne torna, seppellita la madre, alla sua casa, «Voce-di-Rosa» parla nella sera d'argento.

O Violaine! O donna da cui viene la tentazione! Che, non sapendo ancora quel che avrei fatto, ho guardato dove fissavi la tua pupilla. Ho sempre pensato, certo, che la gioia era cosa buona. Ma ora ho tutto! Tutto possiedo sotto le mie mani, come chi, salito con la scala sull'albero carico di frutti, sente che al peso del suo corpo cedono i rami folti. Bisogna che io parli sotto l'albero, come il flauto che non è né basso, né acuto. Come l'acqua mi sol­leva! La gratitudine dissuggella la pietra del mio cuore. Oh, così io viva! Così io cresca unito al mio Dio, come la vite e l'ulivo.

(Il sole tramonta. Mara volge il viso verso suo marito e lo guarda)

Giacomo Hury — Eccola che mi guarda. Eccola che torna verso di me con la notte.

(Suono vicinissimo d'una campana chioccia. Primo segno)

Anna Vercors — La campanella delle suore suona l'Angelus a sua volta.

(Silenzio. Poi si ode un'altra campana al­tissima, Montevergine, che suona anch'essa il triplice segno, mirabilmente sonora e so­lenne)

Giacomo Hury — Udite!

Pietro di Craon — Miracolo!

Anna Vercors — Montevergine risuscita. L'Angelo squil­lante ancora una volta ai cieli e alla terra in ascolto dà l'annunzio usato.

Pietro di Craon — Sì, Voce-di-Rosa, Dio è nato!

(Secondo segno della campana delle suore. Essa suona il terzo rintocco nel tempo che Montevergine suona il primo)

Anna Vercors — Dio s'è fatto uomo!

Giacomo Hury — È morto!

Pietro di Craon — È risuscitato!

(Terzo segno della campana delle suore. Poi, volata. Pausa. Poi si ode,

perduta e quasi indistinta, la triplice nota del terzo segno, in alto)

Anna Vercors — Non è il segno dell'Angelus, ma quello della comunione.

Pietro di Craon — Le tre note come un sacrificio ineffabile sono accolte nel seno della Vergine senza peccato.

(Tutti guardano col viso in su, attenti, come in attesa dello stormo, che non si ode)

Explicit.