L’apatista

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[Prefazione]

Carlo Goldoni

L'APATISTA

o sia

L'indifferente

Commedia in cinque atti (1758)

L'AUTORE A CHI LEGGE

Tu sai Lettore umanissimo, che Apatista vuol dire Uomo senza passione. I Stoici portano l'Apathia all'insensibilità. I Quietisti ed i Molinisti alla prosunzione. I Quaccheri all'apparenza esteriore. I buoni Cristiani alla osservanza del Vangelo. L'apathia del protagonista di questa Commedia consiste in una discreta virtuosa indifferenza del bene e del male, che accade o che accader potesse nel corso di nostra vita, onde si può anche chiamare l'indifferente. Tu lo vedrai in situazioni difficili, fastidiose, moleste; non lo vedrai insensibile, ma indifferente. Non fugge gli uomini come un misantropo, non li cerca come un curioso. Non ama le donne come un damerino, non le odia come un selvatico, in somma tale qual si dipinge da se medesimo, e tale, per dire la verità, qual io vorrei essere, se non lo sono.

Personaggi

Il Cavaliere Ansaldo

Il Conte Policastro padre della Contessa Lavinia

La Contessa Lavinia

Don Paolino

Il Signor Giacinto

Fabrizio

La Scena si rappresenta nel Feudo del Cavaliere in una camera del suo Palazzo.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Il Cavaliere e don Paolino.

PAOLINO:

Cavalier, perdonate, se pria non son venuto

D'affetto e d'amicizia a rendervi un tributo.

CAVALIERE:

Sempre caro mi siete. De' cari amici miei,

Per tempo o lontananza, scordarmi io non saprei.

Se vengono a vedermi, ne ho piacer, ne ho diletto;

Serbo lor, se non vengono, il medesimo affetto;

Stessero i mesi e gli anni a favorirmi ancora,

Quando mi favoriscono son grato a chi mi onora.

PAOLINO:

Bel rimprovero, amico, gentile ed amoroso!

Lo so che al mio dovere fui finor neghittoso.

Dovea, due mesi sono, venire al Feudo vostro,

A darvi un testimonio del primo affetto nostro;

Ma i domestici affari...

CAVALIERE:

Vi prego, in cortesia,

Sono le cerimonie sbandite in casa mia.

Se amor qua vi conduce, gradisco il vostro affetto,

E se obbedirvi io deggio, che comandiate aspetto.

PAOLINO:

Sì, amico, a voi mi guida l'amore e il dover mio;

Con voi me ne condolgo...

CAVALIERE:

Di che?

PAOLINO:

Di vostro zio

So che dopo due mesi ch'egli mancò di vita,

Non dovrei rinnovarvi nel cuore una ferita.

Lo so ch'egli vi amava, so che voi pur l'amaste,

E fui a parte anch'io del duol che ne provaste.

CAVALIERE:

Gradisco i buoni uffici di un generoso amico,

Ma noto esser dovrebbevi il mio costume antico.

Delle sventure umane affliggermi non soglio,

Né con vil debolezza, né con soverchio orgoglio.

Lo zio, ch'era mortale, pagato ha il suo tributo;

Per prolungar suoi giorni fec'io quanto ho potuto.

Della natura umana i primi moti ho intesi,

Ma a rispettare il fato dalla ragione appresi;

Dicendo fra me stesso, se morto ora è lo zio,

Perché dolermi tanto, se ho da morire anch'io?

E dopo la mia morte a me che gioveranno

Le lacrime e i singhiozzi di quei che resteranno?

La vita è troppo breve per trapassarla in guai;

Abbiam delle sventure da tollerare assai;

E quei che più si affliggono degl'infortuni usati,

Vivono men degli altri, sono a se stessi ingrati.

PAOLINO:

Questa filosofia piacemi estremamente.

Il mal non è più male, se l'anima nol sente.

Resti in pace lo zio, che fatto ha un sì gran volo;

Della vostra virtude con voi me ne consolo.

E poi, se all'amicizia libertà si concede,

Godo ch'ei v'abbia fatto di sue ricchezze erede.

CAVALIERE:

Con quella indifferenza, con cui della sua morte

Ho ricevuto il colpo, accolta ho la mia sorte.

Cosa son questi beni? Parlo col cuor sincero,

Ricusarli non deggio, ma non li stimo un zero.

Col scarso patrimonio dal padre ereditato

Vissi finor tranquillo, contento del mio stato.

Finor la mensa mia ebbi ogni dì imbandita

D'alimento discreto per conservarmi in vita.

Potei decentemente finora andar vestito,

Un servitor bastavami per essere servito.

Qualche piacer potevami prendere onestamente;

Avea de' buoni amici, vivea felicemente.

E misurando i pesi colle mie scarse entrate,

Le partite bastavami vedere equilibrate.

Or le nuove ricchezze a che mi serviranno,

Se non se per accrescermi qualche novello affanno?

Ma io, per evitare qualunque dispiacenza,

Serberò in ogni stato l'usata indifferenza.

PAOLINO:

Un simile costume è ottimo, lo so;

Ma sempre indifferente essere non si può.

Nascono di quei casi, in cui non val ragione

Per superare i stimoli d'ingenita passione.

L'uomo non è insensibile; lo stoico più severo

Pena sugli appetiti a sostener l'impero;

E ad onta dello studio, in pratica si vede,

Che alla natura umana l'uom si risente e cede.

CAVALIERE:

Tutti siam d'una pasta, anch'io ve lo concedo,

Ma vincolato il cuore negli uomini non credo.

Se fossimo costretti cedere alla passione,

Inutile sarebbe l'arbitrio e la ragione;

Né merto, né demerito si avria nel mal, nel bene,

Lo che all'uom ragionevole di attribuir sconviene.

E il seguitar dell'anima i volontari aiuti,

È quel che ci distingue dal genere dei bruti.

PAOLINO:

Dunque, per quel ch'io sento, privo d'ogni passione,

Siete un novel filosofo più stoico di Zenone.

CAVALIERE:

Non fondo il mio sistema sopra gli esempi altrui;

Ciascun dee onestamente seguire i pensier sui.

Amo il ben della vita, i comodi non sprezzo,

Ma sono anche agl'incomodi a rassegnarmi avezzo.

Talora un ben mi arriva, un mal talor m'avviene;

Io sono indifferente al mal siccome al bene.

PAOLINO:

Voi, che avete sinora l'indifferenza amato,

Ditemi, foste mai di donna innamorato?

CAVALIERE:

Mai, per grazia del cielo.

PAOLINO:

Grazia è del cielo, è vero.

Io posso dir per prova quanto amor sia severo.

CAVALIERE:

Non ho per dire il vero, cercato innamorarmi;

Ma dall'amar nemmeno cercato ho di sottrarmi;

Di belle donne al fianco mi ritrovai talora,

Conobbi il loro merito, ma non mi accesi ancora;

Onde, o finor non vidi donna in cuor mio possente,

O il cuore ho per natura da tal passione esente.

Questa freddezza interna so che un piacer mi toglie,

Ma so ancor che l'amore reca tormenti e doglie;

E in dubbio che mi rechi amor gioia, o tormento,

Son dell'indifferenza lietissimo e contento.

PAOLINO:

Cavaliere, credetemi, arriverà quel dì,

Che il vostro core acceso non penserà così.

CAVALIERE:

Può darsi; anch'io son uomo, so che l'uom s'innamora,

Posso anch'io innamorarmi, ma non l'ho fatto ancora.

PAOLINO:

Sarà pur necessario, che voi prendiate stato.

CAVALIERE:

Necessario? perché?

PAOLINO:

Lo zio non vi ha lasciato

L'obbligo in testamento, ragionevole, onesto,

Di maritarvi?

CAVALIERE:

È vero. Ma qual ragion per questo?

Quand'io non mi marito, e altrui le facoltà

Passin del testatore, per me che mal sarà?

Contento del mio stato viver potei finora;

Potrei senza i suoi beni viver contento ancora.

PAOLINO:

La contessa Lavinia, che a voi fu destinata

Dallo zio per consorte, da voi non è curata?

CAVALIERE:

La venero, la stimo, di soddisfare io bramo

Dello zio l'intenzione, ma per dir ver, non l'amo.

PAOLINO:

Ma se voi di marito non date a lei la fede,

Ella dal testatore vien dichiarata erede.

CAVALIERE:

Questa minaccia orribile non giunge a spaventarmi,

Come non mi spaventa l'idea d'accompagnarmi.

Darò alla Contessina forse la mano e il core

Ma violentar non voglio l'indifferente amore.

PAOLINO:

(Buon per me, ch'ei negasse di acconsentire al nodo.

Di conseguir Lavinia mi si offrirebbe il modo). (Da sé.)

Pigliereste una donna senza provarne affetto?

CAVALIERE:

L'amerei per dovere, se non per mio diletto.

Esser potrà sicura, ch'io non farolle un torto,

Ma per amor non speri vedermi a cascar morto.

Di me sarà contenta, se bastale la fede.

PAOLINO:

Eh, la donna, signore, altro dall'uom richiede.

Sollecita agli amplessi, quel ch'ella brama, io so.

CAVALIERE:

Io non mi vo' confondere, farò quel che potrò.

PAOLINO:

(L'amore e l'amicizia guerra mi fan nel seno.

Alla passion che agita, ponga ragione il freno). (Da sé.)

SCENA SECONDA

Fabrizio e detti.

FABRIZIO:

Signore, in questo punto venuto è a tutta briglia

Il conte Policastro e la contessa figlia.

CAVALIERE:

Da me? che stravaganza?

PAOLINO:

(Oh incontro periglioso!) (Da sé.)

CAVALIERE:

Vengano, son padroni. (A Fabrizio che parte.)

PAOLINO:

(Stiasi il dolore ascoso). (Da sé.)

CAVALIERE:

Dacché morto è lo zio, non li ho veduti ancora.

Il padre a qual motivo venir colla signora?

PAOLINO:

Questo è un segno di stima.

CAVALIERE:

È ver, ma ciò non si usa.

PAOLINO:

Il sangue, la campagna, gli può servir di scusa.

CAVALIERE:

Sentiam che cosa dicono la figlia e il genitore.

PAOLINO:

In simile sorpresa cosa vi dice il cuore?

CAVALIERE:

Il cuor non mi predice nulla di stravagante;

Più volte la Contessa veduta ho nel sembiante,

E con l'indifferenza con cui l'ho già veduta,

Spero di rivederla in casa mia venuta.

PAOLINO:

Ora vi si presenta con titolo specioso.

CAVALIERE:

Che vuol dir?

PAOLINO:

Come sposa dinanzi al caro sposo.

CAVALIERE:

Il titolo di sposo ancor non accettai.

PAOLINO:

(Prego il cielo di cuore, che non l'accetti mai). (Da sé.)

SCENA TERZA

Il Conte Policastro, la Contessa Lavinia e detti.

PAOLINO:

Eccoli per l'appunto.

CONTE:

Schiavo di lor signori.

CAVALIERE:

Riverente m'inchino: che grazie, che favori

Impartiti mi vengono con generoso cuore

Da una dama compita, da un sì gentil signore?

CONTE:

L'amore ed il rispetto... anzi le brame nostre...

Fate voi, Contessina, le mie parti e le vostre.

LAVINIA:

Alla città tornando, siamo di qui passati;

Riposano i cavalli dal corso affaticati,

E di fermarci un poco l'agio da voi si spera.

CAVALIERE:

(Quanto cortese è il padre, tanto la figlia è altera). (Da sé.)

LAVINIA:

(Temo che don Paolino disturbi il mio disegno). (Da sé.)

PAOLINO:

(La Contessa è confusa). (Da sé.)

CONTE:

(Sono in un doppio impegno).

CAVALIERE:

Sia qualunque il motivo che trattener vi sproni,

Casa mia è casa vostra, di lei vi fo padroni.

Ehi, da seder. (I Servitori recano le sedie.)

CONTE:

Signore, venuti a ritrovarvi

Siamo per desiderio... (Al Cavaliere.)

LAVINIA:

Non già d'incomodarvi. (Al Cavaliere.)

Ma trapassando, a caso, ci siam fermati qui.

Non è vero, signore? (Al Conte.)

CONTE:

Bene; sarà così.

PAOLINO:

Perdon (se troppo ardisco) alla Contessa io chiedo;

Che opera sia del caso il suo venir non credo.

E il Cavaliere istesso, benché di creder finga,

Di una cagion più bella l'animo suo lusinga.

CAVALIERE:

Senza ragione, amico, voi giudicate al certo.

So ben che una finezza, so che un favor non merto.

Senza fatica alcuna da me son persuaso,

Che abbia qui trattenuta questa damina il caso.

CONTE:

Non signor, per parlarvi con tutta verità...

LAVINIA:

Di veder questo Feudo s'avea curiosità.

Il zio del Cavaliere, ch'era mio zio non meno,

So che piacer vi prese, so che l'ha reso ameno.

Parlar delle fontane, parlar de' bei giardini,

Ho più volte sentito ancor ne' miei confini.

Bramai con tale incontro veder le cose udite.

Ditel voi, non è vero? (Al Conte.)

CONTE:

Sarà come voi dite.

PAOLINO:

Ma delle tante cose degne d'ammirazione

Veder non desiate anche il gentil padrone? (Alla Contessa.)

CAVALIERE:

Qual brama aver potrebbe la nobile fanciulla

Di veder un che al mondo conta sì poco, o nulla?

Parlar di tai delizie avrà sentito assai;

Non avrà di me inteso a favellar giammai.

Poco son io sociabile, vivo al rumor lontano,

Scarsissimo di mente, filosofo un po' strano;

Non ho quel brio giocondo, non ho quell'intelletto,

Che altrui di rivedermi possa ispirar l'oggetto.

CONTE:

Non è la prima volta, che noi ci siam veduti:

Sono i meriti vostri palesi e conosciuti.

Mia figlia che, per dirla, ne sa più di un dottore,

Fa di voi molta stima.

CAVALIERE:

Non merto un tale onore.

CONTE:

Io che padre le sono, e padre compiacente,

So che il suo cor...

LAVINIA:

Scusate; non sapete nïente. (Al Conte.)

CONTE:

Sarà così.

LAVINIA:

Il mio core conosce il suo dovere,

Sa che a figlia non lice venir da un cavaliere.

Sol per vedere il Feudo si prese un tal sentiero;

Non è vero, signore? (Al Conte, arditamente.)

CONTE:

Sì, cara figlia, è vero.

PAOLINO:

Da un simile discorso chiaro si può capire,

Cavalier, ch'ella teme di farvi insuperbire.

Maschera la cagione, che a lei servì di scorta,

Ma non è per nascondersi bastantemente accorta.

CONTE:

Male le mie parole, signore, interpretate. (A don Paolino.)

CAVALIERE:

Amico, questa volta, lo so anch'io, v'ingannate. (A don Paolino.)

Questa dama di spirito sa quel che mi conviene;

Per me il tempo prezioso a perdere non viene;

E quando un tanto onore venissemi da lei,

Credetemi, superbo per questo io non sarei.

LAVINIA:

Crederebbe il tributo men del suo merto ancora.

CONTE:

Che prontezza di spirito!

CAVALIERE:

Non per ciò, mia signora,

Ma io, per mio costume, sono egualmente avvezzo

A non curar gli onori, e a non curar lo sprezzo.

LAVINIA:

Signor, l'avete inteso? Può dir più francamente,

Che di me non si cura? (Al Conte.)

CONTE:

Si vede apertamente. (Alla Contessa.)

CAVALIERE:

Eppure il mio rispetto in ogni tempo e caso

Son pronto a dimostrarle. (Al Conte.)

CONTE:

Di ciò son persuaso.

PAOLINO:

Questo linguaggio oscuro capite, Conte mio,

Cosa voglia inferire? (Al Conte.)

CONTE:

Non lo so nemmen io.

LAVINIA:

Pare che non vi voglia a intenderlo gran cosa:

Il Cavalier paventa ch'io voglia esser sua sposa;

Teme che il testamento ad osservar lo astringa,

Ch'io voglia porre in pratica la forza o la lusinga.

Spiacegli rinunziare dei beni una metà;

Meco goderli unito inclinazion non ha.

Il coraggio gli manca per dire, io non ti voglio;

Cerca le vie più facili per ischivar lo scoglio.

Onde in forma ci tratta dubbia, confusa e strana.

Parvi che al ver mi apponga? (Al Conte.)

CONTE:

Non siete al ver lontana.

CAVALIERE:

La Contessa s'inganna, s'ella mi crede avaro;

Poco i comodi apprezzo, pochissimo il danaro.

Tanto è lontan ch'io peni seco a spartire il frutto,

Che se il desia, son pronto a rilasciarle il tutto.

Molto più sbaglia ancora, se crede ai desir miei

Possa riescir penoso il vincolarmi a lei.

Del zio dopo la morte non si è parlato ancora,

Il mio pensiere in questo non ispiegai finora;

E se in lei tal sospetto senza ragion prevale,

Sembra ch'ella mi sprezzi. (Al Conte.)

CONTE:

Affé, non dice male. (Alla Contessa.)

PAOLINO:

Conte, non vi affliggete, temendo i loro sdegni;

Questi arguti rimproveri sono d'amore i segni.

Da così buon principio molto sperar conviene.

CONTE:

Don Paolino, io credo che voi diciate bene.

PAOLINO:

Dagli occhi e dalle labbra il di lei cuor comprendo. (Alla Contessa, in modo di rimproverarla con arte.)

CONTE:

Ah! che dite, figliuola? (Alla Contessa.)

LAVINIA:

(Don Paolino intendo). (Da sé.)

PAOLINO:

Il Cavaliere anch'esso arde d'amor per lei.

CONTE:

Sentite? Rispondete. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Non dico i fatti miei.

CONTE:

Orsù, noi siam venuti...

LAVINIA:

Per divertirci, a caso. (Con aria sprezzante.)

CAVALIERE:

Via, non vi affaticate, che ne son persuaso. (Alla Contessa.)

CONTE:

Sì signor, siam venuti a caso, come vuole;

Ma posto che ci siamo, diciam quattro parole.

Parliam del testamento...

LAVINIA:

Signor, con sua licenza, (s'alza.)

Parlar di tal affare non deesi in mia presenza.

Se immaginar poteva tal cosa intavolata,

Signor, ve lo protesto, non mi sarei fermata.

Impedire non deggio che il genitor ragioni;

Servisi pur, ma intanto, s'io vado via, perdoni.

D'uopo di mia presenza in quest'affar non c'è,

Le mie ragioni il padre può dir senza di me.

Egli non ha bisogno della figliuola allato.

CONTE:

Ma io senza di voi mi troverò imbrogliato.

CAVALIERE:

Sola vuol la Contessa partir da questo loco?

LAVINIA:

Anderò nel giardino a passeggiare un poco.

CONTE:

Dunque il parlar sospendo.

LAVINIA:

Anzi parlar dovete.

CONTE:

Ma che poss'io risolvere, quando voi non ci siete?

Io non ho gran memoria; mi scordo facilmente.

LAVINIA:

Con voi don Paolino può rimaner presente.

PAOLINO:

Ch'io nel giardin vi serva, signora mia, sdegnate?

LAVINIA:

Per compagnia del padre bramo che voi restiate.

Non so se il Cavaliere in mio favore inclini,

Non so a qual condizione il padre mi destini;

E in voi, don Paolino, che siete un uom d'onore,

Lascio alle mie ragioni l'amico e il difensore. (Parte.)

SCENA QUARTA

Il Conte, il Cavaliere e don Paolino.

PAOLINO:

(Or son bene imbrogliato). (Da sé.)

CAVALIERE:

Don Paolino, si vede

Ch'io sono un uom sospetto, e che in voi solo ha fede.

PAOLINO:

Se di ciò vi dolete, io parto in sul momento.

CAVALIERE:

No, no, restate pure, anzi ne son contento.

Un uomo come me, che parla chiaro e tondo,

Non teme di spiegarsi in faccia a tutto il mondo.

Parli il Conte a sua posta, e quando egli ha parlato,

Fate voi per la dama l'amico e l'avvocato.

CONTE:

In pochissimi accenti dirò il mio sentimento.

D'Alfonso mio cugino vi è noto il testamento.

Per noi siamo prontissimi a dargli esecuzione;

Di voi saper si brama quale sia l'intenzione.

CAVALIERE:

Dirò...

PAOLINO:

Con buona grazia; pria che il parlar si avanzi,

Del cuor della fanciulla siete sicuro innanzi?

CONTE:

Non crederei che avesse dissimile intenzione;

E poi son io suo padre, son io quel che dispone.

PAOLINO:

È ver, ma il di lei cuore meglio convien sapere;

Né si dee ad un affronto esporre il Cavaliere.

CAVALIERE:

No, amico, vi ringrazio; so compatire il sesso;

Mi accetti, o mi ricusi, per me sarà lo stesso.

Basta che non si dica, ch'io sono un uomo ingrato

Al zio, che a mio dispetto mi vuol beneficato.

CONTE:

Meglio non può parlare. Su dunque, in testimonio

D'amor, di gratitudine, facciamo il matrimonio.

PAOLINO:

Farlo per l'interesse sarebbe un folle inganno:

Non ebbe il testatore l'idea d'esser tiranno.

E voi che li affrettate al nodo repentino,

Esser cagion potete di un pessimo destino. (Al Conte.)

CONTE:

Non vorrei aggravarmi, per dir la verità.

PAOLINO:

Dunque espiar dovete dei cor le volontà.

CAVALIERE:

Della mia disponete.

PAOLINO:

E se la figlia oppone?

CONTE:

Sarebbe un altro imbroglio. Saria una confusione.

Lo zio col testamento vuole che siano uniti,

E se un di lor ricusa, suscita imbrogli e liti.

CAVALIERE:

Io litigar non voglio.

PAOLINO:

Il Cavalier si vede

Che è di cuor generoso, e che si accheta e cede,

Pronto a lasciare ad essa tutto l'intiero stato.

CAVALIERE:

Fate assai ben le parti d'amico e d'avvocato.

So disprezzare i beni, posso donare il mio;

Ma gli altri non dispongono, quando il padron son io.

Lodo che per la dama siate di zelo acceso,

Parmi aver di tal zelo l'occulto fin compreso.

Non curo le ricchezze, non sono innamorato,

Ma per soffrire i torti, non sono un insensato.

Parli pur la Contessa, esponga i suoi desiri,

Non creda che il mio cuore a violentarla aspiri.

Son pronto un sagrifizio fare alla dama onesta,

Ma d'obbligarmi a farlo la via non è codesta;

E voi, don Paolino, che forse in altro aspetto

Veniste a prevenire la dama in questo tetto,

Sappiate ch'io son tutto a compatire usato,

Fuori che un cuor mendace, ed un amico ingrato. (Parte.)

CONTE:

Questo latino oscuro spiegatemi in volgare.

PAOLINO:

Evvi ragione alcuna, ond'abbia a sospettare?

CONTE:

Non crederei.

PAOLINO:

Vi pare ch'io non sia un onest'uomo?

CONTE:

Almeno all'apparenza sembrate un galantuomo.

PAOLINO:

Dunque ei mi fece un torto.

CONTE:

Sarà non me n'intendo.

PAOLINO:

Le mie soddisfazioni da voi medesmo attendo.

CONTE:

Da me?

PAOLINO:

Da voi, signore. Da voi solo si deve...

Basta, ci parleremo: ci rivedremo in breve. (Parte.)

CONTE:

Ecco un novello imbroglio. Che diavolo sarà?

Io soddisfar lo deggio. Oh bella in verità!

Lo dirò alla figliuola; che fare io non saprei.

S'ella ritrova il modo, che lo soddisfi lei. (Parte.)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Il Cavaliere e Fabrizio.

CAVALIERE:

Dunque, per quel ch'io sento, restano qui con noi.

FABRIZIO:

Sì signor, me l'han detto i servidori suoi.

CAVALIERE:

Dunque pensar conviene a un trattamento onesto.

Io vi darò il danaro, voi penserete al resto.

FABRIZIO:

Quanti saranno a tavola?

CAVALIERE:

Non li vedeste or ora?

FABRIZIO:

Resta fra i commensali don Paolino ancora?

CAVALIERE:

Credo che sì.

FABRIZIO:

Perdoni, s'io parlo e dico male;

Parmi don Paolino del mio padron rivale.

CAVALIERE:

Rival per quale oggetto?

FABRIZIO:

Par che mi dica il core,

Ch'egli colla Contessa faccia un poco all'amore.

CAVALIERE:

E per questo, che importa?

FABRIZIO:

Cospetto! in casa mia

Non soffrirei un uomo di simile genia.

Un che mi fa l'amico, e poi, che sottomano

Viene a far il grazioso? Lo caccerei lontano.

CAVALIERE:

Anzi ho piacer ch'ei resti, ed abbia il campo aperto

Qualunque suo pensiere di rendere scoperto.

Può darsi che la dama per lui conservi stima;

Se ciò è ver, non mi preme, ma vuò saperlo in prima.

Certo, ch'ei non doveva coprire i fini sui;

Ma se l'azione è indegna, peggio sarà per lui.

FABRIZIO:

E soffrir lo potete senz'ira e senza sdegno?

CAVALIERE:

Non perdo la mia pace per un sì lieve impegno.

Di quanto male al mondo l'uomo recarci aspira,

Maggior è il mal che interno noi ci facciam coll'ira.

Può rapirci alcun bene forse l'altrui livore,

Ma ogni perdita è lieve, se ci risparmia il cuore.

E chi dall'ira ardente sentesi il cuore oppresso,

Trova ovunque il motivo di macerar se stesso.

So distinguer gli oltraggi, detesto il vil costume,

So che rispetto esige dell'amicizia il nume;

Ma senza ch'io rilasci alle querele il freno,

Lascio che il reo puniscano i suoi rimorsi in seno.

FABRIZIO:

Io che non son filosofo, siccome è il mio padrone,

Quando qualcun mi oltraggia, adopero il bastone.

Mi faccia questa grazia, caro il mio padroncino,

Mi lasci, come merita, trattar don Paolino.

CAVALIERE:

Quel che per me non si usa, nei servi miei detesto.

FABRIZIO:

Se indifferente è in tutto, può esserlo anche in questo.

CAVALIERE:

Indifferente io sono al mal siccome al bene,

Ma non già nel discernere quel che all'onor conviene.

In casa mia non voglio che un ospite si oltraggi;

Non servaci di scusa l'esempio dei malvaggi.

Alle incombenze vostre sollecito badate;

Lasciate a me il pensiere di regolarmi: andate.

FABRIZIO:

Non parlo più, signore. Vuol così? così sia.

Questa bella politica non si usa in casa mia;

Perché certo proverbio io mi ricordo ancora,

Che quando un si fa pecora, il lupo la divora.

E innanzi di vedermi dal dente divorato,

Questa è la mia sentenza, prima il lupo accoppato.

SCENA SECONDA

Il Cavaliere, poi Fabrizio.

CAVALIERE:

Spirito di vendetta è una passione indegna;

Un così vil diletto entro al cuor mio non regna.

Che giovami vedere il mio nemico oppresso?

Perisca, o non perisca, io son sempre lo stesso.

FABRIZIO:

Signore, un forastiero brama venire avanti.

CAVALIERE:

Venga pure.

FABRIZIO:

Il suo nome non mi domanda innanti?

CAVALIERE:

Inutile domanda. Quando verrà, il saprò.

Ma via, come si chiama?

FABRIZIO:

In verità nol so.

CAVALIERE:

Dunque non sei curioso, se ancor non l'hai saputo.

FABRIZIO:

Son curioso benissimo: ma dir non l'ha voluto.

CAVALIERE:

Fa ch'ei venga.

FABRIZIO:

Non deggio pria ricercar che brama?

Saper di dove viene, saper come si chiama?

CAVALIERE:

Lo farò da me stesso.

FABRIZIO:

Ma necessario egli è,

Ch'esponga l'imbasciata prima di tutti a me.

CAVALIERE:

La ragion?

FABRIZIO:

A me pare, che voglia ogni ragione,

Ch'io conosca chi vuole venir dal mio padrone.

CAVALIERE:

O via, per questa volta fallo venir.

FABRIZIO:

Cospetto!

S'ei non si dà a conoscere, venir non gli permetto.

CAVALIERE:

Nemmen per farmi grazia?

FABRIZIO:

Vuò fare il mio dovere.

CAVALIERE:

Ma non son io il padrone?

FABRIZIO:

E io non son cameriere?

CAVALIERE:

Che vuol dir?

FABRIZIO:

Che vuol dire, egli non passerà,

Se il nome ed il cognome svelar non mi vorrà.

CAVALIERE:

No davver?

FABRIZIO:

No davvero.

CAVALIERE:

Parli di cor?

FABRIZIO:

Di core.

CAVALIERE:

Evvi d'andare in collera un'occasion migliore?

Ma non vuò che un mio servo l'ira mi desti in petto

E licenziarti in pace saprò, te lo prometto.

Per evitare in tanto ogni bilioso eccesso,

Il forastier che aspetta, introdurrollo io stesso.

Venga, signor. (Accostandosi alla porta.)

FABRIZIO:

Perdoni.

CAVALIERE:

Basta così, per ora.

FABRIZIO:

(Un padron più pacifico non ho veduto ancora). (Da sé, e parte.)

SCENA TERZA

Il Cavaliere, poi il signor Giacinto.

CAVALIERE:

Perch'io mai non mi sdegno, prende costui baldanza,

Ma saprò colle buone fargli cambiare usanza.

E se poi persistesse a far meco il dottore,

Costami poca pena cambiare un servidore.

GIACINTO:

Cavalier, vi saluto.

CAVALIERE:

Vostro buon servitore.

GIACINTO:

Voi non mi conoscete.

CAVALIERE:

Non ho ancor quest'onore.

GIACINTO:

Io son Giacinto Ottangoli, nobile milanese.

CAVALIERE:

Della famiglia vostra molto parlar s'intese.

Qual fortuna, signore, havvi da me guidato?

GIACINTO:

Compatite, vi prego, un cuore innamorato.

Ritornato da un viaggio, trovai fuor di città

Quella che mia consorte un giorno esser dovrà.

Seppi ch'era in campagna, a ritrovarla andai,

Ma i passi miei fur vani, e più non la trovai.

Mi dissero le genti, ch'ella sul far del dì

Partissi, e che il suo viaggio esser dovea fin qui.

Onde di voi sapendo la bontà generosa,

Venni qui arditamente a ritrovar la sposa.

CAVALIERE:

Bellissima davvero!

GIACINTO:

Andiamo per le corte:

La contessa Lavinia venuta è a queste porte?

CAVALIERE:

Sì signore, è venuta.

GIACINTO:

Partì da questo loco?

CAVALIERE:

Non ancor.

GIACINTO:

Con licenza...

CAVALIERE:

Piano, signore, un poco. (Lo trattiene.)

GIACINTO:

Deh non mi trattenete, deh lasciate che almeno

Provi qualche respiro, nel rivederla, in seno!

CAVALIERE:

Quant'è che voi mancate?

GIACINTO:

Tre mesi... (Come sopra.)

CAVALIERE:

Favorite.

Carteggiaste con essa?

GIACINTO:

Non carteggiai... (Come sopra.)

CAVALIERE:

Sentite.

Vi è noto il testamento...

GIACINTO:

Che importa a me di questo?

Lasciate ch'io la veda, poi mi direte il resto. (Come sopra.)

CAVALIERE:

Signor, voi finalmente siete nel tetto mio;

Prima che la vediate, vorrei parlare anch'io.

GIACINTO:

Come! sareste forse mio rivale in amore?

CAVALIERE:

Voi non saprete nulla, se non calmate il cuore.

GIACINTO:

Informatemi dunque.

CAVALIERE:

Saprete, che suo zio...

GIACINTO:

Voglio prima di tutto veder l'idolo mio. (In atto di partire.)

CAVALIERE:

Ma non così furioso.

GIACINTO:

Se voi provaste il foco...

CAVALIERE:

Prima di rivederla, voglio informarvi un poco.

GIACINTO:

Presto, per carità.

CAVALIERE:

Presto più che potrò.

La Contessa, il saprete, aveva un zio.

GIACINTO:

Lo so. (Con impazienza.)

CAVALIERE:

Or sappiate che è morto.

GIACINTO:

Che ho da far io per ciò?

CAVALIERE:

Avete da sapere, che il zio col testamento

Ordinò alla nipote un altro accasamento.

GIACINTO:

Come, a un uomo mio pari si fan di questi torti?

Vengono a mio dispetto a comandare i morti?

Saprò, chi vuol rapirmi della mia bella il cuore,

Mandare all'altro mondo, unito al testatore.

CAVALIERE:

(Viene a me il complimento) (Da sé.)

GIACINTO:

Voglio veder la sposa. (In atto di partire.)

CAVALIERE:

Prima che la vediate, sentite un'altra cosa.

GIACINTO:

Che pazienza!

CAVALIERE:

L'erede, che pur dovria sposarla,

Senza rammaricarsi non pena a rinunziarla.

Con lui l'aggiusterete, ma il punto sta, signore,

Ch'evvi, a quel che si vede, un altro pretensore.

GIACINTO:

Ditemi chi è l'indegno, ditelo all'ira mia.

CAVALIERE:

Più di ciò non vi dico, se date in frenesia.

GIACINTO:

Compatite l'amore.

CAVALIERE:

Calmatevi un pochino.

GIACINTO:

Se lo so, se lo scopro, so io quel che destino.

CAVALIERE:

Siete assai furibondo.

GIACINTO:

Mi scaldo all'improvviso.

CAVALIERE:

Ditemi in confidenza, quanti ne avete ucciso?

GIACINTO:

Come! mi deridete?

CAVALIERE:

No, vi rispetto e stimo.

GIACINTO:

Niun mi ha deriso al mondo, né voi sarete il primo.

CAVALIERE:

Ma voi col vostro merito, e poi con il valore,

Concepir non dovreste di perderla il timore.

Vi ama la Contessina?

GIACINTO:

So che mi ama, e molto.

CAVALIERE:

Ve l'ha detto?

GIACINTO:

Finora non l'ho veduta in volto.

CAVALIERE:

Mai l'avete veduta?

GIACINTO:

Mai, ma so ch'è vezzosa. (Con tenerezza.)

CAVALIERE:

(Oh che bel capo d'opera!) Ma come è vostra sposa?

GIACINTO:

Come, come, lasciate ch'io vada in un momento...

CAVALIERE:

No, prima di vederla, svelate il fondamento.

GIACINTO:

Pensate voi, signore, ch'io mi lusinghi invano?

Preso forse mi avete per un parabolano?

La Contessa è mia sposa, lo proverò col fatto:

Delle nozze concluse eccovi qui il contratto. (Mostra un foglio.)

Ecco la soscrizione del di lei genitore.

Sposa mia benedetta! idolo del mio cuore! (Bacia la carta.)

CAVALIERE:

Veggo il padre soscritto, ma non la figlia istessa.

GIACINTO:

Figlia non sottoscrive dal genitor promessa.

E poi so che Lavinia è di me innamorata.

CAVALIERE:

Dubito questa cosa non se la sia scordata.

GIACINTO:

Perché?

CAVALIERE:

Perché mi pare che a qualcun altro inclini.

GIACINTO:

No, se spender dovessi centomila zecchini.

E poi suo padre istesso, s'è un cavalier d'onore,

Manterrà la parola.

CAVALIERE:

Ecco il suo genitore.

GIACINTO:

Viene a tempo. Cospetto!

CAVALIERE:

In casa mia badate

Non perdergli il rispetto, e di non far bravate.

GIACINTO:

Io, dovunque mi trovi, vuò dir le mie ragioni.

CAVALIERE:

Zitto, che in casa io tengo servi, corde e bastoni. (Mostra dirlo in confidenza e Giacinto si modera un poco.)

SCENA QUARTA

Il Conte Policastro e detti.

CONTE:

Cavaliere, mia figlia...

GIACINTO:

Dov'è la sposa mia? (Al Conte.)

CONTE:

Servitore umilissimo di vostra signoria. (A Giacinto, con sorpresa.)

CAVALIERE:

Conte, lo conoscete?

CONTE:

Mi pare e non mi pare.

CAVALIERE:

Vi dovreste di lui meglio assai ricordare.

CONTE:

(Il diavol l'ha mandato). (Da sé.)

GIACINTO:

Eccomi ritornato

Al suocero cortese.

CONTE:

Servitore obbligato.

GIACINTO:

Con sì poca accoglienza il genero incontrate?

CONTE:

Genero? (Con ammirazione.)

GIACINTO:

Poffar bacco! voi mi maravigliate.

Non è genero vostro, colui che la parola

Ebbe da voi di dargli per sposa una figliuola?

Genero non si dice ad un, che per contratto

Deve la Contessina sposare ad ogni patto?

So che scherzar volete, ma non è il tempo e il loco.

Vado a veder la sposa; ci rivedrem fra poco. (In atto di partire.)

CAVALIERE:

Fermatevi un momento. (Trattenendolo.)

GIACINTO:

Ma questa è un'insolenza. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Chi è di là? (Mostrando di chiamare i Servitori.)

GIACINTO:

Non signore. Sto qui con sofferenza. (Con qualche timore.)

CAVALIERE:

Prima di passar oltre, dilucidiamo il fatto.

Voi col signor Giacinto formaste alcun contratto? (Al Conte.)

CONTE:

Non mi ricordo bene.

GIACINTO:

Se non vi ricordate

Il contratto l'ho meco; eccolo qui, mirate. (Mostra il foglio al Conte.)

CAVALIERE:

Il carattere è vostro?

CONTE:

È mio, non so negarlo.

Ma ho fatto quel che ho fatto, senza intenzion di farlo.

CAVALIERE:

Lo faceste dormendo?

CONTE:

Pur troppo er'io svegliato.

Venne questo signore furioso indiavolato;

Non mi vergogno a dirlo, sono un pochin poltrone,

E ho fatto per paura la mia sottoscrizione.

Che ciò sia ver, mirate, che cifera è codesta?

CAVALIERE:

Un C. ed un P.! la cifera è chiara e manifesta;

Il Conte Policastro rilevasi a drittura.

CONTE:

No, quel C. con quel P. voglion dir con paura.

GIACINTO:

Non soffrirò l'oltraggio, sia frode, ovver pazzia.

Prometteste la figlia, e la figliuola è mia.

CONTE:

Sono tre i pretensori; io lascio, in quanto a me,

Per contentar ciascuno, che si divida in tre.

GIACINTO:

Quai sono i miei rivali?

CONTE:

Eccone uno qui. (Accennando il Cavaliere.)

GIACINTO:

Il Cavalier? (Con ammirazione.)

CAVALIERE:

La cosa non sarà poi così.

È ver che un testamento a lei mi ha destinato,

Ma di seguirlo ancora non trovomi impegnato.

GIACINTO:

Strano pareami al certo, che ardisse in faccia mia

Accendermi un rivale di sdegno e gelosia.

Non soffrirei l'insulto, signor, ve lo protesto.

CAVALIERE:

Eppure i miei riguardi non nascono da questo.

Siccome indifferente sono in ogni altro impegno,

La stessa indifferenza avrei pel vostro sdegno.

Quello che mi trattiene a stringere il legame,

È del cuor della dama il non saper le brame.

GIACINTO:

Ella, ne son sicuro, a me non farà torto.

Ditel voi, s'ella mi ama. (Al Conte.)

CONTE:

Non me ne sono accorto.

So che quando le dissi la vostra inclinazione,

Risposemi Lavinia con tutta sommissione:

Padre, ai vostri comandi io contrastar non soglio;

Datemi voi lo sposo, ma questo io non lo voglio.

CAVALIERE:

Veramente vi adora.

GIACINTO:

Eh non gli credo un fico.

Questa cosa è impossibile, con fondamento il dico.

Nessuna in questo mondo l'amor mi ha ricusato,

L'idolo delle donne sempre finor son stato.

Hanno fatto pazzie per me le più vezzose;

Tutte ambiscono a gara di divenir mie spose;

Esser non può codesta all'amor mio nemica.

Questo vecchio insensato non sa quel che si dica.

CONTE:

Sarà com'ella dice.

GIACINTO:

Uomo senza intelletto.

CAVALIERE:

Basta, signor Giacinto. Portategli rispetto.

Lo merta per il grado, lo merta per l'età.

GIACINTO:

Vi abbraccio e vi perdono. (Al Conte.)

CONTE:

Grazie alla sua bontà.

GIACINTO:

Andiam dalla Contessa. Parvi sia tempo ancora? (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Andiam; vuò presentarvi io stesso alla signora.

GIACINTO:

No, non v'incomodate...

CAVALIERE:

So il mio dover...

GIACINTO:

Vi prego...

CAVALIERE:

Voglio assolutamente...

GIACINTO:

Costantemente il nego...

CAVALIERE:

Ed io costantemente accompagnarvi or bramo.

GIACINTO:

Troppo onor...

CAVALIERE:

Mio dovere...

GIACINTO:

Non so che dire...

CAVALIERE:

Andiamo. (Parte con Giacinto.)

CONTE:

Povero me! l'ho fatta, e non vi ho rimediato;

Volea dopo ricorrere, e me ne son scordato.

A quest'uomo collerico, che dire or non saprei;

Parli pur con mia figlia, io lascio fare a lei.

Nasca quel che sa nascere, alfin non mi confondo,

Vuò vedere un poltrone quanto sa stare al mondo. (Parte.)

SCENA QUINTA

La Contessa Lavinia e don Paolino.

LAVINIA:

Orsù, l'intolleranza del vostro cuore ardito

Potrà sollecitarmi a prendere un partito.

Meglio avereste fatto, almen per questo giorno,

Con simile imprudenza a non venirmi intorno.

PAOLINO:

Lo so, dovea lasciarvi in piena libertà

Di assicurarvi il bene di vostra eredità;

Pretender non doveva, in faccia al Cavaliere,

Suggerirvi la legge del giusto e del dovere.

LAVINIA:

Qual dover, qual giustizia?

PAOLINO:

Se vi ho donato il core,

È giustizia, è dovere, non mi neghiate amore.

LAVINIA:

Il cuor non è più un dono, se ne chiedete il prezzo.

PAOLINO:

Sia qualunque l'offerta, non merita un disprezzo.

LAVINIA:

Il merito si perde col voler, col pretendere:

Devesi la mercede con sofferenza attendere.

PAOLINO:

Ma il prossimo periglio fa palpitarmi il seno.

LAVINIA:

In faccia mia la tema dissimulate almeno.

PAOLINO:

Farlo non posso.

LAVINIA:

Andate dunque lontan di qua.

PAOLINO:

Che fia di me, s'io parto?

LAVINIA:

Sarà quel che sarà.

PAOLINO:

Perfida!

LAVINIA:

Olà, gl'insulti io tollerar non soglio.

PAOLINO:

Promettetemi almeno...

LAVINIA:

Promettere non voglio.

PAOLINO:

Posso perdervi adunque.

LAVINIA:

È l'avvenire incerto.

PAOLINO:

Disperatemi almeno; ditemi chiaro e aperto:

Vanne, non lusingarti; per te non sento amore,

Ti abborrisco, ti sprezzo.

LAVINIA:

Non lo acconsente il cuore.

PAOLINO:

Ah, se quel cor pietoso segue ad amarmi ancora,

Ditemi: sarò tua.

LAVINIA:

Nol posso dir per ora.

PAOLINO:

Questa dubbiezza ingrata... Ah il Cavalier!

SCENA SESTA

Il Cavaliere e detti.

CAVALIERE:

Seguite,

Anime innamorate, per me non vi smarrite;

Un uom compassionevole, un galantuomo io sono,

Agli accidenti umani, alle passion perdono.

LAVINIA:

Signor, la mia condotta giustificar desio.

PAOLINO:

Pria di giustificarvi, preceda il partir mio.

Cavalier, lo confesso, lo dico a mio rossore,

Col manto d'amicizia qui mi ha condotto amore:

Parto in questo momento; perdono a voi domando.

CAVALIERE:

No, partir non dovete; vi priego, e vel comando.

S'è ver che meco siate reo di qualche delitto,

Questo lieve castigo da me vi vien prescritto:

Per questo giorno almeno meco restar dovete;

Quando vel dica io stesso da queste soglie andrete.

PAOLINO:

La dolcissima legge di sofferir non sdegno,

Spero pietà e perdono da un cavalier sì degno.

Faccia di me la sorte quello che far destina,

Al voler delle stelle il mio voler s'inchina. (Parte.)

SCENA SETTIMA

Iil Cavaliere e la Contessa Lavinia.

CAVALIERE:

(si fa vedere a ridere).

LAVINIA:

Signor, perché ridete?

CAVALIERE:

Non son mie risa insane;

Tutte mi fanno ridere le debolezze umane.

LAVINIA:

Debolezza vi sembra il sospirar d'amore?

CAVALIERE:

Ogni passion derido, quando si perde il cuore.

LAVINIA:

Dunque voi non amate.

CAVALIERE:

Anzi d'amar mi vanto,

Ma credo amar si possa senza i sospiri e il pianto.

LAVINIA:

Se amar senza sospiri, signor, voi siete avvezzo,

Non conosceste ancora del vero amore il prezzo.

CAVALIERE:

Se il vero amor fa piangere, Contessa mia, vel giuro,

Questo sì bell'amore conoscere non curo.

LAVINIA:

Buon per me, ch'io lo sappia pria che per voi mi accenda.

CAVALIERE:

Per me non vi è pericolo, che accesa amor vi renda.

Siete già prevenuta.

LAVINIA:

Tutto ancor non sapete,

Vi svelerò il mio cuore.

CAVALIERE:

Ne avrò piacer. Sedete. (Siedono

LAVINIA:

Da molt'anni, il sapete, perdei la cara madre;

Per custodir miei giorni debole troppo è il padre;

Veggo che nell'etade principio ad avanzarmi,

Onde è in me necessaria l'idea di collocarmi.

Nel povero mio stato gran sorte io non sperai,

Un mediocre partito di conseguir bramai;

Ma più d'ogni altro bene, più di ricchezze e onori,

Cuor rinvenir mi calse colmo d'onesti ardori.

Parve a me don Paolino d'ogni amator più acceso,

Per amor mio più volte a sospirar l'ho inteso.

Procurava i momenti di starsi meco allato,

Mille sincere prove dell'amor suo mi ha dato.

Posso dir con costanza don Paolin mi adora,

Sposo in cuor mio lo elessi, ma non gliel dissi ancora.

Seppi che il padre mio, senza aspettar consiglio,

Si espose incautamente di perdermi al periglio.

Egli al signor Giacinto, quivi testé veduto,

Giovine stravagante da voi ben conosciuto,

Promise la mia mano dal timor sopraffatto,

E senza mia saputa soscrissero il contratto.

Da ciò sollecitata, più assai che dall'amore,

Porger volea la mano a chi mi offriva il cuore;

Stava per dire il labbro, don Paolino è mio,

Quando impensatamente manca di vita il zio.

S'apre il suo testamento, odo la legge espressa;

Colla ragion principio a consigliar me stessa.

All'amator rallento i segni dell'affetto,

E rilevar gli arcani del vostro cuore aspetto.

Ma invan da voi tentando lungi sapere il vero,

Venni col padre io stessa a sciogliere il mistero;

E arrossendo che fosse la mia intenzion saputa,

Finsi d'altro disegno cagion la mia venuta.

Or sarebbe un delitto il simular più innante:

Tradirei me medesima, e tradirei l'amante.

Deggio sinceramente svelarvi il mio pensiero;

Tutto il mio cuor vi dico, e quel ch'io dico, è vero.

Non ho per don Paolino passion qual vi pensate,

Per voi serbo la mano e il cuor, se lo bramate;

Vi amerò eternamente, mi scorderò di tutti,

Pur che sperare io possa della mia fede i frutti.

Pure che voi mi amiate, sarò contenta appieno,

Ma se amar non sapete, non mi tradite almeno.

In me sia debolezza, sia una passione innata,

Tutto il ben che desidero, è il ben d'essere amata;

Non con amor fugace, ma col più saldo e forte,

Quanto amar si può mai da un tenero consorte.

Se ciò mi promettete, vostro il mio cuor sarà;

Quando no, vi rinunzio ancor l'eredità,

Voglio uno sposo amante, voglio un sincero affetto.

Quel che dir vi voleva, ecco, signore, ho detto.

CAVALIERE:

Con un piacere estremo, Contessa, io vi ascoltai;

Un parlar più sincero non ho sentito mai;

Ed io, che al par di voi sincero esser mi vanto,

Vi dirò il mio pensiero schiettissimo altrettanto.

Se d'amor mi parlate, che è naturale in tutti,

Con cui l'uom si distingue dal genere dei bruti,

Di quell'amor che ispira la cognizion del bene,

Che la ragion produce, che dal dover proviene,

Lo conosco, l'intendo, di coltivarlo ho cura,

Ma se passion diventa, entro il mio sen non dura.

So che voi siete amabile, lo veggo e lo confesso,

M'impegnerei d'amarvi, come amerei me stesso.

Ma io per me medesimo non piango e non sospiro,

Né soffrirei per altri un simile deliro.

LAVINIA:

Sareste voi geloso?

CAVALIERE:

No, un simile sospetto

Mi sembra abbominevole.

LAVINIA:

Segno di poco affetto.

CAVALIERE:

Questa mia buona fede, sia vizio o sia virtù,

Pare che mi consoli, né cerco aver di più.

LAVINIA:

Dunque dareste a sposa la libertade intera.

CAVALIERE:

Certo la mia catena non le sarebbe austera.

LAVINIA:

Ognun trattar potrebbe.

CAVALIERE:

Chiunque piacesse a lei.

LAVINIA:

Senza temer rivali.

CAVALIERE:

Temere io non saprei.

LAVINIA:

E se la libertade soverchia a lei concessa

D'altro amor la rendesse in vostro danno oppressa?

CAVALIERE:

No, preveder non posso, che in saggia onesta dama

Rendasi il cuor capace di biasimevol brama.

L'onore è quel tesoro che donna ha in maggior pregio,

E custodirlo insegna di nobiltade il fregio.

Con tal giusto principio cheto vivendo in pace,

Crederei la mia sposa d'una viltà incapace;

Certo, che se non vale il fren della ragione,

Ogni custodia è vana contro la rea intenzione.

Però non mi crediate stolido a sì alto segno,

Da tollerare aperto un trattamento indegno.

Senza scaldarmi il sangue, se tal pensiero avesse,

Io mi farei suo giudice colle mie mani istesse.

LAVINIA:

Questo è quel che mi piace. (S'alza.)

CAVALIERE:

Simil discorso è vano

Con voi, che possedete cuore gentile e umano.

LAVINIA:

Non sdegnereste adunque di essere mio consorte.

CAVALIERE:

Anzi di un dono simile ringrazierei la sorte.

LAVINIA:

Cavaliere, mi amate? (Con tenerezza.)

CAVALIERE:

Amo in voi la virtù.

LAVINIA:

Questo amor non mi basta. (Come sopra.)

CAVALIERE:

Io non so amar di più.

LAVINIA:

È ver che il volto mio non può vantar bellezze,

Ma uno sguardo amoroso...

CAVALIERE:

Non so far tenerezze.

LAVINIA:

Possibile?

CAVALIERE:

No certo.

LAVINIA:

Provatevi.

CAVALIERE:

Ma come?

LAVINIA:

Tenero pronunciate di cara sposa il nome.

CAVALIERE:

Cara sposa. L'ho detto.

LAVINIA:

Ma non con tenerezza.

CAVALIERE:

Non ci ho grazia, credetemi.

LAVINIA:

Fatelo per finezza.

CAVALIERE:

Cara la mia sposina. (Con qualche caricatura.)

LAVINIA:

Non così caricato.

CAVALIERE:

Ve l'ho detto, Contessa, io non ne sono usato.

Se un buon cuor vi basta, ottimo cuore è il mio;

Ma se di più bramate, cara sposina, addio. (Parte.)

LAVINIA:

Il Cavalier si vede, che ha un cuor pien di virtù;

Ma lo vorrei vedere amante un poco più.

Per donna maritata la libertà è un tesoro,

Ma è un bel sentirsi a dire: idolo mio, ti adoro. (Parte.)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Fabrizio ed altri servitori, i quali vanno preparando la tavola per il desinare.

FABRIZIO:

Or principio a capire, che il mio signor padrone

Suol dir filosofando cose massiccie e buone.

Egli ha detto più volte, che aveva meno guai,

Quand'era poveruomo, e stava meglio assai.

Ha ragion, ha ragione davvero il padron mio;

Ei stava meglio allora, e stavo meglio anch'io.

Ora la casa è piena sempre di gente nuova;

Il solito riposo da noi più non si trova.

E quel che più mi spiace, egli è dover servire

Di quelle genti ancora, ch'io non potrei soffrire.

Per la dama, pazienza, lo faccio volentieri;

Impiegherei, servendola, per essa i giorni intieri:

Mi piacciono quegli occhi, e, ancor nel grado mio,

Ho piacer di vederla, e mi diverto anch'io.

Ma quel don Paolino con dispiacer lo veggio,

E il conte Policastro lo soffro ancora peggio.

Ma a lor tanti dispetti farò per parte mia,

Che per disperazione li vederò andar via.

Dispensar i padroni possono i lor favori,

Ma gli ordini eseguire sta in man dei servitori;

E quando i forastieri a genio non ci vanno,

Si servon per dispetto, e disperar si fanno.

Figliuoli, questa mane abbiamo a desinare

Gente, che a questa tavola non merta di mangiare.

A quei due, che vi ho detto, fate penare il bere,

Dietro la loro sedia non stiavi alcun staffiere;

E se alcuno di loro vi comandasse ardito,

Col tondo o col bicchiere macchiategli il vestito.

Se vi pare che un piatto gli piaccia estremamente,

Levategli dinanzi il tondo immantinente.

E s'egli lo trattiene, allor che se n'avvede,

Mostrando inavvertenza, zappategli sul piede.

Se il caffè vi domandano, ovver la cioccolata,

Mostrate non intender che l'abbiano ordinata.

E all'ora del dormire, quelli che già vi ho detto,

Trovin la stanza ingombra, e mal composto il letto.

SCENA SECONDA

Il Conte Policastro e detti.

CONTE:

Buon giorno, galantuomini, ditemi in cortesia:

Speriam che quanto prima in tavola si dia?

FABRIZIO:

Quando servir si tratti vossignoria illustrissima,

Faremo che la tavola sia pronta, anzi prontissima.

CONTE:

Mi farete piacere. Parmi avere appetito.

FABRIZIO:

Merita il signor Conte di essere ben servito.

CONTE:

Parmi l'ora avanzata; per altro io mangio poco.

FABRIZIO:

Davvero, signor Conte?

CONTE:

Avete un bravo cuoco?

FABRIZIO:

Un uom che non fa male. Un uom, per verità,

Che lavora di gusto.

CONTE:

Che zuppa vi sarà?

FABRIZIO:

Tutte le di lui zuppe son saporite e buone.

CONTE:

Ho piacer; sentiremo. Ehi, vi sarà il cappone?

FABRIZIO:

Credo di sì.

CONTE:

Va bene; ma che sia grasso e bello,

E un buon pezzo di manzo, e un pezzo di vitello.

FABRIZIO:

Dunque, per quel ch'io sento, gli piace mangiar forte.

CONTE:

Eh, non arrivo mai a due libbre per sorte.

FABRIZIO:

Quattro libbre d'allesso?

CONTE:

E poi non mangio più.

FABRIZIO:

Mangia solo il bollito.

CONTE:

E poi qualche ragù.

FABRIZIO:

Se vi fosse un pasticcio?

CONTE:

Oh caro!

FABRIZIO:

Un bel prosciutto?

CONTE:

Cotto nel vino buono? Io me lo mangio tutto.

FABRIZIO:

Non gli piace l'arrosto?

CONTE:

Capperi! ed in che modo!

Un bel pezzo d'arrosto? propriamente mel godo:

Lesso, arrosto, ragù, pasticcio, ed ho finito.

FABRIZIO:

Un poco d'insalata per svegliar l'appetito?

CONTE:

Sì, sì, un'insalatina non la ricuso mai.

FABRIZIO:

Quattro paste sfogliate.

CONTE:

Oh, mi piacciono assai.

FABRIZIO:

E il deser non lo calcola?

CONTE:

Qualche piattello assaggio.

Mi piace, per esempio, se vi è del buon formaggio.

Se vi fosse una torta, non la ricuserei:

Quattro olive, un finocchio, un pomo io piglierei.

Fino che si sta a tavola (no per mangiar, no certo),

Ma per conversazione, col deser mi diverto.

FABRIZIO:

Come gli piace il bere?

CONTE:

Sono assai regolato.

Non mi ricordo mai, che il vin mi abbia alterato.

Pria di far fondamento, non vengo alle bevande.

Uso poi, quando ho sete, di ber col bicchier grande.

Ber tanti bicchierini sembrami cosa stolta;

Quel che altri fanno in molte, io faccio in una volta.

Mi piaccion le bottiglie di vino oltramontano,

Ma piacemi egualmente di bevere il nostrano.

E tanto più mi alletta, quanto più è saporito,

Ma quando poi son sazio, di bevere ho finito.

FABRIZIO:

Ella, per quel ch'io sento, è regolato assai.

CONTE:

Oh, più del mio bisogno non mi carico mai.

FABRIZIO:

Spiacemi che stamane andrà mal la faccenda:

Siam molti, e il pranzo è scarso.

CONTE:

Si supplirà a merenda.

FABRIZIO:

Mangia più volte al giorno?

CONTE:

Io poi non guardo all'uso.

Sia qual ora si voglia, son pronto, e non ricuso.

FABRIZIO:

E viva il signor Conte.

CONTE:

Fate un piacere, andate

Ad affrettare il cuoco, e in tavola portate.

FABRIZIO:

Subito, vo a servirla. (Sta fresco il mio padrone;

Questi è un lupo, che mangia per dodici persone). (Parte.)

SCENA TERZA

Il Conte, poi Giacinto

CONTE:

A casa mia a quest'ora avrei di già pranzato:

Mi sento dalla fame assai debilitato.

Già che nessun mi vede, posso pigliarmi un pane. (Si accosta alla tavola.)

GIACINTO:

(Soffrir non sono avvezzo simili azion villane).

CONTE:

(Povero me!) (Vedendo Giacinto s'intimorisce.)

GIACINTO:

(Costoro mi piantano così?)

Ecco il Conte; ho piacere di ritrovarvi qui.

CONTE:

Signor, che mi comanda?

GIACINTO:

Voglio soddisfazione.

CONTE:

Di che?

GIACINTO:

Di questa vostra indegnissima azione.

CONTE:

Parlaste colla figlia?

GIACINTO:

Udirmi ella non vuole.

CONTE:

Meco dunque gettate il tempo e le parole.

GIACINTO:

Chi ha soscritto il contratto?

CONTE:

Io, ma con condizione.

GIACINTO:

Che condizion?

CONTE:

Che fossevi di lei l'approvazione.

GIACINTO:

Non siete voi suo padre?

CONTE:

Esserlo almeno io spero.

GIACINTO:

Siete un uomo di stucco.

CONTE:

Sì, signor, sarà vero.

GIACINTO:

Voi pensar ci dovete, pria che di qua men vada.

Voglio soddisfazione.

CONTE:

Come mai?

GIACINTO:

Colla spada.

CONTE:

Io non so far duelli.

GIACINTO:

V'insegnerò, signore.

CONTE:

Grazie, la non s'incomodi.

GIACINTO:

Animo, andiam qui fuore.

CONTE:

Dove?

GIACINTO:

A battervi meco.

CONTE:

Siete voi spiritato?

Lo sapete, signore, che non ho ancor pranzato?

GIACINTO:

Animo, meno ciarle.

CONTE:

Ma via, per carità,

Lasciatemi mangiare, e poi si parlerà.

GIACINTO:

Non ho tempo da perdere.

CONTE:

Andarvene potete.

GIACINTO:

Cavaliere malnato.

CONTE:

Tutto quel che volete.

GIACINTO:

O accettate la sfida, o adopero il bastone.

CONTE:

Sono un povero vecchio.

GIACINTO:

Voglio soddisfazione.

CONTE:

Aiuto. (Gridando verso le scene.)

GIACINTO:

Anima vile.

CONTE:

Gente; chi mi difende?

SCENA QUARTA

La Contessa e detti.

LAVINIA:

Olà; chi è il prosontuoso, che il genitore offende?

GIACINTO:

Io son quello, signora, cui mancasi al contratto,

E dell'azion villana voglio esser soddisfatto.

LAVINIA:

Se il genitor vi manca, da me vien la cagione.

Eccomi qui, son pronta a dir la mia ragione.

CONTE:

Brava, figliuola mia. (Andrò in un altro loco

Con un pezzo di pane a ristorarmi un poco). (Prende dalla tavola un pane e parte.)

SCENA QUINTA

La Contessa e Giacinto.

LAVINIA:

Su via, su che fondate la ragion dello sdegno?

GIACINTO:

D'un genitor la fondo sul stabilito impegno.

La fondo di una figlia sul zel d'obbedïenza,

Sul dover, sul rispetto e sulla convenienza.

LAVINIA:

Rispondo in due parole: il padre non dispone

Del cuor della figliuola, se il di lei cuor si oppone.

Ed una figlia umile ad obbedire è presta,

Quando di chi comanda sia la ragione onesta.

Il dover lo conosco, non manco al mio rispetto,

So della convenienza non trascurar l'oggetto;

Ma appunto questi titoli, che voi mi rinfacciate,

Hanno le mie ragioni contro di voi formate.

GIACINTO:

Il dover non v'insegna?...

LAVINIA:

M'insegna il mio dovere

L'affetto, l'attenzione gradir di un cavaliere;

Ma il mio dover istesso, con vostra buona pace,

M'insegna a licenziarlo, se agli occhi miei non piace.

GIACINTO:

Possibil che vi spiacciano queste guance vermiglie,

Che sospirare han fatto vedove, spose e figlie?

LAVINIA:

Veggo le belle guance tinte di bianco e rosso,

Quelle bellezze ammiro, ma sospirar non posso.

GIACINTO:

E gl'illustri natali?...

LAVINIA:

Li venero e rispetto,

Ma obbligar non mi possono a risentirne affetto.

GIACINTO:

Sì, che ponno obbligarvi; o sposa mia sarete,

O cospetto di bacco, voi me la pagherete.

LAVINIA:

Che pretension ridicola! adagio, padron mio,

Che se voi cospettate, so cospettare anch'io.

Non giunge a spaventarmi un così folle orgoglio;

In faccia apertamente vi dico: io non vi voglio.

GIACINTO:

Ah, perché un uom non siete? Vorrei questa parola,

Vorrei quest'insolenza farvi tornare in gola.

LAVINIA:

S'uomo foss'io, cospetto! vi pentireste, amico:

Vorrei farvi vedere, ch'io non vi stimo un fico.

GIACINTO:

A me codesto insulto? A me che furibondo,

Quand'ho la spada in mano, faccio tremare il mondo?

LAVINIA:

A voi, signor Gradasso, degli uomini flagello,

A voi, che mi parete un capitan Coviello.

GIACINTO:

Ah, il diavol mi tenta… (Mette mano nella guardia della spada.)

LAVINIA:

Rispettate una dama,

O con questo coltello... (Prende un coltello di tavola.)

GIACINTO:

Eh, ho scherzato, madama. (Mostrando paura.)

LAVINIA:

Partite immantinente.

GIACINTO:

No, ch'io non vuò partire. (Con forza.)

LAVINIA:

Andate, o giuro al cielo...

GIACINTO:

Parto per obbedire. (Con umiltà e timore.)

LAVINIA:

A un incivil par vostro restar non si permette.

GIACINTO:

(Vuò meditare un colpo per far le mie vendette). (Da sé.)

LAVINIA:

Deggio farvi partire, come voi meritate?

GIACINTO:

Siete bella e vezzosa, ancor se vi sdegnate.

Alla mia tracotanza chiedovi umil perdono.

(Se non so vendicarmi, quello non son ch'io sono). (Da sé, e parte.)

SCENA SESTA

La Contessa, poi il Cavaliere e don Paolino.

LAVINIA:

Alle sue spampanate ha il padre mio creduto;

Ebbe di lui timore, ma io l'ho conosciuto.

CAVALIERE:

Contessa, abbiam goduta la bellissima scena.

LAVINIA:

Perché sola lasciarmi? Perché tenermi in pena?

CAVALIERE:

La viltà di Giacinto a noi non giunse nuova,

E noi del vostro spirito fatta abbiamo la prova.

PAOLINO:

Io vi confesso il vero, io ne provai tormento;

E il cavaliere Ansaldo mi ha trattenuto a stento.

LAVINIA:

Il Cavalier di tutto solito è a prender gioco,

Suole per una donna incomodarsi poco.

CAVALIERE:

Io conosco Giacinto, so ch'egli è un uom ridicolo;

Non vi averei lasciata esposta ad un pericolo.

PAOLINO:

Ma (compatite, amico) chi ama e stima davvero,

Dee impedire alla dama anche un spiacer leggiero.

LAVINIA:

Udite, signor mio? D'un amor vero e fino

Queste sono le prove. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Bravo, don Paolino.

Io di queste finezze non ne so fare alcuna,

E in amore per questo non avrò mai fortuna.

PAOLINO:

Alla vostra fortuna far non pretendo oltraggio

Né la passion mi rende men conoscente e saggio.

CAVALIERE:

Al suo dover non manca un cavalier d'onore. (A don Paolino.)

Ma dov'è, Contessina, il vostro genitore?

Ora è di dare in tavola. Ehi, avvisate il Conte,

Che quando egli comanda, le vivande son pronte. (Ad un Servitore che viene chiamato, e parte.)

LAVINIA:

Cavalier, che vuol dire, che nemmen mi guardate?

CAVALIERE:

Posso in nulla servirvi? Eccomi, comandate.

PAOLINO:

La sposa ogni momento deve chiamar lo sposo;

Dee prevenire il cenno un amatore ansioso.

CAVALIERE:

Caro don Paolino, io non so far l'amore:

Insegnatemi voi.

LAVINIA:

Miglior maestro è il cuore.

CAVALIERE:

È vero a poco, a poco... In tavola. Ecco il Conte.

PAOLINO:

(E simulare io deggio d'un mio rivale a fronte?) (Da sé.)

SCENA SETTIMA

Il Conte Policastro e detti; poi Servitori che mettono in tavola.

CONTE:

È partito? (Mettendo il capo fuori della scena.)

CAVALIERE:

Che avete?

CONTE:

Giacinto se n'è andato? (Come sopra.)

CAVALIERE:

Sì, signore, è partito.

CONTE:

Il ciel sia ringraziato. (Esce fuori.)

CAVALIERE:

Concepiste timore?

CONTE:

Un poco. (Al Cavaliere.) Com'è andata? (Alla Contessa.)

LAVINIA:

Senza difficoltade da lui mi ho liberata.

CONTE:

Brava, brava davvero. Mia figlia è la gran diavola.

CAVALIERE:

Vostra figlia ha giudizio.

CONTE:

Ma quando danno in tavola?

CAVALIERE:

State ben d'appetito? (Portano in tavola.)

CONTE:

Ne ho poco per natura,

Ed oggi ancora meno per via della paura.

CAVALIERE:

Se mangiar non volete, io non vi obbligherò.

CONTE:

Eh, sediamoci intanto, che poi mi proverò.

CAVALIERE:

La Contessa nel mezzo. Il genitor vicino.

CONTE:

Vuò star, se il permettete, in questo cantoncino;

Ancora in casa mia sto sempre in un cantone.

(Così potrò mangiare con minore soggezione) (Da sé.)

CAVALIERE:

Segga don Paolino presso la dama intanto.

PAOLINO:

E voi?

CAVALIERE:

Vicino ad essa andrò dall'altro canto (Siedono tutti.)

PAOLINO:

(spiega la salvietta alla Contessa, e le taglia il pane ecc.).

LAVINIA:

No signore, è superfluo vi stiate a incomodare.

Ho il Cavalier vicino. (A don Paolino.)

CAVALIERE:

Ma io non saprò fare.

PAOLINO:

Se di ciò vi offendete...

CAVALIERE:

No, fate pur, l'ho a caro.

Servitela la dama, che in questo mentre imparo.

Presentate la zuppa. Io non lo faccio mai.

CONTE:

Per me, don Paolino, minestratene assai.

PAOLINO:

Basta così? (Mette la zuppa nel tondo per il conte, dopo averne dato alla Contessa.)

CONTE:

Anche un poco.

CAVALIERE:

Io non ne son portato.

Dategli la mia parte.

CONTE:

Sì, vi sarò obbligato. (Mangia la zuppa.)

LAVINIA:

Un tondo. (Al Servitore.)

PAOLINO:

Favorite. (Gli leva dinanzi il tondo della zuppa.)

LAVINIA:

È vano il lusingarsi,

Che il signor Cavaliere si degni incomodarsi.

CAVALIERE:

Compatite, Contessa, per questo io non son fatto.

PAOLINO:

Spiacevi ch'io la serva?

CAVALIERE:

No, davver, niente affatto.

PAOLINO:

(Ancora io non capisco l'idea del Cavaliere). (Da sé.)

CONTE:

Veggo un gran bel cappone. Se ne potrebbe avere?

PAOLINO:

Ala o coscia volete?

CONTE:

Per verità non so,

Datemi l'una e l'altra, che dopo io sceglierò. (Gli dà mezzo cappone ed ei se lo mangia.)

PAOLINO:

Comanda la Contessa?

LAVINIA:

Vorrei di quel tondino.

CAVALIERE:

Credo che sarà buono.

CONTE:

Datene qui un pochino.

CAVALIERE:

Levategli il cappone. (Al Servitore.)

CONTE:

Lasciate qui, non preme;

Mescolerem l'intingolo con il cappone insieme. (Mette tutto nel piatto.)

PAOLINO:

La dama ne ha richiesto, e voi non la servite? (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Voi trinciar principiaste, ed a trinciar seguite.

PAOLINO:

Dunque, per obbedirvi... (Vuol servir la Contessa.)

LAVINIA:

No signore, obbligata.

PAOLINO:

Voi da me ricusate?

LAVINIA:

Più non ne voglio.

PAOLINO:

(Ingrata!) (Da sé, sospirando.)

CAVALIERE:

Lo volete da me? (Alla Contessa.)

LAVINIA:

Non merto un tal onore.

CAVALIERE:

Sì, la mia Contessina, vi servirò di cuore. (Gli dà di quel tal piatto, ed ella lo riceve.)

(Tollerar più non posso). (Da sé, smanioso.)

CAVALIERE:

Don Paolin s'adira.

LAVINIA:

Lo vedete, signore? Ei per amor sospira. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Sospiri pur; suo danno.

PAOLINO:

Ma perché mai, Contessa?...

CONTE:

Datemi un pocolino di quella carne allessa. (A don Paolino.)

PAOLINO:

(Pazienza!) (Taglia della carne di manzo per il Conte.)

CONTE:

Un poco più; non sono un collegiale.

Cosa avete paura? ch'ella mi faccia male?

Anche un po' di vitello, e un po' di grasso unito.

CAVALIERE:

Mi rallegro con voi, trovaste l'appetito. (Al Conte.)

CONTE:

Eppur non istò bene. Un acido mi sento...

CAVALIERE:

Bevete un po' di vino.

CONTE:

Vuò fare il fondamento. (Si mete a mangiare.)

LAVINIA:

Il Cavalier col padre discorre e si trattiene;

E qual io non ci fossi, di me non gli sovviene.

CAVALIERE:

Eccomi, son da voi. Cosa mi comandate?

Volete del ragù? Don Paolin, trinciate.

PAOLINO:

Ella da me il ricusa, son di servirla indegno.

CAVALIERE:

Se sfortunato or siete, non lo prendete a sdegno.

Fate quel ch'io vi dico, e torneravvi in bene;

Rassegnatevi in pace al mal siccome al bene,

E dite fra voi stesso, con animo giocondo:

Se una donna mi sprezza, non è finito il mondo.

LAVINIA:

Voi così ragionate?

CAVALIERE:

Ragiono istessamente. (Al Cavaliere.)

LAVINIA:

Dunque, se vi sprezzassi, sareste indifferente.

CAVALIERE:

Perdonate, Contessa, mentir non son capace:

Se voi mi disprezzaste, vorrei soffrirlo in pace.

Direi: della sua grazia s'ella mi crede indegno,

S'ella mi niega amore, ch'io non lo merto è un segno.

PAOLINO:

Ed io giuro d'amarla schernito e disprezzato.

LAVINIA:

Ora voi non c'entrate, con voi non ho parlato. (A don Paolino.)

PAOLINO:

Soffro gl'insulti, e taccio.

LAVINIA:

(A torto lo strapazzo). (Da sé.)

CAVALIERE:

(Povero Paolino! Ei mi rassembra un pazzo). (Da sé.)

Ehi, cambiate la tavola, se non si mangia più. (Ai Servitori.)

CONTE:

Lasciatemi sentire quel piatto di ragù.

CAVALIERE:

Levategli quel tondo. (Ai Servitori.)

CONTE:

Lasciate qui, non preme;

Non va male il ragù con il bollito insieme. (Mette il ragù nel suo tondo, e i Servitori, levando i piatti, pongono quelli della seconda portata.)

CAVALIERE:

Conte, che state male diceste voi per gioco.

CONTE:

Parmi che l'appetito mi torni a poco a poco.

CAVALIERE:

Ma bevete. (La Contessa e don Paolino badano a parlar piano fra loro.)

CONTE:

Da bevere. (Domandandolo ai Servitori.)

Ecco l'arrosto. Oh bello!

Pare proprio dipinto quel pezzo di vitello.

Un bodino, un bodino, ci ho gusto in verità,

Quel bodino all'inglese mettetemelo qua.

L'insalata potete porla dall'altra parte.

Oh, di quei pasticcini ne voglio la mia parte. (Gli portano una sottocoppa con una caraffina di vino e una di acqua.)

Portate via quest'acqua, non la posso vedere:

L'acqua si dà da noi agli asini da bere.

Orsù, lo so che i brindisi or si accostuman poco,

Ma voglio fare un brindise: Signori, e viva il cuoco.

CAVALIERE:

Bravo, bravo davvero, questa è sincerità,

Applaudire di cuore quel che piacer ci fa.

Che dite voi, Contessa? Capperi, siete molto

Nel discorso impegnata, ed infiammata il volto!

LAVINIA:

Di che mai sospettate?

CAVALIERE:

Troppo ho per voi rispetto,

Della vostra condotta per concepir sospetto.

La medesima stima ho per don Paolino;

che volete ch'io tema?

CONTE:

Chi mi dà del bodino?

CAVALIERE:

Servitevi, signore. (Al Conte.)

CONTE:

Dunque farò da me. (Si prende del bodino.)

SCENA OTTAVA

Fabrizio e detti.

FABRIZIO:

Presto, signor padrone, presto.

CAVALIERE:

Che cosa c'è?

FABRIZIO:

Il signore Giacinto con della gente armata,

Fra gli alberi nascosta, la casa ha circondata.

Egli ci pose intorno una specie d'assedio.

Venga a vedere.

PAOLINO:

Indegno.

CAVALIERE:

Pensiamo ad un rimedio.

LAVINIA:

Duolmi per mia cagione...

PAOLINO:

Anderò io, lasciate... (Si alza furiosamente.)

CAVALIERE:

Don Paolin, fermatevi, non vuò che vi scaldiate. (S'alza.)

Di accendere un gran foco bisogno ora non c'è;

Di rimediare al tutto resti il pensiere a me.

LAVINIA:

Deh, non vi cimentate. (Al Cavaliere, alzandosi.)

CAVALIERE:

Di ciò non vi è periglio.

Porvi saprò rimedio coll'arte e col consiglio.

PAOLINO:

Accendere mi sento di una vendetta il cuore.

CAVALIERE:

Noi possiam vendicarci senza un soverchio ardore.

LAVINIA:

Possibil che possiate udir placidamente

Di un indegno le trame?

CAVALIERE:

Io non mi scaldo niente.

PAOLINO:

Per difender la dama, la vita arrischierei.

CAVALIERE:

Arrischiare la vita? Sì pazzo io non sarei.

LAVINIA:

Dunque espormi volete ad un novello oltraggio.

CAVALIERE:

No, ma spero difendervi con un maggior vantaggio.

LAVINIA:

Come?

CAVALIERE:

Venite meco. Andiam, don Paolino.

Vi svelerò fra poco quello ch'io far destino.

LAVINIA:

A voi mi raccomando. (Al Cavaliere e a don Paolino.)

PAOLINO:

Per voi morire io bramo.

CAVALIERE:

Ed io senza morire vuò rimediarvi; andiamo.

(Tutti e tre partono, e resta il Conte, il quale seguita a mangiare senza scomporsi.)

FABRIZIO:

Cosa fa il signor Conte?

CONTE:

Io seguo il mio lavoro.

FABRIZIO:

Non sente il bell'imbroglio?

CONTE:

Bene, ci pensin loro.

FABRIZIO:

Non vede quale abbiamo pericolo vicino?

CONTE:

Vorrei pur, se potessi, finir questo bodino.

FABRIZIO:

Noi lo lasciam qui solo.

CONTE:

Ebbene andate pure.

FABRIZIO:

Son le stanze terrene pochissimo sicure.

Se qui il signor Giacinto entra colla sua gente

E trova il signor Conte, l'ammazza immantinente. (Parte.)

CONTE:

Povero me! se viene... Presto, andiamone, presto;

Ma di questo bodino voglio godermi il resto. (Si alza, prende il bodino, e parte.)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Il Cavaliere, il Conte, la Contessa, don Paolino e Fabrizio

CAVALIERE:

Contessa, miei signori, venite, ho già pensato

Quello che far dobbiamo nel caso inaspettato.

Non ci scaldiamo il sangue, non ci mettiamo in pena,

Dobbiam questa sorpresa pigliar per una scena.

Con flemma e con giudizio più cose ho superate,

Supererò ancor questa; sedete, ed ascoltate.

LAVINIA:

Impaziente vi ascolto. (Siede.)

PAOLINO:

Sentiam che nuova c'è. (Siede.)

CONTE:

Intanto si potrebbe ordinare il caffè. (Siede.)

CAVALIERE:

Dite bene: Fabrizio, il caffè sia ordinato,

E poi quanto vi dissi sia lesto e preparato.

FABRIZIO:

Sì, signor.

CONTE:

Ehi, sentite. Con grazia del padrone,

Un po' di rosolino per far la digestione.

FABRIZIO:

Subito, immantinente.

CONTE:

Sono ai liquori avvezzo.

FABRIZIO:

(Se aspetta il rosolino, vuol aspettarlo un pezzo). (Da sé, parte.)

CAVALIERE:

Pensando al caso nostro, com'io diceva innante,

Noi siamo gli assediati, Giacinto è l'assediante.

Siccome la Contessa lo sdegna e lo disprezza,

Ei pensa per assalto entrar nella fortezza.

Egli vien provveduto di gente e munizione,

Lusingasi il presidio pigliare a discrezione;

Ed aperta la breccia, ei si lusinga e spera,

Presa la cittadella, piantar la sua bandiera.

Noi con vigor le mura difendere possiamo,

Ma di un vil capitano vogl'io che ci burliamo;

E delle sue minacce fingendo aver timore,

Vuò che proviamo in rete tirar l'assalitore.

Spieghiam bandiera bianca. Eccolo qui, in un foglio

Col guerrier valoroso capitolare io voglio;

E far che il gran disegno di lui, che ora ci assedia,

In questo luogo istesso si termini in commedia.

Udite questa lettera, che a lui mandare io voglio;

Poi vi dirò il mistero, per cui formato ho il foglio.

«Signor, che pel valore che in voi cotanto vale,

Posso paragonarvi di guerra a un generale,

A voi con questa carta vengo a raccomandarmi,

E chiedovi per grazia la sospension dell'armi.

Resistere non voglio colla difesa audace;

Con umile rispetto triegua domando, e pace.

Arrendermi son pronto con il presidio istesso:

Vi darò della porta le chiavi ed il possesso;

E la dama vezzosa, ch'è il nostro comandante,

Resterà prigioniera del capitano amante.

Entrar liberamente potete in queste mura,

Un cavalier d'onore v'invita e vi assicura;

E perché la parola sia meglio assicurata,

Entrate vittorioso, e colla gente armata.

Vi supplica, v'invita, con riverenza e amore,

Il cavaliere Ansaldo, amico e servitore».

Che vi par della lettera?

PAOLINO:

Amico, in verità

Non si può a chi v'insulta scriver con più viltà.

CAVALIERE:

È vero!

LAVINIA:

Io non intendo l'idea di tal mistero.

Parmi sia questo il modo di renderlo più altero.

CAVALIERE:

Che dice il signor Conte?

CONTE:

Come? (Si sveglia.)

CAVALIERE:

Avete capito?

CONTE:

Ho capito benissimo.

CAVALIERE:

Anderà ben?

CONTE:

Pulito.

PAOLINO:

Se ha dormito finora!

CAVALIERE:

Il foglio l'approvate?

CONTE:

Il foglio? Sì signore, a leggerlo tornate.

PAOLINO:

Basta così, non serve.

CONTE:

Non serve! Chi son io?

Vuò sentir, vuò sapere, vuò dir il parer mio.

Favorisca di leggere la carta un'altra volta.

CAVALIERE:

Lo farò volentieri.

CONTE:

Quando preme, si ascolta.

CAVALIERE:

«Signor, che pel valore che in voi cotanto vale,

Posso paragonarvi di guerra a un generale,

(Il Conte si addormenta.)

A voi con questa carta vengo a raccomandarmi...»

PAOLINO:

Non vedete ch'ei dorme?

CAVALIERE:

È vano il faticarmi.

Lasciamolo dormire. Signori, così è.

La cosa anderà bene, fidatevi di me.

Lasciate ch'egli venga. Non evvi alcun pericolo.

Ho già pensato al modo di metterlo in ridicolo.

LAVINIA:

Ma quella gente armata...

CAVALIERE:

Non vi mettete in pena;

Essi faran più ancora ridicola la scena.

SCENA SECONDA

Fabrizio ed altri Servitori che portano il caffè, e detti.

CAVALIERE:

Ecco il caffè, beviamolo. So io quel che vuò dire.

FABRIZIO:

Si ha da svegliar, signore? (Al Cavaliere, accennando il Conte.)

CAVALIERE:

Lasciatelo dormire. (A Fabrizio.)

Prendete questa lettera: così dissigillata

Sia del signor Giacinto in man recapitata,

E s'egli a queste mura s'accosta, immantinente

S'aprano a lui le porte, e a tutta la sua gente. (A Fabrizio.)

FABRIZIO:

Ho capito.

CAVALIERE:

E sia pronto quello che vi ho ordinato.

FABRIZIO:

Non dubiti, signore, che tutto è preparato. (Parte.)

(Il Cavaliere, la Contessa e don Paolino vanno bevendo il caffè.)

LAVINIA:

Cavalier, dal mio spirito questo timor levate.

Ditemi quel disegno che di eseguir pensate. (Bevendo il caffè.)

CAVALIERE:

Voglio celarvi il modo, che adoperar mi appresto;

Ma del comico intreccio il fin dev'esser questo.

Crederà che voi siate per isposarlo, e poi

Vi vedrà da me stesso sposar su gli occhi suoi.

PAOLINO:

Voi sposar la volete? (Al Cavaliere, alzandosi.)

CAVALIERE:

Io, quand'ella il consenta.

PAOLINO:

Che risponde la dama?

LAVINIA:

Non ne sarei scontenta.

PAOLINO:

Cavalier, vi saluto. (In atto di partire.)

CAVALIERE:

Dove così repente?

PAOLINO:

A una simile scena non voglio esser presente.

Voi di scherzar prendeste con un rival l'impegno,

Io di un rivale a fronte non tratterrei lo sdegno.

Esservi di periglio potria l'aspetto mio;

Sento accendermi il cuore: meglio è ch'io parta; addio. (Parte.)

SCENA TERZA

Il Cavaliere, la Contessa ed il Conte che dorme.

CAVALIERE:

Che vuol dir questo sdegno? (Alla Contessa.)

LAVINIA:

Interpretarlo io voglio

Per un segno d'amore.

CONTE:

È terminato il foglio? (Svegliandosi.)

CAVALIERE:

Si è letto e si è riletto.

CONTE:

Non portano il caffè?

CAVALIERE:

E il caffè si è bevuto.

CONTE:

Come, senza di me? (Alzandosi.)

LAVINIA:

Vi han lasciato dormire.

CONTE:

Che graziosa risposta!

Con vostra buona grazia, me lo faranno apposta.

CAVALIERE:

Servitevi.

LAVINIA:

Signore, or or si aspetta qua... (Al Conte.)

CONTE:

Vo a bevere il caffè, e poi si parlerà. (In atto di partire.)

LAVINIA:

Ma il signor Giacinto vien cogli armati suoi.

CONTE:

Quando l'avrò bevuto, ragioneremo poi. (Parte.)

SCENA QUARTA

Il Cavaliere e la Contessa.

CAVALIERE:

Il sistema del Conte piacemi estremamente:

Nasca quel che sa nascere, non glien'importa niente.

LAVINIA:

Non ha di simil tempra don Paolino il cuore,

Dissimular non puote la forza dell'amore.

Egli mi ama, il sapete, e dai trasporti suoi

Vedesi ch'egli pena, e mi ama più di voi.

CAVALIERE:

S'egli vi ama, signora, vi amo ancor io non meno;

Mi piacete, il confesso, ma per amor non peno.

Se le smanie e i deliri son dell'amore il segno,

Non trovomi disposto d'amar con tal impegno.

Ma se vi basta un cuore, che parlavi sincero,

L'amor, che per voi sento, è stabile e sincero.

Se la mia fè gradite, d'ogni rival mi rido;

Se posso amare in pace, ogni amator disfido.

Ma se la pena e il pianto solo piacer vi dà,

Signora mia, pensateci, voi siete in libertà.

LAVINIA:

La fè che prometteste, ad osservar pensate.

Ora di più non dico, amatemi e sperate. (Parte.)

SCENA QUINTA

Il Cavaliere solo

Amatemi e sperate! Offrendomi un tal dono,

Sembra che mi offerisca d'Asia e d'Europa il trono.

Stimo una bella dama, apprezzo il di lei cuore,

Ma potrei anche vivere senza di un tanto onore.

Rider mi fan davvero queste bellezze altere,

Che hanno il piacer di rendersi cogli uomini severe.

Bramano più di noi l'amor, la tenerezza,

E vogliono ostentare di farci una finezza.

Per me della Contessa la destra non isdegno,

Posso adempir con essa a un onorato impegno.

Ma se per conseguirla ho da impiegare il pianto,

La grazia di una donna non merita poi tanto.

S'io deggio ringraziarla, che m'abbia il cuor concesso,

Per quel ch'io le concedo, dee far meco lo stesso.

Che se per l'uomo impiega essa le grazie sue,

È inutile l'amore, quando non siamo in due. (Parte.)

SCENA SESTA

Fabrizio ed il Cavaliere che torna.

FABRIZIO:

Signor. (Chiamando il Cavaliere.)

CAVALIERE:

Che c'è di nuovo?

FABRIZIO:

La lettera ho recata

Io stesso, e la risposta in voce ho riportata.

CAVALIERE:

Che disse il formidabile signor Giacinto?

FABRIZIO:

Udite;

Se ben me ne ricordo, ve lo dirò, stupite.

Vanne dal Cavaliere, di' che uom di valore

Saprà fra quelle mura venir senza timore.

Digli che or or mi aspetti; digli che non pavento

Gli ospiti e i servi loro, se fossero anche cento.

Digli poi ch'io mi fido della parola data,

Ch'io non vuò per paura condur la gente armata.

Ma sol perché si vegga, s'io merito rispetto,

Condurrò i miei seguaci del Cavalier nel tetto. (Procura imitare la caricatura di Giacinto.)

CAVALIERE:

Egli non ha timore, ma un poco di spavento.

Venga pur, ch'io mi voglio pïgliar divertimento.

FABRIZIO:

Sento rumor.

CAVALIERE:

Che fosse?...

FABRIZIO:

Eccolo, appunto è desso.

Son preparati i servi, vo a prepararmi io stesso.

SCENA SETTIMA

Il Cavaliere, poi il, signor Giacinto, poi quattro Armati.

CAVALIERE:

Fabrizio è spiritoso; spero che a perfezione

Sosterrà con bravura lo scherzo e la finzione.

GIACINTO:

Eccomi, Cavaliere, a udir quel che bramate.

CAVALIERE:

Ora che noi siam soli...

GIACINTO:

Con permission, (al Cavaliere.) entrate. (Agli Armati, che entrano.)

CAVALIERE:

In casa mia, signor ogni sospetto è vano;

Vennero i suoi guerrieri, m'inchino al capitano.

Per meditare insidie spirto non ho sì audace;

Pace e amicizia io chiedo, v'offro amicizia e pace.

GIACINTO:

So perdonar gl'insulti, anch'io son cavaliere;

Basta che gli altri sappiano far meco il lor dovere.

CAVALIERE:

In quanto a me, signore, desio d'assicurarvi,

Che bramo ad ogni costo la via di soddisfarvi.

La dama è già pentita, vi offre la mano in dono,

Il di lei genitore vuol chiedervi perdono.

Don Paolino istesso trema dalla paura;

Di aver la vostra grazia col mezzo mio procura.

Ed io, pria di vedervi pien di rabbiosa smania,

Vorrei aver la febbre, la gotta o l'emicrania.

GIACINTO:

Tutto saprò scordarmi in grazia di un amico;

Vuò perdonare a tutti, sull'onor mio vel dico.

CAVALIERE:

Oh bontade, oh clemenza di un amico sovrano!

D'un eroe sì pietoso voglio baciar la mano. (Vuol prenderlo per la mano.)

GIACINTO:

Oh, non voglio. (Si ritira.)

CAVALIERE:

Lasciate. (Come sopra.)

GIACINTO:

No certo. (Come sopra.)

CAVALIERE:

Mio signore. (Come sopra, incalzandolo.)

GIACINTO:

Amici. (Raccomandandosi agli Armati per paura.)

CAVALIERE:

Che temete? (Ritirandosi.)

GIACINTO:

Io? Non ho alcun timore. (Mostrandosi intrepido.)

CAVALIERE:

Di me siete sicuro. Pericolo non c'è...

GIACINTO:

Lasciam questi discorsi. La Contessa dov'è?

CAVALIERE:

Volete ch'io la chiami?

GIACINTO:

Questo è quel che mi preme.

CAVALIERE:

Ora verrà, ma in prima vuò che parliamo insieme.

GIACINTO:

Sopra che?

CAVALIERE:

Sopra il modo, con cui trattar dovete

I sponsali con essa. Favorite, sedete.

GIACINTO:

Non occorre.

CAVALIERE:

Vi prego.

GIACINTO:

Sto bene.

CAVALIERE:

Favorite.

Vi spiccio in due parole.

GIACINTO:

Ehi, di qua non partite. (Agli Uomini, e siede.)

CAVALIERE:

Restino, che ho piacere. Sedete, buona gente,

Ma vedervi non voglio star lì senza far niente.

Chi è di là? (Chiama i Servitori.)

GIACINTO:

Cos'è questo? (Si alza timoroso.)

CAVALIERE:

Signor, non dubitate.

Presto, a quei galantuomini da merendar portate. (Ai Servi.)

(I Servitori vanno e vengono portando pane, vino, prosciutto, formaggio, e preparano un tavolino. Gli armati si preparano per mangiare, e posano le loro armi.)

GIACINTO:

Non posate le armi. (Agli Uomini, che non gli badano.)

CAVALIERE:

Quivi che n'han da fare?

Siete in casa d'amici. Lasciateli mangiare.

Preparato ho a quegli uomini un po' di colazione,

In grazia del rispetto che ho per il lor padrone.

Ma del padrone in faccia è troppa inciviltà;

Passino in altro loco a star con libertà.

Nella stanza contigua portate il tavolino. (Ai Servitori.)

Non temete, signore, che il loco è assai vicino.

(Gli Armati prendono essi il tavolino, e con allegrezza lo portano in altra stanza, scordandosi delle loro armi.)

GIACINTO:

Fermatevi, sentite, l'armi qui non lasciate.

CAVALIERE:

Gli uomini valorosi se le saran scordate.

Subito, servitori, l'armi recate loro.

(Sentite: a ciascheduno date un zecchino d'oro,

E mandateli in pace, per forza o per amore). (Piano ad un Servitore, il quale unitamente cogli altri prende l'armi, e le porta altrove.)

GIACINTO:

Resti aperto quell'uscio.

CAVALIERE:

Di che avete timore?

Un uomo, come voi, terribile, famoso,

Vergogna è che si mostri codardo e timoroso.

GIACINTO:

Non temerei nemmeno se fossevi il demonio.

CAVALIERE:

Venite qua, signore, parliam del matrimonio.

La dama non disprezza l'amor del vostro cuore,

Di voi non si lamenta, ma sol del genitore.

Quando firmò il contratto, se a lei l'avesse detto,

Verso di voi mostrato avrebbe il suo rispetto.

Disse a me cento volte: Un cavalier sì vago

Puote il cuor di una donna render contento e pago.

Chi ricusar potrebbe sì nobile signore?

Amar chi non vorrebbe un uom del suo valore?

(Giacinto si va pavoneggiando.)

Ella vi ama, signore, ella è di cor pentita

D'aver dissimulato finor la sua ferita.

Chiede al vostro bel cuore per mezzo mio perdono,

Vi offerisce la destra ed il suo cuore in dono.

GIACINTO:

Meriterebbe, a dirla, ch'io vendicassi il torto,

Ma è donna, e tanto basta; m'accheto, e lo sopporto.

Ditele ch'ella venga umile agli occhi miei,

Diami la man di sposa, ed io perdono a lei.

CAVALIERE:

Oh clemenza, oh bontade! oh grazia inaspettata!

Vo tosto a consolare la dama innamorata. (Si alza.)

Meno non si poteva sperar da un sì bel core;

Condurrò la Contessa a domandarvi amore. (Parte.)

SCENA OTTAVA

Giacinto solo.

Ecco cosa vuol dire farsi stimar; cospetto!

Sono un uomo terribile, qualora io mi ci metto.

Amici, state pronti, se mai... ma dove sono?

Povero me! mi lasciano gl'indegni in abbandono?

Là dentro non li veggo. Dove mai sono andati?

Qua dentro non mi fido restar senza gli armati.

Li troverò. (In atto di partire.)

SCENA NONA

Il Cavaliere, la Contessa e il suddetto.

CAVALIERE:

Signore. (Chiamandolo.)

GIACINTO:

Gli uomini dove sono?

CAVALIERE:

Son nel cortil che ballano d'una chitarra al suono.

GIACINTO:

Sappiano immantinente, che il lor padron li chiama.

CAVALIERE:

Ecco, signor Giacinto, presentovi la dama.

GIACINTO:

Sì, signor, l'ho veduta. Vengano quei villani. (Mostrando sdegno e paura.)

CAVALIERE:

Ehi; chiamateli tosto. (Verso la scena) (Sono un pezzo lontani). (Da sé.)

GIACINTO:

(Par che il cor mi predica...) (Da sé.)

LAVINIA:

Come! con tal disprezzo

Colle dame mie pari siete a trattare avvezzo?

GIACINTO:

Compatite, Contessa, sono un poco alterato.

LAVINIA:

Con chi?

GIACINTO:

Con quei bricconi, che mi hanno abbandonato.

LAVINIA:

Un uomo come voi, terribil per natura,

Per questo si sgomenta, e trema di paura?

GIACINTO:

Io temer? di che cosa?

CAVALIERE:

Un uom del suo talento,

Un uom del suo coraggio, non sa che sia spavento.

Quel che lo rende umano, quel che avvilir lo puote,

È un occhio vezzosetto, bei labbri e belle gote.

Egli per voi sospira; mirate in quel sembiante

Ercole mansueto alla sua Iole innante.

GIACINTO:

Ah sì, poiché voi siete Venere di bellezza,

Un Marte valoroso vi venera e vi apprezza.

CAVALIERE:

E tanto è innamorato del volto peregrino,

Che per piacervi ancora diventeria Martino.

GIACINTO:

Questi scherzi non soffro.

CAVALIERE:

Dunque parliam davvero.

Il vostro cor, signora, svelategli sincero.

GIACINTO:

Porgetemi la destra.

LAVINIA:

È troppo presto ancora.

GIACINTO:

Dite almen, se mi amate.

CAVALIERE:

Via, ditelo, signora.

LAVINIA:

Sono di cuor sincero, e fingere non so.

GIACINTO:

Dunque un sì pronunciate.

LAVINIA:

Dunque vi dico un no.

GIACINTO:

Come! A me questo torto! Un no sì chiaro e tondo?

Ah, ch'io son per lo sdegno acceso e furibondo.

Voi m'ingannaste adunque nel lusingarmi audace; (al Cavaliere.)

Una simile ingiuria non vuò soffrire in pace.

Dove sono gli armati? Tornino in questo loco.

Ah, son fuor di me stesso; armi, vendetta e fuoco.

CAVALIERE:

Acqua, presto dell'acqua.

GIACINTO:

Non vengono gl'indegni.

Ah, saprò da me stesso adoperar gli sdegni.

O porgami la mano la donna a suo dispetto,

O ch'io con questa spada saprò passarle il petto.

SCENA DECIMA

Fabrizio travestito, colla spada in mano, e detti.

FABRIZIO:

Volgi a me quella punta. (Verso Giacinto, ponendosi in guardia.)

GIACINTO:

Servitore umilissimo. (A Fabrizio, con timore.)

E chi è questo signore? (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

È un capitan bravissimo.

GIACINTO:

Ho piacer di conoscere il signor capitano;

Vedo ch'egli sa bene tener la spada in mano.

Degli uomini di spirito ammiratore io sono;

In grazia sua mi accheto, e i torti miei gli dono. (Ripone la spada.)

FABRIZIO:

Con voi mi voglio battere. (A Giacinto.)

GIACINTO:

No, mio signor, perdoni.

CAVALIERE:

Viva l'eroe magnifico.

LAVINIA:

Viva il re dei poltroni.

FABRIZIO:

Sono, se nol sapete, cugin della Contessa.

GIACINTO:

Con voi me ne consolo, e colla dama istessa.

FABRIZIO:

Voglio che dello zio s'adempia il testamento.

GIACINTO:

Benissimo.

FABRIZIO:

Sposare la voglio in sul momento.

GIACINTO:

Ha ragione.

FABRIZIO:

Mi dicono, che il di lei padre ha fatto

Con voi di matrimonio certo tal qual contratto.

È egli ver?

GIACINTO:

Non lo nego.

FABRIZIO:

O lacerato ei vada,

O meco sostenetelo col sangue e colla spada.

CAVALIERE:

(Bravo, Fabrizio, bravo.) (Piano alla Contessa.)

LAVINIA:

(Si porta egregiamente). (Piano al Cavaliere.)

GIACINTO:

(Cosa risponder posso senz'armi e senza gente?) (Da sé.)

Signore, ecco il contratto; cedo non per timore (tirando fuori dalla tasca un foglio).

Ma faccio un sagrifizio in grazia del valore.

Prenda. (Si accosta per dargli la carta.)

FABRIZIO:

Non vi accostate. (Ponendosi colla spada in difesa.)

GIACINTO:

Offenderla non voglio.

FABRIZIO:

Mettete sulla punta di questa spada il foglio.

GIACINTO:

Ma perché? (Mostra aver paura della punta.)

FABRIZIO:

Non tardate.

GIACINTO:

Si fermi in cortesia. (Vuole infilare la carta, e Fabrizio muove la spada.)

(Una paura simile non ebbi in vita mia). (Da sé.)

CAVALIERE:

(È graziosa la scena). (Piano alla Contessa.)

LAVINIA:

(Che scena inaspettata!) (Piano al Cavaliere.)

FABRIZIO:

Infilzate la carta. (Minacciandolo.)

GIACINTO:

Sì signor, l'ho infilzata. (Gli riesce d'infilzarla, e si ritira contento.)

FABRIZIO:

Questo contratto indegno si laceri così. (Lo straccia.)

Sposatevi, Contessa.

LAVINIA:

Mi ho da sposar? con chi?

FABRIZIO:

Col Cavalier.

LAVINIA:

Davvero?

FABRIZIO:

Col Cavalier, vi dico.

Giacinto non si oppone.

GIACINTO:

Per me non contraddico.

FABRIZIO:

Animo, in mia presenza si faccia il matrimonio;

Potrà il signor Giacinto servir di testimonio.

GIACINTO:

(Anche di più?)

FABRIZIO:

Che dite?

GIACINTO:

Son qui, so il mio dovere.

FABRIZIO:

Via, porgete, Contessa, la mano al Cavaliere.

LAVINIA:

(Per burla, oppur davvero?) (Piano al Cavaliere.)

CAVALIERE:

(Son pronto in ogni modo). (Piano alla Contessa.)

LAVINIA:

(Così senza pensarvi? Bellissima sul sodo). (Piano al Cavaliere.)

CAVALIERE:

(Volete, o non volete?) (Piano alla Contessa.)

FABRIZIO:

Si perde il tempo invano.

LAVINIA:

(Che mi consiglia il cuore?). (Da sé.)

FABRIZIO:

Porgetevi la mano.

SCENA UNDICESIMA

Don Paolino e detti

PAOLINO:

(Parmi sia la Contessa dubbiosa nel pensiero

Non vorrei dallo scherzo che si passasse al vero). (Da sé, in disparte.)

CAVALIERE:

Ma su via, risolvete. (Alla Contessa.)

LAVINIA:

Pria che la mano e il core...

PAOLINO:

Contessa, con premura vi cerca il genitore.

LAVINIA:

(Opportuno è il riparo). (Da sé.) Vado agli ordini suoi.

FABRIZIO:

Ma sposatevi in prima.

LAVINIA:

Ci sposerem da poi.

FABRIZIO:

Dunque se è il matrimonio per or procrastinato,

Anche il signor Giacinto restar può sollevato.

Vada liberamente, e di ogni buon servizio

Gli rende mille grazie il capitan Fabrizio. (Si scopre levandosi i baffi, e parte.)

PAOLINO:

E se il signor Giacinto non prende altro cammino,

Gli fiaccherà le spalle il capitan Paolino. (Parte.)

CAVALIERE:

E l'autor della burla, che appunto io sono quello,

Riverente s'inchina al capitan Coviello. (Parte.)

GIACINTO:

Ah, cospetto di bacco!... Zitto, che niun mi senta.

Mi tremano le gambe, e tutto mi spaventa.

A un par mio! me l'han fatta. Mi perdo e mi confondo:

Ah, vuò pregarli almeno, che non lo sappia il mondo. (Parte.)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

La Contessa e don Paolino

PAOLINO:

Dunque se non portavami la smania mia gelosa,

Data avreste la mano al Cavalier di sposa?

LAVINIA:

Chi sa?

PAOLINO:

Chi sa, mi dite? ah barbara, inumana!

So che del vostro amore la mia lusinga è insana.

LAVINIA:

Quai termini son questi? qual stile inusitato?

PAOLINO:

Sono gli ultimi sforzi di un cuor ch'è disperato.

Finor colla speranza tenni l'ardire a freno;

Ora calmar non posso i miei trasporti in seno.

Ditelo voi, crudele, se fui discreto amante,

Se in dubbio di mercede v'amai fido e costante;

Ditelo, se il mio labbro prosontuoso, ardito,

In mezzo a' miei sospiri fu delirar sentito.

Penai barbaramente, penai, ve lo confesso,

Nel periglio di perdervi ad un rivale appresso;

Ma sperai superarmi colla ragion per guida,

E vi credei, spietata, all'amor mio più fida.

Or che vi scopro appieno ingrata all'amor mio,

Or che il dover scordate, perdo il rossore anch'io.

Datevi ad uno in braccio, che amor non vi promette:

Il vostro pentimento farà le mie vendette;

E piangerete un giorno quel core abbandonato

Che vi amò dolcemente, che non avete amato.

Ah sì, che voi mi amaste, sì, che mi amaste un giorno:

Vidi d'amore i segni in quel bel viso adorno;

Ma oimè, che quelle luci meco non fur le stesse,

Dacché sacrificaste l'amore all'interesse.

Qual bene aver sperate dalle ricchezze al mondo,

Se un dolce amor non penetra del vostro cuore il fondo?

Ah Contessa, Contessa, vi torneranno in mente

I rimproveri un giorno di un amator dolente;

E tardi, e fuor di tempo, piena di un tetro orrore,

Direte fra voi stessa: Fosti pur dolce, amore!

Deh soffrite con pace gli ultimi accenti miei,

Finché libera siete, sono i sospir men rei.

Sposa di un mio rivale non mi vedrete in viso;

Eternamente il fato vuolmi da voi diviso.

Ma nell'estremo istante non mi negate almeno,

Che sollevare io possa con questo pianto il seno.

LAVINIA:

Oimè, qual duro peso premer mi sento al cuore!

Mi si abbaglian le luci. (Si getta sopra una sedia.)

PAOLINO:

(Deh non tradirmi, amore).

Se una scintilla ancora, bella, del primo foco

Arde nel vostro seno, fede, costanza invoco.

Cresca l'ardor sepolto, cresca la fiamma a segno,

Che pietà mi conceda, se son d'amore indegno.

LAVINIA:

(Ah, resister non posso). (Si copre col fazzoletto.)

PAOLINO:

Eccomi al vostro piede. (S'inginocchia a lei vicino.)

Non partirò, mia vita, se il vostro cuor non cede. (Stando in ginocchio si appoggia col capo alla sedia senza parlare, e la Contessa rima immobile col fazzoletto agli occhi.)

SCENA SECONDA

Il Conte Policastro e detti.

CONTE

(entrando nella camera vede li due nella positura suddetta, osserva un poco, poi pian piano torna a partire senza dir niente).

LAVINIA:

Sento gente. Levatevi. (S'alza.)

PAOLINO:

Non vi è nessun, mia cara. (Alzandosi.)

Ah, sempre più vi scorgo meco di grazie avara.

Per togliervi dappresso a un infelice oggetto,

Basta a giustificarvi un'ombra di sospetto.

Siam soli, e pria che alcuno s'inoltri a queste porte

Datemi la sentenza di vita, ovver di morte.

Ditemi, se soffrire deggio un sì rio tormento;

Per soddisfarvi ancora saprò morir contento.

LAVINIA:

Ah, non credea vedermi condotta a questo passo.

Son donna, e nel mio seno non chiudo un cuor di sasso.

Di forza e di coraggio posso arrogarmi il vanto;

Ma oimè, non so resistere in faccia a un sì bel pianto.

Don Paolino, vinceste. Vi amo, ma che per questo?

Posso mancar di fede a un cavaliere onesto?

E voi, che ospite siete del Cavaliere istesso,

Tradireste l'amico dalla passione oppresso?

PAOLINO:

La mia ragione è antica: non ebbe in questo loco,

Suscitato dal caso, principio il nostro foco.

Mia veniste qua dentro, mia per legge d'amore;

Reo non son io, se tento ricuperar quel core;

E a rendermi innocente con il cortese amico,

Basta che voi diciate, che l'amor nostro è antico.

LAVINIA:

No, più a tempo non sono; ei sospettollo in pria;

Libera in faccia ad esso vantai quest'alma mia.

E (ve lo dico in faccia) libera fui finora;

Ma son pietosa e tenera con chi pietade implora.

Questi caldi sospiri, questo languirmi innante,

Quel che non fui per anni, mi rese in un istante.

Ma ancor vieppiù sincera di ragionar consento:

È ver, del Cavaliere il freddo cor pavento.

Da un'alma indifferente non spero essere amata;

Il mio danno preveggo, ma la parola ho data.

PAOLINO:

Dunque...

LAVINIA:

Dunque cessate di sospirare invano.

PAOLINO:

Oh barbara sentenza! oh destino inumano!

Se abbandonar vi deggio, perché mai dir d'amarmi?

Meglio per me, che almeno finto aveste d'odiarmi.

Avrei coll'odio vostro sofferto un sol tormento,

Ma dall'amor la pena moltiplicarmi io sento.

Pure obbedirvi io deggio ad ogni costo ancora.

Si ha da partir? si parta. Si ha da morir? si mora.

Deh, pria ch'io porti il piede dall'idol mio lontano,

Possa un umile bacio stampar su quella mano.

LAVINIA:

L'onor mio nol consente.

PAOLINO:

Amor mi reca ardire. (Accostandosi.)

LAVINIA:

Che ardireste di fare? (Fra il fiero e il tenero.)

PAOLINO:

Su questa man morire. (Le prende la mano per forza.)

LAVINIA:

Lasciatemi... (Si libera da don Paolino.)

PAOLINO:

Crudele.

LAVINIA:

In qual misero stato...

SCENA TERZA

Il Cavaliere e detti; poi Fabrizio

CAVALIERE:

Ho sentito gridare. Che vuol dir? cos'è stato? (Li due rimangono confusi senza parlare.)

Miei signori, tacete? Veggovi il volto acceso.

Siete molto confusi. Basta così; v'ho inteso.

LAVINIA:

Non crediate, signore...

CAVALIERE:

Ben ben, ci parleremo. (Sostenuto.)

PAOLINO:

Un cavalier d'onore...

CAVALIERE:

L'onor difenderemo. (Come sopra.)

Chi è di là?

PAOLINO:

(Che pretende?) (Da sé.)

LAVINIA:

(Aimè, qualche disastro). (Da sé.)

FABRIZIO:

Che comanda?

CAVALIERE:

Chiamate il conte Policastro. (Sostenuto.)

FABRIZIO:

Subito. Ho da tornare a far da capitano,

Coi baffi sul mostaccio e colla spada in mano?

CAVALIERE:

Eseguite il comando.

FABRIZIO:

Subito, sì signore.

(Questa volta il padrone mi par di malumore). (Da sé, parte.)

LAVINIA:

Signor, la mia condotta voglio giustificata.

CAVALIERE:

Vi conosco abbastanza. (Serio.)

PAOLINO:

È una dama onorata.

CAVALIERE:

Questa difesa vostra può rendersi sospetta. (Come sopra.)

PAOLINO:

Spiegatevi, signore.

CAVALIERE:

Lo farò. Non ho fretta. (Come sopra.)

SCENA ULTIMA

Il Conte, Fabrizio e detti.

CONTE:

Eccomi qui.

CAVALIERE:

Sediamo. (Tutti siedono.)

FABRIZIO:

(Paion tutti arrabbiati). (Da sé.)

CONTE:

(Mi rallegro). (Piano alla Contessa e a don Paolino.)

PAOLINO:

(Di che?) (Al Conte.)

CONTE:

(Che siate risvegliati). (Come sopra; poi va a sedere dall'altra parte, presso il Cavaliere.)

CAVALIERE:

Conte, non è più tempo che si nasconda il vero,

Più non giova il celarsi; scoperto è il gran mistero.

Nel cuor di vostra figlia so quale amor si aduna...

CONTE:

S'ella non vi vuol bene, io non ne ho colpa alcuna.

LAVINIA:

Voi non sapete ancora... (Al Cavaliere…)

CAVALIERE:

Per or datevi pace. (Alla Contessa.)

PAOLINO:

Parlerò io per tutti. (Al Cavaliere arditamente.)

CAVALIERE:

In casa mia si tace. (A don Paolino.)

Da cavalier qual sono, parlar mi sentirete;

E fintanto ch'io parlo, signori miei, tacete.

Conte...

CONTE:

A me non parlate, che inutile sarà.

CAVALIERE:

Voglio parlar con voi.

CONTE:

Parlate: eccomi qua.

CAVALIERE:

Voi colla vostra figlia da me con un pretesto

Questa mane veniste, in apparenza onesto.

Io con vero rispetto e con sincero amore

Accolsi in queste mura la figlia e il genitore.

CONTE:

È vero; e ci faceste un pranzo esquisitissimo.

CAVALIERE:

Ma però...

CONTE:

Quel bodino mi è piaciuto moltissimo.

CAVALIERE:

Posso parlar?

CONTE:

Parlate.

CAVALIERE:

La mia sincerità

Veggo mal corrisposta.

CONTE:

Vi è qualche novità?

CAVALIERE:

S'introduce un amico...

PAOLINO:

L'amico è un uom d'onore. (Al Cavaliere)

CAVALIERE:

Ora con voi non parlo. (A don Paolino.)

CONTE:

Zitto. (A don Paolino.)

LAVINIA:

(Mi trema il core). (Da sé.)

CAVALIERE:

Un amore segreto si nutre e si coltiva?

Destasi un'altra fiamma, quando la prima è viva?

Simile trattamento non dee andar senza pena.

Le mie risoluzioni...

CONTE:

A che ora si cena? (Al Cavaliere, che mostra impazientarsi.)

PAOLINO:

Signor, che pretendete? (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Vi sarà noto or ora. (A don Paolino.)

LAVINIA:

L'onor mio non s'offenda.

CAVALIERE:

Chetatevi, signora.

CONTE:

Zitto. (Alla Contessa.)

CAVALIERE:

Un zio generoso amando i suoi nipoti,

Di renderli felici spiega morendo i voti.

Ordina i lor sponsali, e per sfuggir le liti

Brama che i di lui beni possan godere uniti.

Obbedire vorrebbe la dama al testatore,

Ma al bel desio contrasta un radicato amore;

Sforza il cuore all'azzardo, vien vigorosa e franca,

Vuol superar l'affetto, ma il suo valor poi manca.

Del nuovo sposo il volto forse non spiace ai lumi,

Ma al cuor di molle tempra dispiacciono i costumi.

Ella brama un amante tenero e lusinghiero,

E un cavalier ritrova, che colle donne è austero.

Di superar procura quest'avversion fatale,

Ma dell'amante in faccia la sua ragion non vale.

Abbastanza, Contessa, giustificata or siete,

Ma il cavalier... (Verso don Paolino, mostrando sdegno.)

PAOLINO:

Signore... (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Io vuò parlar. (A don Paolino, con finto sdegno.)

CONTE:

Tacete. (A don Paolino.)

CAVALIERE:

Il cavaliere amante, per gelosia venuto

Del rival fra le soglie, soffrir non ha potuto.

E nell'atto di perdere l'amabile tesoro,

Disse alla sua diletta: io vi abbandono e moro.

Le follie degli amanti so che orribili sono;

Il suo destin compiango, e la follia perdono.

Quello di cui mi lagno, che merita vendetta,

Quello che risarcire all'onor mio si aspetta,

Conte... (Affettando sdegno.)

CONTE:

Non ne so nulla.

CAVALIERE:

È la rea diffidenza,

Con cui ad un amico negar la confidenza.

Perché non isvelarmi il loro cuore oppresso?

Avrei le brame loro sollecitate io stesso.

Perder temea la dama del testamento il frutto?

Se la metà non basta, son pronto a ceder tutto.

Si può con un accordo render comune il danno;

Il zio non ha creduto di rendersi tiranno,

Ed io che non coltivo un animo rapace,

Non curo le ricchezze a costo della pace.

Quello che non si è fatto, facciasi pur, se vuole,

E rispondano i fatti al suon delle parole.

Ma pure una vendetta al torto che mi han fatto,

Conte, ve lo protesto, vuò fare ad ogni patto.

Io che mai per costume son solito adirarmi,

Questa volta lo sdegno mi sforza a vendicarmi.

Ecco la mia vendetta. Quegli occhi sì vezzosi (tenero, affettato),

Che i cuori più inumani pon rendere amorosi,

Quelle guance vermiglie, quel bel labbro ridente,

Sappian che del suo bello non me n'importa niente.

Sia certa la Contessa, che qual l'avrei veduta

Senza passion mia sposa, l'ho senza duol perduta.

E se è ver, che la donna pretenda essere amata,

Colla mia indifferenza l'ingiuria ho vendicata.

LAVINIA:

L'insulto che mi fate, è di una dama indegno. (S'alza.)

Sentomi ch'io non posso più trattener lo sdegno.

CAVALIERE:

Contessa, i sdegni vostri di provocar tentai;

Se mi riuscì l'impresa, son vendicato assai.

Perdonate, signora; quel che scherzando ho detto,

Non scema al grado vostro la stima ed il rispetto.

E quella indifferenza, che agli occhi vostri ostento,

Sdegno non la produce, ma il mio temperamento.

Con voi non sono irato, finsi così per gioco:

Godo d'aver io stesso scoperto il vostro foco.

E se don Paolino di vero cuore amate,

Sian le nozze concluse, e a consolarvi andate.

LAVINIA:

Quasi rider mi fate.

CAVALIERE:

Ride quel bel bocchino!

Come si sente il core, signor don Paolino?

Ma con voi mi scordavo, che vendicarmi or resta:

Giovine sconsigliato, la mia vendetta è questa.

Ospite qua veniste con mascherato amore,

Vi accompagni partendo il rimorso, il rossore.

PAOLINO:

Deh perdonate, amico...

CAVALIERE:

Per me vi ho perdonato;

Provai non poca pena a fingermi sdegnato.

Le pazzie compatisco d'un violento affetto,

E che mi guardi il cielo da un simile difetto.

Ma il conte Policastro, che venne unitamente

A tramar quest'insidia...

CONTE:

Amico, io non so niente.

CAVALIERE:

Merita che si fulmini contro di lui la pena.

CONTE:

Cosa volete farmi?

CAVALIERE:

A letto senza cena.

CONTE:

No, per amor del cielo.

CAVALIERE:

Orsù, siete contento

Per la vostra figliuola di questo accasamento? (Al Conte.)

CONTE:

Basta non vi sian liti.

CAVALIERE:

Liti non vi saranno:

Le cose in buona pace fra noi si aggiusteranno.

Son cavalier d'onore, vi do la mia parola.

LAVINIA:

Che dice il signor padre?

CONTE:

Fate pur voi, figliuola.

CAVALIERE:

Via, datevi la mano. Siam qui Fabrizio ed io;

Noi sarem testimoni. (Alla Contessa e a don Paolino.)

FABRIZIO:

Quest'è l'uffizio mio.

PAOLINO:

Contessa mia.

LAVINIA:

Son pronta.

PAOLINO:

Ecco la man.

LAVINIA:

Prendete. (Si danno la mano.)

CAVALIERE:

Siete moglie e marito. Ora contenti siete.

Per voi non vi è nel mondo maggior felicità;

Io credo esser felice vivendo in libertà.

Godon talora i sposi, talor vivono in duolo:

Io son sempre lo stesso, godendo di star solo.

E parmi di godere assai perfettamente

I beni della vita, se sono indifferente.

Sia amica la fortuna, siami contraria e trista,

Nel mal, come nel bene, io sono un Apatista.

Altro ben che la pace, altro piacer non v'è;

Uditori cortesi, ditelo voi per me.

Fine della Commedia