L’augellino verde

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CARLO GOZZI

L’AUGELLINO VERDE

Commedia in cinque atti

Di CARLO GOZZI

PERSONAGGI

Tartaglia, re di Monterotondo

Tartagliona, Vecchia regina de ' Tarocchi, sua madre

Ninetta, moglie di Tartaglia

Barbarina

Pompea, simulacro, amato da Renzo calmon, antica statua morale, re de simulacri

Brighella, poeta, ed indovino, amante fìnto di Tartaglio­na

Truffaldino, Salsicciaio

Smeraldina, sua moglie

Pantalone, ministro di Tartaglia

Augel belverde, re di Terradombra, amante di Barbarina

pomi, che cantano

acqua d'oro, che suona, e balla

statua, fontana di Trevigi

rioba, e compagni, statue del campo de ' Mori di Venezia

voce serpentina, fata

I novellatori della piazza, statue

CIGOLOTTI CAPPELLO

servi, guardie, e varie fiere

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

La scena è parte nella città immaginaria di Monteroton­do, parte nel giardino di Serpentina, parte sul colle dell'Orco, e in altri luoghi correlativi all'indole d'una rap­presentazione fiabesca.

 Strada della città di Monterotondo

Scena prima

Brighella da indovino in caricatura, Pantalone dietro con attenzione.

Brighella                       - (da sé in entusiasmo) O sol, che ti xe specchio delle umane vicende, mai ti deventi vecchio per scoprir a chi sa cose tremende!)

Pantalone                      - (da sé) (Mi ghe son matto drio sto poeta. El dixe cose, che le xe da retrazer; el fa versi, che i xe da raccolta per nozze).

Brighella                       - (come sopra) O dei Tarocchi misera regina! O Tartagia felice! O Renzo, o Barbarina! Tal frutto nasce da fatai radice!)

Pantalone                      - (da sé) (Ole! Qua l'entra in tei Sangue real de Monterotondo. La regina dei Tarocchi meschina? Sior sì; la se lo merita. Sta vecchia marantega la dopo la partenza del re Tartagia, so fio, no la fa altro, che tirannie, e lu no merita de esser felice per aver lassa el governo in man per el corso de disdott'anni a sta striga. Fussela morta da quel resepigljon, che la gaveva in telle gambe al tempo delle nozze de so fio. Ma no capisso: «O Renzo, o Barbarina! Tal frutto nasce da fatai radice!»)

Brighella                       - (come sopra) (O spirito gentil del re de Coppe, passa nell'altro mondo! Quanti gran casi, quante gran faloppe famoso deve far Monterotondo!)

Pantalone                      - (come sopra) (Ancora più famoso? No basta, che s'abbia visto naranze a deventar femene, femene a deventar colombe, colombe a deventar regine de felice memoria?)

Brighella                       - (come sopra) (Tartaglia, ti vedo; tu torni alla corte. Ninetta, noi credo, non sei fra le morte, e non son perse ancora le speranze, discendenza real delle naranze).

Pantalone                      - (da sé) (No gh'è caso bisogna star colla boc­ca averta, e ascoltarlo, come cocali. E in teli'indovinar costù xe più bravo del Schieson sie volte. «Tartagia, te vedo?» Seguro, el re Tartagia, che xe andà alla guerra contro i rebelli, e che xe disnov'anni che ci manca, xe qua stassera, seguro. «Ninetta no ti è fra le morte?» Oh, qua no ghe la catto. La regina Ninetta xe stada sep-pellia viva, xa disdott'anni, sotto el buso della scaffa, per le persecuzion de sta vecchia carampia de regina, e l'ho vista mi con sti occhi. Figurarse, se no la xe mar­cia, e in polvere? «No xe persa la descendenza delle naranze?» L'è bella; ma no la se poi sorbir. Se me par, che sia ancora quel momento fatai, che la quondam po­vera regina Ninetta, prima de esser sepolta viva sotto al buso della scaffa, ha partono quei do zemelli, puttello, e puttella, che gera un naroncolo, e una riosa de bellez­za. A mi i me xe stai consegnai da sta vecchia caram­pia de so nona, coll'ordene de scannarli, pena la mia vita, e, pena la mia vita, de taser; e me par de veder an­cora l'azion negra de metter in tela cuna, in cambio dei do zemelli, do cagnetti mufferle, che aveva partorido la Mascherina de corte; scrivendo pò al re quelle rela-zion, quelle accuse, e quelle iniquità, che ha causa tanti ordeni tragici, i quali sarà contai sotto el camin, come fiabe. Xe ben vero, che mi no ho abuo cuor de scannar quelle raise, e me recordo, come se fusse in sto ponto, che li ho fatti in rodolo con vintiquattro brazza de tela incerada veneziana, perfetta, de quella del traghetto del Buso, e che con la possibile diligenza ben condizionai per defenderli dall'umiditele, ho butta quel caro trames­so zoso per el fiume, portando a so nona do cuori de cavretto, come sol far i boni ministri in sti casi. Dopo disdott'anni, se anca no i xe morti negai, o dalla fame, i sarà morti per no aver podesto crescer, perché so de averli cusii stretti col spago sforzin. Sior strolego caro, se' un poeta felice, no se' imitator, no affette la lingua toscana; le vostre xe cose, e no parole; el cielo sa dar del gran talento ai omeni, ma sti omeni sa anca dir del­le bestialità da riderghe in tei muso. No gh'è più tacco­ni, la descendenza delle naranze xe estinta).

Brighella                       - (che sarà Stato colle mani alla fronte, come sopra)

(Se dai tremendi pomi, che cantano, dall'acque d'oro, che suonano, e ballano, dai re fatati pennuti, che parlano, Tartagliona, non sei difesa per quella forza non unquanco intesa, hai contrari i simulacri solidi, fluvidi, alcalici, ed acri; una pozzanghera sarà il tuo nicchio; né può difendertiBrighella, strologo, vate Caicchio) (viene in sé) Ma, oimè, va mancando l'entusiasmo celeste; resto un minchion, come tutti i altri omeni. Me chiappa el solito languor de polmoni, me vien el consueto svenimento. Vedo vicina una bottega de luganegher. Reparemo con do soldi de sguazzetto la debolezza, che sol lassar l'e­stro divin, el furor poetico, (entra)

Pantalone                      - Sangue della Noffia, che ha buo el terzo in regata, che bel pezzo de poesia che xe sta questo! No ghe n'ho inteso una maledetta; porlo esser più divin de cusì? Pomi, che cantano, acque, che ballano, solidi, fluvidi, alcalici, ed acri. Sia come se vogia, qualcosa de grando ha da nasser certo in sta corte. Mi ho visto tante cose impossibili, che son in dubbio de tutto, e son deventà un filosofo pironian marzo. Se poi veder de più dopo una serie de metamorfosi indiavolae? Se fa brusar Smeraldina mora, e Brighella, servitor del Ca­vai de Coppe. Smeraldina mora, dopo brusada, renasce bianca, come una pippa vecchia buttada in fogo; la sposa Truffaldin, cogho de corte, e i mette su bottega da luganegher.

Brighella                       - brusà; che sogio mi?... come un sonetto per dottorato, renasce dalle so cenere indo-vin, e poeta insigne. Ohe no me stupisso de gnente; se poi dar tutto, se poi dar tutto, (entra)

Scena seconda

Truffaldino - da salsicciaio, e Smeraldina.

Truffaldino                   - Gridando, che non può più soffrirla, che quando fu abbruciata, era una scellerata utile, e che se doveva risuscitare una minchiona, era meglio, che se ne restasse un carbone. Maledice il punto, in cui l'ha sposata, eh'è il suo ultimo esterminio, ecc. smeraldina Che certamente era meglio, che si fosse rimasta cene­re, piuttosto che sposare un briccone della sua qualità, che non pensa ad altro, che a mangiare, e dilapidare in vizi tutti i capitali della bottega,?

Truffaldino                   - Che i ca­pitali erano suoi, acquistati co' suoi sudori facendo il cuoco in corte, e con quelle oneste ruberie, solite del suo mestiere; che sarebbe stato meglio l'averli gettati nel fiume, piuttosto che aprir bottega da salsicciaio, perdi'ella donasse a tutte le sue pettegole della città di nascosto trippe, salami, ecc. e che facesse credenze a facchini, a vetturini, e sino (che non si sa dar pace) in un secolo, qual era il corrente, ai poeti, smeraldina Che s'ella fu un poco facile, può protestare innanzi al cielo d'essere stata per buon cuore sì, ma sempre in utile del negozio, e ch'egli, oltre quello che s'è man­giato a tutte l'ore, mettendosi sino sotto il capezzale il fegato fritto da mangiare la notte, ha donato fuori di casa alle femmine di mal odore in danno della bottega non solo, ma di sé medesimo, perché ha dovuto poi anche dare a medici, e a chirurghi, e a speziali, prosciutti, bondole, ecc. ?

Truffaldino                   - Arrabbiato, ch'ella voglia aver ragione, ed esser ultima a parlare. Che intanto nel­la bottega non v'erano più che quattro folpi duri, e due grossi d'anguelle fritte; esser fallito per il suo lusso, e per le sue matte generosità; che il cielo non aveva dati loro figli, che uno, il quale si morì, e ch'ella aveva vo­luto per forza raccogliere quei due fanciulli, trovati nel fiume rivolti in quella tela incerata, allattarli tutti due, rovinarsi, e dimagrarsi; che da quel punto le aveva per­duto l'amore, e che per tal causa s'era sviato dalle te­nerezze matrimoniali, cercando sollievo all'animo nauseato, e che il voler mantenere un fanciullo, ed una fanciulla sino all'età di diciott'anni, è stata una bestia­lità, principal cagione della sua rovina, ecc. smeraldi­na Furiosa, che non le tocchi mai Renzo, né Barbarina, né con fatti, né con parole, o farà il diavolo a quattro. ?

Truffaldino                   - Che assolutamente ha risolto, e che non li vuol più in casa, smeraldina Sua disperazione, com­passione, e sue lodi a Renzo, e Barbarina sulla loro obbedienza, bontà, e indifferenza agl'incomodi. Che mangiano gli avanzi; che studiano sempre; che sono utili, perché Renzo va alla caccia, e reca sempre lepri, ecc. Barbarina va a legna, lava, spazza, ecc. ?

Truffaldino                   - Conclude non volerli, perché Renzo ha delle massi­me da filosofo più di lui, e perché Barbarina è troppo modesta, e non si può sperar nulla d'utilità, ecc.

 

 

Scena terza

Renzo con un archibugio e un libro in mano,

 Barbarina con un fastello di legna, e libro; ambidue con vestiti laceri, in dietro, e detti.

Barbarina                                 - Renzo, la madre nostra, e il padre nostro sono in question.

Renzo                                      - E ver; deh gli ascoltiamo, (si fermano in attenzione)

smeraldina                     - (a Truffaldino) Che, se averà coraggio di dire una parola torta a Renzo, ed a Barbarina, farà ec­cessi?

Truffaldino                   - Che non vede l'ora, che giungano per poterli scacciar di casa, smeraldina Sue preghiere a

Truffaldino                   - perché non faccia questa tirannia,

Truffaldino                   - Che non ha figli, e che non vuol far le spese a bastardi.

Renzo                            - Bastardi siamo! (a Barbarina)

Barbarina                                 - Io non intendo: come!

Smeraldina                    - Prega Truffaldino a non lasciarsi mai scap­par di bocca questa parola: bastardi,

Truffaldino                   - Che quasi morto affogato a trattenersi per tanto tempo a non dirla loro; che non può più trattenersi. Che appena capitati, vuol dir loro, bastardi, bastardi mille volte, per respirare,

Smeraldina                    - Che forse saranno figli di qual­che gran signore; che le loro belle maniere, e i loro visi lo dicono,

Truffaldino                   - Che i figli de' gran signori non si trovano nei fiumi ignudi in una tela incerata, ecc. Che non vuol assolutamente far le spese a bastardi.

Renzo                            - (a Barbarina) Sorella, or siam chiariti; siam bastardi, (s'avvicina a Truffaldino) Padre, è poi ver, che siamo bastardelli?

Barbarina                      - (s'avvicina a Smeraldina) Ditemi, è ver, che noi non vi siam figli?

Smeraldina                    - (senza rispondere si mette a pianger dirotta­mente)

 

Truffaldino                   - (in gravità) Che non sa di pianti, e di tene­rezze eroiche; che la sua miseria non ammette eroismi. Esagera sul suo stato di fallito, narrando in caricatura il bilancio del suo negozio. Dice di averli mantenuti an­che troppo; che però sappiano, che sono realmente due bastardi, trovati ignudi in una tela incerata con la pelle sola indosso. Ch'egli non ha colpa della loro miseria, e che il cielo sa, che protesta al cielo, che dal canto suo ha procurato, che la moglie ricuperasse quel poco di tela incerata, e li tornasse a gettar nel fiume ad anne­garsi, perché non patissero le infinite miserie di questo mondo. Suoi giuramenti per sostener questa verità. Che la moglie sempre matta, e indiscreta, aveva voluto per forza tenerli vivi, e allevarli per loro fatalità. Ch'e­gli dalla sua parte non avea da render conto al cielo di non aver loro data un'educazione umana, e necessaria. Ch'è persuaso, che abbiano imparato a mangiare, a bere, e a sgravare il corpo; che però dovevano prevalersi delle virtù, insegnate loro dal canto suo, partire immediatamente, e non ardire di por più piede nella sua casa; altrimenti ecc. (entra)

Scena quarta

Renzo, Barbarina, e Smeraldina.

Renzo                                      - Oh bella! Barbarina, è certo questa una curiosa novità. Ringrazio il cielo assai d'aver in sen rinchiuso uno spirito forte.

Barbarina                                 - Io non vel nego, saria questo per noi barbaro punto; se i nostri libriccini filosofici non avessimo letti, e fatti insieme gli opportuni riflessi in sull'umana natura, e la ragione, starei fresca.

Smeraldina                              - Cari i miei figli, so, che non darete orecchio alcuno all'asino furfante di mio marito.

Renzo                                      - Ma, siam vostri figli, o no?

Smeraldina                              - No, non lo siete. Avete intese già le vostre vicende; ma che serve? V'ho allattati, allevati come figli; non dovete staccarvi dal mio seno.

Barbarina                                 - No, Smeraldina. I benefizi vostri, se avrem fortuna, fieno compensati. Non è dover, che chi del vostro sangue non nacque, resti ad aggravar la vostra famiglia meschinetta, ad onta massime del vostro sposo, lo già tra me suppongo, che del distacco nostro voi proviate qualche amarezza. Questo dispiacere nasce in voi solo per la consuetudine del conviver con noi, dal far riflesso, che a noi dispiaccia d'esser discacciati, d'andar raminghi. Voi pensar dovete, che il dispiacer, che dentro a voi sentite, nasce dall'amor proprio, che in voi regna.

Smeraldina                              - Come amor proprio? Che parlar è questo?

Barbarina                                 - Sì, Smeraldina; voi sentite affanno, che noi partiamo; dunque voi cercate, che ci fermiam per sollevar voi stessa; dunque cercate un benefizio a voi. Non vaneggiate; qui non c'è risposta. Sappiate, che il fratello Renzo, ed io, quando andiamo nel bosco, leggiam sempre de' libretti moderni, a peso compri da voi per la bottega, e facciam sempre riflessi filosofici sull'uomo, e conosciamo a fondo ogni sorgente di tutte quante son le azioni umane, né ci facciam di nulla maraviglia. Del vostro dispiacer già non v'abbiamo nessun obbligo al mondo, perché nasce dall'amor vostro proprio. Moderatelo, se v'è in poter, con la ragione. Noi con somma indifferenza andiamo via. Se faremo fortune, avremo a mente quanto per noi faceste, state certa. Vi rimunereremo per le leggi di società, ma non giammai per obbligo. Ritiratevi. Addio.

Renzo                                      - Brava, sorella. Siete brava filosofa, e assai bene della pretesa umana separate l'intrinseco valore dalle leggi di società. Mia cara Smeraldina, il ciel vi dia salute; andate in casa con quello sposo, che v'han stabilito di società le leggi, e procurate di sviluppar da' sensi la ragione, se mai potete, e di frenar con questa quell'amor proprio, che vi dà tormento. Ritiratevi, addio.

Smeraldina                              - O frasconcelli senza giudizio! Che parlar è il vostro? Che amor proprio? Che ragione umana? Che società? Che leggi? Chi v'insegna a pensare, e a parlar in questa forma, ragazzi matti?

Barbarina                      - (ridendo forte) Ah, ah, ah, fratello, la si riscalda, senti. Che disgrazia è non esser filosofi!

Renzo                                      - Amor proprio, Smeraldina, v'accende. Ritiratevi, e non vi fate svergognar qui in strada dalle persone, che potrien passare, colte, e spregiudicate.

Smeraldina                    - Ah, giuro al cielo, che, se credeva d'allevar due ingrati, vi lasciava annegar nel fiume. Dunque fu per amor di me medesma, ch'io di là vi trassi, e non lasciai negarvi?

Barbarina                                 - Che dimande son queste! Non v'è dubbio In voi stessa sentiste del piacere di far l'azione, e perciò la faceste.

Smeraldina                              - Per allattarvi mi svenai; spogliata mi son per rivestirvi; dalla bocca mi trassi il pane per nodrirvi insino a quest'età; per voi mille afflizioni, mille angosce ho sofferte; ed avrò fatto tutto per amor proprio?

Renzo                                      - Voi mi fate rider di gusto. Ah, ah, ah. Sì, certo, per amor di voi stessa. V'ha occupata il fanatismo d'un'azion'eroica. Quella dolcezza, che in voi sentivate di quell'azion, l'idea di guadagnarvi dominio sopra noi, sempre vi mosse ad operar per amor proprio.

Smeraldina                              - O cielo! Dunque non ho con voi merito alcuno di quanto feci?

Barbarina                      - Smeraldina, adagio. L'intrinseco valore dell'azione non vi dà nessun merto. Se avrem sorte, procureremo d'adattarci l'animo di società alle leggi, ed averete ricompensa a quel danno, che vi siete fatto per amor proprio.

Smeraldina                    - (furiosa) lo maledico il punto, in cui per troppo amar me stessa tanto ho penato ad allevar due ingrati, due matti da legar, che m'abbandonano con tanta indifferenza, e ingratitudine. Se mai nessun più aiuto, che s'annega, se mai vesto nessuno, ch'abbia freddo, se mai più faccio un soldo d'elemosina a chi si muor di febbre, o fame, o sete, poss'esser tanagliata, strangolata, tagliata a pezzi, ed arsa un'altra volta, (entra)

Scena quinta

Renzo, e Barbarina.

Renzo                                      - È partita collerica. Sorella, scusar bisogna l'ignoranza.

Barbarina                                 - È Vero. Ma dì, fratel; non ti fa spezie alcuna quest'improvviso restar qui ramingo, stracciato, e il non saper di chi sei figlio?

Renzo                                      - Niente affatto, sorella; ed ecco i computi filosofici miei. Non abbiam padre, non abbiam madre. Eccoci dunque sciolti da obbedienza, e soggezion; ed ecco il desiderio tronco della morte dei genitor, per rimaner eredi della lor facoltà, per appagare delle umane insaziabili passioni i trasporti infiniti. Un bene è questo in confronto del mal. Veniamo adesso all'altro punto. Hai tu nessun amante?

Barbarina                         - No, in coscienza, Renzo, v'assicuro.

Renzo                                      - Né men io ho amorose, ed ecco tronca quella sorgente al desiderio pazzo, a quella passion pericolosa di comparir galanti per piacere, che infelici, e ridicoli suol fare gli spasimati, e che suol far sudare tanti mercanti, i quali fan credenze. È questo un ben, che supera di molto il mal di questi stracci. Non bisogna dunque avvezzar giammai questa natura a niente di ciò, che il secol nostro comodo chiama, e dilicato. Mai non converrà prender affetto alcuno, amicizia nessuna a questo mondo. Ci difenda il riflesso, ch'ogni donna ogni uom per amor proprio opera sempre. La massima fissiam, che in generale tutti i mortali sien superbi, avari, vani, vendicativi, impraticabili. Quest'idea filosofica ci pasca; spogliamci d'amor proprio affatto, affatto, e saremo felici. Andiam, sorella.

Barbarina                                 - Odimi, Renzo, lo t'assicuro, e giuro, che nessuno amerò, che sarò sempre per la vita filosofa. Ma deggio confessarti però, quantunque dissi di non amar nessun, che spesso intorno mi suol girare un certo Augel belverde ch'egli mostra d'amarmi, e ch'io mi sento per quell'animaletto alquanto debile.

Renzo                                      - Nulla, sorella; io ti guarisco tosto da quest'amor. Sappi, gli uccelli tutti, per proprio istinto, girano d'intorno a tutte le civette. Quest'Augello ti crede una civetta, e ti circonda. Lungi da tutti andiamo, e fuor di questa città pericolosa, (entra)

Barbarina                                                      - O mondo ! O mondo ! Certo sei tristo, se nemmen si puote dell'amor lusingarsi in sulla terra, dell'amicizia d'un Augel belverde. (entra)

Scena sesta

Sepolcro sotterraneo sotto il buco della scaffa, in cui sta sepolta Ninetta in abito lugubre.

Perché mai vivo ancor dopo sì lungo tempo, sepolta in quest'orrida fossa dove tante immondizie, e si fetenti colano sempre? O di Concul figliuola, miserabil Ninetta! Era pur meglio restar colomba un dì, restar rinchiusa nella scorza fatai di melarancia, in poter di Creonta, gigantessa, che rimaner, senza capir la causa, senz'aver colpa, condannata ad essere sepolta viva in così lorda fossa, mentre non era ancor fuori del parto. Ecco il pietoso usato Augel belverde, che del solito cibo mi soccorre, pel bucco della scaffa discendendo. O Augello, Augello, quanto meglio fora il lasciarmi morir! Termine avrebbe la lunga pena mia. Sazio sarebbe l'inumano Tartaglia, il re, mio sposo, e la nimica mia, sua madre antica, (piange)

 

Scena settima

Uccel belverde, che discende con unfiaschetto, e con un pane, e detta.

Augel                                       - Ninetta, frena il pianto; forse non è lontano il fin delle miserie del sepolcro inumano.

Ninetta                          - Come? L'Augel belverde, che ragiona?

Augel                            - Non istupir Ninetta, se dopo diciott'anni sol oggi teco parlo per scemarti gli affanni. Se tu di re sei figlia, e fosti melarancia, sai, che non è impossibile il cambiar d'una guancia. Io son di re figliuolo, e nell'età più verde fui cambiato da un orco in Augellin belverde. Sta la nostra fortuna, la nostra sorte ria in man di Barbarina, tua figlia, e amante mia; ma oh quante dure imprese, quanti orridi, indiscreti stan sulle nostre vite inumani decreti!

Ninetta                                     - O caro Augel, mi narra, e qual mia colpa mi tien sepolta in questa immonda stanza? Ch'è del mio sposo, e de' miei cari figli?

Augel                                       - L'odio di Tartagliona è la tua colpa solo. T'ha accusata d'adultera a Tartaglia, figliuolo; in cambio di due figli, scrisse al re, tuo marito, che un mufferle, e una mufferla avevi partorito: lo sposo, rea credendoti, rimise con un foglio le cose a Tartagliona, più dura d'uno scoglio. La vecchia crudelmente ti fece seppellire; commise, che i due parti si facesser morire. I figli non son morti; n'ebbe compassione il veneto pietoso, il vecchio Pantalone. Van sconosciuti errando, quai bastardi in rovina; l'uno si chiama Renzo, e l'altra Barbarina. Spera, Ninetta, spera; ma aggiungi alla speranza calde preghiere a' numi per l'ammorbata stanza. Se i tuoi gemelli vincono i perigli tremendi, tu dall'immonda fossa l'usato trono ascendi; perisce Tartagliona; io lascio queste spoglie, se

Barbarina                      - è forte, e la prendo per moglie. Ma, oh Dio, ch'io son forzato ad esserle avversario. Ninetta, più non dico; ti volgo il taffanario. (rialzasi, ed entra)

Ninetta                                     - Mente, resisti; ahi, le gran cose intesi! Prendiamo il cibo, e preci al ciel si mandino. Se dopo diciott'anni di sepolcro trovo d'uscir la via, storia non v'è, che superi la mia. (si chiude)

Scena ottava

Strada della città.

Brighella                       - Ha ristorata la vena di previdenza con una coratella di pecora in guazzetto, mangiata dal salsic­ciaio. Si sente nel ventre gorgogliare l'astrologia, e l'arte poetica, e indovinatoria; che i preludi sono immi­nenti per uscire; che assisterà Tartagliona per quanto potrà; che si sente della debolezza amorosa per quella vecchia; che di gusti non si dee disputare. Ch'è vec­chia, grima, ma regina. Che un poeta può avere delle inclinazioni, che si distinguano dalle comuni. Che vor­rebbe poterle intenerir il cuore colle attenzioni, delica­te espressioni, e teneri versi, (con enfasi) «Chiome d'argento fine, irte, ed attorte, avvolte intorno ad un bel viso d'oro!» (entra)

Scena nona

Spiaggia diserta. Barbarina, e Renzo.

Barbarina                                 - Renzo, la notte è presso: qui non veggio, che una spiaggia diserta. E l'aer crudo, e le piante, e le mani, e i denti in bocca mi triemano pel freddo. Ti confesso, l'amor proprio comincia a dominarmi.

Renzo                                      - Barbarina, sta forte, e lo sopprimi. Io non mi reggo in piedi per la fame; ma questa spiaggia ignuda d'ogni bene, quest' esser lungi dagli uomini perfidi, che tutto fan per amor proprio, credi, mi rinfranca lo spirto...

Barbarina                      - Ma, fratello, se, verbigrazia, una persona adesso c'invitasse all'albergo, ci accendesse un bel foco dinanzi, ci donasse ben da cena, un buon letto; dimmi il vero, questa persona ti rincrescerebbe?

Renzo                                      - Avrei cara la cena, il foco, il letto; ma, quando riflettessi alla persona che solo per piacere a sé medesma ci darebbe l'alloggio, avrei dispetto ad accettar quel benefizio.

Barbarina                                 - Renzo, ti dico il ver; la fame, il freddo, il sonno mi farieno parer quella persona adorabile affatto, e d'amor piena più per noi, che per sé.

Renzo                                      - Oibò, oibò. Quella persona certo, o saria donna, e quell' azion faria per me, che sono maschio; o sarebbe un uomo, e lo farebbe per te, che donna sei. Sempre malizia. E per lo men farebbe quest'azione per fanatismo, e per amor di gloria, e perché si dicesse: «quella è grande, generosa, magnanima, ospitale, adorabil, benefica». Amor proprio fracido sempre in mezzo, sempre, sempre.

Barbarina                                 - Renzo, la fame, il freddo, e la stanchezza hanno in me tal vigor, che agli occhi miei ti dipingono un pazzo, ed un fanatico, e pieno d'amor proprio più degli altri.

Renzo                            - Perché?

Barbarina                                 - Tutta la rabbia, che tu senti, e i disprezzi, che scagli contro gli altri, hanno sorgente dall'amor tuo proprio; e l'amor proprio è tanto grande in te, che capir non ti lascia, che ti muori di fame, e freddo. Or poco fanatismo forse ti sembra questo?

Renzo                                      - Aspetta un poco. Temo, che tu dica la verità. Se il vero tu dicessi, noi so negar, m'increscerebbe assai, (pensieroso)

Scena decima

Tremuoto, prodigi, oscurità Calmon, statua antica, e detti.

Calmon Barbarina ha ragion: Renzo apri gli occhi.

 

Barbarina                      - O Dio, Renzo; una statua, che cammina! Una statua, che parla!

Renzo                                      - È questo un caso, che un filosofo mai noi crederebbe, e pur è ver. Statua, mi dì, chi sei?

Calmon                                    - Son un che un giorno visse qual tu or sei filosofo meschin. Scoprir pretesi degli uomini l'interno, ed uomo anch'io vidi amor proprio in tutti esser cagione d'ogni menoma azion. Vidi, o mi parve farneticando di veder, ragione schiava de' sensi, e colla mente ardita generalmente avara, traditrice, perversa, ingrata, tutta per se stessa, nulla per gli altri, di veder mi parve l'umana spezie, e del motor superno la più illustre fattura, la più bella temerario sprezzai. Tronca mi fossi la lingua, prima di cambiare il nome dell'eroismo d'opere pietose, che pur vedea talor d'uom per altr'uomo, in quel di fanatismo, di follia, figlia del proprio amor, nata da intenso compiacimento borioso, e stolto. Quante troncai bell'opre, e quanti ingrati a' benefizi fur per mia cagione! Qual prò, Renzo, qual prò, ridur se stesso a sospettar di tutti, e l'eloquenza tutta adoprare a suader le genti, che per se stesso necessariamente pessimo è ogni uomo, e che ragion soggetta è degli umani sensi? Altro non vinci, che sospetti destare in fra i viventi, abbonimento l'un per l'altro, noia, nimicizia perpetua. Tu più, ch'uomo, Renzo, non sei. S'un ti dirà, che pensa, come dì tutti gli altri tu rifletti, sopra l'interno tuo, so, che vergogna ti prenderà, che la tua lingua, mossa dall'amor proprio, tenterà ogni via di giustificazion, per farti credere leale, liberal, pietoso, umano, che natura in te parla, e il male abborre. Tal dunque esser vorresti, e tal capisci, che l'uomo esser dovrebbe, e la ragione, non schiava a' sensi, a te distinguer lascia qual sia mal, qual sia bene. Ama te stesso amando gli altri, e la ragion seguendo, dei decreti del ciel figlia, e non serva dei fragil senso, tal riescirai, te stesso amando, quale esser vorresti.

Barbarina                                 - Renzo, la statua non mi sembra certo filosofo cattivo.

Renzo                                      - Egli è, sorella, un filosofo statua, un moralista rancido, marcio; ancor non ha provato, che non opera l'uom per proprio amore.

Calmon                                    - Fanciullo, anch'io pensai, come tu pensi, quattrocent'anni or son. Sprezzai le genti colle stesse tue idee. Volli usar forza, e far, che l'opre mie non dipendessero dall'amor di me stesso. Allor m'avvenne, che pietra si fé' il cor, le membra tutte mi si cambiaro in marmo, e sul terreno caddi: ivi giacqui molti anni fra l'erba sepolto, e il sucidume. Inutil corpo, berzaglio fui de' passeggier, che il peso di natura sgravar. Tal diverrebbe ogni mortai, che contro al proprio amore, principio d'ogni azione, oprar volesse.

Renzo                                      - A che dunque venir con cantilene tanto noiose, se volevi darmi vinta la causa mia, statua ridicola? Tutto è amor proprio dunque, tutto, tutto.

Calmon                                    - Stolto filosofastro, tu ragioni col linguaggio degli empi, che a' difetti, a' vizi lor, sprezzando la fattura dell'eterno motore onnipossente, cercano scusa. Ov'amor proprio alberga, compassion, pietà de' casi avversi pel sozio alberga, brama di virtude, timor di morte, e dell'eterne angosce. Non adombrare il vero. È l'uomo parte del sommo Giove, e, se medesmo amando, ama il suo creator. Celeste forza è amor proprio nell'uom, ma il proprio amore nessun più sente di colui, che, oprando colla compassion, colla virtude, colla pietà, felice, eterna vita, sé nell'origin sua, nel centro suo, amando, a sé procura, e si compiace nella virtù, che gli empi tuoi maestri fanatismo chiamar per propria scusa. Verran l'ore funeste, e alle afflizioni indispensabilmente umanitade sensibil esser dee. Verrà il momento, sì, pur troppo verrà, che doveranno gli uomini averti a schifo; e allor conforto sol ti sarà l'aver, mentre vivesti, coltivate le idee dentro al tuo seno di tua grandezza al tuo finir qui in terra. Non avvezzar l'interno, i rei seguendo filosofi maligni, a diffidenza d'un asilo superno, ed immortale. Leva il grugno da terra, animai sozzo, mira il cielo, e le stelle, e il tuo pensiero non allacciar qua giù tra i sensi, e il nulla.

Barbarina                                 - Insomma questa statua ha del giudizio.

Renzo                                      - Sì, sì; brava; mi piace. Ella pero non m'impedirà mai d'esser filosofo.

Calmon                                    - Non te l'impedirò, ma noi sarai. Debolezza nell'uomo è grande troppo. Tu, scioccherello, il proverai fra poco. Filosofia v'è ben, ma non filosofo.

Renzo                                      - Alla fine chi sei, e a che venisti?

Calmon                                    - Fui re d'uomini un giorno, ora comando a tutti i simulacri. I miei soggetti sono migliori assai di voi mortali, da' viziosi filosofi corrotti. Dagli avi vostri tratto fui dal fango, drizzato in un giardin della cittade, che vicina lasciaste. Il benefizio degli avi vostri in voi, cari orfanelli, di compensar venuto sono in traccia.

Barbarina                                 - Oh cara statua! Dunque conoscesti gli ascendenti di noi? Ci narra in grazia: di chi siam figli? Tu devi saperlo.

Calmon                                    - Lo so, né il posso dir. Dirò soltanto, che a un'orribil catastrofe di mali soggetti siete: il scioglimento loro, e la dichiarazion dell'esser vostro dipender de' dall'Augellin belverde, che gira intorno a Barbarina         amante.

Renzo                                      - Comincio a dubitar d'essere un sciocco,che non sa nulla. Oscure predizioni... Un Augellin belverde, ente, da cui dipender de' la sorte nostra... Un uomo fatto di marmo, che ragiona... Il capo mi va girando... Non intendo nulla.

Calmon                                    - Renzo, non istupir. Molti viventi sono forse più statue, ch'io non sono. Tu proverai qual forza abbia una statua, e come simulacro un uom diventi. Quel sasso a voi dinanzi raccogliete; tornate alla città; là dirimpetto alla reggia il scagliate, e di meschini ricchi sarete tosto: a' gran perigli Calmon chiamate; io sarò vostro amico. (tremuoto, prodigi; Calmon entra)

Renzo                                      - Calmon, sorella, ci ha lasciati orfani, pieni di fame, e freddo, e di paura, e con un sasso nelle mani. Oh caro!

Barbarina                      - (raccoglie il sasso) Andiam, com'ei ci disse, ed alla reggia di rimpetto il scagliamo. Vederemo le maraviglie da Calmon promesse. Dalle sciagure, ch'ei ci ha minacciate, forse usciremo, e alfin nelle miserie, se compatiti siam da chi ci ascolta, siam fortunati, e lieti esser dobbiamo.

ATTO SECONDO

Sala regia. Suono di marcia.

Scena prima

Tartaglia re, guardie,Pantalone dietro a Tartaglia, timoroso.

Tartaglia                        - Melanconico, e fastidioso grida a' suonatori, eh'è secco, che non gli rompano la testa con suonate, ecc. Alle guardie, che partano,

Pantalone                      - a parte (Che Sua Maestà ha la luna. Vorrebbe congratularsi dei ri­belli soggiogati, del suo arrivo; ma ha soggezione, per­di'è di mal umore, e lo conosce un re strambo, come un cavallo),

Tartaglia                        - a parte (Quello esser il pavi­mento, dove passeggiava la sua Ninetta. Di là essere la cucina, dov'era stata colomba, e aveva contribuito a far bruciare l'arrosto; dove s'era cambiata in donna. Di là esser la spazzacucina, dove il quondam re, suo pa­dre, l'aveva fatta ritirare il giorno del solenne sfortuna­to imeneo. Rammemora dolcezze, grazie, ecc., piange di nascosto per non lasciarsi vedere dalla corte, acciò non iscopra la sua debolezza, poi si rasciuga in fretta gli occhi, e si rimette in maestà, ed austerità),

Pantalone                      - a parte (Che gli sembra, che Sua Maestà pianga; che giurerebbe, che piange la povera regina sposa, da diciott'anni seppellita sotto il buco della scaffa). Si dà coraggio, si fa innanzi: sua congratulazione de' ribelli soggiogati, sul suo arrivo; suoi auguri di felicità,

Tartaglia                        - a parte (Che non sarà più felice senza Ninetta;che si sente rinnovare gli effetti ipocondriaci; piange di nascosto, poi rimettesi in gravità, come sopra),

Pantalone                      - A Tartaglia: parergli, che sia melanconico; che gli vede gli occhi rossi; che non pianga, e non rattristi la corte, che l'adora, e l'attendeva con tanta ansietà, ecc.

Tartaglia                        - Furioso, collerico. Chi sia, che pianga? Che parlare sia quello? Qual coraggio si prenda? Non voler, che i ministri si prendano tal confidenza con un re, suo pari. Parta subito; altrimenti lo farà porre in berlina, ecc., ecc.

Pantalone                      - a parte (Che coi signori grandi non si può mai indovinarla. Che aveva brama d'introdursi, e di dirgli qualche cosa de' preludi dell'In­dovino poeta; ma che tra il precetto, pena la vita, della regina madre, e la stramberia del monarca, vuol che gli sia tagliata la lingua, se parla. Chi ha il cane per la coda, si sbrighi). Parte dopo un inchino.

Scena seconda

Tartaglia solo.

Esagera sulla soggezione dell'esser di monarca, e di dover far forza a se stesso, per dover rinchiudere nel seno le proprie angosce, per non mostrar debolezza, e perché i sudditi lo rispettino. O misera condizione! ecc. Si lagna di non aver nessun amico di confidenza da poter sfogare la doglia interna. Un solo amico intrinseco sperava di avere, e più che fratello, in Truffaldino, cuoco; ma che s'è ingannato. Il perfido dopo tan­te beneficenze, e l'aver guadagnato de' soldi in corte, divenuto superbo, e ammogliatosi con Smeraldina mora, uscita dalle fiamme bianca, e posta bottega da salsicciaio, aveva avuto cuore di abbandonarlo. Ch'e ben vero quel proverbio: «Tanto è possibìl farsi un vero amico, quanto un braghier si cambi in una rosa». Che giacché si vede solo, può lasciare la gravità, sfo­gare il suo dolore, e far delle pazzie a suo modo. O spi­rito di Ninetta, dove sei? Gradisci le lagrime delle mie nupille, ricevi il tributo del pianto di questo tuo sposo monarca. Pargli veder l'ombra di Ninetta; dà in entu­siasmo. S'avvede, che s'inganna. Prorompe in ragli asineschi.

Scena terza

Truffaldino da salsicciaio, e detto.

Truffaldino                   - Ch'è venuto dietro la regia voce,

Tartaglia                        - Sorpreso nel veder Truffaldino; sua vergogna d'essere stato udito da lui, non credendolo più amico,

Truffaldino                   - Che ha inteso il suo arrivo, e che riflettendo sulla buona amicizia antica, tra essi passata, non s'è potuto tenere di venire a congratularsi, e di rinnovar la memo­ria del suo amore, ecc. Rammemora cose ridicole, pas­sate tra essi,

Tartaglia                        - a parte (Che si crederebbe for­tunato nella sua circostanza a poter rinnovare un'ami­cizia tanto cordiale. Non crede però aTruffaldino, per essere stato da lui abbandonato per gli amori di Sme­raldina, e per amore interessato di por bottega. Vuol fare esperienza sul cuore di Truffaldino; lo esamina con gravità). Come stia di salute?

Truffaldino                   - Bene; le orine sono chiare; ha un appetito sempre eguale notte, e giorno, innanzi pranzo, dopo pranzo. Evacua ogni giorno alla medesima ora con felicità, per servirlo, ecc.

Tartaglia                        - Se ami più sua moglie?

Truffaldino                   - Che l’ha amata per quindici giorni soli; che poi s'è inco­minciato a nauseare; che parla col cuore in mano. Che i primi trasporti, il suo temperamento non s'è mai potuto accordare col suo, perché non è niente filosofa; le parla col cuore in mano. Ella è una donna all'anti d un cuore insoffribile; di quelli, che hanno sempre compassion del male altrui; figurarsi, che si prendono brighe di soccorrer pupilli; figurarsi, dì allevare orfani-figurarsi, di cavarsi il pane dalla bocca per darlo a' poi veri; figurarsi, piena di scempierie, di pregiudizi, di de­bolezze,innumerabili, insopportabili dalle persone svegliate, di spirito, e e'hanno una testa quadra, e con un poco di buona filosofia moderna nel cuore, com'ha egli. Che parla col cuore in mano. Che in aggiunta a queste stolidezze insoffribili, di giorno in giorno a' suoi occhi le bellezze erano divenute orridezze, a se­gno tale, che bisognava, che andasse a rallegrar la vista spesso in qualche casuccia in pian terreno. Che parla col cuore in mano. Che dopo diciott'anni di matrimo­nio poi, era divenuta una macchina abborribile agli oc­chi suoi, e che l'odiava, più d'una cassia, ecc. Che par­la col cuore in mano, Tartaglia a parte (Che incomin­cia a scoprire, che Truffaldino non viene a lui per buo­na amicizia). Gli chiede lo stato suo, della sua bottega, de' suoi interessi, del negozio, della fortuna,

Truffaldino                   - Che parla col cuore in mano; eh'è fallito marcio, ma che ciò non è per sua colpa; la moglie sciocca ha fatto credenze, carità, e simili azioni rovinose; che non nega d'essere stato all'osteria, ma rare volte, e solo due volte il giorno, per coltivar amici, mantenersi avvento­ri, e per sentir qualche buona massima filosofica. Ch'è vero, ch'egli era stato spesso da qualche amica per sol­levarsi dall'antipatia, che aveva per la moglie; ma ch'era andato in ciò con estrema economia, e che ave­va cercato sempre amiche o con qualche piaga sulle gambe, o senza naso, ecc. ecc. Ch'è vero, ch'egli ave­va spesso giuocato alla bassetta, e alla zecchinetta; ma che aveva ciò fatto per riparar a' disordini delle limosi-ne, e dell'altre debolezze di quella matta della moglie; che aveva sempre perduto, ma che ciò era successo, perché sul giuoco gli veniva in mente sua moglie, che ha il viso da delirio, ecc.

Tartaglia                        - a parte (Che Truffaldino     è un becco cornuto di prima sfera, e un filoso! moderno da guardarsene; che non è persuaso, che ven­ga per buona amicizia, ma pel bisogno, in cui si trova; che veramente dubita, che sia stato sempre un bricco­ne pien d'amor proprio illecito; che si ricorda ancora delle due melarance, da lui tagliate per ingordigia). Chiede a Truffaldino con austerità, che gli dica il vero; se no, gli farà cavar le budella, e il cuore. Se non aves­se l'appetito, che lo tormentasse tanto, se amasse anco­ra sua moglie, se il negozio della bottega andasse flori­damente, se sarebbe venuto in traccia di rinnovar seco amicizia?

Truffaldino                   - Che lo lasci riflettere un poco.

Tartaglia                        - Che si spacci, e risponda A vero, o lo farà tagliare a pezzi,

Truffaldino                   - Che parla col cuore in mano; che, se non avesse bisogno, non avrebbe né men per mente né lui, né la sua amicizia,

Tartaglia                        - Suo fu­rore; lo scaccia con calci nel preterito,

Truffaldino                   - Fugge, gridando, che il re è divenuto matto, che non è filosofo, ecc.

Tartaglia                        - Resta più disperato di prima. Vede la regina de' Tarocchi, madre sua, a venire, si mette in gravità.

Scena quarta

Tartagliona, regina vecchia in caricatura, e Tartaglia.

Tartagliona                    - Figlio, così mi tratti? Ove si vide, che dopo diciott'anni, che sta lunge dal sen materno un figlio, giunto alfine si perda per la corte in bagattelle, Pria di correre ansante, senza trarsi gli stivali di gamba, e dare un bacio sulla destra real della sua madre?

Tartaglia                                   - Signora madre cara, vi scongiuro a mirarvi nelle vostre stanze! ed a lasciar in pace un disperato.

Tartagliona                    - O temerario figlio! Già ti leggo nel profondo del cor. Di Tartagliona figlio non sembri. Lo so, che ti rincresce di Ninetta la morte, e che più care avevi le tue corna, di tua madre. Dimmi, che far dovea di quell'indegna, se l'onor tuo tradia, se d'altra prole, per la stirpe real, non era buona, che di mufferli orrendi? Tu scrivesti, che nell'arbitrio mio lasciavi intera la tua vendetta; e poi così mi scacci? Sovvengati chi son, da chi discendo, che la regina de' Tarocchi io sono.

Tartaglia                        - Signora madre, una vecchia decrepita qual siete voi, doveva usar prudenza. Io sono un giovinetto poco esperto, ed il sangue mi bolle. Scrissi allora con trasporto dì caldo, suscitato dalle lettere vostre. Forse... basta... So, che odiavate quella poveretta... Non vi dico di più. Signora madre, vi prego a ritirarvi, e non seccate d'un re sdegnato le filiali natiche.

Tartagliona                              - Che sento! Oh dei! Tu non sei più mio figlio. Vecchia a me! Sommi dei, che ingiuria è questa! Dunque errai neh'oprar? Dunque sepolta non dovea rimaner la tua vergogna?

Tartaglia                        - La vergogna mio padre in voi sofferse né vi fé' seppellir nei vostri errori. Fors'è vergogna mia l'opera vostra. tartagliona Vergogna è il partorir figli tuoi pari.

Tartaglia                        - Chi non può partorir, muore nel parto. Dovevate lasciar di partorirmi. tartagliona ...... Ingrato! Così parli a chi nel ventre ti portò pel girar di nove lune?

Tartaglia                        - Pagherò un asinelio, che vi porti per quante lune san girare in cielo.

Tartagliona                              - Figlio disumanato! Ti ricorda, ingratissimo figlio, che, bambino, non volli balie, e che i miei propri petti ti diero il latte, ch'or così mi paghi.

Tartaglia                                   - Quando passan le femmine dal latte, io ve ne pagherò venti mastelle. Così posso pagare il benefizio; ma voi non mi potete render viva la mia Ninetta, di Concul figliuola. Un povero monarca, affaticato in guerra diciott'anni, ghigne al trono, crede di riposar nel caro seno della consorte, e trova, ch'ella è morta, sepolta sotto il bucco della scaffa. Non ho più moglie, amici più non trovo; per me non v'è più pace in questo mondo, (piange)

Tartagliona                              - Figlio, ti vo' scusar; ma da viltade troppo sei preso. Il tuo dolor solleva. Giuocheremo ogni giorno a gatta cieca, a tocca ferro, a romper la pignatta, e ti divertirai. Verrà frattanto forse a noi la Schiavona, o Saltarci; io troverò consorte di te degna

Tartaglia                                   - Signora madre, burla troppo grande fu il seppellir la mia Ninetta vìva. Giungano pur le ninfe della Bragola, tutte le dee della calle de' Corri; insensìbil sarò. Mi fate rabbia; vi prego, andate via. tartaguona Rabbia la madre! Scacciar la madre! O ciel, lo fulminate.

Tartaglia                        - Voi non volete andar; dove voi siete, non ho flemma' di star. Vedo, che in seno vi si muove il catarro. Il mio rispetto vuol, ch'io vi lasci, e me ne vada a letto, (entra) Scena quinta Tartagliona Oimè, la rabbia... (tosse) Oimè, il catarro in moto... (tosse) m'opprime la trachea... (tosse) Sento, ch'io crepo. Ecco il castigo, che mi manda il cielo. Gran che, che non si possa un'innocente far morir col buon prò! Giugne il momento, ed ogni gruppo si riduce al pettine. O strologo, o poeta, a tempo giugni.

Scena sesta

Brighella, e detta.

Brighella                       - Fiamme voraci, che rischiaraste questa mia mente, né m'abbruciaste, io stava meglio nell'ignoranza. Ahi, Tartagliona, che vai costanza?

Tartaglia                                   - Che mi vuoi dir, poeta? lo non t'intendo.

Brighella                                  - Sono vicini i Gemini; già le mura s'innalzano; questa è notte terribile, tu puoi traiti le cottole, e dalle pulci scuoterle, che l'ora è di dormir, lo veglierò, qual nottola, e ti trarrò la cabala; tutto farò il possibile dal destin per difenderti; ma il capo lavo all'asino, ma temo di fallir.

Tartagliona                              - O maladetto strologo! Io non intendo un diavolo. Alle minacce orribili le natiche mi tremano, né so cosa pensar.

Brighella                                  - Care pupille amabili... Ah troppo dissi; scusami. Occhio, che sempre lagrima... Ah, Maestà, perdonami. Possenti barambagole, per voi son temerario... Ma, oimè, ch'io veggo nella terza sfera 11 nuo tesoro biscia scodellerà!

guZu                                       - (LfStr0 m'ha servi Pulit0- sPero de aver fatto in min/ P°- Se P°desse ridurla a far un testamento tenzinni/'i1!? Saria scontento delle mie amorose at-l°ni, e del frutto dei mii poetici sudori), (entra)

Scena settima

Tartagliona

Gli oscuri sensi di costui mi mettono in grave agitazion. La tenerezza, ch'ei dimostra per me, sperar mi lascia. S'eseguisca il consiglio; abbian riposo le membra idolatrate dal più insigne poeta, ch'abbia il secolo. Non mancano in me vezzi, e lusinghe, ond'al mio fianco fedel sia sempre. Ah, non vorrei, che alfine le mie finezze a lui, negli altri amanti destasser gelosia. Stelle infelici! Sino i meriti miei mi son nimici. (entra)

Scena ottava

Facciata della reggia da una parte. Renzo, e Barbarina.

Barbarina                                 - Renzo, questa è la reggia, e questo è il sasso, che Calmon, statua, ci additò. Che pensi, che nasca nel scagliarlo?

Renzo                                      - E ci promise, che allo scagliar del sasso sarem ricchi. Scaglialo; non tardar.

Barbarina                                 - Furbo! tu dunque brami diventar ricco. A poco a poco perdi filosofia.

Renzo                            - Senti, sorella; non mi dir mai così. Questo rimprovero, mi fa quasi scordar la fame, e il freddo, e da ciò sempre più mi riconfermo, che passion predominante ha forza di ferir si la fantasia dell'uomo da far, ch'egli si scordi facilmente sin le necessità della natura. Amo filosofia, né mi vergogno di quella passion nobil, c'ho in seno.

Barbarina                      - Pasciamici

Renzo                            - di filosofia, non scagliam questo sasso. E divenire ricchi in un punto nella mente nostra desterà certe idee di stravaganza, che ci farà più stolti, e più ridicoli di tutti gl'ignoranti. Tu vorrai tutte le donne, tutte le delizie, che sognerai la notte, lo sarò vana, vorrò corteggi, amanti, ed agi, e mode; sarò folle, inquieta. Tuttidue sprezzerem povertade nei meschini, scordando la miseria, in cui siam ora. Renzo, io non scaglio il sasso.

Renzo                                      - Sì, lo scaglia; non dubitar. Nelle ricchezze ancora filosofi saremo. Questo freddo, questa fame, ch'io sento, fan, ch'io pensi, fanno, ch'io speri, che saprem difenderci da' pensier sciocchi, e che robusti sempre sarem nella virtude anche in ricchezza colla guida alla man de' nostri dotti.

Barbarina                         - La fame, e il freddo ragionar ti fanno? Ah, Renzo, io temo assai, ch'ogni filosofo sia mosso a ragionar da fame, e freddo, dagl'incentivi di natura usati. Bella cosa è il regnar sopra i cervelli aei deboli seguaci, e co' sistemi rarsi monarchi delle genti stolte, e adoran gl'impostori. Il sasso io scaglio, e voglia il ciel, ch'io non mi scordi mai, che un vilissimo sasso non curato delle ricchezze mie sia la sorgente. (scaglia il sasso; nasce un magnifico, e ricco palagio in faccia alla reggia. Volano i cenci a Renzo, e a Bar-barina, e rimangono riccamente vestiti. Escono dalla porta del palagio due mori con torcie accese in mano e con riverenze accettano Renzo, e Barbarinà)

Renzo                            - Sorella! Ah, che mai veggio! lo son confuso.

Barbarina                      - Diamo or fede a Calmon. Questo palagio, se possibil è mai ne' cuori nostri, non ci lusinghi di felicitade; ch'ei ci predisse ancor pianti, e sventure, (entrano)

ATTO TERZO

Sala regia

Scena prima

Brighella, e Tartagliona.

Brighella                       - Fronte crespa, u' mirando io mi scoloro, dove spunta i suoi strali amore, e morte.

Tartagliona                    - Deh, poeta, mi dì; questo palagio, che sì risplende in maestosa mole, e di ricchezza questa reggia avanza, come mai nacque in una sola notte?

Brighella                       - Regina, del mio cor parte più cara, io tutto so, ma per destin fatale è la mia lingua in ciò schiava de' superi.

Tartagliona                    - Per quanto le mie grazie hanno in te forza, narrami almen, chi sien gli abitatori.

Brighella                       - Occhi di perle vaghi, luci torte, io tutto so, ma dirtelo non posso. Solo dirò, che del palagio altero gli abitatori a rovinar son giunti quelle labbra di latte, quelle ciglia rare, di bianca neve, e i quondam petti.

Tartagliona                    - Ah, lascia, lascia il favellar oscuro;tutto spera da me; ma, deh, m'addita, come rovinar possa, chi procura di rovinarmi; in te solo confido.

Brighella                       - Maestà, delizia del mio estro poetico, prima de tutto, e per tutto quello, che poi nascer, la consegio a far el so testamento, e a no desmentegarse de benefi­car chi ghe voi ben, e che poi immortalar el so nome con un poema superior al rugginoso dente del tempo e alle critiche, figlie della caliginosa invidia.

Tartagliona                    - Deh, non mi funestar; sono ancor fresca. Pensa a salvarmi, e a celebrarmi in vita.

Brighella                       - a parte (L'è dura sul testamento sta redode-se). Ghe parlo fora dei denti, con verità contraria all'i­stinto poetico; xe diffìcile el poderla salvar dalle rovi­ne, che ghe sta sora la testa. Tuttavia la me ascolta ben. I abitatori de quel palazzo xe un zovenetto, e una zove-netta, fradello, e sorella, i quali, prima de deventar ric­chi, gera do pitocchi, filosofi per la vita: adesso che in tuna notte i xe de ventai ricchi a martelletto, i ha perso la tramontana della filosofia, e i gha in testa tutta la va­nità, e le debolezze, che poi aver per esempio, una lavandera, sposada da un conte, un dazier fortuna, che ghe vada tutto a seconda, e tutti quelli, che s'ha trova ricchi senza far fadiga. No i poi soffrir, che ghe sia rimprovera gnente, che ghe manca gnente, de no supe­rar tutti in tutto. Per sta strada se deve tentar la so di-struzion.

Tartagliona                    - Dimmi più oltre; io ben saprò ubbidirti.

Brighella                       - Maestà fatai al mio cuor, ella sa quanto mor­tai sia l'impresa dell'acquisto del pomo, che canta, e dell'acqua d'oro, che sona, e balla, oggetti poco fora della città, posseduti dalla Fada Serpentina.

Tartagliona                    - So, che funesto è il luogo; e che per questo?

Brighella                       - Bisogna donca, che la procura de veder la zetta che abita in quel palazzo, la qual za ha perso la Ve a della filosofia, e xe deventada el tipo della vanità. Gli basterà schizzarghe in tei stomego ste quattro pa­le tremende. La me ascolta ben. «Voi siete beffa as-i- ma più bella sareste, s'un de' pomi, che cantano, in una mano aveste».

Tartagliona                              - Voi siete bella... ecc. - (replica)

Brighella                       - Bravissima! E dopo sbararghe st'altra bisi-nella. «Figlia, voi siete bella; ma più bella sareste, s'acqua, che suona, e balla, nell'altra mano aveste».

Tartagliona                              - Figlia, voi siete bella... ecc. - (replica)

Brighella                       - Soavissimamente! Da ste parole la vederà un effetto mirabile. Bisogna conoscer el cuor uman nelle varie circostanze ecc. Con ste parole i abitatori de quel palazzo xe rovinai, e, se queste no basterà, gho un altro colpo sicuro.

Tartagliona                              - Tentiam l'impresa; al tuo consiglio io cedo. Voi siete bella assai... ecc. (entra dicendo i versi)

Brighella                       - Se fazza tutto quel, che se poi, per prolongar la vita a sta graziosa antigaia; ma, se no la redugo a far testamento con un item favorevole, cosa me giova l'a­pollinea fronda, la direzion profonda, la fiamma, che m'innonda? «Lasso! Non di diamante, ma di vetro veggio di man cadérmi ogni speranza», (entra)

Scena seconda

Stanza magnifica nel palagio de' gemelli.

Barbarina                     - pavoneggiandosi allo specchio. Spero diman di far più spicco assai aveste ponsò, guarnita d'oro.

Scena terza

Smeraldina, e Barbarina.

Smeraldina                    - (di dentro gridando) Eh, lasciatemi entrar; che impertinenza! Sono ornai stanca. Preghi, ambasciatori, memoriali, tornate; uh quante storie!

Barbarina                      - Chi è di là?

Smeraldina                    - (entrando) È il diavol, che ti porti.

Barbarina                                 - Temeraria! Sfacciata! Olà, Staffieri, chi v'insegnò a servir? Come si lasciano penetrare i pitocchi alle mie stanze?

Smeraldina                              - Eh, pazzarella, frasca, in questa forma chi t'ha allevata, chi ti die la vita, accetti in casa tua? Quanti momenti son, che non sei pitocca, com'io sono?

Barbarina                                 - Arrogante! Non più; frena la lingua; rispetta l'esser mio; non inoltrarti. Ti conosco, infelice, e sovvenirti voglio con doni, pur che t'allontani da queste soglie, anzi dalla cìttade. La tua presenza in me risveglia idee, che amareggian lo spirto. Olà, miei servi...

Smeraldina                              - Ah, fraschetta, pettegola, smorfiosa, madama fricandò, che credi? Forse di pormi soggezion? T'ho dato il latte, t'ho schiaffeggiata mille volte, ed ora credi, che avrò paura? lo son qui giunta, non per le tue ricchezze, ma l'amore m'ha trascinata; ad onta dello sgarbo, con cui m'abbandonasti, io non potei trattenere il trasporto, e, appena seppi, che sei qui, che sei ricca, corsi tosto per rallegrarmi delle tue fortune, e non per amor proprio, (il ciel mi fulmini). Cioè perch'amo te... cioè... vo' dire... Sia maledetto l'amor proprio... In somma io son qui per baciarti, e non vo' nulla. Cara, quanto mi piaci! Sei pur bella così vestita. Il ciel ti benedica. Ah, convien, ch'io ti baci, ch'io ti mangi, (vuol ab­bracciarla con impeto)

Barbarina                      - (rispingendola) Ma, viva il ciel, qual confidenza è questa? Miei servi, dico, (qui un servo) Incauti! Qui recate tosto una borsa d'oro, ed a costei si consegni, e si scacci, (servo entra con inchino)

Smeraldina                    - Barbarina, tu scherzi, è ver? Non mi farai l'affronto di scacciarmi da te. Sospetti in seno non averai, dopo sì lungo tempo che mi conosci, e le azion mie conosci, che interesse mi muova, e ch'io qui venga per altro amor, che delle due persone col mio sangue allevate, e con le quali, come lor madre, vissi, ed ebbi care, (qui il servo con la borsa)

Barbarina                      - (ironica) Prendi, prendi quell'oro. L'amor tuo so, che s'ammorzerà dentro quell'oro. Or risarcita sei de' tuoi gran merti. Parti, né ardir di più venirmi innanzi; che stomachevol cosa è il rimirarti.

Smeraldina                    - da sé P !f \che fnto! E P^r non so staccarmi). arbanna, t'inganni; io spero ancora, e non discaccerai fuor del tuo albergo Per semplice amor, per diciott' anni, t'allevò dentro al suo; chi non ha colpa, se discacciata fosti; chi non fece altro, che lagrimar di tua partenza, (piangente)

Barbarina                      - a parte (Costei m'intenerisce, ed amareggia lo spirto mio, non atto a soffrir noie). Prendi quell'oro, Smeraldina, e parti. La tua presenza, il favellar con modi, troppo confidenziali, mi disgusta. Servo, dal guardo mio costei si levi a forza; al suo tugurio sia condotta; le si rechi la borsa; ivi si lasci. (il servo vuol prender Smeraldina per un braccio)

Smeraldina                              - Ah, no, servo, pietà. Figlia, se troppa confidenza mi presi, umil vi chiedo un benigno perdon. Cambierò modi di favellar. Non più, come a me uguale, vi parlerò. Come signora mìa vi rispetterò sempre, lo non ho core di staccarmi da voi. Tra i vostri servi la più vii serva riputar mi voglio, pur ch'io resti con voi. Di tutti gli altri i rifiuti, gli avanzi disprezzati saran mio cibo, lo sono troppo avvezza a conviver con voi; troppo è l'amore, che per voi presi, e pel fratello vostro, forse più fedel serva, e più amorosa sarò di tutte l'altre. E, se risolta siete a scacciarmi, almen mi concedete, che parta miserabil, come venni; tenetevi il vostr'oro. In questo albergo materno amor mi trasse, tenerezza per due del latte mio, delle mie cure ingrati figli, e non ricchezze, od oro. (piange)

Barbarina                      - da sé (Qual forza ha mai semplicità d'affetti, tenere espression, sul core umano! Tanto disse costei, che mi ridusse ad aver più ribrezzo a discacciarla, che a trattenerla. Il minor peso al core dunque s'elegga). Smeraldina, resta; meco starai, ma le passate cose mai non rammemorar. Il rammentarle rimprovero mi sembra, e fa, ch'io t'odio. Guardami, qual'or son, non qual fui teco, s'esser sofferta vuoi. Seguimi, e taci, (entra)

Smeraldina                              - Questa è quella filosofa, che andava ieri per legna al bosco, ed oggi!... Basta. Seco volea restar, perché l'adoro e seco resto alfin; del tacer poi ci proveremo; ma non sarà nulla. Non la conosco più. Quanta superbia! Chi diavol l'ha arricchita in questa forma? Io non vorrei, che questa frasconcella... Forse qualche milord... ma saprò tutto, (entra)

Scena quarta

Renzo fuori di sé.

No, che donna non v'è, che di bellezza avanzi quella statua, ch'ebbe forza di tener fin'ad or questi occhi fisi sempre conversi in lei, nel mio giardino, quanta smania mi sento! Or chi direbbe, cne u sprezzator sdegnoso d'ogni donna caduto fosse in un amor sì ardente Pfr una donna da scarpello industre Cairn P1Ctua f0rmata? Ah'tu i dicesti, è^n°Hn'chedebolezzainumancore grande troppo, e che fra pochi istanti io proverei, qual forza abbia una statua. Vaglian questi tesori. Io da' confini farò venir del mondo negromanti, che diano vita al simulacro amato. L'oro può tutto; disperar non deggio.

Scena quinta

Truffaldino, e Renzo.

Truffaldino                   - Di dentro chiama: «O di casa». Con fran­chezza, e possesso chiama: «Renzo, dove sei? Asino, becco cornuto, ecc.».

Renzo                            - Che gli sembra di sentire la voce di Truffaldino; che non crede, che avrà fronte di comparirgli dinanzi dopo averlo scacciato, ecc.

Truffaldino                   - Entra con franchezza, lo saluta con confidenza, lo sgrida, che non ha risposto. Si leva il grembiale da salsicciaio, si rassetta, chiede a Renzo, se sia in tavola.

Renzo                            - Che temerità sia quella? Che sia venuto a fare in quella casa?

Truffaldino                   - A mangiare, bere, dormire, ecc.

Renzo                            - Se siasi dimenticato d'averlo scacciato di casa con quell'asinità la sera innanzi?

Truffaldino                   - Ri­cordarsi benissimo; che dimanda sciocca sia questa in bocca d'un filosofo?

Renzo                            - Stupisce della franchezza; vuol sapere, perché l'abbia scacciato, perché la diman­da sia sciocca,

Truffaldino                   - La cosa esser naturalissi­ma, e patente. L'ha scacciato, perch'era un orfano, pi­tocco, che non aveva nulla da farsi mangiare alla luce del sole,

Renzo                            - Stupisce sempre maggiormente della franchezza; vuol sapere dopo una tal azione, come ab­bia coraggio di venire in casa sua.

Truffaldino                   - Ride sgangheratamente della sciocca ricerca, vuota affatto di moderna filosofia,

Renzo                            - In ismania delle risa di

Truffaldino                   - , vuol sapere, com'abbia avuto fronte di venire.

Truffaldino                   - Perché ha saputo, eh'è divenuto ricco, e che ha modo di lasciarsi mangiare, e rubare assai da eni ha appetito, e vizi com'egli; ride, e non si sa dar pace di così stolida ricerca, che non sarebbe stata fatta ne' se­coli più ignoranti,

Renzo                            - Sulle furie,

Truffaldino                   - Ch'è matto; che s'informi con tutto il mondo sincero, ed illu­minato; ognuno gli risponderà, che i pitocchi si scac­ciano, e che ai ricchi si mangiano le viscere, sino che sien pitocchi; che questo è il giro della macchina mon­diale,

Renzo                            - Si mette a ridere; che non ha sentito mai un filosofo più franco. È voglioso di trattenerlo, perché la sua sincerità non gli dispiace; ma risolve di scacciar­lo per l'animo cattivo. Lo sgrida della scellerata sfac­ciataggine, lo minaccia di farlo bastonare, se non parte.

Truffaldino                   - tra sé (Maravigliato di questa stravagan­za, non intende tal novità. Pensa; si ricorda d'aver falla­to nell'ordine, si ricorda, che la sincerità gli fruttò male anche con Tartaglia. Cambierà). Corregge se stesso; dà ragione a Renzo, ma chiede che gli permetta un mo­mento, e si rimetterà sulla buona regola,

Renzo                            - Balordo non intende nulla: che diavolo voglia dire?

Truffaldino                   - Si rimette fuori della porta, chiede con voce dolce, e timorosa, se si possa entrare, poi entra con umiltà, col cappello in mano, col collo torto; chiede con tutta la sommessione caricata perdonanza d'aver fatto la bric­conata di scacciare dalla sua casa un oggetto, il quale per tutti i riguardi onorava il suo povero tugurio, e me­ritava d'esser rispettato, ed amato; che in quel punto era briaco, ecc., che, pentito del suo fallo, è venuto do­lente a prostrarsi a' suoi piedi, fatto coraggioso dalla fama del suo animo pietosissimo, generosissimo, eccel­lentissimo, ecc. (s'inginocchia) Che certamente sparge­rà tante lagrime sopra le sue piante, che otterrà quel perdono, senza del quale non potrebbe vivere, ecc. Che cerca l'onore di poter servirlo sino alle ceneri, ecc. Sce­na d'adulazione caricatissima. Poi chiede a Renzo, se così vada bene,

Renzo                            - Balordo, che, non sa capire, se Truffaldino sia sciocco, o furbo, risolve di tenerlo, per­che lo diverte; a Truffaldino: che così va bene, che se seguiterà sempre così, non lo scaccierà,

Truffaldino                   - Che scusi, che s'era scordato di corbellarlo, ma che lo farà in avvenire con la possibile arte, finezza, e furberia moderna, pulita, e colta,

Renzo                            - Ridendo sul carattere di

Truffaldino                   - , che gli servirà d'alleviamento qualche ora nella sua intensa passione; che l'aver un buffone è cosa decorosa ad un suo pari; che lo segua; ed entra,

Truffaldino                   - Sue riverenze, e ceremonie affettate, da sé (Ch'è una gran disgrazia il non poter esser onesto, e di cuore aperto colle persone ricche). Lo segue con atti d'adulazione caricati.

Scena sesta

Reggia da una parte con verone, palagio dei gemelli dall'altra con verone.

Pantalone, e Tartaglia in berretta da notte sul verone con cannocchiale.

Tartaglia                        - Io non so, come sia stata questa faccenda. Pantalone, io credo di dormire, di sognare, o d'essere a una commedia di trasformazioni. Non ho mai creduto, che un palagio possa nascere in una notte, come un fungo.

Pantalone                      - Mo l'è nato lu, Maestà, e de che pegola! E mi, povero diavolo, vegnindo iersera a scuro in corte, camminava in pressa, perché saveva, che la piazza ge-ra libera, e ho dà un tossi in tela muraggia de quel pa­lazzo, che, se no gaveva sta poco de panza, che me to-lesse la botta, fava una fugazza del viso. Ohe, ho zava-rià mezz'ora a trovar el buso de vegnir alla reggia.

Tartaglia                        - (guarda col cannocchiale) Gran belle logge-Gran belli colonnati! Gran bella architettura! È più bel­la del Culiseo di Roma.

Pantalone                      - Bisogna veder i patroni del stabile, Maestà, per farse maravegìa.

Tartaglia                        - Li hai tu veduti? Sono dei, o diavoli, Panta­lone?

Pantalone                      - Un putto, che xe un armellin, una ragazza, che xe un botirro, Maestae; son seguro, che, se la la vede, ghe passa tutte le malinconie.

Tartaglia                        - Non mi toccar questo punto, che mi risvegli il dolore. Non sarà mai vero, ch'io lasci di piangere la mia cara Ninetta, (piange)

Pantalone                      - La tasa, che se averze el pergolo. La xe giu­sto quella zogia. La fazza grazia, la varda quel tocco.

Scena settima

Barbarina, Smeraldina sul verone, e detti.

Smeraldina                    - Il re sopra il verone! Barbarina, ritiriamci, andiam via.

Barbarina                                 - Quello è il monarca? Che importa a me? Di non vederlo io fingo; poi non ho soggezione di monarchi.

Tartaglia                        - (guardando col cannocchiale) Pantalone, Pantalone, che bel viso! Che belle manine; mi sento brillare il cuore, la malinconia fugge.

Pantalone                      - Se no gh'è caso, Maestae; co se vede de quei musi, se rallegra anca i indebitai sin alle cegie. Smeraldina Barbarina, andiam via, che il re vi guarda col cannocchial. Coi re ci vuol prudenza. Barbarina Oh, tu cominci ad esser petulante. E sene, ho qualche cosa che dispiaccia? Lascia, che guardi pur. Tu vederai, con una ritirata a tempo, accenderlo tar1' °he n°n Sappia più 9ue1' che si faccia- taglia Pantalone, Pantalone, che bel bocchino! Che bel seno! Sento, che mi dimentico della quondam Ninetta.

Pantalone                      - a parte (El s'ha infilza ben presto. E se le parole del poeta fusse vere? Oh giusto. Lassemo, che el se solleva. I ministri de corte no deve contrariar alle passion dei monarchi, anzi coltivarle). Maestà, mo cos-sa ghe par de quella conzadura? Del bon gusto de quel vestir?

Smeraldina                              - Barbarina, andiam via, ch'egli vi tira tanti d'occhiacci addosso. S'ei s'accende, i principi han le mani lunghe assai. Vergognatevi, andiamo.

Barbarina                                 - Oh, tu mi stanchi. Lascia, che s'innamori; è quel, ch'io cerco. Dimmi, non è egli vedovo?

Smeraldina                              - Eh, scusate; queste son presunzioni troppo grandi... barbarina Che! Taci temeraria; ei non è degno di possedermi.

Tartaglia                        - Quella è un'acconciatura di Cadetto; il ve­stiario è di ricca, e vaga invenzione del Canziani. Pan­talone, sono innamorato, come un asino; non posso più; guardami gli Occhi; credo di buttar fuoco. Che bella creatura! Vorrei salutarla, vorrei dirle qualche pa­rola, e mi vergogno; ho paura, che non mi corrisponda. Sono diventato un bambino all'improvviso, ho perduta tutta la gravità monarchesca.

Pantalone                      - Come, Maestà? Non la se avvilissa; la lo ga-verà per onor grando de esser vardada con clemenza da ella; no la daga in ste bassezze de spirito. Un baciama­no d'un monarca ha da far buttar zo tremille ragazze dai balconi.

Tartaglia                        - Mi provo, Pantalone, mi provo.

Pantalone                      - Ghe raccomando la gravità, Maestae.

Tartaglia                        - (fa un baciamano con gravità caricata)

Smeraldina                    - jsfoi veniamo alle brutte; ei vi saluta.

Barbara                         - fuarda, ed io non mi degno di guardarlo, (si volta con

                                      - (sprezzo dall 'altra parte)

Tartaglia                        - Un buco in acqua. Pantalone, io sono dispe­rato.

Pantalone                      - Mo l'è ben superba quella petazza!

Tartaglia                        - Non ho più testa, Pantalone; insegnami due parole graziose di quelle tue veneziane da dirle. Fammi il ruffiano per carità.

Pantalone                      - Grazie della carica, Maestae. A Venezia se fa l'amor alla francese, o all'inglese; su sto merito no so più gnente.

Tartaglia                        - Aspetta, aspetta: voglio incominciare a introdurmi con spirito, e brio. Bella giovine, sentite questo scirocco? Ah, Pantalone?

Pantalone                      - Sior sì; sto introito l'ho sentì molte volte, e l'ha abuo anca spesso un bonissimo esito. Barbarina Voi sentite il scirocco, ed a me sembra, signor, che le parole, che voi dite, faccian, che spiri un'aria molto fredda. Smeraldina Uh, che insolente! Al re queste risposte!

Tartaglia                        - M'ha risposto, m'ha risposto con un'insolen­za graziosa, Pantalone; e viva. Voglio proseguire con un'acuta, e gentile proposta, allusiva alla sua bellezza. Il sole questa mattina è levato molto risplendente.

Pantalone                      - Megio; no la gha bisogno de suggeridori, Maestae. La sa far 1 ' amor, che la minia. Barbarina sol, che leva risplendente, sire, non è sempre benefico per tutti.

Walone                          - a parte (La gha dà la botta da galantomo. Oh T l e navegada sta frascona). staglia ° che spirito! O che diavolino! Ardo tutto, non posso più resistere; bisogna, che prenda moglie in secondi voti. Sono tutto allegrezza. Ho piacere di non aver impedimenti, e che la quondam Ninetta sia morta Perdono tutto alla signora madre. Eccola, eccola. Si-i gnora madre, signora madre, la potenza di Cupido m'ha fatto cambiare temperamento; vi voglio bene Venite a vedere questo mostro di bellezza.

Pantalone                      - a parte (Ih, ih, ih, fogo in camin, fogo in ca-min).

Barbarina                                 - Che ti par, Smeraldina? A una mia pari, è impossìbil che reggano i monarchi.

Smeraldina                              - Siete beffa, graziosa, e ricca assai, ma che credete alfin? Manco superbia; che qualche cosa mancherà anche a voi.

Barbarina                                 - Nulla a me può mancar; taci, sfacciata.

Scena ottava

Brighella, Tartagliona, e detti.

Brighella                       - (piano a Tartagliona) Labbra, di questo cor chiavi sicure, non vi scordate i miei funesti accenti.

tartagliona                     - (piano a Brighella) Lascia pur fare a me. Dov'è, mio figlio, quest'oggetto divin e'ha tanta forza?

Tartaglia                        - Mirate in ricca, e portentosa mole la bella aurora, anzi in meriggio il sole.

Pantalone                      - a parte (Porlo esser più cotto? El parla insincolla so rimetta). Tartagliona Bella; noi so negar. Figlia, io contemplo nelle vostre fattezze un bell'oggetto. (basso a Brighella) Ora le ficco i tuoi detti tremendi. «Voi siete bella assai; ma più bella sareste, s'un de' pomi, che cantano, in una mano aveste».

Tartaglia                                   - Uh che diavol trovate, madre antica?

Pantalone                      - Questo xe ben cercar el pelo in tei vovo.

Barbarina                      - (smaniosa a Smeraldina) E fia possibil, Smeraldina! Ahi lassa! Dunque il pomo, che canta, io non possiedo? Smeraldina Non vel diss'io, che qualcosa vi manca?

tartagliona                     - (basso a Brighella) Poeta, attento; l'opera compisco. «Figlia, voi siete bella; ma più bella sareste, s'acqua, che suona, e balla, nell'altra mano aveste».

Tartaglia                                   - Oimè, stitica madre, che trovate?

Pantalone                      - a parte (Ghe manca el pomo, che canta, e l'acqua, che sona, e balla? Ghe ne indormo alle fanta­sie de Cappello, barcariol, in piazzetta).

Barbarina                      - (furiosa) Qual rimproveri a me? Perisca il mondo, ma non si dica mai, ch'acqua, che balla, ed il pomo, che canta, io non possieda, (entra con im­peto)

Smeraldina                    - E le stelle in guazzetto, ed il sol fritto, (entra)

Brighella                       - a parte (Gran forza in uman core ha vanitade, e gran possanza ha poesia sull'alme!) (entra)

Pantalone                      - da sé (El fio xe deventà pallido. La marante-ga giubila; me cavo dal fresco, che per un poco d'acqua e un pomo, no vogio esser spettator su sto pergoloo le tragedie, e de sangue tra mare, e fio), (entra)

Tartaglia                                   - Madre tiranna, voi non siete paga, se non fate crepare i vostri parti.

Tartagliona                    - E che ti feci, figlio temerario?

Tartaglia                        - (minaccioso) Se non foste mia madre... Viva il cielo...

Tartagliona                    - Fermati, scellerato; che ti feci?

Tartaglia                        - Voi per invidia dell'altrui bellezze mandaste a rischio il mio dolce conforto di lasciarvi la pelle. E non v'è noto, qual sia mortai periglio il grand'acquisto di quel musico pomo, di quell'acqua d'oro, che suona, e balla? Brutta vecchia mai scordate, che Berta più non fila, e con la cispa agli occhi, e senza denti, superba, e vana ancora, vostro figlio perseguitar volete insino a morte. Che pretendete? Ch'io non abbia moglie? O che alla fin deva sposar mia madre? A che mi partoriste? A che nel core non mi ficcate il spiedo dell'arrosto, e non mangiate le infelici carni che generaste al mondo? lo maledico il punto, in cui da un utero sì indegno nacqui infelice a un scettro, a un trono, a un regno, (entra collerico)

Tartagliona                    - Pur ch'io sia salva dal destino oscuro, che '1 poeta minaccia, fremi pur, figlio audace, io non mi curo.

Scena nona

Sala del palagio dei gemelli.

Renzo con pugnale in mano nel fodero, e Truffaldino.

Renzo                            - (fanatico) Ah dimmi, Truffaldin; vedesti mai più bella creatura della statua del mio giardin? Dì il ver, non adularmi.

Truffaldino                   - Adulando, loda in grado estremo quella creatura, a parte (Che non vide un matto simile, inna­morato d'una statua; ride).

Renzo                            - Chiunque vederà quella bellezza, dì, Truffaldin, non scuserà il mio amore?

Truffaldino                   - Anzi sarà lodato il suo amore da tutti; che il suo è il vero amor platonico, e non si potrà più canta­re la canzonetta: Ma che si dia platonico tra due di sesso vario, s'anche venisse un diavolo, non mei darebbe a credere. Ch'è stato anch'egli innamorato di qualche statua, la quale però non aveva le carni tanto dure, come quella. (a parte, sua derisione)

Renzo                            - Dimmi, quand'io piangeva inginocchiato innanzi alla mia statua, udisti a sorte quel, che mi disse queir Augel bel verde, che mi comparve, e favellò sì chiaro? affaldino Non ha udito nulla; non sa, chi sia questo Augel belverde.

Renzo                            - L'Augel belverde non conosci, amante dl Barbarina? Noi vedesti, sciocco?

Truffaldino                   - Non saper nulla di queste belle maraviglie (a parte, ride di tali amori)

Renzo                            - Ah, sei pur ignorante! E non vedesti questo pugnale, che mi fu scagliato innanzi ai piedi, mentre ch'io piangeva?

Truffaldino                   - Non sa né di voce, né di Augello, né di col­tello, a parte (Renzo esser matto, ma matto da catene ecc.).

Renzo                            - da sé (Ah, che dovrò pensar sulle parole dell'Augello belverde, che m'apparve, che negò palesar di chi son figlio, di soli arcani empiendomi la mente? Quali non deggio ricusar perigli? E quali son questi perigli estremi per ottener, che il simulacro viva? E qual di questo portentoso ferro uso far deggio? lo son fuor di me stesso).

Truffaldino                   - a parte (L'imita in caricatura, e ride della pazzia).

Scena decima

Barbarina, Smeraldina, e detti.

Barbarina                      - (in furore, trattenuta da Smeraldina) Lasciami, Smeraldina, lo mi credea, che nulla a me mancasse, e sofferire non puote, anzi non deve una mia pari non posseder il pomo virtuoso, e l'acqua filarmonica, che balla.

Smeraldina                    - Ma, cara figlia, se non v'è rimedio. Chiunque acquistar volle quelle cose, miseramente è morto; non v'è caso.

 Barbarina                     - Morto, o non morto, facile, o difficile, io devo posseder l'acqua, che danza, ed il pomo, che canta, e il mondo pera.

Renzo                            - Fuor di se stessa è la sorella mia; che mai sarà! La vedi, sai tu nulla? (a Truffaldino)

Truffaldino                   - Che sarà per amore dell'Augello belverde, o si sarà innamorata di qualche denonzia secreta, ecc. (a parte, sue risa) barbarina Ah, Renzo, ah, mio fratello, io son nel mondo più sfortunata di qualunque donna, un oggetto da nulla, il scherzo, il riso il ludibrio d'ognuno, che mi guarda.

Renzo                            - Che t'avvenne, sorella? Qual sventura? Che dici mai? Questo non è possibile.

Barbarina                      - È possibil pur troppo. Il raro albergo, e le immense ricchezze d'oro, e gioie, e la bellezza, che possiedo, e i servi non vaglion nulla. Fui rimproverata di non aver l'acqua, che balla, e il pomo, che canta, in mano, e che per ciò non supero di splendor l'altre donne. Ti par poco questa disgrazia mia? Deh,

Renzo                            - amato, per quanto ami la vita della suora, non mi lasciar senza i due rari oggetti; che indispensabil cosa è il possederli.

Truffaldino                   - Che certo il pomo, che canta, e l'acqua, che balla, sono due cose più necessarie del pane, che si mangia; che bisogna compiacere la dama sorella, a Parte (Sue risa sugli amori, e le stravaganze di due ba­stardi arricchiti).

Renzo                                      - Ma, Barbarina, non sapete, come queste cose acquistar non è possibile? Che a certa morte corre chi al gran rischio si mette d'acquistarle? Ah, vanarella, apri quegli occhi, e del fratel la vita ti stia più a cor d'un poco d'acqua, e un pomo.

Barbarina                                 - Ah, barbaro fratello! lo ben sapeva, che non m'amasti mai. Serva, sostiemmi... Già mi palpita il cor... Mi gira il capo... Tutta convulsa' io son ... Sugli occhi un velo... m'abbarbaglia la vista ... Ti ricorda, fratel, che avesti core a una sorella l'acqua, e il pomo negar, per cui sen muore, (sviene; Smeraldina la sostiene)

Smeraldina                              - Maledette ricchezze, che il cervello levano a questo segno. Barbarina, mia cara Barbarina, via, coraggio; deh non morite; il popolo si ride di vedervi morir per acqua, e pomi.

Truffaldino                   - a parte (Sue risa sgangherate ecc.) Indi si mostra affaccendato, disperato pel male della dama.

Renzo                                      - Or tutto intendo. Ecco i perigli, ch'io non devo ricusar, per quanto disse l'Augel belverde, ed ecco del pugnale chiaro l'arcano, lo dar principio deggio alle imprese tremende, per le quali deve aver vita il simulacro amato. Debil è la sorella, ed io stupire della sua debolezza già non devo, se per amor d'un simulacro piango. Sorella, ti conforta; o il raro pomo, e l'acqua portentosa avrai fra poco, o tuo fratello non sarà più vivo.

Barbarina                                 - Respiro, oimè; fratello, ti ringrazio; deh non morir, ma acquista il pomo, e l'acqua.

Renzo                            - (trae il pugnale) Questo lucido ferro tu conserva; io vado ad appagarti. Ogni momento sfodera il ferro; insin ch'egli risplende, vive il fratello tuo; s'egli apparisce lordo di sangue, tuo fratello è morto.

Truffaldino                   - , mi segui a questa impresa.

Truffaldino                   - Qualche sua difficoltà, ecc.

Renzo                                                                                                              - Seguimi, o in casa mia più non venire, (entra furioso)

Truffaldino                   - a parte (Che si regolerà con prudenza sul fatto; che non vuol esser privo di stare in una casa di padroni matti, tanto ricchi, i quali naturalmente ande-ranno in malora colla fortuna sua). Qualche caricatura drammatica verso Barbarina, e la moglie; che cante­rebbe un'arietta, ma eh'è raffreddato, e non ha tempo, ecc. (entra)

barbarina                       - (allegra) Ho vinto, Smeraldina. Al ciel si mandino preci divote. Ricchi sacrifizi faremo ai numi. 1 numi la mia brama appagheranno, e non vorran, ch'io resti mortificata, e i dì meni funesti, (entra)

Smeraldina                    - Questa è quella filosofa, che tanto ridea dell'amor proprio; or ch'ella è ricca, sacrifica la vita del fratello, e per aver l'acqua famosa, e il pomo, ubbidienti vuol per sino i dei. Oh che bel tomo! Ognun si specchi in lei. (entra)

Scena undicesima

Sepolcro sotterraneo di Ninetta. Ninetta, Uccel belverde con fiasco, e cibo.

Augel                                       - O Ninetta, Ninetta, caccia la noia in bando: chi vive con speranza, non muor sempre sperando. Le fatali avventure a incominciar si vanno, dalle quali dipende il nostro acerbo affanno. Prendi il solito cibo; il Mezzodì, ch'or suona, del tuo sepolcro forse è l'ultima tua nona.

Ninetta                                     - Ah, caro Augello, tu mi metti in forse la mia felicità. Deh dimmi in grazia, quai sien queste avventure, e non tenermi viva tremando in mille morti avvolta.

Augel                                       - Cara Ninetta amabile, per or solo ti dico, chio t'amo co' tuoi figli, e pur vi son nimico; e nimico a me stesso pur sono sventurato! Così vuole il destino, l'orco, che m'ha cambiato. Sappi, che ragionare posso senza far male per tutto, e con chi voglio, fuor che al colle fatale. In sul colle dell'orco, dov'abito di stanza, le mie parole sono di tremenda sostanza. Lungi di là non posso dar providi consigli, né dir a' tuoi gemelli posso, di chi son figli. Sono imminenti incesti, sposalizi esecrandi i padri con le figlie ...cose grandi, ma grandi! Ahi che troppo ti dissi. Volo al mio colle in fretta; tu al buco della scaffa rimanti, spera, e aspetta, (parte)

Ninetta                                     - Che intesi mai! ma non intesi nulla. Superni alti consigli, lungi dal mio consorte, lungi dai cari figli, diciott'anni di morte non mi bastano ancora? Obuco, o buco della scaffa, quanto mi terrai qui sepolta in doglia, e in pianto? (si chiude)

Scena dodicesima

Bosco corto.

Truffaldino, e Renzo armati.

Truffaldino                   - Abbia un'ampolla. Vanno all'acquisto del­l'acqua e del pomo; scena di passaggio per dar tempo, quanto basti, all'apparecchio della susseguente.

Scena tredicesima

Rappresenta il giardino di Serpentina fata.

Nel fondo da una parte arbore con pomi, dall'altra parte grotta con portone stridente,

e che si chiuda, ed apra con impeto, e romore.

Alla bocca della grotta alcuni cadaveri per terra, parte scarnati, parte interi.

Sentesi una voce di donna.

Fere, che l'arbuscello de' miei pomi guardate, porta, che l'acque serbi, danzatrici, dorate; nuove insidie a voi giungono; tenete aperti gli occhi, sicché l'acqua, ed i pomi nessun mortai mi tocchi. Chi a voi non s'avvicina, vada pel suo cammino; ma dagli usurpatori serbate il mio giardino.

Scena quattordicesima

Renzo, e Truffaldino .

Renzo                            - Per quanto gli fu detto, è quello il giardino della tata Serpentina, è quella la grotta, dove si dice esservi 1 acqua d'oro, che suona, e balla, e quello l'albero dei pomi, che si dice, che cantino. A Truffaldino: se senta suoni e canti, e se veda pericoli,

Truffaldino                   - Non sen­tire né suoni né canti, né veder pericoli; che le crede fa­vole per far timore ai fanciulli, acciò non vengano a ru­bare i pomi, ecc.

Renzo                            - Che dunque s'inoltri nella grot­ta, ed empia l'ampolla dell'acqua,

Truffaldino                   - S'in­via, fa due passi verso la grotta, in questo esce dalla grotta un'armonia di suoni;

Truffaldino                   - sorpreso ritor­na adagio col dito alla bocca, fa cenno a Renzo, che taccia,

Renzo                            - Fa gli stessi cenni muti a Truffaldino. Se­gue sinfonia, alla quale risponde il canto de' pomi sul­l'albero.

Coro di pomi

O cupidigia umana, quando paga sarai? Deh, fuggi, e t'allontana, goditi quello, c'hai, né ricercar di più.

Due pomi

Ah, che non vai consiglio degli uomini nel seno. Ciechi sono al periglio, non ha ragion più freno, perduto hanno il sentier.

Un pomo

Qual forza ha mai ragione sull'alme innamorate? Pietà, compassione? Stelle, deh voi serbate chi cieco segue amor.

Coro di pomi O cupidigia umana, ecc.

Renzo                            - Stupori di Renzo, e di Truffaldino , Renzo            - A Truffaldino, che vada a spiccar uno di que' pomi,

Truffaldino                   - Che andrà, e procurerà di spiccar quello, che compatisce l'anime innamorate; ch'è stato attento, ed ha notato qual è; lo crede però una poma. S'avvicina all'albero; escono furiosi una tigre, ed un leone, che si mettono alla difesa, girando intorno all'albero,

Truffaldino                   - Spaventato corre a Renzo,

Renzo                            - Che sia?

Truffaldino                   - Mostra le fiere,

Renzo                            - Infuriato, che vada a empir l'ampolla dell'acqua,

Truffaldino                   - Va alla grotta, vede i cadaveri, ritorna, riferisce, Renzo Colleri­co mette mano alla spada, lo minaccia, dice, ch'egli prenda l'acqua, e che frattanto egli assalirà i leoni, e prenderà il pomo. Riflette sulle parole dell’uccel belverde, che non si devono fuggir perigli per ravvivare il sasso amato,

Truffaldino                   - Si fa coraggio, dopo lazzi va verso la grotta,

Renzo                            - Colla spada si fa coraggio, assal­ta le fiere all'albero. Si chiude il portone della grotta con impeto, stridore, e tuono; dà nel petto a

Truffaldino                   - , il quale fa vari giri, e cade tramortito, spezzando l'ampolla,

Renzo                            - In questo vien disarmato dalle fiere, fugge in dietro. Le fiere circondano l'albero, il portone si riapre.

Renzo                                      - Misero servo, e me infelice! Ahi stolto, non mi disse Calmon, che ne' perigli Calmon chiamassi, e mi sarebbe amico? Calmon, Calmon, soccorri un disperato. (tremuoto, oscurità, lampi, prodigi ecc.)

Scena quindicesima

Calmon statua, Renzo, e Truffaldino

Calmon                         - dov'è filosofia? Renzo, che fai? Tanto può l'oro, e la ricchezza tanta forza ebbe in due filosofi in un punto, ch'una per vanità di maraviglie caccia a morte il fratello; e l'altro, stolto d'amor per una femmina di sasso, più non cura la vita, ed è superbo a tal, che ne' perigli insin si scorda, o non si degna di voler soccorso da chi ricco lo fece, ed è suo amico?

Renzo                                      - Simulacro, perdon. Ti prego, tronca i rimproveri tuoi, dammi soccorso. Veggo, che tutto puoi. Ritorna in vita questo servo infelice. Fa, che acquisti il desiato pomo, e l'acqua rara, e fa, ch'io sappia, i genitor chi sono; ma sopra tutto umilmente ti chieggo d'animar del giardin, che ci donasti, quella donna di sasso. Io non ho pace, se quel sasso animato non possiedo.

Calmon                                    - Renzo, il tuo servo non è morto, e solo stordito giace, e già si scuote, e sorge.

Truffaldino                   - Suoi scuotimenti; sorge; lazzi di stordito; vede la statua, suoi stupori muti,

Calmon                                    - Il pomo acquisterai...

Truffaldino                             - Suo spavento sentendo parlare la statua ecc.

Calmon                                    - Il pomo acquisterai. Son quelle fere da lungo tempo dalla sete oppresse. Però sin di Trevigi io, che re sono di tutti i simulacri, in tuo soccorso fatto ho venir sin qua la statua, detta dalle mammelle, che dai petti manda abbondante acqua. Olà, dalle mammelle esca la statua, e scaturisca l'acque.

STATUA DI TREVISO

Ecco, mio re, le suddite mammelle. (la statua scaturisce nella vasca dalle mammelle ac­qua; le fere vanno a bere alla vasca, Truffaldino Suoi lazzi sulle apparizioni)

Calmon                                    - Renzo, non perder tempo. T'avvicina all'albero fatale, e spicca a pomo.

Renzo                                      - O generoso! lo pronto t'ubbidisco, (s'accosta all'albe­ro, spicca il pomo)

Calmon                                    - Dell'acqua io vo' che prenda. È quel portone di forza tal, che, quando un uom s'appressa, si rinchiude con impeto, e l'uccide. Quei che tu vedi al suol distesi, audaci s'ostinarono a entrar, giacquero estinti. Però dall'Adria a me giunser veloci là dal campo de' Mori i cinque antichi simulacri pesanti. Un dopo l'altro s'appoggeranno a quel portone in fila. Son duri sì, che lo terranno aperto, né l'impeto varrà. Rioba, vieni co' tuoi compagni, ed al porton t'appoggia. rioba moro          - (esce) Eccoci, o re; non dubitar; siam duri.

(escono i mori difìlati, s'avvicinano al portone, che stride, e vuol chiudersi, ma Rioba tien forte; gli altri moti s'appoggiano spalla a spalla in fila; il portone sta aperto a forza. Lazzi di Truffaldino)

Calmon                                    - Entri il servo alla grotta, e non paventi; ivi troverà ampolle; una ne prenda, l'empia, e se n'esca tosto.

Truffaldino                   - Difficoltà,

Renzo                            - Lo caccia a forza,

Truffaldino                   - Suoi lazzi di paura; si raccomanda a Rioba, e a' mori, (entra)

 Calmon                                  - Giovane sfortunato, or tu possiedi quanto cercavi, e nulla ancor possiedi. Vanità nella suora, in te l'amore, limiti non avran. Le passioni in te saran funeste. Tu chiedesti, che de' tuoi genitor ti doni lume. Questo noi posso far. Chiedi animata la statua, oggetto del tuo amor; né posso compiacerti di ciò. Questi due arcani son dipendenti dall'Augel belverde, che

Barbarina                      - adora, e che t'apparve nel giardin, non è molto. Io solo posso scior la favella al simulacro amato. Sicché la voce alquanto ti sollievi. Questo farò; ma forse il tuo tormento farà maggiore il bel sasso, che parli.

Renzo                                      - Parlerà meco il sasso? Ah, che di tanto pago sarò, né più ricerco, amico. Qual mai fia dolce cosa a questo seno il favellare al caro simulacro, e udir dalla sua lingua i sentimenti verso me del suo cor! Come riceva dell'amor mio gli accenti, ed i sospiri, il sentir, s'ella m'ami, e mi sia grata!

Calmon                                    - Folle! Avverrà ciò, che tu brami, e sete di maggior cose avrai. Mal dotto amante tu sarai, come gli altri. Una favella, un detto affettuoso d'un bel labbro la fiamma accresce, e ardente, e ingordo, e audace l'uom non s'appaga. Scarso alleviamento è nell'udito un suon dolce dell'aura. Non han giammai confin nell'uom le brame. Felice lui, se le sue brame ingorde saran per beni a' sensi ignoti, e ]unge dalla vista mortai, tra il fango avvezza.

Truffaldino                   - Esce coli' ampolla furioso; narra cose gran­di. Quanta fatica ebbe a raccoglier l'acqua, che balla­va. Quanti concerti ha sentiti ecc. Che sente l'acqua, che vuole spezzar l'ampolla per ballare ecc.

Calmon                                    - Renzo, per or sei pago. Io però leggo entro a quel cor pregiudicato, e cieco, che pago non sarai, che da te stesso per mera ingratitudine cadrai in estrema miseria. A tuoi perigli non lasciar di chiamarmi, lo solo bramo un picciol benefizio. A tempi andati gl'insolenti fanciulli con le pietre rotto m'aveano il naso. Un statuario me lo rifece. Avea naso aquilino; questo al mio non somiglia. Deh procura, ch'egli mi sia rifatto al mio conforme. Di quanto io fo per te picciol servigio di chiederti mi sembra. Amico, addio.

 (oscurità, tremuoto ecc. Calmon sparisce. Le fiere si ritirano all'albero)

STATUA DI TREVISO

Rosa ho dal tempo la mammella dritta; Renzo, non ti scordar d'essermi grato, (entra)

UN MORO

Spezzato ho un braccio, (entra) altro moro Io diroccato ho il mento, (entra)

ALTRO MORO

Mozze ho l'orecchie, (entra) altro moro Ed io le gambe ho guaste, (entra)

ALTRO MORO

A me la destra natica fu rotta. Aspettiam gratitudine, e ristauro. (entra)

Truffaldino                   - A Renzo: che non crede mai, che si vorrà prendere questo fastidio di far ristaurare nasi, natiche, e mammelle, ecc.

Renzo                                      - Per or m'occupa solo udir la voce del simulacro amato; altro non curo, (entra)

Truffaldino                   - L'intento è avuto. La memoria dei benefìzi è molesta; il dover pensare a contribuire è un tormento; la gratitudine è una favola. Si tengano i loro nasi, le loro mammelle, le loro natiche rotte; nulla a nessuno, nulla a nessuno; ma che, se mai

Renzo                            - si risolvesse a fare questi restauri, vuol egli certamente averne l'ap­palto, ecc. ecc.

ATTO QUARTO

Sala de ' gemelli.

Statua di donna, vestita riccamente, a cui si vedano mez­ze le gambe, le mani e metà delle braccia, il viso, il capo, e il seno di marmo, posta sopra un piedestallo in pittore­sca, e comoda figura.

Scena prima

Renzo, e Pompea statua.

Renzo                                      - Qui in questa soglia dal rigor de' nembi, dalle rigide brume, dalle nevi, dal sol cocente, amato simulacro, salvo ti rendo. Quelle ricche vesti, donde le belle membra ricopersi, effetto son di gelosia crudele, ch'altri, mirando tua bellezza intera, nella felicitade a me s'uguagli. Odi i lamenti miei. Deh, se la vista di questi occhi beasti, il tuo bel labbro, come Calmon, non è molto, promise, soavemente dall'udito al core mandi la voce a ravvivar quest'alma. Dimmi, idol mio, sei grata a tanto affetto?

Pompea                                   - Fanciul, cambia favella. Il tuo discorso risveglia in me di mille accenti il suono d'adulatori iniqui, di zerbini, vaselli di delizie, di profumi, dorati nelle spoglie, e nell'interno d'ogni vizio sepolcri, e d'ignoranza, oggetti del tormento, in cui mi vedi.

Renzo                                      - O cara voce, quanto a questo seno doni conforto! Ah, dimmi, tu non sei dunque fattura di scarpello industre, ma donna fosti? Qual potè cambiarti magica forza? E chi sì bell'oggetto disanimar potè? Prive di sensi far le flessibili carni al mondo sole, spegner di que' begli occhi il divin raggio. E tor le rose alle fiorite guance?

Pompea                                   - Fanciul, cambia favella, Oh Dio, son questi de' scellerati adulator, gli accenti, a' quali vana, tumida, superba divenni troppo, un idol di me stessa a me stessa facendo. Ah, non avessi per stolte insidie di leggiere menti, di sospir sciocchi, interminabil lodi, scordato il cielo, e disprezzati i saggi, che non saria trascorso d'improvviso il gelo punitor per queste vene, per queste fibre, che mi tolse a un punto moto, senso, color, respiro, e vista. Deh almen non fosse il career, che mi chiude, arido sì, che il mio dolore interno sfogar potessi, (con voce di pianto) Ahi, che son tolte insino soccorritrici lagrime, a questi occhi ristoro acerbo, e pur bramato, e invano.

Renzo                                      - Misera! Tu m'uccidi. Almen t'accerta, che il mio dolor di tua sventura, uguagli, e forse avanzi il tuo dolor. Ben posso, come vedi, versar dagli occhi il pianto, che tu non puoi. Potessi almen comune, com'è l'angoscia, far che fosse il pianto, che tu brami, ch'io verso in larga vena senza sollievo aver, come tu accenni. Non mi chiamare adulator. Noi sono, simulacro adorato. Deh, mi narra, chi ti die vita, la tua patria, e il nome.

Pompea                                   - Il mio nome è Pompea. Di sangue illustre fu la nascita mia. Diede l'Italia aura al mio respirar. Dove più regna voluttà smoderata, ove si sprezza più la saggia canizie, ove si cerca leggierezza ne' libri, e corruttela, più che soda virtù, s'ergon le mura della città, dov'ebbi albergo, e vita;

                                      - (piangente) quella vita, che vedi, e che più vita chiamar non posso, e sol chiamar si deve vita, morte, sepolcro, e inferno insieme.

Renzo                            - (disperato) Ben mi disse Calmon: «Il tuo tormento farà maggiore il bel sasso, che parli». Dimmi, Pompea; se fossi in carne umana, che nodo coniugai strigner potesse la nostra sorte, m'ameresti, o cara?

Pompea                         - (con sospiro) Oh Dio, sì t'amerei, (piangente) Deh, ingrato, almeno non destar un desio vano a sperarsi per raddoppiar le angosce a un'infelice.

Renzo                                      - Tu m'ami? Ahi voce, che il mio cor rallegri, e laceri in un punto, lo sofferire dovrò, che duro marmo sien le vaghe membra di lei, che m'ama? Ah no; si cerchi 1 Augel, da cui dipende il sacro arcano dei cambiamento di costei, che adoro.

 


Pompea                                   - Tu promettesti pure, il so, esser pago d'udir sol la mia voce, ed or noi sei. Generoso garzon, lascia, ch'io sola soffra la sorte, all'error mio castigo. Non espor la tua vita al gran cimento.

Renzo                                      - Ben spietato sarei, se t'ubbidissi, (in atto dipartire)

Scena seconda

Truffaldino da viaggio con frusta da postiglione, e Renzo.

Truffaldino                   - Scoppiando con la frusta frettoloso; allon, allon; tutto esser in punto; non è più tempo da perdere, non si perda a far all'amore coi sassi, ecc.

Renzo                            - Che sia, dove vada, che faccia? ecc.

Truffaldino                   - Come non sappia i gran casi successi?

Renzo                            - Non saper nulla.

Truffaldino                   - II re Tartaglia ha mandato Pantalone, re­gio ruffiano, per concludere il matrimonio con Barba­rina, sua sorella, chiedendo in dote il pomo, che canta, e l'acqua, che balla. Che

Barbarina                      - era combattuta lo spirito tra l'amore, che ha per l'Uccel belverde, e l'am­bizione di diventar regina. Che fece una scena d'agita­zione bellissima, che pareva una nave in burrasca, ecc. Che il regio ruffiano con eloquenza disprezzava l'af­fetto dell'Uccel belverde, in confronto del re; che fi­nalmente pareva, che l'animo di

Barbarina                      - pendesse alla monarchia. Quando, oh inaspettato caso, compar­ve la vecchia regina Tartagliona col poeta, cavalier ser­vente, e piantatasi colle mani in fianco disse queste pa­role: «Per divenir mia nuora ogni speranza perde chiunque non ha in dote l'Augelletto belverde». Che, ciò detto, era partita col bracciere poeta, che andò seco recitando un'egloga in lode dell'appetito, ecc. Che Barbarina era andata in furore, ed aveva scacciato Pantalone, spingendolo giù per la scala. Che gridò per casa, com'una spiritata, che le si rechi l'Uccello bei-verde. Ch'era caduta sopra una poltrona con gli effetti isterici, che tira calci, fa sberleffi, che fanno paura. Quattro femmine la tengono, le hanno dilacciato il bu­sto, le hanno bruciate sotto al naso due raccolte di poe­sie. Ch'egli era partito per la compassione, e per la mo­destia. Che già è arrivato il diavolo benefico, che spin­ge soffiando di dietro, che altre volte favorì il re Tarta­glia, e lui. Che il colle dell'orco, dove sta l'Augello, non è lungi, che tremila miglia; tutto è pronto, la cosa batte in freddure, bisogna consolar la povera Barbari­na, e andare all'acquisto dell'Uccello, ecc. a parte (sue risa delle pazzie)

Renzo                                      - Sì, Truffaldino; io già m'era risolto d'andare a quest'impresa. Ecco la serva, tua consorte, che vien.

Scena terza

Smeraldina, e detti.

Smeraldina                    - Aiuto, aiuto.

Renzo                            - Smeraldina, non più. Vado all'acquisto dell'Augello belverde. Tutto intesi, già vo' saper di chi son figlio; e voglio chi adoro liberar dal career duro, e in un punto appagar la suora mia. Dille, che spesso quel pugnale osservi, che, sino chei risplende, il fratel vive, che, s'egli è sanguinoso, è morto. Addio, (entra)

Truffaldino                             - Che, s'egli è sanguinoso, è morto. Addio, (l'abbraccia, e parte battendo la frusta)

Smeraldina                              - O quanti matti al mondo! O qual'intrico è questa vita, che bramiamo tanto!

Scena quarta

Smeraldina, Barbarina, e Pompea.

Barbarina                                 - Serva, dov'è il fratel?

Smeraldina                              - Via, state cheta.Egli è andato a uccellar l'Augel belverde; e disse, che osserviate quel pugnale e, se mai getta sangue, ch'egli è fritto.

Barbarina                      - Grazie a' numi dei ciel. pompea Folle, t'affretta, ferma il fratello. Tuo fratello è morto.

Smeraldina                              - Oimè, quel simulacro ha ragionato, (suo tremore)

Barbarina                      - Che maraviglie? lo sono avvezza a questo. Morto è il fratel? (trae il pugnale, che risplende) Che narri? Eh, stolta, taci. Terso è il pugnale; mio fratello è in vita.

Pompea                                   - Indiscreta, superba, adunque aspetti, cieca da vanità, che sanguinoso apparisca il pugnai, per poi dolerti invan della miseria del tuo sangue?

Smeraldina                    - (tremante) La statua dice bene; siete matta.

Barbarina                      - Dunque dovrò soffrir di non sapere, chi sieno i genitor? Dovrò soffrire i rimproveri altrui? Non sarò degna, per non avere un Augellin belverde, d'esser sposa al monarca? Ahi, si vuol troppo.

Pompea                                   - Barbarina, nessun bramar più deve di me l'acquisto dell'Augel belverde; ma il volerlo acquistar troppo è fatale. Amo il fratello tuo. Più amar lo devi tu, che gli sei sorella. In me ti specchia. Tal mi ridusse vanità, qual vedi. Temi, che il ciel s'irriti. Non curarti d'esser sposa al monarca, ed abbonisci anzi le nozze sue. Di più non dico, Ferma il fratello, o invan lo piangerai.

Barbarina                                 - La voce di costei nel cor mi passa; tutta mi fa tremar. Ribrezzo estremo sento per il fratello... estrema voglia dell'acquisto fatai... son disperata Ah si salvi il fratel; dell'altra brama forse m'appagherò. Serva, mi segui; verso al colle dell'orco io movo il piede, (entra)

Smeraldina                              - E pur è ver. Quando si vuol del bene a una persona, non si può staccarsi; e, quantunque sia matta da catena, sin al colle dell'orco ella si segua. Sarà per amor proprio; pazienza.

Scena quinta

Sala regia.

Pantalone                      - No m'alia butta zoso per la scala quella becca cornua? Credo, che questo sia el primo caso, che un ambassador d'un monarca, che va per trattar un matrimonio d'un monarca con una mezzacamisa incognita, che no domanda altro in dote, che una caraffina de acqua, e un pomo, sia sta butta zoso per la scala, come una zavatta. E pur ste stravaganze, che acqua, pomi, oselli belverdi impedissa un imeneo de sta natura, me dise al cuor del­le cose grande. Me sento una certa sinderisi a tegnir man a sti amori... no so gnente. Quei do bamboli, but­tai da mi tanto ben condizionai zoso per el fiume... no so gnente. Questi xe do zemelli... Le parole de quel ce­lebre poeta... no so gnente. Se vede in sta ragazza una struttura de naranza patente. In somma no posso parlar per paura della pelle; ma gho dei rimorsi. Se dise, che i sia fioli de Truffaldin, e de Smeraldina; ma figurarse: el pare, e la mare no serve i floi in quella maniera, e pò sti palazzi, ste maravegie, ste ricchezze sfondradone no se fa colla luganega cusì presto. Sangue de donna Cattarina, che vogio andar a far quattro interrogazion da omo de garbo a Smeraldina, e a Truffaldin, e se pos­so cavar celegati, e che el marron sia, come dubito, vada la pelle, gomito tutto; perché, se nasce un matri­monio d'un pare, e d'una ria, le xe pò de quelle trage­die da orbarse, come Edipo, da impiccarse per la gola al rampegon della carne, come una dindietta de grassa. (entra)

Scena sesta

Tartaglia, e Tartagliona. (Tartaglia fugge dalla madre).

Tartagliona                    - Figlio, non mi fuggir.

Tartaglia                                   - Signora madre, v'ho scacciata dal cuor, più non vi soffro; andate a farvi seppellir, eh'è tempo.

 Tartagliona                      - O figlio d'una strega, bricconaccio, (rabbiosa) becco cornuto, sono stanca al fine, non voglio, che tu sposi una bastarda, che non si sa, chi sia. Nuore non voglio, che sien bastarde, e diventar la nonna di qualche discendenza vergognosa.

Tartaglia                                   - Io non so di bastarde, o non bastarde; so ben, che non vorreste esser mai nonna. Sangue di Malacoda, son monarca, voglio sposarmi a chi mi pare, e piace, e voi sposate il dia voi, che vi porti.

Tartagliona                              - O canaglia, birbante! Ho inteso tutto. Io voglio far pagamento di dote, e farti un conto al sei per cento addosso, che ti porterò via sin le brachesse.

Tartaglia                                   - Capisco, via. Questi sono consulti di quel vostro canaglia di poeta, che cerca farvi fare il testamento. E voi credete, che per voi sospiri, vecchia senza giudizio. Non vi temo. Io vi noterò tanto d'interdetto, vi pianterò ventiquattro conversi, ed averò avvocati si valenti, che vi faran crepare sulla panca, e quel vostro poeta pidocchioso lo caccerò coi calci nel preterito a scriver le canzon per la regata.

Tartagliona                              - Ben, ben, ci toccheremo le gambette. Leverò fra mezz'ora un vadimonio, ed a cauzion farò bollarti il regno, e sino i denti, ch'hai nelle mascelle, vedrem, se allor mi porterai rispetto. Ah, non doveva maritarmi mai: questo è quel, che s'acquista a far dei figli, (piange)

Tartaglia                        - Andate a sequestrar Monterotondo, e a farmi diventare un re fallito; non bado al lagrimar dei coccodrilli.

Scena settima

Pantalone, e detti.

Pantalone                      - (frettoloso) Maestà, Maestà, cose grande, ma grande. La se reconcilia con la siora madre; xe super­flue le dissension domestiche; no gh'è più tempo. Ve-gno adesso dal palazzo dei do incogniti; no i ghe xe più. I servitori de casa xe vestii da corotto, i pianze, no i responde; tutto spira orror, morte, catafalco, sepoltu­ra. I xe andai a far terra da boccali. Bisogna rassegnar-se; l'è za un tributo, che avemo da pagar tutti.

Tartaglia                        - (disperato) Or sarete contenta. O Giove, o Giove, o Mercurio, o Saturno, o ciel nimico! Vado a ficcarmi un spiedo nel bellico, (entra furioso)

Pantalone                      - Un speo in tei bonigolo! Mo se Pantalon no deventa chiompo, no nascerà miga sto spettacolo, vede, (entra correndo)

Tartagliona                    - La cosa va pulito. O gran poeta! Dalle minacce salva esser dovrei.

Scena ottava

Brighella, e Tartagliona.

Brighella                       - I xe tutti al colle dell'orco, maestoso mio af­fetto; no i doveria più tornar a casa.

Tartagliona                              - Così fia senza dubbio. Il re mio figlio è per ficcarsi un spiedo nel bellico. Palesar mi convien con mio rossore, poeta insigne, ch'io ti sono amante.

Brighella                                  - Grazie, che a pochi il ciel largo destina. Peraltro, Maestà, la permetta, che ghe digha. La cosa no pregiudica gnente; l'è un atto de semplice prudenza. La fazza subito el so testamento.

Tartagliona                              - Non mi parlar giammai di testamento. Tu mi conturbi con presagi mesti. Amami, e scrivi; i tuoi dover son questi, (entra)

Brighella                       - No gh'è remedio; no la voi sentir testamento. Xe ben vero, che sti zemelli doveria restar al colle del­l'orco, dove so, che el diavolo, sorastante alle smode­rate passion umane, ghe va supiando da drio. Tuttavia la cabala me risponde un poco scuretto, e prevedo za, che, anca se le cosse va felicemente, el povero poeta averà sempre sta resposta: «Amami, e scrivi; i tuoi dover son questi». El ciel me defenda da una patente ad honorem, (en­tra)

Scena nona

Colle dell'orco con palagio nel fondo.

Innanzi alla porta uccel belverde sopr'una gruccia con catenella ai piedi.

Alcune statue sparse per il colle.

Un foglio piegato in terra.

Renzo, Truffaldino, Augel belverde.

Renzo                                      - trtjfT Sl P°teVa giunger Più velocementeha provato ancora in sua gioventù la yinu di quel diavolo dietro.

Renzo                                      - Questo è il colle dell'orco certamente. Veggo colà l'Augel bramato starsi, né alcun periglio miro. Truffaldino, fa diligenza, guarda intorno intorno, se vedi fiere, draghi, orchi, o serpenti.

Truffaldino                   - Guarda intorno: che non vede né meno una formica: che però non si vedeva nulla al pomo, ed al­l'acqua, e che poi erano stati mal impegnati, che lo consiglia a chiamare Calmon, statua, in soccorso.

Renzo                                      - No, invocar non lo voglio; io non mi degno chiamar soccorso ognor, come un fanciullo timido, o un vecchio rimbambito, e fiacco. Altri obblighi non voglio certamente seco incontrar. Di quanto mi richiese di ristauro, tu il sai, per dire il vero, nulla feci, e noi curo. Ei, se lo chiamo, verrà con una lunga cantilena, e con prosopopea marmorea, e grave, vorrà far correzion, darmi rimproveri. M'annoia il non potere un benefizio ottener mai senza pretese eterne di ricompense sturbataci, e d'obblighi, seccate insofferibili, e indiscrete. Togli r Augel belverde, a me lo reca; egli al pie ha la catena; è facil cosa.

Truffaldino                   - Che le richieste di Calmon erano state da poco, d'un ristauro di naso. Che non è persuaso d'avvi­cinarsi all'Augello, se non chiama soccorso. Che gli obbietti, che fa, sono da stolido. Ch'egli, in bisogno, ha sempre dimandato aiuto; che, appena avuto il soccor­so, non s'è curato del benefattore, come se non fosse. Che, tornato il bisogno, con franchezza, e senza meno­mo rimorso ha ridomandato aiuto, e che, quanto a rimproveri, in caso di bisogno, gli ha sempre ascoltati col collo torto, con gli occhi lagrimosi, e con apparente dolore, e dando pienissima ragione al rimproveratore; che avuto il servigio, era quello di prima ecc. Ch'egli si vanta invano d'aver studiata la moderna filosofia; che non n'ha veduti né meno i cartoni. Che il saper co­noscere il mondo, e l'avere il proprio intento o per drit­to, o per torto, è la vera felicità filosofica moderna.

Renzo                                      - Allon, briccone, a prender quell'Augello, (minaccian­do di batterlo)

Truffaldino                   - Ch'egli ha un animo forte, pieno di dottri­na, capace di sofferire anche dei calci nel preterito filo­soficamente, per non mettersi in un pericolo, e che, se non chiama Calmon, non anderà ecc.

Renzo                                      - Ma che bado a costui? Le mie premure non ammetton ritardi: a che mi fermo? (veloce verso l'Augello)

Truffaldino                   - Che vada pure. Sta a vedere, ch'esca l'or­co, o altra gran cosa, e nascano disgrazie grandi ecc. (Renzo è in poca distanza dall'Augello; comincia a mettersi in atto di pigliarlo)

Augel                                       - Dove corri, infelice? Stolto, ingrato, che fai? D'un insano coraggio la pena or pagherai.

Renzo                                      - Oh Dio, che sento!... Ahi quanta doglia!... Oh ango­scia! Servo, soccorso... Ingrato son... Mi pento... Calmon, perdon... Ah, che perdon non merto. (si cam­bia in statua)

Truffaldino                   - Suo spavento. Corre per la scena. Non vede pericoli. Vede

Renzo                            - star duro, è diventato bian­co; sue considerazioni ridicole. Che, se potesse aver quell'Augello, non si curerebbe della disgrazia del pa­drone. Anderebbe a Venezia a far un casotto ecc. Si va avvicinando con cautela per pigliar l'Augello; se gli avvicina.

Augel                                       - Scellerato, giugnesti. Invan prova rimorso. D'un'indole perversa sa il ciel troncar il corso.

Truffaldino                             - Oh Dio, che sento! Ahi quanta doglia! Oh angoscia. Tristo non sarò più; di cuor mi pento. Tardi la man da drio; xe fuora el vento, (si cambia in statua)

Scena decima

Barbarina, e Smeraldina.

Barbarina                                 - Credo quest'aura si felice, o amica, che ratte ci condusse, sia un prodigio in favor del fratello.

Smeraldina                    - Oh, senza fallo. E fu un prodigio ancora il non cadere, e il non rompersi il collo.

Barbarina                                 - Io qui non veggio però il fratello. È questo il noto colle; quello è l'Augel bel verde. Ah, non vorrei, Smeraldina, che

Renzo                            - per mia causa fosse perito; il cor mi batte in seno.

Smeraldina                              - Eh, non vi spaventate. Noi siam giunte veloci assai. Forse il fratello vostro non avrà avuto si buon vento in poppa.

Barbarina                                 - No, Smeraldina, io sento nell'interno movimenti crudeli, un pentimento, un barbaro rimorso. Oh Dio, vorrei trarre il pugnai, veder, se ancor risplende; o se appar sanguinoso, e si mi trema la man, presaga dell'atroce vista, ch'io noi so far.

Smeraldina                              - Eh, fatevi coraggio poco fa tanto ardire, ed or sì vile?

Barbarina                                 - Ah, coscienza maculata, amica Ma'ben ragioni, lo coraggiosa in traccia deggio andar d'un dolor, che mi dia morte, se del mal fui cagione, (trae il pugnale, che gronda sangue) O cielo... madre! Morto è il fratello, ed io fui, che l'uccisi, (le cade il pu­gnale, sviene)

Smeraldina                              - O poveretta me! Povero figlio! Povera figlia! Povero marito! (la sostiene)

Barbarina                                 - Lasciami, Smeraldina; io più non merto soccorso da nessun. Più, che degli altri, merito l'odio tuo. Povera donna! Tu pietosa alla morte mi togliesti, tu m'allevasti, e in semplici parole mi dipignesti amor, timor, dovere d'una vita mortale; io t'ho derisa, e negli studi miei stolti, e fallaci, quella ragion, dal ciel, moderatrice d'umane passion, posta in noi tutti, m'assuefeci a disprezzare, ed empia, impossente ridussi, onde in tumulto posi le brame, insaziabil torma; schiava d'esse divenni. Io ben conosco, ma tardi, gli error miei. Ragione, amica, non è in me spenta, e nel funesto caso, come suol avvenire a tutti gli empi, m'apre lo sguardo al vero. In me contemplo un schifo oggetto. Vanità mi rese favola al mondo; agli occhi delle stelle tizzon d'inferno. In me tormento è solo quella ragion, che ne' più saggi è calma, (piange)

Smeraldina                    - (piangendo) Barbarina mia cara... mi rincresce. Sento il cor, che si spezza ... mi dispiace, che il dolor sì m'opprima... il cor mi duole d'esser un'ignorante... e non potere con qualche bel discorso consolarvi. Tutto è amor proprio, figlia; voi piangete la morte del fratei per amor proprio.

Barbarina                      - A ragion mi deridi; io tutto soffro, (prendendola per mano) Quanto, innocente amica, a me sarebbe cara la povertà di quella vita, che presso a te condussi, e quanto cara quella lacera veste mi sarebbe, e il piede scalzo, e il crine incolto, e il bere teco a un ruscello, e di poc'erba il pasto! E non aver fra le ricchezze e gli agi tal di me abbonimento, e tai rimorsi d'aver morto il fratello. Ahi, non avranno di questa scellerata, iniqua donna pietade i numi: io disperata sono, (piange) Scena undicesima Oscurità, lampi, ecc. Calmon, e dette.

Calmon                                    - Teco dispereran ne' punti estremi tutti color, che scelgon per maestro chi sotto al velo di svegliar le menti coglie forza al sperar sopra le stelle.

Smeraldina                    - Oh poveretta a me! Qui un'altra statua.

Barbarina                                 - Calmon, se di pietà più degna sono, se al fratel giovar posso, mi soccorri.

Smeraldina                              - Ha una gran confidenza con le statue.

Calmon                                    - Tuo fratello è perito; io gliel predissi. Gli potresti giovar, ma a grave rischio moralmente di morte, lo ti consiglio a por freno all'angoscia, a sofferire del fratel la sventura, e a ritirarti. Non tu sola cagion sei del suo danno; superbo, ingrato, e stolto anch'ei lo volle. Fuor che consigli, al tuo caso presente Calmon dar non ti può. Difficoltade d'eseguire i consigli farà vano quanto insegnar ti posso, e perirai.

Barbarina                                 - No, Calmon; deh ti movan queste lagrime; bramo perire, o ridonar la vita al fratel mio, per mia cagion perduto.

Smeraldina                              - Anche al marito mio, bench'era un ladro...

Calmon                                    - Sorgi, e m'ascolta ben. Vedi in sul colle l'Augel belverde? Fuor di quest'albergo nessun nuoce, è tuo amante. Dove or posa, fatale è a tutti. Dall'Augel dipende la vita del fratello, del marito di costei, che ti segue, e di molt'altri resi infelici. In lui riposto è il lume della nascita tua. Quello felice esser puote per te. Può far felice te, la corte, ed il regno, e sciorre a un tratto molte occulte vicende, e punir gli empi, se tu l'acquisti. Ei dentro a quelle spoglie figlio è d'un re fatalmente cambiato. Odimi, e nota ben le mie parole. Chi d'acquistarlo brama, avvicinarsi deve a lui con misura. Occhio celeste ti vuol per essa. Sette passi, un piede, quattr'once, un dito, e un punto, de' fermarsi lungi da lui, chi viene al gran cimento, né alterar d'un capei questa misura. Giunta al confin, difficile a trovarsi, dei con somma prestezza esser tu prima a ragionare a lui, pronta dicendo gli antichi versi, che in quel foglio scritti, a te dinanzi son. (addita il foglio, eh'è in terra) Se prima parla l'Augel, perisce chi acquistarlo brama. Perisce ancor, chi oltrepassando il punto parla, o fuori del punto. Or vedi, quanto difficile è l'impresa, lo più non deggio, se perisci giovarti. Sta il desistere, l'arrischiarti in tua man. Se mai tu vinci, ricordati di me. Non imitare l'ingrato fratel tuo. Rimanti, o figlia, ne' tumulti dell'alma. Altri i tuoi passi, non può regger, che il cielo. Io t'abbandono, (oscurità ecc. sparisce

)

Scena dodicesima

Smeraldina, Barbarina, Renzo,

Truffaldino, Cappe Cigolotti, e Augel belverde.

Smeraldina                    - Diavol: chi mai portassi a quest'impresa, se non è matto? Sette passi, un piede, quattr'once, un dito, e un punto, dee fermarsi lungi da lui, chi viene al gran cimento, né alterar d'un capei questa misura, e parlar prima dell'Augello, o è gito? Perisce ancor, chi oltrepassando il punto parla, o fuori del punto? Barbarina, restiam tuttedue vedove, e andiam via.

Barbarina                      - No, Smeraldina; al gran cimento io vado, (raccoglie il foglio)

Smeraldina                    - (trattenendola) No, cara figlia.

Barbarina                      - (liberandosi) Lasciami; ho risolto, diriga il cielo i miei passi, e la vista. (Barbarina se ne va verso l'Augello; si ferma di quan­do in quando co ' suoi lazzi di prendere le giuste misu­re, e di bilanciar i passi, avanzando sempre, e aprendo il foglio)

Smeraldina                    - (agitata) Povera figlia!... Oimè, certo perisce. Adagio, Barbarina; manca un passo; mancan sol le quattr'once... il dito... il punto... il punto, il punto solo, manca il punto. Parlate presto; è tempo. Oh Dio, che pena!

Barbarina                      - (legge il foglio) «Augel belverde, che tien l'ali d'oro, volgiti in qua, son la tua Barbarina, che tanti monti, e campagne cammina, per acquistarti, mio caro tesoro».

Augel                            - O cara figlia, mia sposa, ben mio, sono tuo schiavo; qual dolce contento! Prendimi, e andiam, che ci attende il buon vento, e compiuto ogni nostro disio. ( Barbarina lo prende con prestezza)

Smeraldina                    - (battendo le mani) Oh che allegrezza! Brava, brava, brava.

Barbarina                      - Augel belverde, il mio fratel soccorri.

Augel                                       - Da quest'ala sinistra una penna trarrai; tocca le statue presto; tuo fratello averai.

Barbarina                      - (trae la penna, tocca Cigolotti, statua, che si trasforma)

cigolotti                         - (con flemma trae la scattola, e prendendo ta­bacco) Chi lassa la via vecchia per la niova, spesse volte ingannato se ritrova. Credeva de acquistar sto osello, de far un casotto, e de deventar ricco, e la me gera successa pulito, pover'omo. Alla fé, che bisogna taccarse a Ottavian dal Leone, al re Pepino, alla bella Drusiana, e a Bovo d'Antona. (entra)

Barbarina                      - (tocca con la penna Cappello, statua, che si trasforma)

cappello                         - (gridando) El povero Cappello. Se no i me li­berava, no disnava più. Sto bisatto marinao, sior mio, gera innamora delle porte dei Moranzani, sior mio, e ste porte dei Moranzani, sior mio, gaveva sinderesi de zelosia per sette cani da toro, sior mio. (entra)

Barbarina                      - (tocca Truffaldino, che si trasforma)

Truffaldino                   - Suoi scuotimenti, sue proteste di lasciar le massime filosofiche moderne, e d'essere in avvenire un galantuomo; abbraccia la moglie ecc.

Barbarina                      - (tocca Renzo, che si trasforma)

Renzo                                      - Cara sorella, chi mi rende in vita?

Barbarina                      - (abbracciandolo) Chi fia per l'avvenir meri folle, e vana.

Smeraldina                              - Io son balorda; questo è il mondo nuovo.

Augel                                       - Figli, a compiere il resto andiam via consolati, perché, se giugne l'orco, siam tutti rovinati. Avvertasi, che le persone del Cigolotti, e del Cappello si possono cambiare a piacere con altre caricature co­nosciute, da imitarsi.

 

ATTO QUINTO

Giardino delizioso. Vasca di fontana da una parte, dal­l'altra piedestallo con bacile sopra; nel mezzo tavola; di rimpetto sedie di verdura in circolo.

Scena prima

Tartaglia, Barbarina, Renzo, Pompea, Tartagliona.

Pantalone, Brighella, siedono sulle sedie di verdura, Truffaldino, e Smeraldina in piedi.

Tartaglia                        - (basso a Brighella) Poeta, io mi chetai, perché il volesti.

Brighella                       - (basso a Tartagliona) Bisogna starghe; la mia cabala numerica risponde cusì. Se il re si sposa a Barbarina, tutte le miserie cadran sopra di lui; se non la sposa, il strologo Brighella, e le viscere sue sono in padella.

Renzo                            - (a Pompea) Mio ben, pur siam felici. Chi avria detto che in una penna d'un Augel belverde fosse tanta virtude?

pompea                         - (a Renzo) Io tutto deggio all'amor vostro, e grata, e amante sempre sarò di voi fedel sposa, ed umile.

Smeraldina                    - (a Truffaldino)M'amerai da qui innanzi?

Truffaldino                   - Ah, mia diletta, io son pieno d'idee di tenerezza, come se il primo giorno fosse questo, che tu m'hai posto al collo la cavezza, (le bacia la mano)

Tartaglia                                   - Ma, cospetto di Bacco, Barbarina, voi m'avete chiamato a star presente a espression d'amori, e di dolcezze, per farmi dare al diavolo. Ognun gode, e il re sta a bocca secca. E già contenta mia madre d'esser nonna. Io non intendo, perché tiriate indietro quella mano, e ricusiate d'un monarca il letto. Diventerò bestiai, come un cavallo, e spezzerò la corda dei riguardi. barbarina Mio re, non vi sdegnate. I miei riguardi da molti arcani hanno principio oscuro, che minaccian tai nozze. È questo il punto di sciorre il nodo a mille cose ignote, ch'io non potei capir. Son curiosa estremamente anch'io di saper, come deve finir questa tragedia greca. Truffaldin, Smeraldina, a me si rechi dell'acqua d'or la portentosa ampolla, che suona, e danza, l'Augellin, che parla, ed il musico pomo, lo già son pronta, quando il destin lo voglia, d'esser vostra. ( Truffaldino, e Smeraldina entrano)

Tartaglia                        - Adunque il matrimonio ha da dipendere da un pomo, da un po' d'acqua, e da un uccello? Da re d'onor che son cose ridicole.

Pantalone                      - a parte (Mi gho la strangolariola; no posso parlar. Chi volesse depenzer el mio interno, bisogneria depenzer el canal del Bisatto in borrasca).

 (ritornano Smeraldina, e Truffaldino coll'acqua, col pomo, e coll'Augel belverde)

Barbarina                                 - Qui queir Augel; di là si metta il pomo; in quella conca l'acqua sia versata. (Smeraldina          porrà sulla tavola l'uccello, sul bacile del piedestallo il pomo. Truffaldino verserà nella conca l'acqua con qualche lazzo. Versata l'acqua, s'udrà suono di strumenti adagio, ballando l'acqua a poco a poco; gli strumenti si faranno sentir più, e l'acqua bal­lando s'innalzerà, e formerà una fontana; la sinfonia sarà grande)

TARTAGLIA, TARTAGLIONA, POMPEA, RENZO, PANTALONE, BRI­GHELLA, SMERALDINA, TRUFFALDINO

Bellissima, bravissima, pulito.

Barbarina                      - (fa cenno all'acqua, che taccia; l'acqua fer­ma il suono) Acqua, il suono rallenta, ed accompagna del pomo il canto; e tu sciogli la voce, (al pomo) (Il pomo in tuon di recitativo, accompagnato dall'ac­qua) Tremi chi da gran tempo pertinace visse negli error suoi. Chi a pentimento sorda l'alma mantenne. Il punto è questo, in cui l'ira del cielo si scatena contro gli empi ostinati, in cui felici fa il ciel gli oppressi a torto, al cielo amici. L'acqua suona la seguente aria; il pomo la canta. Si spezzi la tomba, in cui l'innocente, novella colomba, sofferse dolente sì lungo penar. Giust'ira celeste la folgore scaglia, punisci, sbaraglia. Rallegra Tartaglia, fa il regno brillar.

(si fermano l'acqua, e il pomo)

tutti                               - (come sopra) Bellissima, bravissima, pulito.

Tartaglia                                   - Adagio un poco, non gridate tanto; io voglio far le mie interpretazioni. Tremi chi da gran tempo pertinace visse negli error suoi, chi a pentimento sorda l'alma mantiene. Barbarina, siete ostinata, come un'asinella, a non volermi per consorte vostro; dunque tremate: il pomo parla chiaro.

tartagliona                     - (basso a Brighella) Poeta, spero ben.

brighella                        - (basso a Tartagliona) Ma... se non la sposa, il strologo Brighella, e le viscere sue sono in padella.

Tartaglia                        - Giust'ira celeste la folgore scaglia, punisci, sbaraglia, rallegra Tartaglia, fa il regno brillar. Qua quella man; non aspettiamo il fulmine. Dovete rallegrarmi; il pomo il dice. barbarina Pria di far ciò, mio re, l'Augel ragioni.

Tartaglia                        - (collerico) Io non voglio sentenze d'un uccello. Datemi questa mano; io me la prendo.

Augel                                       - Deh fermati, m'ascolta, e inarca quelle ciglia: non sposar Barbarina, o sposerai tua figlia.

Tartaglia                        - Come mia figlia? Quest'uccello è matto.

Augel                            - No, non son matto, no; stanimi, Tartaglia attento; toccherai con le mani il vero in un momento. Son Renzo, e Barbarina tuoi figliuoli gemelli, che gettò Pantalone nel fiume bambinelli. Per me vive Ninetta, che fu viva sepolta. Dal buco della scaffa eccola allegra, e sciolta.

tartagliona                     - (a Brighella) Oimè, siam persi, strologo Brighella.

Brighella                                  - Con le viscere mie nella padella.

Scena ultima

Ninetta, e detti.

Ninetta                                     - Chi dall'immondo buco della scaffa mi trasse ancora a riveder le stelle?

Tartaglia                                   - Oh chi vedo, chi vedo! La mia sposa! Mi par, ch'ella sia fatta un po' vecchietta, ma non importa; sono un buon marito, e voglio far quel, che mi si conviene. Figli... Ninetta... figli... son confuso; dunque non siete voi due cani mufferli? Mi prende il necessario svenimento, (va in svenimen to)

Pantalone                      - Ah, che l'ho dito, che l'aveva ben condizio nai in quella tela incerada ste raise.

Augel                            - Nessuno dal suo posto si mova, miei padroni; che bisogna dar fine alle trasformazioni. Vattene, Tartagliona, coi rospi in un pantano. Si coroni il poeta, che in lei sperato ha invano.

Tartagliona                              - poeta, oh Dio, mi cambio in tartaruga, (si cambia in tartaruga)

Brighella                                  - Caro idol mio, mi cambio in un somaro, (si cambia in asino)

Tartagliona                              - Figlio, sei vendicato; godi la tua Ninetta, io vado nei paludi a star della Fossetta, (entra lenta­mente)

Tartaglia                                   - O poffar bacco! La regina madre, cambiata in tartaruga, che va via!

Brighella                                  - Ed io nuovo uscignuolo coli'estro mio divino al suon di bastonate canterò in un mulino, (entra traen­do calci)

Augel                                       - Attenti, miei signori, all'ultimo portento. L'ultimo è quel del spasso, e del divertimento. Son re di Terradombra; in Augello fatato, come sa l'uditorio, fui dall'orco cambiato. Ora tutto è compiuto; finisco la mia sorte. Abbraccio Barbarina, la piglio per consorte. Ognuno si ravveda; meno filosofia, se non sa far buon'uso nella sua fantasia. Per noi, se nelle favole troviam benigni i frutti, direm: «Son gli spropositi filosofia per tutti», (si cam­bia in re) (reciprochi abbracciamenti di Tartaglia con Ninetta, di Renzo con Pompea, del re di Terradombra con Barbarina, di Tartaglia coi figli, di Truffaldino, Smeraldina, Pantalone ecc.) Licenza

Barbarina                                 - Avrà Calmon benefico il naso ristaurato, quando la grazia vostra il modo ci avrà dato. Forse di questa favola contenti non sarete; ma, giacché l'abbiam fatta, per carità battete.

FINE