L’avventuriere onorato

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L’AVVENTURIERE ONORATO di Carlo Goldoni

L’AVVENTURIERE ONORATO

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nel Carnovale dell’anno 1751.

A SUA ECCELLENZA

LA SIGNORA MARCHESA

LUCREZIA BENTIVOGLIO RONDINELLI

Alcuni di quelli che hanno veduto il mio Avventuriere onorato sulle Scene al pubblico rappresentarsi, riconoscendo in esso varie avventure in me medesimo verificate, hanno creduto che la persona mia propria avessi io scelta per soggetto di una Commedia. Non dico sfacciatamente che ciò sia vero, ma non nego altresì, che qualche analogia non passi fra il Protagonista e l’Autore. La patria, il genio, le professioni, le persecuzioni medesime del povero mio Guglielmo in me facilmente si potrebbono riscontrare. Ecco però, Eccellenza, dove io non posso essere riconosciuto: nel matrimonio. Toccò al mio Avventuriere una vedova Palermitana con dieci mila scudi d’entrata; sposata ho io una fanciulla di patria genovese, senza le ricchezze di Donna Livia, quando a queste giustamente contrapporre non si volesse il ricchissimo patrimonio ch’ella mi ha portato in casa di una discreta economia, di una esemplare morigeratezza, di una inalterabile rassegnazione, le quali virtù mi hanno recato, se non maggiori comodi, pace almeno e tranquillità, d’ogni altra dote maggiore. Siccome però le impressioni fatte nel popolo difficilmente possono essere dileguate, e vi saranno sempre di quelli che, o per propria immaginazione, o per tradizione altrui, vorranno a me medesimo questa Commedia appropriare, trovomi in necessità di procurarle una protezione che vaglia a difenderla da’ critici, da’ maligni, dagl’impostori.

In chi mai poteva io sperarla maggiore che nell’E. V., in cui si accoppiano tante belle Virtù, tralle quali trionfa mirabilmente la compassione? Il Marchese d’Osimo, il Conte di Portici, il Conte di Brano perseguitavano il mio Avventuriere. Il Vicerè di Sicilia lo ha accolto, lo ha protetto, lo ha beneficato. Faccia di me la sorte il peggio che possa farmi, troverò sempre in Voi il mio asilo, il mio rifugio, la mia benignissima Protettrice. Questa è per me una gloria, che supera di gran lunga qualunque mia sofferta disavventura; e tutti quelli che cercano per varie strade di screditarmi, s’arresteranno immobili al Nome grande, al pio Nome e rispettabile dell’E. V. Esso è molto ben conosciuto nella Repubblica Serenissima di Venezia, dove da lunghissimo tempo la vostra illustre natia Famiglia de’ Bentivogli gode gli onori della Veneta Nobiltà; Famiglia antichissima nell’Italia, la quale, oltre al Dominio posseduto de’ Bolognesi, vanta una lunga serie d’Ordini insigni, di sacre Porpore, d’Uomini illustri; e nota siete egualmente per il veneratissimo nome di Sua Eccellenza il Signor Marchese Ercole Rondinelli, degnissimo vostro Sposo: il quale fra le Toghe, e gli Onori, e gli Ordini, e le Giurisdizioni, e le dignità più cospicue godute dalla nobilissima Famiglia sua in Ferrara, vanta quella di Gonfaloniere in Firenze, da dove l’antichissima origine riconosce. Ma a chi imprendo io a ragionare di ciò? A Voi, a cui indirizza quest’umile rispettosissimo foglio? È inutile rammentare a Voi medesima le glorie vostre, ed oltre ciò se ne offenderebbe la vostra esemplare modestia. Questa però non può nascondere agli occhi del Mondo le vostre eroiche virtù, poiché avendole Voi mirabilmente comunicate e diffuse nella nobilissima Prole vostra, in essa s’ammirano i vivi esempi della vostra bontà di cuore, e della prontezza del vostro spirito. In fatti nel nobilissimo Conservatorio detto delle Quiete, dove sotto la protezione dell’Augustissimo imperatore Gran Duca di Toscana s’allevano, non lungi dalla Città di Firenze, nobili e virtuose Donzelle, le gentilissime Figlie vostre sono la delizia e l’ammirazione di chi ha l’onor di conoscerle e di trattarle; siccome lo è in Ferrara la virtuosissima Signora Contessa Avolia, una delle suddette figliuole vostre carissime. Non finirei di scrivere in più giorni, se tutte enumerare volessi quelle doti ammirabili, quelle dolcissime doti che vi adornano. Somma prudenza, gentilezza di tratto, sincerità di cuore, brio ammirabile di talento, pietà per i miseri, amor del vero, inclinazion per le Lettere, protezione per chi le professa, sono qualità in Voi sì belle, sì luminose, che ognuna di esse meriterebbe un encomio a parte. Ma io non saprei farlo sì degnamente che a Voi convenga; né Voi lo vorreste, né da me, né da qualunque altro soffrire. Posso ben dir senza offendervi, e lo dirò per gloria di quel mestiere che ho per forza di genio intrapreso di seguitare, che Voi della Comica foste un singolare ornamento, poiché esercitandovi in essa con estremo diletto nelle vostre magnifiche villeggiature, le recaste quel fregio che basterebbe a renderla rispettabile.

Io che tanto amo quest’arte, e che tanto di sudore ho per essa sparso, e tanto di fatica sofferto, che mai a meritarmi son giunto? Insulti, ingratitudini, dispiaceri. Deh, Protettrice mia benignissima, fatemi Voi dimenticare le mie amarezze, e lo potete fare, soltanto che del vostro compatimento vogliate degnarvi di assicurarmi. Supererà ogni contrarietà del destino coll’onorevole titolo con cui mi concederete ch’io possa umilmente sottoscrivermi e rassegnarmi

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

La prima volta ch’io diedi al pubblico la presente Commedia, il Protagonista di essa, l’Avventuriere Guglielmo, parlava col veneziano idioma. Ciò poteva rendere la Commedia medesima più gradita in Venezia, ma nelle altre parti dovea succedere ragionevolmente il contrario; poiché le grazie di una lingua piacciono allorché sono perfettamente intese, e perdono il loro merito quando non colpiscono immediatamente nell’animo di chi le sente. Ma dirò anche, per manifestare, siccome io soglio, la verità, non aver io preferito nel mio Avventuriere la veneziana alla toscana favella, perché ciò credessi essere meglio fatto; ma perché un valente Giovine, solito a far la parte del Pantalone, brillantissimo in tali caratteri veneziani, senza la maschera sostenuti, mi assicurava di un esito fortunato; lo che difficilmente allora avrei conseguito, se ad altro Comico avessi anche in altro linguaggio una cotal parte addossata. Ora poi che tale Commedia rendesi colla stampa comune, e in vari paesi può accadere che venga rappresentata, difficilissima cosa essendo che si trovi per l’appunto un Veneziano che la sostenga, e peggio se taluno volesse una lingua a lui forestiera balbettar malamente, convenevole cosa ho creduto il convertirla in toscano. Anzi necessarissimo ho trovato di farlo, poiché allora soltanto è permesso usare un linguaggio particolare nelle Commedie Italiane, quando il carattere del personaggio lo esiga, non potendosi, per esempio, fare che il Pantalone, l’Arlecchino, il Brighella usino la favella toscana; siccome né tampoco poteva usarla l’Avvocato mio Veneziano nella Commedia così intitolata, perché coi termini del proprio Foro dovea comparire a fronte dell’avversario, in una città pochissimo da Venezia distante. Ma qui, quantunque l’Avventuriere sia veneziano, non vi è ragione che l’obblighi a usar il proprio dialetto, tanto più che rappresentando il carattere di un viaggiatore, sarebbe uno stolido, se non avesse appreso un linguaggio agl’Italiani comune.

Nel quinto tomo della edizione di Venezia me lo vedo stampato col veneziano idioma, e me lo vedo uscire alla quinta scena in codegugno. Almeno gli accurati correttori, quelli che tanto strillano e fanno del chiasso, perché in Firenze non esce perfettamente da’ torchi l’ortografia veneziana, avessero avuto la bontà di avvertire: essere il codegugno una veste da camera alquanto corta, usata assaissimo da’ Veneziani; ma questo riservansi a farlo, quando composto averanno un Dizionario e una Grammatica veneziana, che insegni ai Toscani le importantissime osservazioni sul nostro linguaggio. Io bado, per dirla, alla correzione delle Commedie, non a quella dell’ortografia della stampa. Sono però anche in queste assai bene assistito, e nell’inevitabile destino che le stampe non abbiano a essere mai perfettamente corrette, posso assai di questa mia contentarmi, in cui i pochi errori che per avventura si riscontrassero, saranno sempre piccolissime macchie, in confronto dell’infinito numero di que’ difetti, che anche nel dialetto medesimo veneziano in quella spuria edizione si trovano.

Ma per ritornare in cammino, continuerò dicendo al Lettor gentilissimo, siccome io, cambiando la parte dell’Avventuriere suddetto, ho fatto il medesimo anche di quella dell’Arlecchino, a cui ho sostituito il nome di Berto, e trasportandole tutte due in toscano, ho dovuto non solo nelle parole, ma nelle frasi, nei modi e nei pensieri variarle; laonde riscrivendola da capo a fondo, posso dire di averla intieramente rifatta, e questa Commedia sola bastar potrebbe in qualche occasione per dimostrare la diversità della mia edizione.

Negar non posso, che il mio Avventuriere non abbia alcun poco del sorprendente, per alcune combinazioni che agli occhi dei delicati sembreranno non essere naturali. Che si trovino nel medesimo giorno nella casa medesima sei persone, le quali abbiano in vari paesi riconosciuto Guglielmo, pare un poco difficile a combinarsi; ma in cinquanta Commedie, non ve n’ha da essere alcuna che ecciti un poco la maraviglia? Non era necessario che io moltiplicassi le professioni, le scoperte, gli avvenimenti nel mio Avventuriere, ma espressamente ho voluto farlo, per trattar la Commedia in tutte quelle maniere che ho creduto essere convenienti al Teatro nostro, salvando l’onestà, il carattere, il verisimile quantunque maraviglioso, la morale, il buon esempio, il premio della virtù ed il trionfo della verità, sopra le macchine della persecuzione.

Alcuni vogliono, come altra fiata ho avuto occasion di dire, che nel mio Avventuriere abbia avuto animo di rappresentar me medesimo; in alcuni avvenimenti vi potrei esser ravvisato, ma in altri no. L’Avvocato, il Medico, il Cancelliere, il Segretario, il Console Mercantile e pur troppo il Poeta Teatrale sono impieghi che, quando più, quando meno, ho avuto occasione di esercitare; ma in vari tempi, in vari luoghi, in circostanze diverse da quelle del mio Avventuriere. Oh quante favole di me si scriveranno, quand’io averò terminato di vivere! Se tante se ne dicono ora ch’io son vivo, è ragionevole il credere che dopo la mia morte si raddoppieranno. Può darsi favola più lontana dal vero di questa che ora si è sparsa di me in Venezia? Dicesi che la Compagnia di que’ Comici, per la quale incessantemente io scrivo, sia meco in discordia; dicesi perfino l’altissima bestialità, che siam venuti alle mani. Giuro non aver mai avuto che dire con esso loro, anzi non essere io stato mai né più quieto, né più ben veduto dai Comici di quel ch’io sono presentemente. Innamorati delle mie Commedie, le rappresentano con valore, con attenzione, con esemplare rassegnazione e a confusion de’ maligni se ne vedranno gli effetti. Oh, se di me medesimo una Commedia compor dovessi, e se intrecciarla potessi con certi avvenimenti curiosi e particolari, son certo ch’ella mi riuscirebbe tenera, interessante, istruttiva, ridicola ancora, ma in qualche passo strana, iperbolica e non creduta.

Personaggi

GUGLIELMO veneziano, per avventura in Palermo;

Donna LIVIA vedova ricca palermitana;

Donna AURORA moglie di

Don FILIBERTO povero cittadino in Palermo;

ELEONORA napoletana, promessa sposa a Guglielmo;

Il MARCHESE D’OSIMO;

Il CONTE DI BRANO;

Il CONTE PORTICI;

Il VICERÈ;

BERTO servitore di don Filiberto;

Un PAGGIO di donna Livia;

FERMO cameriere di donna Livia;

TARGA cameriere di donna Livia;

Un MESSO del Vicerè;

Il BARGELLO;

Birri, che non parlano.

La Scena si rappresenta in Palermo.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di donna Aurora.

Donna Aurora e Berto.

AUR. Viene a me questo viglietto?

BER. Sì signora, a lei.

AUR. Non vi è la soprascritta. Hanno detto che tu lo dessi a me?

BER. A lei propriamente.

AUR. Bene, io l’aprirò. Ritirati.

BER. Mi ritiro.

AUR. Dimmi, hai fatto quel che occorre in cucina, hai preparato il bisognevole per il desinare?

BER. Niente affatto, signora.

AUR. Come niente? Perché?

BER. Per una piccola difficoltà.

AUR. Come sarebbe a dire?

BER. Perché il padrone questa mattina non ha quattrini da darmi.

AUR. Come! Mio marito non ha denari?

BER. Questa è un infermità, signora mia, che la patisce spesso. E poi lo sa ella meglio di me.

AUR. Mi dispiace per quel forestiere che abbiamo in casa; non vorrei che avessimo a restare in vergogna.

BER. Per questa mattina io ci vedo poco rimedio.

AUR. Tieni questo scudo. Compra qualche cosa, e fa presto.

BER. Oh sì, signora, subito. (Le preme farsi onore col signor Guglielmo. Per suo marito questo scudo non lo avrebbe messo fuori). (da sé, parte)

SCENA SECONDA

Donna Aurora sola.

AUR. Gran disgrazia è la mia, aver sempre da ritrovarmi fra le miserie! Un cittadino che non ha impiego e non ha grandi entrate, passa magramente i suoi giorni. Mi dispiace per il signor Guglielmo, che abbiamo in casa. Io lo vedo assai volentieri, e non vorrei che se ne andasse. Ma vediamo chi è che mi scrive questo viglietto. (lo apre) Ah sì, è donna Livia. Questa è una femmina fortunata; nacque mercantessa, ed è prossima ad esser dama. È giovine, è ricca, e quel che più stimo, è vedova e gode tutta la sua libertà. (legge) Amica carissima. Le gentili maniere del signor Guglielmo dimostrano esser egli un uomo civile ed onesto... Ah, ah, la vedovella è rimasta colta dal forestiere! Viene in casa mia col pretesto di veder me, e lo fa per il signor Guglielmo. Egli barzellettando narrò ieri sera con buonissima grazia le sue indigenze, ed io mi prendo la libertà di mandar venti doppie... Mandar denari ad una persona che è in casa mia? È un affronto gravissimo ch’ella mi fa: di mandar venti doppie a voi... A me? acciò con buona maniera le facciate tenere a lui. Non è necessario ch’egli sappia che il denaro esca dalle mie mani; onde manderò fra poco un mio servitore colle venti doppie, il quale a voi le consegnerà, e le darete al signor Guglielmo quando vi parrà. Quand’è così, la cosa non va tanto male. Quest’è un affronto che si può tollerare. Mi pare ancora impossibile, ch’ella mi mandi questo denaro. Sarebbe una femmina troppo generosa. Ecco mio marito.

SCENA TERZA

Don Filiberto e detta.

FIL. Signora donna Aurora, questo forestiere quando se ne va di casa nostra?

AUR. Non dubitate. Ha detto che fra otto o dieci giorni ci leverà l’incomodo.

FIL. Sono quattro mesi che va dicendo così. L’abbiamo ricevuto in casa per otto giorni, e sono quattro mesi.

AUR. Abbiate un poco di convenienza. Se abbiamo fatto il più, facciamo anche il meno.

FIL. Ma in qual linguaggio ve l’ho da dire? M’intendete ch’io non so più come fare? Che non ho denari? Che non voglio fare altri debiti per causa sua?

AUR. Per oggi ho dato io uno scudo da spendere.

FIL. E domani come faremo?

AUR. Domani qualche cosa sarà. (Se venissero le venti doppie di donna Livia). (da sé)

FIL. Se non foste stata voi, l’avrei licenziato subito.

AUR. Avreste fatto una bella finezza a que’ due cavalieri napolitani, che ve l’hanno raccomandato.

FIL. Quelli sono andati via, e nessuno mi dà quattrini per provvedere la tavola d’ogni giorno.

SCENA QUARTA

Berto e detti.

BER. Signora, è domandata.

AUR. Vengo subito. (Fosse almeno il servitore di donna Livia!) (da sé, parte)

FIL. Chi è che domanda mia moglie?

BER. Un servitore. (in atto di partire)

FIL. Servitore di chi? Voglio saperlo.

BER. Oh signor padrone, che novità è questa?

FIL. Novità di che?

BER. Ella non ha mai usato voler sapere le ambasciate e le visite della padrona.

FIL. Da qui innanzi le vorrò sapere.

BER. Ho paura che sia tardi... Basta... È il servitore di donna Livia. (parte)

FIL. Anche quella donna mette su mia moglie, e mi fa far delle spese.

SCENA QUINTA

Don Filiberto e donna Aurora che torna.

FIL. Ebbene, chi era che vi domandava?

AUR. Il signor Guglielmo.

FIL. Subito una bugia. Non era il servitore di donna Livia?

AUR. Se lo sapete, perché me lo domandate? Sì, era il servitore di donna Livia, ma mi voleva anche il signor Guglielmo.

FIL. Se questo signore non se ne va colle buone, lo faremo andare colle cattive.

AUR. Mi maraviglio che parliate così. Il signor Guglielmo è un galantuomo, è un uomo onorato e civile, e non va trattato sì male.

FIL. Sarà come dite voi, ma io spendo, e non ne posso più.

AUR. Guardate s’egli è un uomo veramente garbato. Ora mi ha chiamato alla porta della sua camera; mi ha fatto un complimento di scusa.

FIL. E poi si è licenziato.

AUR. E poi mi ha pregato ricevere dieci doppie per comprare della cioccolata.

FIL. Dieci doppie? Dove sono?

AUR. Eccole in questa borsa.

FIL. Ma questo non è un affronto ch’egli ci fa?

AUR. Che affronto? Di questi affronti bisognerebbe riceverne parecchi, e poi si può trattare con

maggiore delicatezza? Ce li dà per la cioccolata.

FIL. Donde pensate voi che possa egli aver avuto questo denaro?

AUR. L’avrà avuto dal suo paese.

FIL. Crediamo ch’egli sia una persona nobile?

AUR. Egli non ha mai voluto dire né il suo vero cognome, né la sua condizione. Ma per quello che ho sentito dire ai due Napolitani che ce lo hanno raccomandato, è persona molto civile.

FIL. Bisognerà dunque comprare un poco di cioccolata, e farla subito.

AUR. Questa mattina andiamo a berla da donna Livia. L’ambasciata me l’ha mandata per questo. FIL. Al signor Guglielmo io non dico nulla delle dieci doppie.

AUR. No certamente, egli non ha nemmen da sapere che voi le abbiate avute.

FIL. Sì, sì, ringraziatelo voi; a me non avete detto niente. Vediamo di uscirne con onore, se mai si

può. Non vorrei però che con queste dieci doppie pretendesse egli di star qui dieci anni.

AUR. Eccolo.

FIL. Vado via. Subito ch’ei ci lascia, ci converrà andar a stare un anno in villa, per rimediare alle nostre piaghe. (parte)

SCENA SESTA

Donna Aurora, poi Guglielmo.

AUR. A tempo giunte sono le venti doppie. Se donna Livia mi lascia in libertà di disporne, posso impiegarne dieci per acquietar mio marito, e ciò facendo, tornano anch’esse in profitto di quello a cui erano destinate.

GUGL. Servitore divoto della signora donna Aurora.

AUR. Serva, signor Guglielmo; che vuol dire che mi parete confuso?

GUGL. Per dirle la verità, batto un poco la luna.

AUR. Che cosa avete che vi disturba?

GUGL. Non vedo lettere di casa mia; passano i giorni e i mesi, e sono stanco di essere sfortunato.

AUR. Via, abbiate pazienza. Seguite a tollerar di buon animo le vostre disavventure. La sorte s’ha da cambiare, e ha poi da farvi quella giustizia che meritate.

GUGL. Ma non sono più in caso di differire. Conviene ch’io faccia qualche risoluzione.

AUR. Siete annoiato di stare in questa casa?

GUGL. Un uomo onorato, quale io professo di essere, deve poi arrossire di aver dato un incomodo così lungo ad una casa che lo ha favorito con tanta bontà.

AUR. Queste sono inutili cerimonie. Servitevi, che ne siete il padrone; e quanto più state in casa nostra, tanto più ci moltiplicate il piacere.

GUGL. Conosco di non meritar tante grazie. Nel caso in cui sono, la loro pietà è per me una provvidenza del cielo. Ma non posso tirar innanzi così; conviene per assoluto ch’io me ne vada.

AUR. Perché mai, signor Guglielmo? Perché?

GUGL. Signora, io sono un uomo schietto e sincero, e non mi vergogno parlar delle mie miserie. Oltre la casa, oltre il vitto, si sa quante cose sono necessarie ad un galantuomo; non dico altro; veda ella se mi conviene partire.

AUR. (Il discorso non può essere più opportuno). (da sé) No, signor Guglielmo, voi non avete da partire  per  questo.  In  tutta  confidenza,  eccovi  dieci  doppie,  servitevene  nelle  vostre occorrenze.

GUGL. Dieci doppie?... La mi perdoni; non sono in grado di riceverle.

AUR. Per qual ragione le ricusate?

GUGL. Domanderò a lei, se mi dà licenza, per qual ragione me le vuol dare.

AUR. Perché ne avete bisogno. GUGL. Ne ho bisogno, è vero, ma non per questo...

AUR. Oh via, tenetele e non parlate.

GUGL. Ma, la supplico. Da chi viene l’offerta? Da lei o dal signor don Filiberto?

AUR. Ricevetele dalle mie mani, e non cercate più oltre.

GUGL. E s’io le ricevessi, a chi ne sarei debitore?

AUR. A nessuno.

GUGL. Non permetterò certamente...

AUR. Orsù, la vostra insistenza nel ricusarle è un’ingiuria che voi mi fate.

GUGL. Non so che dire... Per non mostrare di essere ingrato, le prenderò. (Ne ho di bisogno, ma

pure le accetto con del rimorso). (da sé)

AUR. (Povero giovine! Può essere più modesto? Può essere più discreto?) (da sé)

GUGL. Non so che dire. Sono confuso da tante grazie...

AUR. Non ne parliamo più. Ditemi, signor Guglielmo, siete dunque afflitto perché non avete lettere?

GUGL. Da che sono a Palermo, non ho avuta nuova di casa mia.

AUR. E della vostra signora Eleonora avete avuto notizia alcuna?

GUGL. Nemmeno di lei.

AUR. Questo sarà il motivo della vostra malinconia, perché non avete avuto nuove della vostra cara.

GUGL. Le dirò: la signora Eleonora l’ho amata, come le ho raccontato più volte, ma se devo dire la verità, l’ho amata più per gratitudine che per inclinazione. Per impegno le ho promesso sposarla, e per lei mi sono quasi precipitato. Sono quattro mesi ch’ella non mi scrive. S’ella si è scordata di me, procurerò io pure di scordarmi di lei.

AUR. Lo sa che siete in Palermo?

GUGL. Lo sa, perché gliel’ho scritto.

AUR. Non lo sapete? Lontan dagli occhi, lontan dal cuore, ne avrà ritrovato un altro.

GUGL. Quasi avrei piacere che fosse così. Conosco che io facea malissimo a sposarla. Ma quando uno è innamorato, non pensa all’avvenire; e dopo fatto, lo sproposito si conosce.

SCENA SETTIMA

Berto e detti.

BER. La signora donna Livia ha mandato la carrozza, e dice che se ne servano per andar da lei, e che non beve la cioccolata senza di loro.

AUR. Bene, bene. Di’ al cocchiere che aspetti.

BER. Sì signora. (Eccoli qui, sempre insieme, e il padrone non dice nulla). (da sé, parte)

AUR. Che dite della vedovella che or ora andremo a ritrovare? Vi piace?

GUGL. Per dir il vero, ella non mi dispiace.

AUR. Pare giovinetta, ma non lo è poi tanto; nessuno sa quant’anni ell’abbia, meglio di me.

GUGL. Lo credo benissimo.

AUR. Qui da noi passa per una bellezza; eppure non vi sono questi miracoli.

GUGL. Oh! non si può dire ch’ella non abbia il suo merito.

AUR. Sapete che cosa ha di buono? È ricca.

GUGL. Non è poco. Quando una donna è ricca, pare bella se anche non è, e tutti le corron dietro.

AUR. Signor Guglielmo, sareste anche voi uno di quelli che le correrebbero dietro per la ricchezza?

GUGL. Io non sono nel caso, signora mia: perché per isposarla no certo, essendo con un’altra impegnato, per mangiarle qualche cosa nemmeno, perché in queste cose sono delicatissimo.

AUR. Non vi consiglierei che vi attaccaste con donna Livia. Ella è pretesa dai primi soggetti di questa città: dal marchese d’Osimo, dal conte di Brano, e che so io. Avreste degli impegni non pochi. GUGL. Conti e marchesi? Che figura vorrebbe ella che facesse fra questi gran signori un povero disgraziato?

AUR. Per altro, circa alla condizione, ci potreste stare anche voi.

GUGL. Per grazia del cielo, son nato anch’io galantuomo.

AUR. Ma siete proprio di Venezia?

GUGL. Sì, signora, e me ne glorio; e spero che le mie disgrazie non mi renderanno mai indegno di nominar la mia patria.

AUR. Orsù, io vado a dare alcuni ordini. Allestitevi per uscire, che andremo insieme da donna Livia. Via, state allegro; non pensate a disgrazie; siete in casa di buoni amici; non vi mancherà nulla; e se avete bisogno, disponete e comandate con libertà. (parte)

SCENA OTTAVA

Guglielmo solo.

GUGL. Io non la capisco. Don Filiberto è un povero signore, di buon cuore sì, ma di poche fortune; e sua moglie, dieci doppie non sono niente: se vi occorre, parlate, disponete. O donna Aurora ha delle rendite che non si sanno, o vuol mandar in rovina il povero suo marito. Io però non l’ho da permettere. Non ho cuore da tirar innanzi così; ogni giorno, quando mi metto a tavola, mi vengono i rossori sul viso. Un uomo civile, nato bene e bene allevato, non può soffrire di vedersi lungamente dar da mangiare a ufo, e spezialmente da uno che fa per impegno più di quello che le di lui forze permettono ch’egli faccia. Sarei partito anche prima d’adesso, ma donna Aurora bada a dire ch’io resti. Se fossi, per esempio, in casa di quella vedova ricca, non avrei tanti scrupoli a mangiarle un poco le costole; in questo mondo siamo tutti soggetti a disgrazie; e non è vergogna raccomandarsi, quando uno si trova in necessità. Qualche volta anch’io sono stato bene; ora son miserabile; ma la non ha da ire sempre così. Ho passato tante burrasche, passerà anche questa. Vo’ stare allegro, vo’ divertirmi, non voglio pensare a guai. Anzi voglio rider di tutto, e fissar in me questa massima, che l’uomo di spirito deve essere superiore a tutti i colpi della fortuna. (parte)

SCENA NONA

Camera in casa di donna Livia.

Donna Livia, poi il di lei paggio.

LIV. Ecco, quattro partiti di matrimonio mi si offeriscono, ma niuno di questi mi dà nel genio, credendoli tutti appassionati, non già per me, ma per l’acquisto della mia dote. O goder voglio la libertà vedovile, o se nuovamente ho da legarmi, far lo voglio per compiacermi, e non per sacrificarmi. Oh, se quel Veneziano che è in casa di donna Aurora, fosse veramente una persona ben nata, come dimostra di essere, quanto volentieri lo sposerei! Ancorché fosse povero, non m’importerebbe; diecimila scudi l’anno di rendita, che mi ha lasciato mio padre, basterebbono anche per lui. Spero che quanto prima colle lettere di Venezia potrò assicurarmi del vero.

PAGG. Signora.

LIV. Che c’è?

PAGG. È qui la signora donna Aurora. È smontata, ed ha salito mezze le scale.

LIV. È sola?

PAGG. Non signora. È in compagnia d’un forestiere.

LIV. Sarà quello che sta in casa con lei. Non lo conosci?

PAGG. Oh, se lo conosco! E come! Se ne ricordano le mie mani.

LIV. Le tue mani? Perché?

PAGG. In Messina, dove io sono stato, egli faceva il maestro di scuola, e mi ha date tante maledette spalmate.

LIV. Faceva il maestro di scuola?

PAGG. Signora sì, e ora che mi ricordo, mi ha anche dato due cavalli. E sa ella dove? Se non fosse vergogna, glielo direi.

LIV. (Il maestro di scuola! Non vi è gran nobiltà veramente). (da sé) Eccoli. Fa che passino. (al Paggio)

PAGG. (Se mi desse ora le spalmate e i cavalli, gli vorrei cavare un occhio). (da sé, parte)

SCENA DECIMA

Donna Livia; poi donna Aurora, Guglielmo e i servitori.

LIV. Eppure all’aspetto pare un uomo assai più civile. Basta, lo assisterò tant’e tanto, e se non mi sarà lecito di sposarlo, procurerò almeno ch’egli resti impiegato in questa nostra città.

AUR. Amica, eccomi a darvi incomodo.

LIV. Voi mi onorate.

GUGL. Fo umilissima riverenza alla signora donna Livia.

LIV. Serva, signor Guglielmo, accomodatevi. La cioccolata. (siedono: donna Aurora nel mezzo. Servitori partono) Come ve la passate, Signor Guglielmo? State bene?

GUGL. Benissimo, per ubbidirla.

LIV. Mi parete di buon umore questa mattina.

GUGL. Piuttosto; in grazia della signora donna Aurora.

LIV. Amica, che cosa avete fatto per lui?

AUR. Niente. Io non posso far niente, e non ho merito alcuno.

GUGL. Perdoni, io sono fatto così. Quando ricevo una grazia, un benefizio, ho piacere che tutto il mondo lo sappia. La signora donn’Aurora mi ha voluto dar dieci doppie.

AUR. Sì, ma io non ne ho il merito. Né voi sapete da chi vi vengono somministrate.

GUGL. Io so che le ho ricevute dalle sue mani.

LIV. Dieci doppie gli avete dato? (a donna Aurora)

AUR. (Questa cosa m’imbroglia un poco). (da sé)

LIV. Perché non dargliene venti? (a donna Aurora)

GUGL. Oh signora! Sono anche troppe le dieci.

AUR. Vi dirò, gliene avrei date anche venti, ma siccome egli è un giovane generoso, potrebbe spenderle con troppa facilità, perciò mi riserbo di dargliele un’altra volta.

LIV. (Donna Aurora vuol far troppo l’economa). (da sé)

GUGL. (Io ci scommetterei che questo denaro viene da donna Livia). (da sé)

LIV. E bene, signor Guglielmo, come vi piace questa nostra città?

GUGL. Mi piace assaissimo; ma tanto non mi piace la città, quanto i bei mobili che ci sono.

LIV. E dove sono questi bei mobili?

GUGL. I mobili più preziosi di questa città sono in questa camera.

LIV. Queste tappezzerie non sono sì rare, che possano attrarre le vostre ammirazioni.

GUGL. Eh signora, c’è altro che tappezzerie! Ciò che adorna questa camera e questa città, sono due begli occhi, una bella bocca, un bel viso, un trattar nobile, una maniera che incanta.

AUR. Oh via, signor Guglielmo, non principiate a burlare, qui non ci sono le belle cose che dite.

LIV. (Sto a veder ch’ella creda, ch’egli intenda parlar di lei). (da sé) Per altro in questa città ci stareste voi volentieri? (a Guglielmo)

GUGL. Sì, signora, ci starei volentieri.

LIV. Sarebbe bene, se voleste rimanere in Palermo, che aveste un impiego.

AUR. Dite, amica, che impiego credereste voi adattato per il Signor Guglielmo?

LIV. Col tempo potrebbe aver qualche cosa di buono; frattanto, per non istare in ozio, per aver una ragione presso il pubblico di trattenersi, potrebbe fare il maestro di scuola.

GUGL. (Oh diamine, che cosa sento!) (da sé)

AUR. Il maestro di scuola!

LIV. Signor Guglielmo, non l’avete voi esercitato in Messina? Il mio paggio è stato alla vostra scuola.

GUGL. Le dirò: è vero, non lo posso negare. A Messina ho dovuto insegnar l’abbicì. Sappiano, signore mie, che partito da Napoli con un bastimento per venire a Palermo, una burrasca mi ha fatto rompere vicino al Faro. Ho perso la roba ed ho salvato la vita. Sono andato a Messina senza denari, malconcio dal mare e dalla fortuna, sconosciuto da tutti, senza sapere come mi far per vivere. Sono stato accolto con carità da un maestro di scuola, ed io, per ricompensa del pane che egli mi dava, lo sollevava dalla fatica maggiore, e per tre mesi continui ho insegnato a leggere e scrivere a ragazzi: professione che non pregiudica in verun conto né alla nascita, né al decoro di un uomo onesto e civile.

AUR. Sentite? Il signor Guglielmo è una persona civile. Ha fatto il maestro per accidente. (a donna Livia)

LIV. Come poi avete fatto a partir di Messina?

GUGL. Coll’aiuto di un mio paesano. Noi altri Veneziani per tutto il mondo ci amiamo come fratelli, e ci aiutiamo, potendo. Mi ha egli assistito, mi sono imbarcato, e son giunto in Palermo.

AUR. Quei due Napolitani amici di mio marito, che vi hanno a lui raccomandato, dove li avete voi conosciuti?

GUGL. Per accidente, nella tartana che qui mi trasportò da Messina. Presero a volermi bene, e mi fecero il maggior regalo del mondo, collocandomi in una casa che mi ha colmato di benefizi.

AUR. Il signor Guglielmo si fa adorare da tutti.

LIV. Sì, è vero; ha maniere veramente gentili.

GUGL. Le prego, non mi facciano arrossire.

SCENA UNDICESIMA

Fermo cameriere e detti, poi il conte di Brano.

FER. Signora, è il signor conte di Brano. (a donna Livia)

LIV. Venga, è padrone.

FER. Quel signore mi par di conoscerlo. (osservando bene Guglielmo; e parte)

AUR. Se avete visite, vi leveremo l’incomodo. (a donna Livia)

LIV. No, trattenetevi. Questi è uno de’ miei pretendenti; ma non gli abbado. È un ipocondriaco collerico, non so che fare di lui.

AUR. (Quanta superbia per essere un po’ ricca!) (da sé)

CO. BRA. Servo di donna Livia. (tutti s’alzano)

LIV. Serva, signor Conte. Accomodatevi. Sedete. (tutti siedono)

CO. BRA. Voi siete in buona conversazione. (a donna Livia)

LIV. Quel signor forestiere è venuto con donna Aurora a favorirmi.

GUGL. Servitor suo umilissimo. (al Conte che lo guarda)

CO. BRA. Padron mio riveritissimo... Mi pare, se non m’inganno, avervi veduto qualche altra volta.

GUGL. Non è niente più facile.

CO. BRA. Non avete nome Guglielmo?

GUGL. Per obbedirla.

CO. BRA. Voi dunque siete il signor dottor Guglielmo, che esercitava in Gaeta la medicina?

LIV. (Un medico?) (da sé)

AUR. (Un dottore?) (da sé)

LIV. (Se è medico, può esser nobile). (da sé)

GUGL. Sì, signore, è verissimo, a Gaeta ho esercitato la medicina, ma non son medico di professione. Mio padre era medico, ho imparato qualche cosa da lui, qualche cosa ho imparato a forza di leggere e di sentir a discorrere. Ho girato il mondo, ed ho acquistato delle cognizioni particolari. Partito da Napoli, per causa di una disgrazia accadutami, mi sono ritirato a Gaeta, e non sapendo come altrimenti poter campare, mi sono introdotto in una spezieria, mi sono inteso collo speziale, son passato per medico, ho ricettato, ho curato, ho guarito, ho ammazzato, ho fatto anch’io quello che fanno gli altri. Insomma campai benissimo, e qualche cosa ho potuto anche avanzarmi. Finalmente, per curiosità di sapere che cosa era successo di una certa ragazza, son ritornato a Napoli ed ho abbandonato la medicina, la quale per quattro mesi continui m’aveva fatto passare in Gaeta per l’eccellentissimo signor Guglielmo.

AUR. Bravissimo: lodo il vostro spirito.

LIV. Signor dottore, io patisco qualche incomodo, mi prevarrò della vostra virtù.

GUGL. Può essere ch’io abbia un medicamento a proposito per il suo male.

AUR. Siete in casa mia, signore, avete prima da operar per me. De’ mali ne patisco anch’io.

GUGL. Non dubitino; le risanerò tutte e due.

CO. BRA. Dite: perché avete lasciato di coltivare la medicina? Siete forse poco ben persuaso in favore di una tal professione?

GUGL. Anzi la venero e la rispetto.

CO. BRA. Eppure ci sarebbe molto che dire...

GUGL. Signor Conte, mi perdoni, non dica male de’ medici. Perché se si dice male de’ cattivi, se ne offendono ancora i buoni.

SCENA DODICESIMA

Fermo, cameriere di donna Livia, e detti.

FER. Signora, il signor marchese d’Osimo. (a donna Livia)

CO. BRA. (Ecco un mio rivale). (da sé)

LIV. È padrone. (Anche costui mi secca). (da sé)

GUGL. (Or ora viene qualche principe, qualche duca). (da sé)

FER. Signore, servitor suo. (a Guglielmo, mettendo una seggiola vicino a lui)

GUGL. Vi saluto.

FER. Ella non mi conosce più?

GUGL. Mi pare, ma non mi sovviene.

FER. Non si ricorda a Roma, che abbiamo servito insieme?

LIV. (Che sento!) (da sé)

AUR. (Come?) (da sé)

GUGL. Servito? Dove? In qual maniera?

FER. Sì signore, io era cameriere, ed ella era segretario.

GUGL. Da servire a servire vi è della differenza.

LIV. Andate a rispondere all’imbasciata del signor Marchese. (a Fermo)

FER. (Vuol fare il cavaliere, e anch’egli mangiava il pane degli altri). (da sé, e parte)

AUR. Colui deve sbagliare; non vi conoscerà.

GUGL. Non signora, non ha sbagliato, dice la verità. A Roma ho servito da segretario. Partii dalla patria per i disordini della gioventù. Andai a Roma per mio diporto; finché ho avuto denari, me la sono goduta; terminati questi, ho principiato a far de’ lunari. Non sapeva più come andar innanzi. Trovai un cavaliere che, conoscendomi, ebbe compassione di me, e l’ho servito da segretario. La carica per altro di segretario, con un cavaliere di rango e di autorità, non toglie, anzi accresce l’onore ed il merito a un giovine nato bene, che voglia esercitarsi per avanzare le sue fortune.

LIV. S’io fossi una signora di rango, esibirei al signor Guglielmo la mia piccola segretarìa.

GUGL. Mi sarebbe di gloria l’onor di poterla servire.

SCENA TREDICESIMA

Il marchese D’osimo e detti.

MAR. Oh! signora donna Livia, siete ottimamente accompagnata. (tutti si salutano vicendevolmente)

LIV. Io ho piacere di non restar sola.

MAR. Avete delle liti?

LIV. Perché?

MAR. Vedo che avete qui l’avvocato.

LIV. E chi è questo avvocato?

MAR. Eccolo qui: il signor Guglielmo. Io l’ho conosciuto in Toscana, ed egli forse non si ricorda di me.

GUGL. Mi ricordo benissimo di aver avuto l’onor di vederla. So ch’ella aveva una causa di conseguenza, e so anche che l’ha perduta.

AUR. (Anche l’avvocato?) (da sé)

LIV. Avete fatto l’avvocato in Toscana?

GUGL. È verissimo. Ho fatto anche l’avvocato. Stanco della soggezione che deve un segretario soffrire, ho cambiato paese ed ho cambiato ancora la professione. Ho esercitato la professione legale, e posso dir con fortuna; in poco tempo avea acquistato credito, aderenze e quattrini; e se io tirava innanzi per quella strada, oggi forse sarei in uno stato da non invidiare nessuno.

LIV. Ma perché abbandonare?...

AUR. Perché ha voluto venir a stare in Palermo. Caro avvocato, volete far la vostra professione da noi?

LIV. Io ho delle liti e ho delle parentele parecchie; non dubitate, non vi lascierò mancar cause.

CO. BRA. (Donna Livia si scalda molto per quel forestiere. Sta a vedere che è di lui innamorata). (da sé)

MAR. (Non vorrei che il signor avvocato facesse giù donna Livia. La sua dote non ha da essere sagrificata). (da sé)

SCENA QUATTORDICESIMA

Targa, altro cameriere di donna Livia, e detti.

TAR. Signora, il signor conte Portici. (a donna Livia)

LIV. Venga pure. Mettete una seggiola. (a Targa)

GUGL. (Or ora viene tutta Palermo). (da sé)

TAR. Servitor umilissimo. (a Guglielmo, mettendo la seggiola)

GUGL. Addio, galantuomo.

LIV. Che! lo conoscete anche voi? (a Targa)

TAR. Sì signora, l’ho conosciuto in una città dello Stato Veneto, dove era cancelliere del Criminale. (parte)

AUR. (È bellissima). (da sé)

LIV. Quanti mestieri avete fatti? (a Guglielmo)

GUGL. Che vuol ch’io le dica? Ho fatto anche da cancellier criminale; e per dirle la verità, questo, fra tanti mestieri che ho fatto, è stato, secondo me, il più bello, il più dilettevole, il più omogeneo alla mia inclinazione. Un mestier civilissimo, che si esercita con nobiltà, con autorità; che porge l’occasione di trattar frequentemente con persone nobili; che dà campo di poter far del bene, delle carità, dei piaceri onesti; che è utile quanto basta, e tiene la persona discretamente e virtuosamente impiegata.

LIV. Sappiate, signor Guglielmo, che nella mia eredità vi è una giurisdizione comprata da mio padre, in cui vi posso far cancelliere.

AUR. Se mio marito andrà fuori per governatore, non lascierà voi per un altro.

SCENA QUINDICESIMA

Il conte Portici e detti.

CO. PORT. Riverisco lor signori. (tutti salutano) Oh poeta mio, vi sono schiavo. (a Guglielmo) Siete qui per fare alcuna delle vostre opere?

GUGL. Padrone mio riverito.

AUR. (Un’altra novità). (da sé)

LIV. Anche poeta? (verso Guglielmo)

CO. PORT. Io l’ho conosciuto in Napoli. Ho inteso delle sue poetiche composizioni, ed ho veduto in parecchi teatri delle sue fatiche.

AUR. Oh, questa è una bella professione!

LIV. Questo è un mestier dilettevole!

GUGL. Il comporre per i teatri lo chiamano bella professione, mestier dilettevole? Se sapessero tutto, non l’intenderebbono già così. Di quanti esercizi ho fatto, questo è stato il più laborioso, il più difficile, il più tormentoso. Oh, l’è pure la dura cosa faticare, sudare, struggersi ad un tavolino, per far una teatrale composizione, e poi vederla gettar a terra, sentirla criticare, lacerare, e in premio del sudore e della fatica, aver de’ rimproveri e de’ dispiaceri!

AUR. Ma credo poi sia un piacer grande, quando si sentono le proprie fatiche applaudite dall’universale.

GUGL. Prima le dirò che poche volte l’universal si contenta, e poi quand’anche siasi più volte di uno scrittor compiaciuto, una cosa sola che sia, o che sembri esser cattiva, fa perdere il merito a tutte le cose che furono applaudite. E se la lode si dà a mezza voce, il biasimo si precipita sonoramente e con baldanza.

LIV. È meglio che facciate l’avvocato. Io vi procurerò degli amici, e questi cavalieri vi assisteranno.

AUR. E poi mio marito non vi lascierà mancar cause.

MAR. La nostra città è ben provveduta; non c’è bisogno che un forestiere venga ad accrescere il numero degli avvocati. (Costui si va acquistando il cuore di donna Livia). (da sé)

LIV. Signor Marchese, se voi non volete prestargli la vostra protezione, non importa; tant’e tanto il signor Guglielmo avrà da vivere nella nostra città.

MAR. Sì, avrà da vivere. Basta che una vedova ricca lo voglia mantenere.

LIV. Una vedova ricca può disporre del suo, senza essere soggetta alla censure di chi non deve imbarazzarsi ne’ fatti suoi.

MAR. Per non imbarazzarmi ne’ fatti vostri, vi leverò il disturbo. Spero che il signor avvocato avrà cervello e prima di prendere alcun impegno, s’informerà chi è il marchese d’Osimo. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Donna Livia, donna Aurora, Guglielmo, il conte di Brano, il conte Portici.

GUGL. Ho capito, signore mie, si principia male.

AUR. Eh, non abbiate paura, mio marito vi difenderà.

GUGL. L’avvocato non lo fo sicuramente. Non vorrei che il signor Marchese...

LIV. Bene, farete il medico.

CO. BRA. Che? Abbiamo noi necessità di medici? Chi volete si fidi di un ciarlatano?

GUGL. Mi onora troppo questo cavaliere. (con ironia)

LIV. Signor Conte, voi parlate male di una persona che io ammetto alla mia conversazione.

CO. BRA. (Costui l’ha innamorata senz’altro). (da sé) Sì, ecco le persone che si proteggono dalle belle donne. Un incognito, un avventuriere, un impostore. Servitevi come vi aggrada; ma il signor medico dispongasi a mutar aria. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Donna Livia, donna Aurora, Guglielmo ed il conte Portici.

GUGL. Per quel ch’io sento andiamo sempre di bene in meglio.

AUR. Non abbiate paura, mio marito vi difenderà.

GUGL. Né anche il medico non lo fo certo; non voglio, come forestiere, che mi prendano per un ciarlatano.

LIV. Non avete detto, che più vi va a genio la professione del cancelliere?

GUGL. È verissimo.

LIV. Io vi procurerò una delle migliori cancellerie, se la mia non sarà lucrosa tanto che basti.

AUR. Mio marito, mio marito ve la troverà.

CO. PORT. Oh, la sarebbe bella che un forestiere venisse a mangiar il pane, che è riserbato per i paesani. Io mi protesto, che cancellerie il signor Guglielmo non ne avrà.

GUGL. Obbligatissimo alle di lei grazie. (al conte Portici)

CO. PORT. (A poco a poco donna Livia lo fa padrone del di lei cuore e delle di lei ricchezze). (da sé)

LIV. Signor Conte, voi non disponete delle cariche di questo regno.

CO. PORT. Eh via, signora, se vi preme il bel Veneziano, mantenetelo del vostro, e se volete beneficarlo, sposatelo, che buon pro vi faccia.

GUGL. (Questo sarebbe il più bell’impiego del mondo). (da sé)

LIV. Nelle mie operazioni non prendo da voi consiglio.

AUR. Eh, che il signor Guglielmo non ha bisogno di pane.

LIV. In ogni forma resterete in Palermo, e per far conoscere il vostro spirito, il vostro talento, darete al nostro teatro alcuna delle vostre composizioni.

CO. PORT. Sì, veramente ci farà un bel regalo. Verrà colle sue opere a rovinare anche il nostro teatro. Io parlerò altamente contro di lui; e se a voi, signora, piacciono le di lui opere, fatelo operare in casa. (Non sarà vero che un forestiere mi contrasti il cuore di donna Livia). (da sé, parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Donna Livia, donna Aurora e Guglielmo.

GUGL. Mi vogliono cacciar via di legge.

LIV. Orsù, a dispetto di tutto il mondo, voi resterete in Palermo. Se vi contentate, la mia casa è a vostra disposizione.

AUR. Oh perdonatemi, donna Livia, egli è in casa mia; non abbandonerà mio marito. Signor Guglielmo, andiamo; leviamo l’incomodo a donna Livia. (s’alza)

GUGL. Sono a servirla. (Io mi trovo nel più curioso imbarazzo del mondo). (da sé, alzandosi)

LIV. Disponete della mia casa. Ricordatevi che ho della stima di voi; che potete fare la vostra fortuna; e non vi lasciate sedurre.

AUR. Venite o non venite? (a Guglielmo, in atto di partire)

GUGL. Vengo. (Sono imbrogliato davvero). (da sé) All’onore di riverirla. (a donna Livia) (Non so che risolvere... Basta, mi regolerò). (da sé)

AUR. Serva, donna Livia.

LIV. Servitevi della mia carrozza, se vostro marito non ve ne avesse mandata un’altra.

AUR. Andiamo, andiamo. (con dispetto a Guglielmo, e parte)

GUGL. (Si prende spasso. Questo è il solito; il ricco burla il povero). (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Donna Livia sola.

LIV. Il signor Guglielmo è un giovine che merita tutto il bene e tutto l’amore. Sempre più mi piace. Sempre più ho concepito stima di lui. Sì, lo voglio io assistere a dispetto di chi non vuole. Non curo il Marchese, non abbado al conte d’Osimo, rido del conte Portici, e donna Aurora mi fa compassione. Assisterò questo giovine a dispetto di tutto il mondo, poiché da tutto quello che si raccoglie della sua vita sinora, egli è un uomo civile, egli è un Avventuriere onorato. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Filiberto.

Don Filiberto, poi Berto con una lettera.

FIL. Mia moglie non fa che tormentarmi a causa di questo forestiere; non è mai contenta del trattamento ch’io gli fo. Non farebbe tanto, se fosse un nostro parente. Basta: conosco donna Aurora; so ch’è una moglie onorata; lo so, lo credo, e non mi voglio inquietare.

BER. Signore, una lettera.

FIL. Chi la manda?

BER. Favorisca d’aprirla, e lo saprà subito.

FIL. Bravo il signor dottore!

BER. (La mia dottrina non la scambierei colla sua). (da sé, e parte)

FIL. (Apre la lettera e osserva la sottoscrizione) Il Conte di Brano. Oh! che mi comanda il signor Conte? Amico, voi avete in casa un impostore, che ebbe l’ardire di passar per medico, tuttoché confessi egli medesimo di non esser tale, sagrificando al vile interesse la vita degli uomini. Io l’ho conosciuto in Gaeta, da dove sarà fuggito per la scoperta della sua impostura. La vostra casa onorata non dee prestar asilo a simil sorta di gente, onde vi consiglio scacciarlo, e se volesse resistere, assicuratevi della mia assistenza. Oh, che cosa sento! Dica ora mia moglie ciò che sa dire, da qui a quattro giorni al più, voglio per assoluto ch’ei se ne vada. Piuttosto gli renderò il suo denaro.

SCENA SECONDA

Il conte Portici e detto.

CO. PORT. Amico, si può venire?

FIL. Oh! signor conte Portici, mi fate onore. Che cosa avete da comandarmi?

CO. PORT. Non avete voi in casa un forestiere, che ha nome Guglielmo?

FIL. È verissimo.

CO. PORT. Io vi parlo da amico; non vi consiglio tenerlo più lungamente con voi. Non si sa chi egli sia. Fa da poeta, ma credo che per causa di certa satira, sia stato scacciato dal paese dov’era prima; e se i suoi nemici lo trovano in casa vostra, avrete de’ guai.

FIL. Signore, vi ringrazio con tutto il cuore. Mi prevarrò dell’avviso che voi mi date.

CO. PORT. Ognuno poi anche si stupisce di voi, che tenghiate in casa un giovine sconosciuto. Vi parlo da amico, si mormora assai di vostra moglie, e la vostra riputazione è in pericolo.

FIL. Dite davvero?

CO. PORT. Il zelo di buon amico mi ha spinto ad avvertirvi di ciò. Non crediate già ch’io sia sì temerario di credere che donna Aurora sia una donna di poca prudenza, ma il mondo è tristo; facilmente si critica, e voi vi renderete ridicolo.

FIL. Caro signor Conte, quanto vi son tenuto!

CO. PORT. Prevaletevi dell’avviso. Schiavo, a rivederci.

FIL. Vi son servo, signor Conte.

CO. PORT. (Costui non resterà lungo tempo in Palermo). (da sé, e parte)

SCENA TERZA

Don Filiberto, poi Berto con un altro viglietto.

FIL. Si mormora di me? Si mormora di mia moglie? Domani lo licenzio senz’altro.

BER. Signore, ecco un altro viglietto. (Ora almeno a un bisogno non ci mancheranno fogli). (da sé)

FIL. Il signor Guglielmo è in casa?

BER. C’è la padrona, ci avrebbe da essere egli pure.

FIL. Che c’entra la padrona con lui? (alterato)

BER. Che so io? Parlo a aria, signore.

FIL. Di’ al signor Guglielmo, che favorisca di venir qui.

BER. Subito. (Se c’entra o se non c’entra, lo saprà la padrona). (da sé, parte)

SCENA QUARTA

Don Filiberto solo, poi Guglielmo.

FIL. Chi è che scrive? Se ci fosse colui, direbbe: favorisca di aprire, che lo saprà. Non ha tutto il torto però, vediamo: il Marchese d’Osimo. Che dice il signor Marchese mio padrone?

Guardatevi dal forestiere che avete in casa. Non sapendosi chi egli sia, è reso sospetto al Governo, e voi siete in vista, prestando asilo ad una persona che può essere macchiata di reità. Rimediate per tempo al pericolo che vi sovrasta, e gradite l’avviso di chi vi ama.

Non occorr’altro. Eccolo, lo licenzio in questo momento.

GUGL. Che mi comanda il signor don Filiberto?

FIL. Signor Guglielmo carissimo, vi ho da dire una cosa che mi dispiace infinitamente.

GUGL. Dite pure senza riguardi. Cogli amici non ci vogliono certe riserve.

FIL. Davvero, quasi non so come principiare.

GUGL. Dite su liberamente.

FIL. Vedo che siete un uomo pieno di virtù e di merito, ma io... Oh, quanto me ne dispiace!

GUGL. Via, senza che diciate altro, v’ho capito, e vi risparmierò la fatica di terminar il discorso. Volete dirmi essere ormai tempo che vi levi l’incomodo, e che me ne vada di casa vostra; non è egli vero?

FIL. Non intendo scacciarvi di casa mia... Ma... non saprei... Avrei da servirmi di quelle camere.

GUGL.  Benissimo. Tanto mi basta. Vi ringrazio di avermi  sofferto  con  tanta  generosità. Assicuratevi che conosco le mie obbligazioni, che so le mie convenienze, e che sarei andato via prima d’ora, se dalla bontà della vostra signora consorte non fossi stato soavemente violentato a restare.

FIL. (Hanno ragione, se mormorano di mia moglie). (da sé)

GUGL. Domani vi leverò l’incomodo. Vorrei pregarvi soltanto di questa grazia sola, che mi diceste il motivo, perché mi licenziate così su due piedi.

FIL. Per ora, compatitemi, non posso dirvi di più. Dunque anderete domani?

GUGL. (Dubito ch’egli sia diventato geloso della moglie. Quelle dieci doppie chi sa che cosa abbiano partorito?) (da sé) Signore, se così vi aggrada, son pronto a partire in questo momento.

FIL. No, non dico in questo momento. Ma... che so io? Se non v’incomodasse andar questa sera...

GUGL. Non vi è niente di male. In meno d’un ora, senza che nessuno sappia i fatti nostri, me ne vado in un altro quartiere.

FIL. Caro amico, me ne dispiace, torno a dirvi, infinitamente, ma credetemi, non posso far a meno di non far così. Un giorno poi vi dirò ogni cosa.

GUGL. Ed io per ora non parlo, perché voi siete il padrone di casa vostra, e a chi m’ha fatto del bene, non voglio arrecar dispiaceri. Ma un giorno verremo in chiaro di tutto. Signor don Filiberto, vi domando perdono degl’incomodi che vi ho cagionati; vi ringrazio infinitamente, e mi darò l’onore con comodo di riverirvi. (in atto di partire)

FIL. Ehi. Sentite. Di quelle dieci doppie cosa facciamo?

GUGL. (Cospetto! le dieci doppie adunque sono provenute da lui). (da sé) Non so che dire; farò tutto quello che voi volete. (Se le vorrà indietro, converrà metterle fuori). (da sé)

FIL. Gli uomini d’onore non si approfittano dell’altrui denaro.

GUGL. Se siete voi un galantuomo, tale mi professo di essere ancora io.

FIL. Le dieci doppie... (tirando fuori la borsa)

GUGL. Sì signore, ecco qui le sue dieci doppie. (mostra la borsa)

FIL. Come! Sono qui le vostre dieci doppie. (scuote la borsa)

GUGL. Le mie? Dico che le vostre sono in questa borsa.

FIL. Oh bellissima! Non avete voi dato dieci doppie effettive di Spagna a mia moglie, perché comprasse della cioccolata?

GUGL. Oh! che dite voi? Ella ha dato a me dieci doppie per le mie occorrenze.

FIL. Come va questa faccenda?

GUGL. Ecco la signora donna Aurora; ella diluciderà ogni cosa.

SCENA QUINTA

Donna Aurora e detti.

FIL. Moglie mia, queste dieci doppie a chi vanno?

GUGL. E queste di chi sono? (ciascheduno mostra la borsa)

AUR. (Che cosa ho da dire io?) Chi le ha, se le tenga.

FIL. Io non le voglio in questa maniera.

GUGL. Nemmeno io certamente.

AUR. Chi non le vuol, non le merita. Le prendo io. (E le restituirò a donna Livia). (leva la borsa di mano a don Filiberto e a don Guglielmo, e parte)

SCENA SESTA

Don Filiberto e Guglielmo.

FIL. Dunque voi non avete dato a mia moglie le dieci doppie?

GUGL. Vi dico, signore, che ella ha favorito me delle altre dieci.

FIL. (Come va la cosa dunque? Mia moglie avea venti doppie?) (da sé)

GUGL. (Questo è un imbroglio. Sarà meglio ch’io me ne vada). (da sé) Don Filiberto, vi sono schiavo. FIL. Amico, scusate.

GUGL. Scusate voi l’ardire con cui...

FIL. Non parliamo altro.

GUGL. (Ora è il tempo di accettare l’esibizione della vedova; chi sa ch’ella non mi aiuti davvero?

Tutto il male non vien per nuocere). (da sé, e parte)

FIL. Venti doppie? Venti doppie? Di dove le può aver avute? Io non sono mai stato geloso, ma queste venti doppie mi farebbero far de’ lunari. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera in casa di donna Livia.

Donna Livia, poi il paggio.

LIV. Chi pretende violentar il mio cuore, s’inganna. Io non ho ricchezza maggiore della mia libertà, e mi crederei miserabile nell’abbondanza, se non potessi disporre di me medesima. Guglielmo sempre più m’incatena, e se assicurar mi potessi de’ suoi natali, non esiterei a sposarlo in faccia di tutto il mondo, e a dispetto di tutti quelli che aspirano alle mie nozze.

PAGG. Signora, è qui il signor maestro.

LIV. Chi?

PAGG. Il signor maestro. Quello che mi ha favorito, con riverenza, de’ cavalli.

LlV. Non lo chiamare mai più con questo nome. Egli è il signor Guglielmo. Fa che passi.

PAGG. (Ancora, quando lo vedo, mi fa tremare). (da sé, parte)

SCENA OTTAVA

Donna Livia, poi Guglielmo.

LIV. Non ha tardato a venirmi a vedere. Segno che conosce la mia parzialità, e l’aggradisce.

GUGL. Servitor umilissimo, mia signora.

LIV. Riverisco il signor Guglielmo: vi ringrazio che siete venuto a vedermi. Che vuol dire, che ora non mi parete più tanto allegro?

GUGL. Mah! S’è cangiato il vento, signora. Il mare parea per me abbonacciato, ma ora è più che mai in burrasca.

LIV. Che c’è? Qualche novità?

GUGL. La novità non è picciola. Il signor don Filiberto con gentilezza mi ha dato il mio congedo, ed io sono un uccellin sulla frasca, senza nido, senza ricovero e senza panìco.

LIV. Per che causa don Filiberto vi ha licenziato?

GUGL. Non saprei; male azioni io non ne ho fatte certo. Si sarà stancato di favorirmi.

LIV. Ma si licenzia di casa un galantuomo così da un momento all’altro? (La cosa mi mette un poco in pensiero!) (da sé)

GUGL. In fatti il mio decoro ne tocca in questo fatterello ch’è qui. Non ha voluto dirmi il perché; credo per altro potermelo immaginare.

LIV. Sarebbe bene che in ogni modo si venisse in chiaro della verità.

GUGL. Ho paura, per dirgliela, che quelle dieci doppie che mi ha dato donna Aurora questa mattina...

LIV. Dieci sole ve ne ha date?

GUGL. Dieci sole. Non ha sentito?

LIV. E vi ha lasciato uscire di casa sua, senza darvene dieci altre?

GUGL. Anzi ha ripigliate anche quelle che mi aveva donate.

LIV. Le ha ripigliate? Questa è un’azione indegna. A questo passo non so più contenermi. Sappiate che io stamane ho mandate venti doppie a donna Aurora acciò, per via d’amicizia, senza che voi sapeste da chi venissero, fossero a voi donate.

GUGL. Ora capisco il mistero. Le venti doppie le ha divise a puntino: metà a me, e metà a suo marito. Sempre più, signora donna Livia, si accrescono le mie obbligazioni verso di lei; e sempre più mi maraviglio come don Filiberto abbia potuto farmi la mal’azione.

LIV. L’avranno fatto per profittar delle venti doppie; ma non gliela vo’ menar buona. Mi sentirà donna Aurora...

GUGL. La supplico, signora; se son degno di sperar qualche grazia, non mi nieghi questa per amor del cielo. Dissimuliamo, doniamo tutto a donna Aurora e a don Filiberto. Mi hanno mantenuto per tanto tempo, non è giusto ch’io paghi con un risentimento le obbligazioni che ho seco loro contratto.

LIV. Siete un uomo di belle viscere. Ammiro la vostra gratitudine, e me ne compiaccio.

GUGL. La gratitudine è un debito, che non si cancella nemmeno cogl’insulti di quello che ci ha una volta fatto del bene.

LIV. (Sempre più con queste belle massime m’innamora). (da sé) Che cosa dunque risolvete di fare?

GUGL. Non lo so nemmen io. (sospirando)

LIV. Caro signor Guglielmo, se la casa mia vi aggrada, ve ne fo padrone.

GUGL. Signora, la sua esibizione mi consola. Ma un giusto riguardo mi tiene in dubbio, se io la debba accettare. LIV. E qual è questo dubbio?

GUGL. Ella è sola, io sono un forestiere; con qual titolo onesto vorrebbe ella ch’io stessi in casa?

LIV. Se vi degnate, avrete la bontà di assistere agli affari della mia casa, e di rispondere per me aqualche lettera di rimarco.

GUGL. Se mi degno, ella dice? Una signora com’ella è, rende onore e dà fregio a chi ha la sorte di poterla servire.

SCENA NONA

Il PAGGIO e detti.

PAGG. Signora, è domandata.

LIV. Chi mi vuole?

PAGG. Una giovane forestiera ch’io non conosco.

LIV. Fatti dire chi è.

PAGG. Non lo vuol dire. Desidera parlar con lei.

LIV. Dille che si trattenga, che ora sono da lei.

PAGG. (Il signor maestro viene spesso a dar le lezioni alla mia padrona). (da sé, e parte)

LIV. Chi può esser costei? Or ora la vedrò. Signor Guglielmo, tenete questa lettera; vi supplico di rispondere immediatamente.

GUGL. Come comanda ella che io risponda? Mi dica il suo sentimento.

LIV. Rispondete come vi piace. Sentite il tenor della lettera, e formate voi quella risposta che le dareste, se foste nel caso mio. (Nella maniera con cui risponderà a questa lettera da me inventata, rileverò s’egli ha il coraggio di aspirare alle nozze di una persona, che da tanti soggetti nobili vien ricercata). (da sé, e parte)

SCENA DECIMA

Guglielmo solo.

GUGL. Bella, bella davvero! Vuol ch’io risponda alla lettera e non mi dice la sua intenzione. A questo modo, ella non mi fa solamente suo segretario, ma mi rende arbitro del suo cuore. Oh, se ciò fosse vero, felice me! Chi sa? Di questi casi se ne sono dati degli altri. Ma Eleonora? Eleonora si è scordata di me, ed io non mi ricorderò più di lei. Sentiamo il tenore di questa lettera, per pensare a quello che dovrò rispondere. A chi è diretta? A donna Livia. Chi la scrive? Non c’è nemmeno la sottoscrizione. Ella conoscerà il carattere; ma io, se non so chi scrive, non saprò nemmeno in quai termini concepir la risposta. Leggiamo: Cugina amatissima. Scrive un suo cugino. A voi è noto quanto interesse io mi prenda in tutto ciò che vi può render contenta, poiché, oltre il titolo della parentela, ho una particolare tenerezza per voi... Un cugino ha della tenerezza per lei? Alle volte anche i parenti... Basta, tiriamo innanzi. Non posso perciò dissimulare aver io inteso con qualche sorpresa, che voi distinguete un giovine forestiere, a segno che, ingelositi di lui tutti quelli che aspirano alle vostre nozze, si teme che lo vogliate altrui preferire nel possesso della vostra mano. Si teme dunque ch’ella voglia me preferire? I pretendenti suoi hanno di me gelosia? Convien dire ch’ella abbia dato loro motivo di sospettare così. In fatti ella mi fa arbitro del suo cuore; mi fa rispondere a lettere di questa sorta a piacer mio, dunque siamo a cavallo; donna Livia mi ama, donna Livia è poco meno che mia... Ma adagio, non andiamo di galoppo. Sentiamo il resto di questa lettera. Niuno si può opporre al piacer vostro, ma ricordatevi che perdereste tutta la vostra estimazione, se vi sposaste ad un uomo di vil condizione... In quanto alla nascita, le farò vedere e toccar con mano, che potrei aspirare alle nozze di una che fosse nobile. Questo di cui sento parlare, è un incognito che non sa dar conto di sé. Molti lo credono un impostore. Evvi chi dice ch’ei possa essere con altra donna legato, onde pensateci, e s’egli non si dà bene a conoscere, allontanatelo dalla vostra casa, e discacciatelo dal vostro cuore. Ho capito. A questa lettera ella vuol ch’io risponda, e vuole che la risposta sia a genio mio. Risponderò, e dal tenore della mia risposta capirà chi scrive; e capirà, chi diede a me questa lettera, che Guglielmo è bensì un uomo che non sa alzare l’ingegno per farsi ricco: ma non è sciocco nemmeno, per lasciarsi fuggir dalle mani le trecce della fortuna. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Altra camera di donna Livia.

Donna Livia ed Eleonora.

LIV. Qui in questa stanza staremo con maggior libertà. Qui potete svelarmi ogni arcano, senza timore che nessuno ci ascolti.

ELEON. Prima ch’io passi a narrarvi la serie delle mie disavventure, permettetemi ch’io vi chieda se sia a vostra notizia, che trovisi qui in Palermo un giovine veneziano, nominato Guglielmo.

LIV. Sì, egli è in Palermo; lo conosco benissimo. (Oimè! mi trema il cuore). (da sé)

ELEON. Deh, assicuratemi se sia vero ciò che poc’anzi mi venne asserito, cioè s’egli trovisi nella vostra casa.

LIV. È verissimo, egli è in mia casa.

ELEON. Ah! signora, sappiate che Guglielmo è il mio sposo.

LIV. Come! vostro sposo Guglielmo?

ELEON. In Napoli ei mi diede la fede.

LIV. Le nozze sono concluse?

ELEON. Egli partì nel punto in cui si dovevano concludere.

LIV. Per qual ragione vi abbandonò?

ELEON. Guglielmo in Napoli avea intrapreso un certo traffico mercantile...

LIV. (Ha fatto anche il mercante). (da sé)

ELEON. Ed era unito in società con un altro. Lo tradì il suo compagno, gli portò via i capitali, e il pover’uomo fu costretto a partire.

LIV. Dove andò egli?

ELEON. A Gaeta.

LIV. A fare il medico?

ELEON. È vero; la necessità lo fece prender partito.

LIV. Tornò in Napoli a rivedervi?

ELEON. Tornovvi dopo il giro di pochi mesi. Ma siccome lo insidiavano i creditori, assassinati dal compagno infedele, dovette nuovamente partire, e si è ricoverato in Palermo.

LIV. Con voi ha tenuto corrispondenza?

ELEON. Appena ebbi la prima lettera, mi partii tosto da Napoli per rintracciarlo. I venti contrari mi tennero quattro mesi per viaggio: egli non ha avuto mie lettere, e forse mi crederà un’infedele.

LIV. (Ah, mie perdute speranze! Ah Guglielmo, tu non mi dicesti di essere con altra donna impegnato!) (da sé)

ELEON. Deh, movetevi a pietà di me. Concedetemi ch’io veder possa il mio adorato Guglielmo.

LIV. Eccolo ch’egli viene alla volta nostra. (La gelosia mi divora). (da sé)

ELEON. Oh cielo! La consolazione mi opprime il cuore.

SCENA DODICESIMA

Guglielmo con un foglio in mano, e dette.

GUGL. Eccomi, signora, colla risposta... (a donna Livia)

LIV. Ecco a chi dovete rispondere. (prende la lettera con disprezzo) Osservate una sposa, che viene in traccia di voi.

GUGL. (Eleonora!) (da sé, con ammirazione)

ELEON. Caro Guglielmo, adorato mio sposo, eccomi a voi, dopo il corso di quattro mesi...

GUGL. Quattro mesi senza nemmeno scrivermi? Siete un’ingrata.

ELEON. Quattro mesi ho consumato appunto nel viaggio. Mi partii all’arrivo della vostra lettera; ed ecco registrato in queste fedi il giorno della mia partenza.

GUGL. (Questo è un colpo grande; ma ci vuole franchezza e disinvoltura). (da sé) Cara Eleonora, siete arrivata in tempo che il cielo ha provveduto per me, e spero avrà provveduto anche per voi. Questa buona signora, piena di carità, degnossi appoggiare a me gli affari domestici della sua casa; mi ha ella beneficato con un assegnamento di trenta ducati al mese; onde con questo, sposati che noi saremo, potremo vivere comodamente.

LIV. Male avete fondate le vostre speranze. Io non tengo in mia casa persone in matrimonio congiunte, e molto meno sposi, amanti, incogniti, fuggitivi. Provvedetevi altrove; voi non fate per me.

GUGL. Come! Ella mi licenzia?

LIV. Sì, vi licenzio.

ELEON. Signora, se per causa mia lo private di tanto bene, pronta sono a partire.

LIV. Non più. Andatevene immediatamente di casa mia. (a Guglielmo)

GUGL. Non so che dire. Vi vuol pazienza. Ma non ho mai creduto però, che ad una persona di garbo, saggia e civile, com’ella è, potesse spiacere un uomo che sa mantenere la fede; un uomo che, per non vedere sagrificato l’onore di una fanciulla, si contenta piuttosto di perdere la sua fortuna, e di passare miseramente i giorni della sua vita. Signora, me n’anderò; penerò fra gli stenti, ma non mi pentirò mai di un’azione onorata; e mi saranno sempre care le mie miserie, rammentando avermele io medesimo procurate, per non mancare alla mia parola, per non abbandonare una giovane, che ha posto a rischio per me la propria vita e la propria riputazione. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Donna Livia ed Eleonora.

LIV. (Eppure mi muove ancora a pietà). (da sé)

ELEON. Infelice Guglielmo! Oimè! per mia cagione ti sarai tu medesimo precipitato? Ma qualunque sia il tuo destino, teco mi avrai a parte. Ti seguirò per tutto... (in atto di partire)

LIV. Fermatevi. Tralasciate di piangere e ritiratevi in quella stanza.

ELEON. No, signora, non lo sperate. Voglio seguitare il mio sposo.

LIV. Se amate Guglielmo, se avete premura del di lui bene, non partite di qui per ora.

ELEON. Oh cielo! Che volete voi far di me?

LIV. Una donna onorata non può che procurar di giovarvi.

ELEON. Perché licenziar di casa vostra Guglielmo?

LIV. Perché in casa mia riunir non voglio due amanti dopo essere stati per quattro mesi disgiunti.

ELEON. Vi ritornerà egli?

LIV. Sì, forse vi tornerà.

ELEON. Abbiate compassione di noi.

LIV. Ritiratevi, e non dubitate.

ELEON. Cieli, a voi mi raccomando. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Livia sola.

LIV. Perché scacciarlo da me? Perché privarlo della mia casa? Di che è egli reo? Mi ha forse giurato la di lui fede? Mi ha egli promesso amore? Mi ha assicurato di non essere con altra donna legato? Ah, che soverchiamente la gelosia mi ha acciecato! Infelice Guglielmo, andrai ramingo per mia cagione? No, torna in casa, torna ad occupare quel posto... Ma che? avrei cuor di soffrirlo vicino, colla rivale dinanzi agli occhi? Potrei vederlo porgere alla cara sposa gli amplessi? No, non fia mai: vada pure da me lontano. Egli non è degno di me. A tempo m’illumina il cielo, mi provvede il destino. Ma giacché ha egli formato la risposta alla lettera da me finta, vedasi con quai sentimenti ha risposto. Può esser che i sensi di questo foglio servano a maggiormente disingannarmi.

(apre e legge) Signore. L’interesse che voi prendete per la delicatezza dell’onor mio, non è che una costante prova del vostro amore verso di me; onde trovomi in debito prima di ringraziarvi, e poi di giustificarmi. Se io ho mirato con occhio di parzialità l’incognito di cui parlate, ciò non è derivato per una cieca passione, ma perché non mi parve degno del mio disprezzo. Se quelli che hanno qualche pretensione sopra di me, lo guardano con gelosia, conosceranno di meritare assai meno di lui, e non mi curo delle critiche malfondate, riguardando in me stessa l’onestà del mio cuore e de’ miei pensieri. So ancor io preferire il decoro alle mie passioni, e quando amassi un incognito, non caderei nella debolezza di farmi sua, senza prima conoscerlo. Io non amo il signor Guglielmo: se l’amassi, non mi dichiarerei alla cieca; ma certa sono, che se assicurarmi volessi della sua nascita, non sarebbe egli indegno della mia mano. Mi direte: chi di ciò vi assicura? Risponderò francamente, che chi per quattro mesi ha dato saggi di onesto e discreto vivere, non fa presumere che abietti sieno i di lui natali.

Oimè! Che lettera è questa? Che lettera piena di misteriose parole! Può egli con maggior delicatezza rispondere? Sostiene il diritto della mia libertà, senza offendere la persona a cui suppone di scrivere. Parla di sé con modestia, e fa conoscere che è nato bene. Tratta l’amor mio con tale artifizio, che nell’atto medesimo in cui mi fa dire: Non amo il signor Guglielmo, il resto della lettera prova tutto il contrario. E un uomo di questa sorta potrò io privarlo della mia grazia? Ma a che impiegare la grazia mia per uno che ad altra donna ha donato il cuore? E non potrei averlo meco, senza pretendere il di lui cuore? No, non è possibile ch’io lo faccia. O deve esser tutto mio, o non l’ho più da vedere. Come mai potrebbe egli divenir mio? Amore assottiglia l’ingegno de’ veri amanti. Io non dispero, qualche cosa sarà. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Strada colla casa di donna Livia.

Il conte di Brano, poi Guglielmo che esce di casa di donna Livia.

CO. BRA. Donna Livia è una bella donna, è una ricca vedova; e non ci sarà in Palermo chi vaglia a contrastarmi l’acquisto di una sposa piena di merito e di fortuna. Guglielmo, scacciato per ora da don Filiberto, sarà esiliato dalla città.

GUGL. (Esce di casa di donna Livia melanconico)

CO. BRA. (Come! Colui in casa di donna Livia?) (da sé)

GUGL. (Ci vuol coraggio; qualche cosa sarà. Eleonora è venuta in tempo per rovinarmi. Pazienza. L’attenderò qui in istrada per ringraziarla). (da sé)

CO. BRA. (Temerario!) (guardando bruscamente Guglielmo, nel mentre che gli passa vicino)

GUGL. Servitor umilissimo. (al Conte)

CO. BRA. Con qual coraggio siete tornato voi in quella casa?

GUGL. Un galantuomo può andar per tutto.

CO. BRA. Voi non siete un galantuomo.

GUGL. Non lo sono? Con qual fondamento può dirlo, padron mio?

CO. BRA. Se avete avuto l’ardire di passar per medico e non lo siete, vi manifestate per un impostore.

GUGL. Se non sono medico di attual professione, posso esserlo quando voglio, perché ho cognizione, ho abilità, ho teorica, ho pratica per far tutto quello che fanno gli altri.

CO. BRA. Siete un gabbamondo.

GUGL. Mi maraviglio di voi, sono un uomo d’onore.

CO. BRA. E se anderete in quella casa, giuro al cielo, vi farò romper le braccia.

GUGL. Ora lo capisco. Sono un impostore, un gabbamondo, perché vo in casa di donna Livia. Signor Conte, ella parla assai male.

CO. BRA. Giuro al cielo, così si dice a un mio pari?

GUGL. Vi venero, vi rispetto, ma non mi lascio calpestar da nessuno.

CO. BRA. Vi calpesterò io co’ miei piedi. (alterato, con agitazione)

GUGL. La cosa sarà un pochetto difficile. (Or ora gli vengono i flati ipocondriaci). (da sé)

CO. BRA. Se non temessi avvilir la mia spada, vorrei privarti di vita.

GUGL. S’ella si proverà d’avvilire la di lei spada nel mio sangue, io cercherò di nobilitar la mia nel suo petto.

CO. BRA. Ove sono i miei servitori? (guardando per la scena)

GUGL. Ha bisogno di nulla? Son qui, la servirò io. (ironico)

CO. BRA. Voglio farti romper le braccia.

GUGL. Se ne avessi quattro, potrei servirla di due. (come sopra)

CO. BRA. Temerario! ancor mi deridi? Ti bastonerò.

GUGL. Mi bastonerà? S’ella mi tratterà da villano col bastonarmi, io la tratterò da cavaliere, l’ammazzerò.

CO. BRA. (Oimè! Sento che la bile mi affoga; il mio decoro non vuole che con costui mi cimenti. Mi sento ardere, mi sento crepare). (da sé, va smaniando per la scena)

GUGL. Signor Conte, si fermi, si quieti; ella può cascar morto.

CO. BRA. Io? cascar morto? Oimè! come?

GUGL. Sì signore; lo conosco agli occhi, al color della faccia. Ascolti un medico che ragiona, non un impostore che parla. La di lei collera è prodotta da un irritamento, che fa la bile nel finimento dell’intestino duodeno e nel principio dell’intestino digiuno, ove bollono i sughi viziosi, onde si stimola eccedentemente il piloro al moto preternaturale e confuso, da che provengono gravissimi sintomi ai precordii. Nel tempo medesimo passa il sugo bilioso per i canali pancreatici e colidochi, e si stempra e si corrompe la massa del sangue, e fra la convulsione prodotta nella diramazione dei nervi, e fra la corruzione che si forma nel sangue, scorrendo questo con troppa espansione per le vene anguste del cerebro, si produce l’apoplessia, la macchina non resiste, e si rimane sul colpo.

CO. BRA. Oimè! Voi mi avete atterrito. Mi palpita il cuore. Parmi aver delle convulsioni.

GUGL. Favorisca il polso.

CO. BRA. Eccolo. (Guglielmo gli tasta il polso)

GUGL. È sintomatico e convulsivo: ma niente; non tema di nulla, son qua io per lei. È necessario temprar questo fermento acre e maligno, conviene rallentare il moto agli umori con delle bibite acidule, e corroborare il ventricolo con qualche elixir appropriato. Vada subito alla spezieria, si faccia far delle bibite di qualche cosa di teiforme, si faccia dare una confezione, o un antidoto, o un elettuario. Anzi si faccia dare una presa di elettuario del Fracastoro, che è il più attivo e il più pronto per regolare gli umori tumultuanti e scorretti.

CO. BRA. Addio; vi ringrazio, vado subito. Le gambe mi tremano. Mi manca il respiro. Chi sa se arriverò a tempo alla spezieria, prima di cadere. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Guglielmo, poi il marchese D’osimo.

GUGL. Questa volta ne sono uscito con una tirata da medico. Con un ipocondriaco ci vuol poco. Gli ho cacciato in corpo tale spavento, che per del tempo s’asterrà di montar in collera. Ma che fa Eleonora, che non esce di questa casa? Già me l’immagino: curiosità donnesca. Donna Livia le avrà fatto centomila interrogazioni. Ed io che cosa farò? Dove andrò a ricovrarmi? Come potrò io reggere, ora che di più ho una femmina al fianco? Una bella finezza mi ha fatto Eleonora! Basta, son un uomo d’onore, e benché in oggi non abbia per Eleonora quella passione ch’io aveva per essa un giorno, sono in debito di sposarla, per riparo della di lei riputazione.

MAR. (Che fa costui intorno alla casa di donna Livia?) (da sé)

GUGL. (Oh mi aspetto dal signor Marchese un altro complimento, simile a quello del signor Conte). (da sé)

MAR. Che fate qui voi?

GUGL. Io cammino per la mia strada.

MAR. Queste strade le passeggerete per poco.

GUGL. Perché, signore?

MAR. Nella nostra città noi non vogliamo parabolani.

GUGL. Perché mi dà questo grazioso titolo?

MAR. Perché, se foste un uomo dotto, avreste seguitato la professione vostra dell’avvocato, ma siccome l’avrete esercitata con impostura, senza alcun fondamento, sarete stato scoperto e cacciato via.

GUGL. Ella s’inganna, signore. Qui son venuto per mia elezione. Gli uomini della mia sorta non si discacciano. Ella mi conosce poco, signor Marchese.

MAR. Il bravo signor avvocato! Quanti ne avete assassinati nel vostro studio?

GUGL. Io non ho assassinato nessuno, signore; anzi più del sapere, mi sono sempre piccato della sincerità. E se ella, quando aveva la sua causa, fosse venuta a farsi assister da me, in luogo di perderla, l’avrebbe vinta.

MAR. L’avrei guadagnata? Sapete voi qual fosse la mia causa?

GUGL. Sì signore, ne sono informato.

MAR. E dite che voi me l’avreste fatta vincere?

GUGL. Lo dico, e m’impegno di sostenerlo. Mi dà ella la permissione che le dica ora, benché fuor di tempo, la mia opinione?

MAR. Sì, dite. (Sentiamo che cosa sa dire costui). (da sé)

GUGL. Nella di lei causa si trattava di ricuperare un’annua rendita di seimila scudi. La domanda era giusta, e se il di lei difensore non errava nell’ordine, la causa l’avrebbe vinta. Trovasi ne’ libri antichi della di lei casa che i marchesi di Tivoli pagavano a quei d’Osimo seimila scudi l’anno, per più livelli fondati sui beni del debitore. Scorsero sessanta o settant’anni, senza che un tal canone si pagasse. Ella ha mosso la lite, ma si è principiata male. Hanno intentato un giudizio in petitorio, senza poter identificare gli effetti. Conveniva far prima la causa del possessorio, e regolarsi così: ecco l’ordine che tener si doveva, ecco la domanda che andava in caso tal concepita. Per tanti anni la casa di Tivoli pagò alla casa d’Osimo seimila scudi l’anno di canone; sono sessant’anni che non si pagano, petitur condemnari pars adversaria ad solvendum. Che cosa avrebbono gli avversari risposto? non teneri? Avremmo detto loro redde rationem. E colla ragione dell’uti possidetis sarebbesi convertito a loro debito il peso di provare la soluzione. Ma quando con un Salviano si domandano i fondi, spetta all’attore identificarli, e trattandosi di antichi titoli, trovandosi della confusione nei passaggi, nelle divisioni, nei contratti, si perdono le cause, non per mancanza delle ragioni, ma per difetto dell’ordine e della condotta. E se quest’ignorante ch’ella si compiace di trattar male, avesse avuto l’onor di servirla, scommetterei la testa ch’ella vinceva la causa, andava al possesso delli seimila scudi di rendita, gli pagavano i canoni arretrati di sessant’anni, e poi col tempo si potevano scorporare gli effetti, verificare i titoli, giustificar le ragioni e impossessarsi di una tenuta di beni. Essendo pur troppo vero, dipendere per lo più dalla buona condotta del difensore la fortuna o la rovina della causa, del cliente e della famiglia.

MAR. Signor avvocato, avreste voi difficoltà di venire a casa mia, e discorrerla alcun poco con li miei difensori?

GUGL. Io parlo con chicchessia. Parlo con fondamento, e sono a servirla, se mi comanda.

MAR. Bene; oggi vi aspetto. Domandate il palazzo del marchese d’Osimo.

GUGL. Verrò senz’altro a ricevere i suoi comandi.

MAR. Compatite, se avessi detto... Io non l’ho fatto per ingiuriarvi.

GUGL. Ella è mio padrone, signor Marchese.

MAR. (Costui parla bene. Mi persuade, e può darsi che colla sua direzione si possa repristinare la causa). (da sé, e parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Guglielmo solo.

GUGL. Anche questa l’ho accomodata, e può essere che di un nemico mi sia fatto un protettore. Sta bene saper di tutto. Vengono di quelle occasioni che tutto serve, e dice il proverbio a questo proposito: impara l’arte, e mettila da parte. Costui che viene, è il servitore di don Filiberto... Briccone! Mi ha sempre veduto malvolentieri. L’ho sofferto sinora per rispetto de’ suoi padroni, voglio sfuggire adesso l’occasione di bastonarlo. Mi ritirerò dietro di questa casa, sino che vedo uscire Eleonora. (si ritira)

SCENA DICIOTTESIMA

Berto con una borsa, poi il paggio di donna Livia che esce di casa.

BER. Oh bellissima! In casa si muor di fame, la mia padrona ha queste venti doppie, e invece di servirsene, le manda a donna Livia. Mi pare una pazzia questa. Supponiamo che gliele abbia da rendere. Si potrebbe ciò fare un po’ per volta, ma mangiare almeno.

PAGG. Questa mia padrona è curiosa. Manda via il signor maestro, e poi lo fa ricercare, e vuole che torni.

BER. Addio, giovanotto.

PAGG. Berto, buon giorno.

BER. È ella in casa la vostra padrona?

PAGG. Sì, è in casa. Sono due ore che non fa altro che ciarlare con una forestiera.

BER. Bisognerebbe che io le parlassi.

PAGG. Che cosa volete da lei?

BER. Se sapeste! Ho proprio la saetta.

PAGG. Con chi l’avete voi?

BER. La mia padrona manda alla vostra queste venti doppie; e scommetto che domani non vi è da far bollire la pentola.

PAGG. Può essere che la mia padrona gliele abbia prestate.

BER. E per questo, c’era bisogno di rendergliele tutte in una volta? Io so che il padrone è rifinito, e io sono tre mesi che non tiro il salario.

PAGG. Certo che la mia padrona non ne ha bisogno. Affè di mio, ha monetacce che spaventano.

BER. Quasi quasi mi verrebbe voglia di far una di quelle cose che non ho mai fatto.

PAGG. Eh! se l’è qualche cosa ch’io vi possa aiutare, facciamola.

BER. Queste doppie... propriamente mi dice il cuore: donna Livia non ne ha bisogno.

PAGG. No, non ne ha bisogno.

BER. Lasciar di dargliele dunque.

PAGG. A me non preme.

BER. Paggino, facciamo una cosa? Dividiamole metà per uno.

PAGG. Per me ci sto.

BER. Alò; ma zitto, veh.

PAGG. Oh! non parlo io.

BER. E poi?...

PAGG. Fate voi.

BER. Eh! con dieci doppie in tasca, chi mi piglia è bravo. Andiamo. Dieci per uno. (vuol aprire la borsa)

SCENA DICIANNOVESIMA

Guglielmo e detti.

GUGL. Che fate voi, birboni? (leva la borsa di mano a Berto) Così si rubano i quattrini?

PAGG. Io non so nulla.

BER. Come c’entrate voi, signore scrocco? Datemi i miei quattrini.

GUGL. Briccone! Questa borsa l’avrà chi doveva averla, e tu sarai castigato.

PAGG. Fatevela rendere. (piano a Berto)

BER. Giuro a bacco, vo’ la mia borsa.

GUGL. Va via di qua, birbonaccio.

BER. Vi spaccherò la testa in due pezzi.

GUGL. Ti romperò le braccia io.

SCENA VENTESIMA

Il BARGELLO coi Birri, e detti.

BARG. Che rumore è questo?

BER. Signor bargello, colui mi ha rubato una borsa con venti doppie.

BARG. Come! (verso Guglielmo)

GUGL. Son un galantuomo, colui volea trafugare questa borsa.

BER. Sì, io la voleva rubare! La borsa è nelle sue mani, ed io la voleva rubare! L’ha rubata a me il ladraccio.

BARG. Favorisca, andiamo. (vuole arrestar Guglielmo)

GUGL. Fermatevi, signor bargello, e prima di far un affronto ad un povero forestiere, pensateci bene. Volete voi che qui su due piedi vi faccia toccar con mano chi è il ladro, e chi è il padrone di questa borsa? Osservate. Signor Berto garbatissimo, ella dice che è sua questa borsa?

BER. Lo dico certo, se è mia.

GUGL. Se è cosa sua, saprà che monete ci son dentro.

BER. Sicuro che lo so. Sono venti doppie.

GUGL. Ma in che monete son esse?

BER. Che ne so io? Sono venti doppie.

GUGL. Chi ve l’ha date queste venti doppie?

BER. È roba mia, e tanto serve.

GUGL. Vedete che si confonde? (al Bargello) Se è roba vostra, saprete dire che monete sono.

BER. Io non ho memoria...

GUGL. O bene; se non sa egli dire che monete siano, tenete, signor bargello, riscontrate se io so dirlo. (dà la borsa al Bargello)

BER. Vi dico, corpo del diavolone...

BARG. Fermatevi, signor gradasso. (a Berto)

GUGL. Là dentro vi deve essere una doppia da quattro, tre doppie da due, e dieci doppie di Spagna.

BARG. Per l’appunto; è verissimo. (riscontrandole)

GUGL. Che vi pare?... (al Bargello)

BARG. Dico che voi avete ragione, che la borsa è vostra e costui lo meneremo prigione. (fermano

Berto)

PAGG. Salva, salva. (fugge)

BER. È un’ingiustizia questa...

BARG. Briccone. Vai, vai, la galera ti aspetta.

BER. La galera? Se non ho sentito nemmen l’odore. (i Birri lo conducono via legato)

BARG. Scusate. (a Guglielmo)

GUGL. Mi maraviglio. Anzi devo ringraziarvi.

BARG. Certo che... per dirla... a me non toccava far da giudice. Bisognava andar su tutti insieme. Ma so che siete un galantuomo; non so se mi capite.

GUGL. Che vorreste voi dire?

BARG. La mia cattura non la vorrei perdere.

GUGL. Vi pagherete sulla pelle di quel briccone.

BARG. Eh via. Una di quelle doppie la potete spendere.

GUGL. Non vi darei un quattrino.

BARG. No, eh?

GUGL. No certo.

BARG. Ben bene, mi capiterai tra l’ugne.

GUGL. Gli uomini onorati non hanno timore de’ pari vostri.

BARG. Oh, se ci capiterai. E per questo non occorre trattar bene con isperanza di dire... signor sì... è galantuomo. Tirar giù, corde, manette. Da qui innanzi voglio far così, da uomo d’onore. (parte)

SCENA VENTUNESIMA

Guglielmo, poi Targa, cameriere di donna Livia, di casa della medesima.

GUGL. È andata meglio ch’io non credeva. Questo vuol dire aver pratica del Criminale. In tutte le cose vi vuole spirito, disinvoltura. Ho più piacere d’averla passata netta senza dar nulla al bargello, che se avessi guadagnato per me questa borsa. Ma io non la deggio tenere. Donna Aurora la rimanda onoratamente a donna Livia, ed io non voglio differire un momento a dar questa giustificazione ad una donna d’onore. Picchierò all’uscio di casa, e se mi si presenterà alcuno, di cui mi possa fidare, gliela farò tenere. (picchia all’uscio)

TAR. Che comanda, signore?

GUGL. Recate queste venti doppie alla vostra padrona. Ditele che donna Aurora le manda, e che Guglielmo le porta. Ditele che le manda una donna d’onore, e che le porta un giovine sfortunato.

TAR. Sarà servita.

GUGL. Glielo direte voi bene?

TAR. La non ci pensi. Dirò bene. (Poverino! l’intendo, ma se si può far servizio, perché non s’ha da fare?) (da sé, entra in casa)

SCENA VENTIDUESIMA

Guglielmo, poi un messo del Vicerè.

GUGL. Questi è il suo camerier più fidato...

MES. Signore, è ella il signor Guglielmo veneziano?

GUGL. Certo: io per l’appunto.

MES. Venga subito dal Vicerè.

GUGL. Eccomi. Sapete voi che cosa voglia da me?

MES. Io non lo so. Venga meco. Ho ordine di condurla subito.

GUGL. Vengo subito. (Ho capito. Qui vi avrebbe a essere qualche imbrogliuccio). (da sé) Andiamo pure, io non ho paura di niente. Posso essere calunniato, ma mi fido nella mia innocenza. In tutte le mie avventure ho salvato sempre il carattere dell’uomo onesto, e siccome nessuno può rimproverarmi una bricconata, son certo altresì che in mezzo alle disgrazie troverò un giorno la mia fortuna; e se altra fortuna io non avessi, oltre quella di vivere e di morire onorato, questo è un bene che supera tutti i beni, e che dolcissime fa riescire tutte le amarezze dell’avverso destino. (parte col Messo)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa di donna Livia.

Donna Livia ed Eleonora.

LIV. Dunque mi assicurate che il signor Guglielmo sia una persona ben nata?

ELEON. Sì, signora, ve lo dico con fondamento e ve lo posso provare.

LIV. Come potete voi provarlo?

ELEON. In Napoli aveva egli tutti quegli attestati che potevano giustificare l’esser suo, la sua nascita, le sue parentele e lo stato vero della sua famiglia. A me nella di lui partenza sono restate tutte le robe sue. Fra queste vi sono i di lui fogli, de’ quali sono io depositaria, e li ho meco portati per renderli a lui, che forse sarà in grado di adoperarli, per darsi a conoscere in un paese ove non sarà ben conosciuto.

LIV. Voi colla vostra venuta avete fatto nello stesso tempo un gran bene e un gran male al vostro Guglielmo.

ELEON. Del bene che gli posso aver fatto, ho ragione di consolarmi; siccome rattristarmi io deggio, per il male che mi supponete avergli io cagionato.

LIV. Sì, un gran bene sarà per lui l’essere in Palermo riconosciuto: ma un rimarcabile pregiudizio gli reca l’essere con voi impegnato.

ELEON. Perché, signora, dite voi questo?

LIV. Perché, se libero egli fosse, sperar potrebbe le nozze di una femmina, la quale non gli porterebbe in dote niente meno di diecimila scudi d’entrata.

ELEON. Oh cieli! Guglielmo è in grado di conseguire un tal bene?

LIV. Sì, ve lo assicuro. Quand’egli provi la civiltà dei natali, può disporre di una sì ricca dote.

ELEON. Ed io sarò quella che gli formerà ostacolo ad una sì estraordinaria fortuna?

LIV. Sino ch’egli è impegnato con voi, non può dispor di se stesso.

ELEON. Oimè! Come viver potrei senza il mio adorato Guglielmo?

LIV. Ditemi, gentilissima Eleonora, ha egli con voi altro debito, oltre quello della fede promessa?

ELEON. No certamente. Sono un’onesta fanciulla. E se caduta sono nella debolezza di venir io stessa a rintracciarlo in Palermo, venni scortata da un antico fedel servitore, e trasportata da un eccesso d’amore.

LIV. Voi non vorrete perdere il frutto delle vostre attenzioni.

ELEON. Perderlo non dovrei certamente.

LIV. Quand’è così, sposate Guglielmo, e sarete due miserabili.

ELEON. Povero mio cuore! Egli si trova fieramente angustiato.

SCENA SECONDA

Targa cameriere, e dette.

TAR. Signora, queste venti doppie le manda la signora donna Aurora, ed il signor Guglielmo le ha portate sino alla porta.

LIV. Che ha egli detto nel dare a voi questa borsa?

TAR. Mi ha ordinato di dirle espressamente, che le invia una donna d’onore e le porta un giovine sfortunato.

LIV. Perché non viene egli stesso a recarmele di sua mano?

TAR. Non saprei, signora...

LIV. Andate; cercatelo, e ditegli che si lasci da me vedere.

TAR. Sarà servita. (parte)

LIV. Ah, signora Eleonora! Guglielmo merita una gran fortuna; il cielo gliela offerisce, e voi gliela strappate di pugno.

ELEON. Voi mi trafiggete, voi mi uccidete. Ditemi, che far potrei, per non essere la cagione della sua rovina? Potrei sagrificar l’amor mio; potrei perdere il cuore; potrei donargli la vita; ma come riparare all’onore? Come rimediare ai disordini della mia fuga? Che sarebbe di me, sventurata ch’io sono?

LIV. Venite meco, e se amate veramente Guglielmo preparatevi a far due cose per lui. La prima a giustificar l’esser suo, cogli attestati che sono in vostro potere; la seconda, e questa sarà per voi la più dura, far un sagrifizio del vostro cuore alla di lui fortuna.

ELEON. Aggiungetene un’altra: morire per sua cagione.

LIV. Se non avete valor per resistere, non lo fate.

ELEON. Voi non mi proponete una cosa da risolversi su due piedi.

LIV. Andiamo; pensateci, e ne parleremo.

ELEON. Sì, andiamo, e se il destino vuol la mia morte, si muoia. (parte)

LIV. Eh, che il dolor non uccide. Troverò il modo io coll’oro e coll’argento di acquietare Eleonora, di obbligare Guglielmo, e di consolare l’innamorato mio cuore. (parte)

SCENA TERZA

Camera nel palazzo del Vicerè.

Il vicerè ed il conte Portici.

CO. PORT. Signore, a voi che siete il nostro degnissimo Vicerè, che vale a dire quella persona che rappresenta il nostro Sovrano, non parlerei senza fondamento. Non sono io solamente che abbia de’ ragionevoli sospetti contro il forestiere di cui parliamo. Tutti oramai in Palermo lo guardano di mal occhio; tutti lo trattano con riserva, e quasi tutti lo credono un impostore.

VIC. L’ho mandato a chiamare; poco può tardar a venire. Scoprirò l’esser suo; s’egli sarà persona sospetta, lo farò partire immediatamente; e se di qualche colpa sarà macchiato, lo tratterò come merita.

CO. PORT. Io credo che egli stia in Palermo facendo la caccia alla dote di donna Livia.

VIC. Non è da desiderarsi che un forestiere venga a levare una ricca dote di qui, per trasportarla altrove.

CO. PORT. Quattro mesi ha mangiato alle spalle del povero don Filiberto.

VIC. Ha trovato un uomo di buon cuore. Un povero cittadino, che qualche volta si dà aria di cavaliere.

CO. PORT. E quel ch’è più rimarcabile, donna Aurora è incantata dall’arte di quel ciarlone.

VIC. Conte, basta così, state certo che, se sarà giusto, lo farò partire.

SCENA QUARTA

Il MESSO e detti.

MES. Eccellenza, è qui il forestiere che mi ha comandato di ricercare.

VIC. Conte, ritiratevi; lasciatemi solo con lui.

CO. PORT. Farò come comandate. (Il Vicerè è risoluto, lo esilierà certamente, ed io avrò nel cuore di donna Livia un rivale di meno). (da sé, e parte)

VIC. Passi il forestiere. (al Messo che parte)

SCENA QUINTA

Il vicerè, poi Guglielmo.

VIC. È debito di chi governa tener la città purgata da gente oziosa, da vagabondi e impostori. Eccolo. All’aria non sembra uomo di cattivo carattere; ma sovente l’aspetto inganna. Noi non abbiamo da giudicar dalla faccia, ma da’ costumi. (siede)

GUGL. Mi umilio all’Eccellenza Vostra.

VIC. Chi siete voi?

GUGL. Guglielmo Aretusi, Eccellenza.

VIC. Di qual patria?

GUGL. Veneziano, per ubbidirla.

VIC. Qual è la vostra condizione?

GUGL. Nato io sono di genitori onesti e civili. Trasse mio padre l’origine di Lombardia, e trasportata la famiglia in Venezia, si è sempre conservato lo stesso grado, vivendo in parte delle scarse rendite nostre, e in parte col lucro degli onorati impieghi. Non mancarono i miei genitori medesimi di farmi applicare a quegli studi che convenivano alla mia condizione ed ho anche provato ne’ primi anni miei il favore della fortuna. Un amore imprudente, un contratto di nozze che poteva essere la mia rovina totale, mi ha fatto aprire gli occhi e mi ha determinato ad una violenta risoluzione. Abbandonai la patria, troncato ho il corso delle mie speranze; cambiai cielo, e fui per qualche tempo lo scherzo della fortuna, la quale ora alzandomi a qualche grado di felicità, ora cacciandomi al fondo della miseria, ha sempre però in me rispettato la civiltà della nascita e l’onestà de’ costumi, e ad onta di tutte le mie disgrazie, non ho il rimorso d’aver commessa una mal’azione.

VIC. (La maniera sua di parlare non mi dispiace). (da sé) Che fate voi in questa città?

GUGL. Glielo dirò, Eccellenza, proseguendo a narrarle qualche parte delle mie vicende. Dopo vari accidenti, messo insieme qualche poco di soldo, passai a Napoli. Colà un certo Agapito Astolfi mi tirò seco in società mercantile, e si piantò un negozio colla ragione in mio nome. Parea che le cose camminassero prosperamente, quando il compagno mio, il quale teneva presso di sé la cassa, fatta una segreta vendita de’ capitali migliori, levato il soldo, fuggì di Napoli e mi lasciò miserabile, e quel ch’è peggio, esposto col nome e colla persona ai creditori della ragione. Questo è il motivo per cui mi sono refugiato in Palermo, celando il casato, per non essere così presto riconosciuto. Il traditore è inseguito; attendo la nuova del di lui arresto, e disperando di poter nulla ricuperare, dovrò determinarmi a qualche nuova risoluzione.

VIC. (Il suo ragionamento sembra assai naturale). (da sé) Conoscete voi donna Livia?

GUGL. La conosco, Eccellenza sì.

VIC. Avete seco alcuna amicizia?

GUGL. Ella non mi vede di mal occhio.

VIC. Anzi sento dire ch’ella abbia dell’inclinazione per voi.

GUGL. Volesse il cielo, che ciò fosse la verità.

VIC. Che? Ardireste voi di sposarla?

GUGL. Eccellenza, mi perdoni, il mio costume è di dire la verità. Se le mie circostanze mi permettessero di sposare una donna ricca, non sarei sì stolto di ricusarla. La mia nascita non mi fa arrossire, e circa le ricchezze, queste le considero un accidente della fortuna. Siccome la sorte ha beneficato donna Livia col mezzo di un’eredità, potrebbe beneficar me ancora col mezzo di un matrimonio.

VIC. Per quel ch’io sento, voi avete delle forti speranze rispetto a un tal matrimonio.

GUGL. Anzi non ispero nulla, signore. Sono impegnato con una giovane napoletana. Questa è venuta a ritrovarmi in Palermo; e quantunque sia ella povera, vuole la mia puntualità ch’io la sposi.

VIC. Sposereste la povera, e lasciereste la ricca?

GUGL. Così pensa e così opera chi più delle ricchezze stima il carattere dell’uomo onesto. Non credo che donna Livia conti nulla sopra di me; ma s’ella in mio favore si dichiarasse, sarebbe tant’e tanto lo stesso.

VIC. (Egli ha sentimenti di vero onore). (da sé) Quanto tempo è che siete in Palermo?

GUGL. Saranno ormai quattro mesi.

VIC. Ed io finora non l’ho saputo?

GUGL. Chiedo umilmente perdono. Lo avrebbe saputo prima, se qui si praticasse un certo metodo che ho io nel capo; una certa regola nuova, rispetto agli alloggi de’ forestieri ed alle abitazioni de’ paesani.

VIC. E qual è questo metodo?

GUGL. È qualche tempo che mi occupa la mente un progetto rispetto agli alloggi, tanto fissi che accidentali. Questo mio progetto tende a tre cose: all’utile pubblico; al comodo privato; al buon ordine della città. Se l’Eccellenza Vostra ha la bontà di udirmi, vedrà la novità del pensiere e la facilità dell’esecuzione.

VIC. Esponete, ed assicuratevi della mia protezione.

GUGL. Perdoni, Eccellenza; questo non mi par luogo per trattare e concludere un affare di questa sorta. Sarebbe necessario essere a tavolino... e poi l’Eccellenza Vostra, cavaliere pieno di carità e di clemenza, spero che, prima d’obbligarmi a parlare, vorrà assicurarmi che il mio progetto, trovato che sia profittevole, non anderà senza premio.

VIC. Di ciò potete esser sicuro. Andiamo a discorrerne nel mio gabinetto. (s’alza da sedere)

GUGL. S’ella mi permette, vado a prendere un foglio in cui le farò vedere in un colpo d’occhio tutta la macchina disegnata e compita.

VIC. Andate, che io vi attendo.

GUGL. A momenti sono a servirla. M’inchino all’Eccellenza Vostra. (Il foglio in meno di un quarto d’ora lo fo. Vedrò intanto Eleonora. Ella mi sta a cuore niente meno della mia fortuna). (da sé, parte)

SCENA SESTA

Il vicerè, poi il conte Portici.

VIC. Ha dello spirito, ha del talento, e le sue massime esser non possono migliori. Per quel ch’io scorgo, viene perseguitato più per invidia che per giustizia. Il Conte è un amante di donna Livia, non lo credo sincero.

CO. PORT. Permette, Eccellenza? (accostandosi con rispetto)

VIC. Oh! Conte, credo che a voi questa città avrà una grande obbligazione.

CO. PORT. Per qual ragione, signore?

VIC. Voi mi avete scoperto esservi quel forestiere...

CO. PORT. È poi la cosa come diceva io? È un impostore? Un gabbamondo?

VIC. Egli è uno, il quale darà una memoria che tende all’utile pubblico, al comodo privato e al buon ordine della città. Si andrà fra poco a sviluppare il progetto, per il quale avrà il signor Guglielmo il premio che gli si conviene, e voi sarete ringraziato, per aver promosso la sua fortuna ed un pubblico benefizio. (parte)

SCENA SETTIMA

Il conte Portici solo.

CO. PORT. Il Vicerè si burla de’ fatti miei. Quell’ardito parabolano alzato avrà l’ingegno per insinuarsi nell’animo suo, ed ei, credendogli, mi deride. Sarò io menzognero creduto? L’onor mio vuole che mi giustifichi, e ch’io sostenga e provi quanto di colui ho proposto. Troverò il marchese d’Osimo, troverò il conte di Brano; essi che conoscono Guglielmo assai più di me, verranno meco dal Vicerè, e sosterranno essere colui un impostore, un briccone. (parte)

SCENA OTTAVA

Camera in casa di donna Livia.

Donna Livia ed Eleonora.

LIV. Bravissima. Siete un’eroina. Voi rinunziate all’amor di Guglielmo, ed io vi lascio in libertà di disporre di seimila scudi.

ELEON. Che volete ch’io faccia di tal danaro?

LIV. Servirà per la vostra dote; e perché non temiate di non ritrovare lo sposo, io stessa mi esibisco di procurarvelo.

ELEON. Eh, signora, chi ha bene amato un oggetto, non può assicurarsi di amarne un altro.

LIV. Non vi propongo un amante, vi propongo un marito.

ELEON. Un matrimonio senza amore sarebbe lo stesso che voler vivere sempre penando.

SCENA NONA

Targa cameriere, e dette.

TAR. Il signor Guglielmo avrebbe premura di parlare colla signora Eleonora.

LIV. Venga pure, io non glielo vieto.

TAR. Non vorrebbe salire, l’aspetta giù.

LIV. Come! ricusa di salir le mie scale? Gli hai tu detto ch’io gli voleva parlare?

TAR. Sì signora, dice che verrà poi. Che ora è aspettato dal Vicerè, e che vorrebbe solamente dire una parola alla signora Eleonora.

LIV. Se vuol parlare con lei, ditegli che venga qui; altrimenti non le parlerà certamente.

TAR. Glielo dirò. (parte)

SCENA DECIMA

Donna Livia ed Eleonora.

ELEON. (Come mai lo riceverò?) (da sé)

LIV. Su via, seguite ad essere valorosa. Ricevetelo da voi sola. Mi ritirerò, per lasciarvi in libertà di parlare come il cuore vi suggerisce. Non voglio che la mia presenza vi abbia a dar soggezione. Non voglio che dir possiate, che siete stata da me violentata. Eccolo, parlategli come vi aggrada, e nuovamente pensate, che dalle vostre parole può dipendere la sua fortuna. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Eleonora, poi Guglielmo.

ELEON. Oimè! Quand’io non lo vedeva, non pareami tanto difficile l’abbandonarlo. Ora colla sua vista mi si accresce il tormento.

GUGL. Che vuol dire? Tanto vi fate desiderare?

ELEON. Eh, signor Guglielmo, non credo poi che mi abbiate tanto desiderata.

GUGL. Sono tre ore che io vi aspetto.

ELEON. Ed io sono tre ore che piango.

GUGL. Che! piangete? Per qual motivo?

ELEON. Piango per causa vostra.

GUGL. Per me? Che v’ho io fatto di male?

ELEON. Non piango per il male che fate a me, piango per quello che io sono in grado di fare a voi.

GUGL. Oh! perché volete piangere per questo? Invece di farmi del male, e piangere, fatemi del bene, e ridiamo.

ELEON. Sì, sì, voi riderete, ed io penerò.

GUGL. Ma che cosa è stato? Vi è qualche novità?

ELEON. Parvi piccola novità il dovervi lasciare?

GUGL. Lasciarmi? Perché?

ELEON. Per non levarvi una gran fortuna.

GUGL. Qual fortuna?

ELEON. Quella di sposar una ricca vedova.

GUGL. Io sposare una ricca vedova?

ELEON. Sì, donna Livia con diecimila scudi d’entrata.

GUGL. Oh, per l’appunto! S’ella non ci pensa nemmeno.

ELEON. Anzi vi desidera; e sarà vostra, se io vi cedo.

GUGL. E voi che cosa dite?

ELEON. Dico che morirò, se così volete.

GUGL. Eh via! Che cos’è questo morire?

ELEON. Crudele! Avreste cuore d’abbandonarmi? Son qui per voi, esule dalla patria, priva della grazia de’ genitori, in grado di dover miseramente perire. Mi lascierete voi in preda alla disperazione?

GUGL. No, non sarà mai vero. Sono un uomo d’onore. Tutto perisca, ma non si dica giammai, che per mia cagione una fanciulla onesta siasi precipitata. Sì, vi sposerò; e mi maraviglio che donna Livia abbia cuore di veder una giovane per sua cagione penare, col pericolo di rovinarla.

ELEON. Ella mi ha offerto seimila scudi.

GUGL. Seimila scudi?

ELEON. E giunse perfino a promettermi ch’ella mi avrebbe ritrovato lo sposo.

GUGL. Lo sposo! Seimila scudi? Voi, che cosa dite?

ELEON. La sua proposizione m’irrita.

GUGL. Seimila scudi non sono pochi.

ELEON. Potrebbe darmeli sposando voi.

GUGL. Vuol essere un po’ difficile.

ELEON. Caro Guglielmo, non mi volete voi bene?

GUGL. Sì, ve ne voglio. Ma diecimila scudi d’entrata!

ELEON. Ah sì, l’interesse vi accieca. Voi m’abbandonate, voi mi tradite.

GUGL. No, non vi abbandono, non vi tradisco. Eccomi qui, vi sposo, se volete, anche in questo momento; e vi farò vedere che, per mantenere la mia parola, saprò rinunziare a’ diecimila scudi d’entrata.

ELEON. Ed io avrei cuore di privarvi di un sì gran bene?

GUGL. A questo passo, non so che dire. Quando dico io di sposarvi, faccio il mio debito. Se pare a voi di pregiudicarmi, tocca a voi a ritrovare il rimedio.

ELEON. Sì, vi rimedierò.

GUGL. Come?

ELEON. Mi ucciderò, mi darò la morte.

GUGL. Ecco: queste son pazzie, ragazzate. Quando parlate di morire, sposiamoci, ed è finita. ELEON. Se poi mi sposaste, avreste sempre a rimproverarmi la dote perduta.

GUGL. Vi dirò: qualche cosa potrebbe darsi che mi scappasse di bocca; meriterò di essere compatito.

ELEON. Dunque sposate pur donna Livia.

GUGL. E voi?

ELEON. Ed a me non pensate.

GUGL. Badate, Eleonora. Con seimila scudi e l’assistenza di donna Livia, non vi mancherebbe un miglior partito.

ELEON. Ah perfido! Vedo che voi mi odiate; vedo che con piacere mi abbandonate.

GUGL. Vi odio? Vi abbandono? Son qui, datemi la mano.

ELEON. Che mano?

GUGL. La mano per isposarvi; e finiamola.

ELEON. E poi?

GUGL. E poi, ci penseranno gli astrologi.

ELEON. E i diecimila scudi d’entrata?

GUGL. Buon viaggio ai diecimila scudi. Noi mangeremo colle rendite del matrimonio.

ELEON. Caro Guglielmo, io vi amo più di quello che voi credete, e non ho cuore di rovinarvi.

GUGL. Se rovinate me, per conseguenza rovinate anche voi.

ELEON. Dunque...

GUGL. Dunque, che cosa?

ELEON. Addio. (in atto di partire)

GUGL. Dove volete andare?

ELEON. Dove il cielo destinerà.

GUGL. Oh, questo poi no. Voglio sapere che intenzione avete.

ELEON. Crudele!

GUGL. Eh via!

ELEON. Sì, siete un barbaro, siete un ingrato.

GUGL. Ma non è vero... Ma se son pronto a sposarvi...

ELEON. Andate a sposare i diecimila scudi d’entrata. (parte)

SCENA DODICESIMA

Guglielmo solo.

GUGL. Sentite: fermatevi. Va come il vento. Il Vicerè mi aspetta, e ho anche soverchiamente tardato. Dice ch’io vada a sposare diecimila scudi d’entrata? Un tal matrimonio non sarebbe cosa da gettar via. Lo farei volentieri; ma la povera ragazza mi fa compassione. Diamine! una ricchezza di questa sorta la porrò in confronto di una fanciulla, per cui non ho nemmeno una gran passione? No, non metto la dote al paragone con Eleonora, la metto in bilancia col di lei onore e col mio; e concludo in me medesimo, che il prezzo dell’onore supera quello dell’oro; che se Eleonora si acquieterà, e salvo sarà il suo decoro, abbraccerò la fortuna, altrimenti non la comprerò mai a prezzo di viltà, d’ingratitudine, di sconoscenza. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Altra camera in casa di donna Livia.

Donna Livia e donna Aurora, poi Targa.

AUR. No, il signor Guglielmo da me non si è più veduto, e mi maraviglio di lui che sia partito di casa mia, senza da me congedarsi.

LIV. Se vostro marito lo ha scacciato villanamente, non conveniva ch’egli più oltre si trattenesse.

AUR. Io non ho parte nella sgarbatezza di mio marito; anzi mi sono con lui risentita, e non gliela perdono mai più.

LIV. Siete irata dunque con don Filiberto?

AUR. Sì: ho già fatto prepararmi il letto in un’altra camera.

LIV. E vorrete per questo...

AUR. Orsù, ditemi: avete ricevuto le venti doppie?

LIV. Sì, le ho avute. Ma se io le ho donate al signor Guglielmo, perché voi rimandarle?

AUR. Perché il signor Guglielmo non le ha volute.

LIV. Eh donna Aurora, ci sono degl’imbroglietti.

TAR. Con permissione. (a donna Aurora) (Il signor Guglielmo parte in questo momento). (piano a donna Livia, e parte)

LIV. Aspettatemi, che ora vengo. (a donna Aurora, e parte subito)

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Aurora, poi Eleonora.

AUR. Credevami trovar Guglielmo, e non l’ho veduto. Perfido! Se ti trovo, ti vo’ rimproverar come meriti. È questa la gratitudine che tu hai per una che ti ha fatto del bene?

ELEON. Signora, dov’è donna Livia? Poc’anzi non era qui?

AUR. Sì, è partita ora, ed a momenti ritorna.

ELEON. (Ho già risoluto. Parlerò a donna Livia, le farò la rinunzia del cuor di Guglielmo. Ahi! che mi sento morire). (da sé)

AUR. Che avete, signora? Pare che vi rammarichiate di qualche cosa.

ELEON. Le mie disavventure non sono poche.

AUR. Chi siete voi? È lecito che io lo sappia?

ELEON. Il mio nome è Eleonora.

AUR. Di qual patria?

ELEON. Napoletana.

AUR. (Eleonora? Di Napoli?) (da sé) Ditemi: sareste voi forse l’amante di un tal Guglielmo?

ELEON. Sì, non lo nego. E questo Guglielmo come è da voi conosciuto?

AUR. Quattro mesi alloggiò egli nella mia casa. Finalmente con poco garbo si è da me allontanato, credo per cagione di quella vedova, che sarà forse il motivo della vostra disperazione.

ELEON. Siete voi da marito?

AUR. Anzi l’ho il marito. Non mi lagno della vedova per gelosia; spiacemi solo ch’ella colle sue lusinghe abbia guastato il cuore al miglior uomo del mondo.

ELEON. Ah, pur troppo me lo ha avvelenato! Io dovrò perderlo per sua cagione.

AUR. E voi lo cederete così vilmente, senza scuotervi, senza domandare giustizia?

ELEON. Non ho cuore per vederlo perdere una dote doviziosa.

AUR. Eh, semplice che siete! Chi vi ha insegnato ad amare in tal guisa? Rinunziare l’amante per fare la sua fortuna? Pensateci un poco meglio. Non vi lasciate sedurre, non vi lasciate ingannare. La vostra pace val più di tutto l’oro del mondo; e se per arricchire il signor Guglielmo, vi esponete al pericolo di morire, non siate cotanto sciocca di farlo. Non sagrificate all’altrui fortuna il vostro cuore e la vostra vita. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Eleonora, poi donna Livia.

ELEON. Chi è costei che mi parla? Una voce del cielo o un demonio dell’inferno?

LIV. (Partì donna Aurora? Non ci fosse venuta mai: per sua cagione non ho potuto veder Guglielmo). (da sé) Eleonora, che fate qui? Avete voi risoluto?

ELEON. Sì signora, ho risoluto. Guglielmo è il mio sposo: non voglio sagrificare per voi il mio cuore e la mia vita. (parte)

LIV. Che sento? Parla così risoluta? Ah! temo che donna Aurora l’abbia sedotta. Però non mi voglio perdere, e non vo’ lasciare alcun tentativo per vincerla, per persuaderla. Non risparmierò danaro, fatica e lagrime per l’acquisto dell’adorato Guglielmo. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Camera nel palazzo del Vicerè.

Il Vicerè e Guglielmo.

VIC. Io sono talmente persuaso del vostro progetto, che domani lo spedisco a Napoli a Sua Maestà, ove son certo che sarà posto in uso, e voi avrete un premio, che vi darà uno stato mediocre per tutto il tempo di vostra vita.

GUGL. Che dice l’Eccellenza Vostra? Non è facile? Non è sicuro? VIC. È regolato assai bene, non può fallire.

GUGL. Potrà nessuno dolersi?

VIC. No certamente; anzi tutti loderanno l’autore.

GUGL. Converrà poi ritrovare una persona onesta, capace di presiedere alla nuova incombenza.

VIC. Si troverà.

GUGL. Eccellenza, vorrei supplicarla di una grazia.

VIC. Dite pure.

GUGL. Giacché io ho avuto la sorte di proporre una cosa che l’Eccellenza Vostra crede utile per la città e per il regno, desidererei ch’ella si degnasse di eleggere, fra quei ministri che vi saranno impiegati, una persona che infinitamente mi preme. VIC. Quando sia abile, lo farò volentieri.

GUGL. Sarà abilissimo. Questo è don Filiberto.

VIC. Bene, don Filiberto avrà la carica, e riconoscerà da voi quell’utile che al novello impiego sarà assegnato. GUGL. Rendo le più umili grazie all’Eccellenza Vostra.

SCENA DICIASSETTESIMA

Conte Portici, introdotto da un Servitore del Vicerè, e detti.

CO. PORT. Signore, io comparisco in faccia dell’Eccellenza Vostra un calunniatore, poiché colui avrà avuto l’arte di farsi credere qualche cosa di buono. Non è maraviglia che un poeta, e un poeta teatrale, avvezzo a macchinar sulle scene, abbia l’abilità di guadagnarsi l’animo di chi l’ascolta. Io son nell’impegno, e ci va del mio decoro medesimo, se non fo constare quanto ho allegato intorno alle di lui imposture. Glielo dico in faccia, e non ho soggezione. Se a me l’Eccellenza Vostra non crede, ecco chi più di me lo conosce: venite, signor Conte, venite, signor Marchese. Questi due cavalieri vi parleranno di lui. (al Vicerè)

SCENA DICIOTTESIMA

Il marchese D’osimo, il conte di Brano e detti.

GUGL. Eccellenza, io sto cheto per rispetto di lei.

VIC. Conte, voi vi riscaldate soverchiamente: e voi conte di Brano, che avete a dirmi contro di questo giovane?

CO. BRA. Dico, Eccellenza, che da lui riconosco la vita. Sopraffatto da una eccessiva collera, fui da esso avvisato che mi sovrastava la morte. Mi suggerì il rimedio, corsi alla spezieria e fui costretto a cadere. Presi il rimedio da lui suggeritomi, e sono quasi rimesso. Egli in Gaeta ha fatto il medico: l’ho creduto un impostore; ma ora dico esser uomo di garbo, il quale, oltre le altre virtù, ha quella di esser un perfetto fisonomista.

CO. PORT. Un accidente non lo può autenticare per un uomo di vaglia.

CO. BRA. E non abbiamo prova in contrario per crederlo un impostore.

GUGL. (Eppure è la verità. La paura l’ha fatto quasi crepare). (da sé)

VIC. E voi, signor Marchese, che dite di questo forestiere?

MAR. Sono disgustato con lui; l’ho pregato di venire in casa mia, e non è venuto.

GUGL. Il luogo dove ella mi trova, mi giustifica bastantemente.

MAR. Sappiate, signor Guglielmo, (con permissione di Sua Eccellenza) che ho comunicato la vostra idea ad altri avvocati, e tutti l’applaudiscono; e condannano, come voi faceste, la direzione tenuta da’ miei difensori. Anzi penso di domandare la revisione, e voi sarete il principal direttore.

GUGL. Grazie dell’onore ch’ella si degna di farmi.

VIC. Signor Conte, che dite voi? (al conte Portici)

CO. PORT. Dico ch’egli ha incantato tutti. Ecco don Filiberto; chieda a lui l’Eccellenza Vostra perché l’ha discacciato di casa sua.

SCENA DICIANNOVESIMA

Don Filiberto e detti.

FIL. Eccellenza, se io ho tenuto in casa per quattro mesi quel forestiere, l’ho fatto non conoscendolo; ma s’egli è in disgrazia vostra, se ha qualche malanno addosso, io non ne so nulla; e subito che da questi signori mi è stato dato qualche motivo, non ho tardato un momento a licenziarlo di casa.

VIC. Ho inteso. E in ricompensa d’averlo voi licenziato il signor Guglielmo vi ha ottenuto la grazia di essere voi preferito in un impiego novello.

FIL. A me? (al Vicerè)

VIC. Sì, a voi.

FIL. A me? (a Guglielmo)

GUGL. Sì signore, a voi, per gratitudine di avermi per quattro mesi tenuto in casa.

FIL. Oh! siete un gran galantuomo! Signore, quando si principia la carica? (al Vicerè)

VIC. Vi è tempo. Ha da ritornare il rescritto di Sua Maestà. Ne sarete avvisato. Che dice il signor conte Portici?

CO. PORT. Dico che il signor Guglielmo è un uomo di merito, e che per coronare la sua fortuna non manca altro se non che donna Livia lo sposi. (con ironia)

GUGL. (Oh, dicesse la verità! Ma sarà difficile. L’impegno con Eleonora mi fa disperare affatto questa fortuna). (da sé)

SCENA VENTESIMA

Il messo del Vicerè, poi donna Livia e detti.

MES. Eccellenza, è qui la signora donna Livia, che desidera udienza. (al Vicerè)

VIC. Venga, che viene a tempo. (il Messo parte)

GUGL. Pare proprio uno di quegli accidenti ad uso di commedia, in cui si fanno venir le persone quando abbisognano.

LIV. Eccellenza, vi supplico di perdono, se vengo ad incomodarvi. Io sono una vedova, che vale a dire una donna libera, che può dispor di se stessa. La fortuna mi ha beneficato con una eredità doviziosa; e questa mia ricca dote eccita in molti la cupidigia, più che l’amore. Ci sono di quelli che pretendono avermi o coll’autorità, o colla soverchieria: e qui davanti all’Eccellenza Vostra vedo tre rivali, tre amanti, non di me, ma della mia eredità. Chi mi ha questa lasciata, non mi vincola a verun partito, posso io soddisfarmi; intendo di farlo, e imploro la vostra autorità per poterlo fare. Amo il signor Guglielmo e lo desidero per consorte. Vi scuotete? Fremete? Egli lo merita, perché civilmente è nato; egli lo merita, perché onestamente sa vivere. La sua nascita si prova con questi fogli; la di lui onestà è ormai a tutti palese. Onde s’ei non mi sdegna, se il Vicerè non contrasta, se posso dispor di me stessa, qui alla presenza di chi comanda e di chi invano d’impedirlo procura, a lui offerisco la mano, il cuore e tutto quel bene che mi concede la mia fortuna. (li tre pretendenti si vedono fremere)

VIC. Io non intendo di oppormi. Siete arbitra di voi stessa. Che dite, signor Guglielmo?

GUGL. Dirò ch’io rimango sorpreso, come una signora di tanto merito si compiaccia di onorarmi a tal segno. Conosco ch’io non son degno di una sì gran fortuna, e infatti accettarla non posso a causa dell’impegno mio colla giovane Napoletana. Questa non ha voluto mettermi in libertà, ed io non deggio tradirla; se Eleonora non me l’accorda, non vi sarà pericolo ch’io sposi mai altra donna, e lascerò qualsisia gran sorte, per evitare uno sfregio, un rimorso, un motivo di essere giustamente censurato.

SCENA VENTUNESIMA

Eleonora e detti.

ELEON. No, signor Guglielmo, non vi tradite per me. Sposatevi a donna Livia, accettate quel bene che vi offerisce il destino, e siate certo che io non vi sarò di ostacolo per conseguirlo. Dopo un lungo combattimento fra l’amor mio e la mia virtù, mi suggerì la ragione, che chi ama davvero, evitar dee la rovina della persona amata. Donna Livia qui mi ha seco condotta, essa mi ha facilitato il modo di mandar ad effetto la mia opportuna risoluzione. Ecco in questo foglio una cartella de’ luoghi di monte del valor di seimila scudi, ed eccone mille in questa borsa. Con questi, e colla scorta di due buoni amici di donna Livia, vado in questo momento a chiudermi in un ritiro, e non mi vedrete mai più. (parte)

SCENA VENTIDUESIMA

Il vicerè, donna Livia, Guglielmo, il marchese di Osimo,

il conte di Brano, il conte Portici e don Filiberto.

GUGL. Fermatevi, per un momento... (dietro ad Eleonora)

VIC. Lasciate ch’ella sen vada. Non impedite un’opera sì generosa. (a Guglielmo)

GUGL. Non so che dire. Se ne ha voglia, non conviene poi frastornarla.

LIV. Sì, lasciate ch’ella vada a godere uno stato, che certamente non le potea promettere la miserabile  sua  condizione;  nell’accettar  la   mia  mano,   qui   alla  presenza  del   nostro benignissimo Vicerè, prendete il possesso di me, del mio cuore e di quanto possiedo.

CO.

PORT. Signore, disse pure l’Eccellenza Vostra che non conveniva che un forestiere trasportasse dalla nostra città in un’altra una ricca dote.

VIC. Sì, è vero, lo dissi e lo ridico. Ciò non conviene e per questa ragione il signor don Guglielmo resterà in Palermo, aggregandolo alla cittadinanza, e pensionandolo per il merito di un suo progetto.

FIL. Veramente l’ho sempre detto, che il signor don Guglielmo era un uomo garbato.

CO. PORT. Sì, garbatissimo in tutto e spezialmente nell’incantar le donne. Ecco qui vostra moglie, tirata anch’essa dalla di lui garbatezza.

SCENA ULTIMA

Donna Aurora e detti.

AUR. Signore, come parlate voi? (al conte Portici) Non son qui venuta per il signor Guglielmo, ma per impetrare da Sua Eccellenza la scarcerazione di Berto mio servitore.

FIL. Conte, voi mi offendete. (al conte Portici)

VIC. Orsù, vi ho sofferto abbastanza. Andate, moderate la lingua, se non volete morire entro il maschio di una fortezza. (al conte Portici)

CO. PORT. Signore... compatite la mia passione. Mi lusingava poter conquistare la dote di donna Livia, e vedendola da un forestiere occupata, non mi potei contenere. Vi chiedo scusa, mi rimetto al voler del cielo, e vi assicuro che non ne parlo mai più.

MAR. Il signor Guglielmo la merita, e solo a lui avrei cedute le mie pretensioni.

CO. BRA. Anch’io aspirava alle nozze di donna Livia, ma perché conosco essere il signor Guglielmo degno di averla, m’acquieto e non parlo più.

AUR. Dunque il signor Guglielmo sposerà donna Livia?

LIV. Sì, malgrado le triste insinuazioni che fatte avete nell’animo di Eleonora.

AUR. Vi sposi pure, ch’egli n’è degno. Ho fatto stima di lui, ho compatite le sue disgrazie, e la mia stima e la mia compassione non ha mai passato il segno dell’onestà. Sono una donna onorata, e tanto basta per assicurarvi non avere avuto per lui che una semplice inclinazione.

FIL. Ehi, il signor Guglielmo mi ha procurato una carica decorosa e lucrosa. (a donna Aurora)

AUR. Che animo generoso! Mi vengono le lagrime per tenerezza. Non ho cuor di vederlo. (si ritira)

VIC. Orsù, andiamo. Poiché io desidero che si concluda il vostro nuzial contratto, e prima di uscire da questo palazzo, si ha da stabilir legalmente.

GUGL. Son confuso da tante grazie. Resto attonito per cotanta bontà. Ringrazio il cielo che mi ha assistito, ringrazio donna Livia che mi benefica; ringrazio altresì quella povera giovane, che è andata a chiudersi per mia cagione. Molte e grandi sono le vicende che ho passate in questo mondo. Fatto ho la vita dell’avventuriere, ma al fine sono assistito dal cielo e favorito dalla fortuna, perché fui sempre un Avventuriere onorato.

Fine della Commedia