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LAZZARO

 


1929

Mito in tre atti

di Luigi Pirandello

Arnoldo Mondadori Editore - Milano

1957

PERSONAGGI

Diego Spina

SARA, già sua moglie

LUCIO e LIA, suoi figli

ARCADIPANE, fattore di campagna

DEODATA, governante di Lia

GIONNI,  professore di  medicina

MONSIGNOR  LELLI

CICO, esattore di Dio

IL MARRA, notajo

DUE FIGLI NATURALI di Sara e Arcadipane

(non parlano)

UN MEDICO

UNA GUARDIA

SIGNORI DELLA STRADA

DUE CONTADINI.

Tempo presente.

ATTO PRIMO

Giardino pènsile in casa di Diego Spina.

La casa antica, modesta è a sinistra (dell'attore). Se ne vede di taglio la facciata, con un rustico portichetto spiovente, sonetto da colonnette, sotto il quale si vedono gli usci che immettono nelle stanze a terreno. Alto poco più d'un metro è in fondo un muro di cinta, rozzo, 'imbiancato di calce, con una cresta di pezzetti di vetro. A metà di questo muro, stagliata sullo sfondo d'un cielo di strano azzurro (quasi di smalto) è una grande croce nera con uno squallido Cristo dipinto, sanguinante. E, presso la croce, il fusto di un altissimo cipresso, che sorge dalla sottostante strada. Questo muro di cinta se­gue anche sul lato destro della scena, interrotto nel mezzo dal largo della scala che scende nella via. C'è per terra qualche ajuola con piante qua e là fiorite, tra vialetti inghiaiati, con sedili verniciati di verde.

Al levarsi della tela sono in iscena Deodata e Lia. Lia ha quindici anni, ma è come una bambina. Tiene i capelli sciolti, con un bel fioc­co celeste nel mezzo. E persa nelle gambe e sta sempre su una sediola a ruote che fa andare da sé con la sveltezza di un'andatura ormai naturale. Le gambe sono coperte da uno scialle. Deodata è sulla quarantina. Alta e robusta, veste di nero, con una cuffia nera in capo. Seduta su uno sgabello di ferro, lavora a tom­bolo.

 È un pomeriggio d'aprile.

Lia            (assorta). Non scrive da più d'un mese.

Deodata (dopo una pausa). Lucio?

Lia.           E l'ultima lettera, papà non ci ha capito nulla: non ha voluto farmela leggere.

Deodata.       Sarà in apprensione per gli esami. Tuo padre, al solito, si mette per la testa tante cose.

Lia.           Sarà. Ma anch'io, sai? Tante cose.

Deodata.       Brava. Anche tu. Attaccatelo anche a me, codesto male.

Lia.           Uh, male poi...

Deodata. Male, male: perché tante volte tu — guarda: supponi in qualcuno un pensiero? fat­tene accorgere; e il pensiero che prima in quello non c'era, gli nasce per davvero. Chi gliel'ha fatto nascere? Tu, con la tua supposizione.

Lia.           Scusa: non stai supponendo anche tu adesso che Lucio non scriva perché in apprensione per gli esami?

Deodata.       Mi spiego il suo silenzio con una ragione che può essere, come tante altre, probabile: ma che intanto non nuoce a lui e non affligge me — almeno prima del tempo.

Pausa.

Lia.           Se non si fosse ostinato ad andare all'Univer­sità!

Deodata.       Ah questo, vedi, questo non ho saputo approvarlo neanch'io. Uscito dal Seminario, po­teva mettersi quieto e soddisfatto a esercitare il suo santo ministero di sacerdote, senz'andare a imparare tutte le diavolerie che insegnano là.

Lia.           Ma allora avrebbe dovuto far subito il soldato...

Deodata.       Eh, lo so: questa è stata la scusa. Come se a ventisei anni non dovesse poi farlo lo stesso Mi pare che — farlo a ventuno — poteva pe­sargli meno. Mah! Anche per tuo padre l'idea di vederlo da un giorno all'altro senza più la tonaca, in tenuta di soldato, fu come se dovesse vedere il diavolo!

Lia.           È stato perché Lucio era cosi patito. Il pen­siero di fargli affrontare in quello stato gli stra­pazzi della vita militare...

Deodata.       È inutile: bisogna che in questa casa io me ne stia con la bocca cucita. Ragiono. Ho il vizio di ragionare, tra vojaltri...

Lia.           — che non ragioniamo —

Deodata.       — oh senti: non c'è via di mezzo: o si è santi o si è matti. Tuo padre sarà santo — è un santo, certamente — ma se qualche volta me ne dimentico e bado a quello che dice, a quello che fa, Dio mi perdoni, con quegli occhi mi pare un matto veramente.

Lia            (sorridendo, divertita). Perché non glielo dici?

Deodata. Glielo dirò, glielo dirò, non dubitare. Mi tengo da tanto tempo! Oggi stesso glielo dirò, davanti a tutti; anche per sgravio di coscienza. — Mifai ridere, « patito ». Perché, patito? Per la vita troppo chiusa in Seminario; per il troppo studio. Fargli prender aria, cambiar vita: mi pare che sarebbe stato il rimedio. Nossignori. Studiare an­cora, e chi sa quanto, per finire di rovinargli la salute. Ma quando gli hai detto e dimostrato que­sto, per lui è nulla. La salute, come tutto il resto. Apre le mani e alza gli occhi al cielo. O se credi che ti abbia dato ascolto, accogliendo qualche tuo suggerimento, vieni tutt'a un tratto a vedere che il tuo suggerimento gli è servito per commettere una nuova pazzia. Come questa che sta commettendo...

Lia.           — della cessione del podere? —

Deodata.       — sì: un bel modo di farti prender aria di campagna, come gli avevamo suggerito io e il dottor Gionni qua accanto!

Lia.           Ma che vuol fare?

Deodata.       Del podere? Non l'hai ancora capito? Un ospizio di mendicità.

Lia.           E che vuol dire?

Deodata.       Che tutti i mendicanti della città e anche quelli dei dintorni saranno ricoverati a sue spese nel podere; e vojaltri due, là, tu e lui, in loro compagnia. — Sì, sì, ti farà vispa, t'assicuro io, con quell'aria di campagna imbalsamata dagli stracci della miseria!

S'udrà di sotto la scala a destra la voce di Cico.

La voce di Cico. Permesso? Si può?

Deodata.       Ah, tu Cico? Vieni, vieni su.

Viene su dalla scala Cico, che è un esile vec­chietto bizzarro, dagli occhietti cilestri quasi di vetro, aguzzi, ilari, parlanti.  Porta sul cranio lucidissimo un berrettino rosso da ergastolano, e rigirata attorno al collo e pendente davanti e dietro una lunga sciarpa azzurra. Parla a scatti, e ogni tanto si ferma; guarda con quegli oc­chietti ilari parlanti e accompagna lo sguardo malizioso  con un  muto sorriso argutissimo.

Cico.         Rovinato, Deodata, rovinato.

Scorgendo Lia e cavandosi subito il berrettino:

Ah, c'è anche lei, signorinella? servo!

Di nuovo a Deodata:

Rovinato.

Deodata.       Chi t'ha rovinato, sciocconaccio?

Lia.           Papà, scommetto.

Cico.         E il diavolo! papà e il diavolo. Tutt'e due. Capita, signorinella. Più uno èsanto e più il dia­volo gli sta attorno.

Starnuta.

Permette?

Si rimette il berretto.

Se Dio liberi mi metto a starnutare, son capace d'infilarne cento; e addio, non parlo più!

Lia.           Che t'hanno fatto, papà e il diavolo?

Cico.         Rovinato, le dico. M'era venuta un'idea, un'idea! Facevo danari a palate. Avevo trovato la professione. M'ero patentato.

Deodata. Non chiedevi più l'elemosina?

Cico.         Che elemosina! Esattore. Patentato.

Deodata.       Tu, esattore?

Lia.           Di chi?

Cico.         Di Dio, signorinella. Esattore di Dio. Avevo combinato una filastrocca che appena mi mettevo a recitarla, lei non può figurarsi la gente che fa­cevo.

Uomini e donne, d'ogni ceto, età,

professione,

marinai, campagnuoli, cittadini,

tutti siamo inquilini

del Signore.                                     

Inquilini del Signore, proprietario di due case.

Due case,

sì,

due case.

L'una — noi la vediamo — eccola qua.

E sarebbe il Signore buon padrone

per tutti quanti a un modo,

se tanta e tanta genie,

avara e prepotente,

non s'è ne fosse fatta casa propria,

quand'essa

dovrebbe invece esser casa comune.

C'è chi ha granajo, dispensa, rimessa,

e chi non ha né fune

né tanto muro da piantarvi un chiodo

per potersi impiccare;

e i più son questi, e sono come me.

Ma gli altri intanto debbono, pensare

che è pur padrone Dio

dell'altra casa, la casa di là,

di cui comanda che ciascuno paghi

anticipata la pigione qua.

I poveri, com'io,

la paghiamo ogni giorno con le pene

nostre,  puntualmente,  a tutte l'ore;

ai ricchi invece per pagarla basta

che facciano ogni tanto un po' di bene.

Ne viene,

signori miei, ch'io sono veramente

per conto del Signore

di questo po' di bene

stende la mano.

— l'esattore.

Piovevano i denari, signorinella. Come grandi­nate. Ora con questa diavoleria dell'ospizio che suo papà vuole fondare, lei lo capisce, che pigio­ne anticipata più, per la casa di là! tutti mi di­ranno: « Ora qua la casa ce l'hai anche tu: vatti a riporre! ».

Deodata. Bravo, Cico. Credi dunque anche tu che quest'idea dell'ospizio sia un suggerimento del diavolo?

Cico.         Altro che! Ne ho in me la prova. Sapete che ce l'ho dentro!

Lia.           Sì, sì:  il diavolo che dice di no.

Cico.         — le giuro: sempre: senza ch'io lo voglia: io dico di sì, e lui dice di no; con la mia stessa voce, sotto sotto, mentre sto parlando. — Guar­di, jeri, davanti allo specchio d'uno sporto di bot­tega. Dico: « Dio, ma perché? Ci hai dati i denti, e a uno a uno ce li levi; la vista, e ce la levi; la forza, e ce la levi. Ora guardami, Signore, come m'hai ridotto! Di tante cose belle che ci hai date, nessuna dunque dobbiamo riportarne a Te? Bel gusto, di qui a cent'anni, vedersi comparire da­vanti figure come la mia! ».

Deodata.       Questo era il diavolo; mica tu!

Cico.         Positivo! Il diavolo. E fui tanto contento che Monsignor Lelli, passando, gli diede la risposta che si meritava: « Sciocconaccio, Dio ti riduce così perché non ti costi tanta pena il morire! ».

Deodata.       Benissimo!

Cico.         Già. Ma sapete che cosa questo schifoso dia­volaccio ha osato ribattere sotto sotto? « Ma po­trebbe coi denti levarci anche il desiderio di ma­sticare, e non ce lo leva! ». — Si misero a ridere — tutti — anche Monsignore; e io ci son rimasto brutto. Fanno male, fanno male a ridere e a la­sciarmelo cosi senza risposta. — Non son cose a cui ci si dovrebbe divertire! — Questa dell'ospi­zio di carità era una cosa che mi diceva lui, dentro.

Deodata.       Il diavolo?

Cico.         Il diavolo, ogni volta che finivo la filastrocca: « Ma se intanto una casa i poveri l'avessero anche qua! ». Capite? Ed ecco che il padrone ce la dà davvero.

Si sente la voce del dottor Gionni su per le scale.

La voce del Gionni. Rediviva! Rediviva!

E il dottor Gionni appare con una coniglietta bianca tra le mani e corre verso la sediola a ruote di Lia. È un bell'uomo antipatico, con barba bionda, ampia, e occhiali d'oro, sulla quarantina; indossa un lungo camice bianco di tela, con cintura in mezzo.

Gionni.     Eccotela qua, rediviva, la tua coniglietta.

Lia            (tutta fremente  d'una  gioja  quasi  sgomenta, prendendo la coniglietta). Viva? Oh Dio! Sì sì! Guarda!

Deodata.       Possibile?

Gionni.     Da jersera, si, poco dopo che me la portai via...

Lia.           Ah, così subito?

Gionni.     Non te n'ho detto nulla stamani, perché ho voluto prima accertarmi...

Lia.           — ma che le ha fatto? com'ha fatto?

Gionni.     Niente. Una punturina.

Lia.           Ah, la mia Riri! Dove?

Gionni.     Al cuore.

Lia            (stupita). Al cuore? Ed è resuscitata?

Gionni.     Non è la prima.

Diego.       Ah le sembra normale che si possa?...

Gionni.     Se lei fosse informato...

Diego.       Sono informato! Si leggono purtroppo nei giornali, queste e altre simili prodezze. E so lo scempio che lei fa di codeste bestiole nel suo la­boratorio. Ne ho orrore.

Gionni.     Ma questa l'ho rimessa in vita —

Monsignore (subito). — da morta che pareva.

Gionni      (pronto e fermo). Era, non pareva.

Diego.       Mi sa dire come fa lei ad affermarlo?

Gionni.     Eh, vuole che un medico non sappia?...

Diego        (troncando, severo). Io so che Dio solo può, per un miracolo, richiamare da morte a vita.

Cico.         Ecco: bene!

Monsignore. Proprio così!

Gionni.     Credo anch'io così, Monsignore. Dio solo. Non presumo mica d'averlo fatto io il miracolo: posso anche considerar la scienza come uno stru­mento di Dio. Tutto sta a intenderci.

Monsignore. Ma su che vuole intendersi lei, dice sul serio?

Gionni.     Sula sua fede e su la mia.                  

Diego        (sdegnato togliendo di mano a Lia la coni­glietta e dandola a Gionni). Prenda: se la riporti al suo laboratorio!

Lia            (di scatto). No, la mia Riri!

Diego.       Basta, Lia!

Gionni.     Iom'ero inteso, signor Spina, di procurare una gioja alla sua figliuola. Mi ringrazia così?

Monsignore. La fede è una sola!

Gionni.     E comanda di riportare al laboratorio questa bestiola?

Lia.           No, papà!

Monsignore (a Lia). Se Dio te l'aveva tolta...

Gionni.     Dio gliela ridà!

Diego        (non potendone più). La prego, insomma, dottore!

Gionni.     E va bene, me la riporto via, me la riporto via.

S'avvia per la scala. Prima di scendere si volta a Lia.

Stai tranquilla, cara, te la tengo in vita!

Diego        (chinandosi amoroso verso la figlia che pian­ge). Non voglio, non voglio che tu pianga, Lia... Tu sai come si fa... Si offre a Dio...

Lia.           Sì, papà... sì, sì... Vado, vado...

S'avvia verso casa su la sua sediola a ruote e scompare per uno degli usci sotto il porticato. Tutti la seguono  con  gli  occhi.

Monsignore. Forse potevate lasciargliela.

Deodata (rabbiosa, commossa). Mi pare! Una gioja così innocente...

Monsignore. No, ecco, a dir proprio, innocente no, se riavuta con quel mezzo!

Diego        (un po' pentito). Avete pur sentito che per lei quella bestiola era morta!

Deodata.       Riaverla viva...

Diego        (rivoltandosi iroso). Ma lo capite bene ciò che dite?

Cico.         Morta e rediviva!

Diego.       Credere possibile una tal cosa; e d'averne la prova li sulle ginocchia? Mi ha fatto un tale impeto dentro...

Deodata.       — ma chi? la bambina?

Diego.       — no, sentir parlare quell'uomo!

Deodata.       — e che c'entrava la bambina? Strapparle con tanto sgarbo quella bestiola dalle mani...

Diego.       — lo sto confessando, mi pare.

Deodata.       — non aveva supposto proprio nulla del male che lei ci ha visto! — Oh, senta, infine; io glielo dico qua, davanti a Monsignore. Le prove che Dio ci manda — accettarle con rassegnazione — sta bene; tutti i sacrifizii, tutti, se comandati da Lui — compirli con gioja — sta bene. Ma de­v'esser Lui, o il suo vicario, in terra; guardi, an­che Monsignore, se in nome di Lui me li coman­da. — Ma lei, no! Lei, se vuole, può sacrificare se stesso...

Diego.       — io...

Deodata.       — sì, s'è sacrificato, tutta la vita! — ma pretenderlo dagli altri, il sacrifizio, no!

Diego.       Io, lo pretendo? contro la volontà?...

Deodata.       Eh, mi pare! Volontà... Che volontà vuole che abbia la sua figliuola di fronte a lei? Sì, sì, lei sacrifica tutti con sé! Forse non se n'accorge nemmeno. Ma guardi: ora stesso, con quello che vuole fare...

Diego.       — che voglio fare?

Deodata.       — quel suo ospizio!

Diego.       — ah, l'ospizio... — ancora con quest'ospi­zio!

Deodata. Scusi: — ha pensato a me? voglio dire al bene che ho sempre voluto a quella sua crea­turina disgraziata? a tutte le cure mie, amorose, che ora le verranno a mancare?

Diego.       Perché a mancare?

Deodata. Me lo domanda? Non pretenderà mica ch'io venga in quel suo ospizio tra i mendicanti giubilati! Ho sentito dire che ci accoglierà anche la Scoma!

Cico.         Sì, sì, lo va dicendo lei, la Scoma!

Deodata.       Ma si sa, per premiare la virtù!

Monsignore. Smettetela, Deodata!

Deodata (come non se ne possa dar pace, rivelando il dispetto d'una antica rivalità). Quella strega che va accattando col suo ritratto in cornice, appeso al collo come un abitino! E non la chiede mica in  nome di Dio  l'elemosina,  che!  in  grazia  di quella che fu, che lo sanno tutti, e lo dice del resto quel suo ritratto. Si provi a non fargliela: le sputa dietro bestemmie e certe parolacce...

Monsignore. V'ho detto, smettetela!

Deodata.       Sì, Monsignore, ma capirà...

Monsignore (con un'intenzione sottintesa). Se v'in­gegnaste di capire un po' voi, piuttosto!

Deodata. Capisco! Capisco! E giacché lei dice co­sì... — vogliono permettere? — no, non a me — permettere alla mia coscienza — di parlare? Cal­ma, calma, non dubiti. — È coscienza:  ci guardino dentro. Posso sbagliare. Ma debbo parlar chiaro. E dire tutto.

A Diego:

È un pretesto, non è altro, un pretesto per la sua debolezza, questa fondazione che vuoi fare dell'o­spizio nel podere! —

Diego.       Debolezza?

Deodata. — sì: di non aver saputo cacciare da quel podere... —

Monsignore (severissimo). — zitta, Deodata!

Diego.       Nono: la lasci dire!

Deodata.       — sua moglie, che ci vive da tant'anni in peccato mortale con un uomo, suo servo, con cui ha avuto due figli.

Diego        (con dolente semplicità). Perché dite debolezza?

Deodata. Oh bella! Perché non ha avuto il coraggio...

Diego        (pronto, troncando). — l'ho avuto; contro di me! Tanto più grande, quanto più m'ha umiliato nella stima degli altri: ecco, di voi che dite debolezza.

Deodata.       Ma scusi, c'è o non c'è, qua, sua figlia? E i medici, hanno, sì o no, prescritto per lei la campagna? Dovrebbe ora sua figlia — lei sola — darle la forza di fare ciò che avrebbe dovuto da tanto tempo. E lei invece l'ha tenuta in casa, per lasciar godere la campagna alla madre indegna.

Diego        (forte, per troncare). Non dite così: non sa­pete quello che vi dite!

Deodata (dopo una breve pausa, a voce bassa, co­me se non potesse farne a meno, di dirlo almeno a se stessa). Lei è capace finanche di difenderla!

Diego        (subito, pronto). No. La difendete voi, in­vece, senza saperlo.

Deodata. Io?

Diego.       Voi, sì. Perché ella voleva appunto per la figlia quello stesso che volete ora voi.

Deodata.       La campagna?

Diego.       La campagna.

Pausa. Poi:

Perché credete che si sia allontanata da me? Non potemmo mai metterci d'accordo sul modo d'al­levare prima, e poi d'educare i figliuoli.

Deodata.       Ah, per questo?

Diego.       Per questo, per questo.

Altra breve pausa.

Monsignore, li amava, d'un amore... non so, trop­po carnale, a mio giudizio. Come tante madri, del resto.

Cico.         Eh, una mamma...

E subito si tappa la bocca.

Diego.       E fu proprio per lei, per la bambina, quand'ammalò — credette per mia colpa — perché avevo voluto metterla troppo piccina in collegio dalle suore — m'odiò — non poté più sopportare la mia vista — maledisse la casa e se n'andò a vivere nel podere...

Deodata.       — con quello? —

Diego        (sdegnato). — ma che con quello! (fu due anni dopo) — nel podere, aspettando che le re­cassi là la bambina, persa ormai nelle gambe.

Deodata.       Ah — e lei?

Diego.       Non volli.

Deodata.       Fece male!

Diego        (a Monsignore). Impose per la riconciliazio­ne il patto che riprendessi in casa anche l'altro figlio.

Deodata.       Lucio?

Diego.       — Lucio — levandolo dal Seminario dove era stato messo. — Monsignore, forse l'avrei fat­to. Ma ammettere come una mia colpa —

Monsignore. — la sventura della bambina? —

Diego.       — (in coscienza, non potevo riconoscermela) — e ritrarre, come per ammenda a questa colpa, Lucio dalla carriera ecclesiastica, m'avrebbe con­dotto a fare dei miei figli, d'allora in poi, ciò che avrebbe voluto lei —

Monsignore. — inevitabilmente —

Diego.       — a derogare a me stesso, al mio sentimen­to, ai miei principii...

Monsignore. E dite che l'avreste fatto?

Diego.       Fui sul punto di farlo, si; più volte.

Monsignore. Male!

Diego.       Potei capire, grazie a Dio, ogni volta, che l'avrei fatto perché amavo e desideravo ancora quella donna —

Monsignore. — ecco! —

Diego.       — e che solo per questa viltà della mia carne...

Monsignore. — ecco, ecco —

Diego.       Mi vinsi. E nessuno seppe mai tra quante lagrime ricusassi d'arrendermi, e con quale spe­ranza segreta che s'arrendesse lei, invece, per pie­tà della figlia inferma.

Deodata.       Avrebbe dovuto sentirla!

Diego.       Senti più forte l'odio per me; e non s'arrese.

Deodata (di scatto, diabolica). Lei l'ama ancora! l'ama ancora!

Diego.       Ma no, che dite!

Deodata.       Si vede! si vede! Lei l'ama ancora!

Cico          (tutt'un fremito). Ecco, ecco il diavolo! Lo stava per dire il mio, e l'ha detto il suo!

Diego        (con un sorriso triste). Sì, Cico, il diavolo davvero. Che male vuoi che cisia più in questo amore che devo avere, si, anche per lei; non è vero, Monsignore?

A Deodata, dopo una pausa:

Vedete bene che sarebbe ingiusto — un doppio torto da parte mia — se mi valessi ora del biso­gno che Lia ha della campagna per la sua salute, cioè proprio di quello che ella voleva allora per la figlia; e per cui, non essendomi io arreso, lei si trova ora in peccato.

Deodata.       Non vorrà credere, adesso, per causa sua!

Diego.       Se io le avessi portato là i figli...

Monsignore. No, no. Il vostro torto è stato un al­tro, è stato un altro: non averla cacciata a tempo, voglio dire appena veniste a sapere che s'era messa con quell'uomo —

Diego.       — sì, ma... —

Monsignore. Non dovevate tollerare che seguitasse a vivere da adultera in casa vostra: se il podere era vostro — (io credevo, di lei) —

Diego.      — no, mio, mio —

Monsignore. — è stato enorme! Ma non avendolo fatto a tempo, quando ne avevate tutta la ragio­ne, non potete più, certo, farlo adesso —

a Deodata:

non può, col pretesto della salute della figlia, che darebbe ragione a lei e torto a lui.

Diego.       Perché lei non sa, Monsignore, quello che si produsse in me quando venni a sapere; ciò che nel primo impeto mi vidi in procinto di fare! Tenermi; non far nulla — così — vivere del mio strazio; lasciarlo durare, durare, senz'offrirgli il più piccolo sfogo, anzi, come un bottone di fuoco, lo scherno della gente, fu la mia vittoria: il mar­tirio. Lungo. Lungo, perché la ferita mi si ria­priva sempre, e il sangue — sangue cattivo — tornava a sgorgare. Mi dissero che s'era privata di tutto; che aveva buttato via i suoi abiti da signora... —

Deodata.       — ma perché sa che, vestita come veste —

Diego.       — da contadina? —

Deodata.       — eh sì, sta un amore: lo dicono tutti: una simpatia!

Cico.         Bella, sì, bella: sembra ch'abbia ancora vent'anni! Quando passa, si voltano tutti a guardarla. Pare il sole! Un miracolo.

Deodata (alludendo all'amante servo). Lavuole lui, così bella!

Diego        (con urlo improvviso, violentissimo, che sconcerta e fredda tutti). Basta! Non posso sentirlo dire da voi!

Deodata (sordamente, dopo una pausa). Ne ha parlato lei...

Diego.       Non si diede per vizio a quell'uomo. Né lui è come voi ve lo figurate. Lei sa, Monsignore, che ha mandato sempre a mio nome all'ospedale tutti i proventi del podere, dopo che io la prima volta li rifiutai. E i proventi sono sempre cresciu­ti, d'anno in anno. E il podere è divenuto il più ricco, il meglio beneficato di tutti i nostri dintorni.

Cico.         Ah, un paradiso: il paradiso terrestre! Io ci vado, e lo so. E quei due ragazzi più belli della madre, che già lavorano oh! zappano, con due zappette così, accanto al padre, pieni di salute.

Diego.       Certo, sarà un danno cacciarli via: dico per l'ospedale.

Deodata.       Eccoche pensa all'ospedale adesso!

Diego.       Penso che vivono da poveri, beneficando; e che ora, se li mando via, dovranno provvedere a sé —

Deodata.       — sarà la loro punizione! —

Diego.       — sia! ma il bene che intanto facevano, non deve andar perduto; dovrò farlo io, ora, ad altri, lo stesso bene —

Deodata.       — fondando l'ospizio in quel podere? ro­vinerà il podere, e il bene sarà poco; mentre n'ha già fatto tanto che potrebbe bastare oramai: s'è spogliato di tutto! Ecco, Monsignore, io volevo dir questo: se ne ha il diritto, con la figliuola così.

Diego.      Non ha bisogno di nulla, la mia figliuola: solo di raggiungere, quando a Dio piacerà, ciò che in terra non ha potuto avere. Dire non basta, bisogna provare la povertà. E allora, via tutto! — Mia figlia vivrà in campagna, ma vi vedrà — po­vero tra ì poveri — suo padre; e ne sarà contenta, vedendomi contento — ah sì, alla fine! così sol­tanto! — Non potrei altrimenti figurarmi quei due cacciati dalla terra, raminghi in cerca di lavoro.

Voltandosi di scatto a Deodata

Non mi guardate con codesti occhi! Prego Dio ogni sera che mi richiami a sé, non per avere io un sollievo da queste prove che ha voluto man­darmi, ma per levar loro dal peccato in cui vi­vono. Perché io so che lei ha trovato un uomo, ha trovato un uomo.

Il cielo, a questo punto, col tramonto, è diven­tato tutto di fiamma. Si ode dal fondo della scala il suono di un campanello.

Deodata.       Suonano. Chi sarà?  La porta dev'essere aperta, se non l'ha chiusa lei.

A Cico:

Va', va' a vedere chi è.

Cico va alla scala; fa un atto di stupore, quasi di sgomento, e torna indietro.

Cico.         Uh! Lei! Lei! La signora!

Diego.       Lei qua?

Cico.         Sì, tutta vestita di rosso, e il manto nero!

Deodata.       Avrà saputo, e forse viene...

Monsignore. Per il podere?

Diego.       E come osa?

Monsignore   (vedendola  apparire  e  fermarsi  nel largo della scala).  Eccola qua!

Diego        (piano). Ritiratevi.  Lasciatemi solo con lei.

A Deodata:

Attenta a Lia.

Monsignor Lelli, Deodata e Cico si ritirano ed escono per uno degli usci sotto il porticato. Sul­lo sfondo del cielo infiammato, Sara, tutta rossa e col manto nero, sembra un'irreale apparizione di ineffabile bellezza: nuova, sana, potente.

Sara         (assorta, guardando e comparando col ricordo, le cose come ora le rivede, più anguste, meschine). Il giardino... la casa...

Diego.       Hai potuto osare, davanti a tutti, ripresentarti a me?

Sara         (c. s.). E anche tu... Dio mio, che faccia...

Diego.       Lascia stare la mia faccia! Dimmi perché sei venuta!

Sara.        Non temere. Appena la gente saprà perché, comprenderà che dovevo venire e non ne farà maraviglia.  D'altro avrà da maravigliarsi;  non di questa mia venuta.

Diego.       Vieni perché hai saputo?

Sara.        — dell'ospizio? No.

Ride.

Ah, tu hai temuto che venissi a intercedere, a pre­garti di lasciarci nel podere?

Diego.       Non vieni per questo?

Sara.        Ma no! Noi non viviamo del tuo podere —

Diego        (rapido, cercando d'interrompere). — lo so, lo so —

Sara.        — e dunque? — viviamo del lavoro che vi facciamo e che domani possiamo fare anche al­trove. Questo per noi non ha importanza. Potreb­be averla al più al più per i poveri malati dell'ospedale.

Diego.       L'ho detto or ora anch'io —

Sara.        — ecco — e giacché ne parli tu — (io ho ben altro da dirti, e non pensavo venendo di doverti parlare di questo) — ma giacché ne parli tu —

Diego.       — no: prima dimmi la ragione per cui sei venuta —

Sara.        — aspetta: se cerchi una scusa per mandarci via —

Diego.       — non è una scusa! —

Sara.        — che vuoi che se ne facciano, del podere, questi vecchi mendicanti della città, avvezzi a gi­rovagare tra la gente? Chiusi lì, si sentirebbero in prigione: puniti e non beneficati. In capo a un anno, il podere morrebbe in mano a loro —

Diego.       — ci sarò io, con loro —

Sara.        — tu? e che potresti far tu con codeste brac­cia? Mi fai ridere! Non l'hai più veduto e non sai com'è; quello che ne abbiamo fatto! Non c'è più un palmo di terra che non sia coltivato —

Diego.       — lo so —  

Sara.        — l'orto, la vigna, il frutteto; uh, frutta per tutte le voglie! Abbiamo trovato l'acqua, sai? quella vena che tu dicevi, che certe volte, ricor­di?, si sentiva scorrere sotto il ciglio del sentiero che conduce alla vallata: quella! Una ricchezza. Ha rinfrescato e rinnovato tutto. Tre vivai grandi sempre pieni, e scorre per le zane, da per tutto, allegra, e ti fa tirare dal fondo dei polmoni il respiro quando ne senti il fragore, certe sere di caldo. — Ebbene, guarda, se quest'ospizio è una scusa, non pensarci più.

Diego.       Non è una scusa, t'ho detto.

Sara.        Ce n'andremo via; via da noi; anche domani stesso, se vuoi, senza darti nemmeno il disturbo di cacciarci tu. Mettici un altro fattore, però — onesto — e che sappia lavorare. Fai così. E fallo, dai ascolto a me, fallo per il sangue tuo! Come vuoi lasciarli, questi figli, ci pensi?

Diego.       I figli... Séguiti a volertene dar pensiero, an­cora?

Sara.        Dici a me, ancora? — tu? — E chi mi negò di darmene pensiero sempre, sempre; e soltanto di loro?

Diego        (infoscandosi). Lasciamo questo discorso.

Sara.        Non volesti più tu, ch'io fossi madre per i miei figli, a costo di fare anche a meno della moglie!

Diego.       Sì. Perché volevo che la moglie fosse madre per i miei figli, educandoli a mio modo.

Sara.        Ah no, questo no! questo mai!

Diego.       Dunque vedi?

Sara.        Il fatto mi dimostra, ora più che mai, che avevo ragione io, sai? io e non tu!

Diego.       Lasciamo, lasciamo questo discorso.

Sara         (indica il Crocefisso). Tu non vedi che Quello, e a tuo modo soltanto!

Diego.       Non bestemmiare!

Sara.        Io? Sono la prima a inginocchiarmi. Ma Quel­lo, sai, è li per dare la vita, non per dare la morte!

Diego.       Ma sta' zitta! Che vuoi parlare tu di vita e di morte? Ti sei dimenticata che la vita vera è di là! Quand'è finita la carne...

Sara.        Io soche ce l'ha pur data Dio, anche questa di carne, perché la vivessimo qua, in salute e leti­zia! e nessuno può saper questo meglio d'una madre! Volevo la gioja, io, la gioja e la salute per i miei figli! E anche la ricchezza, si: per loro, non per me (io ho fatto e faccio la conta­dina!). E se tu lasci il podere per i tuoi figli — guarda — sarò felice d'aver lavorato con queste braccia — lavorato davvero,  sai! — a renderlo ricco come ora è, per loro!

Diego.       Ne hanno fatto a meno finora, con l'ajuto di Dio, e possono seguitare a farne a meno.

Sara.        Che ne sai tu?

Diego.       Lo so.

Sara.        Tante cose possono avvenire che tu non supponi nemmeno!

Diego.       Intanto, per una, ho già provveduto. E quanto a Lucio...

Sara         (come se l'aspettasse a questo). Quanto a Lucio?

Diego.       Ha già i suoi ordini.

Sara.        E se non gli bastassero più?

Diego.       Come, se non gli bastassero? Gli debbono bastare!

Sara.        Lucio è da jeri con me.

Diego        (restando). Lucio? Che dici? Con te, dove? È tornato?

Sara.        Tornato, sì. Ed è venuto da me. Ecco perché ti dicevo che il fatto, ora più che mai, mi dà ragione.

Diego        (ancora quasi incredulo). Lucio è venuto da te?

Sara.        Mi vedi qua per questo. Tuo figlio è venuto da me.

Diego.       Ma come, venuto? Gli hai scritto? L'avrai chiamato tu?

Sara.        Come avrei potuto chiamarlo io? No. E perché?

                          

Con fastidio.

Ah, tu pensi ancora per il podere? Ti dico che sono pronta a lasciartelo anche domani!

Diego.       Allora...   spontaneamente? E per qual ragione?

Smarrendosi.

È venuto senza farsi vedere qua... Non ha più scritto... Che gli è avvenuto?

Sara.        Ionon so. Ero nell'orto. Me lo vedo compa­rire davanti. Non l'ho riconosciuto in prima; e come avrei potuto riconoscerlo?

Diego.       Ma venuto da te, per che fare? Che t'ha detto?

Sara.        Ah, cose m'ha detto... — non posso ripetertele così... Bisogna che tu lo senta parlare!

Diego.       Cose... cose per te?

Sara.        Non per. me — per tutti!

Diego.       Dev'essersi impazzito!

Sara.        No! Che impazzito! È un altro!

Diego.       Un altro? Che vuoi dire? T'avrà pur dato una ragione della sua venuta!

Sara.        Sì. Per riconoscermi.

Diego        (stordito). Riconoscerti?

Sara.        Sì. E rinascere. Lui, da me. Rinascere da me, sua madre. L'ha detto! Lo guardavo, smarrita. Che viso s'è fatto: di cera! E che occhi! Mi vedo tendere le braccia, e con due lagrime che gli sgorgano da quegli occhi... « Mamma! » Mi son sen­tita... mi sono sentita ribenedetta! M'ha abbracciata; ha pianto su me, a lungo, a lungo, treman­do tutto tra le mie braccia. Non ho mai sentito nessuno tremare così!

Diego        (quasi tra sé). Ah Dio, ah Dio, ajutami, so­stienimi, Dio! Dio, Dio, che vuoi tu da me?

A Sara:

Ma come? Senza pensare che là, dov'è venuto a trovarti, tu vivi con uno che non è suo padre; e che egli...

Tutt'a un tratto, come fulminato da un dubbio:

Ma forse... Ah Dio... forse non ha più l'abito?

Sara.        No.

Diego        (com'atterrito). S'è spogliato dell'abito? Ha buttato via l'abito?

Sara.        Ma sentissi come parla ancora di Dio!

Diego        (farneticando). Dov'è? Dov'è? dimmi dov'è, nel podere?

Sara.        No; è venuto con me, per parlarti.

Diego.       Vuole parlarmi?

Sara.        Spiegarti.

Diego.       Dov'è?

Sara.        S'è fermato alla porta della città, in casa di mia sorella.

Diego.       Ah, vado, vado, vado...

E si precipita, com'impazzito, giù per la scala. Sara resta perplessa e un po' sgomenta di quella fuga; si guarda attorno; scorge Cico che guarda col suo berrettino rosso da una delle colonnette del portico e lo chiama con la mano. Il cielo, d'improvviso, da rosso che era, s'è fatto viola­ceo, e la scena appare come freddata d'un tratto da quella livida luce sinistra.

Sara.        Vieni, vieni. Bisogna corrergli dietro; io non posso. È tornato Lucio, senza più l'abito.

Cico.         Ah sì?

Sara.        Sì, sì. E corso com'un pazzo. Avverti, avverti in casa. Io scappo. Bisogna badare a lui!

Via di fretta, per la scala.

Viene fuori da uno degli usci del portichetto Deodata a spiare; e subito Cico la chiama. Deodata accorre.

Deodata.       Che t'ha detto? E lui perché è scappato?

Cico.         Lucio, Lucio... il diavolo... Ha buttato via la tonaca!

Deodata.       Lucio? Te l'ha detto lei?

Cico.         Lei, lei! il diavolo!

Deodata.       Ah Dio, ajutaci! E che avverrà adesso di quell'uomo?

Cico.         È  corso via, s'è precipitato! Gli corro dietro!

Via di furia per la scala.

Deodata.       Sì, vai vai! Ma dove sarà andato? Oh Si­gnore Iddio! E tutta vestita di rosso era, come una vampa dell'inferno! Per dare quest'annunzio!

S'appressa al porticato.

Monsignore, Monsignore!

Entra, costernato, Monsignore.

Monsignore. Che cos'è? che cos'è?

Deodata.       Lucio s'è spogliato da prete!

Monsignore. No! Che mi dite!

Deodata.       È venuta lei a dargliene l'annunzio! E lui è scappato via!

Monsignore. Dove?

Deodata.       Non lo so! E scappato!

Si sentono prossime grida confuse, affannose, che si avvicinano sempre più.

Monsignore. Sentite? Che avviene? Gridano!

Grida.      — Piano piano... Di là! Per quella scala!

—  Ma com'è stato?

—  Ah, il signor Spina!

—  Piano! Piano per la figlia!

—  Ma è morto? Com'è stato? Ah poveretto! —  Attenzione! Attenzione a salire!

—  Rivoltatevi! La testa in su! La scala è erta!

Deodata (accorrendo alla scalò). Ah Dio, il padrone! Che è stato?

Cico          (risalendo la scala). Investito! investito!

Monsignore. Correte, Deodata, impedite alla figlia di venire.

Deodata.       Ma non sarà morto!

Monsignore. No, no, speriamo di no! Andate, andate!

Viene su dalla scala affannosamente un gruppo di gente della strada che sorregge per la testa e per i piedi il corpo abbandonato di Diego Spina, e va con stento a deporto su uno dei sedili del giardino, bene in vista. Qualcuno avrà in mano un lanternino acceso. Deodata corre verso la casa. Quando il gruppo dei portatori avrà superato la scala, davanti a questa, parato da Cico, si vedrà un altro gruppo di curiosi co­sternati.

Voci dei portatori. — Su, su, piano!

—  Di qua, di qua!

—  Deponiamolo su quel sedile!

—  Sì, sì, piano, di qua!

Monsignore. Ma non è ferito!

Uno dei portatori. No, nessuna ferita!

Monsignore. Ma com'è stato?

Un altro dei portatori. S'è gettato contro un'automobile!

Monsignore. Come, da sé? Impossibile!

Il primo.   Eh, pare!

Un terzo. No, correva all'impazzata!

Un quarto. È parso a tutti!

Monsignore. Impossibile! Impossibile!

Il primo.   L'automobile ha sterzato —

Il secondo. — non l'ha messo neanche sotto! —

Il terzo.   — ma l'ha sbatacchiato con tale impeto contro il muro, che subito è cascato là, come un cencio.

Monsignore. Non dà più segno di vita!

Il quarto. No? Fino a poco fa respirava.

Monsignore. È gelato!

                                     

Cico          (dalla scala, facendo largo tra i curiosi). Ecco il dottore! ecco il dottore! Largo! Largo!

Accorre dalla scala un medico chiamato lì per lì in  qualche farmacia.

Il Medico      (accorrendo, a Cico che vorrebbe rag­guagliarlo). Ho saputo, ho saputo, investito! Fate largo! Lasciatemi vedere!

Si china su lo Spina, lo osserva un momento, gli sbottona il colletto, la camicia, il panciotto, gli ascolta il cuore. Nel frattempo, gli astanti commentano  sottovoce.

Gli astanti. — Pare morto!

—  Eh sì...

— Che disgrazia!

—  Silenzio!

Il Medico (sollevando il capo). È morto.

Gli astanti (con diverse voci). Morto?

Il Medico      (dopo essersi di nuovo chinato a ria­scoltare il cuore del giacente, tra lo stupore an­goscioso, la pietà e lo sgomento di tutti, conferma rialzandosi). Morto.

T E L A


ATTO SECONDO

Atrio rustico della casa di campagna di Diego Spina. L'atrio è coperto da una tettoja, di cui si vedono le tegole, spioventi verso il fondo; e poggia su due pi­lastri imbasati su un murello basso di cinta che si apre nel mezzo per dare accesso nell'atrio mediante uno scalino. Lungo il murello di cinta è un sedile di pietra. Nel fondo è il podere: tripudio di verde nel sole: un paradiso. Nel lato destro dell'atrio è l'apertura della scala che conduce al piano superiore della villa. Dì qua e di là sono altri due sedili di pietra, addossati al muro. Verso il fondo, dopo il sedile, un usciolo. Nel lato sinistro è la porta che immette, mediante uno scalino d'invito, nell'abita­zione del fattore. Nel mezzo della scena una vecchia tavola rustica e vecchie seggiole e qualche sgabello.

Al levarsi della tela sono in iscena Arcadipane e un contadino, già carico di fagotti. Un altro fagotto è per terra, e una grossa bisaccia sulla tavola. Arcadipane, alto, poderoso, con la barba crespa, nera, occhi grandi, ridenti e ingenui co­me quelli di un bambino, porta in capo un ber­retto nero villoso, che s'è fatto da sé, dalla pelle d'una capra; veste da contadino, di panno tur­chino, con gli stivaloni; invece del panciotto, sulla camicia bianca di grossa tela, ha un'altra camicia di albagio, violacea, a quadri rossi e neri. Il colletto floscio della camicia di tela è rimboccato su questa d'albagio. Alla vita una cintura di cuojo.

Arcadi pane (prendendo da terra il fagotto). Vedi se puoi, portare anche questo, così avremo finito di sgomberare.

Carica con garbo il fagotto sulle spalle del con­tadino. Intanto dalla porta a sinistra esce un altro contadino carico d'una cassa dipinta di verde. Lo segue Sara. Da lontano, si odono i sonagli d'una carrozza che si avvicina.

Sara.        Anche questa cassa sul carretto?

Arcadipane. Sì.

Al contadino:

Ma aspetta a scaricarla. Vengo io. Bisogna tro­varle posto; e legar tutto bene. Andiamo. Io prendo la bisaccia.

La prende.

Sara.        Sulla mula, la bisaccia.

Arcadipane. Oh, viene una carrozza: non saranno mica loro?

Sara.        No. Tropppo presto.

Arcadipane. Sunon resta più nulla?

Sara.        Più nulla. Va', va' a vedere chi può essere. Ma non è possibile che siano loro.

Rientra in casa.

Arcadipane dall'atrio segue i contadini che già sono svoltati a sinistra, uscendo dal fondo. La scena resta vuota per un momento. Rientra dal fondo  Arcadipane seguito dal dottar  donni.

Arcadipane. Ecco, entri, signor dottore. Se vuoi sa­lire — non so — qua da me, o dal figlio.

Indica la scala a destra.

Gionni.     No no. Riparto subito. Ritornerò, dopo la visita che debbo fare qua vicino, nella campagna del Lotti.

Arcadipane. Ah, per la madre: lo so. Pare che stia molto male.

Gionni.     Eh, purtroppo. Passando, mi son fermato per prevenirvi... —

Arcadipane. — aspetti: chiamo Sara.

Va alla porta a sinistra, sale lo scalino e chiama:

Sara, vieni:  c'è qua il signor dottore.

Sara entra dalla porta a sinistra.

Sara         (in apprensione). Che altro di nuovo?

Gionni.     Nulla, non s'allarmi. Voglio soltanto prevenire Lucio d'una cosa.

Sara.        Dev'esser su, Lucio. Strano che non abbia sentito i sonagli della vettura.

Gionni.     Dormirà.

Sara.        No. Magari! Non dorme più. E sono tanto in pensiero per lui, creda. Ora poi, con questa disgrazia del padre...

Gionni.     Sì, ma ormai...

Sara.        Lei non può immaginarsi quella sua povera testa —

Arcadipane. — senza mai requie —

Sara.        — con quegli occhi — io non so — come induriti, sì, mi fanno questa impressione: indu­riti dal dolore — eppure, accesi come avesse la febbre. Quello che pensa! Jersera m'ha detto che forse è prossima la resurrezione del padre.

Arcadipane. Oh come? E non è già risorto? col miracolo...

e accenna al Gionni.

Gionni.     Per carità, non dite miracolo, non dite miracolo anche voi!

Arcadipane. Logridano tutti a una voce!

Gionni.     È ben questo il male, a cui bisogna riparare!

Arcadipane. Male? Ne siamo sbalorditi tutti ancora! Non si parla d'altro nelle campagne.

Sara.        E figurarsi in città!

Gionni. Già, ma figuratevi anche lui, ora; voglio dire, quel che c'è da temere per lui, appunto per questo.

Arcadipane. Perché tutti gridano al miracolo della risurrezione?

Gionni.     Appunto, appunto. Non lo può ammettere, lui, codesto miracolo, credendo come crede.

Arcadipane. E perché no?

Gionni.     Perché Dio solo può richiamare da morte a vita.

Arcadipane. E come? non è stata forse volontà di Dio?

Gionni.     Ecco! Bravo! Non sono mica un diavolo per voi?

Arcadipane. Che dice mai, signor dottore!

Gionni.     Mi vedo guardato da tutti come uno che abbia il potere infernale di resuscitare i morti...

Arcadipane. Eh, ne ha resuscitato uno!

Gionni.     Appunto, per un miracolo! E proprio que­st'uno, che dovrebbe ringraziarne Dio, mi fa stare ora in tanta apprensione che venga a saperlo!

Sara.        Ah, ecco, dice forse per questo, Lucio, allora —

Gionni.     — che cosa? —

Sara.        — che è prossima la sua vera resurrezione!

Gionni.     Suppone che alla fine lo riconoscerà anche lui?

Sara.        Lospera, forse.

Gionni.     Farebbe bene a non sperarlo tanto. Son venuto appunto a prevenirlo circa al modo di comportarsi con lui, appena verrà; e ne prevengo anzi anche voi...

Sara.        — ma noi no, non lo vedremo noi, dottore: ce ne andremo prima ch'egli arrivi —

Arcadipane. — siamo sul punto d'andarcene —

Gionni.     — ah, già, scusate... —

Sara.        Vado su, vado su a chiamar Lucio.

Attraversa la scena ed esce,  salendo la scala a destra.

Gionni.     Eh, lo so! V'ho reso un cattivo servizio, Arcadipane.  Certo,  voi,  all'annunzio  della  morte... —

Arcadipane.  — non  crederà,  signor  dottore,  che Sara ed io ce ne fossimo rallegrati —

Gionni.     — non dico rallegrati, ma certo avreste potuto —

Arcadipane. — regolare la nostra unione? ah questo sì, subito.

Gionni      (quasi tra sé). Strano!

Arcadipane. Che cosa?

Gionni.     Potreste ancora...

Arcadipane. E come? con lui vivo?

Gionni.     C'è l'atto di morte —

Arcadipane. — sarà annullato! —

Gionni.     — per ora c'è — con tanto di firma del necroscopo. — Legalmente, è morto. —

Arcadipane. Lei non lo dice sul serio...

Gionni.     No, ma — certo — legalmente...

Arcadipane. Signor dottore, la legge... quella di Dio:  non ce n'è altra.

Gionni.     Ma i vostri figliuoli...

Arcadipane. Basterà loro non esser fuori della leg­ge di Dio. Non ho nulla da lasciar loro, altro che l'esempio dell'obbedienza a questa legge. Mi duole il cuore per una cosa soltanto: che non udrò più la mia voce qua sotto le tegole di que­st'atrio, che mi ricorda... ah se lei sapesse, quante notti, seduto su quello scalino là a guardare quel­la scala... S'immagini che amore ho potuto met­tere a queste pietre, a questa terra, a ogni albero che vi ho piantato, con lei.

allude a Sara

che da padrona mi s'è fatta compagna... — Ec­cola che ridiscende col figlio. Mi ritiro. Non gli ho mai parlato; non mi son lasciato nemmeno ve­dere da lui.

Via per il fondo, svoltando a sinistra.

Vengono giù dalla scala a destra Lucio e Sara. Lucio ha ventidue anni. Esile, pallidissimo, col viso scavato dal travaglio spirituale che gli ha acceso negli occhi una luce febbrile. Ha mani sensibilissime, gracili; e se le stringe spesso con­vulso. Non è affatto timido; anzi, come sospinto da un'ansia che, a volte, sembra irosa. Ha un po' d'impaccio dell'abito che indossa. Grigio, comperato belle fatto, piuttosto grezzo. Sem­bra un adolescente che porti per la prima volta i calzoni lunghi. Scende con la madre, in fretta.

Lucio.       No, no dottore —

Gionni.     — buon giorno, Lucio —

Lucio.       — buon giorno — io non potrò tacere, gliel'avverto, non potrò tacere, se egli viene qua —

Gionni.     — io intendevo, su ciò che gli è accaduto —

Lucio.       — tacere che cosa? —

Gionni.     — ma questo che dicono un miracolo — l'ajuto che ho prestato io...

Lucio.       — e perché tacerlo? —

Gionni.     — perché ancora non ne sa nulla! —

Lucio.       — nulla? —

Sara.        — che è stato lei?...

Gionni.     — per carità, non una parola su questo punto! Non ricorda nulla di nulla. Sa soltanto d'essere stato investito da un'automobile. Crede d'avere avuto una commozione cerebrale che gli ha tolto la memoria di tutto.

Sara.        Non sa dunque nemmeno dell'atto di morte?

Gionni.     Nulla, nulla! Non ne ha il minimo sospet­to, vi dico. Ringrazia Dio, che oltre la commozio­ne che, sì, poteva essere mortale, non abbia avuto altro danno dall'investimento.

Lucio.       E le pare possibile che non venga a saperlo?

Gionni.     Quel che preme è che non venga a saperlo ora, nello stato in cui si trova. Tu puoi compren­dere che sconvolgimento avverrebbe nel suo spirito.

Lucio.       E non crede che sarebbe salutare?

Gionni.     No, Dio liberi! Levatelo dalla testa! Gridò al sacrilegio per una coniglietta resuscitata, figu­rati ora, se venisse a sapere... Ti giuro, Lucio, che se non era per la tua sorellina che mi gridava di­speratamente di dare a lui quello stesso ajuto, io per me avrei esitato, me ne sarei fatto scrupolo, proprio per le conseguenze...

Lucio.       — e se ora io contassi?... —

Gionni.     — ma no, che dici? su queste conseguenze? —

Lucio.       — per richiamarlo alla vita, dottore, e far che Dio veramente — nel suo corpo rimesso in piedi — compia intero il suo miracolo!

Gionni.     Vuoi dunque rischiare d'ucciderlo?

Lucio.       Io? No, dottore. Guardi che lo rischia lei, piuttosto.

Gionni.     Come? Perché?

Lucio.       L'ha rimesso in piedi, per far di nuovo cam­minare... che cosa? un corpo soltanto?

Gionni.     Un corpo? Ma tuo padre ha la sua fede!

Lucio.       Appunto. Gliel'ha lei rispettata, rimetten­dolo in piedi con un mezzo ch'egli stima sacri­lego? Appena verrà a saperlo, lei lo avrà ucciso.

Gionni.     Ma mi sto dando appunto pensiero di questo, mi pare!

Lucio. Che non venga a saperlo? Se non sarà oggi, sarà domani.

Gionni.     A me basta che non sia in questo momento, almeno! Pensa infine ch'è stato proprio per causa tua... —

Lucio.       — non dica mia, non dica mia: dica ch'è stato per questa prova suprema — di vita — che Dio ha voluto mandare a lui e a me!

Gionni      (facendo spallucce). Prova suprema, prova suprema...

Lucio.       Eh, più di così? Non l'impedisca in nessun modo, dottore, se egli viene qua, oggi, per affrontarla.

Gionni.     Ma ti figuri che venga per questo?

Lucio.       Non viene per parlare con me?

Gionni.     Ma non aspettandosi, certo, a codesta prova suprema che tu dici!

Lucio.       E a che cosa, allora?

Gionni.     Ma io non so! Che tu receda, suppongo —

Lucio.       — dal passo che ho dato? E vuole che non gli dica le ragioni per cui l'ho dato?                

Gionni      (arrabbiandosi). Digliele pure! Fa' come cre­di! Gli sembreranno tutte eresie! Insomma, caro, senti: è veramente una sorte assai buffa, la mia! condannato a irritar tutti, sempre! Dev'esser la mia faccia — io non so — la mia voce... Rispetto la fede altrui, e irrito anche con la mia tolleranza! Penso come te, sento come te — ed eccoci qua — irritato tu, irritato io...

Lucio        (sorridendo). Ma no, io non sono affatto irritato...

Gionni.     E io sì; e me ne vado! Ho fatto, da me­dico, il mio obbligo; ti scongiuro, da amico, di lasciar per ora tuo padre nell'ignoranza di quanto gli è accaduto.

Sara.        Sì, sì, credo anch'io che tu non debba dirgli nulla, per ora.

Lucio.       Se credete che possa nuocergli, tacerò anche se mi costringerà a parlare —

Gionni.     — non dico questo!

Lucio.       Per forza, dottore! Vorrà parlarmi della mia fede perduta, e io dovrei allora rispondergli che non è vero che l'ho perduta, ma anzi acquistata —

Gionni.     — non per lui — acquistata... —

Lucio.       — la fede, ciascuno l'acquista per sé —

Gionni.     — no, intendo dire: a suo modo di vedere... —

Lucio.       — e acquistata, sa come? negando proprio quella morte, che voi avete tanta paura ch'egli venga a conoscere —

Gionni.     — negando? come la neghi, la morte? —

Lucio.       — col non presumere più che Dio, solo per il  fatto naturale che domani questo mio corpo cadrà come una qualunque foglia appassita —

Gionni.     — e non è morire questo? —

Lucio.       — ma no! che morire, dottore — un po' di polvere che ritorna polvere —

Gionni.     — questo lo dice anche tuo padre! — Lucio. — sì; ma egli presume appunto —

Gionni.     — già, sì; che il suo spirito —

Lucio.       — suo?come suo?Ecco, vede dov'è l'errore? —

Sara.        — nel dire il suo spirito? —

Lucio.       — ma sì, mamma! Ammetterlo eterno, infi­nito, e presumere che possa essere mio, di uno che è nel tempo, labile forma d'un momento, jeri o domani. Vedi com'è? Per non finire noi, annul­liamo in nome di Dio la vita, e facciamo regnare Dio anche di là (non si sa dove) in un presunto regno della morte, perché ci dia là, un premio o un castigo. Quasi che il bene e il male potessero esser quelli di uno che è parte, mentre Egli solo, che è Tutto, sa ciò che fa e perché lo fa. Ecco, vede, dottore? questo dovrebbe esser per lui, co­m'è stato per me, il vero risorgere dalla morte: negarla in Dio, e credere in questa sola Immor­talità, non nostra, non per noi, speranza di pre­mio o timore di castigo: credere in questo eterno presente della vita, ch'è Dio, e basta. E Dio al­lora veramente, dopo quest'esperienza che gli ha concesso di poter fare, compirà — e soltanto Lui — il miracolo della sua resurrezione. Non dirò, non dirò nulla; glielo prometto; mi lascerò dire da lui quello che vorrà; e farò di tutto, non du­biti, per non aver la sua sorte, dottore: dico, di irritarlo.

Gionni      (ammirato di quanto Lucio, con un fervore semplice e dolce, ha detto). Eh già! Purché poi tacendo, non lo irriti di più... È ben questa la mia sorte! Ora, per esempio, sono irritatissimo del con­siglio che t'ho dato. Basta. Speriamo che tutto fi­nisca bene. A rivederla, signora.

Sara.        A rivederla. Ma mi chiami Sara, non mi chia­mi signora. Tornerà?

Gionni.     Sì sì, tra poco. A rivederla.

Via per il fondo, voltando a sinistra. Si udrà, poco dopo, il suono delle sonagliere.

Sara.        Andrò via anch'io, ora...

Lucio        (avvertendo il suono). Senti, mamma?

Sara.        Che cosa?

Lucio.       Queste sonagliere.

Sara.        Sono della carrozza del dottore.

Lucio.       Quand'ero bambino, mi pareva che le cam­pagne aperte, di mattina, nel sole, fossero fatte per diffonderne il suono festivo.

Sara.        Ma la campagna tu, da bambino, figlio mio... —

Lucio.       — la vedevo dall'alto del cortile del Semi­nario, su a San Gerlando. I miei compagni nell'ora della ricreazione, si rincorrevano, gridando come pazzi e tirandosi su le tonache, per correr meglio. Io me ne stavo là in fondo, da dove si godeva la gran veduta della vallata verde, con lo stradone che la solcava; e vi scorgevo, piccole piccole, le carrozze che andavano in campagna, con l'attacco a tre, e me ne giungeva da lontano lontano — ecco, come ora — questo suono.

Voltandosi alla madre che piange

Tu piangi, mamma?

Sara.        Il pianto ch'è nella tua voce...

Lucio.       Sì, avevo... avevo un'angoscia... L'angoscia della vita che avrebbe potuto esser bella. Mi pa­reva di sentir l'allegria d'una corsa in campagna, in quel verde indorato dal sole, nell'aria aperta. Ho così forte il senso dei luoghi, l'odore delle cose. Penso a quando uscivamo dal Seminario a due a due per la passeggiata, passando accanto a uno di quei landò d'affitto, in piazza, ecco, ne sen­to ancora quel tanfo di rimessa e vedo perfino un filo di paglia tra le labbra bige di quei cavalli; odo sui lastroni della piazza il suono dei loro zoccoli ferrati, quando scalpitavano. Vedi, mam­ma, la fede, quand'ero così piccino là nel Semi­nario, era... era odore, sapore... l'odore dell'in­censo, della cera... il sapore dell'ostia consacrata... e uno sgomento dei passi che facevano l'eco nell'interno della chiesa vuota...

Sara.        Eri così tanto piccino... col visino anche allora così sbiancato... Ah che pena, figlio, quando ti vedevo venire a casa, nelle feste, con quella tonacella, che facevi l'atto anche tu. di sollevare, per correre a me, e subito la lasciavi andare pernon far ridere le ragazzine di strada che ti da­vano la baja: « l'abatino! l'abatino ». E avevi gli occhi come spauriti, quando mi guardavi...

Lucio.       (coprendosi gli occhi con le mani). Ah no, mamma, non ricordare!

Sara.        Perché?

Lucio.       Se sapessi che onta! perché avevo quegli oc­chi! Tutta la feccia della vita, così bambino, l'a­vevo già dentro; me l'aveva messo dentro uno, uno dei grandi, sai quello che poi impazzi? Si chia­mava Spano:  quello.

Sara.        Avevi appena sei anni...

Lucio.       E sapevo tutto! E non so se era più orrore in me o terrore. Terrore di quella bestia mala che insudiciava tutto con l'immaginazione e non ri­sparmiava nessuno!

Sara.        Anche di me ti parlava? Oh vile!

Lucio.       Non puoi immaginare in che soggezione mi tenesse! Faceva di me la sua volontà; m'atterriva!

Sara.        Ah tanto no, non lo sospettai mai!

Lucio.       Sapessi...

Sara.        Ti vedevo avvilito, mortificato, come un bam­bino della tua età non poteva essere; ma non avrei mai supposto per questo! Mi si torcevano le vi­scere, vedendovi così — l'uno e l'altra — teneri teneri — avvizzire; e vedendo lui, vostro padre — che non era possibile (ora credo) non ne soffrisse — duro, ostinato, per non darmela vinta. Diceva che stavate bene —

Lucio.        — ah sì, bene? —

Sara.        — Bene — e io, a prendervi le faccine e mostrargliele: — « Hai il coraggio di dire che stanno bene? ». Sentivo che non era vita per me da po­tersi reggere, con questo scempio che vedevo fare di voi, come alla mia stessa carne.

Lucio.       Eh sì, difatti, la povera Lia... —

Sara.        Come me la vidi riportare a casa — cionca — finita — e vidi le suore che, dopo avermela ri­dotta in quello stato, me la dovevano assistere e curare... —

Lucio.       — ah, loro? —

Sara.        — loro, capisci? non io! — loro! — m'avven­tai come una belva contro una; non so quello che le feci; me la strapparono dalle mani; mi presero per indemoniata.

Tronca, per frenare l'impeto d'odio che la rias­sale,  e subito riprende:

Lucio, me ne fecero scappare — scappare — co­me una pazza! Pregai, scongiurai che la mia crea­tura mi fosse portata qua: ero sicura che l'avrei guarita: ma qua, sola con me, senza di lui; non potevo più vedermelo davanti: l'avrei ucciso. Mi rivoleva. Sì, perché — faceva il santo, il tiranno —  ma poi,  quello che più m'inferociva di  lui, . quando mi s'accostava, era quella mollezza della sua timidità....

Tronca con un'esclamazione e un atto di schifo:

—  ah Dio! — Eppure ti giuro, Lucio, avrei, avrei fatto il sacrificio di resistere all'orrore che ormai ne avevo, purché ne fosse venuto un bene a voi, a voi, figli; e posi per patto che tu almeno fossi liberato e venissi qua con me, tu e la Lia. — Non volle, non volle. — E allora, lui no; e no anch'io! Quello che soffersi non te lo puoi immaginare: lo strazio mio qua, e il vostro là, a cui, anche se mi sacrificavo, non avrei potuto portar riparo.

Lucio.       Soche ricorresti ai tribunali —

Sara.        — mi diedero torto —

Lucio.       — torto? —

Sara.        — a me, sì! dissero che dovevo stare con lui e la figlia; e che la pretesa di levar te dal semi­nario non era giusta; e insomma che ero io — io e non lui — a voler la fine della famiglia. Fu tale l'esasperazione, dopo due anni di lotta ac­canita, disperata, che buttai via tutto, via tutto! — Che vuoi? mi prese l'odio! — Di qua si vede la città — non potei più guardarla — voltavo la faccia, appena gli occhi, senza volerlo, m'anda­vano là. L'odio di quelle chiese, di quelle case, e il tribunale... tutto! — Quando a una madre si nega d'attendere ai suoi figli, a una madre che vuole la salute per i suoi figli le si dà torto — che vuoi? ci si danna! Buttai via tutto e mi feci con­tadina — contadina qua, sotto il sole, all'aperto! Un bisogno mi prese, un bisogno d'essere selvag­gia; un bisogno di cadere a terra la sera come una bestia morta sotto la fatica — zappando, pestan­do le spighe sull'aja con le mule, a piedi nudi, sotto la canicola, girando a tondo con le gambe insanguinate e gridando come una ubbriaca — bi­sogno di essere brutale con chi mi pregava che avessi pietà di me — tu intendi chi — quest'uo­mo puro — puro, Lucio, come una creatura uscita ora dalle mani di Dio — quest'uomo che non ha saputo mai tollerare che mi facessi uguale a lui, e che impedì che mi dannassi, insegnandomi le cose della campagna, la vita, la vera vita che ha qui, fuori della città maledetta, la terra; questa vita che ora sento, perché le mie mani la servono, l'ajutano a crescere, a fiorire, a fruttare; e la gioja della pioggia che viene a tempo; e l'afflizione del­la nebbia che brucia, gli olivi sul fiorire; e hai visto l'erba sulla proda qua della stradetta, d'un verde così nuovo e fresco, all'alba, con la brina? e il piacere, il piacere, sai, di fare il pane con le tue stesse mani che hanno seminato il grano...

Lucio.       Sì, sì, mamma — e vedi che sono venuto a te...

Sara.        Figlio mio, la gioja che m'hai data, Dio solo che t'ha mandato me la poteva dare! E l'ho gri­dato, l'ho gridato a tuo padre, che mi son sentita ribenedetta! M'hai ripagato di tutto, figlio, con la tua venuta; e anch'io, vedi, di tutto ti posso par­lare, così senza vanto né rossore, perché io sola so quel che ho dovuto soffrire, scontare, per di­venire, così, come forse nessuno più intende che cosa voglia dire: naturale.

Lucio.       Io, l'intendo, vedendoti, sentendoti parlare.

Sara.        Mi sono veramente liberata; non desidero per­ché ho; non spero perché, ciò che ho, mi basta; ho la salute, il cuore in pace e la mente serena.

Lucio.       Ma tu non puoi, tu non devi, mamma, andar via di qua.

Sara.        Son già via:  tutta la roba è partita.

Lucio.       No, no: l'impedirò io! Di questo sì, gli parlerò, e forte!

Sara.        Tunon puoi impedirlo, Lucio —

Lucio.       — sì che posso! debbo! —

Sara.        — non puoi e non devi, no; e io, del resto, non voglio, non voglio.

Lucio.       Ma tutto quello che hai fatto qua... —

Sara.        — non l'ho fatto per me. Vorrei sì — e que­sto lo dissi anche a tuo padre — vorrei averlo fatto, per voi, per te e Lia. Questo sì, tu puoi provarti a impedirlo: che il podere — questa ric­chezza — vada perduto, in mano di nessuno. Tu hai pur diritto di difendere, se non per te, per la tua sorellina, questo bene. Ma non puoi per me, e non devi; ripeto:  io non voglio.

Lucio.       Sta bene:  lo farò per me e per Lia. Ma tu  dove andrai?

Sara.        Non temere, abbiamo già provveduto; sap­piamo dove andare: per ora, da un fattore no­stro amico, un po' lontano da qui, alle Favare; poi, l'anno venturo, ci sarà affidato un podere qua vi­cino, a mezzadria; e ci sarà da guadagnare un po' anche per noi che, finora, sai? non abbiamo gua­dagnato mai nulla. Si dovrà pur mettere da parte qualche cosa... —

Lucio.       — già, sì, per... Mamma, perdonami, io non ho ancora saputo trovar l'animo di parlartene: tu hai due figli...

Sara.        Sì, con lui — non l'hai ancora veduti — contadinotti, bruciati dal sole...

Lucio.       E lui... —

Sara.        — se sapessi, in quale apprensione, in quanta soggezione lo tieni... —

Lucio.       Io?

Sara.        Sì: teme e si vergogna; non gli par l'ora di andarsene; mi sa con te, e son sicura ch'è di là, in questo momento, come la cagna coi ciccioli, a cui il padrone ne abbia tolto uno per farlo vede­re, non osa ringhiare e allunga da sotto in su gli occhi pietosi a sogguardare che gli fanno...

Lucio.       Vuoi chiamarlo?

Sara.        Sì? vuoi che lo chiami?

Lucio.       Sì; coi bambini.

Sara.         Saranno qua fuori;  m'aspettano per partire.

Va in fondo e chiama verso destra:

Oh, Roro! Vieni... vieni, sì, qua... Coi bambini... vieni, vieni...

Lucio.       Lochiami Roro?

Sara.        Io, sì: si chiama Rosario; lo chiamo Roro. Il piccolo era già sulla mula. Eh, appena può cavalcare, lui, tutto felice!

Lucio.       Come si chiamano i bambini?

Sara.        Uno, Tonotto, il maggiore; e l'altro Michele. — Eccoli qua.

Entra dal fondo  Arcadipane  coi due  ragazzi per  mano.

Questo è Arcadipane.

                          

I due ragazzi corrono a lei: prima Tonotto  e poi Michele.

E questo è Tonotto. E questo

prende in braccio il minore

è Michele.

Lucio        (chinandosi a baciare Tonotto e poi baciando in braccio alla madre Michele). Come sono belli, mamma! Forti.

Sara.        Sani.

Ad  Arcadipane:

Tu non ti ricordi di Lucio?

Arcadipane. Sì, di quand'era bambino come quello.

Indica Tonotto.

Lucio.       Anch'io ho un ricordo... ma non so più se sia vero... Anche di te, mamma... Ma forse, non propriamente ricordo: una visione che mi fosse venuta — non so — come da un'altra vita; come a guardare da una profonda lontana lontana fi­nestra di sogno. Ma rivedendoti, ora... non so, m'è nato il dubbio che...

Sara.        Ma si sa che ora sono un'altra!

Lucio.       Sì, certo; ma il dubbio, dico, che io l'abbia sognata, quell'immagine; era così un'altra... — No, sai, non più bella, mamma! anzi... Sei così bella ora, tanto, tanto più bella! E quella, anzi, così triste... E anche di lui, l'immagine che serbavo... Ma dimmi un po',  mamma  (non ridere) — tu non ricordi che a casa nostra... — quando c'eri —  ci fosse una gatta bianca?

Sara.        Una gatta bianca? quando tu?...

D'improvviso,  sovvenendogliene  l'immagine:

—  sì sì, c'era, c'era! Ma non una gatta, un gatto era — sì sì — bianco — un bel gattone bianco —  eh altro! — si, mi ricordo!

Lucio.       E allora...              

Sara.        Allora, che cosa?

Lucio.       Quella che ho sempre ricordato, mamma, sì, doveva essere la tua immagine. - Una grande stan­za... una sala da pranzo - grande - dal tetto basso —

Sara.        — ma sì, quella della casa dove stavamo prima —

Arcadipane. — alla scesa di San Francesco —

Lucio.       — io non me la ricordo affatto — ho solo, vaga, l'impressione di quella sala —

Sara.        — sì, con una finestra che dava sugli orti, di là dalla strada —

Lucio.       — c'era in mezzo una tavola quadrata — la vedo — con un solo posto apparecchiato su una salvietta, ancora con le pieghe della stiratura — una bottiglia di vino nero, con la schiuma nel collo della bottiglia — (potrei prendermi sulle dita il filo di sole che vi batte sopra, dagli scuri della finestra accostati). — Lui sta seduto davanti a quella salvietta e mangia a capo chino. — Il gatto bianco sta seduto sulla tavola, in punta, dall'altro lato, ritto su le zampe davanti, con lacoda che gli pende dalla tavola e che si muove di tanto in tanto, quasi per conto suo, come una serpetta. Tu, mamma, parli con lui e non badi a me; a un tratto ti volti, ti pieghi su le ginoc-chia, m'abbracci e, non so perché, ti metti a pian­gere, stringendomi forte forte; io, di sulla tua spalla, mi sporgo a guardar lui, come per il so­spetto che sia lui a farti piangere; lo vedo alzare, brusco, con gli occhi rossi di pianto anche lui; andare a un angolo della stanza; prendere un fu­cile là appoggiato; ho una gran paura e sto per gridare, quando tu mamma d'improvviso mi lasci e corri dietro a lui uscito precipitosamente; resto come sospeso, smarrito, allora, e vedo il gatto balzare al piatto, addentare la carne rimasta e fuggire saltando dalla tavola. È curioso come mi sia rimasto così vivo il ricordo di questo gatto; mentre le vostre immagini — la tua, la sua... Ri­cordo bene il pianto.

Sara.        Era per te, figlio — anche il suo —

Arcadipane. — per ciò che ella soffriva! —

Sara.        — mero ridotta a sfogarmene con tutti —

Arcadipane. — ed era la pietà di tutti!

Sara.        Lucio, ora ti dico una cosa — davanti a lui. Non l'ho detta prima d'ora, neanche a me stessa. Quando, disperata, lasciai la casa e venni qua, sapevo, m'ero accorta che sotto la pietà di lui c'era già un sentimento per me

voltandosi ad Arcadipane

— di', è vero? è vero? —

Arcadipane (più col cenno del capo che con la voce, raumiliato). — sì, è vero —

Sara.        — una donna fa presto ad accorgersene, pur lasciando li l'avvertimento che se ne ha, come non avvertito, e seguitando a trattare come po­tevo io allora trattar lui —

Arcadipane. — ero il suo servo — e giuro che an­che il mio sentimento... —

Sara.        — non c'è bisogno che tu lo giuri; vedi che ho premesso che sto dicendo una cosa che rivelò ora per la prima volta a me stessa: anche tu non volevi aver coscienza che m'amavi, non è vero?

Arcadipane. — ne avevo paura!

Sara.        Ebbene, e io ora debbo dire che fu proprio questo, sì, quest'avvertimento segreto dell'amore di lui, Lucio, a tirarmi alla terra, a far la conta­dina; anch'io senza volerne aver coscienza, anzi come per una pazzia che volessi fare; ma senten­do in fondo che così soltanto mi sarei guardata dall'impazzire: si, proprio, facendo la contadina come una pazza! E perciò tutti quegli sgarbi a lui, che non voleva ancora capire e cercava di trattenermi! — Devi ora capire anche tu, Lucio, che — avendo tagliato la mia vita, così come so­no stata costretta a fare — a te che ritorni, figlio mio, da quella vita che non poté più essere mia, io non posso, non posso più trovar posto in que­sta d'ora, ch'è di lui e di queste due creaturine. Io debbo, debbo andare con loro.

Lucio.       Sì, mamma, è giusto; e non pensare ch'io voglia, o che abbia sperato con la mia venuta... —

Sara.              — lo so, Lucio: lo dico per rinfrancare lui di fronte a te.

Ad Arcadipane:

Ora ce n'andremo.

Lucio.       So  anche che non posso- nemmeno  venire con te...

Sara.        No, Lucio, non puoi.

Lucio.       Ma vorrei che tu almeno... —

Sara.        — di', di', che cosa? —

Lucio.       — ecco — anche nascosta, mamma... —

Sara.        — nascosta? io? —

Lucio.       — sì, — mi dessi la forza — dopo che avrò parlato con lui — di prendere il mio nuovo cam­mino — solo, come dovrò, e senza più l'ajuto di nessuno, senza più stato.

Sara.        Ma no, perché? Non vorresti rimanere? —

Lucio.       — dove? — accanto a mio padre — così?

Indica il suo abito non più da prete.

Tu sai com'è!                                               

Sara.        Ma non potrà mandarti via!

Lucio.       Mandarmi via, no; ma non vorrà più, certo, darmi i mezzi per ritornare ai miei studi —

Sara.        — te li darò io i mezzi, se lui non vuole, a qualunque costo! —

Lucio.       — no, mamma; tu non puoi —

Sara.        — potrò, potrò, si, — a qualunque costo, ti dico! —                                            

Lucio.       — non puoi, intendo, per la stessa ragione, mamma, per cui non è possibile ch'io venga con te.

Sara.        Ma non è la stessa cosa! No! Se li accettassi da lui...

indica Arcadipane.

Li avrai da me, dal mio lavoro —

Lucio.       — lo devi ai tuoi figli quanto verrà dal tuo lavoro. No. E del resto, forse è meglio ch'io ab­bandoni i miei studi e mi provi anch'io, mamma, a liberarmi come te —

Sara.        — no! no! —

Lucio.       — sì, a trovare anch'io la mia naturalezza —

Sara.        — no! —

Lucio.       — perché diventi semplice e facile anche la mia vita nell'umiltà d'un lavoro manuale —

Sara.        — ma non potrai! —

Lucio.       — potrò, potrò —

Sara.        — non ne avrai la forza —

Lucio.       — la troverò —

Sara.        — no, no: devi fare altro bene, tu con la luce, figlio, che hai qua, nella fronte.

Lucio.       Potrò sempre farlo, anche lavorando umilmente.

Sara.        Non devi, no; in questo non devi prendere esempio da me, no: io ho potuto farlo perché soltanto così potevo trovare la mia liberazione, e salvarmi. Ma tu no, tu hai tante vie davanti a te —

Lucio.       — non ne vedo per ora nessuna —

Sara.         — se non hai potuto camminare per quella su cui egli da bambino ti volle mettere, avrà lui l'obbligo, ora, di darti il tempo e il modo di trovarne un'altra, degna di te, su cui camminare e arrivar lontano!

Lucio.       Ecco, mamma, sì. — Ma non per parlare di me, no; per parlare di tutto; io ho bisogno d'un conforto che in questo momento puoi darmi tu sola. Sono venuto da te, sfidando tutto, soltanto per avere questo conforto.

Sara.        Sì, sì, dimmi, che conforto?

Lucio.       Sentirti vicina (sia pure nascosta) quando parlerò con lui; anche per tenermi dal dire ciò che non debbo. Ho bisogno che questa forza mi venga da te: non me la negare. Poi andrai via. Nessuno ti tratterrà. Nessuno ti vedrà.

Sara.        Sì, Lucio, se tu vuoi —

Arcadipane  (in apprensione). Ma nascosta, dove?

Sara.        — no: non nascosta: perché nascosta? l'ho già veduto e gli ho parlato a viso aperto: saprei, a un bisogno, riparlargli. Aspetterò là: le stanze son vuote: non potrà credere ch'io voglia rima­nere: non c'è più neppure una seggiola: sederò su lo scalino sotto la finestra: aspettando che tu abbia finito di parlargli.

Arcadipane. No, Sara... non lo fare!

Sara.        Di che temi?

Lucio.       Ne rispondo io. Verrà via con me: tornerà ai suoi figli e a voi, non dubitate.

Arcadipane (a Sara). Ma non gli parrà che egli difenda la terra anche per te, se tu rimani qua?

Sara.        Gli ho già detto in faccia che non abbiamo bisogno del suo podere per vivere; se a noi non è venuto mai nulla...

Lucio.       E nulla io farò per impedirgli di disporne come vorrà, state tranquillo. Accanto a lui, ri­peto, non potrò più stare: andrò via anch'io. Del resto, mamma, lascia: va, va pure con lui: mi farò forza da me.

Sara.        Nono: io starò là, starò là.

Si odono i sonagli d'una vettura

Andate, andate. Aspettatemi nel podere del Lot­ti: vi raggiungerò. Se non è il dottor Gionni di ritorno, saranno loro. Va', va'.

Arcadipane, via dal fondo coi due ragazzi. Il rumore dei sonagli s'approssima.  Sara s'avvia alla porta a sinistra, prima d'entrare,  dice a Lucio:

Io sono qua, figlio mio.

Entra e richiude la porta.

Lucio resta in attesa. Poco dopo, la vettura, di là, si ferma. Si ode la voce di Cico.

Cico.         Ecco,  ecco:   la carrozzina è qua!  Ajuto  io! ajuto io!

Deodata.       No, no, piano, Cico, lascia:  so io come debbo prenderla.

Cico.         Pronta qua la carrozzina! — Ecco, brava. — E ora corre come sulle sue gambette!

Appare in fondo, nel sole, Lia sulla sua sediola a ruote. Seguono, correndo, Cico e Deodata.

                           

Lia.           Lucio! Lucio! Dove sei?

Lucio        (accorrendo e abbracciandola). Eccomi, Lia!

Deodata  (con una maraviglia subito spenta dalla delusione e quasi dal disprezzo). Eccolo là!

Cico.         Oh, guarda! Non me n'ero neanche accorto...

Lia             (staccandosi dall'abbraccio).   Lasciati   vedere! Nooo, buffo! Dio, sembri più piccolo!

Deodata.       Hai faccia da comparire così...

Cico.         Pare uno qualunque...

Lia.           Non sembri più tu!

Deodata.       Sapessi che effetto fai a chi ti rivede! Ma dov'hai comprato cotesto abito? Non vedi come ti sgonfia da collo?

Lucio.       Che volete che m'importi? — Dov'è il babbo? Non viene?

Lia.           Viene, sì, con Monsignore, in un'altra vettura: hanno aspettato il notajo.

Lucio.       Per la cessione del podere?

Deodata.       Figurati, appena ti vedrà così! Non vorrà più saper altro! — Intanto, guardala:

Prende la faccia di Lia e la mostra a Lucio

le è bastato prender  aria qua,  appena  appena: guardala, s'è tutta colorita.

Lia.           È tanto bello qua! tanto bello!

Lucio.       Dunque, sempre ostinato?

Deodata.       Tuo padre? più che mai!

Lia.           Sì:  lo vedrai... fa paura; e anche una pena... una pena, Lucio...

Lucio.       Ma non sospetta ancora nulla?

Lia.           Di che?

Lucio.       Di ciò che gli è accaduto?

Lia.           Ah, no! neanche per ombra!

Deodata.       Nulla!

Pausa tenuta.

Cico          (assorto, come tutti gli altri, nella cosa terri­bile accaduta). Ed era morto! Proprio morto!

Pausa.

Deodata.       Morto, sì.

Lia.           Come l'ho visto...

Lucio        (con intenzione). Morto?

Lia.           Sì.

Lucio.       E allora, dillo! Morto. Devi dirlo anche tu!

Lia.           Morto, morto, sì.

Deodata.       L'abbiamo visto tutti!

Cico.         Morto.

Deodata.       Anche Monsignore!

Cico.         Anche lui: morto, lo vide bene. E poi l'accertarono due medici!

Deodata.       Uno scrisse l'atto di decesso.

Pausa.

Lucio        (a Lia). Fosti tu, è vero?

Lia.           Io, che cosa?

Lucio.       A far chiamare il dottor Gionni?

Lia.           Ah, sì, io, io: mi misi a gridare! Nessuno voleva!

Deodata.       Io, perché non ci credevo!

Cico.         Monsignore non voleva! non voleva! Corsi ioper lui, a chiamarlo, il dottor Gionni. Lo volevo vedere anch'io là, davanti al cadavere!

Lucio.       E allora?

Lia.           Subito, sai?... subito...

Lucio.       Che cosa?

Lia.           — gli si rimise a battere il cuore, e il viso, da bianco che era... —

Cico.         — bianco... bianco... —

Deodata.       — di cera —

Lia.           — subito ritornò... — non ti so dire... — si vide... si vide che il sangue aveva ripreso a muoverglisi nelle vene —

Deodata.       — e il respiro a sollevargli il petto —

Cico.         — riaprì le labbra —

Lia.           — sì, che cosa!  appena appena!  — la mia gioja — era lì,  ancora senza coscienza di vita,  ma non più morto! gioja ma — insieme — una cosa... una cosa che atterriva! —

Deodata (con tono cupo, e voce lenta e spiccata). — ancora, a pensarci, mi prende il tremito.

Pausa lunga.

Cico          (piano, come in confidenza, a Lucio, diaboli­co). Hai avuto ragione, sai, di spogliarti.            

Deodata (subito, forte, aspra, a Cico). No! — Non dirlo! non dirlo!

Cico.         M'è scappato!

E si tura la bocca.

Deodata.       M'avevi promesso di non dirlo.

Cico.         Non dirlo... Ma se poi lo pensi!

A Lucio.

     

Tu capisci: Morto — non sa nulla. Dov'è stato? — Dovrebbe saperlo, e non lo sa. — Se non sa neppure della sua morte, nulla, è segno che, per chi muore, di là non c'è più nulla — nulla.

Pausa.

Lia            (dopo una strana risatina, quasi tra sé). Le mie alucce, Deodata? Le alucce d'angeletta... Dovevo averle in compenso dei piedi che mi sono man­cati per camminare sulla terra... Addio voli lassù!

Lucio        (commosso). No, Lia...

Lia            (dolce). Eh, se il paradiso non c'è...

Pausa. E poi, tra silenzi, con cupa lentezza:

Cico.         L'altra casa del Signore... la casa di là... per tutti quelli che qua hanno patito rassegnati...

Deodata (c. s.). e non hanno goduto per non peccare...

Cico          (c. s.). gl'infelici, i diseredati...

Deodata (c. s.). La buona novella di Gesù...

Cico          (c. s.). Nulla... più nulla...

Si son sentiti, durante queste ultime battute, i sonagli d'una vettura, fievoli. Ora il suono è cessato. Momento d'attesa, pieno di sgomento e d'angoscia. Sopravviene dal fondo il dottor Gionni.

Gionni.     Zitti, zitti tutti. Viene. Ha saputo!

Lucio.       Ha saputo?

                          

Gionni, fa cenno di sì col capo.

Nel silenzio che incombe, grave di tutto quello sgomento e quell'angoscia, Diego Spina si fa avanti dal fondo seguito a qualche distanza da Monsignore Lelli e dal notajo Marra. Non ve­de nessuno. Scende lo scalino tra i due pilastri, viene alla tavola, cade a sedere a un lato di essa, bianco di terrore, con gli occhi sbarrati nel vuoto. Tutti lo guardano sospesi e smarriti, se­guitando a tenere il silenzio, che è quello ester­refatto della vita davanti alla morte.

T E L A


ATTO TERZO

La  stessa scena del secondo atto,  pochi  momenti dopo.

Al levarsi della tela si rivedrà il quadro finale dell'atto precedente, e cioè gli stessi personag­gi nella stessa posizione e nello stesso atteggia­mento. Mancano soltanto Diego Spina e Lucio. Poco dopo, Lucio scenderà dalla scala a destra e tutti si volteranno a guardarlo, ansiosi.

Lucio.       S'è chiuso dentro.

Lia.           L'hai chiamato?

Lucio.       Hotentato di farmi aprire.

Monsignore. Non ha voluto?

Lucio.       No.

Lucio.       Alla mia insistenza, ha gridato: « Vattene! ».

Pausa.

Gionni      (in apprensione). Vada su, vada su, tenti lei, Monsignore!

Lucio.       No, Monsignore. Dal tono con cui m'ha im­posto d'andarmene, è certo che in questo mo­mento respingerebbe anche lei. Non vada.

Pausa.

                          

Monsignore. È terribile.

Pausa.

Lucio.       Forse è bene che misuri da solo quest'abisso della sua fede. E Dio allora risorgerà in lui.

Monsignore (urtato, severo). Dio? Quale Dio vuoi che risorga più in lui?

Lucio        (semplice). Quello che è in tutti noi, Monsi­gnore, per cui siamo in piedi.

Monsignore (voce da pulpito, ma sincero). In pie­di? Ma come, in piedi? Non vedi? Coi ginocchi che tremano dal terrore? E quella tua sorellina là — guardala! — non è in piedi. Fai mancare a tutti la terra, apri l'abisso e dici in piedi? Guarda là quella donna!

Indica Deodata.

Guarda quel vecchio!

Indica Cico.

Cico          (tutt'un fremito). Lasci star me, lasci star me, Monsignore! Basta col suo Dio!

Si strappa dal capo il berrettino rosso e lo scaglia a terra.

Ho il mio diavolo, io, che d'ora in poi non me lo gabba più nessuno!

Raccatta da terra il berrettino e se lo ricalca in testa.

Basta! — E non dica vecchio! Vecchio, un corno!

Voltandosi di scatto a Deodata:

Deodata, mi vuoi? Ti sposo io!

Corre ad abbracciarla.

Ti sposo io, ti sposo io, Deodata!

Deodata (divincolandosi, mentre il notajo Marra ride a crepapelle, e ride anche, ma d'un altro riso, quasi involontario, Lia). Levati, lasciami, pazzo!

Cico          (senza lasciarla, frenetico). Ti sposo qua, ora stesso, senza né legge né sagramenti; come i cani! E vedrai che godere non è peccare!

Monsignore (imponendosi, mentre il Gionni, ac­corso, respinge Cico con una manata sul petto). Basta, Cico!

Deodata (c. s.). Ma sarai tu cane! Lasciami!

Gionni.     Lasciala!

Cico          (rivoltandosi contro il Gionni). Chi vi c'immischia, voi?

Gionni.     Non siamo bestie; siamo uomini!

Monsignore (al notajo Marra, che seguita a ride­re). E voi smettete di ridere, notajo! — Non impazziamo!

Intanto Lucio si sarà coperto il volto con la mano.

Gionni      (al notajo). Pensate che di su vi può sen­tire! E siete stato proprio voi...

Marra.     Senza volerlo, scusate! Ignorando che non ne sapesse nulla...

Gionni      (a Monsignore). E io ch'ero corso qua a prevenire il figlio! Ma potevo mai supporre che proprio oggi, venendo per la prima volta — (im­maginavo per parlare con lui)

indica Lucio

— dovesse portare il notajo?

Marra.     Eh, volendo stendere l'atto di donazione del podere...

Gionni.     Bravo! A saperlo! Ho creduto, ripeto, che venisse per persuadere il figlio a non dargli il do­lore di quest'abiura...

Marra.     No,no: intendo dire che per forza sarebbe venuto a sapere. Deve firmar l'atto. E come po­tevo farglielo firmare, se figura morto allo Stato Civile? Credevo che lo sapesse; e allora, ridendo, gli domando: «Oh, a proposito, vi siete fatto cancellare dal registro dei morti? ». Vedo Monsi­gnore farmi subito un atto, e lui sbiancarsi in viso e aggrottare le ciglia...

Gionni      (a Monsignore). Ma lei non tentò? —

Monsignore. — tentai; ma lui

indica il notajo

senza capire —

Marra.     — dica senza poter supporre! —

Monsignore. — si mise a parlare del vostro miracolo...

Marra.     Ma tutta questa impressione, poi, dico la verità... — Sì, capisco, venirlo a sapere così di colpo... — Ma, dopo tutto, se fosse capitato a me... Morto, sia pure... — mezz'ora (quant'è sta­to?) tre quarti d'ora... Però, se ora mi tocco e posso dire:  « sono vivo... ».

Monsignore (ergendosi, severo). Vi pare che possa bastare? Vivo?

Staccando le sillabe:

Ma come? vivo?

Marra.     Eh, vivo... non lo vorrà negare! importa come?

Monsignore. Importa sopra ogni cosa!

Marra.     Losa qua il dottore, come; e lo sappiamo tutti.

Monsignore. Ma non siamo qua per vivere sol­tanto, noi! E l'altra cosa che dobbiamo far tutti

—  morire — è tal cosa che — voi l'avete veduto —  non saperne nulla, non poterne dir nulla, im­porta questo:  sentire subito come spenta la vita, e restare annientati.

Pausa.

Deodata (nel silenzio). La disperazione.

Pausa.

Cico          (nel silenzio). La sua anima, appena uscita dal corpo doveva comparire davanti alla Giustizia Di­vina. Non è comparsa. Che vuol dire? Non c'è giustizia divina. Non c'è nulla di là.

Pausa.

Addio chiesa, Monsignore. Addio fede!

                                            

Pausa.

Lia            (nel silenzio, con una vocina chiara, in cui quasi sorride per troppo tremore l'angoscia d'una dispe­rata necessità). Bisogna che Dio ci sia anche di là.

Lucio        (come trasfigurato in un impeto di commo­zione   divina).   Sì, Lia, c'è! Sorellina mia, c'è —  sì — ora sento che c'è — ci dev'essere, ci de­v'essere! — Sì, Monsignore:  ridare le ali a cui sono mancati i piedi per camminare sulla terra! —  C'è! C'è! — Ora intendo e sento veramente la parola di Cristo:  carità! Perché gli uomini non  possono  star  tutti  e sempre in piedi,  Dio stesso vuole in terra la sua Casa, che prometta la vera vita di là; la sua Santa Casa, dove gli stanchi e i miseri e i deboli si possano inginocchiare e tutti i dolori  e tutte le superbie inginocchiare! Ecco, Monsignore, così,

s'inginocchia

davanti a Lei, ora che mi sento degno di nuovo di rindossar l'abito per il divino sacrificio di Cri­sto e per la fede degli altri!

Monsignore (chinandosi e posandogli le mani sul capo). Figlio mio benedetto, ecco che Dio dalla mente ti ridiscende nel cuore!

Deodata (giojosa e stupita). Rindossa l'abito?

Cico          (quasi feroce). Ma il fatto? ma il fatto?

Monsignore (ancora curvo su Lucio). Che fatto?

Cico.         Di lui su, che ritornato in vita, non sa nulla di là?

Monsignore. E chi t'ha detto che Dio conceda di sapere a chi ritorna di là? Tu devi credere e non sapere!

Lucio        (rialzandosi). In Dio non si muore!

S'avvia, raggiante, alla scala a destra per andar su a rindossare il suo abito sacerdotale. Sara che ha ascoltato tutto, nascosta, a questo punto apre la porta a sinistra e si mostra tutta tre­mante di commozione. Chiama il dottor Gionni.

Sara.        Dottore, dottore...

Tutti si voltano stupiti.

Gionni      (avvicinandosi). Ah, lei, signora? Era di là?

Sara.        Sì. Come lui aveva voluto.

Gionni.     Lucio?

Sara.        Sì. Perché gli dessi forza... ma l'ha trovata, l'ha trovata in sé lui stesso, la forza di compiere il sacrifizio —

Gionni.     — per la salvazione del padre. Forse ora su, come lo vedrà rivestito —

Sara.        — sì, sì: tremo tutta, mi vede... Ora non ha più bisogno di me, e io me ne posso andare. Gli dica che lo benedico per quello che fa. Nessuno più di me può sapere che cosa sia. M'ha parlato della vita: come la sente! come la sente! come la vivrebbe! — Ci rinunzia. Va a rimorire nel suo abito.                                                            

Gionni.     Ha detto egli stesso che in Dio non si muore.

Sara.        Sì. E così è vero, ecco, così è vero che anche in terra ci sono i santi.

Monsignore. Per riaccendere nel bujo della morte il divino lume della Fede, che è carità per tutti quelli a cui fu negato ogni bene nella vita.

Deodata.       Avrebbe potuto mantenerlo acceso in sé questo lume, senz'aspettare di veder la morte e la disperazione di suo padre e di noi tutti.

Monsignore. E voi non avreste allora veduto que­sto richiamo di Dio in lui e la necessità della Fede.

Cico          (irritatissimo). Ma non dite altre parole, non dite altre parole. A me basta soltanto quello che Lei ha detto poco fa; che Dio può non concedere di sapere, a chi ritorna dì là: ecco, questo.

E subito, sotto sotto, come se veramente in lui parlasse un altro

Benché potrebbe concederle e farci sapere, visto che c'è uno ch'è ritornato!

Monsignore. Finirebbe la vita...

Cico.         Perché finirebbe?

Monsignore. Perché la vita è a patto che tu la viva appunto senza sapere, solo credendo. Guaj a chi crede di sapere! Dio solo sa tutto e l'uomo da­vanti a Lui deve chinare la fronte e piegare i ginocchi.

Si ode a questo punto dall'alto, ma rintronante nel fondo della scena a sinistra, il fragore d'una fucilata. - Restano tutti allibiti. - La prima im­pressione è che Diego Spina si sia ucciso. Tut­ti si voltano a guardare in su, verso la scala.

Deodata.       Oh Dio, ch'è stato?

Cico.         S'è ucciso! s'è ucciso!

Lia.           No, papà, papà! Correte! Correte!

Monsignore. C'è su Lucio! Possibile!

Gionni      (trattenendo Cico). Ma no, il colpo è rintronato di qua!

Accenna in fondo a sinistra.

E dal fondo a sinistra appare difatti Arcadipane, tutto stravolto,, ferito alla testa di striscio, con le mani insanguinate sulla tempia manca. Sara appena lo vede, dà un grido e corre a lui, atterrita. Parlano tutti simultaneamente,

Sara.        Ah! Tu? Chi è stato? Che t'hanno fatto?

Monsignore. È stato lui?

Arcadipane. M'ha tirato. Dalla finestra. Non è nien­te! Non è niente! Qua, di striscio.

Gionni.     Fate vedere! Fate vedere!

Marra.     È impazzito? Dopo tant'anni?

Lia.           Che è stato? Che è stato?

Deodata. Tuopadre! Gli ha sparato dalla finestra!

Cico.         Ha voluto ucciderlo!

Sara         (al Gionni che osserva la ferita). Che cos'è, che cos'è, dottore?

Gionni.     Niente, proprio niente, per fortuna! Appena una scalfittura!

Ma vien giù dalla scala a precipizio Diego Spi­na, come un pazzo, ancora armato di fucile, con Lucio rivestito dell'abito talare, che cerca di trattenerlo. Scattano gridi simultanei d'orrore, di terrore, di richiamo, di supplicazione.

—  Ah Dio, eccolo!

—  No! No!

—  Papà! papà!

—  Dio di misericordia!

—  Trattienilo, Lucio! Trattienilo!

Ed è in tutti quella perplessità tra il coraggio e la paura, se lanciarsi a disarmarlo o schermirsi dalla mira; mentre Diego Spina cerca col fucile imbracciato Arcadipane, gridando a Lucio da cui s'è svincolato:

Diego.       Lasciami!

E agli altri:

Fate largo! largo! Prima l'uccido; poi m'arresterete!

Sara         (lasciando Arcadipane e facendoglisi incon­tro). Chi uccidi? Perché vorresti ucciderlo?

Lucio        (accorrendo a ripararla). No, mamma!

E contemporaneamente Arcadipane, divincolan­dosi tra quelli che cercano di trattenerlo e ripararlo.

Arcadipane. No, che fai, Sara? Lasciatemi!

Ma alla sfida di Sara, Cico ha spiccato un salto e s'è buttato sul fucile spianato; l'ha fatto ab­bassare e ha afferrato alla vita Diego Spina, che tenta liberarsene, dibattendosi. Seguitano a par­lar tutti simultaneamente.

Cico.         Fermo! Siete pazzo?

Diego.       Ah cane! Levati!

A Sara:

No, non te! Via tu! Lui! Lui!

Sara.        Ma ucciderai me prima!

Monsignore. Bravo, Cico! Tienilo, tienilo forte!

Gionni      (accorrendo). Per carità, signor Spina!

Marra      (c. s.). Dite sul serio, dopo tant'anni?

Deodata. Qua c'è sua figlia! c'è sua figlia!

Lia.           Papà! papà mio!

Diego        (seguitando, rivolto a Sara e poi agli altri, la sua battuta). Non deve più vivere! Non deve più vivere! Lasciatemi!

Sara         (c. s.). Ma sì, lasciatelo. Sono qua io! Lascialo,  Cico! Voglio vedere che vuol fare!

Arcadipane. Non lo cimentare, Sara!

Sara.        Aspetta tu là!

Lucio.       Mamma!

Sara         (a Lucio). E tu levati! Lasciatelo parlare con me!

A Diego:

Che vuoi fare?

Diego.       Non lo so! Non lo so! Posso far tutto!

Sara.        Tunon puoi far nulla!

Diego.       Tutto! Tutto!

Sara.        Perché non ti credi più tenuto da Dio —

Cico.         Vi teniamo noi!

Sara.        — diventi bestia e uccidi? ma neanche le be­stie uccidono così!

Diego.       Non ho più ragione, più ragione di nulla! Posso far tutto!

A Cico che non lo lascia, cedendo l'arma, con uno scatto di tremenda esasperazione:

Prenditi il fucile, lasciami!

Cico lo lascia, tenendosi il fucile.

Ecco, sono disarmato: arrestatemi! È là ferito. Ho voluto ucciderlo, sì; appena l'ho visto dalla fine­stra, qua sulla terra, sulla terra —

Sara.        — aspettava me, per andarcene —

Diego.       — no! dico sulla terra, dove sono caduto da tutta quella menzogna lassù... La terra... le co­se... tu che ci sei rimasta con lui... Ah ma ora no, sai? ora no! ora no...

E di nuovo si lancia, per prenderla; ma è subito di nuovo trattenuto; come di là Arcadipane che a sua volta si lancia; e di nuovo tutti parlano simultaneamente.

Cico          (di qua, attorno a Diego Spina con Monsi­gnore e il Marra). Ancora? Ah non vi lascio più!

Monsignore. Non vi basta quello che avete fatto?

Marra.     Quest'è pazzia!

Diego.       Né io né lui! Non posso più tollerarlo! Né io né lui. Sì, sì, sono pazzo!

Arcadipane (tra Sara, Lucio e Deodata che lo trattengono). Guaj a voi se v'attentate a toccarla! Ah vorreste ora riprendervela?

Sara.        No, tu no! Tu sta' qua! Basto io! basto io!

Lucio.       Lasciatelo dire! Consideratelo!

Deodata.       Non è più lui! Non è più lui!

Diego        (seguitando, rivolto a quelli che trattengono Arcadipane). Ma sì, lasciatelo!. M'uccida, m'ucci­da, è meglio! Ne ha il diritto: io ho voluto uc­cidere lui! Tutti i delitti, e anche questo! Tanto, non si paga nulla, se tutto si paga qui! La car­cere? È tutta carcere, carcere senza scampo! Di là non c'è nulla! Lo so io!

Di scatto, al Gionni:

Dottore, vi siete divertito a pungermi il cuore, come un coniglio?

Gionni.     Ma è stata la vostra figliuola — guardatela!

Lia            (straziata). Papà, papà mio!

Diego        (buttandosi sulla sediola di Lia). Figlia mia, figlia mia, perché l'hai fatto? per farmi vedere questo scempio, questo scempio che ho fatto di te?

Rialzandosi e rivoltandosi al Dottore:

Ma voi che lo sapevate, tutto quest'orrore che mi sarei trovato davanti, riaprendo gli occhi, come vi siete prestato? Perché io sono stato morto — voi lo sapete — l'avete visto tutti, — morto, — morto, — l'avete visto anche voi, Monsignore!, — morto, — e un altro medico — non lui — un altro medico ha accertato la mia morte e steso l'atto di morte — e poi lui m'ha rimesso in vita, come un coniglio — e io non ho saputo nulla, e non so nulla, non so nulla, Monsignore! Fallimento, fal­limento, se era bottega! Lo posso gridare a tutti: fallimento: io che lo so! O se è fede sincera come la mia, perdetela! perdetela!

Monsignore. Ma vostro figlio — guardate — l'ha riacquistata!

Deodata.       Ha rindossato l'abito, guardi, ha rindossato l'abito.

Monsignore. Di nuovo nella luce di Dio!

Diego       (a Lucio, restando). Tu?

Lucio.       Sì, padre.

Sara.        Per te!

Monsignore. Per tutti!

Deodata.       Sì, per tutti noi, per tutti noi, per questa sua sorellina.

Diego.       Ma come? ora? ora ch'io so...?

Cico.         No, no: voi non sapete nulla! Dio può non concedere di sapere a chi ritorna di là! Non è prova la vostra! non è prova!

Diego.       Come non è prova? Morto, l'anima mia, l'a­nima mia, dov'è stata, nel tempo che sono stato morto?

Lucio        (semplice dolce). In Dio, padre. La tua ani­ma è Dio, padre; e tu dici tua: è Dio, vedi? e che puoi tu sapere della morte, se Dio ora, per un suo miracolo —

Diego.       — un suo miracolo? — ma se è stato lui!

Indica il dottor Gionni.

Lucio.       — non lui! credi che tutti i morti possano risuscitare per opera d'un medico? Riconosce lui stesso ch'è stato un miracolo!

Diego.       Sì: della sua scienza!

Lucio.       Se l'anima nostra è Dio in noi, che vuoi che sia la scienza e un suo miracolo, se non un mi­racolo di Lui quand'Egli voglia che si compia? e che puoi tu sapere della morte, se in Dio non si muore, ed Egli ora è di nuovo in te, come ancora in tutti noi, qua, eterno, nel nostro momento che solo in Lui non ha fine?

Diego.       Tu, ora mi parli così? tu? tu, per cui io...?

Lucio.       Sì; perché tu risorga dalla tua morte, padre. Vedi? tu avevi chiuso gli occhi alia vita, credendo di dover vedere l'altra di là. Questo è stato il tuo castigo. Dio t'ha accecato per quella, e ti fa ora riaprire gli occhi per questa che è Sua, perché tu la viva — e la lasci vivere agli altri — lavorando e soffrendo e godendo come tutti.

Diego.       Io? E tua sorella? E tu? Ho voluto... ho voluto uccidere... e tutto il male che ho fatto...

Lucio.       Me l'assumo io, padre, e lo riscatto! Se ora questo tuo male io l'accetto, e lo sento, lo sento come un bene, come un bene per me, questo è Dio, vedi? questo è Dio, Dio che ti vede coi tuoi stessi occhi, e vede quello che fai, quello che hai fatto, e quello che ora devi fare.

Diego.       Che debbo fare? che debbo fare?

Lucio.       Vivere, padre: in Dio, nelle opere che farai.Alzati e cammina, cammina nella vita. E lascia, lascia a quest'uomo

indica Arcadipane

la sua donna; lascia a questa madre la sua figlia. Ma tu non devi aspettare, Lia, sento, sento che tu non devi aspettare, sorellina mia, ch'io ritorni a far cantare per te l'organo in chiesa, in gloria dei cieli.

Si rivolge alla madre:

Mamma, mamma, chiama la tua figlia!

Sara         (trasfigurata, come per riflesso dalla divina esal­tazione del figlio: tendendo le braccia a Lia). Figlia! Figlia mia!

Lia            (sorgendo al richiamo della madre dalla sua sediola e accorrendo a lei sulle gambine ancora in­certe). Mamma! Mamma!

Lucio è come in una luce divina.

Cico.         Ecco il miracolo! il miracolo!

E cade in ginocchio.

Cammina... cammina...

Anche gli altri, sbalorditi di gioja, accennano con le labbra la parola:

Miracolo.

T E L A