Le armi e l’uomo

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Le quattro commedie gradevoli

Le quattro commedie gradevoli


(1894)

di George Bernard Shaw

Traduzione di Paola Ojetti

Introduzione di Paolo Bertinetti

Personaggi

Petkoff

Caterina

Raina

Sergio

Bluntschli

Luka

Nicola

Un ufficiale dell'esercito bulgaro e contadini

Arnoldo Mondadori Editore


Atto primo

Notte. La camera da letto di una giovane donna in una pic­cola città della Bulgaria, vicino al Passo Dragomanno, alla fine di novembre dell'anno 1885. Attraverso una finestra aperta su un piccolo balcone, un picco dei Balcani, meravi­gliosamente bianco e bello, coperto di neve illuminata dalle stelle, appare vicinissimo, per quanto sia in realtà distante miglia e miglia. L'interno della stanza è assai diverso da ciò che si può vedere in Europa occidentale. È un po' bulgaro sfarzoso, un po' viennese povero. A capo del letto, che è situato contro una piccola parete che taglia via l'angolo sini­stro della stanza, è una teca di legno dipinto, azzurra e oro, con un'immagine eburnea del Cristo; davanti a essa è una lampada sferica di ferro battuto sospesa a tre catenelle. Il sedile principale è un'ottomana, situata dall'altro lato della stanza di fronte alla finestra. Il piumino e i drappeggi dei-letto, le tende delle finestre, il piccolo tappeto, e tutti i tes­suti decorativi della stanza sono orientali e fastosi: la carta da parati è occidentale e a buon mercato. Il lavabo, messo contro la parete, dal lato più vicino all'ottomana e alla fine­stra, consiste in una catinella smaltata e in una brocca posta sotto a essa in un sostegno di metallo verniciato e di un solo asciugamano infilato in una sbarra dello stesso sostegno. Vicino a esso, una sedia di legno sagomato, austriaca, col se­dile di vimini. La toletta, tra il letto e la finestra, è una sem­plice tavola d'abete, coperta da una tovaglietta multicolore, sormontata da un costoso specchio. La porta è nella parete del letto, separata da questo mediante un cassettone. Anche il cassettone è coperto da una tovaglia locale variegata; sopra a esso una pila di romanzi non rilegati, una scatola di cioccolatini e un minuscolo cavalletto a sostegno della grande foto­grafia di un bellissimo ufficiale la cui alla statura e il cui ma­gnetico sguardo sono apprezzabili anche nel ritratto. La stan­za è illuminata da una candela posta sul cassettone e da un'altra candela posta sulla toletta; vicina a questa, una sca­tola di fiammiferi.

La finestra ha i cardini come la porta ed è spalancata. Fuo­ri, ha le imposte di legno, che si aprono verso l'esterno, e sono anch'esse spalancate.

Sul balcone, una giovane donna, profondamente cosciente della romantica bellezza della notte e della parte che in essa hanno la sua gioventù e la sua bel­lezza, osserva i nevosi Balcani. È in camicia da notte, ben avvolta da un lungo mantello di pelliccia che vale, secondo una modesta stima, almeno il triplo della mobilia della stanza.

La sua estasi è interrotta dalla madre, Caterina Petkoff, donna di oltre quarant’anni, autoritaria ed energica, con bel­lissimi capelli e occhi neri, che potrebbe essere uno splendido esemplare di moglie di montanaro ma è decisa a essere una signora viennese, e a questo fine indossa, in qualsiasi occa­sione, un'elegante veste da casa.

Caterina (entra frettolosa, carica di buone notizie). Raina! (Pronuncia questo nome sottolineando molto la i, cioè "Raiiina".) Raina! (Va verso il letto, credendo di tro­varci la figlia.) Ma dove... (Raina guarda nella stanza.) Bambina mia! sei fuori, nell'aria della notte, invece che nel tuo letto! Ma vuoi morire! Luka m'ha detto che dormivi.

Raina (sognante). L'ho mandata via. Volevo stare sola. Le stelle sono così belle! Che cos'accade?

Caterina. Grandi notizie! C'è stata una battaglia.

Raina (dilatando gli occhi). Oh! (Viene ansiosa verso Caterina.)

Caterina. Una grande battaglia a Slivnitza! Una vittoria! Tutto merito di Sergio.

Raina (con un grido di gioia). Oh! (Si abbracciano estasia­te.) Oh, mamma! (Poi, con ansia improvvisa.) E papà è salvo?

Caterina. Certo: è stato lui a mandarmi queste notizie. Sergio .è l'eroe del giorno, l'idolo del reggimento.

Raina. Dimmi, dimmi. Com'è andata? (Estatica.) Oh, mam­ma! mamma! mamma! (Si aggrappa alla madre fino a farla sedere sull'ottomana dove si baciano con frenesia.)

Caterina (con un'ondata d'entusiasmo). Non immagini che splendore! Una carica di cavalleria! pensa! Ha sfidato i nostri comandanti russi... ha agito senza ordini... ha guidato la carica assumendone tutta la responsabilità -lui stesso ne era alla testa - ed è stato il primo a lan­ciarsi tra le fucilate. Te lo figuri, Raina? i nostri co­raggiosi, splendidi bulgari, con le spade e gli occhi fiam­meggianti, che rotolavano giù come valanghe e disper­devano quegli sciagurati serbi e quei bellimbusti dei lo­ro ufficiali austriaci come pagliuzze! E tu! tu hai fatto languire Sergio per un anno prima di deciderti a fidan­zarti con lui. Oh, quando torna dovrai idolatrarlo, se hai una goccia di sangue bulgaro nelle vene.

Raina. Che cosa potrà importargli della mia povera piccola idolatria dopo essere stato acclamato da un intero eser­cito di eroi? Ma non ha importanza: io sono così felice, così orgogliosa! (Si alza e va su e giù per la stanza, ecci­tatissima.) Questo dimostra che, dopo tutto, le nostre previsioni erano fondate.

Caterina (indignata). Le nostre previsioni erano fondate! Che cosa vuoi dire?

Raina. Le nostre previsioni su quello che Sergio avrebbe saputo tare. Il nostro patriottismo. I nostri ideali eroici. Talvolta mi capitava di dubitare che fossero più di un sogno. Oh, le ragazze sono proprio delle creature senza fede! Sergio aveva l'aria tanto nobile quando gli ho agganciato la spada al fianco: era tradimento pensare alla delusione, o all'umiliazione o alla sconfitta. Eppu­re... eppure... (Si rimette improvvisamente a sedere.) Promettimi che non glielo dirai mai.

Caterina. Non chiedermi promesse quando non so che cosa prometto.

Raina. Dunque, m'è venuto in mente, proprio mentre mi stringeva fra le braccia e mi guardava negli occhi, che forse avevamo quelle idee eroiche soltanto perché ci piaceva tanto leggere Byron e Puskin e perché ci erava­mo tanto divertiti quell'anno alla stagione lirica di Bu­carest. La vita reale è tanto raramente cosi! anzi, per quanto ne sapevo allora, non lo è mai. (Con rimorso.) Pensa, mamma: ho dubitato di lui, mi domandavo se. il giorno in cui avesse affrontato una vera battaglia, tut­te quelle sue qualità eroiche e tutto il suo militammo non si sarebbero dimostrati puro frutto della nostra fantasia. Provavo un certo disagio pensando che, vicino a tutti quei bravi ufficiali della corte dello zar, avrebbe potuto fare una figura meschina.

Caterina. Una figura meschina! Vergognati! I serbi hanno de­gli ufficiali austriaci che sono bravi quanto i russi; ma, ciononostante, li abbiamo vinti in tutte le battaglie.

Raina (ridendo e accoccolandosi vicino alla madre). Sì: sono stata proprio una piccola e prosaica vigliacca. Oh, pen­sare che era tutto vero! che Sergio è splendido e nobile come appare! che il mondo è davvero un mondo meravi­glioso per le donne che ne sanno intuire la gloria e per gli uomini che ne sanno creare il fascino e l'avventura! Quanta felicità! che indicibile conquista!

Sono interrotti dall'arrivo di Luka, una bella e orgoglio­sa ragazza che indossa un grazioso costume da contadi­na bulgara con doppio grembiule, così altera che la sua deferenza verso Raina è quasi insolente. Ha paura di Caterina, ma anche con lei è molto audace.

Luka. Col suo permesso, signora, devo chiudere tutte le fine­stre e fermare tutte le imposte. Dicono che fra poco ci sarà un po' di sparatoria nella strada. (Raina e Caterina si alzano insieme.) I serbi sono stati ricacciati oltre il Passo; pare che potrebbero cercare di rifugiarsi in città. La nostra cavalleria li inseguirà e, ora che scappano, stia tranquilla che tutti gli daranno addosso. (Esce sul bal­cone e tira verso sé le imposte; poi torna nella stanza.)

Caterina (indaffarata, segue subito il suo istinto di padrona di casa). Bisogna mi assicuri che anche le porte del pian­terreno siano ben chiuse.

Raina. Vorrei che il nostro popolo non fosse tanto crudele. Che gloria c'è a uccidere dei poveri fuggiaschi?

Caterina. Crudele! E tu supponi che loro esiterebbero a ucciderti... o peggio?

Raina (a Luka), Lascia stare le imposte, le chiudo io se sen­to rumore.

Caterina (con autorità, voltandosi indietro mentre si avvia verso la porta). Oh, no, cara: bisogna che siano ben chiuse. Sono sicura che ti addormenti e le lasci aperte. Fermale tu, Luka.

Luka. Sissignore. (Ferma le persiane)

Raina. Non star in pena per me. Appena sento sparare, spengo le candele e mi ficco nel letto con le orecchie ben tappate.

Caterina. È la cosa più saggia che tu possa fare, amor mio. Buonanotte.

Raina. Buonanotte. (Torna per un attimo a eccitarsi come dianzi.) Augurami tanta gioia. (Si baciano.) Questa è la notte più felice della mia vita, purché non ci siano fuggiaschi.

Caterina. Vai a letto, cara; e non pensare a loro. (Esce.)

Luka (segretamente, a Raina). Se vuole che le imposte stiano aperte, le spinga così (le spinge; si aprono: torna a ti­rarle verso sé). Una di esse dovrebbe essere fermata in fondo; ma il paletto s'è staccato.

Raina (con dignità, rimproverandola). Grazie, Luka; ma bi­sogna fare quello che ci ordinano. (Luka fa una smorfia.) Buonanotte.

Luka (distrattamente). Buonanotte. (Esce, spavalda.)

Raina, rimasta sola, si toglie la pelliccia e la butta sul­l'ottomana. Voi va davanti al cassettone e si ferma ad adorare la fotografia che vi è poggiata sopra con ine­sprimibili sentimenti. Non la bacia e non se la preme sul cuore, né le dimostra alcun segno di affetto fisico, ma la prende tra le mani e la eleva, con gesto da sa­cerdotessa.

Raina (guardando la fotografia). Oh, non sarò mai più inde­gna di te, eroe dell'anima mia: mai, mai, mai più. (La rimette a posto con reverenza. Indi sceglie un romanzo dalla piccola pila di libri. Lo sfoglia, sognante, trova la pagina desiderata; ripiega il libro in modo da non perde­re il segno; indi, con un sospiro di felicità, entra nel letto e si prepara a leggere in attesa del sonno; ma, prima di abbandonarsi al romanzo, alza nuovamente gli occhi pensando alla felice realtà, e mormora) Mio eroe! Mio eroe!

Un lontano sparo squarcia la calma notturna. Raina sus­sulta, ascoltando; seguono altri due spari, molto più vi­cini, facendola sobbalzare così che si butta fuori dal letto e va in tutta fretta a spegnere la candela che è sul cas­settone. Poi, ficcandosi le dita negli orecchi, corre alla toletta, spegne anche quella luce e torna precipitosa­mente a letto, al buio, dato che adesso è visibile soltan­to il bagliore della luce nella palla di ferro battuto ap­pesa davanti all'immagine sacra e il brillìo delle stelle che trapela sopra le imposte. La sparatoria riprende; si ode un'assordante fucilata a pochi passi di distanza. Mentre se ne ode ancora l'eco, le imposte scompaiono tirate dall'esterno; e per un attimo il rettangolo della finestra si accende con la nivea luce delle stelle rivelan­do la figura di un uomo proiettata in nero contro quel bagliore. Le imposte si richiudono immediatamente; e la stanza è di nuovo buia. Ma il silenzio è adesso rotto dall'affanno di lui. Indi si ode un rumore secco: la luce di un fiammifero brilla in mezzo alla stanza.

Raina (accucciandosi sul letto). Chi c'è? (Il fiammifero è su­bito spento.) Chi c'è? Chi è?

Voce d'uomo (nel buio, sommessa ma minacciosa). Silenzio! non chiami aiuto, se no sparo. Stia buona: e nessuno le farà del male. (La si ode scendere dal letto e avviarsi alla porta.) Stia attenta: è inutile che cerchi di scappare.

Raina. Ma chi...

La voce (ammonendola). Si ricordi: se odo alzare la voce, premo il grilletto della rivoltella. (Comandando) Accenda una luce e si faccia vedere. Ha capito, sì o no? (Un altro momento di silenzio e di buio mentre ella indietreggia verso il cassettone. Poi accende una candela e il mistero è finito. Egli è un uomo di circa trentacinque anni, in stato deplorevole, cosparso di fango, sangue e neve, mentre una cintura e la cinghia del fodero della rivoltel­la reggono alla meglio le lacere rovine della tunica azzurra di un ufficiale dell'artiglieria serba. Il lume di can­dela e quelle condizioni di uomo non lavato e malconcio permettono di distinguere soltanto che si tratta d'un individuo di statura media e di aspetto non troppo fine, dal collo e dalle spalle piuttosto forti, con la testa fiera e rotonda, coperta di corti e ispidi ricci color bronzo, con gli occhi vispi e chiari, la fronte e la bocca bonarie, il naso decisamente prosaico simile a quello di un bambino testardo, il portamento eretto e soldatesca, i modi energici, le mente perfettamente lu­cida malgrado la situazione disperata: egli dimostra per­fino un certo umorismo ma, tuttavia, non sembra avere la minima intenzione di prendere alla leggera o di spre­care una possibilità di salvezza. Egli calcola tutto ciò che può indovinare sul conto di Raina: età, posizione sociale, carattere, grado di timore e prosegue, più cor­tesemente ma non meno fermamente). Mi scusi il di­sturbo; ma lei riconoscerà la mia uniforme. Serbo! Se mi pigliano, mi ammazzano. (Minacciandola.) Questo lo capisce, sì o no?

Raina. Sì.

L'uomo. Brava. Io non intendo farmi ammazzare, se posso fame a meno. (Sempre più energicamente.) Questo lo capisce, sì o no? (Chiude a chiave la porta, lesto e calmo. )

Raina (sdegnosa). Suppongo di no. (Si erge con superbia, lo guarda fisso e soggiunge, con enfasi pungente) So bene che alcuni soldati hanno paura di morire.

L'uomo (con torvo buonumore). Tutti i soldati, cara signora, tutti, creda a me. Abbiamo il dovere di campare il più a lungo possibile. Dunque, se darà l'allarme...

Raina (interrompendolo bruscamente). Lei mi sparerà una revolverata. Come fa a sapere che ioho paura di morire?

L'uomo (con furbizia). Senta: se io non le sparassi addosso che cosa accadrebbe? Un'ondata di cavalleria irrompe­rebbe in questa sua bella stanzetta e mi scannerebbe, proprio qui, come un maiale, perché mi batterei come un demonio: non mi porterebbero, no, sulla strada a farli divertire: io li conosco bene. È disposta a ricevere questo genere di compagnia tutta spogliata com'è? (Raina, improvvisamente conscia della sua camicia da notte, si ritrae istintivamente e cerca di coprirsi meglio attorno al collo. Egli la osserva e soggiunge, spietato) Non troppo presentabile, vero? (Essa si volta verso l'ottoma­na. Egli alza la pistola di scatto e grida) Ferma! (Essa si ferma.) Dove va?

Rama (dignitosa e paziente). A prendere un mantello.

L'uomo (passa rapidamente vicino all'ottomana e afferra il mantello). Ottima idea! Io tengo il mantello e lei bada che nessuno entri e la veda in camicia. È un'arma più sicura della rivoltella, vero? (Butta la pistola sull'otto­mana)

Raina (indignata). Non è l'arma di un gentiluomo!

L'uomo. Ma basta per un uomo che tra se stesso e la morte non ha che lei. (Essi si fissano per un momento, e Raina stenta a credere che un ufficiale serbo sta capace perfino di essere così cinicamente ed egoisticamente poco caval­ieresco; ma sono sorpresi da una fucilata secca che risuo­na sulla strada. Il freddo della morte imminente soffo­ca la voce dell'uomo che soggiunge) Ha sentito? Se ha deciso di scaraventarmi addosso quei lazzaroni, deve riceverli così come sta.

Clamore e interruzioni. Gli inseguitori che sono in stra­da battono contro al portone della casa gridando:

Aprite la porta! Svegliatevi, presto!

La voce di un servitore risponde con rabbia dall'interno:

Questa è l'abitazione del maggiore Petkoff: non potete entrare!

Ma il clamore si rinnova e un torrente di colpi assale la porta fino a quando si ode il tintinnio di una catena che cade, seguito dal frastuono di passi pesanti e fretto­losi e dallo schiamazzo di grida trionfanti, finalmente dominate dalla voce di Caterina che si rivolge indignata a un ufficiale:

Ma che cosa significa tutto questo, signore? Non sa forse dov'è?

Luka (da fuori, bussando alla porta della stanza da letto). Signorina! Signorina! si alzi, svelta, apra, se no buttano giù la porta!

Il fuggiasco butta indietro la testa, con l'espressione dell'uomo che capisce di non avere più alcuna speranza di salvezza, e smette l'atteggiamento che aveva assunto per intimidire Raina.

L'uomo (sinceramente e cortesemente). Lasci, cara, lasci an­dare. È finita. (Lanciandole il mantello.) Svelta! si copra: stanno venendo.

Raina. Oh, grazie. (Si copre, con intenso sollievo.)

L'uomo (a denti stretti). Non c'è di che.

Raina (ansiosamente). Che cosa vuol fare?

L'uomo (torvo). Il primo che entra mi trova. Si scansi: e si copra gli occhi. Durerà poco: ma non sarà gradevole. (Impugna la sciabola e si mette di fronte alla porta, in attesa.)

Rama (impulsiva.) L'aiuterò io. La salverò.

L'uomo. È impossibile.

Raina. Perché? La nasconderò, (Lo trascina verso la finestra.) Qui! dietro le tende.

L'uomo (cedendo alle insistenze di lei). Se lei non perde la testa, ho una mezza probabilità di salvarmi.

Raina (tirando le tende per nasconderlo). Sss! (Va verso l'ottomana.)

L'uomo (facendo capolino). Si rammenti...

Raina (tornando di corsa verso lui). Che cosa?

L'uomo. ...che nove soldati su dieci sono nati senza cervello.

Raina. Uff! (Tira nuovamente la tenda di fronte a lui, con rabbia.)

L'uomo (facendo capolino dall'altra parte della tenda). Se mi trovano, le prometto che ci sarà una zuffa indemoniata!

Raina batte il piede in terra. Egli sparisce in fretta. Ella si toglie la pelliccia e la butta in fondo al letto. Poi, con aria sonnacchiosa e seccata, apre la porta. Luka entra, agitatissima.

Luka. Hanno veduto uno di quegli animali serbi che si ar­rampicava al suo balcone su per un tubo della grondaia, I nostri uomini vogliono trovarlo a ogni costo: sono fu­riosi, ubriachi, peggio dei selvaggi. (Va dall'altra parte della stanza per allontanarsi il più possibile dalla porta.) La signora dice che lei si deve vestire subito e... (Vede la rivoltella che è rimasta sull'ottomana e si ferma, pie­trificata.)

Rama (mostrandosi seccata perché l'hanno fatta alzare). Non verranno a cercarlo qua dentro. Perché li avete lasciati entrare?

Caterina (entra precipitosamente). Raina mia, sei al sicuro? hai veduto nessuno? hai udito niente?

Raina. Ho udito sparare. Certo i soldati non si azzarderan­no a entrare qua dentro.

Caterina. Grazie al cielo ho trovato un ufficiale russo: cono­sce Sergio. (Parla attraverso la porta a qualcuno che è rimasto fuori.) Se vuole, signore, si accomodi pure. Mìa figlia è disposta a riceverla.

Un giovane ufficiale russo, che indossa l'uniforme bul­gara, entra con la spada sguainata.

Ufficiale (con cortesia leziosa e felina e rigido portamento militare). Buonasera, graziosa damigella. Mi dispiace di importunarla; ma c'è un serbo nascosto su questo bal­cone. Vorrei pregare lei e la graziosa signora sua madre di ritirarsi mentre lo cerchiamo.

Raina (petulante). Che sciocchezze! Lo vede benissimo che sul balcone non c'è nessuno.

Spalanca le imposte e, con la schiena voltata alla tenda dietro la quale è nascosto l'uomo, indica il balcone illu­minato dalla luna. Due colpi di fucile echeggiano pro­prio sotto la finestra, e una pallottola manda in frantumi il vetro che è di fronte a Raina; essa batte gli occhi e ansima, ma non si sposta mentre Caterina strilla e l'ufficiale, gridando: Attenzione! corre sul balcone.

L'ufficiale (sul balcone, gridando come un pazzo verso la strada). Cessate il fuoco, imbecilli: avete capito? Cessate il fuoco, maledetti! (Lancia occhiate furibonde verso il basso, poi si rivolge a Retina cercando di riprendere i suoi modi cortesi) È possibile che qualcuno sia entrato qua dentro senza che ella se ne sia accorta? Stava forse dormendo?

Raina. No: non mi sono coricata.

L'ufficiale (con impazienza, tornando nella stanza). I suoi vi­cini hanno la testa così piena di fuggiaschi serbi che li vedono dappertutto. (Cortesemente) Graziosa signori­na, la prego di scusarmi mille volte. Buonanotte. (Fa un inchino militare, che Raina ricambia con freddezza. In­di ne fa un altro a Caterina; che lo segue fuori.)

Raina chiude le imposte. Si volta e vede Luka che ha osservato la scena con curiosità.

Raina. Luka, non lasciar sola mia madre, finché i soldati sono in casa.

Luka lancia un'occhiata a Raina, all'ottomana, alla ten­da; poi arriccia le labbra come per indicare un segreto, ride con insolenza ed esce. Raina, altamente offesa da questa dimostrazione, la segue fino alla porta, gliela chiude dietro sbattendola e ne gira la chiave con vio­lenza. L'uomo esce immediatamente da dietro le tende, rimettendo la sciabola nel fodero. Poi, allontanando il pericolo dalla mente con atteggiamento indaffarato, vie­ne affabilmente verso Raina.

L'uomo. C'è mancato un pelo; ma qualche volta un pelo vale un miglio. Cara signorina: servo suo fino alla morte. Per lei, rimpiango di essermi arruolato nell'esercito serbo in­vece che in quello bulgaro. Io non sono serbo di nascita.

Raina (altera). No, lei è uno degli austriaci che hanno indot­to i serbi a derubarci della nostra libettà nazionale, e che ne comandano l'esercito. Noi li odiamo!

L'uomo. Austriaco! io no: Non mi odi, cara signorina. Io sono svizzero, e combatto unicamente per professione militare. Mi sono arruolato coi serbi perché, venendo dalla Svizzera, sono arrivato in Serbia prima che in Bulgaria. Sia generosa: siamo stati sconfitti con l'inganno.

Raina. Non sono stata generosa?

L'uomo. Nobile! Eroica! Ma io non sono ancora salvo. Que­sta incursione finirà presto; ma l'inseguimento andrà avanti tutta notte, a sbalzi e scossoni. Bisogna che ap­profitti di un intervallo tranquillo per cercar di scap­pare. (Sorridente.) Non le dispiace se aspetto un minu­to o due, vero?

Raina (con il suo più grazioso sorriso di società). Oh, tutt'altro. Non vuol sedersi?

L'uomo. Grazie (Si siede in fondo al letto.)

Raina si dirige, con voluta eleganza, verso l'ottomana e vi si siede. Disgraziatamente si siede sulla pistola e balza su con uno strillo. L'uomo, tutto nervi, siritira nell'angolo opposto della stanza come un cavallo spaventato.

L'uomo (irritato). Non mi spaventi in questo modo. Che cosa c:è?

Raina. La sua rivoltella! È stata lì tutto il tempo a fissare in viso quell'ufficiale. L'abbiamo scampata bella!

L'uomo (seccato per essere stato inutilmente terrorizzato). Ah, è tutto qui?

Raina (lo fissa in modo piuttosto burbero mentre si fa di lui un concetto sempre più basso, e sì sente in propor­zione sempre più a suo agio). Mi dispiace di averla spaventata. (Prende la pistola e gliela porge.) Prego, la prenda, per proteggersi da me.

L'uomo (ghignando, stancamente, a quel sarcasmo mentre prende la pistola). È inutile, signorina cara; non serve a niente. È scarica. (Osserva l'arma con una smorfia e la lascia scivolare, con disprezzo, nella fondina.)

Raina. La carichi, non si sa mai.

L'uomo. Non ho munizioni. A che cosa servono le cartucce, in battaglia? Al posto delle munizioni io mi porto die­tro la cioccolata: ne ho finita l'ultima tavoletta un'ora fa,

Raina (ferita nei suoi più cari ideali di virilità). Cioccolata!

Si rimpinza le tasche di dolci, come uno scolaretto, an­che sui campo di battaglia?

L'uomo (con un ghigno). Sì: che vergogna, eh? (Con appeti­to.) Magari ne avessi ancora!

Raina. Se permette... (Si dirige, beffarda, verso il cassettone, e torna con la scatola di dolci.) Mi dispiace di averli mangiati quasi tutti. (Gli offre la scatola.)

L'uomo (voracemente). Lei è un angelo! (Ne divora il conte­nuto.) Alla crema! Squisiti! (Guarda con ansia per ve­dere se ce ne sono ancora. Sono finiti: non gli rimane che raschiare la scatola con le dita e leccarsele. Quando quel cibo è esaurito, egli accetta l'inevitabile con pateti­co buonumore, e dice, con grata commozione) Dio la benedica, signorina cara! I vecchi soldati si riconoscono dall'interno delle loro fondine e dalle loro cartucciere. I giovani si portano dietro pistole e cartucce: i vecchi, mangiatoria. Grazie. (Egli le restituisce la scatola. Ella gliela strappa di mano, con spregio, e la butta lontano. Egli si ritrae nuovamente, come se ella avesse voluto schiaffeggiarlo.) Oh! non faccia gesti tanto bruschi, gra­ziosa signorina. È vile vendicarsi perché dianzi l'ho spaventata.

Raina (altezzosa). Spaventata! Lei non sa, signore, che, per quanto sia soltanto una donna, credo di essere coraggiosa quanto lei.

L'uomo. Non ne dubito. Non è stata sotto il fuoco per tre giorni di fila, come me. Per due giorni ci resisto senza farmene accorgere troppo; ma non v'è nessuno che ci regga per tre giorni: io sono più spaventato di un topo­lino. (Si siede sull'ottomana e si stringe la testa tra le mani.) Vorrebbe vedermi piangere?

Raina (preoccupata). No.

L'uomo. Se ci tiene, non ha che da sgridarmi come se io fossi un bambino e lei la mia bambinaia. Se adesso fossi al campo, chissà quanti scherzi mi farebbero!

Raina (quasi commossa). Mi dispiace. Non la sgriderò. (Toccato dalla dolcezza di quel tono, alza la testa e la guarda con gratitudine: ella si ritira immediatamente e dice con freddezza) Mi deve scusare: i nostri soldati non sono così. (Si allontana dall'ottomana.)

L'uomo. Oh sì, lo sono. Esistono soltanto due generi di soldati: i soldati anziani e i soldati giovani. Io sono sotto le armi da quattordici anni: la metà dei soldati bulgari non conosceva l'odore della polvere da sparo. Già, per­ché crede che essi ci abbiano vinti, oggi? Semplicemente perché ignoravano l'arte della guerra, solo per questo.. (Indignato.) Non ho mai visto niente di meno professionale.

Raina (con ironia). Ah! è stato poco professionale battervi?

L'uomo. Insomma, senta! le pare professionale lanciare un reggimento di cavalleria contro una batteria di mitraglia­trici, con la certezza mortale che se le mitragliatrici co­minciano a sparare non v'è un solo uomo o un solo ca­vallo che possa arrivare a più di cinquanta metri dal fuo­co? Quando ho visto quello spettacolo, non credevo ai miei occhi.

Raina (gli si rivolge ansiosamente, con un'improvvisa ripre­sa di entusiasmo e di sogni di gloria). Ha veduto la grande carica di cavalleria? Oh, me ne parli. Me la descriva.

L'uomo. Lei non ha mai visto una carica di cavalleria, vero?

Raina. Come avrei potuto vederla?

L'uomo. Già, capisco. Sì, sì, è giusto! Be', è un buffo spetta­colo. È come scaraventare una manciata di piselli contro il vetro di una finestra: prima ne arriva uno; poi ne ar­rivano subito due o tre insieme; e tutti gli altri arrivano in un mucchio.

Raina (dilatando gli occhi mentre alza le mani giunte, esta­tica). Sì, prima Uno! il più coraggioso tra i coraggiosi!

L'uomo (prosaicamente). Hm! dovrebbe vederlo quel povero diavolo aggrappato al collo del cavallo.

Raina. Aggrappato al collo del cavallo? perché?

L'uomo (mostrandosi impaziente per la stupidità della do­manda). Perché corre troppo e se lo porta via: crede che a quel povero diavolo faccia piacere arrivare prima degli altri e farsi ammazzare? Poi arrivano tutti. I giovani si riconoscono per il furore e per le sciabolate. Gli anziani vengono tutti in un mucchio, in posizione di difesa: sanno benissimo di essere soltanto dei proiettili e che non conviene cercar di combattere. I feriti hanno quasi tutti le ginocchia rotte perché i cavalli si urtano fra loro.

Raina. Oh! Ma non credo che il primo sia un vigliacco. Io so che è un eroe!

L'uomo (con buonumore). Se oggi avesse visto quel primo uomo alla carica avrebbe detto proprio così.

Raina (col fiato mozzo, perdonandogli ogni cosa). Oh, lo sapevo! Mi dica. Mi dica di lui.

L'uomo. Agiva come un tenore d'opera. Era proprio un bel­l'uomo, con gli occhi fiammeggianti e dei bellissimi baf­fi. Si scannava per far sentire a tutti il suo grido di guer­ra e caricava come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Noi ridevamo tutti.

Raina. Avete osato ridere!

L'uomo. Sì, ma quando il sergente è arrivato di corsa, bian­co come un panno lavato, a dirci che ci avevano manda­to le munizioni sbagliate e che non avremmo potuto spa­rare un solo colpo per più di dieci minuti, abbiamo riso con la bocca storta. Non m'ero mai sentito tanto male in vita mia, eppure mi sono trovato alle strette più d'una volta. E non avevo neanche una cartuccia per la rivoltel­la: soltanto un po' di cioccolata. Non avevamo baio­nette: nulla. Naturalmente ci hanno fatto a pezzi. E Don Chisciotte roteava la spada, trionfante come un tambur maggiore, convinto di aver compiuto la più grande pro­dezza della storia, mentre si sarebbe meritato la corte marziale. Io credo che, tra gli imbecilli sguinzagliati sui campi di battaglia, quello sia il più pazzo di tutti. Il suo reggimento e lui si erano semplicemente votati al sui­cidio: ma noi avevamo le armi scariche, ecco tutto.

Raina (profondamente ferita, ma fermamente fedele ai suoi ideali). Davvero! Se lo vedesse, lo riconoscerebbe?

L'uomo. Quando mai potrò dimenticarlo?

Va nuovamente al cassettone. Egli la osserva con la vaga speranza che ella possa avere ancora qualcosa da fargli mangiare. Ella toglie la fotografia dal cavalletto sul quale è appoggiata, e gliela porta.

Raina. Questa è una fotografia del gentiluomo... del patriota ed eroe... al quale sono fidanzata.

L'uomo (riconoscendolo con un sussulto). Mi dispiace tan­to, creda. (La guarda.) Pensa di essere stata leale a lasciarmi dire tutto? (Egli guarda nuovamente il ritratto.) Sì, sì, quello è Don Chisciotte, non c'è dubbio. (Soffoca una risata.)

Raina (subito). Perché ride?

L'uomo (scusandosi, ma sempre molto esilarato). Io non ri­devo, glielo assicuro. O, per lo meno, non intendevo ri­dere. Ma quando lo rivedo all'assalto dei mulini a vento, convinto di compiere la più grande prodezza della sto­ria... (Si strozza, per reprimere il riso.)

Raina (con durezza). Mi renda il ritratto, signore.

L'uomo (con sincero rimorso). Subito. Certo, Mi dispiace tanto, creda. (Egli le porge il ritratto. Ella lo bacia, riso­luta, e guarda fissa l'uomo prima di tornare al cassettone per rimettere a posto la fotografia. Egli la segue, cercan­do di scusarsi.) Può darsi che mi sbagli di grosso, sa? anzi, mi sbaglio di certo. Molto probabilmente aveva avuto sentore della faccenda delle cartucce, e sapeva di andare sul sicuro.

Raina. Vale a dire che era un impostore e un vigliacco! Non aveva osato dirlo prima.

L'uomo (con un comico gesto di disperazione). Non c'è niente da fare, signorina mia. Non mi riesce di presen­tarle la cosa da un punto di vista professionale. (Mentre si volta per tornare all'ottomana, un paio di fucilate lontane minacciano nuovi guai.)

Raina (con durezza, mentre lo vede ascoltare le fucilate). Tanto meglio per lei!

L'uomo (voltandosi). In che modo?

Raina. Lei è mio nemico; ed è alla mia mercé. Che cosa farei se fossi un militare di professione?

L'uomo. Sì, è vero, signorina: lei ha sempre ragione. Io so quanto ella è stata buona con me: fino alla mia ultima ora ricorderò quei tre cioccolatini alla crema. Non è stato un gesto militaresco, ma è stato un gesto angelico.

Raina (freddamente). Grazie. E adesso farò una cosa mili­taresca. Lei non può rimanere qui dopo ciò che ha detto a proposito del mio futuro marito; ma io andrò fuori sul balcone a vedere se le conviene calarsi giù in strada. (Va verso la finestra.)

L'uomo (cambiando atteggiamento). Giù per il tubo della grondaia! Ferma! Aspetti! Non posso! Non oso! Solo a pensarci mi gira la testa. Quando sono salito ero inse­guito dalla morte e mi sono arrampicato piuttosto in fretta. Ma affrontare quella discesa, adesso, a sangue freddo...! (Crolla sull'ottomana.) È inutile. Ci rinuncio: sono sconfitto. Dia l'allarme. (Lascia cadere la testa nel­le mani, nel più profondo sgomento.)

Raina (disarmata dalla pietà). Avanti, non si scoraggi. (Si china su lui, quasi maternamente. Egli scrolla la testa.) Oh, che povero soldatino! un soldatino di cioccolata! Via, si rianimi! ci vuole meno fegato a calarsi giù che ad affrontare la cattura: se lo rammenti.

L'uomo (sognante, cullato dalla voce di lei). No; la cattura vuol dire soltanto morte; e la morte è sonno: oh, sonno, sonno, indisturbato sonno! Calarsi giù per quel tubo si­gnifica fare qualcosa, adoperarsi, pensare! La morte è dieci volte più lesta.

Raina (con dolcezza e meraviglia, afferrando il ritmo della stanchezza di lui). Ha proprio tanto sonno?

L'uomo. Da quando mi sono arruolato, non ho più avuto due ore di sonno indisturbato. Sono quarantott’ore che non chiudo occhio.

Raina (non sapendo più a che santo votarsi). Ma che cosa devo fare di lei?

L'uomo (si alza barcollando,, spinto dalla disperazione di lei). Lo so. Bisogna che mi decida. (Si scrolla; si fa for­za; e parla con tutto il vigore e tutto il coraggio che è riuscito a raccogliere.) Be', sonno o non sonno, fame o non fame, stanchezza o non stanchezza, quando si sa che una cosa ha da essere fatta, la si può sempre fare. Adesso, per esempio, so che mi debbo calar giù da quel tubo: (si dà una manata sul petto) hai capito, soldatino di cioccolata? (Va verso la finestra.)

Rama (ansiosa). Mase casca?

L'uomo, M'addormento sulla strada come se i ciottoli fosse­ro piume. Addio. (Si dirige, spavaldo; verso la finestra, ha la mano sull'imposta quando si ode una tremenda e improvvisa sparatoria sulla strada.)

Raina (precipitandosi verso lui). Fermo! (Ella lo afferra, come una forsennata e gli fa fare una piroetta) Se scende, la ammazzano.

L'uomo (freddo, ma attento), Non ha importanza: incerti del mestiere. Sono pagato per rischiare. (Con decisione) Adesso faccia quello che dico io. Spenga la candela; non debbono vedere la luce quando apro le imposte. E stia lontana dalla finestra, qualunque cosa voglia fare. Se mi vedono, è sicuro che mi sparano addosso.

Raina (aggrappandosi a lui). È sicuro che la vedono: c'è la luna piena. La salverò io. Oh, com'è indifferente! Vuole che la salvi, vero?

L'uomo, La verità è che non voglio procurarle dei fastidi. (Essa lo scrolla, impaziente.) Non sono indifferente, si­gnorina cara, glielo assicuro. Ma come si può fare?

Raina. Venga via dalla finestra. (Lo trascina, risoluta, nel centro della stanza. Ma appena gli toglie le mani da dos­so, egli si dirige di nuovo, meccanicamente, verso la fi­nestra. Essa lo afferra e lo fa voltare indietro, esclaman­do) La prego! (Egli rimane immobile, come un coniglio ipnotizzato, subito vinto dalla stanchezza. Ella lo lascia andare e gli si rivolge con un tono protettivo.) Insom-ma, mi dia retta. Lei deve fidarsi della nostra ospitalità. Non sa ancora in casa di chi è capitato. Io sono una Petkoff.

L'uomo. Una pet... come?

Rama (piuttosto indignata). Voglio dire che appartengo alla famiglia dei Petkoff, la famiglia più ricca e più conosciuta di tutta la Bulgaria.

L'uomo. Oh, sì, certo. Mi scusi tanto. I Petkoff, perbacco. Che stupido!

Raina. Lei sa benissimo di non averli mai uditi nominare fin adesso. Non si abbassi a fingere il contrario!

L'uomo. Mi perdoni: sono tanto stanco che non ce la faccio neanche apensare; abbiamo cambiato discorso troppo in fretta. Non mi sgridi.

Raina. Dimenticavo. Potrebbe farla piangere. (Egli annui­sce, con tutta serietà. Essa mette il broncio e poi ripren­de il suo tono protettivo.) Debbo dirle che mio padre è, nel nostro esercito, il bulgaro che occupa il posto di maggior comando. È (con orgoglio) maggiore.

L'uomo (fingendosi impressionatissimo). Maggiore! Acciden­ti! Pensi un po'!

Raina. Lei ha dimostrato di essere molto ignorante pensando che fosse necessario scalare il mio balcone perché questa era la sola abitazione privata provvista di due file di finestre. Nell'interno esiste una rampa di scale che serve a chi sale e a chi scende.

L'uomo. Di scale? Che lussi! Ma lei, cara signorina, vive nello sfarzo!

Raina. Lei sa che cos'è una biblioteca?

L'uomo. Una biblioteca? Una stanza piena di libri?

Raina. Sì. Noi ne abbiamo una, la sola in tutta la Bulgaria.

L'uomo. Una vera biblioteca! Mi piacerebbe vederla.

Raina (con enfasi). Le dico queste cose per dimostrarle che lei non è capitato in casa di ignoranti campagnoli che l'avrebbero ammazzata appena si fossero accorti che indossava l'uniforme serba, ma tra persone civili. Noi andiamo a Bucarest tutti gli anni per la stagione lirica; e io ho trascorso a Vienna un mese intero.

L'uomo. Ho capito tutto, cara signorina. Mi sono accorto subito che lei conosceva il mondo.

Rsina. Ha mai visto l'Ernani?

L'uomo. È quella col diavolo vestito di velluto rosso e il coro dei soldati?

Raina (sprezzante). No!

L'uomo (soffocando un pesante sospiro di stanchezza). Allora non la conosco.

Raina. Credevo si sarebbe ricordato la grande scena in cui Ernani, scappando dagli avversari, proprio come lei ne scappa stanotte, si rifugia nel castello del suo più acer­rimo nemico, un vecchio nobile castigliano. Il nobile si rifiuta di tradirlo. L'ospite gli è sacro.

L'uomo (svelto, un po' più sveglio). La sua gente è di questo parere?

Raina (con dignità). Mia madre e io condividiamo questo parere, come lo chiama lei, E se invece di minacciarmi con la pistola, come ha fatto dianzi, si fosse semplice­mente affidato, da fuggiasco, alla nostra ospitalità, lei sarebbe stato al sicuro in casa nostra come in casa di suo padre.

L'uomo. Davvero?

Raina (disgustata, gli volta le spalle). Oh, è inutile cercar di farglielo capire.

L'uomo. Non si inquieti: un equivoco mi metterebbe molto a disagio. Mio padre è un uomo molto ospitale: ha sei alberghi; ma non potrei fidarmi di lui fino a questo

punto. E suo padre?

Raina. Mio padre è a Slivnitza che combatte per la sua patria. lo le garantisco la sicurezza. La mia mano gliene sia pe­gno. Non si sente al sicuro? (Gli porge la mano.)

L'uomo (guardando la propria mano con una certa perplessi­tà). È meglio che non mi tocchi la mano, signorina cara. Bisogna che prima mi dia una lavata.

Raina (commossa). Molto gentile da parte sua. Vedo che lei è un gentiluomo.

L'uomo (imbarazzato). Eh?

Raina. Non creda che me ne stupisca. I bulgari di buon cep­po, quelli della nostra posizione, sì lavano le mani quasi tutti i giorni. Come vede, so apprezzare la sua delicatez­za. Prenda pure la mia mano. (Gliela porge di nuovo.)

L'uomo (gliela bacia tenendo le mani dietro la schiena). Grazie, amabile signorina: finalmente mi sento al sicuro. E adesso le dispiacerebbe comunicare la notizia a sua ma­dre? È meglio che non rimanga qui dentro segreta­mente più a lungo di quanto sia necessario.

Raina. Purché lei abbia la cortesia di star qua, immobile, mentre io sono via.

L'uomo. Certo. (Si siede sull'ottomana.)

Raina va vicino al letto e si avvolge nella pelliccia. Gli occhi di lui si chiudono. Essa va alla porta. Voltandosi a dargli un'ultima occhiata si accorge che si sta addor­mentando.

Raina (sulla porta). Non si sta mica addormentando, vero? (Egli borbotta dei suoni inarticolati. Essa si precipita vi­cino a lui e lo scuote.) Ha capito? Si svegli: si sta addormentando!

L'uomo. Eh? addorm...? Oh, no, per carità: stavo solo pen­sando. Stia tranquilla: sono sveglissimo.

Raina (severamente). Vuole, per favore, stare in piedi men­tre io sono di là? (Egli si alza, con riluttanza.) Badi, in piedi fino a che torno io.

L'uomo (in piedi, traballante). Certo. Certo: si fidi di me.

Raina lo guarda dubbiosa. Egli sorride debolmente. Essa esce con riluttanza, voltandosi nuovamente dalla por­ta, e quasi sorprendendolo nell'atto di sbadigliare. Esce.

L'uomo (sonnacchioso). Sonno, sonno, sonno, sonno, sonn... (Le parole si ripetono, trascinandosi, in un mormorio. Si risveglia, con uno scrollone, sul punto di cadere.) Dove sono? Ecco che cosa vorrei sapere: dove sono? Bisogna che stia sveglio. Soltanto il pericolo mi fa star sveglio: ora ci penso: (sforzandosi) pericolo, pericolo, pencolo, per... (trascinando la parola: nuovo sussulto). Dov'è il pericolo? Bisogna trovarlo. (Si aggira, vagando, per la stanza alla ricerca del pericolo.) Che cosa sto cercando? Sonno... pericolo... non so. (Inciampa contro al letto.) Ah sì: ora ho capito. Così va bene. Devo an­dar a letto, ma non per dormire. Attento a non dormire, per via del pericolo. E neanche sdraiarmi, solo star se­duto. (Si siede sul letto. Un'espressione di beatitudine gli illumina il viso.) Ah! (Con un sospiro felice cade all'indietro, lungo tirato; tira su gli stivaloni fin sopra al letto, con uno sforzo finale; e s'addormenta subito, profondamente. )

Entra Caterina, seguita da Raina.

Raina (guardando l'ottomana). Se n'è andato! L'avevo lasciato qui.

Caterina. Qui! Allora si sarà calato giù dal...

Raina (vedendolo). Ah! (Lo indica.)

Caterina (scandalizzata). Insomma! (Va a gran passi verso il letto, seguita da Raina che arriva al letto contempora­neamente alla madre. Le due donne si trovano quindi di fronte, una di qua e una di là dal letto.) Dorme della grossa! Che animale!

Raina (ansiosa). Sss!

Caterina (scuotendolo). Signore! (Lo scuote di nuovo, più forte.) Signore!!! (Lo scuote con tutta la forza in modo addirittura violento.) Signore!!!

Raina (afferrandola per un braccio). No, mamma: poverino, è sfinito. Lascialo dormire.

Caterina (lo lascia andare e si volta, sbalordita, verso Raina), Poverino?! Raina!!! (Guarda con durezza la figlia.)

L'uomo dorme profondamente.


Atto secondo

Il 6 marzo 1886. Nel giardino dell'abitazione del maggiore Petkoff. È una bella mattinata di primavera, e il giardino è fresco e grazioso. Oltre lo steccato sì vedono le cupole di due minareti, per indicare che là dietro c'è una vallata con una piccola città. Poche miglia più in là si ergono i Balcani, che chiudono il paesaggio. Guardando verso loro dal giardino, il fianco della casa è visibile sulla sinistra, con una porta late­rale alla quale si accede dal giardino con una rampa di scale. Sulla destra, il cortile della scuderia, con il breve viale, invade il giardino. Lungo lo steccato e attorno alla casa sono cespugli fruttiferi coperti da panni stesi ad asciugare. Un viottolo fiancheggia la casa e, all'angolo, si alza di due gradini per poi sparire. Nel centro, una piccola tavola, vicino alla quale sono due sedie pieghevoli di legno, è apparecchiata per la prima colazione con la cuccuma del caffè turco, le tazzine, i rotolini di pane, eccetera; ma le tazze sono state adoperate e il pane è stato spezzato. Contro la parete, a destra, una panca da giardino, di legno.

Luka, che fuma una sigaretta, è in piedi tra la tavola e la casa, e volta le spalle, rabbiosa e sdegnosa, a un servitore che le sta facendo la predica. È un uomo di mezza età, dal tem­peramento freddo e dall'intelligenza mediocre ma chiara e pe­netrante, che dimostra la compiacenza del servitore il quale valuta se stesso secondo il proprio rango di servitù e l'im­passibilità del calcolatore sicuro il quale non si fa illusioni. Indossa un costume bulgaro bianco: tunica con bordo rica­mato, fusciacca, pantaloni corti e ampi, giarrettiere decorate. Ha la testa rapata fino in cima, così che gli è venuta un'alta fronte giapponese. Si chiama Nicola.

Nicola. Te lo dico in tempo, Luka: cambia modo di fare. Io conosco la padrona. È così in alto che non sogna nep­pure la possibilità che un servo possa mancarle di ri­spetto; ma se arriva a sospettare che tu la sfidi, ti caccia via.

Luka. Io la sfido. E la sfiderò. Che cosa me ne importa di lei?

Nicola, Se litighi con la famiglia, io non ti posso sposare. È come se litigassi con me!

Luka. Tu prendi le sue parti contro di me, vero?

Nicola (placandola). Io dipenderò sempre dalla benevolenza della famiglia. Quando lascerò il loro servizio e aprirò una bottega a Sofia, la loro frequenza sarà la metà del mio capitale: una loro cattiva parola mi rovinerebbe.

Luka. Non hai coraggio, tu. Mi piacerebbe sentirli dire una mezza parola contro me!

Nicola (compassionevole). Ti credevo più giudiziosa. Ma sei giovane, Luka:  sei tanto giovane!

Luka. Sì, ed è per questo che ti piaccio, non è vero? Ma anche se sono giovane, so che certi altarini di famiglia non hanno da essere scoperti. Ci provino a litigare con me, ci provino!

Nicola (compassionandola, dall'alto in basso). Lo sai che cosa farebbero se ti sentissero ragionare così?

Luka. Che cosa farebbero?

Nicola. Ti licenzierebbero per infedeltà. E dopo, chi ci cre­derebbe ai tuoi racconti? Chi te lo darebbe un altro po­sto? Chi oserebbe mai farsi vedere con te stando in que­sta casa? E quanto ce lo lascerebbero tuo padre nel suo campicello? (Ella mostra la sua impazienza buttando via la cicca della sigaretta e schiacciandola con un piede.) Povera bambina, non lo sai tu il potere che hanno certi signoroni su gente come te o come me, quando ci az­zardiamo ad alzare contro loro la cresta della nostra po­vertà. (Le va vicino, abbassando la voce.) Guardami, so­no dieci anni che sto a questo servizio. Credi che non ne conosca, io, di altarini? So certe cose sulla padrona che mi potrebbero fruttare anche mille leva, se minacciassi di dirle al padrone. E so certe cose sul padrone che lo lascerebbero sei mesi senza fiato se andassi a spifferarle alla padrona. So certe cose su Raina che se saltassero fuori manderebbero all'aria il matrimonio con Sergio...

Luka (interrompendolo, rapida). Come le sai? Io non te le ho mai dette!

Nicola (spalanca gli occhi, con furbizia). Questi sarebbero i tuoi altarini, vero? Lo sapevo, io, che era tutto lì. Be', dai retta a me, seguita a essere rispettosa; e lascia che la padrona seguiti ad esser certa che qualsiasi cosa tu sap­pia o non sappia può star tranquilla che terrai la bocca chiusa e servirai la famiglia con fedeltà. È questo che vo­gliono, ed è così che potrai ottenere il massimo da loro.

Luka (con tono beffardo e saputo). Tu, Nicola, hai un animo servile.

Nicola (compiacente). Sì, questo e il segreto del successo per la servitù.

Si ode dal cortile della scuderia il colpo secco del ma­nico di una frusta battuto contro una porta di legno.

Voce d'uomo (da fuori). Ehi! Ehi di casa! Nicola!

Luka. Il padrone! tornato dalla guerra!

Nicola (svelto). Perdio, Luka, la guerra è finita. Svelta, vai a prendere un caffè fresco. (Corre nel cortile della scuderia.)

Luka (mentre raccoglie sul vassoio la cuccuma e le tazze del caffè per portarle in casa). Ma dentro a me l'anima della serva non ce la ficcherai mai.

Il maggiore Petkoff viene dal cortile della scuderia, se­guito da Nicola. È un uomo di circa cinquant’anni, bo­nario, emotivo, insignificante, sciatto, di natura poco ambiziosa, salvo per quanto riguarda i suoi redditi e la sua importanza nella società locale, ma attualmente molto soddisfatto del rango militare assunto durante la guerra come notabile della sua città. La febbre di co­raggioso patriottismo suscitata in tutti i bulgari dall'at­tacco serbo gli ha fatto superare la guerra; ma egli è evidentemente lieto di essere nuovamente a casa.

Petkoff (indica col frustino la tavola della colazione). Si fa colazione qua fuori, eh?

Nicola. Sissignore. La signora padrona e la signorina Raina sono appena andate in casa.

Petkoff (si siede e prende un rotolino di pane). Vai ad av­vertirle che sono tornato; e portami del caffè fresco.

Nicola. L'ho già ordinato, signore. (Va alla porta della casa. Luka, col caffè fresco, una tazzina pulita e una bottiglia di cognac sul vassoio, lo incrocia.) Hai avvertito la signora?

Luka. Sì:  sta venendo.

Nicola va in casa. Luka posa il caffè sul tavolino.

Petkoff. Be'. i serbi non ti hanno portato via con loro, eh?

Luka. Nossignore.

Petkoff. Brava. Mi hai portato un po' di cognac?

Luka (posando il cognac sul tavolino). Eccolo, signore.

Petkoff. Brava (Ne versa un poco nel caffè.)

Caterina, non avendo, a quell'ora mattutina, fatto che una toletta piuttosto sbrigativa, porta un grembiule bulgaro su una vestaglia che fu sgargiante ma è adesso assai logora e un fazzoletto colorato legato sopra i ca­pelli neri e voluminosi; viene dalla casa con un paio di babbucce turche sui piedi scalzi e appare sbalorditiva­mente bella e imponente in qualsiasi arnese. Luka va in casa.

Caterina. Mio caro Paolo: che sorpresa per tutti noi! (Si china sullo schienale della sedia di lui per baciarlo.) Ti hanno portato del caffè fresco?

Petkoff. Sì: ci ha pensato Luka. La guerra è finita. Il trattato è staio firmato tre giorni fa a Bucarest; e ieri è stato ap­provato il decreto per la smobilitazione del nostro esercito.

Caterina (drizzandosi tutta, con occhi fiammeggianti). Pao­lo: hai lasciato che le forze austriache ti imponessero la pace?

Petkoff (sottomesso). Ma, cara, non hanno chiesto il mio consenso. Che cosa potevo fare, io? (Essa si siede, e guarda dall'altra parte.) Naturalmente, ci siamo preoccu­pati che il trattato fosse onorevole. Dichiara la pace...

Caterina (offesa). La pace!

Petkoff (placandola)... ma non relazioni amichevoli, bada bene. Volevano che ci fosse anche questo, ma io ho pre­teso che fosse cancellato. Che cosa potevo fare di più?

Caterina. Avresti potuto annettere la Serbia e nominare il principe Alessandro imperatore dei Balcani. Ecco che co­sa avrei fatto io.

Pelkoff. Non ne dubito affatto, mia cara. Ma prima avrei dovuto sottomettere l'intero Impero austriaco; e questo mi avrebbe trattenuto troppo a lungo lontano da te. Mi mancavi tremendamente.

Caterina (cedendo). Ah! (Allunga il braccio sulla tavola per strizzare la mano di lui.)

Petkoff, E tu come sei stata, mia cara?

Caterina. Oh, i miei soliti mal di gola: niente altro.

Petkoff (convinto). Dipende dalla tua mania di lavarti il collo tutti i giorni. Te l'ho detto tante volte.

Caterina. Che sciocchezze, Paolo!

Pelkoff (guardando il caffè e la sigaretta). Non credo nelle esagerazioni di queste abitudini moderne. Tutto questo lavarsi non può far bene: è contro natura. A Filippopoli c'era un inglese che tutte le mattine, appena al­zato, si bagnava da capo a piedi con l'acqua fredda. Che schifo! È tutta colpa degli inglesi: il loro clima li sporca talmente che sono costretti a lavarsi in continuazione. Guarda mio padre! non ha mai fatto il bagno in vita sua; e ha campato fino a novant’otto anni, era l'uomo più sano di tutta la Bulgaria. Io non mi oppongo a una buona lavata tutte le settimane, per riguardo alla mia posizione; ma lavarsi tutti i giorni è un eccesso vera­mente ridicolo.

Caterina. Tu, Paolo, hai ancora l'animo del barbaro. Spero che ti sarai condotto bene di fronte a tutti quegli ufficiali russi.

Petkoff. Ho fatto del mio meglio. Mi sono preoccupato di far loro sapere che abbiamo una biblioteca.

Caterina. Già, ma non hai detto loro che ci abbiamo messo un campanello elettrico. Ne ho fatto impiantare uno io.

Petkoff. Che cos'è un campanello elettrico?

Caterina. Si tocca un bottone; qualcosa tintinna in cucina; e appare Nicola.

Petkoff. Perché non si può chiamarlo con un grido?

Caterina. Le persone civili non chiamano mai i loro dome­stici con un grido. L'ho imparato mentre eri via tu.

Petkoff. Be', anch'io ho imparato una cosa. Le persone civili non stendono i panni ad asciugare dove possono essere veduti dagli ospiti; dunque è meglio che tutta quella roba (indica gli indumenti che sono stesi sui cespugli) tu la faccia mettere altrove.

Caterina. Oh, è ridicolo, Paolo. Non posso credere che le persone veramente raffinate osservino certe cose.

Sergio (bussando ai cancelli della scuderia). Il cancello, Nicola!

Petkoff. Ecco, Sergio. (Gridando.) Ohé, Nicola!

Caterina. Via, non gridare, Paolo: non sta bene.

Petkoff. Uffa! (Strilla più forte di prima:) Nicola!

Nicola (apparendo sulla porta di casa). Comandi, signore.

Petkoff. Sei sordo? Non senti che il maggiore Saranoff sta bussando? Fallo passare di qua. (Pronuncia il cognome appoggiando sulla seconda sillaba: Saranoff.)

Nicola. Sì, signor maggiore. (Va nel cortile della scuderia.)

Petkoff. Cara, bisogna che tu gli parli prima che Rama ce lo porti via. Mi leva il respiro con la mania della promozio­ne. Vuole un grado superiore al mio, non ti dico altro.

Caterina. Quando sposa Raina, bisogna farlo promuovere in tutti i modi. E, poi, il paese dovrebbe esigere almeno un generale bulgaro,

Petkoff. Sì, perché possa buttar via un'intera brigata invece di un reggimento. È inutile, cara mia: non c'è la minima probabilità che possa essere promosso fino a che non siamo proprio sicuri che questa pace è duratura.

Nicola (al cancello, annunciando). Il maggiore Sergio Saranoff! (Va in casa e torna subito con una terza sedia che mette vicino alla tavola. Indi, si ritira. )

Il maggiore Sergio Saranoff, l'originale della fotografia che abbiamo veduta in camera di Raina, è un uomo alto e romanticamente bello, con la robustezza fisica, la spavalderia e la sospettosa fantasia di un indomito capo montanaro. Ma la sua notevole finezza personale è di tipo caratteristicamente civile. L'arco delle sopracciglia, curvo a mo' d'interrogativo nel tratto finale esterno, lo sguardo geloso e indagatore, il naso sottile, aguzzo e ap­prensivo nonostante Valla gobba aggressiva e la narice aperta, il mento prepotente non starebbero fuori posto in un salotto parigino e dimostrano che l'intelligente e immaginoso barbaro ha delle facoltà critiche assai acute rese attivissime dall'arrivo della civiltà occidentale nei Balcani. Il risultato è identico a quello prodottosi in Inghilterra ai primordi dell'avvento del pensiero del­l'Ottocento: vedi ti byronismo. Quel suo meditare sul­la perpetua impossibilità, non solo degli altri ma di se stesso, di vivere seconda i propri ideali, il suo conse­guente sprezzo cinico dell'umanità, la sua scialba cre­dulità nel valore assoluto dei suoi concetti e nell'inde­gnità del mondo che li trascura, il suo trasalire e il suo schernire sotto il pungolo delle piccole delusioni che la sua sensibilità e il suo spirito di osservazione raccolgono a ogni ora trascorsa in mezzo ai suoi simili, gli hanno fatto acquistare un'aria mezza tragica e mezza ironica, un certo misterioso malumore, il sentore di una strana e tremenda avventura che lo ha lasciato ricco soltanto di un intramontabile rimorso simile a quello con cui Childe Harold ha affascinato le nonne di tutti gli in­glesi di oggi. È chiaro che l'eroe ideale di Raina è que­sto o nessun altro. Caterina non è certo meno entusiasta di sua figlia, e assai meno riservata nel dimostrare il suo entusiasmo. Quando lo vede apparire sul cancello della scuderia, ella si alza per salutarlo con effusione. Petkoff si mostra nettamente meno disposto a far tante storie per lui.

Petkoff. Già arrivato, Sergio! Piacere di vederti.

Caterina. Mio caro Sergio. (Gli porge tutt'e due le mani.)

Sergio (baciandole con scrupolosa galanteria). Mia cara mam­ma, se così posso chiamarla.

Petkoff (secco). Suocera, Sergio: suocera! Siediti ; e prendi un caffè.

Sergio. Grazie, non prendo caffè. (Si stacca dalla tavola, mostrando un certo disgusto per il piacere che Petkoff ne trae, e si mette con cosciente dignità contro la ringhiera dei gradini che conducono in casa.)

Caterina. Bellissimo, Sergio. Questa campagna ti ha donato molto. Qua tutti sono pazzi per te. L'entusiasmo ci ha fatto perdere la testa, quando abbiamo saputo di quella meravigliosa carica di cavalleria.

Sergio (con grave ironia). Signora: essa fu la culla e la fossa della mia reputazione militare.

Caterina, Perché?

Sergio. Io ho vinto la battaglia senza strategia mentre i no­stri illustri generali russi la stavano perdendo strategica­mente. Insomma, io ho sconvolto i loro piani e ferito la stima che avevano di loro stessi. Due colonnelli cosacchi hanno fatto dirottare i loro reggimenti secondo i più ri­gorosi principi di scienza bellica. Due maggiori-generali sono stati uccisi secondo i più severi principi di eti­chetta militare. Quei due colonnelli sono oggi maggiori-generali; e io sono ancora un semplice maggiore,

Caterina. Non rimarrai tale, Sergio. Le donne sono dalla tua parte e penseranno a farti rendere giustizia.

Sergio. È troppo tardi. Ho aspettato la pace per rassegnare le mie dimissioni.

Petkoff (lasciando ricadere la tazzina sul piatto, in segno di sbalordimento). Le tue dimissioni!

Caterina. Oh, le devi ritirare!

Sergio (con enfasi decisa e misurata, incrociando le braccia). Io non indietreggio mai.

Petkoff (seccato). Ma chi poteva supporre che avresti fatto una cosa simile?

Sergio (con fuoco). Tutti coloro che mi conoscono. Ma ades­so basta parlare di roe e delle mie faccende. Come sta Raina? e dov'è Raina?

Raina (appare improvvisamente all'angolo della casa e si fer­ma in cima ai gradini del viottolo). Eccola.

Tutti si voltano. Il quadro che ella compone è delizioso. Porta un abito di seta verde pallido e un soprabito di sottile tela cruda, ricamata d'oro. È incoronata da una graziosa cuffietta orientale di teletta dorata. Sergio le va impulsivamente incontro. Posando regalmente, Raina gli porge la mano: egli piega cavalierescamente un gi­nocchio e gliela bacia.

Petkoff (da parte, a Caterina, raggiante di paterno orgo­glio). Bella, eh? Appare sempre al momento giusto.

Caterina (impaziente). Sì: lo aspetta in ascolto. È un'abitudine abominevole.

Sergio fa ventre avanti Raina, con stupenda galanteria. Quando arrivano alla tavola, essa si volta verso lui con un cenno del capo; egli si inchina; indi si separano: Sergio viene al suo posto e Raina va a mettersi dietro la sedia del padre.

Raina (chinandosi e baciando il padre). Caro papà! Benvenuto a casa!

Petkoff (accarezzandole la guancia). Cara bambina mia! (La bacia. Essa va alla sedia che Nicola aveva lasciato per Sergio, e si siede.)

Caterina. E così, Sergio, non sei più soldato.

Sergio. Non sono più soldato. Essere soldato, mia cara si­gnora, significa esercitare la vile arte di attaccare spieta-tamente quando si è forti e di tenersi lontani dalla mi­schia quando si è deboli. Ecco tutto il segreto di un combattimento ben riuscito. Mettere in svantaggio il nemico e non combatterlo mai, per nessun motivo, quando si è in condizioni di parità.

Petkoff. Non ci consentirebbero di fare una bella battaglia, se fosse altrimenti. Del resto, ritengo che fare il soldato debba essere un commercio come un altro.

Sergio. Appunto. Ma io non ho l'ambizione di rifulgere nel commercio, e, quindi, ho seguito il consiglio di quel ca­pitano commesso viaggiatore che ha trattato con noi lo scambio dei prigionieri a Pirot, e ci ho rinunciato,

Petkoff. Chi? quello svizzero? Sergio, ho ripensato spesso a quello scambio. Con l'affare dei cavalli, è stato più furbo di noi.

Sergio. Lo credo bene. Suo padre era custode di alberghi e di scuderie, e i primi passi li ha fatti grazie alla sua co­noscenza nel commercio dei cavalli. (Con beffardo entu­siasmo) Oh, quello sì che era soldato: soldato dalla testa ai piedi! Se avessi comprato cavalli per il mio reg­gimento invece di guidarlo stupidamente verso il peri­colo, a quest'ora sarei gran maresciallo!

Caterina. Uno svizzero! E che cosa faceva nell'esercito serbo?

Petkoff. Il volontario, naturalmente: era stato abile nella scelta della professione. (Ridacchia.) Se quei forestieri non ci avessero insegnato come fare, non avremmo sa­puto neanche cominciare a combattere: non ne sapeva­mo nulla; e non ne sapevano nulla neanche i serbi. Perdio, senza loro la guerra non si sarebbe fatta!

Raina. Ci sono molti ufficiali svizzeri nell'esecrato serbo?

Petkoff. No. Sono tutti austriaci, proprio come i nostri uffi­ciali erano tutti russi. Questo è il solo svizzero che abbia incontrato. Non mi fiderò mai più di uno svizzero. Ci ha imbrogliato facendosi dare cinquanta uomini abili in cambio di duecento cavalli sfiniti. Non erano nemmeno commestibili.

Sergio. Caro maggiore, eravamo come due bambini nelle mani di quel consumatissimo soldato: proprio due bam­bini innocenti.

Raina. Che aspetto aveva?

Caterina. Oh, Raina, che domanda stupida!

Sergio. Sembrava un viaggiatore di commercio vestito in uniforme. Borghese fino alla punta degli stivali!

Petkoff (sogghigna). Sergio: racconta a Caterina la strana storia che ci ha riferito quel suo amico, a proposito della sua fuga dopo Slivnitza. Ricordi? Di quando è sta­to nascosto da due donne.

Sergio (con amara ironia). Ah sì: che avventura! Combatteva nella battaglia durante la quale io ho comandato quella carica così poco strategica. Essendo soldato da capo a piedi, è scappato via come gii altri, inseguito anch'egli dalla nostra cavalleria. Per sfuggire alle sciabole degli inseguitori s'è arrampicato su per il tubo di una gron­daia e s'è intromesso nella camera da letto di una signo­rina bulgara. La signorina s'è lasciata incantare dai suoi convincenti discorsi da commesso viaggiatore. Lo ha con tutta modestia intrattenuto per un'ora o poco più, e poi ha chiamato sua madre per timore che la sua condotta non apparisse sufficientemente verginale. La vecchia si­gnora è rimasta non meno affascinata e, al mattino, il fuggiasco è stato affidato alla sua sorte, coperto da un vecchio pastrano appartenente al padron di casa, che era alla guerra.

Raina (alzandosi con marcata alterigia). La vita di campo ti ha involgarito, Sergio. Non credevo che avresti ripetuto in mia presenza un racconto siffatto. (Si allontana, freddamente. )

Caterina (alzandosi anch'essa). Ha ragione, Sergio. Se don­ne siffatte esistono, la conoscenza di costoro dovrebbe esserci risparmiata.

Petkoff. Uff! che sciocchezze! che importanza ha?

Sergio (con vergogna). No, Petkoff: ho avuto torto. (A Raina, con sincera umiltà.) Ti chiedo scusa. Mi sono condotto in modo abominevole. Perdonami, Raina. (Es-sa fa un inchino molto riservato) E anche lei, signora. (Caterina s'inchina con grazia, e si siede. Egli prosegue solennemente, rivolgendosi nuovamente a Raina.) Le brevi visioni che ho avuto, durante questi ultimi mesi, del lato torbido della vita mi hanno reso cinico; ma non avrei dovuto portare fin a qui il mio cinismo: e tanto meno in tua presenza, Raina. Ho... (A questo punto, rivolgendosi agli altri, è evidente che sia per iniziare un lungo discorso, ma il maggiore lo interrompe.)

Petkoff. Frottole e sciocchezze, Sergio! Non facciamo tante storie per nulla: la figliola di un soldato deve esser ca­pace di ascoltare una conversazione lievemente piccante senza batter ciglio. (Si alza.) Vieni: è ora che ci mettia­mo al lavoro. Bisogna che stabiliamo il sistema di far tornare a Filippopoli quei tre reggimenti: sulla strada di Sofia non c'è foraggio per loro. (Va verso la casa.) Vieni. (Sergio sta per seguirlo quando Caterina si alza e inter­viene.)

Caterina. Oh, Paolo, non puoi far a meno di Sergio per qualche minuto? Raina lo ha appena visto. Forse posso aiutarti io a sistemare quei reggimenti.

Sergio (protestando). Ma, cara signora, è impossibile: lei...

Caterina (fermandolo, scherzosamente). Tu, caro Sergio, stai qui. Ho una parolina o due da dire a Paolo. (Sergio si in­china subito e fa un passo indietro.) Avanti, caro (pren­de il braccio di Petkoff): Vieni a vedere il campanello elettrico.

Petkoff. Sì, molto bene, molto bene.

Vanno in casa insieme, molto affettuosamente. Sergio, rimasto solo con Raina, la guarda ansiosamente, temen­do che ella sia ancora offesa. Ella sorride, e gli tende le braccia.

Sergio (affrettandosi verso lei). Sono perdonato?

Raina (posandogli le mani sulle spalle mentre alza la testa per guardarlo con ammirazione e venerazione). Mio eroe! Mio re!

Sergio. Mia regina! (La bacia in fronte.)

Raina. Come ti ho invidiato, Sergio! Sei stato nella mischia, sul campo di battaglia, capace di provare a te stesso che eri degno di qualsiasi donna al mondo; mentre io sono stara costretta a rimanere in casa, in ozio... sognante... inutile... senza far nulla che mi potesse dare ildiritto di considerarmi degna di qualsiasi uomo.

Sergio. Mia diletta: ogni mia azione è stata tua. Tu mi hai ispirato. Io ho affrontato la guerra come un cavaliere af­frontava il torneo sotto gli occhi della sua dama!

Rama, E mai, neppure per un attimo, tu sei stato lontano dai miei pensieri. (Molto solenne.) Sergio: io credo che noi due abbiamo trovato l'amore più alto. Quando penso a te, sento che non sarei mai capace di commette­re una viltà, o di avere un pensiero ignobile.

Sergio. Mia signora e mia santa! (Egli la stringe con reverenza.)

Raina (ricambiando l'abbraccio). Mio signore e mio...

Sergio. Sss! sss! lascia, mia cara, che sia io ad adorare. Tu non puoi sapere quanto un uomo, anche il migliore fra tutti, possa essere indegno della pura passione di una fanciulla!

Raina. Ho fede in te, Sergio. Ti amo. Non mi deluderai mai. (Si ode Luka che canta in casa. I due si staccano imme-diatamente.) Non posso fingere indifferenza di fronte a lei: il mio cuore trabocca. (Luka viene dalla casa, col vassoio. Va alla tavola e comincia a sparecchiarla, vol­tando le spalle ai due.) Vado a prendere il cappello; così possiamo uscire fino a ora di colazione. Non ti piacerebbe?

Sergio, Fai presto. Cinque minuti della tua assenza mi par­ranno cinque ore. (Raina corre in cima ai gradini, indi si volta per scambiare uno sguardo con lui e lanciargli un bacio con le due mani. Egli la segue con sguardo com­mosso; poi si volta lentamente, mostrando un viso rag­giante di stupenda esaltazione. Il movimento sposta il suo campo visivo, nell'angolo del quale appare la coda del doppio grembiule di Luka. La sua attenzione si fer­ma immediatamente. Egli la guarda furtivamente e co­mincia ai arricciarsi i baffi con malizia, mentre tiene la mano sinistra sul fianco. Alla fine, colpendo il terreno coi tacchi con smargiasso gesto da cavaliere, sì dirige lenta­mente verso il lato opposto della tavola, di fronte a lei, e dice) Luka: lo sai che cos'è l'amore più alto?

Luka (stupita). Nossignore.

Sergio. È una cosa molto stancante da sostenere, Luka, sia pure per un attimo. Dopo di esso, si prova il bisogno di un sollievo.

Luka (con innocenza). Forse il signore vuole un caffè? (Al­lunga la mano attraverso la tavola per prendere la cuccuma del caffè.)

Sergio (afferrandole la mano). Grazie, Luka.

Luka (fingendo di tirarla indietro). Oh, signore, lei sa che non intendevo questo. Mi meraviglio di lei!

Sergio (girando attorno alla tavola e tirando Luka verso di sé). Mi meraviglio di me stesso, Luka. Che cosa direbbe, Sergio, l'eroe di Slivnitza, se mi vedesse ora? Che cosa direbbe Sergio, l'apostolo dell'amore più alto, se mi ve­desse ora? Che cosa direbbe quella mezza dozzina di Sergi che seguitano a far capolino da questo mio bel­l'aspetto se ci sorprendesse qua? (Lascia andare la mano di lei, e le fa abilmente scivolare un braccio attorno alla vita.) Luka, pensi che abbia un aspetto prestante?

Luka. Mi lasci andare, signore. Sarei rovinata. (Ella si dime­na; egli la trattiene, inesorabile.) Oh, mi vuol lasciar andare, sì, o no?

Sergio (fissandola negli occhi). No.

Luka. E allora stia più indietro, dove nessuno ci vede. Non ha giudizio, lei?

Sergio. Ah, questo è ragionevole. (Egli la trascina nel via-letto che è di fronte al cortile della scuderia, dove non possono essere veduti dalla casa.)

Luka (pietosa). Potrei essere stata vista dalle finestre: è cer­to che la signorina Raina la sta spiando.

Sergio (punto sul debole: lasciandola andare). Sta' attenta, Luka: può darsi che io sia tanto indegno da tradire l'amore più alto; ma tu non insultarlo.

Luka (modestina). Non l'insulterò mai in vita mia, signore. Permette che vada avanti col mio lavoro, signore?

Sergio (mettendole nuovamente un braccio attorno alla vita), Luka, sei una piccola strega provocante. Se fossi inna­morata di me, mi spieresti da dietro le persiane?

Luka. Be', signore, capirà, siccome lei dice di essere, tutt'in una volta, una mezza dozzina di signori diversi, avrei un bel da fare a tenerli a bada tutti,

Sergio (incantato). Sei spiritosa quanto sei bella. (Cerca di baciarla. )

Luka (evitandolo). No, non voglio i suoi baci. I signori sono tutti uguali: lei mi corteggia dietro le spalle della si­gnorina Raina; e la signorina Raina fa altrettanto dietro le spalle sue.

Sergio (indietreggiando di un passo). Luka!

Luka. Vuol dire che a tutti e due importa poco l'uno dell'altro.

Sergio (perde ogni confidenza e parla con raggelante cor­tesia). Se la nostra conversazione ha da seguitare, ti pre­go, Luka, di tener presente che un gentiluomo non di­scute mai con una cameriera la condotta della signora alla quale è fidanzato.

Luka. È tanto difficile sapere quello che è giusto per un gentiluomo. Visto che provava a baciarmi, credevo che avesse rinunciato a certe pignolerie.

Sergio (staccandosi da lei e colpendosi la fronte mentre tor­na nel giardino, attraverso il cancello). Demonio! Demonio!

Luka. Ah-ah! Mi pare che uno dei sei signori che sono in lei somigli molto a me, signore; per quanto io sia sol­tanto la cameriera della signorina Raina. (Torna al suo lavoro, spicciando la tavola, senza più badare a lui.)

Sergio (parlando con se stesso). Qual è il vero uomo tra quei sei? ecco il problema che mi tormenta. Uno di loro è un eroe, un altro è un buffone, un altro è un ciarlata­no, un altro, forse, è un po' farabutto. (Si ferma e guarda furtivamente Luka mentre soggiunge, con profonda amarezza) E almeno uno è un vigliacco: geloso, come tutti i vigliacchi. (Va alla tavola.) Luka.

Luka. Comandi!

Sergio. Chi è il mio rivale?

Luka. Non me lo caverà di bocca, né per amore né per denaro.

Sergio. Perché?

Luka. Lasci perdere il motivo. E, poi, andrebbe subito a dire che gliel'ho detto io; e ci rimetterei il posto.

Sergio (stendendo la mano destra, per confermare quello che dice). No! parola d'onore d'un... (Si trattiene; lascia cadere la mano, ciondoloni, mentre conclude sardonica­mente)... di un uomo capace di condursi come mi sono condotto io in questi ultimi cinque minuti. Chi è?

Luka. Non lo so. Non l'ho veduto mai. Ho solo udito la sua voce attraverso la porta della camera da letto della signorina.

Sergio. Maledizione! Come ti permetti?

Luka (indietreggiando). Oh, non volevo dir nulla di male: non deve interpretare male le mie parole. La signora sa tutto. E stia tranquillo che se quel signore torna qua un'altra volta, la signorina Raina se lo sposa, anche se lui non vuole. Io lo so quanto ci corre tra la verità e le smorfie che fanno loro due, quando sono uno davanti all'altro.

Sergio traballa come se ella lo avesse pugnalato. Poi. irrigidendo il volto come se fosse d'acciaio, va lenta­mente di frante a lei e l'afferra per gli omeri, con le due mani.

Sergio. Stai bene a sentire.

Luka (dimenandosi). Non stringa tanto: mi fa male.

Sergio. Non ha importanza. Hai macchiato il mio onore ren­dendomi complice della tua curiosità. E hai tradito la tua padroncina.

Luka (torcendosi). Basta...

Sergio. Ciò dimostra che sei un'immonda zolla di volgarissi-ma terra, con l'anima della serva. (La lascia andare come se fosse un oggetto sudicio e se ne distoglie, spolveran­dosi le mani; va al sedile che è contro al muro e vi si siede, voltando la testa dall'altra parte, cupo e medita­bondo.)

Luka (piagnucolando rabbiosamente, con le mani infilate nelle maniche a strofinare le braccia illividite). Lei fa male con la lingua come con le mani. Ma non me ne im­porta nulla, perché adesso ho capito che lei è fatto della stessa terra di cui sono fatta io, per quanto volgare sia. E quella là è una bugiarda; e le sue moine sono unim­broglio; e io valgo sei volte più di lei, (Si scrolla fatico­samente dal male che sente alle braccia; butta indietro la testa; e si dà da fare per riporre la roba sul vassoio.)

Egli la guarda dubbioso. Luka finisce di sistemare la roba sul vassoio, ricoprendolo con le cocche della tova­glia per non dover fare un secondo viaggio. Mentre si china per sollevare il vassoio, egli si alza.

Sergio. Luka! (Luka si ferma e lo guarda, sfidandolo.) Un gentiluomo non ha mai il diritto di far male a una don­na, in nessuna circostanza. (Con profonda umiltà, sco­prendosi il capo.) Ti chiedo scusa.

Luka. Questo sistema di scusarsi può soddisfare una signora. Ma una serva che se ne fa?

Sergio (arrabbiatissimo nella sua cavalleria, esplode in una risata amara e dice con sprezzo) Ah! vuoi che ti paghi il livido che t'ho fatto? (Si rimette in capo lo shako e prende del danaro dalla tasca.)

Luka (con gli occhi, suo malgrado, pieni di lagrime). No: voglio che sani il mio livido.

Sergio (placato dal tono di lei). In che modo?

Si arrotola la manica del braccio sinistro; stringe il braccio col pollice e le dita della mano destra; e osserva il livido. Poi alza la testa e guarda fissa Sergio. Alla fine, con gesto superbo, gli porge il braccio perché egli lo baci. Sbalordito, egli guarda Luka; poi il braccio; poi ancora Luka; esita; e alla fine, con fremente intensità, esclama Mai! e si allontana il più possibile da lei. Ella lascia cadere il braccio. Senza una parola e con sincera dignità, prende il vassoio e sta per entrare in casa, quando torna Raina, che porta un cappello e una giacca se­condo la più ardita moda viennese del precedente anno 1885. Luka le fa largo orgogliosamente e scompare in casa.

Raina. Son pronta. Che cos'è accaduto? (Allegramente.) Hai fatto la corte a Luka?

Sergio (subito.) No, no. Come puoi pensare una cosa simile?

Raina (vergognandosi di se stessa). Perdonami, caro: scherzavo. Oggi sono così felice.

Egli va rapidamente incontro a lei, e le bacia la mano con molto rimorso. Caterina esce e li chiama dall'alto dei gradini.

Caterina (scendendo verso loro). Mi dispiace di disturbarvi, ragazzi; ma Paolo sta impazzendo per quei tre reggi­menti. Non sa come mandarli a Filippopoli; ed è con­trario a tutti i consigli che gli do io. Bisogna che tu vada a dargli una mano, Sergio. È in biblioteca.

Raina (delusa). Ma stiamo proprio andando a fare una passeggiata.

Sergio. Me la sbrigo subito. Aspettami cinque minuti. (Cor­re su per i gradini fino alla porta di casa.)

Raina (seguendolo fino in fondo ai gradini e alzando gli oc­chi per seguirlo con timida civetteria). Faccio il giro del­la casa e vado ad aspettare proprio davanti alla finestra della biblioteca. Fai in modo che papaàmi veda. Se mi fai aspettare un attimo più di cinque minuti, vengo dentro a prenderti, reggimenti o non reggimenti.

Sergio (ridendo). Benissimo. (Va in casa.)

Raina lo osserva finché scompare dalla sua vista. Poi, con un visibile mutamento di modi, comincia ad andar su e giù per il giardino, soprappensiero.

Caterina. Pensare che hanno incontrato quello svizzero e che hanno udito tutto il racconto! La primissima cosa che tuo padre ha chiesto è stata il vecchio pastrano con cui abbiamo mandato via quello lì. Ci hai messe in un bel pasticcio!

Raina (cammina su e giù osservando pensierosa la ghiaia). Che bestiaccia!

Caterina. Che bestiaccia! Quale bestiaccia?

Raina. Andarlo a raccontare! Oh, se fosse qui lo rimpinze­rei di cioccolatini alla crema fino a cavargli per sempre il fiato di chiacchierare!

Caterina. Non dire stupidaggini. Voglio sapere la verità, Raina. Quanto tempo è rimasto in camera tua prima che venissi a chiamarmi?

Raina (piroettando e riprendendo la marcia in direzione op­posta). Oh, non me lo ricordo.

Caterina, Devi ricordartelo! È vero che s'è arrampicato quando i soldati erano andati via; o era già lì quando quell'ufficiale ha perquisito la stanza?

Raina. No. Sì; credo che ci fosse già.

Caterina. Credi! Oh, Raina! Raina! Non c'è proprio nulla che possa farti mettere giudizio? Se Sergio lo scopre, va tutto a monte tra voi.

Raina (con fredda impertinenza). Oh, lo so bene che Sergio è il tuo cocco. Qualche volta vorrei che potessi sposarlo in vece mia. Saresti proprio la donna che va bene per lui. Lo coccoleresti, lo vizieresti, lo culleresti alla per­fezione.

Caterina (spalancando gli occhi fino all'inverosimile). Oh, questa poi!

Rama (capricciosa: quasi tra sé e sé). Ho sempre una voglia matta di fargli o di dirgli qualcosa di tremendo... per scuotere il suo perbenismo... e scandalizzarlo tanto da fargli sputar fuori tutti e cinque i sensi. (A Caterina, con perversità.) Non me ne importa proprio niente che venga a sapere la storia del soldatino di cioccolata. Ho una mezza speranza che la scopra. (Volta nuovamente i tacchi e se ne va, con impertinenza, su per il viottolo, fino all'angolo della casa.)

Caterina. E, se è lecito, che cosa potrei dire a tuo padre?

Raina (voltando la testa, e parlando da sopra la spalla, in cima ai due gradini). Oh, povero papà! Come se potesse ragionare con la testa sua! (Volta l'angolo e sparisce.)

Caterina (la segue con lo sguardo, sentendosi prudere le dita). Oh; se tu avessi dieci anni di meno! (Luka arriva dalla casa, con un piattino d'argento che porta tenendo la mano penzoloni lungo il fianco) Che c'è?

Luka. Una visita, signora. Un ufficiale serbo.

Caterina (avvampando). Serbo! E come osa... (trattenendosi, amaramente). Ah, dimenticavo. Adesso siamo in pace. Suppongo che ora verranno tutti i giorni a farci i conve­nevoli. Be', se è un ufficiale perché non lo dici al pa­drone? È in biblioteca col maggiore Saranoff. Perché vieni da me?

Luka. Ma chiede di lei, signora. E non credo sappia chi è lei, perché ha detto: la padrona di casa. Mi ha dato que­sto bigliettino perché glielo portassi. (Si sfila un biglietto da visita dal seno; lo posa sul piattino; e lo porge a Caterina.)

Caterina (leggendo). "Capitano Bluntschli"! È un nome tedesco.

Luka. Credo sia svizzero, signora.

Caterina (con un balzo che fa saltare indietro Luka). Svizzero! E com'è fatto?

Luka (timidamente). Ha una gran borsa di lana, signora.

Caterina. Oh, cielo! è venuto a riportare il pastrano. Manda­lo via: digli che non siamo in casa, pregalo di lasciare il suo indirizzo, perché gli possa scrivere. No, ferma: così non può andare. Aspetta! (Si butta su una sedia per ri­flettere sul da farsi. Luka aspetta.) Il padrone e il mag­giore Saranoff sono occupati in biblioteca, vero?

Luka. Sissignora.

Caterina (con decisione). Accompagna quel signore qua fuo­ri, subito. (Perentoria.) E sii molto gentile con lui. Non perder tempo. Dammi (le strappa di mano il piattino d'argento, con impazienza): lascialo qui; e tu torna im­mediatamente da lui.

Luka. Sissignora. (Si avvia.)

Caterina. Luka!

Luka (fermandosi). Sissignora.

Caterina. La porta della biblioteca è chiusa?

Luka. Credo, signora.

Caterina. Se è aperta, chiudila, quando passi.

Luka. Sissignora. (Si avvia.)

Caterina. Ferma! (Luka si ferma.) Dovrà andarsene da quel­la parte. (Indica il cancello del cortile della scuderia.) Di' a Nicola che porti qui la sua valigia. Ricordatelo.

Luka (stupita). La sua valigia?

Caterina. Sì, qui: il più presto possibile. (Con veemenza.) Svelta! (Luka corre in casa. Caterina si strappa via il grembiule e lo butta dietro un cespuglio. Poi prende il piattino d'argento e se ne serve come d'uno specchio, col risultato che il fazzoìettone legato attorno dia testa se­gue la sorte del grembiule. Una ravviatina ai capelli e una scrollata alla vestaglia la rendono presentabile.) Oh, come? come? come può un uomo essere tanto stu­pido? Che momento ha scelto! (Luka appare sulla porta di casa annunciando: Il capitano Bluntschli. Si mette da parte, in cima ai gradini, per lasciarlo passare prima di tornare nuovamente in casa. Egli è l'uomo dell'av­ventura notturna in camera di Raina, ripulito, ben spaz­zolato, con una bella uniforme e fuori dai guai, ma ine­quivocabilmente lo stesso individuo. Appena Luka vol­ta le spalle, Caterina gli si lancia addosso, appellandosi a lui in modo impetuoso, pressante e lezioso.) Capita­no Bluntschli: sono tanto contema di vederla; ma lei deve lasciare questa casa immediatamente. (Egli aggrotta la fronte.) Mio marito è appena tornato, insieme al mio futuro genero; non sanno niente. Se sapessero, le conse­guenze sarebbero terribili. Lei è uno straniero: non può sapere che cosa siano certi nostri rancori nazionali. Noi odiamo ancora i serbi: il solo effetto della pace su mio marito è stato quello di farlo sentire simile a un leone privato della sua preda. Se scoprisse il nostro segreto, non mi perdonerebbe mai; e la vita di mia figlia sarebbe difficilmente salva. Vuole, da quel cavalieresco gentiluo­mo e soldato che è, andarsene subito, prima che egli la trovi qui?

Bluntschli (deluso, ma con filosofia). Subito, graziosa signora. Sono venuto soltanto per ringraziarla e per restituirle il pastrano che mi ha prestato. Se mi permette, lo tiro fuori dalla borsa e lo lascio al suo cameriere mentre pas­so per andarmene, così non ho bisogno di trattenerla più a lungo. (Si volta per entrare in casa.)

Caterina (afferrandolo per una manica). Oh, non pensi di poter andar via da quella parte. (Lo spinge, con moine. verso il cancello della scuderia.) Questa è la strada più corta per uscire. La ringrazio tanto. Mi ha fatto molto piacere di esserle utile. Arrivederci.

Bluntschli. Ma la mia borsa?

Caterina. Gliela farò spedire. Mi lasci il suo indirizzo.

Bluntschli. Certo. Mi permetta. (Tira fuori l'astuccio delle carte da visita e si ferma a scrivere l'indirizzo, mentre Caterina si dispera nell'impazienza. Mentre le porge il biglietto, Petkoff, a capo scoperto, esce correndo dalla casa, in una foga di ospitalità, seguito da Sergio.)

Petkojf (correndo giù dai gradini). Mio caro capitano Bluntschli...

Caterina, Oh cielo! (Cade a sedere sul sedile che è contro al muro.)

Petkoff (troppo preoccupato per avvedersi di lei, stringe mol­to cordialmente la mano di Bluntschli). Quegli stupidi dei miei servitori credevano che io fossi qua fuori, inve­ce che nella... sì!... nella biblioteca. (Non può nominare la biblioteca senza tradire l'orgoglio che prova posse­dendola.) L'ho veduta dalla finestra. Mi meravigliavo che lei non entrasse in casa. Saranoff è con me: lo ricorda, vero?

Sergio (salutandolo spiritosamente e poi offrendogli la mano con modi molto affascinanti). Benvenuto al nostro amico nemico.

Petkoff. Non più nemico, per fortuna. (Con una certa ansia.) Spero sia venuto come amico, e non per i cavalli o per i prigionieri.

Caterina. Oh, soltanto come amico, Paolo. Stavo appunto pregando il capitano Bluntschli di rimanere a colazione, ma m'ha dichiarato che deve andarsene immediatamente.

Sergio (sardonico). È impossibile, Bluntschli. Abbiamo trop­po desiderio di averla con noi. Dobbiamo mandare tre reggimenti di cavalleria a Filippopoli e non sappiamo neppure lontanamente come riuscirci.

Bluntschli (subito attento e in efficienza). A Filippopoli? Sup­pongo che il difficile stia nel foraggiarli.

Petkoff (ansioso). Sì: appunto. (A Sergio.) Ha subito individuato il problema.

Bluntschli.  Credo di  poterle  indicare  il sistema  migliore.

Sergio. Uomo incomparabile! Venga dentro!  (Torreggiando su Bluntschli, gli posa una matto sulla spalla e lo condu­ce verso le sede, seguito da Petkoff.)

Raina esce dalla casa nel momento in cui Bluntschli posa il piede sul primo gradino.

Raina. Oh! Il soldatino di cioccolata!

Bluntschli si irrigidisce. Sergio, sbalordito, guarda Raina, poi guarda Petkoff; questi ricambia lo sguardo, e poi dà un'occhiata alla moglie.

Caterina (con autoritaria presenza di spirito). Ma, cara Rai­na. non vedi che abbiamo un ospite? Il capitano Blunt­schli: uno dei nostri nuovi amici serbi.

Raina s'inchina: Bluntschli s'inchina.

Raina. Che sciocca sono stata! (Viene avanti, fin nel centro del gruppo, tra Bluntschli e Petkoff). Stamattina ho fat­to una bellissima decorazione per il budino gelato: e quello stupido di Nicola ci ha buttato sopra, proprio adesso, una pila di piatti e me l'ha rovinata tutta. (A Bluntschli, vittoriosa.) Spero non avrà pensato di essere un soldatino di cioccolata, capitano Bluntschli.

Bluntschli (ridendo). Le assicuro di sì. (Le lancia furtiva­mente un'occhiata allusiva.) La sua spiegazione è stata un vero sollievo.

Petkoff (sospettoso, a Raina). E da quando, se è lecito, ti sei messa a cucinare?

Caterina. Oh, mentre eri via. È il suo ultimo capriccio.

Petkoff (impermalito). Nicola s'è forse messo a bere? Una volta era piuttosto attento. Prima ha fatto passare il ca­pitano Bluntschli qua fuori sapendo benissimo che io ero nella biblioteca; poi scende e rompe il soldatino di cioccolata fatto da Raina. Bisogna proprio...

(Nicola appare in cima ai gradini con la borsa in mano. Scende: la posa, rispettosamente, di fronte a Bluntschli; e aspetta ulteriori ordini. Sbalordimento generale. Nicola, igno­rando l'effetto che produce, appare perfettamente soddisfatto di sé. Quando ritrova la favella, Petkoff sbotta, apostrofandolo.) Sei pazzo, Nicola?

Nicola (trasecolando). Signore?

Petkoff. Perché la porti qui?

Nicola. Ordini della padrona, signor maggiore. Luka m'ha detto di...

Caterina (interrompendolo). Ordini miei! Perché mai avrei dovuto ordinare che il bagaglio del capitano Bluntschli fosse portato qua fuori? Dove avete la testa. Nicola?

Nicola (superato un certo sbalordimento, raccoglie la borsa e si rivolge a Bluntschli con la più perfetta discrezione del servo). Spero che il signor capitano vorrà perdonar­mi. (A Caterina.) Colpa mia, signora padrona: spero non vorrà darci peso. (Si inchina, e si avvia verso i gradini con la borsa, ma Petkoff gli si rivolge con rabbia.)

Petkoff. Puoi sbattere anche la borsa sul budino gelato della signorina Raina! (Questo è il colmo per Nicola. La borsa gli casca di mano, quasi sui piedi del padrone, che emette un ruggito.) Via, via di qui, somaro con le dita di pasta frolla!

Nicola (raccattando in tutta fretta la borsa e scappando in casa). Sì, signor maggiore.

Caterina. Oh. lascia andare, Paolo: non ti inquietare.

Petkoff (borbottando). Che lazzarone! Ha preso la mano durante la mia assenza. Ma ora lo raddrizzo io. Mascal­zone maledetto! Sabato prossimo lo caccio fuori! Biso­gna far piazza pulita di tutta la compagnia... (È soffo­cato dalle carezze della moglie e della figlia che gli si. sono appese al collo, e lo blandiscono.)

Caterina   Via, via, coraggio, non bisogna inquietarsi  così.  Non  l'ha  fatto apposta. Stai  buono, fammi contenta, silenzio, ssh, shn...

                       insieme       

Raina         Su,  su,  paparino bello:  oggi è un gran giorno, bisogna star tutti allegri. Ti farò un bel budino gelato, tutto per te! Te-te-teh!

Petkoff (cedendo). Oh, be', pazienza. Venga, Bluntschli: non trovi più scuse per andarsene. Sappiamo benissimo che per ora non torna in Svizzera, Finché rimane in Bulgaria, deve stare con noi.

Raina. Oh, si, bravo capitano Bluntschli.

Petkoff (a Caterina). Forza, Caterina: è di te che ha paura. Insisti, e rimarrà.

Caterina. Ma naturalmenre sarebbe una gran gioia anche per me se (supplichevole) il capitano Bìuntschli volesse ri­manere con noi. Egli conosce i miei desideri.

Bluntschli (con la più secca espressione militare). Agli ordini della signora.

Sergio (cordialmente). Tutto risolto!

Petkoff (di cuore). Certo!

Raina. Come vede, bisogna che rimanga.

Bluntschli   (sorridendo).   Be', se devo  rimanere, rimango.

Gesto disperato di Caterina.


Atto terzo

In biblioteca, dopo colazione. Non è proprio una biblioteca. La sua attrezzatura letteraria consiste in un unico scafale fisso, ingombro di vecchi romanzi non rilegati, con il dorso strappato, macchiati di caffè, laceri e scuciti; e in un paio di scaffaletti appesi a un chiodo, con alcuni libri ricevuti in dono. Il rimanente delle pareti è occupato da trofei di guerra e di caccia. Ma è un comodissimo salotto. Una fila di ire grandi finestre si apre su un panorama montano che vediamo nel suo aspetto più gaio, illuminato dal pieno sole pomeri­diano. Nell'angolo vicino alla finestra di destra, una grande stufa di terracotta, quadrata, a forma di torre, ricoperta di mattonelle lucidissime, raggiunge quasi il soffitto e garantisce molto calore. L'ottomana è simile a quella veduta nella stan­za da letto di Raina, ed è posta in modo analogo; i sedili sotto le finestre sono coperti da ricchi e multicolori cuscini. V'è, tuttavia, un oggetto che è decisamente stonato col ri­manente dell'arredamento. Si tratta di una piccola tavola da cucina, logorata dall'uso, apparecchiata come scrivania, con una vecchia scatola piena di penne, un ovarolo pieno d'in­chiostro, e un pietoso brandello di carta asciugante rosa co­perta di macchie.

Di fianco a questa tavola, posta alla sinistra di chiunque guardi le finestre, è seduto Bluntschli, indaffaratissimo, con un paio di carte topografiche davanti a sé. Sta scrivendo degli ordini. A capo della stessa tavola è seduto Sergio che dovreb­be lavorare anch'egli ma in effetti sta masticando la coda di una grossa penna d'oca, in contemplazione del lavoro che Bluntschli fa progredire con gesti rapidi, sicuri, di uomo abituato agli affari; Sergio, inoltre, dimostra un misto di invidiosa irritazione per la propria incapacità e una certa sgomen­ta meraviglia per quell'abilità che gli sembra quasi miracolo­sa, per quanto il suo prosaico carattere gli proibisca di sti­marla. Il maggiore è comodamente insediato sull'ottomana, con un giornale in mano e il cannello dell'hukah a comoda portata di mano. Caterina è seduta di fronte alla stufa, e volta loro le spalle, tutta intenta a ricamare. Raina, adagiata mollemente sul divano, fissa con sguardo sognante il paesag­gio dei Balcani, e tiene sul grembo un romanzo aperto ma dimenticato.

La porta è dallo stesso lato della stufa, più distante dalla finestra. Il pulsante del campanello elettrico è al lato opposto, dietro Bluntschli.

Petkoff (alzando gli occhi dal giornale per vedere come pro­gredisce il lavoro). Dunque, Bluntschli, non posso proprio aiutarla?

Bluntschli (senza interrompere il lavoro o alzare gli occhi). No, grazie. Saranoff e io possiamo fare benissimo da soli.

Sergio (torvo). Sì: facciamo da soli. Egli decide sul da farsi; redige gli ordini; e io li firmo. Divisione del lavoro! (Bluntschli gli passa un foglio.) Un altro? Grazie. (Po­sa il foglio ben diritto di fronte a sé; raddrizza la sedia in modo che stia parallela al foglio; e firma tenendo la guancia appoggiata sul gomito e la lingua fuori dalle lab­bra, a seguire i movimenti della penna.) Questa mano è più avvezza a maneggiar la spada che la penna.

Petkoff- Bluntschli, lei è molto gentile a permettere che noi si approfitti così di lei. Non posso proprio esserle d'aiuto?

Caterina (sottovoce, con tono ammonitore). Puoi smettere di interromperlo, Paolo.

Petkoff (sussulta e si volta per guardarla). Eh? Ah! Sì, certo, amor mio; certo. (Prende nuovamente il giornale, ma lo lascia cadere subito.) Oh, Caterina, tu non sei stata in guerra, e non sai quanto sia piacevole per noi star se­duti così, dopo una buona colazione, occupati soltanto a divertirci. Per stare assolutamente comodo avrei bisogno di una sola cosa.

Caterina. Cioè?

Petkoff. Del mio vecchio pastrano. Con questo, non mi sento a mio agio: mi sembra di essere alla rivista.

Caterina. Ma caro Paolo, quel tuo vecchio pastrano è diven­tato una vera mania. Dev'essere rimasto appeso nell'ar­madio turchino, dove lo hai lasciato partendo.

Petkoff. Ma, cara Caterina, ti ho detto che ci ho guardato. Debbo o non debbo credere agli occhi miei? (Caterina si alza e attraversa la stanza) Che bisogno hai di far mo­stra di quel campanello? (Lo guarda con aria maestosa e torna silenziosamente alla propria sedia e al proprio ri­camo.) Cara mia: se credi che la testardaggine del tuo sesso sia capace di far saltar fuori un pastrano da due vecchie vestaglie di Raina, dal tuo impermeabile e dal mio spolverino, ti sbagli di grosso. Attualmente, nell'ar­madio turchino non c'è altro.

Nicola si presenta.

Caterina. Nicola: andate all'armadio turchino, prendete il vecchio pastrano del padrone e portatelo qua: quello con gli alamari, che porta in casa.

Nicola. Sissignora. (Esce.)

Petkoff. Caterina.

Caterina. Sì, Paolo?

Petkoff. Scommetto qualsiasi gioiello che tu voglia ordinare a Sofia contro il denaro della spesa settimanale che il pastrano non c'è,

Caterina. D'accordo, Paolo!

Petkoff (eccitato alla prospettiva della scommessa). Bene; ecco una buona occasione per divertirci. Chi scommette? Bluntschli: sei contro uno,

Bluntschlì (impassibile). Sarebbe un furto, caro maggiore. Non dubito che la signora ha ragione. (Senza alzare gli occhi, passa a Sergio un altro fascio di carte.)

Sergio (con molto calore). Brava Svizzera! maggiore: io scom­metto il mio miglior cavallo da battaglia contro una ca­vallina araba per Raina che Nicola troverà il pastrano nell'armadio turchino.

Petkoff (ansioso). Il tuo miglior cav...

Caterina (affrettandosi a interromperlo). Non fare sciocchezze, Paolo. Una cavallina araba ti costerebbe almeno cin­quantamila leva.

Raina (uscendo improvvisamente dalla sua pittoresca aria di sogno). Ma, veramente, mamma, se tu accetti il gioiello non c'è motivo che io mi privi della cavallina.

Nicola torna col pastrano, e lo porta a Petkoff che stenta a credere ai suoi occhi.

Caterina. Dov'era, Nicola?

Nicola. Appeso nell'armadio turchino, signora.

Petkoff. Corpo di mille borri...

Caterina (interrompendolo). Paolo!

Petkoff. Avrei giurato che non c'era. Si vede che invecchio. Ho le traveggole. (A Nicola.) Vieni: aiutami a cambiar­mi. Mi scusi, Bluntschli. (Comincia a cambiarsi il pastra­no, aiutato dal cameriere Nicola.) Bada. Sergio: io non ho accettato la scommessa. È meglio che tu stesso regali quella cavallina araba a Raina, visto che hai fatto sorgere in lei questa speranza. Vero, Raina? (Egli la guarda, ma essa è nuovamente rapita dalla bellezza del paesaggio. Con una piccola esplosione di affetto e d'orgoglio pater­no, egli la indica agli altri, dicendo) Sogna, come sempre.

Sergio. È sicuro che non perderà nulla.

Petkoff. Tanto meglio per lei. Io, purtroppo, non me la caverò tanto a buon mercato. (Il pastrano è adesso cam­biato. Nicola esce col pastrano smesso. ) Adesso sì che mi sento a mio agio. (Si siede e riprende il giornale, con un grugnito di sollievo.)

Bluntschli (a Sergio, porgendogli un foglio). Questo è l'ultimo ordine.

Petkoff (saltando su). Come? Finito?

Bluntschli. Finito.

Petkoff (con puerile invidia). Non avete niente da far firmare a me?

Bluntschli. Non è necessario. Basta la sua firma.

Petkoff (gonfiandosi il petto e picchiandoci sopra). Benissi­mo, mi pare che abbiamo avuto una giornata campale, colma di lavoro. C'è altro da fare per me?

Bluntschli.  Sarà bene che loro due vadano a cercare gli uomini che debbono portare questi ordini. (Sergio si al­za. ) Li spedisca subito, e mostri loro che ho segnato su­gli ordini l'ora esatta in cui debbono essere consegnati. Dica loro che se si fermano a bere o a raccontar barzel­lette, se arrivano con cinque minuti di ritardo, hanno da essere frustati a sangue.

Sergio (irrigidendosi, indignato). Lo dirò. (Si avvia verso la porta.) E se uno di essi sarà tanto uomo da sputarmi in faccia per questo insulto, gli comprerò il foglio di con­gedo e gli darò una pensione. (Esce.)

Bluntschli (in confidenza). Se non le dispiace, maggiore. sorvegli che parli loro come si deve.

Petkoff (officioso). Giustissimo, Bluntschli, giustissimo. Me ne occuperò io. (Va alla porta, con aria d'importanza, ma si ferma sulla soglia, esitante.) A proposito, Caterina, potresti venire anche tu. Avranno molta più paura di te che di me.

Caterina (posando il ricamo). Oso dire che sarà meglio. Tu ti limiteresti a balbettargli davanti. (Esce, mentre Petkoff le tiene aperta la porta; indi la segue.)

Bluntschli. Che esercito! Fanno i cannoni con gli alberi di ciliegio; e gli ufficiali ricorrono alle mogli per ottenere la disciplina! (Comincia a ripiegare e a mettere a posto gli ordini.)

Raina, che s'è alzata dal divano, viene giù per la stanza, lentamente, con le mani unite dietro la schiena, e lo guarda maliziosamente.

Raina. Ha un'aria molto migliore di quando ci siamo veduti l'ultima  volta.  (Egli alza lo sguardo, stupito.)  Che cos'ha fatto?

Bluntschli. Mi sono lavato, spazzolato; ho avuto una buona notte di riposo e una buona colazione. Ecco tutto.

Raina. È arrivato a destinazione sano e salvo, quella mattina?

Bluntschli. Benissimo, grazie.

Raina. Erano in collera perché era scappato di fronte alla carica di Sergio?

Bluntschli (sorridendo). No: erano contenti, perché erano scappati via tutti come me.

Raina (va alla tavola, e vi si china sopra, per parlargli da vicino). Si saranno divertiti un mondo al suo racconto: quello su me e la mia camera.

Blunlschli. Un racconto prodigioso. Ma l'ho riferito soltanto a uno di loro, a un mio intimo amico.

Raina. Sulla discrezione del quale non aveva alcun dubbio?

Bluntschli. Assolutamente.

Raina. Hm! E l'ha ripetuto tutto a mio padre e a Sergio il giorno in cui avete combinato lo scambio dei prigionieri. (Si stacca dal tavolino, voltando le spalle a Bluntschli e avviandosi, indifferente, verso il lato opposto della stanza;)

Bluntschli (profondamente preoccupato e quasi incredulo). No! Lo dice per scherzo, vero?

Raina (si volta, improvvisamente seria). No, affatto. Ma non sanno che lei s'è rifugiato proprio in questa casa. Se lo sapesse, Sergio la sfiderebbe e l'ucciderebbe in duello.

Bluntschli. Per carità! Allora non glielo dica.

Resina. La prego, non rida, capitano Bluntschli. Non si rende conto di che cosa significa per me ingannarlo? Io desi­dero essere perfetta di fronte a Sergio: nessuna viltà, nessuna meschinità, nessun inganno. Il mio rapporto con lui è la parte bella e nobile della mia vita. Spero lei

lo      possa capire.

Bluntschli (scettico). Intende che non vorrebbe egli sco­prisse che la storia del budino gelato era un... un... un,.. Insomma, ha capito.

Raina (trasalendo). Oh, non ne parli con tanta impertinen­za. Ho mentito: lo so. Ma l'ho fatto per salvarle la vita. Egli l'avrebbe ammazzata. Era la seconda volta che dice­vo il falso. (Bluntschli si alza rapidamente e la guarda dubbioso e quasi severamente) Non ricorda la prima volta?

Bluntschli. Io? No. Ero presente?

Raina. Sì; e lo dissi all'ufficiale venuto a cercarla che lei non era presente affatto.

Bluntschli. È vero. Me ne sarei dovuto ricordare.

Raina (molto incoraggiata). Oh, è naturale che lei sia stato il primo a dimenticarsene, A lei non costò nulla: a me costò una bugia! Una bugia!

Si siede sull'ottomana, con lo sguardo fisso davanti a sé e le mani intrecciate attorno al ginocchio. Bluntschli, molto commosso, va all'ottomana con aria particolar­mente rassicurante e compresa, e si siede vicino a lei.

Bluntschli. Mia cara signorina, non si preoccupi di questo. Ricordi: io sono un soldato. E quali sono, dunque, le due cose che accadono tanto spesso a un soldato da in­durlo a non prenderle più in considerazione? Udir pro­nunciare delle bugie (Raina si ritrae) e farsi salvare la vita nei modi più svariati dalle persone più svariate.

Raina (alzandosi in segno di indignazione e di protesta). Egli diventa quindi una creatura incapace di fede e di riconoscenza.

Bluntschli (torcendo la bocca). Le piace la riconoscenza? A me no. Se la pietà è parente dell'amore, la ricono­scenza è parente della cosa opposta.

Raina. La riconoscenza! (Voltandosi verso lui.) Se lei è incapace di provare riconoscenza, è incapace di provare qualsiasi sentimento nobile. Perfino gli animali sono riconoscenti. Oh, adesso capisco esattamente quello che lei pensa di me! Non si è stupito udendomi mentire. Se­condo lei, era una cosa che probabilmente facevo tutti i giorni! a tutte le ore! È questo che gli uomini pensano delle donne. (Va su e giù per la stanza, tragicamente.)

Bluntschli (perplesso). La ragione è in tutto. Lei ha detto di aver pronunciato due sole bugie in tutta la vita. Cara si­gnorina: non le sembra una concessione un po' piccola? troppo piccola? Io stesso sono un uomo molto schietto; ma non reggo più d'una mattinata.

Raina (fissandolo altezzosamente). Sa, signore, che mi sta insultando?

Bluntschli. Non so che farci. Quando ella assume codesto nobile atteggiamento e parla con codesta voce squillante, la ammiro; ma mi riesce impossibile credere a una sola delle sue parole.

Raina (con superbia). Capitano Bluntschli!

Bluntschli (impassibile). Eh?

Raina (torreggiando su lui, come non potesse credere ai pro-pri sensi). Lei intende ciò che ha detto adesso? Lei sa ciò che ha detto adesso?

Bluntschli. Sì.

Raina (ansimando). Io! Io!!! (Indica se stessa, a dito teso, come per dire "Io, Raina Petkoff, dico bugie!". Egli sostiene lo sguardo di lei senza batter ciglio. Essa si sie­de improvvisamente vicino a lui, e soggiunge, passando totalmente da un'espressione all'altra e assumendo, dopo quell'eroico atteggiamento, una familiarità quasi infan­tile.) Come ha fatto a capirmi?

Bluntschli (pronto). L'istinto, cara signorina. Istinto, ed esperienza di mondo.

Raina (stupendosi). Ma sa che di tutti gli uomini incontrati in vita mia lei è il primo a non prendermi sul serio?

Bluntschli. Il che vuol dire, se non sbaglio, che io sono il primo uomo ad averla presa veramente sul serio?

Raina. Sì, credo voglia dir proprio questo. (Discorsiva, asso­lutamente a suo agio.) Com'è strano sentirsi parlare così! Sa?, io sono sempre andata avanti in quel modo.

Bluntschli. Vuol dire che...?

Raina. Voglio dire con il nobile atteggiamento e la voce squillante. (Ridono insieme.) Anche da bambina picco­la, con la mia balia. Lei ci credeva. Lo faccio coi miei genitori. E ci credono. Lo faccio di fronte a Sergio. E ci crede.

Bluntschli. Sì: anche lui è un po' di questo stampo, no?

Raina (meravigliata). Ah sì? Crede?

Bluntschli. Lei lo conosce meglio di me.

Raina. Chissà... chissà se è vero? Se pensassi che... (scorag­giata). Oh, be', che cosa importa? Suppongo che ades­so, dopo avermi scoperta, mi disprezzerà.

Bluntschli (con calore, alzandosi). No, mia cara signorina, no, no, mille volte no. Fa parte della sua giovinezza, e del suo fascino. Io sono come tutti gli altri: come la sua balia, come i suoi genitori, come Sergio; sono un suo infatuato ammiratore.

Raina (contenta). Davvero?

Bluntschli (battendosi il petto, magniloquente, alla tedesca). Hand aufs Herz! Lealmente e sinceramente.

Raina (molto felice). Ma che cos'ha pensato di me quando le ho dato il mio ritratto?

Bluntschli (stupito). Il suo ritratto! Lei non mi ha mai dato il suo ritratto.

Raina (svelta). Vuol forse dire che non l'ha mai ricevuto?

Bluntschli. No. (Le si siede accanto, con rinnovato interesse, e dice, con un certo compiacimento) Quand'è che me l'ha mandato?

Raina (indignata). Io non gliel'ho mandato. (Volta la lesta

dall'altra parte e soggiunge, con riluttanza) Era in tasca a quel pastrano.

Bluntschli (increspando le labbra e sgranando gli occhi). Oh-oh! Io non l'ho mai trovato. Ci dev'essere ancora.

Raina (balzando su). È ancora lì! E così mio padre lo trova la prima volta che si mette una mano in tasca! Oh, come ha potuto essere tanto poco accorto?

Bluntschli (alzandosi anche lui). Non ha importanza: penso non sarà che una fotografia: come può indovinare a chi era destinata? Gli dica che ce l'ha messa lui stesso.

Raina (impaziente). Sì: che bella trovata, che bella trovata!

(Sgomenta) Oh, come faccio?

 Bluntschli. Ah, capisco. Lei ci ha scritto qualcosa sopra. È stata un po' imprudente.

Raina (seccata quasi fino alle lagrime). Oh, aver fatto questo perlei, che prova gusto soltanto... soltanto a prendermi in giro... oh! È sicuro che nessuno l'ha toccata?

Bluntschli. No, non posso esserne proprio sicuro. Non me lo sono potuto portar sempre dietro: non si può aver molto bagaglio quando si è in servizio attivo.

Raina. Che cosa ne ha fatto?

Bluntschli. Quando sono arrivato a Pirot ho dovuto metterlo in custodia in un posto sicuro. Ho pensato al deposito della stazione ferroviaria; ma nelle guerre moderne il primo luogo a essere saccheggiato è proprio la stazione. E così l'ho impegnato.

 Raina. Impegnato!!

Bluntschli. So bene che non sembra molto gentile; ma era certamente il sistema più sicuro. L'ho riscattato ieri l'altro. Solo Dio sa se il padrone del monte dei pegni ha vuotato le tasche o no.

Raina (furibonda, apostrofandolo con insolenza). Ha una mentalità gretta, da bottegaio. Le vengono in testa cose che non verrebbero mai in testa a un gentiluomo.

Bluntschli  (flemmatico),  È  il carattere nazionale svizzero, cara signorina. (Torna alla tavola.)

Raina. Oh, come vorrei non averla mai conosciuta! (Balza via e va a sedersi, imbronciata, vicino alla finestra.)

Luka entra con un mucchio di lettere e di telegrammi su un piatto d'argento; va, con passo libero e spavaldo, alla tavola. Ha la manica sinistra rimboccata fino alla spalla e fissata con una spilla in modo che il braccio ap­paia nudo e mostri un largo braccialetto dorato che co­pre il livido.

Luka (a Bluntschli). Per lei. (Rovescia il piatto scaraventan­do lettere e telegrammi sulla tavola.) Il messo sta aspet­tando. (È decisa a non mostrarsi civile verso un nemico, anche se è costretta a portargli le sue lettere. )

Bluntschli (a Raina). Mi vuol scusare? L'ultimo corriere che m'è stato recapitato è di tre settimane fa. Queste so­no le lettere che si sono successivamente accumulate. Quattro telegrammi... vecchi di otto giorni! (Ne apre uno.) Ooh! Brutte notizie!

Raina (alzandosi e venendo avanti con un certo rimorso). Brutte notizie?

Bluntschli. È morto mio padre. (Osserva il telegramma in­crespando le labbra, rabbuiandosi per l'inatteso cambia­mento dei suoi programmi. Luka si fa rapidamente il segno della croce.)

Raina. Oh, che tristezza!

Bluntschli. Sì,bisogna che parta per la Svizzera tra un'ora. Ha lasciato una quantità di grandi alberghi da mandare avanti. (Raccoglie una grossa lettera chiusa in una lunga busta turchina.) Questa lettera dell'avvocato di famiglia è una mazzata sulla testa. (Tira fuori le carte contenute nelle buste e dà loro un'occhiata.) Gran Dio! Settanta! Duecento! (Con un crescendo di sgomento.) Quattrocen­to! Quattromila!!! Novemilaseicento!!! Che cosa diavolo ne farò?

Raina (timidamente). Novemila alberghi?

Bluntschli. Alberghi! sciocchezze. Se sapesse! Oh, è proprio grottesco! Mi scusi: bisogna che vada a dare gli ordini di partenza al mio uomo. (Esce frettolosamente dalla stanza con i documenti in mano.)

Luka (capendo istintivamente che può infastidire Raina disprezzando Bluntschli). Non ha cuore, quello svizzero. Non ha avuto una parola di dolore per il suo povero genitore.

Raina (amara). Dolore! Un uomo che da anni non fa che ammazzar gente! Che cosa gliene importa? Che cosa importa a un soldato? (Va alla porta trattenendo a sten­to le lagrime.)

Luka. Anche il maggiore Saranoff è stato a combattere: eppu­re di cuore gliene è rimasto parecchio. (Raina, che è sul­la porta, si irrigidisce, altezzosa, ed esce.) Aha: Lo sa­pevo che avrebbe tirato fuori poco sentimento dal suo soldato. (Sta per seguire Raina, quando Nicola entra con una bracciata di legna per la stufa.)

Nicola (sorridendo amorosamente). È tutto il pomeriggio che cerco di star un minuto da solo con te, ragazza mia. (Muta contegno quando le vede il braccia.) Ohé, che moda è questa di portare la manica?

Luka (orgogliosa). La moda mia.

Nicola. Brava! Se la padrona ti pesca, la senti! (Posa la legna e si siede comodamente sull'ottomana.)

Luka. Ti pare una buona ragione per arrogarti il diritto di farti sentire in vece sua?

Nicola. Via: non essere sempre tanto scorbutica con me. Ho buone notizie da darti. (Ella si siede vicino a lui. Egli tira fuori di tasca della carta moneta.

Luka, con sguardo vorace, cerca di strappargliela di mano; ma egli la passa rapidamente nella mano sinistra in modo che ella non possa arrivarci.) Guarda! un biglietto da venti leva! Me l'ha dato Sergio, per bravata. Uno stupido e i suoi soldi fan presto a separarsi. Ci son altri dieci leva. Me le ha date lo svizzero per aver sostenuto le bugie che la padrona e Raina hanno detto sul conto suo. Quel­lo no che non è uno stupido. Avresti dovuto sentir la vecchia Caterina, quando è venuta giù in cucina, garba­ta, che era un amore sentirla, a raccomandarsi di non badare alle piccole impazienze del maggiore, perché lo­ro lo sapevano che buon servitore sono io... dopo aver­mi fatto fare la figura dello stupido e del bugiardo da­vanti a tutti! Questi venti vanno tra i risparmi; e questi dieci li do a te da spendere come vuoi, purché tu mi parli in modo da ricordarmi che sono un essere umano. Ogni tanto mi stanco di essere soltanto un servo.

Luka. Sì: vendi per trenta leva il diritto di essere uomo e compri me per dieci! (Si alza beffarda.) Tienti il tuo de­naro. Sei nato per essere un servo. Io no. Quando mette­rai su la tua bottega sarai il servo di tutti invece di es­sere il servo di qualcuno. (Va, tutta scontrosa, davanti alla tavola e si siede regalmente nella poltrona di Sergio).

Nicola (raccatta la legna e va alla stufa). Ah, aspetta e vedrai. Avremo per noi tutte le serate; e io sarò padrone in casa mia, te lo prometto. (Butta in terra la legna e si inginoc­chia davanti alla stufa.)

Luka. Non sarai mai padrone in casa mia.

Nicola (si volta, sempre in ginocchio, e si acquatta piuttosto desolatamente sui calcagni, scoraggiato dal suo implaca­bile disprezzo). Tu, Luka, hai una grande ambizione ad­dosso. Se ti capitasse una fortuna, ricorda che sono sta­to io a far di te una donna.

Luka. Tu!

Nicola (alzandosi e andando verso lei). Sì, io. Chi è stato a farti smettere di portare due libbre di falsi capelli neri in cima al capo e di arrossarti le labbra e le guance come tutte le altre ragazze bulgare? Io. Chi ti ha insegnato a curarti le unghie e a tenere le mani pulite e a essere graziosa, nella persona, come una vera signora russa? lo: hai capito? io. (Ella butta la testa indietro, con aria di sfida; ed egli si volta di là, soggiungendo, con mag­giore freddezza) Ho pensato spesso che se Raina non fosse tra i piedi, e tu fossi un pochino meno stupida di quello che sei e Sergio un pochino più stupido di quello che è, potresti diventare una delle mie clienti più ric­che invece di essere soltanto mia moglie e di costarmi del denaro.

Luka. Io penso che tu preferiresti essermi servo invece che marito. Ti frutterei di più. Oh, lo conosco bene l'ani­mo tuo!

Nicola (le va più vicino per dare maggior enfasi alle proprie parole). Non pensare all'animo mio; ma stai bene a sen­tire il mio consiglio. Se vuoi essere una signora, questa condotta nei miei confronti non ti giova per nulla, salvo quando siamo soli. È troppo aspra e sfacciata, e la sfacciataggine è una specie di confidenza: dimostra che mi sei affezionata. E non cercar neanche di far l'altez­zosa con me. Sei come tutte le ragazze di campagna: credi che sia carino trattare un servitore come io tratto uno stalliere. È tutta ignoranza da parte tua, non di­menticartene. E non essere così pronta a sfidare tutti. Agisci come se t'aspettassi di fare a modo tuo, non di es­sere comandata. Il modo di condursi della signora è uguale ai modo di condursi della serva: devi sapere qual è il tuo posto: il segreto sta tutto qui. E puoi star sicura che il mio posto lo conosco, se ti promuovono. Pensaci bene, ragazza mia. Io sarò solidale con te: un servo dovrebbe essere sempre solidale con un altro servo.

Luka (si alza, spazientita). Oh, bisogna che faccia a modo mio. Tu, col tuo giudizio a sangue freddo, mi porti via tutto il coraggio che ho. Vai a mettere la legna sul fuo­co: queste sono le cose che capisci tu.

Prima che Nicola possa replicare, entra Sergio. Si arre­sta un attimo vedendo Luka; poi va alla stufa.

Sergio (a Nicola). Spero di non disturbare il tuo lavoro.

Nicola (con modi semplici, da uomo anziano). Oh no, si­gnore, grazie tante. Stavo solo rimproverando a questa sciocchina la sua abitudine di correre quassù in biblio­teca appena gliene capita l'occasione, per guardare i li­bri. Quest'è il brutto della sua educazione: le dà abitu­dini che sono al disopra del suo stato. (A Luka.) Metti in ordine quella tavola per il maggiore, Luka. (Esce, pacatamente.)

Luka, senza guardare Sergio, finge di mettere in ordine le carte che sono sulla tavola. Egli va lentamente vicino a lei, e studia, riflessivo, la sistemazione della sua manica.

Sergio. Fammi vedere: c'è un segno qui? (Manda insù il brac­cialetto e osserva il livido provocato dalla sua stretta. Ella rimane immobile, senza guardarlo: affascinata, ma guardinga.) Ffff! Fa male?

Luka. Sì.

Sergio. Debbo sanarlo?

Luka (ritraendosi subito, con orgoglio, ma ancora senza guardarlo). No. Non può sanarlo adesso.

Sergio (con padronanza). Sicura? (Fa un movimento come per prenderla fra le braccia.)

Luka. Con me non si scherza, scusi. Un ufficiale non dovreb­be scherzare con una serva.

Sergio (indica il livido con un colpo spietato del dito indice). Quello non era uno scherzo, Luka.

Luka (sussulta, poi lo guarda per la prima volta). È pentito?

Sergio (con enfasi misurata, incrociando le braccia). Non sono mai pentito.

Luka (rassegnata). Magari potessi credere che un uomo sa essere tanto diverso da una donna. Chissà se è proprio un uomo coraggioso, lei?

Sergio (impassibile, abbandonando l'atteggiamento spavaldo). Sì; sono un uomo coraggioso. Al primo colpo di fucile il cuore m'è saltato in bocca come il cuore di una donna; ma durante la carica mi sono accorto che avevo coraggio. Sì; almeno questo di me è vero.

Luka, E durante la carica s'è accorto che gli uomini i cui padri erano poveri come il mio non erano meno corag­giosi degli uomini ricchi come lei.

Sergio (con amara leggerezza). Tutt'altro. Tiravano sventole e bestemmiavano e strillavano come eroi. Bah! il corag­gio di infuriarsi e di uccidere costa poco. Io ho un cane bull-dog inglese che di questo stesso coraggio ne ha tan­to quanto l'intera nazione bulgara e l'intera nazione russa che le sta dietro. Ma, tuttavia, lascia che il mio domestico lo prenda a frustate. Ecco come sono i tuoi soldati! No, Luka: i tuoi poveri possono scannare, ma hanno paura dei loro ufficiali: si rassegnano agli insulti e agli schiaffi; stanno fermi a guardarsi punire recipro­camente come bambini: e, poi, se gli si ordina di farlo, non si tirano indietro, E gli ufficiali!!! Be'?! (con una risatina aspra e secca) io sono un ufficiale. Oh! (con fer­vore) indicami l'uomo pronto a sfidare fino alla morte qualsiasi potere che, in terra o in cielo, si metta contro alla sua volontà e coscienza: soltanto lui è l'uomo co­raggioso.

Luka. Come si fa presto a parlare: A me sembra che gli nomini non diventino mai adulti: hanno tutti delle idee da scolaretti. Lei non sa che cosa sia il coraggio vero.

Sergio (ironico). Davvero! vorrei molto essere istruito. (Si siede sull'ottomana, adagiandosi con importanza)

Luka. Guardi me: fin dove mi è permesso di fare secondo la mia volontà? Devo prepararle la stanza, spazzare e spolverare, prendere e portar via. Come può essere che questo mi degradi se non degrada lei che me lo fa fare? Ma (con passione repressa) se fossi l'imperatrice di Russia, e fossi al disopra di tutto il mondo, allora si! Allora per quanto, secondo lei, non potrei dimostrare nessun coraggio, vedrebbe, vedrebbe!

Sergio. Che cosa faresti, mia nobilissima imperatrice?

Luka. Sposerei l'uomo che amo, cosa che nessun'altra sovra­na d'Europa ha il coraggio di fare. Se amassi lei, per quanto al di sotto di me tanto quanto io sono al di sotto di lei, oserei essere pari al mio inferiore. Se mi amasse, avrebbe tanta audacia? No: se sentisse sorgere in lei un amore per me, lo soffocherebbe sul nascere. Non oserebbe, e sposerebbe la figliola di un uomo ricco per la paura di ciò che gli altri potrebbero dire di lei.

Sergio (saltando su). Bugiarda: non è cosi, lo giuro su tutte le stelle! Se ti amassi e fossi lo zar in persona ti metterei sul trono, al mio fianco. Tu sai che amo un'altra donna, una donna superiore a te quanto il cielo è superiore alla terra. E sei gelosa di lei.

Luka. Non ho ragione di esserlo. Adesso non la sposerà più. L'uomo di cui le ho parlato, è tornato. Sposerà lo svizzero.

Sergio (indietreggiando). Lo svizzero!

Luka. Un uomo che ne vale dieci come lei. Allora lei verrà da me; e io la rifiuterò. Lei non è degno di me. (Si avvia verso la porta.)

Sergio (balzandole dietro e stringendola con tutta forza tra le bracca). Ucciderò lo svizzero; e poi farò quello che mi pare con te.

Luka (fra le braccia di lui, passiva e risoluta). Lo svizzero, forse, ucciderà lei. L'ha battuta in amore, potrebbe batterla in guerra.

Sergio (tormentato). E tu pensi io possa credere che lei... lei! i cui pensieri peggiori sono più alti dei tuoi migliori, sia capace di civettare con un altro uomo dietro le mie spalle?

Luka. E lei pensa che ella crederebbe allo svizzero se questi le dicesse adesso che io sono fra le sue braccia?

Sergio (lasciandola andare per disperazione). Maledizione! Oh, maledizione! Che beffa! tutto ciò che penso è sbef­feggiato da tutto ciò che faccio. (Si colpisce frenetica­mente il petto.) Vigliacco! bugiardo! sciocco! Debbo uccidermi da uomo o vivere e fingere di ridere di me stesso? (Ella si avvia di nuovo verso la porta.) Luka! (Ella si ferma vicino alla porta.) Ricorda: tu mi appartieni.

Luka (voltandosi). Che vuol dire? È un insulto?

Sergio (con aria di comando). Vuol dire che tu mi ami, e che io t'ho stretta qua fra le mie braccia, e forse ti ci strin­gerò ancora. Io non so né mi interessa sapere se questo è un insulto: prendilo come vuoi. Ma (con veemenza) io non sarò né vile ne inetto. Se deciderò di amarti, oserò sposarti, a dispetto di tutta la Bulgaria. Se queste mani ti toccheranno ancora, toccheranno la mia promessa sposa.

Luka. Vedremo se oserà tener fede alla sua parola. Ma badi bene; io non aspetterò a lungo.

Sergio (incrocia nuovamente le braccia e rimane immobile nel centro della stanza). Sì: vedremo. E tu aspetterai il piacer mio.

Bluntschli, molto preoccupato, con le stesse carte tra le mani, entra, lasciando la porta aperta perché Luka pos­sa uscire. Va diretto alla tavola, e le lancia un'occhia-tina passando. Sergio, senza mutare il suo atteggiamento risoluto, lo osserva immobile. Luka esce, lasciando la porta aperta.

Bluntschli (distratto, sedendosi come prima davanti alla ta­vola e posandovi le sue carte), È una gran bella ragazza. Sergio (grave, senza muoversi). Capitano Bluntschli.

Bluntschli. Eh?

Sergio. Lei mi ha ingannato. Lei è il mio rivale, Io non tolle­ro rivali. Alle sei in punto io sarò al maneggio di via Klissura, solo, a cavallo, con la sciabola. Ha capito? Bluntschli (fissandolo, ma rimanendo seduto con tutto suo agio). Ah, grazie: è una proposta da ufficiale di caval­leria. Io sono in artiglieria e mi spetta la scelta delle armi. Se accetto, mi porto la mitragliatrice. E questa volta non ci saranno sbagli sulle cartucce.

Sergio (avvampando, ma con mortale freddezza). Badi, signo­re. In Bulgaria non si usa scherzare su inviti del genere.

Bluntschli (con calore). Puh! non mi parli della Bulgaria. Qua non sapete che cosa sia combattere. Ma faccia come desidera. Si porti pure la sciabola. Verrò.

Sergio (con ferocia, felice di vedere che il suo avversario è uomo di spirito). Ben detto, svizzero. Vuole che le presti il mio miglior cavallo?

Bluntschli. No: accidenti al suo cavallo! grazie lo stesso, buonuomo. (Raina entra e ode la frase successiva.) La sfiderò a piedi. A cavallo è troppo pericoloso: non vo­glio ammazzarla, se posso farne a meno.

Raina (si butta avanti con ansia). Sergio, ho udito ciò che ha detto il capitano Bluntschli. Vi volete battere. Perché? (Sergio si volta silenziosamente dall'altra parte e va alla stufa, dove si ferma a osservarla mentre continua, rivol­ta a Bluntschli) Per che cosa?

Bluntschli, Non lo so: non me l'ha detto. È meglio non inter­venire, cara signorina. Non accadrà nulla: sono stato spesso istruttore di scherma. Non sarà capace di toc­carmi; e io non gli farò male. Così risparmiamo le spie­gazioni. In mattinata partirò per casa mia: e lei non mi rivedrà più né udrà mai più parlare di me. Così loro due faranno la pace e vivranno felici da allora in poi.

Raina (voltando la testa, profondamente ferita, quasi col pianto nella voce). Non ho mai detto che volevo rivederla ancora.

Sergio (con un passo avanti). Ah' Questa è una confessione.

Raina (altezzosa). Che intendi?

Sergio. Tu ami quell'uomo!

Raina (scandalizzata). Sergio!

Sergio. Gli permetti di corteggiarti alle mie spalle, proprio come tratti me da promesso sposo dietro le spalle sue. Bluntschli; lei conosceva i nostri rapporti; e mi ha in­gannato. È di questo che le chiedo di rendermi conto, e non d'aver ricevuto dei favori che io non ho mai goduto.

Bluntschli (salta su indignato). Sciocchezze! Frottole! Io non ho ricevuto favori. Ma via! la signorina non sa neanche se sono sposato o no.

Raina (perdendo il controllo). Oh! (Crollando sull'ottomana.) Davvero?

Sergio. Lei stesso, capitano Bluntschli, vede la preoccupazio­ne della signorina. Smentire è inutile. Ella ha goduto il privilegio di essere ricevuto nella sua camera da letto, in piena notte...

Bluntschli (lo interrompe con fuoco). Sì, povero grullo! Mi ha ricevuto con una pistola puntata contro la tempia. La sua cavalleria mi stava alle calcagna. Le avrei fatto saltar via il cervello se avesse fiatato.

Sergio (disarmato). Bluntschli! Raina; è vero?

Raina (alzandosi con furiosa maestà). Oh, come osi, come osi?

Bluntschli. Si scusi, buonuomo; si scusi. (Si rimette a sedere davanti alla tavola.)

Sergio (con la solita misurata enfasi, incrociando le braccia). Io non mi scuso mai.

Raina (con passione). Tutto questo è opera di quel suo amico, capitano Bluntschli. È stato lui a spargere quest'orrenda voce sul mio conto. (Va su e giù, agitatissima.)

Bluntschli. No: è morto. Bruciato vivo.

Raina (si ferma, impressionata). Bruciato vivo!

Bluntschli. Gli hanno tirato a un fianco, mentre era in una legnaia. Non ha avuto la forza di trascinarsi fuori. I proiettili dei vostri soldati hanno incendiato il legname e lo hanno bruciato, con una mezza dozzina di altri poveri diavoli nelle stesse condizioni.

Raina. Quant'è orribile!

Sergio. E quant'è ridicolo! Oh guerra! guerra! sogno di pa­trioti e di eroi! Una frode, Bluntschli. Una falsa parata, come l'amore.

Raina (offesa). Come l'amore! Lo dici davanti a me!

Bluntschli. Andiamo, Saranoff: la questione è chiarita.

Sergio. Una falsa parata, ecco che cos'è. Lei sarebbe tornato qua se tra voi non ci fosse stato nulla, oltre alla canna della sua pistola? Raina si sbaglia sul conto dell'amico che è morto bruciato. Non è stato lui il mio informatore.

Raina. E allora chi è stato? (indovinando all'improvviso la verità.) Ah, Luka! la mia cameriera; la mia serva! Sta-mani siete rimasto con lei tutto quel tempo, dopo... do­po... Oh, che razza di dio è quello che ho adorato fin adesso ! (Egli incontra lo sguardo di lei, godendo sardoni­camente la fine del suo incanto. Infuriata più che mai, gli va vicino e dice con tono più basso e più intenso.) Sappi che mentre salivo ho guardato fuori dalla finestra per dar ancora un'occhiata al mio eroe; e ho veduto qualcosa che in quel momento non ho capito. Adesso capisco: le facevi la corte.

Sergio (torvo). Hai visto questo?

Raina. Anche troppo bene. (Si volta dall'altra parte e va a buttarsi sul divano, nel centro, sotto la finestra, sopraf­fatta.)

Sergio (con cinismo). Raina, il nostro amore è in frantumi. La vita è una farsa.

Bluntschli (a Raina, bizzarro). Vede: soltanto ora ha capito se stesso.

Sergio (andandogli vicino). Bluntschli: le ho permesso di darmi del grullo, può darmi anche del vigliacco. Mi rifiuto di battermi con lei. Sa perché?

Bluntschli. No; ma non ha importanza. Non ho chiesto il motivo per cui mi assaliva; e non le chiedo il motivo per cui si ritira. Sono soldato di professione: mi batto quando debbo battermi, e sono molto contento di venir­ne fuori quando non è necessario che mi batta. Lei non è che un dilettante: crede che battersi sia divertente.

Sergio (sedendosi alla tavola, naso a naso con lui). Il motivo lo saprà lo stesso, caro professionista. Il motivo è che per un vero duello occorrono due uomini, due uomini reali, due uomini di cuore, di sangue e d'onore. Io non potrei battermi con lei come non potrei fare all'amore con una donna brutta. Lei non ha magnetismo, lei non è un uomo: lei è una macchina,

Bluntschli (scusandosi). Verissimo, verissimo. Sono sempre stato un tipo così, purtroppo,

Sergio. Bah!

Bluntschli. Ma adesso ha scoperto che la vita non è una far­sa, ma una cosa molto assennata e molto seria; quale altro ostacolo può esserci alla sua felicità?

Raina (alzandosi). Lei è molto zelante verso la felicità mia e sua. Ma dimentica il suo nuovo amore... Luka? Non è più con lei che dovrà battersi, adesso. Ma col suo rivale, con Nicola.

Sergio. Rivale!! (balza quasi dall'altra parte della stanza).

Raina. Non sai che sono fidanzati?

Sergio. Nicola!  Quali nuovi abissi si spalancano? Nicola!

Raina (sarcastica). Un sacrificio inaudito, vero? Tanta bellez­za! tanta intelligenza! tanta modestia! sprecate per un vecchio servitore. Davvero, Sergio, non puoi assistere a questo scempio senza impedirlo. Sarebbe indegno della tua cavalleria.

Sergio (perde totalmente il controllo di se stesso). Vipera! Vipera! (Corre qua e là, furibondo.)

Bluntschli. Badi, Saranoff: le tocca la peggio.

Raina (arrabbiandosi di più). Si rende conto di quello che ha fatto, capitano Bluntschli? Egli ha indotto quella ragazza a spiarci; e per ricompensa la corteggia.

Sergio. È falso! Mostruoso!

Raina. Mostruoso! (Affrontandolo). Neghi che è stata lei a dirti che il capitano Bluntschli era stato in camera mia?

Sergio. No; ma...

Raina (interrompendolo). Neghi che stavi corteggiandola, quando te l'ha detto?

Sergio. No; ma ti dico che...

Raina (interrompendolo di scatto, con disprezzo). È inutile dirci di più. Per noi è più che sufficiente. (Si allontana da lui e si dirige maestosamente verso la finestra.)

Bluntschli (calmo, mentre Sergio, al colmo della mortifica­zione, crolla sull'ottomana stringendo fra i pugni la te­sta che tiene voltata dall'altra parte). Le ho detto che avrebbe avuto la peggio, Saranoff.

Sergio. Pantera! Tigre!

Raina (corre, tutt'eccitata, verso Bluntschli). Capitano Blunt­schli, ha udito gli insulti che mi lancia quell'uomo?

Bluntschli. Ma, cara signorina, che altro può fare? Bisogna pure che si difenda in qualche modo. Andiamo (molto convincente): basta coi bisticci. A che servono?

Raina, con un sospiro soffocato, si siede sull'ottomana e dopo aver compiuto il vano sforzo di guardare Bluntschli con risentimento, rimane vittima del proprio spiri­to, e si piega puerilmente contro la spalla contratta di Sergio.

Sergio. Fidanzata con Nicola! Ah! Ah! Bravo Bluntschli, ha ragione di prendere con freddezza quest'immensa impo­stura che è i! mondo.

Raina (maliziosa, a Bluntschli, intuendo il suo stato d'ani­mo). Lei ci crede una coppia di bambini cresciuti, non è vero?

Sergio (sogghignando, selvaggio). Certo, certo. La civiltà svizzera che tiene a balia la barbarie bulgara, eh?

Bluntschli (arrossendo). Tutt'altro, le assicuro. Io sono sol­tanto molto felice di avervi rappacificato. Via! via! cer­chiamo di abolire ogni cosa sgradevole e di parlarne ami­chevolmente. Dov'è quest'altra signorina?

Raina. Dietro alla porta ad ascoltare, probabilmente.

Sergio (fremendo come se una pallottola lo avesse colpito, e parlando con indignazione calma ma profonda). Pro­verò che per lo meno questa è una calunnia. (Va con dignità ad aprire la porta. Uno strillo furioso gli esce dal petto appena guarda fuori. Balza nel corridoio e torna trascinandosi dietro Luka che lancia violentemen-te contro la tavola, esclamando.) La giudichi lei, Bluntschli. Lei, l'uomo freddo e imparziale: giudichi chi ascol­ta dietro le porte.

Luka non batte ciglio, orgogliosa e in silenzio.

Bluntschli (scrollando la testa). Non la debbo giudicare. Io stesso, una volta, sono stato ad ascoltare dietro una tenda mentre si stava maturando un ammutinamento. Tutto dipende dal grado di provocazione. Era in gioco la mia vita.

Luka. Era in gioco il mio amore. Non me ne vergogno.

Raina (con disprezzo). Il tuo amore! La tua curiosità, cioè.

Luka (affrontandola e ricambiando con interesse il suo di­sprezzo). Il mio amore, più forte di qualsiasi sentimento possa provare lei, anche verso il suo soldatino di cioccolata.

Sergio (con improvviso sospetto, a Luka). Che cosa significa questo?

Luka (feroce). Significa... Sergio (interrompendola sprezzante). Ah, ricordo, il budino

gelato. Una misera ritorsione, ragazza.

Entra il maggiore Petkoff, in maniche di camicia.

Petkoff. Scusate se sono in maniche di camicia, signori. Raina: qualcuno ha portato il mio pastrano; lo giuro. Qualcuno che aveva le spalle diverse dalle mie. L'attac­catura della manica è scoppiata. Tua madre la sta ricu­cendo. Spero che farà presto; non voglio prender freddo. (Li guarda più attentamente.) È accaduto qualcosa?

Raina. No. (Si siede davanti alla stufa, con aria tranquilla.)

Sergio. Oh no. (Si siede in fondo alla tavola, come prima.)

Bluntschli (che è già seduto). Niente. Niente.

Petkoff (sedendosi sull'ottomana, al suo vecchio posto). Va bene. (S'accorge che c'è Luka.) È accaduto qualcosa, Luka?

Luka. Nossignore.

Petkoff (cordiale). Va bene. (Starnuta.) Vai a chiedere il mio pastrano alla tua padrona, vai, da brava.

Nicola entra col pastrano. Luka finge di avere da fare nella stanza e porta il tavolinetto con l'hukah verso il muro, vicino alla finestra.

Raina (alzandosi lesta appena vede il pastrano sul braccio di Nicola), Eccolo, papà. Datelo a me, Nicola; e voi met­tete ancora un po' di legna nella sufa.

Petkoff (a Raina, pigliandola affettuosamente in giro). Aha! É tanto buona col suo vecchio paparino, almeno per un giorno dopo che è tornato dalla guerra, vero?

Raina (con solenne rimprovero). Oh, papà, come puoi dirmi questo?

Petkoff. Va bene, va bene, scherzavo, piccolina, scherzavo. Via, dammi un bacio. (Ella lo bacia.) E adesso dammi il pastrano.

Raina. No: te lo voglio mettere io. Voltati. (Egli si volta e allunga le braccia all'indietro per cercare le maniche. Ella prende con destrezza la fotografia che stava in ta­sca e la butta sulla tavola di fronte a Blutitschli, che la copre con un foglio di carta proprio sotto al naso di Sergio, che guarda sbalordito, sospettando adesso al massimo grado. Poi ella aiuta Petkoff a mettersi il pa­strano). Ecco fatto, paparino. Stai caldo, adesso?

Petkoff. Caldissimo, amor mio. Grazie. (Si siede; e Raina torna al suo posto vicino alla stufa.) Ah, a proposito, ho trovato una cosa buffa. Che significa questo? (Si ficca la mano nella tasca in cui ella aveva già frugato.) Eh? Oh bella! (Fruga nell'altra tasca.) Be', avrei giura­to... (Tutto confuso, fruga nel taschino interno.) Non so... (Fruga ancora nella prima tasca.) Ma dov'è andata a... (Si alza, esclamando) L'ha presa tua madre!

Raina (tutta rossa). Presa che cosa?

Petkoff. La tua fotografia, con la dedica: "Raina, al suo sol­datino di cioccolata, in ricordo". È chiaro che adesso sal­ta all'occhio qualcosa di più grave; e lo scoprirò. (Stril­lando) Nicola!

Nicola (accorrendo). Sissignore!

Petkoff. Questa mattina hai sciupato un dolce fatto dalla signorina Raina?

Nicola. Così le ha detto la signorina Raina, signore.

Petkoff. Lo so, imbecille. Era vero?

Nicola. Non ne dubito. La signorina Raina è incapace di dire una cosa non vera, signore.

Petkoff: Ah sì? E io invece ne dubito. (Rivolto agli altri.) Via: credete che non abbia capito tutto? (Va da Sergio e gli dà una manata sulla spalla.) Sergio: sei tu il solda­tino di cioccolata, vero?

Sergio (saltando su). Io! Un soldatino di cioccolata! Certa­mente no.

Petkoff. No? (Li guarda. Sono tutti molto seri e molto co­scienti.) Vuoi forse dirmi che Raina manda certe cose ad altri uomini?

Sergio (enigmatico). Il mondo non è il luogo innocente che credevamo noi, Petkoff,

Bluntschli (alzandosi). Niente di male, maggiore. Il solda­tino di cioccolata sono io. (Petkoff e Sergio sono egualmente stupefatti.) Questa graziosa signorina mi ha sal­vato la vita dandomi dei cioccolatini mentre morivo di fame: quando mai dimenticherò quel sapore! Il mio povero amico Stolz le ha raccontato tutto a Pirot. Il fuggiasco ero io.

Petkoff. Lei! (Ansima.) Sergio: ti ricordi come si sono con­dotte quelle due donne, stamattina, quando ne abbiamo parlato? (Sergio sorride con cinismo. Petkoff  fissa Raina severamente.) Sei proprio carina, rallegramenti!

Raina (con amarezza). Il maggiore Saranoff ha cambiato idea. E quando ho scritto quella dedica sulla fotografia, ignoravo che il capitano Bluntschli fosse sposato.

Bluntschli (stupito, protesta con veemenza). Io non sono sposato.

Raina (con profondo rimprovero). Ha detto di esserlo.

Bluntschli. No. Sono certo di no. Non sono mai stato sposato in vita mia.

Petkoff (esasperato). Raina, vuoi avere la cortesia di comu­nicarmi, se non chiedo troppo, con quale di questi due gentiluomini sei fidanzata?

Raina. Con nessuno dei due. Questa signorina (indicando Luka che li guarda tutti in faccia con orgoglio) è l'attua­le oggetto delle premure del maggiore Saranoff.

Petkoff. Luka! Sei pazzo, Sergio? Questa ragazza è fidanzata con Nicola.

Nicola. Le chiedo scusa, signore. C'è un errore. Luka non è fidanzata con me.

Petkoff. Non è fidanzata con te, mascalzone! Ma come? hai avuto venticinque leva da me il giorno del tuo fidanza­mento; e la signorina Raina le ha regalato quel braccialetto d'oro.

Nicola (freddo e untuoso). Lo abbiamo annunciato, signore. Ma è stato soltanto per dare una protezione a Luka. Aveva un animo superiore alla sua condizione; e io sono stato soltanto il suo servo e il suo confidente. Io inten­do, signore, come lei sa, di mettere su un negozio a So­fia; e se Luka si sposerà nella nobiltà terrò molto conto delle sue ordinazioni e della sua benevolenza. (Esce con notevole discrezione, lasciandoli tutti fissi a guardarlo.)

Petkoff (rompendo il silenzio). Be', che m... hm!

Sergio, Questo è il più bell'eroismo o il più strisciante affa­rismo. Qual è dei due, Bluntschli?  

Bluntschli. Non si preoccupi di sapere se è eroismo o affa­rismo. Nicola è l'uomo più abile che abbia incontrato in Bulgaria. Se sa parlare francese e tedesco lo faccio direttore d'albergo.

Luka (sbottando improvvisamente verso Sergio), Qui, io sono stata insultata da tutti. È stato lei a dare l'esempio. Mi deve delle scuse.

Sergio, come un orologio a ripetizione del quale sia sta­ta toccata la molla, comincia subito a incrociare le braccia.

Bluntschli (prima che egli possa parlare). È inutile. Non si scusa mai.

Luka. Non con lei, suo pari e suo nemico. Ma a me, sua povera serva, non rifiuterà di chiedere scusa.

Sergio (approvandola). Hai ragione. (Piega il ginocchio con modi da gran signore.) Perdonami.

Luka. La perdono. (Ella gli porge timidamente la mano, che egli bacia.) Questo gesto fa di me la sua promessa sposa.

Sergio (balzando su). Ah! lo dimenticavo.

Luka (con freddezza). Può ritirarsi, se preferisce.

Sergio. Ritirarmi! Mai! Tu mi appartieni (Le mette un braccio attorno alle spalle.)

Caterina entra e trova Luka tra le braccia di Sergio, mentre tutti fissano i due con esterrefatta meraviglia.

Caterina. Che significa tutto questo?

Sergio lascia andare Luka.

Petkoff. Ebbene, mia cara, a quanto pare Sergio sposa Luka invece di Raina. (Essa sta per avventarglisi contro con indignazione: egli la ferma esclamando, seccato) Non prendertela con me: io non c'entro niente. (Si ritira verso la stufa.)

Caterina. Sposare Luka! Sergio: sei legato dalla parola data a noi!

Sergio (incrociando le braccia). Niente può legarmi.

Bluntschli (molto soddisfatto da questa dimostrazione di buon senso). SaranofI: qua la mano. Mi congratulo. I suoi eroismi hanno dimostrato finalmente un lato pra­tico. (A Luka.) Graziosa signorina: i migliori auguri di un buon repubblicano! (Le bacia la mano, con grande disgusto di Raina, e torna al suo posto.)

Caterina. Luka: hai raccontato delle storie.

Luka. Io non ho fatto alcun male a Raina.

Caterina (altezzosa). Raina!

Raina, egualmente indignata, sta quasi per sputare su tanta libertà.

Luka. Ho il diritto di chiamarla Raina visto che lei mi chiama Luka. Ho detto al maggiore Saranoff che essa non l'avrebbe mai sposato se il signore svizzero tornava.

Bluntschli (alzandosi, molto stupito). Ohé!

Luka (rivolgendosi a Raina). Pensavo che lei volesse più bene a lui che a Sergio. Nessuno sa meglio di lei se avevo ragione o no.

Bluntschli. Quante sciocchezze! Le assicuro, caro maggiore, cara signora, che questa graziosa signorina mi ha sempli­cemente salvato la vita, e niente di più. Non le è mai importato niente di me. Oh, perbacco, guardino la si­gnorina e guardino me. Lei, ricca, giovane, bella, con la fantasia piena di principi azzurri e di nature nobili e di cariche di cavalleria e di Dio solo sa quante altre cose! E io, un normalissimo soldato svizzero, che dopo quin­dici anni di baraccamenti e di battaglie sa a malapena che cosa sia una vita decorosa; un vagabondo, un uomo che ha sprecato tutte le possibilità che gli offriva la vita per una inguaribile tendenza romantica, un uomo che...

Sergio (balzando su come se un ago gli avesse punto il sede­re e interrompendo Bluntschli con incredulo sbalordi­mento). Mi scusi, Bluntschli: che cosa le ha fatto spre­care, secondo lei, le possibilità che le offriva la vita?

Bluntschli (subito). Un'inguaribile tendenza romantica. Da ragazzo sono scappato due volte di casa. Sono entrato nell'esercito invece che negli affari di mio padre. Mi sono arrampicato sul balcone di questa casa quando un uomo di buon senso si sarebbe tuffato nella prima can­tina. Sono tornato qua, vilmente, per dare un'altra oc­chiata alla signorina mentre qualsiasi altro uomo della mia età si sarebbe limitato a rimandare il pastrano e a...

Petkoff. Il mio pastrano!

Bluntschli. ...sì:è quello il pastrano a cui alludo... a rimanda­re il pastrano e ad andarsene tranquillamente a casa. Crede lei che io sia il tipo di cui si innamora una ra­gazza? Oh, guardi le nostre età! Io ho trentaquattro anni: non credo che la signorina abbia molto più di di­ciassette anni. (Questa stima produce una notevole sen­sazione, tutti si voltano e si fissano. Egli prosegue inno­centemente.) Tutta quell'avventura, che per me signifi­cava vita o morte, era per lei soltanto un gioco da scola-retta... il gioco del cioccolatino e della nasconderella. Eccone la prova! (Prende la fotografia che è sulla tavo­la) Insomma, io vi chiedo: è mai possibile che una don­na, che avesse preso quelle faccende sul serio, mi avreb­be mandato questa e ci avrebbe scritto sopra "Raina al suo soldatino di cioccolata, in ricordo"? (Esibisce la fo­tografia, trionfante, come se risolvesse la questione in modo assolutamente inconfutabile.)

Petkoff. È questa che cercavo. Come diavolo è finita lì so­pra? (Viene dalla stufa per guardarla, e si siede sull'ot­tomana. )

Bluntschli (a Raina, compiacente). Spero di aver messo tutto a posto, graziosa signorina.

Raina (va alla tavola e lo guarda in faccia). Sono perfetta­mente d'accordo sulla descrizione che ha fatto di se stes­so. Lei è un romantico imbecille. (Bluntschli è indicibil­mente sconcertato.) Spero che la prossima volta saprà distinguere una scolaretta di diciassette anni da una donna di ventitré.

Bluntschli (stupefatto). Ventitré anni!

Raina gli strappa di matto la fotografia, con gesto sprez­zante; la lacera; gli butta i pezzi in faccia; e torna a gran passi al suo posto.

Sergio (gioendo, torvo, della sconfitta del rivale). Bluntschli: la mia ultima convinzione è svanita. La sua sagacia è una frode, come lutto il resto, Lei ha anche meno buon senso di me!

Bluntschli (schiacciato). Ventitré anni! Ventitré anni! (Ri­flettendo.) Hm! (Prende una rapida decisione e viene verso il suo ospite.) In questo caso, maggiore Petkoff, la prego di considerarmi formalmente un aspirante alla mano di sua figlia, in luogo del maggiore Saranoff ritirato.

Raina. Lei osa!

Bluntschli, Se aveva ventitré anni quando le ha pronunciate, debbo prendere sul serio le cose che mi ha detto questo pomeriggio.

Caterina (staccata e cortese). Dubito, signore, che lei si ren­da interamente conto della posizione di mia figlia o di quella del maggiore Saranoff, che ella si propone di so­stituire. I Petkoff e i Saranoff sono conosciuti come le due famiglie più ricche e più in vista della Bulgaria. La nostra posizione è quasi storica: possiamo andar indie­tro di venti anni.

Petkoff. Oh, lascia andare, Caterina. (A Bluntschli). Se non si trattasse che della sua posizione, noi saremmo molto felici, Bluntschli: ma, accidenti, lei non sa che Raina è abituata a far una vita molto comoda. Sergio possiede venti cavalli.

Bluntschli. Ma che bisogno abbiamo di venti cavalli? Non vogliamo mica un circo equestre.

Caterina (severamente). Mia figlia, signore, è abituata a una scuderia di prim'ordine.

Raina. Zitta, mamma: mi fai apparire ridicola.

Bluntschli. Oh, be', se si tratta soltanto di un problema di benessere, parliamone pure. (Si lancia con impeto verso la tavola, afferra le carte che sono nella busta turchina, e si rivolge a Sergio.) Quanti cavalli ha detto?

Sergio. Venti, nobile svizzero.

Bluntschli. Io ho duecento cavalli. (Sono tutti sbalorditi.) Quante carrozze?

Sergio. Tre.

Bluntschli. Io ne ho settanta. Ventiquattro con dodici posti interni, oltre a due a cassetta, senza contare il cocchiere e il conducente. Quante tovaglie ha?

Sergio. Come diavolo posso saperlo?

Bluntschli. Ne ha quattromila?

Sergio. No.

Bluntschli, Io sì. Ho novemilaseicento paia di lenzuola e coperte, con duemilaquattrocento piumini. Ho diecimila coltelli e forchette, e la stessa quantità di cucchiai da dolce. Ho trecento servitori. Ho sei palazzi, oltre a due scuderie, un giardino coperto e una casa privata. Ho quattro medaglie per servizi straordinari; ho il rango di ufficiale e la posizione di gentiluomo; e ho tre lingue materne. Mi faccia conoscere chi in Bulgaria può offrire altrettanto!

Petkoff (con puerile reverenza). È forse l'imperatore della Svizzera?

Bluntschli. Il mio rango è il più alto conosciuto in Svizzera: sono libero cittadino.

Caterina. E allora, capitano Bluntschli, poiché ella è stato scelto da mia figlia...

Raina (ribellandosi). Io non l'ho scelto affatto.

Caterina (ignorandola) ...io non sarò d'ostacolo alla sua feli­cità. (Petkoff sta per parlare.) È ciò che pensa anche il maggiore Petkoff.

Petkoff. Oh, io ne sarei tanto lieto. Duecento cavalli! Accipicchia!

Sergio. Che cosa ne dice la signorina?

Raina (fingendosi imbronciata). La signorina dice che può pure tenersi le sue tovaglie e le sue diligenze. Non sono qua per essere venduta al maggior offerente. (Gli volta le spalle.)

Bluntschli. E' una risposta che non accetto. Mi sono rivolto a lei come fuggiasco, come mendicante, come uomo affa­mato. Lei mi ha accolto. Ha permesso che le baciassi la mano, che dormissi nel suo letto, che mi riparassi sotto al suo tetto.

Raina. Io non l'ho permesso all'Imperatore della Svizzera.

Bluntschli. E' proprio quel che dico io. (La afferra per le spalle e la volta faccia a faccia con sé.) Adesso ci dica a chi lo ha permesso,

Raina (soccombendo con un sorriso timido). Al mio soldatino di cioccolata.

Bluntschli (con una risata di gioia fanciullesca). Così va bene. Grazie. (Si guarda l'orologio e diventa a un tratto uomo d'affari.) È ora, maggiore. Lei ha sistemato così bene quei reggimenti che certamente le chiederanno di liberarsi di qualche reggimento di fanteria della divisio­ne Timok. Lo mandi a casa per la strada di Lom Palanka. Saranoff: non si sposi prima che sia tornato io; sarò qui puntualmente alle cinque del pomeriggio di giovedì a quindici. Graziose signore (batte i tacchi), buonasera, (Fa loro un inchino militare, e se ne va.) Sergio. Che uomo! Che uomo!